Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

 

L’AMBIENTE

QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Inquinamento Acustico.

Giulio Sensi per il “Corriere della Sera” il 10 maggio 2022.

È difficile misurarlo perché la sua immaterialità lo rende sfuggente, ma rappresenta una delle principali minacce per la salute umana e anche per gli animali. In molte città italiane soprattutto nel centro-nord circa tre persone su quattro, secondo le stime dell'Eea, l'Agenzia europea per l'ambiente, sono esposte ad alti livelli di inquinamento acustico causato dai trasporti su strada. Ma il traffico stradale non è l'unico rumore nocivo.

Attività produttive e commerciali, aeroporti, ferrovie: pochi sono gli italiani che possono dire di vivere al riparo da inquinamento acustico importante. I controlli ci sono e vengono attivati in gran parte su iniziativa dei cittadini, ma manca ancora una strategia e soprattutto una pianificazione preventiva. «È un tema rilevante e poco conosciuto, se ne parla meno - spiega Anita Ishaq, analista di Openpolis che vi dedica un monitoraggio periodico - rispetto ad altre forme di inquinamento.

Ma i rumori molto alti non provocano solo problemi all'udito: possono causare anche stress a livello fisico con conseguenti patologie gravi come le cardiopatie, senza considerare gli effetti sulle specie animali».

Principi fondamentali L'Eea stima che almeno il 20% della popolazione europea viva in aree dove i livelli di rumore da traffico stradale sono dannosi per la salute, circa 22 milioni di adulti sono sottoposti al fastidio, 6,5 milioni soffrono di disturbi del sonno e 12.500 bambini in età scolastica hanno problemi di apprendimento perché vivono nei pressi dei principali aeroporti. Sono 48mila i casi di cardiopatie causate ogni anno dall'inquinamento acustico in Europa.

Le regole ci sono e il riferimento è la legge quadro sull'inquinamento acustico del 1995 che stabilisce i principi fondamentali in materia di tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo, ma i decreti attuativi della norma hanno creato una architettura complessa, ancora oggi incompleta. Il 37% dei Comuni italiani, la gran parte di loro si trova nel Mezzogiorno, non ha ancora approvato e adottato un Piano di classificazione acustica.

«La norma prevede anche - spiega Francesca Sacchetti, responsabile dell'Area valutazione, prevenzione e controllo inquinamento da agenti fisici dell'Ispra - che le Regioni predispongano un Piano regionale triennale di intervento per la bonifica dall'inquinamento acustico, definendo l'ordine di priorità delle azioni sul territorio regionale. I comuni adeguano i singoli piani di risanamento acustico comunale al Piano regionale. 

Ma a livello nazionale questi Piani triennali per la bonifica dall'inquinamento acustico sono ampiamenti disattesi nell'ambito della Pianificazione territoriale delle Regioni». Lo strumento fondamentale per la gestione e risoluzione delle problematiche di inquinamento acustico sul territorio è il Piano di risanamento comunale, l'atto conseguente a quello di classificazione acustica.

«Al 2020 - spiega ancora Sacchetti - il Piano di risanamento acustico è uno strumento scarsamente utilizzato sull'intero territorio nazionale. Solo 66 comuni dei 4.964 dotati di classificazione acustica ne hanno approvato uno, confermando negli anni una percentuale di poco superiore all'1%». Se c'è poca iniziativa sul piano della prevenzione, qualcosa in più viene fatto su quello dei controlli. Secondo i dati Istat, il 77,1% di essi sono stati effettuati nel 2020 su istanza di privati cittadini.

«L'esposto dei residenti - spiega Ishaq - è alla base della maggior parte dei controlli. Le persone possono indicare la fonte dei rumori e tutte le informazioni in loro possesso. Il Comune incarica l'Agenzia regionale di protezione dell'ambiente, l'Arpa, di fare i controlli e se vengono rilevate irregolarità scattano le sanzioni. Ovviamente questo presuppone tempistiche specifiche, anche a livello tecnico». 

Fra i Comuni capoluogo quello con più istanze dei cittadini nel 2020 è stato Messina, con 21,8 ogni 100.000 abitanti, poi Palermo (10,4) e Napoli (5,8). Ma per stimare le più inquinate devono essere incrociati i dati sui controlli con quelli delle sanzioni ed è sempre nelle grandi citta, come Napoli, Firenze, Genova, Bologna, Venezia, Cagliari, Torino, Milano, Roma, che emergono i superamenti delle soglie stabilite dalla legge. L'area più inquinata è quella della pianura padana, piena di strade e priva di barriere naturali.

«Nel 37,4% delle sorgenti controllate - spiega Sacchetti dell'Ispra - è stato rilevato almeno un superamento dei limiti normativi. Le attività di servizio e commerciali sono anche le sorgenti per le quali si rileva la più elevata percentuale di superamenti dei limiti normativi, pari al 43%, seguite dalle infrastrutture aeroportuali per il 40%. Superamenti significativi si riscontrano anche per le infrastrutture stradali, il 34,8%, e ferroviarie, 33,3%, e dovuti alle attività produttive il 32,7%». «Un modo per affrontare il problema - conclude Ishaq - sarebbe però la pianificazione sostenibile a lungo termine integrata a quella urbanistica con limitazione dei rumori e barriere protettive».

·        L’Inquinamento atmosferico.

L’inquinamento può provocare infarto anche in un cuore sano. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Lo indica uno studio dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma. La causa sarebbe da ascrivere a un’infiammazione cronica che altera l’endotelio, il rivestimento interno dei vasi. 

L’inquinamento dell’aria soffoca i vasi del cuore e può provocare l’infarto, anche in un cuore sano. Lo indica uno studio coordinato da Rocco Antonio Montone e Filippo Crea, cardiologi di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS- Università Cattolica, campus di Roma, che dimostra come l’aria inquinata possa causare l’infarto anche a chi ha coronarie senza aterosclerosi significativa (MINOCA, Myocardial Infarction with Non-Obstructive Coronary Arteries), determinando uno spasmo prolungato dei vasi. Il rischio di incorrere in un’ischemia da spasmo delle coronarie aumenta fino a 11 volte nei soggetti più pesantemente esposti all’inquinamento da particolato fine (PM2.5), causato soprattutto dal traffico veicolare.

Lo studio

Lo studio è stato presentato al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) in corso a Barcellona e pubblicato in contemporanea su Journal of American College of Cardiology (JACC). «Abbiamo studiato il fenomeno – spiega Rocco Antonio Montone — su 287 pazienti di entrambi i sessi di età media 62 anni; il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie “sane” (i cosiddetti INOCA), mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane (MINOCA). La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test provocativo all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti; la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se anche fumatori e dislipidemici». «Questo studio dimostra per la prima volta – prosegue il dottor Montone — un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche». «Gli spasmi dei vasi del cuore – spiega Massimiliano Camilli, dottorando di ricerca presso l’Istituto di Cardiologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma — potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio (lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi)».

Le ricadute

«Alla luce dei risultati di questo lavoro – conclude il professor Filippo Crea, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS — limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale (possibilmente riducendone le emissioni) potrebbe ridurre il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie. L’uso di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città».

Che cos’è il test all’acetilcolina

Nei pazienti con cardiopatia ischemica senza evidenza di ostruzione delle coronarie da placche aterosclerotiche, nel corso della coronarografia può essere effettuato un test provocativo con iniezione di acetilcolina per slatentizzare la tendenza allo spasmo. Questo test è fondamentale per giungere a una diagnosi del meccanismo responsabile dell’infarto e permette dunque di intraprendere una terapia mirata.

Cos’è l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) e grossolano (PM10)

Per materiale particolato aerodisperso si intende l’insieme delle particelle atmosferiche solide e liquide sospese in aria ambiente. Il PM2.5 (particolato fine) indica le particelle di diametro aerodinamico inferiore o uguale ai 2,5 μm che derivano da tutti i tipi di combustione (motori di automobili, impianti per la produzione di energia, combustione di legna per il riscaldamento domestico, incendi boschivi e vari processi industriali). Le particelle di dimensioni comprese tra 2,5 – 10 μm (tra le quali il PM10) sono dette grossolane e derivano soprattutto da processi meccanici (macinazione, erosione, fenomeni di attrito nei trasporti su strada quali usura dei freni, dei pneumatici e abrasione delle strade). Il PM10 può avere anche un’origine naturale (l’erosione delle rocce, le eruzioni vulcaniche, incendi boschivi).

Da ansa.it il 26 maggio 2022.  

Oltre 20 milioni di bambini che vivono nei 39 Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dell'Unione Europea hanno livelli elevati di piombo nel loro sangue, una delle sostanze tossiche ambientali più pericolose. È quanto si evince dall'ultima Report Card pubblicata oggi dal Centro di Ricerca UNICEF Innocenti.

La Finlandia, l'Islanda e la Norvegia si posizionano nel primo terzo della classifica nel fornire un ambiente sano per i loro bambini ma finiscono nell'ultimo terzo nella classifica per quanto riguarda "Il mondo in generale", con alti tassi di emissione, rifiuti elettronici e consumi. In Islanda, Lettonia, Portogallo e Regno Unito, 1 bambino su 5 è esposto a umidità o muffa a casa, mentre a Cipro, in Ungheria e Turchia più di 1 bambino su 4 ne è esposto. 

Molti bambini respirano aria tossica sia fuori che dentro le loro case. Il Messico è uno dei paesi con il maggior numero di anni di vita in buona salute persi a causa dell'inquinamento dell'aria, equivalente a 3,7 anni per 1.000 bambini, mentre la Finlandia e il Giappone hanno il più basso, a 0,2 anni. In Belgio, Repubblica Ceca, Israele, Paesi Bassi, Polonia e Svizzera oltre 1 bambino su 12 è esposto a elevato inquinamento da pesticidi. L'inquinamento da pesticidi è stato collegato al cancro, compresa la leucemia infantile, e può danneggiarne i sistemi nervoso, cardiovascolare, digestivo, riproduttivo, endocrino, sanguigno e immunitario. 

Per questo Unicef chiede ai governi a livello nazionale, regionale e locale di migliorare l'ambiente in cui vivono oggi i bambini, riducendo i rifiuti, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua e garantendo abitazioni e quartieri di alta qualità; migliorare le condizioni ambientali dei bambini più vulnerabili. 

I bambini delle famiglie povere tendono ad essere maggiormente esposti ai danni ambientali rispetto ai bambini delle famiglie più ricche; garantire che le politiche ambientali siano a misura di bambino; coinvolgere i bambini, i principali soggetti interessati del futuro; i governi e le imprese devono intraprendere subito azioni efficaci per onorare gli impegni presi per ridurre le emissioni di gas serra entro il 2050.   

La maggior parte dei Paesi ricchi sta creando condizioni malsane, pericolose e nocive per i bambini di tutto il mondo. E' quanto si evince dalla nuova Report Card 17. 'Luoghi e Spazi - Ambiente e benessere dei bambini' pubblicata oggi dal Centro di Ricerca UNICEF Innocenti che mette a confronto i risultati ottenuti da 39 Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dell'Unione Europea (UE) nel fornire ambienti sani ai bambini.

 Il rapporto presenta indicatori come l'esposizione a inquinanti nocivi, tra cui aria tossica, pesticidi, umidità e piombo; l'accesso alla luce, agli spazi verdi e a strade sicure; il contributo dei Paesi alla crisi climatica, al consumo di risorse e allo smaltimento dei rifiuti elettronici; e afferma che se tutti i cittadini del mondo consumassero le risorse al ritmo dei paesi dell'OCSE e dell'UE, sarebbe necessario l'equivalente di 3,3 pianeti Terra per mantenere i livelli di consumo. Se tutti consumassero le risorse al ritmo di Canada, Lussemburgo e Stati Uniti, sarebbero necessari almeno 5 pianeti Terra.

"La maggior parte dei Paesi ricchi non solo non riesce a fornire ambienti sani ai bambini all'interno dei propri confini, ma contribuisce anche alla distruzione degli ambienti in cui vivono i bambini in altre parti del mondo", ha dichiarato Gunilla Olsson, Direttore del Centro di Ricerca UNICEF Innocenti. "In alcuni casi, vediamo che i Paesi che forniscono ambienti relativamente sani per i bambini nel proprio paese sono tra i maggiori responsabili dell'inquinamento che distrugge gli ambienti dei bambini all'estero".

Ogni giorno 165 morti a causa dell’inquinamento. L’aria ora deve cambiare. Giulio Sensi su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

I dati allarmanti dell’ultimo rapporto di Asvis sugli effetti di Pm10 e inquinanti. 60mila morti all’anno per le conseguenze nocive sulla nostra salute. Le soluzioni vanno trovate a livello globale. 

Nella primavera del 2020, in pieno lockdown, le centraline di rilevamento della qualità dell’aria di molte città della Pianura padana continuavano a segnare livelli altissimi di concentrazioni di Pm10. Le auto degli italiani erano ferme, il Paese bloccato, ma l’inquinamento in alcune città della Pianura padana non accennava a scendere. Gli scienziati se lo aspettavano, perché «la questione - spiega Giovanni Fini, curatore dell’ultimo rapporto «Qualità dell’aria» di Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - è molto più complessa di quanto l’opinione pubblica avverta». Ogni anno le polveri sottili provocano più di 60.000 morti in Italia, 165 in media al giorno. Alcune città e aree geografiche italiane hanno la qualità dell’aria fra le peggiori in Europa: la prima è la Pianura padana, considerata da autorevoli studi scientifici come l’area a maggior rischio sanitario in Europa per l’inquinamento atmosferico insieme ad alcune regioni della Polonia e della Repubblica Ceca. La causa è il mix di emissioni di caldaie domestiche a legna e gasolio, allevamenti intensivi, attività industriali. Ma anche altre zone come la Valle del Sacco nel Lazio e l’agglomerato di Napoli e Caserta sono attenzionate.

Le polveri sottili però sono un nemico tanto invisibile quanto complicato da trattare. «C’è uno scollamento - spiega Fini - fra causa ed effetto. A differenza di altri inquinanti, non esiste un effetto diretto e proporzionale fra riduzione delle emissioni e qualità dell’aria. Questo accade per due fattori: il primo è la diffusione su larga scala di alcuni inquinanti che rende difficili collegare le emissioni alle concentrazioni. Il secondo è che buona parte dell’inquinamento è di origine secondaria, cioè prodotto da reazioni chimiche e fisiche in atmosfera generate da altri inquinanti. Si tratta di un fattore che complica le cose, perché alle città viene chiesto di fare interventi pesanti di moderazione del traffico, ma poi le centraline nei giorni successivi alle limitazioni continuano a segnare le stesse concentrazioni di inquinanti e i cittadini non comprendono».

Qualcosa va meglio

Eppure di passi avanti negli anni ne sono stati fatti molti. Grazie ai progressi tecnologici, l’inquinamento dei mezzi di trasporto incide oggi solo per il 12%, mentre in passato era la fonte principale. «Rispetto a 50 anni fa - spiega Miriam Cominelli, presidente del Coordinamento Agende 21 locali italiani e assessore all’ambiente del Comune di Brescia che insieme a Fini ha curato il rapporto di Asvis - c’è stato un miglioramento, ma dobbiamo comprendere che per una soluzione radicale serve una maggiore regia a livello nazionale. Questo fenomeno non ha solo conseguenze ambientali, ma anche dirette e nocive sulla salute dei cittadini. E spesso sono le fasce della popolazione deboli a subire i contraccolpi più negativi sulla salute».

Interventi e protocolli

«È necessario intervenire - prosegue - con azioni che siano concordate a più livelli, in cui la dimensione locale faccia la sua parte insieme alle Regioni e il piano nazionale. È difficile comprendere come si possano limitare, per esempio, le emissioni dei mezzi stradali solo nelle aree urbane, quando nella Pianura padana le autostrade passano in mezzo alle città. Ci deve essere un coordinamento fra i diversi livelli istituzionali».

«Proprio la situazione della Pianura padana - aggiunge Fini - dimostra l’urgenza di lavorare insieme: alcune analisi hanno dimostrato che, anche qualora riuscissimo ad azzerare le emissioni dell’Emilia Romagna, l’inquinamento calerebbe solo del 30% a causa del fenomeno del rimescolamento. Milano da sola non può risolvere i suoi problemi, come non possono Torino, Bologna o le città del Veneto». Asvis ha anche monitorato le 17 azioni previste dal Protocollo «Aria Pulita» firmato da Ministeri e Regioni a Torino tre anni fa e che istituiva un Piano d’azione biennale per il miglioramento della qualità dell’aria con un impegno di 400 milioni di euro annui: solo quattro sono state attuate e le maggiori carenze riguardano l’abbattimento delle emissioni di ammoniaca e i disincentivi ai veicoli più inquinanti e all’uso di biomasse e gasolio per il riscaldamento. «Il tema dell’agricoltura - spiega Cominelli - è centrale, ma va affrontato in modo complessivo, senza penalizzare gli attori del sistema agricolo: vanno sostenuti perché acquisiscano strumenti che diminuiscano l’impatto sulla qualità dell’aria.

L’Italia sta già subendo diverse procedure di infrazione e l’Unione europea si appresta ad approvare nuovi limiti già fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ad oggi poche città italiane rimarrebbero dentro questi limiti. Dobbiamo lavorare meglio e insieme ad una transizione positiva». «Anche i cittadini - conclude Fini - devono fare la loro parte. Cambiare la macchina è oggi più facile grazie agli incentivi, ridurre le emissioni domestiche è più complicato. Una spinta i bonus la stanno dando. È un tema faticoso, ma il passaggio dalle fonti fossili all’elettrico rinnovabile è la svolta che va sostenuta».

LA SETTIMANA DELLA SCIENZA. Il metano cresce nell’atmosfera in modo “pericolosamente veloce”. LUIGI BIGNAMI, divulgatore su Il Domani il 28 febbraio 2022

L’anno scorso le concentrazioni di metano nell’atmosfera hanno superato le 1.900 parti per miliardo, quasi il triplo dei livelli preindustriali.

La fusione del permafrost (i terreni che dovrebbero essere permanentemente ghiacciati) a causa del cambiamento climatico potrebbe esporre la popolazione artica a concentrazioni molto elevate di radon.

Quando muore una stella come il Sole può diventare una “nana bianca” e la sua morte causa inesorabilmente anche la fine dei pianeti che la circondavano

LUIGI BIGNAMI, divulgatore. Giornalista scientifico italiano, laureato in scienze della terra a Milano

Monica Perosino per “La Stampa” il 24 gennaio 2022.

Ogni anno in Europa muoiono oltre trecentomila persone a causa dell'aria inquinata. Le polveri sottili si insinuano nel naso, nella laringe, si spingono fino ai bronchi e provocano infarti, ictus, malattie respiratorie, diabete, tumori, ipertensione, malattie cardiovascolari. 

Nell'Unione Europea il 97% della popolazione urbana è esposta a livelli di particolato fine superiori agli ultimi livelli delle linee guida stabilite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, linee che, se seguite, eviterebbero 166mila morti premature all'anno.

Il rapporto 2021 sulla qualità dell'aria dell'Agenzia Europea per l'Ambiente, sebbene evidenzi un calo di tutti i principali inquinanti atmosferici dal 2005 in avanti, sottolinea che l'inquinamento atmosferico resta il più grande rischio per la salute dei cittadini europei, peggiore anche del fumo e della malnutrizione. 

Oltre a monossido di carbonio, biossido di azoto e zolfo, ozono e altri, le sostanze più pericolose per la salute sono particolato PM2.5 e PM10, quelle minuscole particelle prodotte dalla combustione del carburante nei trasporti, dalle industrie, dall'agricoltura e dal riscaldamento.

Il particolato con un diametro uguale o inferiore a 10 micron (µm), ovvero più piccolo di un quinto della larghezza di un capello umano, è in grado di penetrare in profondità nei polmoni, le PM2.5 possono entrare perfino nel flusso sanguigno. Per questo, il particolato fine è l'inquinante atmosferico con il maggiore impatto sulla salute in termini di morte prematura e malattie.

In questo caso, avverte l'Eea, «il luogo in cui vivi influisce sui rischi a cui sei esposto». E non c'è nulla per cui gioire. Guardando la mappa dell'Ue, si nota una macchia più scura sull'Europa dell'Est e sulla Pianura Padana, sono le aree in cui è più presente il particolato fine. 

Tra le città con i livelli di PM10 più elevati troviamo Zagabria, Bucarest, Salonicco e Belgrado, mentre il primato per le massime concentrazioni di biossido di azoto va a Napoli seguita da Cracovia, Atene e Parigi.

E se guardiamo i livelli di diossido di azoto nella classifica delle città europee più inquinate e con il più alto tasso di mortalità ci sono molti centri italiani. Per quanto riguarda la mortalità per PM2,5, in particolare, al primo posto c'è Cremona, seguita da Vicenza, Brescia, Pavia, con una presenza massiccia delle città della Pianura Padana. 

Le persone che vivono nelle città più grandi tendono ad essere esposte a concentrazioni più elevate di biossido di azoto a causa delle emissioni del traffico, mentre ci vive nell'Europa centrale e orientale, la combustione di combustibili solidi per il riscaldamento domestico e il loro utilizzo nell'industria determina le più alte concentrazioni di particolato e benzopirene (un cancerogeno).

L'Europa meridionale, invece, è esposta alle più alte concentrazioni di ozono, la cui formazione è determinata dalla luce solare. Se gli Stati Ue si adeguassero alle nuove e aggiornate linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 2021 si potrebbero evitare, nella sola Europa, oltre 166mila morti premature all'anno. Se si considera anche la correlazione tra inquinamento e diffusione delle pandemie, il beneficio per la salute sarebbe ancora maggiore.

Diversi studi infatti, hanno dimostrato che il Covid preferisce l'aria inquinata, e che l'inquinamento atmosferico può facilitare la trasmissione del virus e aumentarne la persistenza nell'atmosfera.

Rispetto al 2005, nel 2019 i decessi prematuri attribuiti all'esposizione al particolato fine sono diminuiti del 33% nell'Ue-27, ma certamente non basta. L'obiettivo, dice l'Oms, è che tutti i Paesi raggiungano i livelli di qualità dell'aria raccomandati, andando a limitare le emissioni delle auto vecchie, l'uso di combustibili fossili e gli allevamenti intensivi.

Federica Mereta per “la Repubblica - Salute” il 27 gennaio 2022.

Chi soffre di allergia e abituato: nei periodi a rischio, prima di mettersi in marcia, guarda la classica tabella dei pollini e provvede a fare le sue scelte, evitando che le sue mucose incontrino i possibili “nemici”. Per il benessere dell’apparato cardiovascolare, sarebbe necessario fare lo stesso.  

Se il vostro cuore e a rischio perchè soffrite di diabete, avete il colesterolo e/o la pressione alta, siete sovrappeso, fate i conti con malattie croniche dell’apparato respiratorio, abituatevi a guardare l’indice di qualità dell’aria oltre a controllare la temperatura esterna. Il cocktail clima rigido e ristagno degli inquinanti può diventare una minaccia per la salute delle arterie, tanto da aumentare il rischio di andare incontro a un infarto. 

A lanciare l’ennesimo appello sulla necessita di ridurre gli inquinanti emessi da tubi di scarico, riscaldamenti e fabbriche e un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine, a firma di Sanjay Rajagopalan, dell’Ospedale Universitario di Cleveland, e Philip J. Landrigan, del Dipartimento di Biologia dell’Universita di Boston.  

L’analisi prende in esame le più recenti osservazioni scientifiche sul tema e, oltre a consigliare il controllo delle polluzioni atmosferiche prima di uscire per chi ha il cuore non proprio in forma, gli esperti avvisano di ridurre per quanto possibile jogging e corsa veloce quando l’aria e particolarmente inquinata, di non esporsi ad attività lavorative che possono farci respirare sostanze nocive, di utilizzare mascherine se l’inquinamento e alle stelle, di preferire per gli spostamenti gli orari in cui il traffico cala. 

Il tutto, ricordando che anche a casa possiamo fare qualcosa: in primo luogo tramite la classica misura di “aprire le finestre” (ovviamente se all’esterno l’aria e buona), utilizzando depuratori ambientali ed evitando quelle fonti di inquinamento domestico, a partire dal fumo di sigaretta fino all’abuso delle candele profumate, che possono mettere a repentaglio il benessere cardiovascolare.  

«I diversi inquinanti atmosferici possono avere un’azione negativa molto pesante su cuore e arterie, attraverso meccanismi diversi che purtroppo tendono a sommarsi tra loro e a moltiplicare gli effetti pericolosi», spiega Massimo Volpe, ordinario di Cardiologia all’Università Sapienza di Roma e Presidente della Societa italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec): «Sappiamo che l’esposizione al particolato (riconoscibile con la sigla Pm e numeri diversi a seguire) può indurre un danno vascolare diretto, attraverso un aumento dei processi ossidativi delle cellule della parete arteriosa, con conseguente incremento dei radicali liberi nocivi per le cellule stesse, oltre a favorire l’infiammazione». 

Tutto e dovuto al fatto che il tessuto arterioso, esposto all’azione di questi componenti, sviluppa meccanismi difensivi che purtroppo col tempo risultano nocivi per la salute. Da un lato, questi sistemi di difesa portano ad attivare invisibili segnali intracellulari che a loro volta determinano appunto la produzione di radicali liberi; dall’altro, l’infiammazione tende a richiamare i polimorfonucleati (particolari globuli bianchi) e le piastrine con una maggior tendenza alla coagulazione del sangue. 

Il risultato e che si e maggiormente predisposti all’aterotrombosi, e, soprattutto, chi già soffre di patologie cardiovascolari – o comunque ha dei fattori predisponenti – rischia che si rompa più facilmente una placca su un’arteria, come per esempio una coronaria o la carotide, e che si ostruiscano i vasi. Aumenta, quindi, il pericolo di andare incontro a un infarto o a un ictus. 

A completare il quadro dei possibili effetti diretti dell’inquinamento sulla salute dell’apparato cardiovascolare, infine, «va ricordato che in genere l’esposizione cronica favorisce la vasocostrizione e quindi l’innalzamento della pressione, con la più probabile comparsa di ipertensione», aggiunge Volpe. Insomma: l’inquinamento atmosferico, come ricordano gli esperti sul New England Journal of Medicine, può quasi essere considerato un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo di cui tenere conto. 

«La variazione a breve termine dei livelli di Pm (da ore a giorni) e associata a un aumento dei rischi di infarto miocardico, ictus e morte per malattie cardiovascolari», scrivono gli esperti sulla prestigiosa rivista americana. Che non e pero l’unica a sottolineare la relazione tra smog e malattie cardiovascolari. Al Nejm si aggiunge, infatti, il grande studio internazionale su quasi 160 mila persone adulte tra i 35 e i 70 anni seguite per 15 anni, coordinato dagli scienziati dell’Università Statale dell’Oregon e apparso su Lancet Planetary Health. 

Durante il periodo di osservazione più di 3200 persone sono morte per malattie cardiovascolari e circa 9.150 hanno avuto un infarto o un ictus. Gli eventi sono aumentati del 5% per ogni 10 microgrammi per metro cubo in più rilevati nella concentrazione di particolato fine (Pm 2.5), uno degli inquinanti atmosferici più diffusi, con una traslazione statistica che fa riflettere: il 14% di tutti gli eventi cardiovascolari osservati potrebbe essere attribuibile proprio al particolato Pm 2.5.

I dati sono confermati anche da osservazioni italiane, come la ricerca pubblicata su Jacc Cardiovascular Imaging dai cardiologi della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs che mette in luce un’associazione tra i livelli di esposizione alle polveri fini (Pm 2,5) e la presenza di placche aterosclerotiche più infiammate e aggressive, cioè pronte a causare un infarto per rottura di placca.  

«La ricerca – spiega il primo autore dello studio, Rocco A. Montone, cardio- logo interventista e di terapia intensiva cardiologica del Gemelli – ha preso in esame 126 pazienti con infarto miocardico, sottoposti ad Optical Coheren- ce Tomography (Oct), un’indagine con uno speciale microscopio che permette di visualizzare le placche coronariche direttamente dall’interno dei vasi». 

Correlando le caratteristiche delle placche con l’esposizione anche per due anni precedenti a inquinanti ambientali si e visto che i pazienti che respirano a lungo aria inquinata, in particolare il particolato fine, che penetra in profondità nei polmoni soprattutto se respirato dalla bocca, presentano placche aterosclerotiche coronariche piu aggressive e prone alla rottura (sono più ricche di colesterolo e hanno un cappuccio fibroso più sottile).  

E, infatti, nelle persone esposte a elevati livelli di Pm 2,5, il fattore scatenante dell’infarto e più spesso la rottura del- portante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. 

Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della placca aterosclerotica.  

Le placche infiammate (cioè infiltrate da macrofagi) ed e presente anche un maggior livello di infiammazione sistemica, testimoniato dall’aumento dei livelli di proteina C reattiva nel sangue. Insomma: l’inquinamento atmosferico, e in particolare quello da particolato associato agli altri invisibili elementi che respiriamo, diventa una minaccia per il benessere cardiovascolare.  

Un’ulteriore conferma italiana la offre una ricerca pubblicata qualche tempo fa su International Journal of Environmen- tal Research and Public Health, condotta dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e dall’Istituto Clinico Humanitas. Lo studio ha dimostrato come il rischio di accesso al pronto soccorso per eventi cardiovascolari acuti sia associato all’aumento del particolato atmosferico (Pm 10) secondo un andamento stagionale, più dannoso nel periodo autunno-inverno, ma anche più pericoloso nelle giornate con alte temperature atmosferiche. 

Non solo: la ricerca ha aggiunto un tassello importante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della diversa composizione chimica del particolato atmosferico e della diversa risposta fisiologica agli stress ambientali. 

«D’altro canto, considerando anche quanto stiamo osservando con Covid-19, c’è pure questo ulteriore meccanismo indiretto che mette a repentaglio la salute dei vasi arteriosi», riprende Volpe: «Quando si verifica un’infiammazione delle vie respiratorie, magari indotta dall’esposizione a inquinanti e implementata da un’infezione virale come l’influenza o, appunto, da Sars-CoV 2, si liberano citochine, cioè composti che facilitano l’infiammazione. 

Quindi, a prescindere dall’oggettiva azione diretta dei virus sulle cellule cardiache, si crea una condizione che facilita l’infiammazione dell’endotelio (la parete più interna delle arterie) e quindi anche la possibilità che si manifestino fenomeni di trombosi all’interno dei vasi». Si tratta di osservazioni supportate da chiare ipotesi di laboratorio che confermano come alti livelli di Pm nell’aria possano contribuire al peggioramento delle condizioni cliniche di persone infette da Sars-CoV2 (e più in generale dai virus respiratori), soprattutto in correlazione con altre patologie pregresse. 

L’inquinamento non renderebbe più facile l’accesso del virus nell’organismo, ma piuttosto si comporterebbe proprio alla stregua di colesterolo alto, ipertensione, diabete e obesità, aumentando il pericolo per cuore e arterie. «Tutte queste osservazioni confermano come la prevenzione cardiovascolare si leghi indissolubilmente alla sostenibilità ambientale», conclude Volpe: «Le automobili, la produzione industriale e l’urbanizzazione hanno creato una condizione per cui, soprattutto in alcune aree, la qualità dell’aria può diventare una minaccia per la salute per il sistema cardiocircolatorio. Inoltre, la vita in citta può favorire anche l’inattività fisica e di conseguenza l’obesità e le alterazioni metaboliche, creando un circolo vizioso estremamente pericoloso per il cuore. 

Questa attenzione, in chiave preventiva, deve partire fin dai bambini, che già ora sono esposti a condizioni ambientali non ottimali e tendono a sviluppare frequentemente alterazioni metaboliche che mettono a rischio cuore e vasi». Nei più piccoli, peraltro, l’inquinamento atmosferico può aprire la strada all’ipertensione futura e alle sue conseguenze. Non ci credete? Rileggete una ricerca su 70 bambini seguiti poi fino all’età adulta a Los Angeles, pubblicata su Environmental Health e condotta dai ricercatori dell’Università della California del Sud. 

Lo studio ha valutato nel tempo un particolare parametro della salute delle arterie, ovvero i cambiamenti nello spessore tra tonaca intima e media (due strati della parete delle carotidi). Gli scienziati americani hanno esaminato l’esposizione media residenziale agli inquinanti ambientali come l’ozono, il biossido di azoto e il particolato, analizzando i dati derivanti dai sistemi di monitoraggio dell’aria, fino a stimare l’esposizione agli ossidi di azoto in base alla vicinanza della casa di un bambi- no alle strade maggiormente trafficate. 

Come parametro di valutazione e stato considerato appunto il mutamento dello spessore tra i due strati delle arterie carotidi, con misurazioni effettuate intorno ai 10 anni e poi di nuovo sui giovani di vent’anni. In chi risultava maggiormente esposto ai fumi di traffico e inquinamenti vari si e osservato una modificazione del parametro intimamedia della carotide di circa 1,7 micron l’anno: traslando i dati, questo “restringimento” del tutto impercettibile sarebbe correlabile a un incremento medio della pressione arteriosa di circa 10 millimetri di mercurio, con conseguente incremento del rischio cardiovascolare.

·        Gli Inquinatori.

A VOLTE RITORNANO.  Report Rai PUNTATA DEL 12/12/2022

Di Bernardo Iovene Collaborazione di Greta Orsi e Lidia Galeazzo

Immagini di Alfredo Farina e Andrea Lilli

Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia.

Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia. Furono sequestrati nel porto di Sousse perché illegali per il governo tunisino, e finirono in carcere il ministro dell’ambiente e vari funzionari della dogana e dell’agenzia nazionale dei rifiuti tunisina. La Tunisia ha fatto pressioni perché i rifiuti tornassero in Italia, ci sono state anche proteste da parte degli ambientalisti sotto la nostra ambasciata a Tunisi. Bernardo Iovene ha ricostruito gli aggiornamenti della vicenda a partire dal viaggio del nostro ministro degli esteri il 28 dicembre del 2021 in Tunisia, fino al rientro dei rifiuti l’11 febbraio di quest’anno. Trasportati nel centro di raccolta di Persano, tra i comuni di Serre e Altavilla Silentina, la loro presenza ha suscitato le proteste dei cittadini dell’area. Restano decine di milioni di euro da pagare dopo che la nostra magistratura avrà stabilito le responsabilità. Ma la storia non è finita: in Tunisia ci sono ancora 69 container da riportare in Italia, sui quali la Tunisia ci fa sapere che non transige.

A VOLTE RITORNANO Di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi - Lidia Galeazzo Immagini Alfredo Farina - Andrea Lilli Grafica Federico Ajello

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 28 dicembre scorso Di Maio va in missione diplomatica in Tunisia, incontra il ministro degli Esteri, la premier e il presidente Sayed. Parlano di stabilità interna, di immigrazione e anche dei rifiuti arrivati dall’Italia nel luglio 2020. Fatalmente però, proprio il giorno dopo la visita di Di Maio, i rifiuti parcheggiati nei locali della ditta tunisina Soreplast vanno a fuoco.

BERNARDO IOVENE Questi sono i rifiuti.

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sì, questi sono i rifiuti…

BERNARDO IOVENE Bruciati. Sono andati a fuoco…

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sì. Sono andati a fuoco. Questo è praticamente che cosa è rimasto. Sono quasi 1900 tonnellate…

BERNARDO IOVENE Adesso dove sono questi rifiuti bruciati?

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sono ancora a Mordin in un capannone. Il deposito della società tunisina.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Tunisia per la storia di questi rifiuti italiani il Ministro e i funzionari dopo due anni sono ancora in carcere cautelativo.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Per la prima volta nella storia della Tunisia che il Ministro è andato dal suo ufficio alla casella prigione, come dicono; la prima volta, perché c'era anche complicità delle autorità tunisine. In Italia, non ho sentito…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non se ne è parlato.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Non se ne è parlato perché il danno per la Tunisia è non solo economico: economico, sociale, politico, ambientale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo la visita di Di Maio, il governo tunisino ha incaricato per le trattive proprio l’ambasciatore in Italia.

MOEZ SINAOUI – AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Ho trattato io con la presidenza della Regione Campania.

BERNARDO IOVENE Direttamente con De Luca?

MOEZ SINAOUI– AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Direttamente con De Luca, sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ambasciatore ha trattato sulla restituzione di 282 container contenenti i rifiuti, che dalla Campania erano stati spediti in Tunisia. Si tratta di rifiuti scarto della raccolta differenziata; devono essere smaltiti in discarica o bruciati nell’inceneritore. Solo che in Italia costerebbe smaltirli - all’epoca costava - 200 euro a tonnellata, in Tunisia te la cavavi con 48 euro. Così la società salernitana di smaltimento rifiuti, la SRA prende contatti con l’omologa tunisina, la Soreplast e, in base a questo accordo, avrebbe dovuto spedire 120 mila tonnellate nel paese nordafricano spendendo invece di 24 milioni, 5 milioni 760 mila euro, più il trasporto. Comunque un bel risparmio. Ma se devi spedire dei rifiuti all’estero, devi sottostare a determinate regole. In questo caso alla convenzione di Basilea che richiede che la Regione Campania contatti i così detti focal point. Si tratta di funzionari del ministero dell’Ambiente, quello italiano e l’omologo tunisino. La Regione Campania ha contattato quello italiano, non l’omologo tunisino. E così che cosa è successo? Che una volta che sono partiti dalla Campania i 282 container, appena sono sbarcati in Tunisia nel porto di Sousse, sono stati sequestrati. Sono stati arrestati il ministro dell’Ambiente, il responsabile, il direttore dell’agenzia dei rifiuti tunisina, sarebbe stato arrestato anche il proprietario dell’azienda tunisina di smaltimento rifiuti se non che è scappato ed è latitante. Ora, Huston, abbiamo un problema: chi paga le giornate di sequestro dei rifiuti al porto tunisino? Chi paga il viaggio in nave? Chi paga l’affitto dei container? Insomma, parliamo di una cifra oltre i 43 milioni di euro. E poi, una volta sbarcati in Italia, dove hanno portato i rifiuti? Il nostro Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 20 febbraio, presenti le autorità tunisine, i container lasciano il porto di Sousse e tornano a Salerno. Appena sbarcati, però, vengono sequestrati dalla procura; la Regione poi ordina di stoccarli temporaneamente nel comprensorio militare di Persano, a Serre, provincia di Salerno, dove già nel 2007 stoccarono, sempre temporaneamente, le ecoballe dell’emergenza rifiuti, che però sono ancora qua.

BERNARDO IOVENE Cioè, l'hanno contattata prima?

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 No! Zero, zero.

BERNARDO IOVENE Cioè voi sapete che arrivano i container qua…

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Dai giornali.

BERNARDO IOVENE Ah, dai giornali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Appena saputo dell’arrivo dei rifiuti dalla Tunisia, sindaci, ambientalisti e cittadini sono tornati a protestare come 15 anni fa.

RAFFAELE PETRONE - MEMBRO COMITATO BATTIPAGLIA DICE NO Per evitare che la protesta potesse sfociare in un blocco serio, si è deciso di portare i rifiuti in una zona militare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E mentre c’è la protesta, dal sito che è invalicabile perché militare, cominciano a uscire camion carichi delle ecoballe ferme lì da 14 anni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E da ieri che li stanno spostando, da ieri?

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, sì… Guarda caso…

CARMINE AQUINO - MEMBRO COMITATO AMBIENTE E SALUTE ALBANELLA Per farci accettare in maniera più gradevole, insomma, queste 6mila tonnellate che ci ritornano dalla Tunisia rimuovono ecoballe che andavano rimosse tanti anni fa.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sul territorio di Serre c'è una mega discarica che si chiama Macchia Soprana. È stato fatto un protocollo di intesa, 13 anni fa, tra le istituzioni che a Serre, dopo questa mega discarica, non sarebbe stato fatto alcun tipo di stoccaggio e/o discarica di qualunque tipo di rifiuto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, a questo sito di stoccaggio nel comune di Serre si aggiunge la discarica di Macchia Soprana che, nonostante le proteste di un intero popolo, fu imposta dall’allora commissario straordinario Guido Bertolaso, furono abbattuti ettari di bosco per portarci la spazzatura proveniente dalle province di Napoli e Caserta. Oggi la discarica non è ancora bonificata.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Qui è stato tagliato.

BERNARDO IOVENE Perché era tutto bosco...

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, era tutto bosco, sono stati tagliati dieci ettari di bosco.

BERNARDO IOVENE Vi hanno detto “sopportate, questa è l'ultima volta”, diciamo.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, per questo c'è rabbia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sindaco di Serre, che ha concluso il suo mandato a giugno scorso, conserva ancora il documento firmato dal ministro dell’ambiente di allora, dal commissario straordinario, dai presidenti di Regione e Provincia.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 “Le parti si impegnano affinché l'intero territorio del Comune di Serre non abbia più ad essere interessato da attività di stoccaggio e smaltimento di ogni o qualsiasi tipo di rifiuti”.

BERNARDO IOVENE Ma questa cosa è veramente…

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Lo sa che cosa mi ha detto il vicepresidente Bonavitacola, che è delegato anche all'ambiente? E vabbè l'hanno fatto 15 anni fa da altre persone.

BERNARDO IOVENE Cioè, voi non contate niente come sindaco parliamoci chiaro no, insomma, è questa la cosa.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 È una risata amara, sì! Ma nemmeno per Regione e Provincia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è così per tutti gli altri impianti che hanno interessato i comuni della piana del Sele: tutti i protocolli di intesa non sono stati mai rispettati, qui siamo a Battipaglia.

CECILIA FRANCESE - SINDACA DI BATTIPAGLIA (SA) Son carta straccia e noi stiamo aspettando ancora i ristori di quell'intervento del 2002 e la costituzione del Cdr.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine, però, il 20 aprile, i container rimpatriati dalla Tunisia vengono trasferiti a Persano, scortati dalla polizia, con l’applauso ironico dei sindaci e le proteste dei cittadini contro la Regione che non li ha neppure consultati.

CARMINE AQUINO - MEMBRO COMITATO AMBIENTE E SALUTE ALBANELLA Quel nostro governatore De Luca che qui costruì la sua carriera politica per dare queste terre ai contadini, adesso a quei contadini ha deciso di cospargerli dei rifiuti della SRA di ritorno dalla Tunisia, dove sta ad indagare la magistratura.

BALDASSARRE CHIAVIELLO - FONDATORE MOVIMENTO SERRE PER LA VITA Forse è stato troppo affascinato dal potere. Lui quando vedrà, se vedrà questa cosa, si ricorderà di me. Si ricorderà quando stavamo insieme a lottare per la gente che non aveva voce.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’ordinanza, però, è firmata dal presidente della provincia.

BERNARDO IOVENE Il presidente della Provincia, no, è il sindaco di un paesino come il vostro: non vi ha neanche chiamato per dirvi qualcosa?

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) Assolutamente no.

BERNARDO IOVENE Neanche per dirvi: collega, vedi che qua stanno...

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) No, no, no, no. Assolutamente perché evidentemente aveva ordini dall'alto di non farlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A noi invece il presidente della Provincia di Salerno aveva dato disponibilità per un’intervista, ma il giorno dell’appuntamento ha disdetto; abbiamo quindi provato a chiamarlo.

FRANCO ALFIERI - PRESIDENTE PROVINCIA DI SALERNO Pronto? BERNARDO IOVENE Pronto presidente. Sono Bernardo Iovene, di Rai3, di Report…

BERNARDO IOVENE Adesso però vi chiameranno quando li apriranno questi container?

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) È una battuta?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto a operazione conclusa, ecco come si presenta il sito di Persano: i 213 container rimpatriati dalla Tunisia hanno trovato posto accanto alle ecoballe di 14 anni fa; andranno caratterizzati e smaltiti, questa è la promessa, ma questi territori continuano a pagare colpe non proprie.

MARIA MUSCARÀ – CONSIGLIERA REGIONALE GRUPPO MISTO - REGIONE CAMPANIA Secondo le carte l'errore gravissimo è stato compiuto all'interno degli uffici della Regione Campania, i quali stranamente non riuscivano a trovare il focal point tunisino, tanto da doversi rivolgersi a Google non trovando neanche su Google.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il funzionario che ha commesso l’errore dichiara che si era rivolto al consolato perché, dopo averlo cercato sul web, non aveva individuato il focal point tunisino, come richiesto dalla Convenzione sui rifiuti di Basilea. Giustificazione contestata dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo illecito dei rifiuti; l’ex presidente ci mostra invece come sarebbe stato semplice individuarlo.

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 Questo è il sito della Convenzione di Basilea, quello internazionale. Basta cliccare su Country, contatti…

BERNARDO IOVENE C’è anche nome e cognome?

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 Nome, cognome, contatto, numero di telefono, proprio a prova di bambino.

BERNARDO IOVENE C’è tutto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Due click e viene fuori il nome del focal point presso il ministero dell’Ambiente tunisino: si chiama Abderrazak Marzuki.

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 E invece un funzionario regionale che fa questo per lavoro dice che non sapevano e si sono dovuti rivolgere al console tunisino in Campania, che anch'esso ha confermato questo focal point errato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Regione Campania, nella persona del presidente, del vicepresidente e di un dirigente, è protagonista in questa strana storia, ma come al solito si sottraggono a interviste con noi di Report. Tra l’altro la ditta che ha spedito i rifiuti in Tunisia, la SRA, è in possesso di un documento del 2019 di una spedizione di rifiuti in Tunisia di un’altra ditta autorizzata dallo stesso funzionario che in quel caso aveva individuato il focal point che è sempre lo stesso, Abderrazak Marzuki. Questo dimostrerebbe che in effetti conosceva già la procedura.

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Il dirigente in questione scrive che solamente nel novembre del 2020 ha appreso che il signor Abderrazak Marzouki del Ministero tunisino…

BERNARDO IOVENE Era il focal point.

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Fatto sta che però la Regione due anni prima aveva avuto modo di rivolgersi a questo soggetto.

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Ma è importante anche la firma del dirigente che è lo stesso...

BERNARDO IOVENE Voi questo documento qua lo porterete in tribunale?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Certo, è un documento ufficiale, la loro firma con un protocollo regionale, voglio dire. Dove c’è individuato il focal point.

BERNARDO IOVENE Mi pongo questo problema, no, per la sosta a quanto siamo arrivati? A 20 milioni di euro?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Facendo un calcolo orientativamente penso di sì.

BERNARDO IOVENE Il viaggio di ritorno, lo stoccaggio nel porto di Salerno, poi sono dati a Persano, lì devono essere caratterizzati, poi devono essere smaltiti, devono andare da qualche parte, sono tutti costi: a carico di chi andranno? Chi paga?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Lo dovrebbe chiedere voglio dire a Regione Campania e Ministero.

BERNARDO IOVENE I rifiuti sono i vostri, non è che sono di qualcun altro. Siete voi! Sono i vostri.

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Io non sono disposto a mettere la mano sul fuoco dopo che hanno cambiato anche i piombi. Lei è convinto che sono i nostri? Io non lo so se sono i nostri rifiuti.

BERNARDO IOVENE Il paradosso di tutta questa storia è che alla fine a pagare saremo noi. Saremo noi cittadini a pagare tutta questa storia?

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Ma questo probabilmente sì, ma a mio avviso, per l'inerzia e per la mala gestione di una questione che poteva essere risolta dal primo momento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una volta che i tribunali di Salerno e Potenza stabiliranno le responsabilità e la quantificazione del danno, restano quelli da pagare in Tunisia. L’ambasciatore che a differenza della Regione Campania ci mette la faccia avverte…

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Noi abbiamo subìto un danno: due anni il 20% dello spazio di commerciali del porto di Sousse è stato bloccato. Lo Stato italiano è responsabile. Vogliamo dare un esempio, così, prima di esportare rifiuti illegalmente in Tunisia, illegalmente sottolineo, devono riflettere due volte prima di farlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto la Tunisia insiste perché l’Italia torni a riprendersi anche la seconda parte dei rifiuti e cioè i 69 containers rimasti nella ditta tunisina e che in parte sono stati bruciati.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA La priorità è il rimpatrio dei rifiuti, la seconda parte e dopo vedremo. BERNARDO IOVENE Lei è convinto che torneranno anche quelli?

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Sono convinto perché sì, sono convinto e spero fra poche settimane riusciremo anche a chiudere definitivamente questa vicenda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 900 tonnellate sono ancora là in Tunisia. L’ambasciatore che era così ottimista, col nostro Bernardo Iovene, da qualche giorno non lo è più perché la Regione Campania, non gli risponde più al telefono. Lo tratta come ha trattato noi di Report. Solo che noi siamo un’umile trasmissione del servizio pubblico, lui è il rappresentante di una nazione che ha subito anche un torto. C’è ora da pagare i danni, oltre 40 milioni di euro. Chi lo farà? La magistratura sta indagando, dovrà identificare il colpevole e perché c’è stato questo errore. È una inchiesta che è partita grazie al lavoro di un collega del Mattino, Pasquale Sorrentino e da quello di due colleghe del consorzio giornalistico IRPI. Grazie a loro. Viva il giornalismo di inchiesta. Poi, sul fatto di chi pagherà alla fine di tutto questo giro, noi purtroppo qualche sospetto già ce l’abbiamo.

La complicata relazione tra moda e chimica Marina Savarese su L'Indipendente il 12 dicembre 2022.

Moda e chimica, due mondi apparentemente distanti, hanno in realtà una relazione molto stretta, anche se a tratti conflittuale. Basta avvicinarsi alla scienza tessile per scoprire che la moda, senza la chimica, va da poche parti. È nei capi che s’indossano, nei cosmetici che vengono usati quotidianamente, negli elementi di arredo della casa, nei giocattoli… dappertutto. C’è, anche se non si vede, e la portiamo giornalmente con noi a contatto con l’organo più grande che abbiamo: la pelle.

L’uso di sostanze chimiche nel tessile è una pratica indispensabile per conferire ai tessuti determinate caratteristiche o qualità: si usano per ammorbidire, per lavare a fondo, per ottenere particolari tipi di colorazioni, per rendere le superfici idrorepellenti, dare stabilità termica o quel praticissimo effetto anti-macchia che salva da innumerevoli lavatrici. Nel corso degli anni le tecniche si sono affinate, la scienza ha fatto grandi passi in avanti e, grazie alla sperimentazione, si sono ottenuti notevoli progressi in molti processi per la realizzazione di questi trattamenti. Per questo, quando si parla di eco-design, non si può prescindere dal chemical management. I primi passi verso una gestione attenta delle sostanze chimiche si sono mossi negli anni 90, con la diffusione di certificazioni volontarie sulla sicurezza chimica dei capi come Oekotex ed Ecolabel. Ma è nel 2007 che è entrata in vigore la direttiva europea Reach (Registration, Evalutation, Authorisation of Chemicals), un regolamento che registra, valuta, autorizza e limita l’uso delle sostanze chimiche tossiche, andando a escludere quelle nocive per l’ambiente e per la salute durante tutte le fasi di produzione del prodotto, con il fine di garantire una maggior sicurezza per il cliente finale. In generale, tutti i prodotti realizzati al 100% in Europa, hanno un certificato REACH oppure sono dichiarati fuori legge. E fin qui tutto bene. 

Il problema sopraggiunge quando i prodotti o la materia prima sono importati dagli altri Paesi (con la delocalizzazione delle produzioni si fa presto a capire che questo è il caso in cui, fatta la regola, si trova subito il modo per aggirarla). Se un abito è realizzato con un tessuto importato dall’India, non c’è nessuna garanzia del rispetto dell’uso delle sostanze chimiche consentite, se non un’auto-certificazione dell’azienda stessa (praticamente bisogna andare sulla fiducia) o con test effettuati a campione (in maniera sporadica e assolutamente casuale). E non si parla solo dell’uso delle sostanze e della pericolosità per chi le maneggia quotidianamente, ma anche del loro smaltimento, che avviene spesso nei corsi d’acqua in modo non proprio pulito (in alcuni Paesi, per capire qual è il colore-tendenza dell’anno, basta affacciarsi a vedere di che nuance è il fiume che si trova vicino alle aziende tessili). La gestione dei processi chimici non è di per sé semplice, figuriamoci quando ci spostiamo in zone remote dove certi tipi di controlli o norme non esistono. Per ovviare a questo far west, nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox My Fashion, con la quale ha chiesto ai marchi di moda di sostituire i prodotti chimici inquinanti con altri più sicuri. Non ridurre, ma eliminare direttamente certe sostanze; disciplinandone lo smaltimento e impedendo il liberarsi in maniera selvaggia di elementi non biodegradabili che stanno causando danni all’intero ecosistema (l’esempio più noto sono i PFC perfluorocarburi – usati principalmente per l’idrorepellenza e l’impermeabilità – che una volta rilasciati nell’ambiente, possono restarvi per centinaia di anni).

La campagna ha ottenuto un notevole successo e oggi sono molte le imprese che elaborano e impongono ai propri fornitori specifiche RSL (Restricted Substances List), cioè liste di sostanze soggette a restrizioni, e crescono azioni collettive di soggetti industriali che condividono l’impegno per produzioni chimicamente più sicure (la più diffusa è la M-RSL Manufacturing Restricted Substances List di ZDHC, fondazione Zero Discharges of Hazardous Chemicals).

Con tutte queste accortezze e normative, possiamo quindi dormire sonni tranquilli comodamente avvolti nei nostri pigiami? Non ancora. Nonostante gli impegni e i passi in avanti di un sistema sempre più attento e capace di valutare ciò che usa, al momento disponiamo di un mosaico di normative provenienti da dozzine di paesi che stanno cercando di costruire uno standard di sicurezza chimica in maniera incoerente e disorganizzata. Un intricato mondo fatto di certificazioni private, conflitti d’interesse, giochi economici (chi paga le certificazioni? Chi impone ai produttori di andare veloce e gioca al ribasso con i prezzi impedendo di adeguarsi agli standard richiesti?), scarichi di responsabilità e informazioni nascoste ad arte (tanto che per il cliente finale è pressoché impossibile accedere a questi dati). Con il risultato che certe sostanze circolano ancora indisturbate (come da ultimo report di Greenpeace sul colosso Shein che “ha registrato quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”). 

La soluzione, come suggerito dal Report di Transformers Foundation, potrebbe stare in un’azione reazionaria, collaborativa e coesa. Che si crei uno standard unico, chiaro e adottato su larga scala, indipendentemente dal marchio o dal fornitore. Che si educhino reparti di design, spronandoli a lavorare gomito a gomito con chi ne sa di chimica e con i fornitori stessi, fornendo mezzi economici e tecnologici a questi ultimi per stare al passo con i tempi e spingerli a usare agenti chimici più sicuri. La legge, poi, dovrebbe garantire standard minimi uguali per tutti, controllando ciò che entra nel paese in maniera costante. Infine, fornire una lista delle sostanze presenti nei capi per permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli, sarebbe un gesto auspicabile per mettere la salute pubblica davanti ai profitti. 

Ma forse questa, più che chimica, è utopia…[di Marina Savarese]

Mercato del carbonio, come le aziende riescono a inquinare gratis. Simone Valeri su L'Indipendente il 2 dicembre 2022.

Negli ultimi nove anni, le grandi aziende dell’UE in prima linea nel rilascio di gas serra e di sostanze inquinanti hanno ricevuto dei ‘diritti ad inquinare’ per un valore complessivo pari a quasi 100 miliardi di euro. A denunciarlo il nuovo rapporto del WWF ‘Where did all the money go?’, il quale ha messo in evidenza un paradossale risultato del già ampiamente criticato mercato del carbonio. Il documento sottolinea un esito in totale controtendenza con il principio ‘chi inquina paga’ – uno dei principi cardine dell’Unione – perché chi inquina, pare proprio che possa continuare a farlo, indisturbatamente e anche a costo zero. Dal 2013 al 2021, il 53% delle emissioni incluse nel sistema di scambio di quote di carbonio dell’UE (ETS), è stato infatti rappresentato da queste concessioni gratuite. In teoria, i ricavi delle quote di carbonio delle aziende climalteranti dovrebbero finanziare la decarbonizzazione ma, in pratica – secondo le valutazioni dell’associazione ambientalista – meno del 58% dei proventi è finito in investimenti realmente utili per il clima.

Nel periodo considerato dall’analisi, appena il 47% di tutte le emissioni coperte dall’ETS sono state soggette a un prezzo del carbonio. Ciò significa che, mentre il costo medio sul

mercato era di 14,02 euro per tonnellata di anidride carbonica (CO2) emessa, il prezzo reale pagato dalle industrie, tenendo conto delle quote gratuite, è stato di soli 6,58 euro. Questi ‘diritti ad inquinare’ rappresentano delle quote di emissioni che vengono distribuite tra le aziende produttrici, dove una quota allocata corrisponde all’autorizzazione ad emettere una tonnellata equivalente di CO2. La logica del meccanismo vorrebbe che le aziende più inquinanti fossero penalizzate, in quanto costrette a comprare sul mercato nuove quote di emissioni, a loro volta cedute dalle aziende meno impattanti che non hanno consumato invece tutti i loro ‘diritti ad inquinare’. Secondo il WWF, poiché consegnate a beneficio di settori ad alto impatto energetico, la distribuzione di queste concessioni è avvenuta però in modo illogico.

Le grandi aziende inquinanti hanno infatti ricevuto, per la precisione, 98,5 miliardi di euro in quote gratuite, un valore superiore a quanto i principali responsabili della crisi climatica abbiano dovuto spendere per acquistare ulteriori quote. Tra l’altro, i ‘diritti ad inquinare’ sarebbero stati concessi senza vincoli o condizioni dal punto di vista climatico, così, alcuni colossi energetici, avendo a disposizione troppe quote di emissione gratuite, hanno persino potuto rivenderne una parte guadagnando miliardi di euro. «Questa analisi – ha commentato Romain Laugier del WWF, tra i principali autori del rapporto – dimostra che nell’ultimo decennio il sistema ETS si è basato sul principio ‘chi inquina non paga’, con miliardi e miliardi di entrate perse che i Paesi dell’UE avrebbero invece potuto investire nella decarbonizzazione industriale». In definitiva, il suggerimento avanzato per Bruxelles è quello di eliminare gradualmente, ma il prima possibile, le quote gratuite e, nel mentre, assicurarsi che le aziende che le ricevono rispettino condizioni rigorose per la riduzione delle loro emissioni.[di Simone Valeri]

Non solo glifosato: gli altri pesticidi non testati approvati in Europa. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 2 dicembre 2022.

Il 30% di tutti i pesticidi autorizzati all’interno dell’Unione Europea è approvato "per estensione", ovverosia viene riapprovato senza una nuova valutazione finale del relativo rischio: è quanto denunciato da foodwatch, un’organizzazione che si batte per la sicurezza dei prodotti alimentari, sulla base di una sua recente ricerca. Da quest’ultima, nello specifico, è emerso che nonostante l’autorizzazione per 135 pesticidi su un totale di 455 attualmente approvati nell’UE sia "effettivamente scaduta", essa è stata "rinnovata più e più volte per anni" senza che l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) mettesse in campo una nuova valutazione sulla sicurezza degli stessi.

Un problema, quello appena citato, certamente non di poco conto, visto che come sottolineato dall’organizzazione tra i 135 pesticidi riapprovati alcuni sono "molto utilizzati". Tra questi c’è ad esempio il Flufenacet, un "erbicida i cui metaboliti contaminano le falde acquifere" e "la cui autorizzazione era già scaduta nel 2012", ma non solo. Anche l’approvazione della "neurotossica" deltametrina – un insetticida – è stata "prorogata ripetutamente dal 2013, pur essendo l’insetticida stato etichettato dall’UE come un cosiddetto ‘candidato alla sostituzione’, il che significa che dovrebbe effettivamente avere un periodo di approvazione più breve a causa dei suoi particolari effetti pericolosi". Sostanze a quanto pare da usare con le pinze, dunque, ma nonostante ciò di fatto riapprovate a cuor leggero, tramite un meccanismo che non può che portare ad ipotizzare che pesticidi non dotati dei necessari requisiti di sicurezza siano continuati ad essere utilizzati. Un’ipotesi, del resto, non del tutto infondata: basterà ricordare il caso dell’insetticida Phosmet, la cui autorizzazione come sottolineato da foodwatch sarebbe dovuta scadere il 30 settembre 2017 ma è stata prorogata per 5 anni. Tuttavia a novembre 2022, dopo che l’EFSA ha definito un rischio elevato quello legato al Phosmet – descrivendolo in alcuni casi come "inaccettabile" – l’insetticida è stato vietato: nel mentre, però, è dunque stato utilizzato nonostante non fosse sicuro.

Da ricordare, poi, il fatto che tale opinabile meccanismo riguarda anche l’erbicida glifosato: come infatti precisato da foodwatch, recentemente la Commissione UE ha "annunciato di voler prolungare l’uso del glifosato fino a dicembre 2023, nonostante il parere finale dell’EFSA sul controverso pesticida sia previsto non prima del prossimo anno". Un dettaglio, quest’ultimo, che non può che generare dubbi e perplessità, essendo il glifosato un erbicida molto discusso: basterà ricordare che – come rivelato da un’indagine della ONG Générations Futures – il rapporto di valutazione sulla sicurezza del glifosato, firmato da quattro Stati membri dell’UE, è stato condotto ignorando oltre il 90% degli studi scientifici disponibili sul tema.

Insomma, il prolungamento dell’autorizzazione del glifosato – che si vorrebbe effettuare senza avere alle spalle la valutazione finale dell’EFSA – non può che catturare l’attenzione. Tuttavia, come sottolineato da foodwatch la situazione relativa al glifosato rappresenta solo la "punta dell’iceberg". Il problema, come visto, è infatti molto più esteso di quanto si possa pensare, con una consistente parte dei pesticidi autorizzati nell’Unione Europea che viene riapprovata senza una nuova valutazione finale del rischio. È per questo, quindi, che l’organizzazione chiede che venga effettuata una riforma completa dell’attuale prassi autorizzativa dell’UE, concentrandosi tra l’altro su delle tasse di autorizzazione più elevate per i produttori di pesticidi in modo che le autorità dell’UE possano "condurre la valutazione del rischio in tempo" e sul ritiro dal mercato immediato di "tutti i pesticidi non valutati dall’EFSA secondo le regole di valutazione del rischio stabilite dal Regolamento CE 1107/2009″. Inoltre, l’UE dovrebbe definire una "strategia di uscita dai pesticidi coerente ed efficace", con l’obiettivo di avere un’agricoltura priva degli stessi entro il 2035: al momento, però, le premesse non sembrano delle migliori. [di Raffaele De Luca]

Domani la popolazione sulla Terra raggiungerà gli 8 miliardi di persone. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 14 novembre 2022.

Secondo una proiezione delle Nazioni Unite domani 15 novembre il numero di esseri umani presenti sulla Terra toccherà per la prima volta quota 8 miliardi, un miliardo in più rispetto a dodici anni fa. Un numero troppo grande per essere compreso e rapportato alla realtà, ma non così impossibile da credere se si pensa che “nel tempo che impieghi a leggere queste due righe, la popolazione mondiale è cresciuta di circa 20 persone”, per citare l’esempio utilizzato dall’Australian Broadcasting Corporation, la principale emittente radiotelevisiva australiana.

Certo, quella dell’ONU è sicuramente una data simbolica, seppur frutto di sue precise proiezioni – è impossibile stabilire il momento esatto in cui diventeremo 8 miliardi. Ma è, al di là di tutto, l’emblema dei progressi che la medicina e la scienza hanno fatto negli ultimi anni. La maggior parte delle persone vive meglio e più a lungo e la velocità con cui i bambini vengono al mondo ci pare sia aumentata vorticosamente. Su quest’ultimo punto però le cose stanno diversamente. Il tasso di fertilità negli ultimi anni è piuttosto basso: se non ce ne accorgiamo subito è perché le conseguenze diventano più visibili dopo alcuni anni. È il caso dell’India, ad esempio, paese abitato da un’alta percentuale di “giovani”: le previsioni dicono che, nonostante questo, la popolazione raggiungerà il picco di 1,6 miliardi nel 2049 e scenderà a 1,1 miliardi entro il 2100. La maggior parte della crescita della popolazione si concentrerà invece soprattutto in alcune zone dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia – come Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania – dove l’accesso ai contraccettivi è ancora fortemente limitato, così come il rispetto dei diritti delle donne.

Molte di loro sono costrette ad accettare matrimoni precoci, o a lasciare la scuola per dedicarsi alla famiglia. L’accesso all’aborto è praticamente impensabile, anche in caso di stupro o malformazione del feto. È qui, dove in generale mancano istruzione e diritti che il tasso di fertilità rimane molto più alto della media. Un calo demografico sta investendo invece la Cina, paese che ha notoriamente combattuto per anni, con leggi specifiche, la sovrappopolazione (vedi politica del figlio unico). Le stime dicono che i residenti potrebbero arrivare a circa 730 milioni (dimezzandosi) entro il 2100. Un dato allarmante, soprattutto se si pensa che in molti paesi, ad esempio, il sistema pensionistico sta in piedi grazie alle persone che si trovano in età lavorativa. In un paese dominato da “anziani” possono esserci per questo molte più difficoltà finanziarie. 

Ed è così che dovrebbe andare. I dati dimostrano che, se la popolazione mondiale ha impiegato 12 anni per passare da 7 a 8 miliardi, per raggiungere i 9 miliardi impiegherà 15 anni (nel 2037). Nel periodo tra il 2020 e il 2021, ad esempio, la popolazione mondiale è cresciuta meno dell’1%. Non accadeva dal 1950. Secondo le Nazioni Unite potremmo arrivare a sfiorare i 10 miliardi nel 2050, con un picco di 10,4 miliardi di persone nel 2080. Una cifra che dovrebbe rimanere invariata fino al 2100.

Tuttavia, a prescindere dai numeri, usando le parole di Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, «se non colmiamo l’abisso tra chi ha e chi non ha, ci troveremo davanti un mondo forte di 8 miliardi di persone dominato da tensioni, sfiducia, crisi e conflitti». Il divario tra ricchi e poveri è infatti ancora molto ampio e causa già decine di conflitti. Basti pensare che l’1% più ricco intasca un quinto del reddito mondiale e che i cittadini dei paesi più ricchi hanno un’aspettativa di vita più lunga di 30 anni rispetto a quelli dei più poveri. «Man mano che il mondo è diventato più ricco e più sano, anche queste disuguaglianze sono cresciute» e tutta un’altra serie di questioni (come il riscaldamento globale) «stanno innescando rabbia e risentimento contro i paesi sviluppati», ha ribadito Guterres.

Guterres ha ragione. Vivere in un pianeta abitato da 8 miliardi di persone ha – non poche – conseguenze e comporta delle responsabilità collettive. Prima di tutto nei confronti del pianeta stesso: la nostra crescita influenza lo sviluppo delle altre specie, per diversi motivi. Tra cui lo spazio e il nutrimento. In un articolo pubblicato su New Scientist si legge che “tre quarti di tutta la terraferma e due terzi degli oceani sono già stati significativamente alterati dalle persone”. Questo perché chiediamo dal pianeta molto più di quanto ci possa dare. Uno studio del 2020 ha calcolato che il nostro attuale sistema alimentare può nutrire in modo sostenibile “solo” 3,4 miliardi di persone. Significa che dare da mangiare alle restanti equivale a sfruttare la Terra più di quanto potrebbe. L’unica soluzione a disposizione è il cambiamento dei metodi produttivi, a cominciare dal cibo.

In generale sappiamo che le comunità più vulnerabili saranno le più colpite, in un modo o nell’altro, perché come ha detto la demografa Elin Charles-Edwards «se sei ricco, sei in grado di adattarti e trovare un’alternativa», ma se non lo sei devi convivere e sopravvivere alla realtà. [di Gloria Ferrari]

DAGONEWS il 19 novembre 2022.

Otto miliardi di esseri umani sono troppi per il pianeta Terra? Il 15 novembre abbiamo raggiunto questo numero e in tanti si stanno chiedendo quanto sia sostenibile per il pianeta. Ma per la maggior parte degli esperti il problema non è il numero, ma il consumo eccessivo di risorse da parte dei ricchi 

«Otto miliardi di persone, è una pietra miliare per l'umanità - ha affermato Natalia Kanem, capo del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione - Tuttavia, mi rendo conto che questo momento potrebbe non essere celebrato da tutti. Alcuni esprimono preoccupazione per il fatto che il nostro mondo sia sovrappopolato. Sono qui per dire chiaramente che il numero di vite umane non è motivo di paura».

Quindi siamo troppi?

Molti esperti dicono che la domanda è sbagliata. Invece della paura della sovrappopolazione, dovremmo concentrarci sul consumo eccessivo delle risorse del pianeta da parte dei più ricchi. «Troppi per chi, troppi per cosa? Se mi chiedi, ti dico non credo» ha detto all'AFP Joel Cohen del Laboratory of Populations della Rockefeller University.

Le nostre scelte fanno sì che gli esseri umani consumino molte più risorse, come foreste e terra, di quante il pianeta possa rigenerare ogni anno. Il consumo eccessivo di combustibili fossili, ad esempio, porta a maggiori emissioni di anidride carbonica, responsabili del riscaldamento globale. Avremmo bisogno della capacità di 1,75 Terre per soddisfare in modo sostenibile i bisogni della popolazione, secondo il Global Footprint Network e le ONG del WWF.

«Siamo stupidi. Ci manca la lungimiranza. Siamo avidi. Non usiamo le informazioni che abbiamo. Ecco dove risiedono le scelte e i problemi» ha detto Cohen. 

«Il nostro impatto sul pianeta è influenzato molto più dal nostro comportamento che dai nostri numeri - ha affermato Jennifer Sciubba, ricercatrice del Wilson Center, un think tank.

Sono l'aria condizionata che mi piace, la piscina che ho fuori e la carne che mangio che causano molti più danni». Se tutti sul pianeta vivessero come cittadini indiani, avremmo bisogno solo della capacità di 0,8 Terre all'anno, secondo il Global Footprint Network e il WWF. Se consumassimo tutti come residenti negli Stati Uniti, avremmo bisogno di cinque Terre all'anno. Le Nazioni Unite stimano che il nostro pianeta ospiterà 9,7 miliardi di persone entro il 2050.

Clima, nessun Paese sta rispettando i target per 1,5 gradi e l'Italia sta messa peggio degli altri. Luca Fraioli su La Repubblica il 14 Novembre 2022.

Il Climate Change Performance Index 2023 presentato a Cop27 registra lo stallo del nostro Paese nel mantenere gli impegni al 2030 per frenare la crisi climatica. Pesano il "rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l'emergenza"

SHARM EL-SHEIKH. Quali Paesi stanno rispettando i loro impegni climatici? Nessuno, tantomeno l'Italia, che si ferma a un mediocre 29esimo posto nella speciale classifica sulle performance climatiche dei governi. Il podio anche quest'anno è rimasto desolatamente deserto: nessuno tra gli Stati presi in considerazione ha infatti raggiunto gli obiettivi necessari a fronteggiare il riscaldamento globale e a contenere l'aumento della temperatura media entro la soglia critica di 1,5°C a fine secolo. Brillano però Danimarca e Svezia, rispettivamente al quarto e al quinto posto, e sorprendono non poco Cile, Marocco e India, che occupano dalla sesta all'ottava posizione. 

Lo scenario è quello disegnato questa mattina, nella sala Luxor di Cop27 a Sharm El Sheikh, dalla presentazione del Climate Change Performance Index 2023, rapporto redatto da Germanwatch, l'organizzazione non governativa con sede a Bonn che dal 1991 monitora le politiche pubbliche sull'ambiente, in collaborazione con Climate Action Network, NewClimate Institute e con Legambiente per l'Italia. L'analisi prende in considerazione 59 nazioni, più l'Unione europea nel suo complesso, rappresentanti il 90% delle emissioni climalteranti del Pianeta. Le performance hanno come parametro di riferimento gli obiettivi dell'Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030 e vengono misurate attraverso il un indice basato per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Questo spiega lo stallo dell'Italia, che rispetto all'edizione dello scorso anno del rapporto scala una solo posizione (dalla 30esima alla 29esima, appunto) e non si schioda dal centro-classifica. A pesare, si legge nel rapporto, "sono principalmente il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l'emergenza". 

"Serve una drastica inversione di rotta", conferma Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. "Si deve aggiornare al più presto il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l'obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030". In effetti, il Pniec nella sua versione attuale consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030. "Ma va anche confermato il phase-out del carbone entro il 2025", continua Ciafani, "senza ricorrere a nuove centrali a gas. L'Italia può centrare l'obiettivo climatico del 65%, soprattutto grazie al contributo delle rinnovabili, ma deve velocizzare sia gli interminabili iter di autorizzazione dei grandi impianti industriali alimentati dalle fonti pulite sia quelli delle comunità energetiche, causati soprattutto dai conflitti tra ministero dell'Ambiente e della Cultura e dalle inadempienze delle Regioni". 

Tra i Paesi del G20, che si ritroveranno a Bali da domani per parlare anche di clima, solo India (ottavo posto), Regno Unito (undicesimo) e Germania (sedicesimo) si posizionano nella parte alta della classifica, mentre l'Unione Europea sale di tre gradini rispetto allo scorso anno, raggiungendo il 19° posto grazie a nove Paesi posizionati nella parte alta della classifica, frenata però dalle pessime performance di Ungheria e Polonia che continuano a essere fanalino di coda.

La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51esimo posto perdendo ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno: nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo. Un gradino più in basso, al 52° posto, si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale che però guadagna tre posizioni rispetto allo scorso anno: un risultato attribuibile alla nuova politica climatica ed energetica dell'Amministrazione Biden.

Agli ultimi tre posti della classifica, tre Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili: Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.

L’Italia spende ancora milioni di euro per sovvenzionare gli allevamenti intensivi. Francesca Naima su  L'Indipendente il 16 novembre 2022.

In Italia i soldi pubblici stanziati in nome della sicurezza alimentare vengono investiti anche a favore degli allevamenti intensivi che oltre a causare ingente inquinamento e a non assicurare il benessere animale, rappresentano luoghi ideali per il proliferare di virus. A fare luce sui finanziamenti indirizzati a grandi realtà che compromettono gli equilibri naturali è una recente inchiesta di Greenpeace Italia. La mappa degli allevamenti diffusa dall’ONG conferma altresì la pianura Padana come “Zona rossa” in quanto supera la metà del totale italiano sia per la quantità di allevamenti presenti che per le emissioni degli ultimi, ed è in prima posizione denaro pubblico ricevuto.

L’ONG ha preso in esame i maggiori emettitori italiani di ammoniaca nel 2020, risalendo in tutto a 894 siti appartenenti a 722 aziende, gli stessi che hanno incassato un totale di 32 milioni di euro nello stesso anno. Ciò significa che delle 722 aziende, nove su dieci hanno ricevuto circa 50mila euro a testa direttamente dai fondi pubblici della PAC (Politica agricola comune europea) creata per tutt’altro fine, perché su carta «Sostiene gli agricoltori e garantisce la sicurezza alimentare dell’Europa». Greenpeace ha scavato a fondo sui sostegni della PAC, trovandosi faccia a faccia con una spinosa realtà. Proprio negli ultimi anni di osannata urgenza di transizione ecologica, i sussidi indirizzati agli allevamenti intensivi sono addirittura aumentati.

Nel 2015 “solo” il 67 per cento delle aziende italiane a cui appartengono le strutture inserite nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti riceveva i finanziamenti della Politica agricola comune. Nel 2020 invece, i sussidi sono stati oltremodo generosi e ne hanno beneficiato l’85,5 per cento delle imprese incluse nel registro, le 722 poc’anzi nominate. La mappa diffusa dall’ONG basata sul Registro Europeo include però le strutture più grandi perché molti degli allevamenti emettitori di ammoniaca sfuggono al monitoraggio. E comunque dalla mappa risulta chiaro come a detenere un triste record tanto per il numero di allevamenti che per le emissioni dagli ultimi causate, siano realtà perlopiù situate nella pianura Padana. Solo in Lombardia esistono 462 allevamenti (sempre considerando i registrati) responsabili di 11.600 tonnellate di ammoniaca emesse eppure “premiati” con quasi 17 milioni di euro, circa il 53 per cento del totale dei sussidi PAC erogati nel 2020 mentre nello stesso anno, ad altre regioni italiane sono stati indirizzati 3 milioni di euro ciascuna.

Ciò che denuncia Greenpeace è quindi un vero e proprio nonsenso, perché la stessa Italia finanzia con soldi pubblici ciò che in Europa genera il 17,5 per cento di PM2,5, particolari polveri sottili tanto fine da entrare nel sangue attraverso i polmoni. La dannosità su più fronti degli allevamenti intensivi è stata denunciata da tempo ormai, ma focalizzandosi solo sul versante inquinamento viene alla luce come essi abbassino sensibilmente la qualità dell’aria e di conseguenza l’aspettativa di vita. Superano le emissioni di polveri sottili solo gli impianti di riscaldamento (con il 37 per cento di PM2,5).

Il contributo degli allevamenti intensivi all’inquinamento atmosferico si spiega perché nei rifiuti zootecnici si trovano ingenti quantità di ammoniaca (NH3), gas che si combina con gli ossidi di azoto e di zolfo una volta liberato nell’atmosfera, generando così le polveri sottili. Ciononostante nel 2020 è stato possibile registrare solo il 7,5 per cento delle emissioni italiane di NH3 che provengono dalla zootecnia (circa 20mila tonnellate). Il restante 92 per cento rimane senza colpevoli, proprio perché non monitorato e assente dal Registro. «Una lacuna che potrebbe essere colmata, come previsto dalla proposta della Commissione Ue di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali», sottolinea Greepeace.

Mentre vengono a galla sempre più incoerenze, piccole realtà ecologiche sulle quali varrebbe la pena investire sono state costrette a chiudere i battenti (basti pensare che tra il 2004 e il 2016 sono circa 320mila le aziende agricole minori fallite) e intanto gli allevamenti intensivi causa di inquinamento, avvelenamento dell’aria con polveri fini quali le PM2.5, che sfruttano impropriamente risorse preziose e costringono gli animali a vivere in condizioni indicibili – creando inoltre ambienti rischiosi a livello sanitario – vengono sostenuti con soldi pubblici teoricamente resi disponibili per tutt’altri obiettivi, tra i quali aiutare le aziende «Ad affrontare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali». Certo però non deve essere facile evitare di sostenere economicamente aziende molto affermate. Molte delle 722 nell’elenco sono infatti legate a giganti quali Veronesi SpA (la holding di Aia e Negroni) oppure fanno parte di gruppi finanziari come Generali o di realtà ben affermate nella zootecnia come il gruppo Cascone. I cittadini possono comunque agire appoggiando iniziative per chiedere al governo di agire contro gli allevamenti intensivi, come la raccolta firme indetta dalla stessa Greenpeace.

[di Francesca Naima]

Miliardari e jet privati. Elon Musk, Jeff Bezos, Bill Gates: i paladini dell’ambiente che inquinano di più.  Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.

I cittadini sono sempre più scoraggiati a utilizzare l’automobile nei centri urbani. A oggi in Europa sono oltre 320 (diventeranno 507 nel 2025) le città che hanno introdotto low emission zones, zone in cui non solo è proibito guidare auto inquinanti, ma spesso è anche prevista una tassa ecologica per tutte le altre vetture, eccettuate quelle elettriche. Ma perché per entrare nel centro di Milano e Londra bisogna pagare un’ecotassa (da 5 a 27 euro), mentre chi si sposta con l’aereo privato che inquina enormemente di più non paga nulla?

In un’ora 2 tonnellate di CO2

In appena un’ora, un jet privato produce in media 2 tonnellate di CO2, ovvero un quarto delle emissioni di un cittadino europeo in un anno (8,2 tCO2eq). Per esempio, il Cessna Citation Excel (velivolo leggero lungo 16 metri con un’autonomia di 2.700 km che può ospitare fino a otto persone), uno dei più venduti in Occidente, per ogni km percorso produce 1,7 kg di CO2. Il Beechcraft King Air 200, altro jet molto richiesto in Europa, può ospitare fino a sei passeggeri e ha un’autonomia più breve, 1.900 km: per ogni km emette 1,1 kg di CO2. Vuol dire che questi aerei sono da 5 a 14 volte più inquinanti di quelli commerciali e 50 volte più dei treni: e oltretutto trasportano pochissimi passeggeri, a volte anche uno solo.

I grandi inquinatori

La sproporzione dell’inquinamento prodotto dai jet privati ha sollevato l’indignazione degli attivisti che sui social hanno lanciato account di «flight-tracking», ovvero pagine in cui tracciano le rotte dei jet privati e ne denunciano gli effetti sul clima. Il più efficace è stato l’americano Jack Sweeney che utilizzando i dati pubblici dei transponder (codici che contraddistinguono un aereo) ha aperto una quindicina di account per seguire quotidianamente i viaggi dei miliardari americani e delle star dello spettacolo. Tra i più celebri ci sono @CelebJets, @ElonJet, @BezosJets e @GatesJets, gli ultimi tre dedicati agli itinerari degli uomini più ricchi d’America, Elon Musk, Jeff Bezos e Bill Gates, che si professano convinti ambientalisti. Analizzando i dati presentati da Sweeney, il sito dell’emittente France Info ha stilato la classifica dei 10 jet più inquinanti nei primi 8 mesi del 2022. Al primo posto ci sono i due Gulfstream G650 di Bill Gates, aerei con un’autonomia di 13.900 km che possono ospitare fino a 18 persone: in meno di 8 mesi hanno prodotto 3.210 tonnellate di CO2. Già nel 2018 il fondatore di Microsoft era stato indicato in uno studio dell’Università di Lund (Svezia) come la star globetrotter con la peggiore impronta di carbonio. Alle spalle di Gates ci sono i jet del musicista J-Z (1.915 tonnellate di CO2), del miliardario Jeff Bezos (1.787 tonnellate), dell’influencer Kim Kardashian (1.700), del rapper Drake (1.379) e del fondatore di Tesla Elon Musk (1.223). S’aggiungono i 52 voli (14 transatlantici) effettuati dal calciatore Leo Messi tra il primo giugno e il 31 agosto (1.502 tonnellate di anidride carbonica) e i 28 viaggi tra il 20 agosto e il 15 ottobre di Mark Zuckerberg, altro paladino dell’ambiente che con il suo Gulfstream G650 ha prodotto oltre 253 tonnellate di CO2. Perché prendere il jet privato per viaggi brevissimi che potrebbero comodamente essere fatti con altri mezzi meno inquinanti? Ad agosto l’influencer Kylie Jenner ha volato per 17 minuti con il suo Bombardier BD 700 per andare da Los Angeles alla vicina Camarillo (distanza 60 km) emettendo una tonnellata di CO2. A luglio è stata la volta del rapper Drake che per trasferirsi da Toronto a Hamilton in Canada ha scelto un volo privato di 14 minuti. Nello stesso mese la star di Hollywood Mark Wahlberg ha impiegato 23 minuti per trasferirsi da Dublino a Shannon e giocare una partita di golf nel resort Adare Manor. Ma il record di volo lampo va all’ex campione del mondo di pugilato Floyd Mayweather che in dieci minuti ha raggiunto Las Vegas dalla vicina Henderson emettendo una tonnellata di CO2.

Numeri record

Ci sono numeri che devono fare riflettere. Nel 2021 l’industria dei jet privati ha toccato il record di 3,3 milioni di voli, +7% rispetto al 2019, anno in cui si era registrato il precedente primato. Le cifre più alte negli Usa, Paese che conta una flotta di 21.900 aerei d’affari, di cui oltre 13 mila jet disponibili sul mercato (dati 2019). In tutto i voli sono stati 2,3 milioni: nel solo periodo natalizio (dal 20 dicembre al 2 gennaio 2022) sono state segnalate 127 mila partenze di jet Oltreoceano (+41% in più rispetto allo stesso periodo di due anni prima). In Europa i movimenti di aerei privati (arrivi, partenze e sorvoli) negli aeroporti sono stati 728.008 (+5% rispetto al 2019, QUI il documento). Di questi, 111.985 sono voli da e verso l’Italia (+9% rispetto al 2019). Per l’anno in corso si prevede un’ulteriore impennata. Nei primi 9 mesi del 2022 i movimenti negli scali europei sono stati 814.043 (+26% rispetto al 2021, QUI il documento).

Gli aeroporti più trafficati in Europa

In Europa circolano 3.930 jet privati, di cui 194 di base negli scali italiani (solo 133 sono registrati fiscalmente nel nostro Paese). L’aeroporto che ha attirato i maggiori movimenti è Paris Le Bourget (48.421), seguito da Nizza-Costa Azzurra (36.234) e Ginevra (31.823). Nella top 30 ci sono tre scali italiani: Linate (sesto con 20.444 movimenti), Ciampino (decimo con 15.592) e Olbia-Costa Smeralda (ventunesimo con 11.855). Sette delle 10 rotte più inquinanti percorse da velivoli privati in Europa si trovano sull’asse Regno Unito-Francia-Svizzera-Italia (QUI il documento): i Paesi che producono più CO2 con i jet privati sono Regno Unito (425.499 tonnellate, 19,2% del totale), Francia (365.630 tonnellate, 16,5%) e Italia (227.653 tonnellate, 10,2%).

Tratte brevi e verso luoghi di vacanza

Per giustificare l’intenso utilizzo, miliardari e imprenditori affermano che i jet privati permettono di raggiungere luoghi che non sono serviti da rotte commerciali e di risparmiare tanto tempo. In realtà, il 70% dei voli effettuati con i jet sono tra città europee, la maggior parte ben servite dai mezzi di trasporto. Il 50% di questi viaggi copre distanze inferiori a 500 km tra cui due delle tre tratte più trafficate del 2021: Ginevra-Paris Le Bourget (3.241 voli), Paris Le Bourget-Nizza-Costa Azzurra (2.586) e Roma Ciampino-Milano Linate (1.836). Le tratte brevi inquinano molto per il maggiore consumo di cherosene in decollo e atterraggio rispetto alla fase di crociera. I jet potrebbero essere sostituiti quasi sempre con un’opzione meno inquinante, con un tempo extra di poco più di due ore. Il caso più eclatante è il collegamento Ginevra-Parigi, il più frequentato in Europa. La tratta di 409 km potrebbe essere percorsa in treno con 2 ore e 22 minuti in più rispetto al jet, ma evitando di emettere 6,9 tonnellate di CO2. Per il collegamento Milano-Roma basterebbe appena un’ora e 11 minuti in più e si risparmierebbero 3,8 tonnellate di CO2. Infine, il traffico aumenta in maniera evidente durante i periodi estivi e verso località di vacanza, dunque non ha nulla a che fare con le attività di business degli imprenditori.

Tasse e cambiamenti

L’unico Paese europeo ad aver approvato una vera tassa sui jet privati per ogni viaggio è la Svizzera: la «Swiss Private Flight Levy» varia da 500 a 3mila euro a seconda del peso massimo al decollo (MTOW). La norma, però, è attualmente sospesa dopo che gli elettori elvetici hanno bocciato la revisione della legge sulla CO2 in un referendum nazionale del 2021. In Italia su ogni volo privato si paga da 10 euro per le tratte che non superano i 100 km a 200 euro per le tratte oltre i 1.500 km. Tuttavia, qualcosa sta cambiando soprattutto in Francia. A Parigi l’attivismo degli ecologisti ha spinto Bernard Arnauld, il secondo uomo più ricco del mondo, a vendere il suo Bombardier Global Express (valore stimato 60 milioni di euro) per sfuggire ai radar su Twitter. Il ministro della Transizione Ecologica Christophe Béchu ha annunciato che dal 2023 saranno applicate tasse molto più alte. Non è detto che una riforma del genere spinga miliardari e super-ricchi ad essere più sostenibili, ma almeno si troveranno nuove risorse da destinare all’ambiente.

In questi giorni si tiene in Egitto la Conferenza Onu sul cambiamento climatico Cop27. L’auspicio è che all’aeroporto di Sharm El Sheikh non si riproduca il traffico di jet privati di leader e delegati visto l’anno scorso alla Conferenza di Glasgow.

Come la crisi climatica è diventata una questione di (tanti) soldi. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani l’08 novembre 2022

Quando è stata firmata la convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici (1992) e sono iniziate tre anni dopo le conferenze sul clima (Berlino 1995) i cambiamenti climatici erano una minaccia futura, da evitare e prevenire.

Quasi trent'anni dopo, è diventata una crisi globale da declinare al presente: è per questo motivo che il tema è progressivamente passato da come prevenirli a come affrontarli. E come affrontarli è un problema di risorse finanziarie.

È per questo motivo che a COP27 si parla di soldi molto più che di transizione dei sistemi energetici, dei trasporti, dell'industria del cibo. La giustizia climatica è giustizia finanziaria: la questione morale del clima funziona così. Senza giustizia finanziaria non ci sono diritti umani. La linea dell'acqua che sale si governa così.

Quando è stata firmata la convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici (1992) e sono iniziate tre anni dopo le conferenze sul clima (Berlino 1995) i cambiamenti climatici erano una minaccia futura, da evitare e prevenire. Quasi trent'anni dopo, è diventata una crisi globale da declinare al presente: è per questo motivo che il tema è progressivamente passato da come prevenirli a come affrontarli. E come affrontarli è un problema di risorse finanziarie.

È per questo motivo che a COP27 si parla di soldi molto più che di transizione dei sistemi energetici, dei trasporti, dell'industria del cibo. La giustizia climatica è giustizia finanziaria: la questione morale del clima funziona così. Senza giustizia finanziaria non ci sono diritti umani. La linea dell'acqua che sale si governa così.

NARRATIVA

C'è una rivolta - sempre meno sotto traccia - contro le grandi istituzioni finanziarie. È un cambio di narrativa, era chiaro già nelle parole della premier di Barbados Mia Mottley: se a Glasgow l'avversario erano le multinazionali dei combustibili fossili, qui sono istituzioni «inaccessibili, ostili e oppressive» come Fondo monetario internazionale o Banca mondiale. Sono parole di Eddie Perez, responsabile diplomazia climatica di Climate Action Network, che ha dato carne e sostanza al patto climatico di solidarietà invocato ieri dal segretario generale delle Nazioni Unite Guterres: «I conti della crisi climatica sono salati, qui cerchiamo speranza per salvare vite, ospedali, case e turismo, servono soldi per farlo». Quanti e da chi è il tema di questa COP.

La storia che ha cambiato definitivamente la narrativa sul loss and damage, «il conto salato e presente della crisi», è quella del Pakistan devastato dal monsone poco più di un mese fa: milioni di sfollati e miliardi di dollari di danni e perdite.

Tutto questo accade al presente e deve essere risolto al presente. Non c'è più niente di remoto o futuro nella crisi climatica. Tra Glasgow e Sharm sono cambiati i tempi verbali del clima, non più «cosa sarà» ma «cosa è». Perez ha spiegato che non ci sarà nessun testo finale concordato qui a COP27 se non ci sarà un accordo per moltiplicare i flussi finanziari e cambiarne la natura - slegandoli il più possibile dal debito ed «evitando che diventino sussidi per l'industria assicurativa del nord del mondo». E non ci sarà accordo senza una struttura che diventi in grado di erogare fondi per loss and damage già dal 2024. Il tema è entrato in agenda per la prima volta nella storia di una COP, con una deadline fissata tra due anni.

Come ci si arriva? Secondo Nafkote Dabi, policy lead di Oxfam, non si può arrivare a rispettare quella deadline se la struttura e il meccanismo non vengono messi a punto già in questa COP, con delle funzioni precise e specifiche su come raccogliere e come indirizzare i fondi.

A COP28, il prossimo anno, questa struttura deve aver individuato anche un flusso di consegna dei fondi.A COP29 deve essere finalizzata e pienamente operativa.

Se non avranno questo tipo di rassicurazioni ufficiali, i rappresentanti politici del blocco di oltre 130 paesi in via di sviluppo faranno saltare tutto il processo già da Sharm El Sheikh.

IL SIMBOLO TOSSICO

Si respira una forte insofferenza politica in questa COP27, un'atmosfera dove la rabbia ha preso il posto della speranza che si respirava a Glasgow. Il feticcio e l'oggetto simbolo di questa rabbia sono i 100 miliardi l'anno di aiuti promessi già dal 2009 (COP15) da Stati Uniti, Europa, Australia, Canada, Giappone ai paesi in via di sviluppo. Sono arrivati molto lentamente, praticamente sgocciolando, mai del tutto, «come beneficenza» e sotto forma di prestiti. Ormai sono considerati una distrazione tossica, non solo perché mancano ancora 17 miliardi a questa colletta, ma perché la colletta in sé è del tutto insufficiente per un problema che nel frattempo è arrivato alla scala dei triliardi, 2mila miliardi di dollari all'anno già dal 2030, secondo uno studio commissionato dai governi britannico e dell'Egitto e presentato qui.

È con questo che ci stiamo confrontando.

E questi dati offrono una prospettiva diversa anche al risalto dato dal governo italiano al fondo italiano per il clima, che triplica gli investimenti, è vero, ma da una base insufficiente e rimanendo lontanissimo non solo alla scala necessaria per recuperare fiducia tra i blocchi ma anche rispetto alle promesse fatte in passato. 

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È inoltre autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

Altro che indennizzi: che cosa chiedono davvero i Paesi emergenti alla Conferenza sul clima. Federico Rampini su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

«Carbonizzare per poi decarbonizzare»: l’approccio alla questione del cambiamento climatico dei Paesi emergenti punta su uno sviluppo il più rapido possibile. Che comporterà l’uso di energie fossili «per una ragionevole durata» 

Uno dei massimi esperti dell’energia, Daniel Yergin, ha confidato di recente che «l’approccio più maturo alla questione del cambiamento climatico oggi è quello dei Paesi emergenti».

Non si riferiva alla richiesta di indennizzi che il Sud del pianeta rivolge ai Paesi ricchi, bensì all’idea che «bisogna prima carbonizzare per poi de-carbonizzare».

In altri termini: per costruire un nuovo modello di sviluppo più sostenibile, basato in modo determinante su energie rinnovabili, bisogna essere ricchi.

Per diventare ricchi bisogna industrializzarsi e questo comporta l’uso di energie fossili per una ragionevole durata. Decenni.

Questo non è il messaggio che piace a Greta Thunberg né agli imbrattatori di Van Gogh che riportano d’attualità l’eco-terrorismo degli anni Settanta. Ma — sostengono i Paesi emergenti — è il messaggio del realismo, del pragmatismo, e anche della scienza.

I paesi del Sud del pianeta hanno di fronte a sé due modelli molto concreti. Cina e India sono le due superpotenze a cui s’ispirano tutti coloro che sognano un decollo economico simile al loro.

A New Delhi, il premier Narendra Modi si è dato come obiettivo di generare metà dell’elettricità con fonti rinnovabili entro il 2030. L’obiettivo è molto ambizioso ma bisogna precisare subito che una parte da leone in queste rinnovabili la fa il nucleare. Inoltre, l’altra metà dell’elettricità indiana resterà affidata a energie fossili. E poiché l’India cresce, le «due metà» del suo fabbisogno elettrico nel 2030 saranno molto più grosse di oggi. Risultato: l’India prevede di aver bisogno di aggiungere una capacità di 28 gigawatt di centrali a carbone e Modi sta approvando l’apertura di nuove miniere di carbone. Carbonizzare per poi de-carbonizzare, appunto, senza sacrificare lo sviluppo economico in mancanza del quale non esiste un futuro sostenibile.

La Cina è un esempio ancora più macroscopico di questo pragmatismo. A tutti gli effetti si prepara a diventare la superpotenza «verde» del futuro. Già oggi siamo tutti dipendenti dalla Cina per i nostri pannelli solari e le batterie delle nostre auto elettriche. Il dominio cinese nelle rinnovabili ambisce a diventare quasi un monopolio.

Al tempo stesso la Cina ha investito 400 miliardi insieme alla Russia per trasportare gas dalla regione artica della Siberia fino a casa propria. In quanto al carbone, oggi la Cina ne consuma più di tutto il resto del mondo messo assieme. E non ha alcuna intenzione di metterlo al bando, né nel breve né nel medio termine. Nel solo anno 2021 la Repubblica Popolare ha costruito il triplo di centrali a carbone (per un totale di 33 gigawatt di produzione elettrica) di tutto il resto del mondo.

Qualsiasi cosa dica e faccia l’Occidente, il futuro delle emissioni carboniche si decide a Pechino e New Delhi molto più che a Washington e Bruxelles.

I Paesi meno sviluppati dell’Asia, l’Africa subsahariana, l’America latina, guardano a Cina e India come ai due modelli realistici e attraenti, non alle parole di Greta Thunberg.

Poi, per mettere a tacere le critiche degli ambientalisti occidentali, i Paesi poveri ci chiedono qualche migliaio di miliardi di indennizzi e aiuti vari. Ma sia chiaro a cosa puntano davvero: ad accelerare il loro sviluppo, che nell’immediato significa più consumo di energie fossili e più emissioni di CO2. Uno sviluppo alternativo, tutto pulito, semplicemente non esiste.

Cop27, follia ecologista: ci tocca risarcire i danni climatici a chi inquina di più. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano l’8 novembre 2022

È la Cina il primo emissore globale di Co2: nel 2017, 9.838.754.028 tonnellate. Dopo gli Usa, con 5.269.529.513, terza è l'India, con 2.466.765.373. E quarta la Russia, con 1.692.794.839. Ma né, Xi Jinping, né Modi, né Putin saranno alla 27esima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in Egitto: la conferenza Cop27 di Sharm el Sheikh, che parte oggi. A differenza di Biden, malgrado le Mid Term a immediato ridosso. E ci sarà anche Giorgia Meloni, che potrebbe tenere un incontro bilaterale con il presidente dell'Egitto Abdel Fattah al Sisi. Assenze tanto più significative, in quanto i 30.000 partecipanti dovranno discutere non solo di surriscaldamento globale, emissioni nocive e modalità per far fronte ai cambiamenti climatici, ma anche di una proposta di compensazione dei Paesi più ricchi ai più poveri e vulnerabile a cambio climatico. Si parla di almeno 340 miliardi di dollari all'anno, secondo la stima del Programma Onu per l'Ambiente. Sono oltre oltre 12 volte i 29 miliardi effettivamente arrivati nel 2020, e tre volte e mezzo i 100 miliardi che erano stati promessi nel 2009 a partire dal 2020, e che probabilmente saranno raggiunti nel 2023.

 PARADOSSI

Un paradosso è che il primo ministro indiano non c'è, ma l'India si pone alla testa del fronte dei Paesi che bussa alla cassa, rimproverando ai Paesi più ricchi i ritardi negli aiuti promessi. Nel dossier sono i finanziamenti per la transizione energetica, i costi dell'adattamento ai cambiamenti climatici già provocati e la compensazione dei danni. Secondo l'Onu, Tra il 2000 e il 2020 sono stati registrati 7.348 disastri naturali che hanno coinvolto oltre 4 miliardi di persone, con 2.970 miliardi di dollari di perdite economiche. E nel conto non stanno ad esempio le ultime alluvioni che un mese fa in Pakistan hanno fatto oltre 1.700 vittime, 33 milioni di sfollati e circa 40 miliardi di dollari di danni, con un impatto sul Pil che sarà del -5% nel 2022 e del -2% nel 2023. Ma l'India ottiene dal carbone il 70% della propria elettricità, e in pratica vuole che gli paghino le spese per la propria transizione: 220 miliardi di dollari all'anno!

Sull'adattamento, «l'azione è rallentata, e bisogna dare un segnale. E dobbiamo cominciare la discussione sulla finanza per il loss & damage», ha avvisato alla vigilia della Conferenza di Sharm el-Sheikh il rappresentante speciale egiziano, Wael Aboulmagd. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, presidente designato della Conferenza, ha fatto sapere che l'obiettivo dell'evento è passare dalla negoziazione e pianificazione alla realizzazione degli obiettivi posti nelle passate edizioni. Durante la Cop26 di Glasgow, i partecipanti si erano impegnati ad accelerare la riduzione di combustibili fossili e di emissioni di carbonio.

 TEMPERATURA

Nel Glasgow Climate Act, i firmatari avevano stabilito di contenere l'aumento medio della temperatura terrestre entro 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, a ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030, ad approvare e adottare i meccanismi dell'accordo di Parigi e a raddoppiare le misure finanziarie a sostegno dell'adattamento climatico. I Paesi partecipanti si sono poi impegnati ad aggiornare i piani nazionali con obiettivi più ambiziosi. Tuttavia, finora solo 24 Paesi su 193 hanno presentato i loro piani alle Nazioni Unite. «I governi nazionali devono rafforzare ora i loro piani d'azione per il clima e attuarli nei prossimi otto anni», ha messo in guardia Simon Stiell, segretario esecutivo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, durante un briefing con la stampa la scorsa settimana.

Anche il ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto accompagnerà Giorgia Meloni. Lo rende noto il ministero secondo cui «nel quadro dell'azione multilaterale di contrasto al riscaldamento climatico, l'Italia svolge tradizionalmente un ruolo particolarmente attivo e costruttivo». Inoltre il ministro «tornerà a Sharm el Sheikh dal 13 al 14 novembre per presenziare all'apertura del segmento ministeriale dei lavori, al fine di dare impulso ai negoziati sui diversi dossier in discussione e per partecipare sia ad alcune importanti attività organizzate dalla Presidenza egiziana, sia ad altrettante iniziative che si svolgeranno presso il Padiglione Italiano». La presenza alla Cop 27 del Premier Meloni e del Ministro Pichetto, dice sempre il ministero, «confermano il ruolo attivo del nostro Paese su tutte quelle tematiche che, in piena sintonia con i nostri Partner europei, si ritengono di elevata priorità nel quadro delle azioni per contrastare il riscaldamento del pianeta». 

Bruxelles incontra le lobby del fossile una volta ogni due giorni. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 30 ottobre 2022.

Tra l’inizio di febbraio e la fine di settembre di quest’anno la Commissione europea ha tenuto un totale di 113 incontri con quattro delle principali compagnie dell’industria fossile (Eni, Repsol, Total e Shell), al ritmo di quasi uno ogni due giorni. Tuttavia, lo stesso non si può dire sia valso anche per i rappresentanti della società civile e delle associazioni a tutela dell’ambiente, che non hanno di fatto mai potuto incontrare né i delegati della Commissione, né tanto meno la presidente Ursula von der Leyen. Questo nonostante la retorica di questa Commissione ruoti strettamente intorno al discorso della transizione ecologica e nonostante la stessa von der Leyen abbia dichiarato in più di un’occasione che il tema costituisca una questione prioritaria per il suo mandato. I dati sono stati raccolti da Fossil Free Politics, una rete di quasi 200 associazioni (della quale è parte anche l’Italia con ReCommon) che si batte per l’eliminazione dei combustibili fossili.

D’altronde, suona quantomeno contraddittorio il fatto che, per far fronte all’emergenza energetica esplosa in seguito allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, la Commissione si sia rivolta proprio alle compagnie del fossile per avere consigli sulle modalità di riduzione della dipendenza dal gas e dal petrolio russo: le medesime, sottolinea il rapporto, che “hanno creato la dipendenza europea dai combustibili fossili russi estraendo il gas russo, lavorando con partner russi quali Gazprom e Rosneft e costruendo nuovi gasdotti dalla Russia all’Europa, come il Nordstream2”.

Il 18 maggio 2022 la Commissione europea pubblica una comunicazione ufficiale nella quale espone il contenuto del piano RePowerEU, dopo averlo annunciato l’8 marzo, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina. Il piano si propone di “risparmiare energia, produrre energia pulita, diversificare il nostro approvvigionamento energetico” con il fine di “rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili ben prima del 2030”. Non può non apparire un controsenso, quindi, che tra le soluzioni adottate vi sia stata l’estrazione di gas da Paesi con regimi repressivi quali Azerbaigian, Arabia Saudita e Qatar e la costruzione di nuove infrastrutture per la lavorazione del GNL. Il piano prevede, inoltre, lo sfruttamento di nuove risorse quali l’idrogeno e il biometano, “che sono altamente redditizi per l’industria ma anche disastrosi per il clima” scrive il rapporto.

Nei mesi precedenti all’elaborazione del RePowerEU, von der Leyen aveva comunicato lei stessa di aver discusso della possibilità di “diversificare le scorte e ridurre la richiesta di gas” e di come “ridurre la nostra dipendenza” dal gas russo direttamente con i capi delle grandi aziende dell’industria fossile e con l’European Roundtable of Industrialists (ERT), associazione composta da amministratori delegati di decine di multinazionali tra le quali anche Total, Shell, BP ed Eni. Il conflitto d’interesse appare qui più evidente che mai.

Secondo le evidenze raccolte all’interno del rapporto di Fossil Free Politics, in un meeting del 21 marzo svoltosi con Shell, BP, Total, Eni, E.ON, Vattenfall e il presidente di ERT i giganti dell’industria fossile avrebbero dichiarato che l’Europa avrebbe dovuto “evitare pesanti interventi sul mercato, come imporre il price cap”. Sette mesi dopo sono molti i Paesi a insistere sulla necessità di imporre un tetto ai prezzi dell’energia, ma la Commissione sembra andare molto a rilento nel valutare la questione.

Secondo i dati elaborati dal Il Fatto Quotidiano, in un articolo di oggi domenica 30 ottobre a firma di Stefano Vergine, è di almeno 113 il numero degli incontri tra la Commissione e le principali big dell’industria fossile, e questo solamente nel periodo tra inizio febbraio e fine settembre: un ritmo di quasi una ogni due giorni. In testa c’è Shell, con 34 incontri ufficiali, seguita da Total con 30 incontri, Eni con 29 e Repsol con 20. Nel frattempo, la società civile e le associazioni per l’ambiente non hanno potuto godere delle stesse possibilità di discutere delle soluzioni per la crisi energetica e climatica con alcun membro della Commissione europea: von der Leyen si sarebbe infatti rifiutata di incontrare i rappresentanti di Green 10, una coalizione di dieci delle più grandi realtà per l’ambiente a livello europeo. Manovre che tingono le promesse della Commissione circa la transizione ecologica di un pallido verde greenwashing. [di Valeria Casolaro]

Patricia Tagliaferri per “il Giornale” il 18 ottobre 2022.

Anche il 2022 si conferma un anno nero per la qualità dell'aria. Sarà perché durante la pandemia le misure antinquinamento sono state allentate, perché piove poco, il traffico è sempre più congestionato o non si fa abbastanza per incrementare la mobilità sostenibile, ma lo smog continua ad essere un'emergenza in molte città italiane, che fanno fatica a rispettare i valori suggeriti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per il Pm10, ossia le cosiddette polveri sottili.

Un problema che ha gravi ripercussioni sulla salute, al punto che in Italia l'inquinamento atmosferico miete più vittime che nel resto d'Europa: secondo le ultime stime dell'Agenzia europea ambiente, infatti, il 17% dei morti per inquinamento in Europa (1 su 6) è italiano. I dati pubblicati da Legambiente nell'edizione autunnale del dossier «Mal'aria 2022» fanno suonare un campanello d'allarme per l'inquinamento atmosferico nei tredici capoluoghi monitorati nei primi dieci mesi dell'anno.

Nessuna delle città rispetta i valori suggeriti dall'Oms, che per il Pm10 indica 15 microgrammi/metro cubo (per il Pm2.5 5 microgrammi/metro cubo e per l'NO2 10 microgrammi/metro cubo). Sono Milano, Torino e Padova - con rispettivamente 69, 54 e 47 giornate di sforamento - ad essere fuori legge per quanto riguarda i valori delle particelle inquinanti presenti nell'aria che respiriamo, avendo superato con almeno una delle centraline la soglia dei 35 giorni previsti con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo.

Codice giallo per Parma (25), Bergamo (23), Roma (23) e Bologna (17) che hanno già consumato la metà dei giorni di sforamento. A seguire, Palermo e Prato (15), Catania e Perugia (11) e Firenze (10) che sono già in doppia cifra. A Torino e Milano il Pm10 ha una media annuale, eccedente il valore Oms, del +121% e del +122%. A Perugia la percentuale si ferma al +36%, mentre a Bari arriva al +53% e Catania al +75%. Situazione ancora più critica per quanto riguarda il Pm2.5, le particelle di dimensioni aerodinamiche minori, dove lo scostamento dai valori Oms oscilla tra il +123% di Roma al +300% di Milano. Male anche per l'NO2, l'ossido di azoto, altro componente dell'inquinamento dell'aria, la cui eccedenza dei valori medi registrati rispetto al limite dell'Oms varia tra il +97% di Parma fino al +257% di Milano.

Il direttore generale di Legambiente, Giorgio Zampetti, denuncia «il preoccupante immobilismo della politica italiana davanti alle emissioni di biossido di azoto, dovute in gran parte al traffico veicolare». Immobilismo che è già costato una condanna all'Italia da parte della corte di Giustizia europea. Gli strumenti per ridurre le emissioni inquinanti per Legambiente ci sono. Portare i limiti di velocità in autostrada da 130 a 100 km/h, per esempio, consentirebbe di tagliare le emissioni di CO2 del 20% e del NO2 del 40%.

Ma soprattutto potenziare la mobilità pubblica, incentivare il trasporto pubblico, condiviso ed elettrico, la sharing mobility, implementare Ztl, Lez (Low emission zone) e Zez (Zero emission zone), seguendo il modello di Londra, Amsterdam, Parigi, Bruxelles o Anversa. Nel nostro Paese, poi, il poco che si faceva nelle grandi città per combattere lo smog è stato interrotto negli anni dell'emergenza Covid.

«Un errore», per Andrea Poggio, responsabile Mobilità di Legambiente, perché «la ripartenza si preannuncia peggiore». «La vera sfida - spiega - sarà l'incremento dell'offerta di servizi di trasporto pubblico e di mobilità condivisa elettrica per tutti. In Italia abbiamo più auto che patenti, con un quarto delle metropolitane, dei tram e dei bus elettrici d'Europa».

Lo smog a Milano strada per strada: cappa sopra le scuole, aria fuorilegge per il 50% dei bambini. Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

La mappa interattiva elaborata dai «Cittadini per l’aria». Nella zona di piazzale Loreto la concentrazione media di biossido di azoto è di 55 microgrammi per metro cubo, cinque volte il limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità 

A sinistra la mappa della concentrazione di biossido di azoto (No2) a Milano, un gas tossico di colore rosso bruno; a destra il valore registrato a piazzale Loreto

A ridosso di piazzale Loreto (uno dei quadranti più trafficati e inquinati della città) c’è una dozzina di scuole. Le migliaia di bambini e ragazzi che le frequentano respirano un livello di biossido di azoto intorno ai 55 microgrammi per metro cubo come media annuale. La legge europea impone di non superare il limite di 40. Le linee guida aggiornate invece dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2021 dicono che per proteggere la salute la soglia dovrebbe essere molto più bassa, 10 microgrammi.

Sono questi i limiti che bisogna tenere a mente quando si prova a navigare sulla mappa di Milano appena elaborata dall’associazione Cittadini per l’aria: alla cartina della città è sovrapposta la «nuvola» dell’inquinamento da No2 quasi strada per strada (con una definizione per quadrati da 50 metri per lato) e si vede infine la collocazione delle oltre mille scuole, dagli asili ai licei, dalle pubbliche alle private. Moltissime, come si nota già a colpo d’occhio, sono collocate proprio nei pressi delle grandi arterie di scorrimento, quelle che per livello di smog sono un reticolato di viola intenso.

Se questa è l’immagine, la traduzione in numeri della rappresentazione visiva dice che oltre 110 mila bambini e studenti respirano ogni giorno aria nociva, con un livello di veleni molto al di sopra dei limiti di legge. L’altro 45 per cento delle scuole si trova in zone o quartieri che rispettano quella soglia, ma sono appena sotto: l’aria che si respira, anche lì, è dunque gravemente tossica stando alle raccomandazioni dell’Oms.

La mappa dell’No2 dei Cittadini per l’aria sarà da oggi sul sito dell’associazione e permette un doppio livello di consultazione. Oltre alla ricerca sulle scuole, può essere consultata anche per indirizzo, ad esempio di residenza o di lavoro, e restituisce sia i livelli di inquinamento, sia le stime di quali possano essere i danni per la salute con riferimento alle ricerche scientifiche più aggiornate, dunque l’aumento del rischio di mortalità e di infarto per gli adulti e l’asma le patologie respiratorie per i bambini e i ragazzi. La mappa è stata elaborata sfruttando un meccanismo di intelligenza artificiale e anche sulla base dei dati raccolti da centinaia di milanesi che hanno aderito ai progetti si scienza partecipata dei Cittadini per l’aria.

Secondo l’ultimo report dell’Arpa sulla qualità dell’aria in Lombardia, a differenza di altri inquinanti come le polveri sottili, per i quali negli ultimi anni si è verificata una progressiva tendenza alla riduzione che ha permesso di rispettare alcuni parametri di legge, la concentrazione media annua di No2 a Milano è stata di 44 microgrammi per metro cubo nel 2021. Ha spiegato Francesco Forastiere, tra i maggiori epidemiologi italiani, da poco premiato per i suoi contribuiti dalla «International society for environmental epidemiology»: «L’inquinamento colpisce soprattutto i più deboli: i bambini ancora nel grembo della mamma, riducendo la loro crescita, i bambini nei primi anni di vita, aumentando la frequenza d’infezioni respiratorie, provocando crisi di asma, ritardando la crescita cognitiva e l’apprendimento; infine gli anziani, con l’aumento di problemi respiratori, cardiovascolari e neurologici, favorendo una mortalità precoce. Si tratta di un pericolo infido e sottile, difficile da riconoscere, che però la scienza è stata in grado di scovare. Le azioni per evitare questo insidioso pericolo sono tante, basta avere il coraggio di applicarle».

Il problema dei rifiuti elettronici: li conserviamo perché non sappiamo dove buttarli. Simone Cosimi La Repubblica il 14 Ottobre 2022 

L'indagine Ipsos-Erion: in media teniamo nel cassetto 9 apparecchi elettrici ed elettronici rotti o che non usiamo. Uno su sei confessa di essersene liberato in modo inappropriato. Male i giovani. Ecco le soluzioni

Ne abbiamo in media 9. Sono gli apparecchi elettronici rotti o che non usiamo ma che conserviamo ancora in casa. Tecnicamente si tratta di Raee, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche: l'81% dice di possederne almeno uno ancora funzionante ma inutilizzato e il 61% se lo tiene, pure se è rotto (tra quest'ultimi per il 33% si tratta di vecchi cellulari, per il 23% di caricabatterie e per il 17% di laptop).

Raee: cosa sono e come smaltirli 

Ma perché questa sindrome da accumulo? La speranza è l'ultima a morire: il 39% pensa di poterlo riparare, mentre il 30% di poterne utilizzare le parti di ricambio ma - attenzione - il 23% dichiara ancora di non conoscere la corretta procedura di smaltimento e il 15% ha difficoltà nel raggiungere un centro di raccolta. Molti, insomma, sostanzialmente alla pari di chi vorrebbe ripararli, vorrebbero sbarazzarsene ma non sanno come fare. E allora giustamente invece di gettarli nell'indifferenziata li tengono. 

È uno degli scenari dipinti dall'indagine condotta da Ipsos ed Erion in occasione della Giornata internazionale dei rifiuti elettronici, il 14 ottobre, e intitolata "Raee e Rpa. Livelli di conoscenza, opinioni e comportamenti. Cosa nascondono nei loro cassetti gli Italiani?" (disponibile qui). Un altro, parallelo, riguarda le batterie: più di un italiano su due dichiara di avere in casa pile e batterie esauste. Il rapporto è stato realizzato su un campione di 1.400 cittadini italiani (dai 18 ai 75 anni), utilizzando la metodologia CAWI, Computer Assisted Web Interview.

Uno su sei smaltisce i Raee nell'indifferenziata

Riguardo alle modalità di dismissione, a fronte di un 63% di intervistati che si sono liberati di almeno un rifiuto di questo genere negli ultimi 12 mesi, uno su sei dichiara di averlo fatto in modo inappropriato, gettandolo nel sacco dell'indifferenziata, nel cassonetto stradale o nel bidone della plastica. Si tratta di un problema enorme: i Raee sono rifiuti speciali contenenti decine di materiali e componenti, dai metalli preziosi alle terre rare, che vanno trattati in modi specifici, che dispersi nell'ambiente hanno un enorme potere inquinante ma che se correttamente riciclati costituiscono un vero tesoro. Ai primi posti per conferimento scorretto: asciugacapelli (22%), tostapane e frullatore (20%) e caricabatterie per cellulari (18%), che si spera nei prossimi anni diventeranno di meno grazie alla recente direttiva approvata dal Parlamento Europeo. Tutto questo, ed è la notizia peggiore, nonostante il 79% conosca i rischi ambientali di un errato conferimento.

Male i giovani: non sanno di cosa si parla né cosa si rischia

Stabile rispetto al 2021 il livello di conoscenza dell'acronimo Raee con il 44% degli intervistati che ne ha già sentito parlare. Il Nord è la zona con i cittadini più informati (47%), seguito dal Centro (46%), fanalino di coda il Sud e le isole con il 37%. Molto rimane da fare: senza consapevolezza non c'è sensibilizzazione che tenga. E il problema è che sono proprio i giovani, spesso gli utenti più intensivi dei dispositivi elettronici, i più ignoranti in materia: l'89% dei 18-26enni dichiara di avere almeno un apparecchio elettrico o elettronico ormai in disuso e il 73% di non essersene disfatto anche se rotto. Basso, anche, il livello di conoscenza e consapevolezza in materia: solo il 26% dei giovani sa cosa significa l'acronimo Raee e il 32% ancora non conosce le criticità ambientali legate a uno scorretto conferimento. Un problema enorme, se inquadrato in prospettiva. 

Questo gap informativo porta infatti a gravi conseguenze: quattro giovani su 10 si sono liberati del proprio caricabatterie gettandolo nel sacco dell'indifferenziata, nel cassonetto stradale o nel bidone della plastica. Anche in tema pile e batterie esauste, la fascia 18-26 anni risulta poco virtuosa, ambientalista a parole ma non nella pratica: soltanto il 39% conosce i rischi di uno sbagliato conferimento e il 70% le tiene in casa anche una volta scariche.

Cosa serve per migliorare: punti di raccolta vicino a casa

Cosa occorre, insomma, per migliorare la situazione, ancora sconfortante? Il 35% degli italiani chiede di aumentare le iniziative di comunicazione e le campagne informative, mentre il 32% vorrebbe veder riportate sui prodotti informazioni chiare circa le modalità di conferimento del rifiuto. Tra i principali incentivi alla corretta dismissione, invece, spicca la presenza di un punto di raccolta vicino a casa (28%): servirebbero piccole isole ecologiche, specialmente nelle grandi città, raggiungibili a piedi e dove portare tutti gli apparecchi su cui si abbiano dei dubbi. Qui, intanto, alcune indicazioni utili sul conferimento uno contro zero. 

"Il quadro che ci presenta Ipsos è allarmante: sono davvero ancora troppi i Raee e i Rifiuti di pile e accumulatori dimenticati nelle case degli italiani, rifiuti che, se avviati al corretto riciclo, potrebbero rappresentare una miniera strategica di materie prime di cui il nostro paese è sempre più povero. Occorre maggiore informazione, questo è chiaro - spiega Danilo Bonato, direttore generale di Erion, che è il principale sistema multi-consortile no profit di nato nel 2020 dalla fusione dei consorzi Ecodom e Remedia - importante però che ci sia anche più responsabilità da parte di noi cittadini nello sfruttare maggiormente i servizi a disposizione per conferire le proprie apparecchiature non più utilizzate o non più funzionanti: tenerle dimenticate nei cassetti, in soffitta o in cantina è esso stesso un gesto contro l'ambiente. Bisogna invertire questa tendenza. Mi rivolgo soprattutto ai giovani: voi che rappresentate il futuro, date il buon esempio! Riciclare è fondamentale. Con un piccolo gesto, infatti, possiamo ridurre la nostra impronta ecologica evitando danni al pianeta oltre a incrementare le nostre fonti di approvvigionamento di materie prime, allentando la dipendenza economica dell'Italia da paesi esteri".

Cala la raccolta differenziata, ma sui Raee nel complesso si cresce

Guardando ai comportamenti degli italiani in fatto di sostenibilità, si rileva un trend in calo rispetto al 2021 tra chi dichiara di fare spesso la raccolta differenziata (80% rispetto all'85%). E - nonostante il boom delle piattaforme di dispositivi ricondizionati, su tutti gli smartphone, e le scelte dei produttori in termini di assistenza e pezzi di ricambio - è solo il 39% (-14%) che preferisce riparare un oggetto piuttosto che sostituirlo con uno nuovo. Le nuove generazioni risultano almeno le più propense alla condivisione, come sharing e noleggio, e all'acquisto di prodotti riciclati e ricondizionati. 

Segnale positivo, invece, per le abitudini di riciclo di Raee e Rpa, con un +7% nel numero di intervistati che dichiara di farne spesso la raccolta differenziata. "L'economia circolare fatica ancora a trovare spazio nella quotidianità delle persone: dalla ricerca che abbiamo realizzato per Erion, manca, infatti, la piena consapevolezza che tale processo si può innescare proprio a partire dal corretto riciclo dei nostri rifiuti - commenta Alberta Della Bella, senior researcher Ipsos Public affairs - sono soprattutto le nuove generazioni a rivelare un'adesione più  ideale che pratica alle buone regole della sostenibilità, in particolare quando si tratta di Raee e Rpa. Informare sul fatto che questi rifiuti sono prima di tutto delle risorse e non semplici scarti è fondamentale, ancor di più se consideriamo che i rifiuti correlati ai prodotti elettronici sono quelli con il maggior tasso di crescita".

I veleni del Nord, le colpe da dividere. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

Non va omesso di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord

La Pianura padana è la regione più inquinata d’Europa», ha detto Roberto Castelli a L’Aria che tira su La7. Vero. Anche se la realtà è sempre stata spazzata sotto il tappeto per occultare le enormi responsabilità della più spregiudicata imprenditoria lombarda, veneta, emiliana e piemontese, le inchieste giudiziarie e parlamentari hanno detto parole definitive. Meno oneste sono invece quelle che l’ex guardasigilli ha aggiunto: «Migliaia di padani muoiono ogni anno per garantire il lavoro e quindi il reddito di cittadinanza per chi non lavora. Guardate che il Nord non ce la fa più». Con chi ce l’ha: con la Campania e il resto del Sud che secondo l’Osservatorio Inps ricevono 1,65 milioni su 2,65 milioni di assegni erogati? Buttata in così, l’accusa dell’ex ministro è monca e inaccettabile. Perché omette di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord. Basti ricordare certe messe celebrate da don Maurizio Patricello, il parroco di Caivano, tra le foto dei bambini morti di cancro: «Qui sono pentiti tutti: i poveretti che hanno taciuto su quello che vedevano, i camionisti, i camorristi... Tutti meno gli affaristi e gli imprenditori settentrionali che si son liberati dei rifiuti tossici».

Certo, la catena di avvelenamenti assassini va attribuita soprattutto ai camorristi che si sono venduti i campi e i frutteti loro e di poveracci ricattati. Ovvio. Ma come ha spiegato alla giornalista Daniela De Crescenzo Gaetano Vassallo, il «ministro dei rifiuti» dei Casalesi nel libro Così vi ho avvelenato («Alla mia famiglia ho fatto sequestrare 43 milioni di euro in un colpo: 45 appartamenti, 7 ville, i terreni, un Park Hotel, un ristorante, tutti soldi...») non furono meno colpevoli per i morti avvelenati, troppi imprenditori del Nord: «Facemmo arrivare di tutto... Scaricammo fanghi, ceneri, residui di lavorazioni industriali, residui di conceria... Risparmiare faceva piacere a tutti e trovare clienti, viste le amicizie che avevamo coltivato, diventò facilissimo... Casalesi: un nome, una garanzia». Di più: «Sorrido quando al Nord parlano della Terra dei Fuochi con sufficienza: tanti sono convinti di essersi liberati dei rifiuti con poca spesa. Ma spesso le sostanze tossiche non hanno mai nemmeno lasciato i siti di provenienza». Giravano solo le carte. I veleni restavano lì. E il reddito di cittadinanza non c’entra un fico secco.

La sanzione secondaria. Report Rai PUNTATA DEL 28/11/2022 di Manuele Bonaccorsi

A Priolo in Sicilia il dramma del petrolchimico siracusano che rischia di chiudere.

Il petrolchimico di Priolo (Siracusa), capace di produrre da solo un terzo del fabbisogno italiano di derivati del petrolio, rischia di chiudere, lasciando senza lavoro circa 10mila lavoratori. E i nostri distributori senza benzina, con conseguenze drammatiche sul sistema dei trasporti. Per quale motivo? Report racconterà le due grandi minacce che rischiano di mettere al tappeto questa importante realtà produttiva. La prima sono le sanzioni contro Mosca. La società petrolifera russa Lukoil, che controlla il principale impianto della zona industriale siracusana, seppur non sottoposta alle misure restrittive dell’Unione Europea, non riesce più a farsi rilasciare dalle banche le lettere di credito necessarie all’acquisto di greggio sui mercati mondiali. E dal 5 dicembre, a causa delle sanzioni, non potrà neppure importare il greggio russo. Report svelerà lo scontro geopolitico in atto sul petrolchimico siracusano, che coinvolge anche gli interessi statunitensi sul mercato mondiale dei carburanti. La seconda minaccia è giudiziaria. La Procura di Siracusa ha posto sotto sequestro il depuratore che tratta i reflui inquinanti del petrolchimico. L’accusa è durissima: disastro ambientale. Se i magistrati dovessero realmente fermare l’impianto di depurazione, l’intero petrolchimico dovrebbe chiudere i battenti.

LA SANZIONE SECONDARIA di Manuele Bonaccorsi collaborazione Federico Marconi consulenza Luisa Santangelo immagini Dario D’India – Andrea Lilli – Paco Sannino montaggio Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora andiamo in Sicilia, vicino Siracusa, dove c’è un petrolchimico, una parte importante, una raffineria dei russi della Lukoil. È un impianto strategico perché fornisce il 20 per cento del carburante che è nei nostri impianti in tutta Italia, ma è anche strategico per l’occupazione. E però rischia la chiusura e 10mila persone rischiano di andare per strada. Perché? Che cosa è successo?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo in Sicilia, sulla costa tra Siracusa e Catania. Qui sorge uno dei più grandi petrolchimici d’Europa, esteso per oltre 40 chilometri quadrati e capace di produrre oltre un terzo del fabbisogno italiano di derivati del petrolio.

ENZO PARISI – LEGAMBIENTE AUGUSTA Sono tutte multinazionali, ormai di nazionale qui non è rimasto niente. Abbiamo i russi della Lukoil che sono lì. Sono costrette a importare solo petrolio russo, ne hanno importato, il mese passato, qualcosa come una milionata di tonnellate.

MANUELE BONACCORSI E queste navi sono tutte petroliere?

ENZO PARISI – LEGAMBIENTE AUGUSTA Quasi tutte.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La nostra indipendenza energetica passa anche da questi impianti, controllati da aziende extraeuropee. La russa Lukoil, acquistava gran parte del greggio dal mercato mediorientale. Ma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina le sanzioni finanziarie le hanno impedito di stipulare accordi commerciali.

DIEGO BIVONA - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA SIRACUSA Il paradosso di questa sanzione è che Lukoil, che utilizzava circa il 30% del petrolio russo, da quando ha iniziato l'embargo lavora il 100% del petrolio russo, risultando il più grosso consumatore dopo la Cina e l'India.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma nelle prossime settimane, le nuove sanzioni europee bloccheranno completamente le importazioni di greggio russo. La raffineria potrebbe addirittura chiudere i battenti.

DIEGO BIVONA - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA SIRACUSA Il 5 dicembre la Lukoil non può più fare entrare una goccia di petrolio grezzo nel proprio stabilimento.

ROBERTO ALOSI - SEGRETARIO GENERALE CGIL SIRACUSA La Lukoil, uno dei più grossi stabilimenti che abbiamo qui, occupa oltre 3000 lavoratori e per il sistema che abbiamo industriale profondamente integrato per effetto domino si rischia di travolgere tutto il sistema industriale petrolchimico siracusano. Parliamo di un bacino di circa 10.000 lavoratori.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Pochi giorni fa a Siracusa sono scesi in piazza migliaia di lavoratori. Con loro la chiesa, i sindaci, le scuole.

OPERAIO Noi facciamo parte di una comunità che però rischia di essere risucchiata in una crisi da cui non so se usciremo facilmente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma se l’impianto dovesse davvero chiudere le conseguenze riguarderebbero l’intero Paese.

MANUELE BONACCORSI Cioè rischiamo di trovare i distributori di benzina chiusi?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Molti sì, con degli impatti terrificanti sui trasporti pesanti, trasporto merci e quindi sul costo dei beni che arrivano nei supermercati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Salvatore Carollo è uno dei massimi esperti mondiali di mercato petrolifero. Per 20 anni è stato il responsabile del trading di Eni, l’uomo che firmava le compravendite di petrolio per il colosso energetico italiano.

MANUELE BONACCORSI Per quale motivo la raffineria Isab di Priolo non è più stata in grado di acquistare petrolio sui mercati internazionali ed è stata costretta ad acquistare solo quello russo?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Si è pensato che siccome è una società russa, automaticamente non aveva più diritto a ottenere la lettera di credito indispensabile per l'acquisto di greggio presso i paesi produttori. Questa interpretazione delle sanzioni è andata al di là di quello che le sanzioni stesse prevedevano. Perché Lukoil, anche se è una società russa, non è oggetto delle sanzioni.

MANUELE BONACCORSI Cioè possono operare liberamente.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Possono operare liberamente. E lo fanno, anche negli Stati Uniti, dove hanno dei sistemi di distribuzione di prodotti petroliferi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Quando a ottobre il nuovo esecutivo si ritrova tra le mani la patata bollente del rischio di una chiusura dell’impianto, corre ai ripari. Il ministero dell’Economia redige una comfort letter, rivolta alle banche. Dice: date pure credito a Lukoil le sanzioni non si applicano. Sembrerebbe tutto risolto. Eppure…

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Sarebbe stato sufficiente se non ci fosse stata una presa di posizione pesante dell'amministrazione americana che ha cercato di bloccare questo provvedimento.

MANUELE BONACCORSI Però noi non siamo sottoposti alla giurisdizione statunitense.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Assolutamente, però quale banca si mette a emettere una lettera di credito sapendo che poi potrebbe avere una reazione negativa dal mercato americano.

MANUELE BONACCORSI Cioè gli Stati Uniti potrebbero sanzionare, volendo la banca che ha emesso la lettera di credito ai russi.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Esatto. Potrebbero succedere azioni di ritorsione. Viene pure il dubbio che, siccome c'è stato un fondo americano che aveva mostrato interesse a comprare la raffineria di Priolo e questa presa di posizione americana è un modo di sollecitare la Lukoil a fare business con il fondo americano.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A presentare la proposta è stato il fondo statunitense Crossbridge Energy. Ma Lukoil, secondo il Financial Times, ha rifiutato l’offerta. Intanto il tempo scorre. il 18 novembre, al Ministero dello Sviluppo Economico il ministro Urso riunisce le parti sociali. C’è il presidente della regione siciliana Schifani, il direttore dello stabilimento Lukoil, il russo Maniakhine, e i sindacati. Sono invitati anche i rappresentanti delle banche. Sono loro gli unici che possono salvare il petrolchimico. Ma al tavolo non si presentano.

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Chi rappresenta le banche è stato il grande assente al tavolo. Questo non è accettabile.

MANUELE BONACCORSI Secondo lei perché?

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Non ho una risposta da darle.

MANUELE BONACCORSI Un’idea se la sarà fatta

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Sì

MANUELE BONACCORSI Ce la dica

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL No MANUELE BONACCORSI Mi perdoni per quale motivo secondo lei le banche italiane non vogliono concedervi credito. Può essere che dipende dagli Stati Uniti? C’è il rischio di sanzioni secondarie? Lei è russo, lo sa benissimo come funzionano le sanzioni secondarie; è possibile? Le banche che motivazioni adducono quando vi dicono non vi concediamo il credito? Questo ce lo può dire però… Non ce lo può dire?

EUGENE MANIAKHINE – DIRETTORE GENERALE ISAB -LUKOIL Grazie. Buona giornata. Piacere.

MANUELE BONACCORSI Ministro, è vero che le banche temono le sanzioni secondarie da parte del governo americano? Mi risponde?

ADOLFO URSO - MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO Faccia la domanda alle banche.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Chiariamo bene questo concetto: c'è una guerra in corso e ci sono delle sanzioni e delle attività di solidarietà verso l'Ucraina. Mentre stiamo facendo insieme una battaglia nobile, nello stesso tempo alcuni stanno pensando un po’ a fare i loro affari.

MANUELE BONACCORSI Cioè se noi volessimo veramente creare un danno alla Russia bloccando le sue esportazioni di petrolio, cosa dovremmo fare?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Questa domanda me l'hanno fatta, diciamo una società di consulenza internazionale che mi aveva contattato a febbraio chiedendomi delle opinioni su come strutturare delle eventuali sanzioni. E alla domanda precisa: “Come potremo bloccare il petrolio russo effettivamente?” Ho detto: ”Dal punto di vista tecnico, queste sanzioni non colpiscono la Russia, perché se anziché mandarlo in Europa lo mando nell'estremo Oriente dove me lo pagano di più, io non ho nessun problema finanziario”.

MANUELE BONACCORSI E per chi lavorava a queste società di consulenza?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Per il governo ucraino.

MANUELE BONACCORSI Cioè, il governo ucraino ha consigliato le sanzioni all'Unione Europea quanto meno.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Ha portato un pacchetto di proposte all'Europa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex responsabile del trading dell’Eni, Carollo, ci da una notizia: sarebbe stato il governo ucraino, attraverso la multinazionale KPMG, a suggerire un pacchetto di sanzioni che poi l’Europa avrebbe fatto proprio. E proprio le sanzioni hanno generato un paradosso in questa vicenda della Lukoil: la Lukoil è un’azienda russa sulla quale però non è stata applicata la sanzione. E prima della guerra importava il 70% del petrolio che raffinava da Africa e Medio Oriente. Poi sono scattate le sanzioni, a quel punto le banche non hanno più emesso lettere di credito. La Lukoil non ha più potuto acquistare petrolio e ha pensato all’unica alternativa possibile, quella di importare il proprio petrolio direttamente dalla Russia. Ora, che cosa è successo, che il governo Draghi non si è molto occupato di questa vicenda e ha lasciato la patata bollente a quello della Meloni. Il ministero dell’Economia ha mandato una lettera alle banche, invitandole ad emettere nuovamente lettere di credito, ma hanno fatto orecchie da mercante. Le banche temono le sanzioni secondarie del governo americano. America che ha anche un’attenzione particolare sulla vicenda Lukoil. Infatti un fondo americano, Crossbridge, ha presentato un’offerta alla Lukoil, c’è un tema che riguarda la carenza di gasolio raffinato negli Stati Uniti, per questo questo fondo è interessato alla Lukoil. Ma i russi hanno respinto al mittente l’offerta. Però il 5 dicembre potrebbe accadere che la Lukoil sia costretta a chiudere i battenti. Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’Europa sull’energia, quindi la Lukoil non potrà più importare petrolio russo. A quel punto si aprirebbe un grosso problema per il nostro paese, perché dalla Lukoil arriva il 20 per cento del carburante raffinato, che viene distribuito in tutto il paese. Poi c’è un’emergenza occupazione, rischiano di finire per strada 10mila operai, considerando anche l’indotto. E a questo punto al nostro governo non rimangono che due strade: uno, la nazionalizzazione, un impegno imponente, importante, l’altra sarebbe chiedere una deroga alle sanzioni. Non sarebbe la prima volta, è già accaduto un’altra volta, quando l’Eni intratteneva rapporti commerciali con l’Iran. Però tutti questi non sono gli unici problemi: la Lukoil potrebbe essere chiusa anche per altri motivi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, che cosa è successo. Che la procura di Siracusa ha sequestrato il depuratore di Priolo. Perché li confluivano i reflui dal petrolchimico, reflui tossici, anch’essi prodotti anche dalla Lukoil. Secondo i magistrati il depuratore non era in grado di depurare bene e dunque migliaia di tonnellata di sostanze tossiche sarebbero finite nell’ambiente. Per questo l’accusa è disastro ambientale. Sono finiti indagati i manager che gestivano il depuratore. Si tratta di manager pubblici e privati. Perché la società che gestiva il depuratore è a maggioranza pubblica, soprattutto della Regione Siciliana, e poi ci sono dentro anche i privati. E chi controllava la qualità dell’inquinamento all’interno del depuratore erano proprio responsabili scelti dalle ditte private, cioè da chi avrebbe inquinato. Il nostro Manuele Bonaccorsi è riuscito a entrare nell’impianto sequestrato, che cosa ha scoperto?

ENZO PARISI - LEGAMBIENTE AUGUSTA Il depuratore sta lì con il suo scarico che attraversa quest'area e giunge a un miglio fuori dalla costa. Da questa parte il mare, con i suoi lidi, gli ombrelloni.

MANUELE BONACCORSI Cioè, qui, si fa il bagno?

ENZO PARISI - LEGAMBIENTE AUGUSTA Certo, la gente fa il bagno e lo fa molto volentieri. Le evidenze di cui parla invece la magistratura, i periti della magistratura, sarebbero diverse: secondo loro il depuratore ha scaricato a mare in cinque anni 2500 tonnellate di idrocarburi, più o meno una tonnellata e mezzo al giorno.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questa estate la Procura di Siracusa ha posto sotto sequestro il depuratore biologico consortile di Priolo Gargallo, gestito da una società mista pubblico privata, la IAS. La maggioranza del capitale, il 65,5 %, è della regione siciliana, il 7,5 dei due comuni del comprensorio; il resto è dei privati, le aziende petrolchimiche che inviano qui tutti i reflui inquinanti prodotti dagli impianti. L’accusa dei pm è gravissima: disastro ambientale. Il prof. Maggiore, tra i massimi esperti di depuratori, ha potuto visionare alcuni contratti tra le aziende petrolchimiche e IAS, che regolano la qualità dei reflui che vengono conferiti al depuratore.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 La legge stabilisce dei limiti di immissione in fognatura. C’è un limite per gli idrocarburi totali: 10mg per litro. Solfuri il limite è due milligrammi per litro, e c’è una cosa che anche qui lascia stupefatti: valori massimi ammessi in base al contratto che io ho per l'acido solfidrico 60, non due, 60 mg per litro e, per quanto riguarda gli idrocarburi, 200 mg per litro anziché 10. Venti volte di più. Ma non solo

MANUELE BONACCORSI Ma questa cosa è completamente illegale.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Ci sono le deroghe, significa fino al 40% in più rispetto ai valori massimi ammessi è ammesso; semplicemente ti faccio pagare un po’ di più.

MANUELE BONACCORSI Solo che questo depuratore non era in grado di fare questa lavorazione

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 No, tutto questo secondo me non è che è nato per caso. Cioè c'è stata una volontà politica di questo tipo: scaricare i costi del privato sul pubblico.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Infatti, secondo lo statuto, nonostante la società che gestiva impianto di depurazione fosse a maggioranza pubblica, i direttori venivano nominati dalle aziende private.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Chi dirige tecnicamente l'impianto, sono gli stessi che inquinano. Controllori e controllati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Maggiore è un ex consulente dell’azienda che gestiva l’impianto di depurazione e nel 2016 aveva già denunciato tutto: l’impianto è tecnicamente incapace di gestire i reflui fuori norma che vengono conferiti. Ma nessuno lo aveva ascoltato. Eppure, la soluzione era a portata di mano: per abbattere almeno in parte gli inquinanti sarebbe bastato chiudere le vasche e convogliare i fumi in un camino, con un impianto detto tecnicamente di “deodorizzazione”. E in effetti IAS questo impianto l’aveva realizzato nel lontano 2009; l’allora ministra dell’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, si era precipitata a inaugurarlo.

STEFANIA PRESTIGIACOMO - MINISTRA DELL’AMBIENTE 2008-2011 - DAL TGR SICILIA DEL 22/07/2009 Ricordo che ancora non facevo politica e si parlava dell’esigenza di coprire le vasche. Ovviamente con le nuove tecnologie si è risolto il problema con questo impianto, quindi un grande plauso.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICO - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Dopo la costruzione dell'impianto ci si accorse che le concentrazioni delle sostanze da abbattere erano addirittura fino a 300 volte superiori a quelle che erano state date come dato di progetto per la progettazione, cioè il progetto era basato su dati completamente avulsi dalla realtà.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cioè l’impianto appena costruito era abbondantemente sottodimensionato per le sostanze da depurare.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Questo è l'impianto di deodorizzazione, però io lo conosco parzialmente perché sono arrivato l’anno scorso, lo hanno abbandonato anni fa.

MANUELE BONACCORSI Ah, questo è l’impianto che doveva entrare in funzionamento e non è mai entrato in funzione?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sono state fatte delle prove, non hanno dato l'esito sperato e quindi poi non è stato più utilizzato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’impianto di deodorizzazione è abbandonato da 13 anni; appena acceso è subito andato in tilt. Da allora i fumi tossici provenienti dalle vasche del depuratore hanno inquinato l’aria, secondo i tecnici della Procura al ritmo di 77 tonnellate l’anno, fra cui 13 tonnellate di benzene, sostanza cancerogena. La troupe di Report è l’unica ad aver avuto l’autorizzazione a entrare dentro l’impianto. A guidarci nella visita è il responsabile ambientale Roberto Sportiello.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Le acque vengono inviate in queste grandi vasche dove c'è l’impianto di trattamento biologico, ovvero ci sono dei batteri che si nutrono degli inquinanti presenti all'interno delle acque e sostanzialmente le rendono pulite e pronte per essere immesse nel Mar Ionio.

MANUELE BONACCORSI Questi batteri sono in grado anche di aggredire gli inquinanti provenienti dall'industria degli idrocarburi?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sono in grado di aggredire e abbattere il 99,5% degli idrocarburi; quindi, quello che entra sostanzialmente viene degradato tutto.

MANUELE BONACCORSI Ma scusi, però, vuol dire l'impianto è perfetto, fa il suo lavoro, perché è stato sequestrato?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Per gli idrocarburi noi abbiamo analisi che confortano il funzionamento dell’impianto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’impianto è sequestrato dal tribunale, per un probabile disastro ambientale, ma per il responsabile ambientale dell’impianto va tutto benissimo. Il motivo lo capiamo a latere dell’intervista.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA I composti volatili presenti in aria – il benzene, l’idrogeno solforato, tutte le sostanze potenzialmente pericolose - noi li monitoriamo una volta l’anno e siamo sostanzialmente, anche lì, sempre al di sotto dei limiti.

MANUELE BONACCORSI Lei è di qua?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Io sono di Siracusa.

MANUELE BONACCORSI E dove lavorava prima?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Alla raffineria Isab.

MANUELE BONACCORSI Ah, viene dall’Isab.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Volevo dare il mio contributo di esperienza.

MANUELE BONACCORSI Ma a Isab esattamente cosa faceva?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Il responsabile ambiente.

MANUELE BONACCORSI Caspita aveva un ruolo importante.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sostanzialmente sempre quello che faccio qua, ho un po’ di esperienza.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dunque, a gestire gli aspetti ambientali dell’impianto di depurazione sequestrato, è il tecnico proveniente dall’industria petrolifera che programmava proprio l’invio dei reflui inquinanti da parte della principale azienda della zona, l’Isab, oggi proprietà Lukoil. L’azienda riferisce che i reflui venivano analizzati quotidianamente tramite questo campionatore automatico. E i risultati delle analisi appaiono perfetti. Come si spiega? Nel 2019 la Procura di Siracusa trova traccia di una potenziale falsificazione delle analisi in alcune intercettazioni

GIUSEPPE FAZIO – DIPENDENTE IAS SPA Il depuratore funziona perché il laboratorio scrive numeri a minchia!

LUIGI BRUNO – EX RESPONSABILE LABORATORIO IAS SPA A volte, per esempio come per gli oli, li facciamo solo quando c'è una necessità impellente, uno ogni tanto a spot perché sono analisi costose e, su indicazione del vecchio direttore, che dovevamo risparmiare, cioè quando ci accorgiamo che il COD non passa, certi parametri non li facciamo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E quindi, dove sono finiti i veleni del petrolchimico? Pippo Sorbello, ex consigliere di amministrazione del depuratore, è un politico di lungo corso, assessore regionale tra il 2008 e il 2009. L’impianto lo conosce come le sue tasche. Lo incontriamo in un bar a Priolo.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Il trucco è stato sempre di fare rimanere all’interno dell’impianto i rifiuti, non smaltirli. Per non smaltirli le vasche sono tutte piene di rifiuti.

MANUELE BONACCORSI Invece di essere smaltiti li tengono lì.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Sì.

MANUELE BONACCORSI Quindi hanno trasformato l’impianto in una discarica.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Nell’equalizzazione ci sono 15mila tonnellate di fanghi, che comporterà una spesa non indifferente per essere tirati fuori.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma come è possibile che questo inquinamento andasse avanti per anni senza che nessuno se ne accorgesse? Patrizia Brundo, una commercialista di Avola è stata l’ultima presidente della società, nominata dalla Regione Sicilia. Sapeva che la gestione dell’impianto rischiava di produrre un grave danno ambientale?

PATRIZIA BRUNDO - PRESIDENTE IAS SPA 2019-2022 Queste domande dovrebbe farle al direttore generale. Lui ci scriveva che andava tutto bene, noi ci fidavamo di lui.

MANUELE BONACCORSI Il controllo è andare a vedere le carte.

PATRIZIA BRUNDO - PRESIDENTE IAS SPA 2019-2022 Sì, è andare a vedere le carte. Lei ha perfettamente ragione, ma l'attività gestionale non competeva alla governance.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Prima di lei lo scranno di presidente era occupato da Maria Grazia Brandara, collaboratrice dell’ex assessore della Regione siciliana Mariella Lo Bello. Entrambe sono imputate per associazione a delinquere a Caltanissetta per il processo il cui principale accusato è l’ex presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Per i pm di Siracusa fu Brandara ad approvare lo statuto che consegnava ai privati tutti i poteri nella gestione dell’impianto.

MANUELE BONACCORSI Furono i privati in qualche modo a imporla quella modifica statutaria?

MARIA GRAZIA BRANDARA - PRESIDENTE IAS SPA 2016-2020 Diciamo era nelle cose, perché loro mettono i soldi. Tutto il bilancio, 17 milioni di euro, lo mettono i privati. E quindi quelli volevano il controllo dei loro soldi.

MANUELE BONACCORSI Voi eravate informati che era una situazione completamente fuori controllo?

MARIA GRAZIA BRANDARA - PRESIDENTE IAS SPA 2016-2020 Lei ha davanti la persona più corretta che ci sia in Sicilia e oltre.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Se gli amministratori di nomina politica si voltano dall’altra parte, cosa ha fatto invece l’Agenzia regionale all’ambiente, l’Arpa, che avrebbe il compito di verificare?

MANUELE BONACCORSI Come può essere che una società del genere sversa nell'ambiente tonnellate di inquinanti senza che voi ve ne rendiate conto e li fermate prima?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Noi siamo in numero insufficiente a gestire, a rispondere a tutte quelle attività che ci competono per legge.

MANUELE BONACCORSI Ad esempio, nella zona industriale di Siracusa, quanto personale avete?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Sono quattro, sono quattro.

MANUELE BONACCORSI Quattro persone per uno dei petrolchimici più grandi d'Europa?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Negli anni il depuratore non viene quasi mai controllato anche perché non è dotato di una autorizzazione integrata ambientale, il documento necessario per dare il via libera ad aziende grandi e pericolose dal punto di vista ambientale.

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA Aveva una semplice autorizzazione allo scarico, scaduta da parecchi anni. Due anni fa circa ha chiesto una autorizzazione unica ambientale che è un'autorizzazione che si rilascia alle piccole e medie imprese.

MANUELE BONACCORSI Tipo, di quale misura?

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA Tipo gli autolavaggi, tipo i frantoi, tipo le lavanderie.

MANUELE BONACCORSI Lei mi sta dicendo che l'azienda che gestisce gli scarichi del più grande petrolchimico d'Europa ha chiesto l'autorizzazione che avrebbe dovuto chiedere un autolavaggio?

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA L’autorizzazione unica ambientale si rilascia anche agli autolavaggi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nell’agosto 2014 IAS, società dell’impianto di depurazione, aveva scritto al ministero dell’Ambiente, chiedendo se per svolgere la sua attività il depuratore avesse bisogno di un’AIA. La risposta del direttore generale Grimaldi è degna di Don Abbondio: “sembrerebbe non configurarsi una competenza statale”. Il ministero gira allora l’incartamento alla Regione Sicilia. Ma la Regione che pure è la proprietaria del depuratore, chiude il plico in un cassetto e se ne dimentica per 8 anni. Dopo il sequestro della magistratura, questo luglio i tecnici dell’assessorato siciliano all’ambiente si precipitano ad autorizzare l’impianto, che fino a quel momento è tecnicamente abusivo.

MANUELE BONACCORSI Assessore, le volevo fare se possibile, un paio di domande su Ias, il depuratore.

TOTO CORDARO - ASSESSORE ALLA TUTELA AMBIENTALE REGIONE SICILIANA 2017-2022 Ci vediamo in assessorato. Siccome faccio l’assessore, la ricevo da assessore, avrete tutta la considerazione che meritate, anche domani mattina magari no, vediamo lunedì mattina, sono a vostra disposizione.

MANUELE BONACCORSI Io devo riscendere da Roma...

TOTO CORDARO - ASSESSORE ALLA TUTELA AMBIENTALE REGIONE SICILIANA 2017-2022 Noi, lei non deve riscendere: lei si gode due giorni di mare fantastico, abbiamo un sole bellissimo e io le do la considerazione che meritate.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Mimmo Turano, influente politico di Alcamo, in provincia di Trapani, è stato per anni il titolare delle Attività Produttive nella giunta regionale siciliana. La proprietà dell’impianto sequestrato era riconducibile al suo assessorato.

MANUELE BONACCORSI Assessore, salve, Bonaccorsi di Report.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Ah benissimo, dopo, dopo, dopo, dopo.

MANUELE BONACCORSI Dopo il comizio?

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 No, assolutamente. Dopo. Voi avete chiesto un appuntamento e lo avrete.

MANUELE BONACCORSI Non mi ha mai risposto.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 No, ho risposto alla e-mail dicendo che ero in campagna elettorale.

MANUELE BONACCORSI No, guardi, la risposta non è mai arrivata. Io le volevo fare solo una domanda sul depuratore IAS.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITA’ PRODUTTIVE SICILIA 2017- 2022 No.

MANUELE BONACCORSI Può essere che la Regione non si sia accorta che era un impianto abusivo?

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Lei è un provocatore; registri e lo mandi in onda. Io voglio rilasciare l’intervista, ne sentirete di belle appena mi sentirà parlare.

MANUELE BONACCORSI E io sono felice di ascoltarla, però lei mi deve rispondere.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Come no? Dopo, finita la campagna elettorale, lei riceverà una mail, verrà nel mio studio e parleremo di tutto.

MANUELE BONACCORSI Finita la campagna? Sicuro? Perché non sono riuscito a parlare con nessuno della Regione. Pare che questo impianto…

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Non è vero, non è vero, non è vero, non è vero.

MANUELE BONACCORSI Proprio nessuno, il vuoto.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Mi deve mandare in onda quello che le dico. Lei sta dicendo una bugia, perché le hanno risposto alla e-mail. Mi dia un bacio.

MANUELE BONACCORSI Con piacere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un po’ un bacio di Giuda perché non ha mantenuto niente di quello che ci aveva promesso, né ci ha inviato mail, né ci ha richiamato. Come ci ha ripensato anche l’altro assessore, Cordaro, il quale non se l’è più sentita di rilasciare un’intervista. Umanamente noi lo capiamo, perché come fai a giustificare questa mostruosità laddove c’è un impianto, un depuratore a maggioranza pubblica, dove però comandano i privati. Sono i privati che hanno sostanzialmente indicato chi doveva controllare la quantità di inquinamento all’interno di quel depuratore. Gli stessi che inviano dei reflui con delle sostanze tossiche: per contratto, quel contratto che è riuscito a vedere il nostro Manuele Bonaccorsi, che permette di inviare sostanze più tossiche, con dei limiti più alti rispetto alla legge. Ecco, peccato che questo depuratore non sia in grado di trattare quel tipo di rifiuti e ha agito fino al sequestro senza alcuna autorizzazione. Poi i controlli pubblici hanno funzionato come abbiamo visto. Adesso siamo a un punto di svolta. La procura ha chiesto ai privati: fermate l’immissione di quei reflui al depuratore. E i privati hanno risposto: è impossibile, perché altrimenti dovremmo fermare gli impianti. E allora come se ne esce? La procuratrice capo di Siracusa ci ha scritto e ci ha detto: l’autorizzazione ambientale rilasciata dalla regione ha dei profili di illegittimità, servirebbe una legge specifica che consenta al depuratore di agire in deroga alla legge ordinaria, oppure la procura dovrà necessariamente procedere con il fermo dei reflui. Ecco questo comporterebbe la chiusura immediata del petrolchimico. Servirebbe una legge ad hoc, come nel caso dell’Ilva. Perché tutto è veleno e niente è veleno. È la legge che fa il veleno.

La vergogna senza fine del petrolchimico di Siracusa: «Da 40 anni il depuratore non funziona: tutto va in aria e in mare». Omissioni, carte truccate, controlli inesistenti. L’Espresso in esclusiva ha letto tutti i documenti alla base dell’indagine della procura per disastro ambientale legato al più grande impianto italiano e tra i maggiori d’Europa. Ma neppure l’inchiesta siciliana ferma le grandi aziende, che sversano ancora in un impianto non adatto. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 12 settembre 2022

«Il depuratore funziona perché il laboratorio scrive numeri a minchia!…se si viene a sapere fuori, che noi non abbiamo controllato mai un cazzo!». È l’ottobre del 2019 e due dirigenti dell’impianto di depurazione del più grande polo petrolchimico d’Italia, e tra i più grandi d’Europa, vengono intercettati dalla procura di Siracusa. Inizia così una indagine che ha portato il mese scorso al sequestro di una struttura che per quarant’anni non ha mai funzionato nonostante lì le più grandi aziende chimiche e petrolifere d’Europa - e non solo -  abbiano scaricato, e scarichino ancora, fanghi e agenti inquinanti: per intenderci, Eni, i russi della Lukoil, i sudafricani della Sasol, gli indiani della Sonatrach. 

L’indagine della procura aretusea per disastro ambientale guidata da Sabrina Gambino, arrivata a normalizzare uffici infestati dal sistema del corruttore di giudici Piero Amara, alza il velo sull’inquinamento di un pezzo del Paese avvenuto in maniera incredibile con una serie di azioni superficiali di chi doveva controllare e della politica concentrata solo a spartire qualche posto di sottogoverno. L’Espresso ha potuto leggere nella sua completezza tutta la documentazione alla base di un’inchiesta che lascia davvero senza parole. Sembra incredibile che questo sia avvenuto negli anni Duemila, eppure le intercettazioni e le analisi dei periti incaricati dalla procura lasciano poco spazio ai dubbi: per decenni, e ancora oggi come vedremo, si è «compromessa la qualità dell’aria e del mare» dove insistono diversi agglomerati urbani, da Siracusa a Priolo, Melilli e anche alcuni paesi interni. 

In questo polo, dove ogni anno si lavorano 14 milioni di tonnellate di greggio, il 26 per cento della raffinazione complessiva in Italia, l’impianto di depurazione non ha mai funzionato per smaltire i reflui industriali che infatti venivano, e vengono, mischiati a quelli civili. Ma è solo un «escamotage», come scrivono i sostituti procuratori Tommaso Pagano e Salvatore Grillo. Il risultato è che secondo i periti della procura solo negli ultimi anni sono state emesse in atmosfera abusivamente 77 tonnellate di idrocarburi e agenti inquinanti all’anno, fra le quali 13 tonnellate di benzene. E in mare sono finite 1.500 tonnellate di agenti inquinanti mischiate ai fanghi per usi civili.

L'inchiesta ruota attorno alla gestione della società mista pubblico-privato “Industria acqua siracusana” (Ias), che gestisce la depurazione nel polo petrolchimico. La parte pubblica con Regione e Comuni ha la maggioranza, i privati sono rappresentati dalle grandi aziende. La politica negli anni si è accontentata di gestire le nomine dei presidenti dei cda: in questo ruolo dagli anni Ottanta si sono alternati i principali politici della zona dai tempi della Dc, dall’ex presidente della Regione Santi Nicita al comunista Salvatore Raiti. Ultimamente era diventata terreno di pascolo per gli uomini e le donne legate al sistema di Antonello Montante, l’ex vicepresidente di Confindustria condannato in secondo grado per associazione a delinquere: come Maria Grazia Brandara (unica indagata tra gli ex componenti cda Ias), a processo in uno dei filoni di inchiesta su Montante; oppure Maria Battiato, moglie del colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, anche lui coinvolto in un secondo processo in corso per i «servigi» offerti all’ex leader degli industriali; e, ancora, la procura fa rientrare nell’orbita Montante le nomine nei cda Ias di Gianluca Gemelli, compagno dell’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, e del sindacalista Salvatore Pasqualetto, che in una intercettazione di Battiato veniva definito uno «che non capiva nulla degli argomenti trattati». Ma c’è un motivo che forse spiega queste nomine e lo racconta interrogata la stessa Maria Battiato: «La società formalmente è a maggioranza pubblica, ma è totalmente in mano al volere dei soci privati…posso dire che era interesse dei privati quello di continuare a gestire l’impianto così come si era sempre fatto, senza intervenire per migliorare le problematiche ambientali pure da me segnalate». 

E come funzionava questo impianto? Lo ha “scoperto” la procura quando ha inviato lì i suoi consulenti tecnici, che in una relazione scrivono: «I dati rilevati postulerebbero una capacità depurativa dell’impianto pari al 90 per cento degli idrocarburi immessi dagli utenti…Tuttavia l’impianto non è ontologicamente in grado di smaltire neanche un microgrammo di idrocarburi. Non risultano presenti sezioni espressamente dedicate alla separazione degli oli e della loro rimozione. Analogamente non risultano flussi in uscita relativi agli idrocarburi». 

Resta quindi una domanda: con quale tecnicismo alla fine le soglie di legge venivano rispettate sulla carta? La risposta, in maniera incredula, la scrivono gli stessi pm: «Una parte degli idrocarburi calcolata in 77 tonnellate all’anno si disperde nella matrice aria mediante evaporazione dalla superficie delle vasche, a causa dell’assenza di un impianto di convogliamento delle emissioni. La restante parte che, stando alle autorizzazioni potrebbe addirittura superare le 1.500 tonnellate all’anno, sarà inevitabilmente quasi totalmente presente nel refluo in uscita…Se tuttavia queste enormi quantità di idrocarburi finiti in mare vengono diluite, grazie al mescolamento con i reflui civili con carico inquinante bassissimo, esse magicamente rientreranno nei limiti previsti dalla legge. È chiaro che si tratta di un escamotage, di un trucco buono a gettare fumo negli occhi e che non avrebbe potuto ingannare - per circa 40 anni - tutti gli enti deputati al controllo e alla tutela ambientale… Alla luce dei deficit strutturali si ritiene di poter serenamente affermare che dall’inaugurazione dell’impianto biologico consortile si fa sostanzialmente finta di depurare i reflui provenienti dai processi produttivi delle grandi aziende della zona industriale, immettendo inquinanti non smaltiti in atmosfera e nel mare Ionio, in quantitativi tali da produrre un vero e proprio disastro ambientale».

Ma chi doveva controllare questo impianto? Se una piccola azienda ha bisogno di 24 autorizzazioni per poter iniziare la sua attività, come è possibile che sia stato dato così l’ok al più importante depuratore del sistema industriale italiano? La procura ha scoperto che l’impianto non ha mai avuto una Autorizzazione integrata ambientale nazionale. Ha solo una autorizzazione regionale perché considerato un depuratore per usi civili, quando invece l’80 per cento riguarda reflui petroliferi e industriali. Ma c’è di più: l’Autorizzazione regionale si basa su un secondo impianto mai entrato in funzione: «L’intera progettazione e il sistema autorizzatorio hanno come presupposto il funzionamento dell’impianto di deodorizzazione che non risulta essere mai entrato in esercizio».

Per filtrare il benzene, che arrivava e arriva in quantità enormi, occorreva e occorre cambiare costantemente i filtri. Ma nessuno, né i privati né il pubblico, ha affrontato questa spesa. Così «è stato scelto consapevolmente e dolosamente di staccare l’impianto e proseguire nonostante il suo mancato funzionamento..Ias è dunque attualmente priva di un sistema di abbattimento delle emissioni in atmosfera e ciò nonostante continua nell’esercizio del depuratore, come se nulla fosse».

Un altro elemento incredibile di questa storia è che la Regione per oltre un decennio non si è accorta che quel depuratore non smaltiva solo reflui civili: «La Regione avrebbe dovuto rilasciare un’autorizzazione allo scarico di sostanze pericolose, l’unica che può avere senso di esistere in relazione al depuratore che dovrebbe smaltire i rifiuti di uno dei poli petrolchimici più grandi d’Europa…e invece l’impianto viene autorizzato a scaricare in mare come se in esso confluissero solo reflui domestici, facendo magicamente scomparire gli ingombranti serbatoi e le sterminate tubazioni delle aziende petrolchimiche che occupano il litorale fra Siracusa e Augusta». La procura ha quindi chiesto aiuto a dei consulenti per rispondere anche a un’altra banale domanda: «È stata o meno compromessa la qualità dell’aria e del mare?». La risposta dei tecnici, dopo analisi e la consultazione di una miriade di documenti, è secca: «La risposta è affermativa».

La verità comunque è che tutti gli attori di questo romanzo incivile erano consapevoli dello stato dell’arte. Scrive la procura dopo aver letto mail e intercettazioni di scambi tra componenti cda Ias e dirigenti delle società private: «È provato che tutti, esponenti Ias e soci privati, siano perfettamente informati del mancato funzionamento dell’impianto: essi sono quindi tutti consapevoli della impossibilità per il depuratore di garantire una tutela dell’ambiente equivalente nel suo insieme».

Resta allora ancora un’altra domanda: ma dopo il sequestro, cosa è successo? La procura ha nominato un amministratore giudiziario con il compito di chiudere l’impianto. Ma per far questo occorre trovare un accordo con i colossi energetici presenti, che hanno chiesto dai 5 ai 7 anni di tempo per fermare gli impianti senza creare ulteriori danni irreversibili. In questo momento il polo petrolchimico marcia come prima, perché la vera questione di fondo è che non si può fermare la più grande industria di raffinazione del Paese dove lavorano quasi 12 mila persone tra diretti e indotto. E non si fermerà. C’è però un elemento chiave, che non ha nulla di penale, ma è sostanziale: davvero i privati dai fatturati miliardari non possono investire per realizzare un vero depuratore che salvaguardi la salute dell’ambiente, dei cittadini e di chi là dentro lavora? La procura calcola l’investimento minimo necessario in 21 milioni di euro. E la politica, nazionale e regionale, cosa dice? A quest’ultima domanda possiamo in realtà già rispondere: nulla. Nemmeno in campagna elettorale qualcuno ha detto qualcosa su come questo disastro sarà fermato. D’altronde parliamo solo del più grande polo petrolchimico del Paese.

Petrolchimico di Siracusa, le minacce del sindaco alle aziende: «Se non assumete chi dico io vi mando i controlli». Ai domiciliari Giuseppe Gianni, primo cittadino di Priolo: ai dirigenti di Eni e Sonatrach ha chiesto posti di lavoro e appalti. «Se devo rompere i coglioni io ce la faccio». La procura indaga anche per disastro ambientale: il depuratore gestito dai Comuni non ha mai funzionato. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 4 Ottobre 2022.

Il sindaco chiedeva assunzioni, in cambio prometteva di chiudere un occhio sui controlli ambientali nel polo petrolchimico più grande d’Italia e tra i principali d’Europa. La minaccia era sempre la stessa ai dirigenti dell’Eni e della Sonatrach, le due grandi multinazionali che insieme alla Sasol hanno impianti nel polo di Siracusa: «Se devo rompere i coglioni io ce la faccio». Dove per «rompere i coglioni» significa semplicemente fare i controlli.

In questa che sembra una piccola storia di provincia, con un sindaco del paese di Priolo Gargallo, Giuseppe Gianni detto Pippo finito ai domiciliari, c’è forse la vera spiegazione del perché in questo polo negli ultimi quarant’anni, secondo un’altra indagine della procura di Siracusa guidata da Sabrina Gambino raccontata nei dettagli da L’Espresso, è andato in scena un grave disastro ambientale con compromissione di aria e mare: il tutto perché semplicemente il depuratore pubblico (gestito in maggioranza dai Comuni di Melilli, Siracusa, Priolo e dalla Regione) del più grande polo petrolchimico del Paese non ha mai funzionato per i fanghi e i reflui industriali.

La società di gestione del depuratore, Industrie acque siracusane (Ias) è in mano alla Regione e ai Comuni del comprensorio: tanto che l’attuale presidente è, si legge nelle carte dell’inchiesta su Gianni, vicina proprio a quest’ultimo.

Non a caso intercettata la presidente dice a Gianni: «Eseguo quello che dici tu». Dalle intercettazioni emerge come il sindaco Gianni abbia più volte chiesto ai dirigenti di Eni e Sonatrach assunzioni minacciando in caso di fare i controlli ambientali (che invece si sarebbero dovuti avviare a prescindere, chiaramente): tanto che proprio per le mancate assunzioni richieste, Gianni ha inviato un giorno il capo dei vigili urbani di Priolo nel polo. E lì il capo dei vigili urbani non si era mai visto.

Ma andiamo per ordine. Il 22 febbraio scorso nella stanza del sindaco si tiene un incontro con gli ingegneri Antonino Governanti e Nicola Ceccato, dirigenti della società Versalis del gruppo Eni. Gianni chiede loro di favorire in un appalto dell’Eni una azienda locale nella quale lavorano molti cittadini di Priolo. Il fine può essere anche “nobile”, dare lavoro ai propri cittadini, scrive in sintesi lo stesso magistrato. Ma non con questo metodo e soprattutto non con un ricatto che seguirà da lì a breve non appena Gianni capisce che i due non hanno intenzione di assecondarlo.

Gianni inizia a raccontare una storia di un ex direttore di uno stabilimento del polo che non aveva detto sì alle sue richieste e lui ha detto ai dirigenti del Comune: «Andate a vedere tutte le carte, voglio vedere tutti gli interventi che avete fatto in questi 10 anni, se devo rompere i coglioni ce la faccio a romperli». E aggiunge Gianni: «Dopo sono tornati tutti buoni, io capisco che si dà uno al sindacato, uno al tribunale uno all’ispettorato. Ma se tu ne prendi diciannove uno me ne dai? Sbaglio dottore Ceccato? ». La risposta di Ceccato è netta: «Il messaggio è chiaro». Gianni conclude: «Mi dia una mano per darvi una mano. Date una mano per darvi una mano….Ricevo anche qualche denuncia, perché l’architetto Miconi che era all’urbanistica e rompeva i coglioni a tutta la zona industriale l’ho mandato a fanculo e mi ha denunciato. Ma non me ne fotte niente perché io inseguo le idee…Non è che tutti i comuni vicini devono prendere tutte cose e il Comune di Priolo deve restare a guardare, perché poi io alla gente cosa gli dico?».

Gianni in cambio delle assunzioni mette a disposizione anche le sue conoscenze in Regione. Per essere chiari: la Regione è una delle principali colpevoli del disastro ambientale, secondo la procura, non avendo mai controllato il rispetto delle autorizzazioni ambientali concesse alla società che gestisce il depuratore. In un altro caso Gianni ha fatto scattare i controlli, che non erano mai stati fatti in realtà e lo racconta lui stesso, quando in un bar di Catania incontra Rosario Pistorio, dirigente della Sonatrach. Gli chiede di assumere delle persone e di favorire una azienda dell’indotto. E a mo’ di avvertimento rievoca anche un recente episodio, quando ha mandato il comandante dei vigili urbani nell’impianto Versalis dopo «lo sfiaccolamento del 17 giugno 2022». Racconta Gianni di aver detto al comandante di andare in procura perché «si era rotto i coglioni». Cioè non lo avevano assecondato nelle sue richieste. Ma il tema vero è: quel controllo forse andava fatto sempre e prima? Ma Gianni può decidere quando fare i controlli, scrive la procura, anche nel depuratore del polo perché l’ultima presidente della società di gestione dell’impianto è vicina a lui. Scrive la procura: «Il potere di influenza riservato al sindaco di Priolo all’interno della società consortile incide evidentemente su un aspetto fondamentale visto che Ias ha il compito di smaltire la maggior parte dei reflui industriali delle aziende del polo (e che per anni, come emerso in una seconda indagine, hanno potuti smaltirli un modo illecito anche grazie alla compiacenza, o almeno alla mancata solerzia, dei Comuni facenti parte dello Ias».

Le intercettazioni ambientali svolte hanno permesso di comprendere che nel periodo in cui Gianni formula la sua richiesta a Pistorio, il suo potere di influenza all’interno di Ias è perfino superiore ai poteri che derivano dalla sola partecipazione sociale, potendo egli contare sull’incondizionata fiducia, per non dire sull’obbedienza, della presidente e legale rappresentante di Ias, Patrizia Brundo. Nel corso di conversazioni captate la Brundo giunge a dire a Gianni “Tutto quello che tu mi dici, io anche a volte sbaglio, anche se a volte non lo capisco, lo eseguo”.

Una cosa è fuori di dubbio: se non per inerzia, come si spiega altrimenti che il depuratore del più grande polo petrolchimico del Paese per 40 anni non abbia depurato i reflui e i fanghi industriali e nessuno lo abbia denunciato?

Petrolchimico di Siracusa, la relazione shock: «Così gli scarichi incontrollati hanno compromesso mare e aria». Le consulenza tecnica alla base dell’inchiesta della procura per disastro ambientale nel più grande centro di raffinazione del Paese: «La continua immissione in aria di idrocarburi determina la compromissione della salubrità dell’ambiente». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 15 settembre 2022.

L’Espresso pubblica in esclusiva la consulenza tecnica alla base dell’indagine per disastro ambientale nel più grande polo petrolchimico del Paese e tra i più grandi d’Europa: quello di Siracusa. Come raccontato in un ampio servizio la procura della Repubblica aretusea guidata da Sabrina Gambino dopo tre anni di indagini, intercettazioni e perizie, ha contestato a una ventina di dirigenti della società che gestisce il “non” depuratore e delle grandi aziende, la mancata depurazione di fanghi e prodotti industriali eliminati quindi in aria e nel mare con annesso inquinamento. 

Proprio su quest’ultimo punto, e cioè sulle conseguenze per l’ambiente della mancata depurazione, si è soffermata una perizia consegnata ai magistrati il 5 maggio dello scorso anno e in parte finita poi nella richiesta di sequestro dell’impianto di depurazione avvenuto lo scorso giugno. La consulenza tecnica è firmata dai tecnici Mauro Sanna, Rino Felici e Nazzareno Santilli, che hanno consegnato una integrazione per rispondere a due questi chiave posti dai pubblici ministeri Tommaso Pagano e Salvatore Grillo: «Se le emissioni diffuse in atmosfera individuate dalla consulenza dell’ingegnere Polizzi e tenuto conto della natura e della quantità di refluo non depurato immesso in acqua nel corso del tempo dall’impianto di Industria acqua siracusana (la società che gestisce il depuratore, ndr) siano tali da generare una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili della matrice aria e della matrice acqua; e siano tagli da generare una offesa della pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per il numero di persone offese o esposte a pericolo, in relazione tanto ai lavoratori impiegati, quanto agli abitanti dei centri di Priolo Gargalo, Melilli e Siracusa, nonché degli agglomerati urbani interessati dalle emissioni».

Scrivono i consulenti nella perizia: «Le vasche maggiori di trattamenti dell’impianto di depurazione Ias mancando di idonei sistemi di mitigazione e contenimento, ogni anno emettono in aria ambiente complessivamente 77,4 tonnellate di composti organici volatili, costituite da 13,6 tonnellate di benzene, 9,8 tonnellate da toluene, 11,3 tonnellate di xiliene e 42,8 tonnellate da residui composti, nonché da 7,4 tonnellate di idrogeno solforato. Tali quantità, sommate a quelle emesse dagli insediamenti produttrici, contribuiscono a determinare un deterioramento della qualità dell’aria…La continua immissione in aria di idrocarburi, non mitigata e/o limitata da idonei impianti di abbattimento in dotazione all’Ias, determina nelle zone limitrofe all’impianto la compromissione della salubrità dell’aria ambiente che è la primaria condizione di garanzia per una buona qualità della vita degli abitanti dei centri di Priolo Gargallo, Melilli e Siracusa…. Naturalmente la diffusione di tali composti in determinate situazione meterologiche può estendersi ad altri comuni».

Un capitolo della relazione si intitola poi “Gli effetti tossici e nocivi”: «Gli effetti degli inquinanti immessi in atmosfera, e in particolare quelli tossici e nocivi che essi hanno sulla salute umana sia in modo diretto, attraverso la respirazione, sia in modo indiretto, attraverso il consumo di alimenti contaminati provenienti dalle campagne interessate dalle emissioni, sono i seguenti…L’esposizione cronica a benzene provoca tre tipi di effetti: danni ematologici, danni genetici ed effetti oncogeni; altro inquinante da considerare rilevante è l’idrogeno solforato, gasi incolore dall’odore caratteristico di uova marce, ed è una sostanza estremamente tossica poiché irritante e asfissiante. L’inquinamento delle acque con idrogeno solforato provoca moria di pesci; l’effetto sulle piante non è acuto, ma cronico per la sottrazione di microelementi essenziali per il funzionamento dei sistemi enzimatici».

Restando sul tema acqua, i tecnici scrivono che «l’esercizio continuo dell’impianto consortile di Priolo Gargallo che genera costantemente la immissione di idrocarburi in acqua senza alcun controllo da parte del soggetto gestore determina una compromissione ed un deterioramento della matrice acqua, anche indipendente dal suo uso». E proseguono: «L’impianto Ias ha un unico scarico costituito da una condotta sottomarina che scarica a 35 metri di profondità a circa 1.750 metri a largo della costa della penisola Magnisi, provvista di diffusori per avere una migliore miscelazione con le acque marine. Sulla costa a nord-ovest della scarico sono presenti gli insediamenti produttivi di Versalis spa, Isab e a seguire la rada de porto di Augusta. Verso est, lungo il litorale vi è la presenza di alcuni stabilimenti balneari che nel periodo maggio-settembre hanno un’alta frequentazione di persone, circa 2.600 bagnanti, come massima presenza giornaliera. Gli idrocarburi scaricati sono soggetti all’andamento delle correnti marine che dalla costa portano al largo gli inquinanti disperdendoli e rendendoli disponibili alla fauna acquatica in una vasta area, con i possibili impatti sulla catena trofica anche in funzione della pescosità delle acque in quell’area marina…La quantità complessiva di idrocarburi scaricati in eccesso nell’ambiente negli anni oggetto di indagine (2016-2020) ammonta a 2.297 tonnellate che diventano 2.409 se si considera l’effetto della diluzioni indotto dai reflui civili. L’assetto impiantistico, che sin dall’avvio del depuratore vede l’assenza di una sezione dedicata alla rimozione degli idrocarburi, evidenzia che lo scarico in eccesso di idrocarburi perdura fin dal suo avviamento avvenuto nell’anno 1983, provocando pertanto una considerevole immissione di idrocarburi in eccesso nell’ambiente…Infine altro elemento da considerare è rappresentato dal numero di persone esposte a pericolo in quanto fruitori diretti dello specchio di mare con la balneazione o altre attività amene, quali la pesca o la navigazione da diporto, anche in considerazione dell’evaporazione degli idrocarburi a causa dell’insolazione. Non a caso la presenza dello scarico unita agli sversamenti pregressi degli stabilimenti chimici e petrolchimici del polo di Siracusa ha determinato per tutto lo specchio d’acqua che si estende da Augusta a Siracusa l’adozione del divieto di pesca».

Petrolchimico di Siracusa, interrogazione a Bruxelles: «Fare chiarezza sul disastro ambientale». L’Eurodeputato Ignazio Corrao chiede l’intervento della Commissione Ue dopo la documentazione pubblicata da L’Espresso sull’indagine della procura. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 settembre 2022.

«Nel territorio di Siracusa è attualmente in atto uno dei disastri ambientali più gravi d'Europa. L'impianto di depurazione del più grande polo petrolchimico d'Italia non funziona e non ha mai funzionato per smaltire i reflui industriali. Il tutto con la complicità della politica e dei privati che hanno fatto profitti miliardari infischiandosene dell'ambiente e della salute dei cittadini». È quanto afferma l'eurodeputato siciliano Ignazio Corrao in riferimento al recente sequestro del depuratore del polo petrolchimico di Siracusa, Priolo e Melilli, rilanciato dall'inchiesta dell'Espresso. 

«Le più grandi aziende chimiche e petrolifere del mondo, come Eni, Lukoil, Sasol, Sonatrach - spiega Corrao - per decenni e in modo consapevole hanno scaricato, e scaricano ancora, fanghi e agenti inquinanti, avvelenando l'aria e il mare, a ridosso di agglomerati urbani, come Siracusa, Priolo, Melilli. Ancora oggi, nonostante il sequestro, l'impianto è in uso, anche se non è assolutamente in grado di smaltire idrocarburi né abbattere le emissioni in atmosfera. Per questo, ho chiesto alla Commissione UE, in via urgente, di occuparsi del caso e di prendere provvedimenti per garantire il rispetto della Direttiva sulle emissioni industriali e sulla responsabilità ambientale e riparazione del danno ambientale».

«Auspico che l'inchiesta de L'Espresso, che ha puntato i riflettori sul caso, e le indagini della magistratura spingano le autorità ad intervenire immediatamente per ripristinare la depurazione, e punire severamente chi ha avvelenato per decenni la nostra terra», conclude l'eurodeputato siciliano». 

Da ilnapolista.it il 7 settembre 2022.

Dopo la battuta ironica sulla lotta al cambiamento climatico che ha destato tanta polemica, all’allenatore del Psg, Christophe Galtier, oggi ha risposto anche Greenpeace. L’associazione ambientalista ha organizzato una manifestazione davanti al Parc des Princes, dove si gioca Psg-Juventus ed ha piazzato davanti allo stadio un carro a vela, offrendo un passaggio a Galtier, che aveva detto, ieri, «andremo in trasferta in barca a vela». 

L’amministratore delegato di Greenpeace Francia ha spiegato ai microfoni di Le Parisien:

“Abbiamo portato un carro a vela pochi minuti prima dell’inizio del match del Psg contro la Juventus per sfidare Christophe Galtier e Kylian Mbappé, per dire loro “anche voi avete un ruolo in questa crisi climatica. Invece di ironizzare su un problema serio durante una conferenza stampa, dovreste dare l’esempio e spiegarci come il Psg può contribuire allo sforzo contro il cambiamento climatico.

Queste persone hanno una notevole influenza in giro per il mondo, non c’è motivo per Kylian Mbappé di deridere la crisi climatica come ha fatto, preferiremmo vederlo interpretare il ruolo di ambasciatore. Non ci aspettiamo scuse, ma ci aspettiamo che tornino sul punto, per dire che si rammaricano del loro atteggiamento, che sono ben consapevoli della crisi climatica e che si sforzeranno di partecipare alla lotta contro questa crisi”.

STEFANO MONTEFIORI per il Corriere della Sera il 7 settembre 2022.  

L'unico a ridere prima alla smorfia e poi alla mediocre battuta dell'allenatore Christophe Galtier in conferenza stampa è stato Kylian Mbappé, superstar del Paris Saint-Germain e della nazionale francese, già modello di comportamento e di impegno civile, da lunedì campione un po' meno perfetto. Non si ride sui jet privati, non in Francia in questo momento.

La società Psg è oggetto di critiche da giorni perché sabato scorso ha postato su Twitter un video dall'aereo che stava portando la squadra a Nantes, per la partita poi vinta 3 a 0. Il centrocampista Marco Verratti inquadra il capitano Marquinhos, che mostra i suoi occhiali da sole gialli seduto accanto all'altra stella brasiliana Neymar Jr: «Bello no? Ti piace?», dice in italiano Marquinhos a Verratti, e Neymar Jr. grida «Bello ragazzo!». I campioni si divertono, sono spensierati e vogliono farlo sapere, il testo - «Bella atmosfera nell'aereo diretto a Nantes» - è innocente, e questo è il problema. 

Da mesi anche in Francia imperversa la polemica sull'impatto ambientale ed energetico dei jet privati, dopo un'estate di incendi, caldo e siccità senza precedenti e nel momento in cui il governo chiede a tutti i francesi sacrifici come usare la lavatrice solo la notte o accorciare il tempo della doccia. Il ministro dei Trasporti Clément Beaune ha annunciato che vuole limitare l'uso dei jet privati, ormai associati a iper diseguaglianza e incoscienza civile, ma giocatori e società del Paris Saint-Germain sembrano ignari e sconnessi dalla realtà. 

Nantes dista meno di due ore in treno ad alta velocità da Parigi. Era davvero necessario prendere l'aereo, per giunta privato? Lo ha chiesto in pubblico il capo dei Tgv, Alain Krakovitch: «Ri-ri-rinnovo la nostra proposta di un'offerta Tgv che sia adatta alle vostre esigenze specifiche: sicurezza, rapidità ed eco mobilità». 

È vero che l'apparizione di Mbappé , Messi, Verratti e gli altri in una stazione ferroviaria scatenerebbe il caos, provocando ritardi e disagi agli altri passeggeri. Ma è vero anche che altri in Europa ci stanno provando: il grande Liverpool, per esempio, ha scelto il treno per andare a giocare contro il Fulham, a Londra, a 300 chilometri di distanza. Quindi si può fare, o almeno se ne può parlare. Ma quando lunedì un giornalista ha posto la domanda a Galtier in conferenza stampa - «che cosa pensa della proposta del Tgv?

Ne ha parlato con i suoi giocatori?» -, il coach ha fatto una pausa teatrale, ha guardato Mbappé seduto al suo fianco, facendolo scoppiare a ridere, e poi ha risposto: «A dire il vero, stiamo pensando di organizzare i nostri spostamenti in carro a vela», evocando lo sport praticato sulle spiagge ventose del Nord. La battuta non è piaciuta a nessuno, dal governo – «Ironia fuori luogo», ha detto il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire - all'opposizione ecologista, che denuncia la «secessione climatica» in corso: tutti sono chiamati a ridurre i consumi, ma una classe di super privilegiati non si sente coinvolta. Delusione (ma anche indulgenza) per Mbappé, già campione di cause nobili - dalla lotta al razzismo al rifiuto delle scommesse come sponsor -, per qualche istante trasformatosi nel più superficiale dei 23enni.

Dal “Corriere della Sera” il 2 settembre 2022.

Dopo Sinistra italiana ed Europa verde, anche Beppe Grillo si schiera contro l'uso dei jet privati per difendere l'ambiente. Dal suo blog avanza la proposta di replicare la campagna francese I Fly Bernard, l'account Twitter di un militante che dà indicazioni su come tracciare i voli privati, identificare i proprietari (miliardari) degli aerei e conoscere i chilometri che percorrono. « Potremmo farlo anche noi in Italia, che ne dite?», suggerisce il garante del Movimento 5 Stelle.

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 2 settembre 2022.  

[…] Mentre Conte gira l'Italia fra selfie in maniche di camicia, Grillo ritira su la saracinesca del suo blog e torna a battere sulle vecchie battaglie del Movimento. Anzi, di Grillo. […] Canapa libera, voto ai sedicenni, ambientalismo 2.0. L'ultimo post si scaglia contro gli «aerei dei super-miliardari» e il loro «consumo folle» di carburanti che inquinano. La soluzione? Metterli al bando, come chiedono di fare gli ambientalisti francesi, dice Grillo. «Potremmo emulare l'iniziativa anche in Italia, che dite?». 

È un ritorno amarcord, quasi un dejavu. Sono passati vent' anni da quando il comico genovese tuonava contro il «jet privato intercontinentale della Parmalat», sembrano due giorni. L'effetto retrò è ricercato. Così scorrendo il blog ci si imbatte in un altro video. C'è Grillo sul palco, a Genova nel 1997. Lo spettacolo, «Cervello», è sold-out. «Con la Canapa si fa tutto, come si fa a vietarla?», grida lui. Ecco un altro ritorno, la marijuana libera. 

È un punto fermo del programma elettorale targato Conte, dove si apre alla «produzione limitata di cannabis per uso terapeutico». Il copyright però è ancora una volta di Grillo, che più di una volta ha rispolverato dalle sue teche il comizio genovese sulle droghe leggere. 

«Spinello sì o spinello no? È una domanda stupida - sentenzia oggi sul blog - abbiamo messo fuorilegge una pianta a causa di uno degli usi più stupidi. È come se tu bevi, ti viene un po' di cirrosi e mettiamo fuorilegge la vigna». […]

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 2 settembre 2022.  

Non perde il vizio mister Beppe Grillo, sempre più dottor Jekyll e mister Hyde. Nel nome della frenesia elettorale che vede Conte e i Cinque Stelle posizionarsi a sinistra per manganellare Letta e il Pd, il supercomico ha deciso di imbracciare anche lui la lupara contro i jet privati. Inquinano, ulula dal suo blog, e sembra uno di quegli ambientalisti estremisti che sanzionano soltanto i comportamenti altrui. Si è scordato - per l'età che avanza inesorabile - i bei tempi, quando lui privilegiava gli yacht superinquinanti dei suoi amici del cuore.

E diceva, allora, di non essere un ecologista... Ma ora si è scatenato. Adesso, come detto, fa le pulci a chi usa jet privati (mica gli yacht) e li sbatte sul suo blog, manco fosse un Fratoianni qualsiasi. Ora e non ieri, come se fosse un francese qualunque. Vuole farci imitare il presidente francese Macron, Beppe Grillo, nel risparmio di energia. E scrive: «In un contesto di crisi Il comico si energetica e riscaldamento globale, i francesi sono invitati a ripetere piccoli gesti quotidiani per ridurre il loro consumo di elettricità e la loro impronta di carbonio. 

"Uno sforzo" chiesto alle famiglie nell'ambito di un "piano di sobrietà" volto a superare l'inverno senza interruzioni di corrente. Tuttavia, i francesi super ricchi continuano ad utilizzare i loro jet privati per viaggi (professionali o personali) che possono essere effettuati in treno o in auto. Per questo è iniziata una vera e propria denuncia social contro il consumo folle di questi ultra miliardari».

Così Beppe Grillo in un post sul suo blog, dove suggerisce: «Potremmo emulare l'iniziativa anche in Italia, che ne dite?». Il fondatore del M5S spiega che «negli ultimi mesi account Twitter e Instagram hanno tracciato i viaggi degli aerei dei super miliardari. 

Tra i tanti, quello più seguito è "I Fly Bernard", un account Twitter di un famoso militante francese che fa il bilancio del peso ambientale dei jet privati dei miliardari francesi. Il nome dell'account "I Fly Bernard" è un richiamo al boss del lusso francese Bernard Arnault, proprietario di LVMH (Louis Vuitton, Christian Dior, Sephora, Fendi, Céline...). "Quello che sto cercando di denunciare è il loro uso di jet privati come taxi", ha dichiarato il creatore dell'account, un ingegnere che desidera rimanere anonimo».

È il "nuovo" Beppe Grillo, insomma. Ben diverso da quello pizzicato nei primi anni Duemila su uno yacht al largo della Sardegna. Ancora si trovano in circolazione le foto del settimanale Eva Tremila che lo immortalavano in costume da bagno mentre saliva faticosamente, causa una pancia di tutto rispetto, a bordo di un'imbarcazione. Proprio Liberò lo battezzò come "L'ecofurbetto".

 Ovvero, il classico predicatore del bene mentre razzola male, che fa battaglie e promuove campagne ecoambientali, come quella a favore dell'auto a idrogeno, mentre invece se ne va in giro spensierato sudi un motoscafo «da 490 cavalli, due motoroni alimentati da inquinantissimo e puzzolentissimo gasolio». All'epoca se ne uscì con una specie di «a mia insaputa» ante litteram, così giustificandosi: «In realtà quella barca, un motoscafo di sei metri e mezzo che non ha un motore da 490 cavalli, non è mia ma di un amico che è anche il mio medico. Io mi trovavo in spiaggia, al Mortorio, e da lì l'ho raggiunto a nuoto per un saluto e due chiacchiere. E poi, scusi, cosa significa "ecofurbetto"? Non sono un ecologista, non mi occupo di ecologia ma di sistemi e tecnologie». Si vede che la passione per l'ecologia - nella nuova disputa anti jet - gli è arrivata a tarda età. 

Chi c'è dietro Jet dei Ricchi, l'account Instagram che svela quanto inquinano i vip italiani. Valentina Ruggiu su La Repubblica l'1 settembre 2022. 

Il team di under 30 stima l'impatto ambientale dei jet privati delle persone più ricche d'Italia e lo paragona a quello di una persona media, così il concetto di disuguaglianza ambientale diventa accessibile a tutti. Per alimentare un dibattito pubblico abbracciato da Fridays for Future, Europa Verde e Sinistra Italiana

"Nessun essere umano ha bisogno di un jet privato, tantomeno i ricchi". Hanno meno di 30 anni, sono sparsi per l'Italia ma a unirli è un obiettivo comune: rivelare quanto inquinano i paperoni nostrani con i loro voli in solitaria. Il progetto, nato il 24 giugno, si chiama non a caso Jet dei Ricchi, è attivo con un account su Instagram e su Twitter e nel mirino sono già finiti i viaggi di vip, politici e imprenditori come Diego Della Valle, Matteo Renzi, i Ferragnez, Gianluca Vacchi, Sfera Ebbasta o Elettra Lamborghini. Così, a colpi di post e tag, il loro lavoro ha portato la questione dei jet privati direttamente all'interno del dibattito elettorale, grazie al sostegno di Europa Verde e Sinistra Italiana, oltre che a quello dei Fridays for Future.

"Non siamo dei Mr Robot, siamo solo attivisti che lavorano o hanno lavorato nel campo dell'impatto ambientale. Non lo facciamo per soldi o fama, abbiamo tutti un lavoro e vogliamo mantenere l'anonimato. Il nostro unico obiettivo - spiega uno dei promotori - è alimentare un dialogo pubblico sull'impatto che i voli di lusso hanno sull'ambiente affinché si arrivi anche in Italia a parlare di una loro futura abolizione così come già sta accadendo in Francia". 

E proprio in Francia è nato il progetto da cui Jet dei Ricchi ha tratto spunto: L'Avion de Bernard, che segue e calcola quanto inquina l'aereo di Bernard Arnault, terzo uomo più ricco del mondo e patron di Lvmh, multinazionale proprietaria di oltre 70 marchi del mondo del lusso, tra cui Louis Vuitton e Christian Dior. "Rispetto a loro noi abbiamo scelto di non concentrarci su una sola persona perché non vogliamo che ci sia un accanimento e anche perché puntiamo a restituire un quadro più ampio del fenomeno. Vorremmo abbracciare le 40-50 persone più potenti del nostro Paese".

La disuguaglianza climatica tra il milionario e il cittadino medio

Così il jet privato anche in Italia è diventato uno strumento per comunicare la disuguaglianza climatica. "Se dico che il 10% più ricco del Pianeta è responsabile del 50% dei gas a effetto serra è difficile da immaginare, ma se dico che Gianluca Vacchi per 57 minuti di volo privato, da Bologna a Taranto andata e ritorno, ha emesso un livello di CO2 pari a quella prodotta da due persone nell'arco di un anno solo per andare a inugurare un ristorante della sua catena di Kebab, allora il discorso è più chiaro per tutti".

Grazie al confronto, cifre astratte e fredde assumono un significato comprensibile a chiunque, rendendo manifesto il peso che i privilegi di alcuni hanno sull'ambiente e quanto ogni singolo volo privato possa vanificare gli sforzi della collettività. "Molti ci scrivono demoralizzati, ci dicono che i loro sacrifici non hanno senso se poi si permette a queste persone di inquinare con voli che a volte sono addirittura brevissimi. Questo - spiega il team - è un punto delicato del nostro lavoro noi ripetiamo sempre che non per questo possiamo venir meno alle nostre responsabilità. Quello che possiamo fare invece è agire sulle abitudini di quell'1% di super ricchi che sono responsabili del 17% delle emissioni totali del comparto aviazione".

Come rintracciare i voli e calcolare l'impatto di CO2

Ma come si svolge il loro lavoro? "Non c'è nulla di complicato: i dati che usiamo sono tutti pubblici e i calcoli sono facilmente replicabili", spiegano. Il primo passo ovviamente è rintracciare la targa di un jet: "Possiamo scovarla dalla foto di un giornale, da un articolo o dalle immagini che i vip stessi postano sui social". Tramite la targa si cerca poi il velivolo su uno dei software open source come Flightradar o Adsbexchange. Da queste piattaforme si può ottenere un dato fondamentale: il tragitto e quindi la durata del volo. Informazione che, insieme al consumo di carburante al minuto, rintracciabile nelle specifiche tecniche del velivolo, servirà a determinare la quantità di CO2 emessa. "Basta moltiplicare la quantità di carburante bruciata al minuto per la durata del viaggio e infine per un fattore di emissione, che per il cherosene di tipo A è di 3,06 chilogrammi di CO2 al litro. Un valore che ci è fornito dall'ente francese Ademe". 

Oltre ai calcoli, c'è poi tutta una parte di lavoro incentrato sulla ricerca, verifica e incrocio delle informazioni che serve per determinare se un personaggio sta effettivamente viaggiando sull'aereo che si sta seguendo. Operazione fondamentale soprattutto per i jet privati in affitto: i cosiddetti taxi dei cieli.

Lo scempio dei taxi dei cieli

Oltre alla difficoltà nel tracciamento, secondo Jet dei Ricchi i velivoli a noleggio hanno anche un'altra conseguenza: "Hanno lo stesso problema dei taxi: quando lo chiami arriva da te vuoto e questo fa sì - dice il team citando dati del quotidiano francese Le Figaro - che il 40% dei jet privati volino vuoti e ricordiamoci che si tratta di oggetti che quando si muovono emettono ogni 50 minuti l'equivalente di quello che una persona media europea emette in un anno tutte le volte che prende la macchina, tutte le volte che viaggia in treno, in aereo, che si fai spedire un pacco e così via. Questa roba è un'aberrazione in una società che sostiene di essere nel cammino della sostenibilità. Inoltre dobbiamo pensare che i jet a noleggio costituiscono la maggioranza degli voli privati che gira in Europa: affittati da persone sufficientemente ricche per pagare un viaggio, ma non abbastanza per comprare un aereo e mantenerlo".

Name&Shame: pubblicare i dati sui social

L'ultima fase del lavoro è quella della pubblicazione dei dati. Un post e delle storie in cui viene taggato il personaggio di turno, nella speranza che il messaggio arrivi anche al diretto interessato. "La tecnica del name and shame, di puntare il dito pubblicamente verso una persona, è una tattica che si usa sin dagli anni '80, con Greenpeace che scriveva i nomi delle baleniere con il sangue. Tuttavia non ci ha mai risposto nessuno. Solo Gianluca Vacchi si è staggato tre volte dal nostro post, ci piace considerarlo un segno di vita", dice ridendo il team.

Voli privati per piacere, non per business

"Una delle accuse che spesso ci fanno - raccontano gli analisti - è che attacchiamo persone che lavorano, che hanno un business talvolta internazionale e che devono risparmiare tempo". Tuttavia l'ultimo report dell'Ong Transport&Environment delinea un altro quadro. Sulla base dei dati forniti dall'European business aviation association (EBAA) viene sottolineato come una quota consistente dei voli privati sia effettuata per piacere e non per motivi aziendali. "Abbiamo identificato un chiaro picco nel traffico dell'aviazione privata durante i mesi estivi - si legge - con gli aeroporti delle località soleggiate che registrano la maggior parte dei loro introiti proprio in quel periodo". Inoltre, si legge sempre nel report, il 70% dei jet privati viene impiegato per voli intra-Eu e hanno il doppio delle probabilità, rispetto a un volo di linea, di essere usati per viaggi inferiori ai 500 Km.

Un privilegio che non è più sostenibile

Nel traffico aereo privato d'Europa l'Italia è al terzo posto in classica per emissioni, superata dal Regno Unito e dalla Francia che ricoprono rispettivamente il primo e il secondo scalino della graduatoria. "L'aviazione privata di lusso rappresenta in termini assoluti una percentuale piuttosto bassa a livello di emissioni di CO2 rispetto a tutto il comparto - specifica il team di analisti - ma sono oggetti inutili e la prima cosa che si fa quando la situazione è tragica e bisogna portare a casa la pellaccia, che in questo caso è il Pianeta, è tagliare le cose superflue. I ricchi possono viaggiare in altri modi: possono prenotarsi un intero vagone su un treno, prendersi una residenza in un luogo senza dover fare in giornata Ancona- Parigi-Ancona come se fosse possibile perché non è più possibile. Questo modo di vivere non è più sostenibile in un mondo che cerca di reagire già con estrema fatica alla crisi climatica e che già sappiamo che non riuscirà a rispettare gli accordi di Parigi".

Il futuro del progetto

Se il primo passo del collettivo di Jet dei Ricchi è creare consapevolezza e dibattito, il secondo step è quello di tramutare i dati ottenuti dal loro lavoro in proposte di intervento volte a limitare l'uso dei jet privati. "Non viviamo su un altro Pianeta", concludono . "Sappiamo che è impossibile abolirli da un giorno all'altro, ma è possibile agire in altri modi come per esempio inserendo una tassa sul carburante. Ci stiamo lavorando, quello che ci interessa è che tutte le forze politiche arrivino a parlare di abolizione dei jet privati". Intanto ad averlo fatto è stata l'alleanza Europa Verde e Sinistra Italiana, che non ha inserito il tema nel programma elettorale di settembre, ma ha deciso di abbracciare la proposta promuovendo una campagna sui social. Così come il Fridays for Future, che ha inserito il tema nelle proposte della loro agenda climatica.

Chi ridicolizza la proposta seria di abolire i jet privati è fuori dal tempo. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 31 agosto 2022

Quella di abolire i jet privati per ridurre le emissioni è una proposta coerente per una coalizione che vede accoppiato un partito la cui priorità è l’ambiente con un partito la cui priorità è l’uguaglianza sociale.

E invece succede che questa proposta sia diventata bersaglio di derisione e grasse risate con esponenti della politica, giornalisti e personaggi tv che si danno di gomito sui social.

Non si inverte la rotta senza piani ambiziosi e chi ridicolizza proposte come quella sui jet privati fingendo che sia una questione di lotta di classe e non di sopravvivenza del pianeta, non è solo arrogante: è, soprattutto, vecchio. 

Se dovessi pensare a qualcosa che abbia davvero a che fare con la crisi della sinistra e su come la forbice tra vecchie e nuove generazioni si stia allargando sempre di più, penso alla polemica di questi giorni sui jet privati.

Nello specifico, sulla proposta di Europa verde e Sinistra italiana di abolirli perché «l’1 per cento della popolazione più ricca del pianeta inquina il doppio della metà più povera. È per questo che il prezzo dei capricci dei super ricchi lo paghiamo tutte e tutti, nonché le prossime generazioni», viene spiegato.

Insomma, una proposta coerente per una coalizione che vede accoppiato un partito la cui priorità è l’ambiente con un partito la cui priorità è l’uguaglianza sociale.

Voglio dire, se Europa verde e Sinistra italiana proponessero di tassare i cassaintegrati che mangiano vegano potremmo stupirci, ma visto che propongono di chiedere ai più ricchi di non usare i jet come fossero taxi perché sono taxi che inquinano in maniera spaventosa, non dovremmo sorprenderci. Anzi, ci dovrebbe sembrare un tema di discussione importante.

E invece succede che questa proposta sia diventata bersaglio di derisione e grasse risate con esponenti della politica, giornalisti e personaggi tv che si danno di gomito sui social.

Si spanciano per l’ingenuità della proposta perché secondo loro irrealizzabile, perché è roba da veterocomunisti, perché “questi sarebbero i problemi della sinistra ahahah”. 

NON C’È NIENTE DA RIDERE

In realtà questi non sono problemi della sinistra, ma pure quelli della destra, del terzo polo, dei poli nord e sud e delle tribù del Borneo, perché ai voli privati e di linea dobbiamo il 2-3 per cento delle emissioni globali di CO2, ai voli privati dobbiamo circa il 3-4 per cento delle emissioni provenienti dal traffico aereo.

E questa è una stima approssimativa, che non tiene conto dell’aumento dell’utilizzo dei jet privati negli ultimi tempi (nel 2021 le partenze dall’Italia di questo tipo di voli sono state oltre 55mila, dice il Post) quindi è evidente che non si affronti una questione irrisoria ma, al contrario, molto seria.

E invece ci ridono su in parecchi, da Matteo Renzi al suo fido deputato Luigi Marattin, al direttore de Linkiesta Christian Rocca e poi a una delle colonne di Propaganda Makkox, e ancora Luca Bottura, Luca Bizzarri e così via. Ahaha che ridere.

Ma quali sono i loro argomenti? Secondo Matteo Renzi, «per salvare l’ambiente non devono abolire i jet ma il nucleare» o anche «una idiozia così non la sentivo dai tempi dei navigator di Di Maio. Si mette il seme per una svolta filosovietica e per abolire la proprietà privata».

Come ha fatto notare il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, è evidente la preoccupazione di Renzi di dover raggiungere l’Arabia Saudita con un aereo di linea. Per intenderci, di quelli da pezzenti. O su un cammello, chissà.

Del resto parliamo di colui che da premier, come jet privato personale non aveva preteso un 12 posti come Briatore, ma direttamente un Air Force One, costato alle casse dello stato (168 milioni di euro per 8 anni di esercizio) e all’ambiente svariate tonnellate di CO2.

Insomma, che il tema ambientale non gli stesse particolarmente a cuore lo sospettavamo. Rottamatore e riciclatore sì, ma solo se si parla di politica. Ovviamente gli va dietro Luigi Marattin, con il consueto fare sprezzante.

Il suo tweet: «In attesa che lo stesso slogan abbia “proprietà” al posto di “jet” (è solo questione di tempo, visti i soggetti), una riflessione: al 31/12/2021 risultano 133 jet privati registrati fiscalmente in Italia. Sicuramente abolendoli si risolve il problema dell’ambiente nel mondo». Capito?

Dall’abolizione del jet privato a voli popolari solo a bordo dello Sputnik è un attimo. E nessuno che gli abbia spiegato, con calma, che anche in quel covo di bolscevichi che è il governo Macron si sta pensando di abolire o comunque ridimensionare l’utilizzo dei jet privati (lo hanno proposto sia il ministro dei trasporti francese Clément Beaune che il deputato verde Julien Bayou)

DECISIONI COLLETTIVE

Tra l’altro, la storia dei 133 jet registrati fiscalmente in Italia è piuttosto fessa, visto che non sappiamo quanti non siano registrati fiscalmente in Italia e quante (e quali) tratte coprano l’anno, ma soprattutto: cosa significa che abolendoli non risolviamo il problema dell’ambiente nel mondo?

Abolendo cosa risolveremmo il problema ambientale nel mondo? Ovviamente nulla, se si tratta di un’azione singola, perché il cambiamento climatico in corso è causato da un insieme di fattori e scelte scellerate, anacronistiche, superficiali o poco lungimiranti.

In molti casi tornare indietro è complesso, in altri meno. Ci sono decisioni che ricadrebbero su milioni di persone e non sarebbero sostenibili nel breve periodo, altre come il ridimensionamento o l’abolizione dei jet privati sono scelte che coinvolgerebbero un numero più ristretto di persone, per giunta in grado di pagarsi la prima classe di un aereo di linea o di coprire le tratte più brevi sedute comodamente su una macchina guidata da altri.

MONDO CAPOVOLTO

«Poi mettiamo una tassa anche sugli ombrellini da cocktail e direi che il più è fatto», ha commentato Luca Bottura. Luca Bizzarri, ad un tweet dell’europarlamentare Eleonora Evi che ricordava, appunto, che l’1 per cento della popolazione più ricca inquina il doppio di quella più povera, ha risposto: «Voglio essere nell’1 per cento, ora accendo la Vespa e la lascio accesa fino a stasera» per poi passare a perculare l’utilizzo della schwa su un manifesto elettorale.

Grasse risate da parte di alcuni dei più esposti nemici pubblici delle destre, roba da mondo capovolto. E in effetti partecipa al perculamento anche uno dei protagonisti di Propaganda, Makkox, che scrive «Comincia a dire addio alla carrozza executive!», in risposta a un tweet di dileggio del direttore de Linkiesta Christian Rocca.

Lo aspettiamo col sorrisetto beffardo a perculare Diego Bianchi la prossima volta che inviterà di nuovo a Propaganda Greta Thunberg, con le sue proposte ben più radicali dell’abolizione dei jet. Chissà quanto coraggio.

Insomma, il tema delle emissioni per questi luminari dell’ecologia nonché quello degli sforzi equi per l’ambiente è roba da cabaret.

E invece è una cosa serissima, perché un vero processo di sradicamento di abitudini antiecologiche richiederà, nel futuro prossimo, sacrifici a tutti e tutti dovranno fare la propria parte, in maniera bilanciata.

INGIUSTIZIA SOCIALE

Oggi mio padre, a 90 anni, viene multato se butta per sbaglio la plastica nel sacchetto dell’umido, ma Gianluca Vacchi, come documenta il prezioso account Instagram @Jetdeiricchi, per andare a inaugurare un kebab a Taranto, può prendere un jet privato e immettere 5,7 tonnellate di anidride carbonica, «ovvero la quantità pari a quella prodotta da due persone in un anno intero per l’insieme dei loro trasporti» (nel caso di mio padre nemmeno, visto che non si muove quasi più).

Un’ingiustizia sociale e ambientale che andrebbe presa molto seriamente, cosa che sta accadendo all’estero, mentre qui è già diventata oggetto di volgare dileggio.

In questi casi, poi, c’è sempre una certezza: quando il professor Riccardo Puglisi beffeggia qualcuno o qualcosa su Twitter (in questo caso la faccenda dei jet privati), si può stare sicuri che la ragione sia dalla parte del beffeggiato.

Secondo alcuni ambientalisti, la spocchia fessa di Puglisi produce anch’essa emissioni di CO2 pari a quelle del jet usato dai Ferragnez per quell’ora di volo sul jet privato che li separa da Ibiza. Insomma, l’aviazione privata di lusso è un tema.

Non l’unico, certamente, ma è un tassello importante tra i cambiamenti che dovremo affrontare. E chi sostiene che sarebbe un danno economico per una serie di segmenti del settore, guarda ciò che ha davanti e non l’orizzonte: il cambiamento climatico in atto è destinato a impoverire drammaticamente tutta l’umanità.

Non si inverte la rotta senza piani ambiziosi e chi ridicolizza proposte come quella sui jet privati fingendo che sia una questione di lotta di classe e non di sopravvivenza del pianeta, non è solo arrogante: è, soprattutto, vecchio. 

Erica Orsini per “il Giornale” il 26 agosto 2022.

Nell'era del post Brexit tra Parigi e Londra scoppia la guerra dei liquami. Tre europarlamentari francesi hanno accusato il Regno Unito di mettere a rischio il benessere degli esseri umani, della flora e della fauna marina, rilasciando liquami freschi nel Canale della Manica e nel Mare del Nord.

L'accusa giunge subito dopo la diffusione della notizia che almeno una cinquantina di spiagge dell'Inghilterra e del Galles erano state considerate altamente inquinanti per i bagnanti proprio per il medesimo motivo. Le copiose piogge degli ultimi giorni avevano infatti deviato ingenti quantità provenienti dalle acque di scolo nei fiumi e nel mare.

Gli europarlamentari hanno quindi accusato il governo britannico, con un reclamo ufficiale presentato alla Commissione Europea, di essere venuto meno ai suoi precisi impegni ambientali danneggiando così l'ambiente circostante. Alla Commissione hanno inoltre richiesto di prendere provvedimenti «politici e legali» per contrastare quella che appare una chiara violazione delle regole ambientali internazionali.

Una violazione che sarebbe conseguenza diretta, secondo i politici francesi, della Brexit dato che la decisione britannica di abbassare gli standard qualitativi sulla qualità delle acque si è resa possibile proprio dopo l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea. 

«Questa decisione è inaccettabile - scrivono nella lettera inviata a Bruxelles - e richiede un'azione immediata per bloccare l'inquinamento nelle acque del canale e del Mare del Nord. Temiamo per le conseguenze negative che potrebbero venir determinate dal basso livello qualitativo delle acque comuni sulla biodiversità marina, così come sulla produzione ittica».

I tre deputati, che appartengono al gruppo centrista del Parlamento Europeo, affermano che «dopo la Brexit il Regno Unito si è auto esonerato dal regolamento europeo ambientale», ma sottolineano che pur non aderendo alle sue regole dal gennaio dello scorso anno, il governo britannico ha comunque sottoscritto un accordo commerciale e di cooperazione all'interno del trattato d'uscita che gli impone di adempiere alla legislazione del mare delle Nazioni Unite, relativa alla protezione delle acque condivise.

«Ciononostante il Regno Unito ha scelto di abbassare gli standard di qualità della sua acqua - concludono i deputati - e questo non è accettabile, il Canale e il Mare del Nord non sono terreni di discarica». 

Un portavoce del governo britannico ieri ha replicato che le accuse francesi «semplicemente non corrispondono alla verità», ma è stato implicitamente contraddetto dalla risposta di alcune delle compagnie delle acque che hanno confermato di «stare lavorando per risolvere il problema». 

E del resto, lo scorso anno, la società inglese Southern Water ha ricevuto una multa record di 90 milioni di sterline per aver riversato nel mare del Sussex, Kent e Hampshire miliardi di litri di liquami non trattati.

Il Regno Unito ha un sistema combinato di fognature che riversa negli stessi canali sia l'acqua piovana che quella proveniente dai bagni e dalle cucine dei cittadini inglesi. In casi eccezionali, come durante le piogge molto abbondanti e in concomitanza con periodi di forte siccità, le fognature vengono sopraffatte dal liquame e per evitare che questo fuoriesca negli spazi aperti delle strade e vicino alle abitazioni, viene deviato temporaneamente nel mare. Water Uk, che rappresenta l'industria delle acque britanniche, ha confermato che le compagnie hanno deciso di investire, tra il 2020 e il 2025, più di 3 miliardi di sterline per migliorare la situazione.

I veri responsabili del riscaldamento sono Cina e India. Oggi l'Occidente non può fare di più. Pier Luigi del Viscovo il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Di fronte alla tragedia, il primo obbligo è la verità. Speculare per tirare acqua al mulino delle proprie idee è una bassezza umiliante.

Di fronte alla tragedia, il primo obbligo è la verità. Speculare per tirare acqua al mulino delle proprie idee è una bassezza umiliante.

È vero, al netto di infrastrutture che mancano e previsioni assenti, la siccità e la disgrazia della Marmolada sono riconducibili al riscaldamento climatico indotto dalla concentrazione in atmosfera di gas serra, soprattutto anidride carbonica. Fino al 1850 il livello era stabile intorno a 280 parti-per-milione, salito nel 2000 a 370 e oggi, dopo appena vent'anni, a 420. La situazione sta peggiorando, non migliorando, a dispetto delle denunce dei movimenti ambientalisti. Nel 1995 ci fu la prima Cop, quella di Berlino, sponsor forte il vicepresidente Al Gore, a cui gli elettori preferirono un pur debole Bush figlio. A novembre scorso a Glasgow siamo arrivati alla numero 26: ventisei anni di allarmi, sul clima che aumentava e sul tempo che si riduceva, mentre nulla di realmente efficace veniva fatto.

Non vogliamo più né siccità né disastri mortali, tipo ghiacciaio o inondazioni, e la politica prende impegni affinché non accadano. La verità? Ce ne saranno altri e meglio faremmo a prepararci ad essi. D'accordo, ma comunque facciamo anche qualcosa per evitare che si ripetano. La verità? Possiamo fare tante cose, ma nulla che incida davvero sul riscaldamento. A parte che stiamo già riducendo le emissioni dal 1980, pesiamo troppo poco per fare la differenza. Secondo i dati dell'International Energy Agency, l'Unione Europea nel 2021 ha emesso meno di 3 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2, più o meno quante ne emetteva la Cina a inizio secolo. Oggi il Dragone con 12 Gt, un terzo di tutte le emissioni antropiche, è di gran lunga il principale responsabile, davanti agli USA con meno di 5 Gt, ma in calo dal 2000. La verità? Le economie emergenti non possono diminuire le emissioni perchè devono offrire energia ai cittadini. Nel 2021 la domanda di elettricità in Cina è aumentata del 10%, aggiungendo l'equivalente di tutta l'Africa.

Dovrebbe bastare per passare da contrastare il riscaldamento a contrastare gli effetti del riscaldamento. Nient'affatto. Per molti europei l'obiettivo non è limitare i danni ma mondarsi la coscienza, per essere ricchi e colti. Così, puntano il dito sulle responsabilità storiche. L'Occidente si è sviluppato a carbone e petrolio e ora tocca agli altri: perché non dovrebbero? È la tesi dei Paesi emergenti, e si capisce, ma anche degli ambientalisti occidentali, e non si capisce. Intanto, i dati dicono qualcosa di diverso. Vero che dal 1850 gli Stati Uniti hanno emesso più CO2 di tutti (20%), ma la Cina ha recuperato bene (11) seguita da Russia (7) Brasile (5) e Indonesia (4), questi ultimi per lo sfruttamento del suolo.

Poi, sollevano il tema delle emissioni pro-capite: non è giusto chiedere ai cinesi, che sono 1,4 miliardi, di limitarsi, quando noi non lo facciamo. Anche qui, il cittadino americano emette più di tutti, 14 tonnellate/anno, ma poi viene il russo, con 12. Giapponese, cinese e tedesco stanno a 8 tons, mentre italiani, inglesi e francesi emettono meno di 5 tons a testa.

La verità? Attribuirci colpe pregresse o infondate non elude il ruolo determinante delle economie emergenti sulle emissioni e sul riscaldamento. Hanno una domanda di energia in crescita e bisogna sperare che la soddisfino sempre meno col carbone e sempre più col nucleare, come dovremmo fare anche noi.

Insomma, anche una decrescita infelice che riportasse l'Europa al 700 non riuscirebbe a fermare il riscaldamento globale. Chi pensa il contrario ha in mente solo il suo personale biglietto per il Regno dei Cieli.

Dagonews da dailymail.co.uk il 19 luglio 2022.

Kylie Jenner è stata criticata per aver preso un volo di 12 minuti sul suo jet privato, per un viaggio che sarebbe durato 30 minuti in auto. La miliardaria magnate della bellezza, 24 anni, è stata accusata di essere una "criminale del clima" per il suo viaggio a corto raggio attraverso la California la scorsa settimana.  

Ha volato sul suo lussuoso aereo privato "Kylie Air" due volte attraverso la contea il 13 luglio e di nuovo solo due giorni dopo, il 15 luglio. Il jet ha viaggiato per 35 minuti da Palm Springs, appena fuori Los Angeles, a Van Nuys, a Los Angeles, vicino alla sua villa di Hidden Hills da 36 milioni di dollari il 15 luglio.  

Due ore dopo la bonazza con i due figli è poi volata da Van Nuys, a Camarillo, nella contea di Ventura, in California, un viaggio durato solo 12 minuti secondo CelebrityJets su Twitter. Se la star avesse guidato il viaggio di 26 miglia da casa sua a Hidden Hills a Camarillo, ci sarebbero voluti circa 30 minuti. 

Ma invece la star ha guidato per 30 minuti nella direzione sbagliata fino all'aeroporto di Van Nuys, prima di saltare sull'aereo, con il viaggio che ha richiesto più tempo nonostante i 12 minuti di volo. L'account ha anche rivelato che l'aereo Bombardier Global 7500 ha viaggiato da Camarillo, in California, a Van Nuys due giorni prima, il 13 luglio, un viaggio di soli 17 minuti. 

Il suo jet ha poi preso un volo di 29 minuti più tardi lo stesso giorno, viaggiando da Van Nuys a Palm Springs, in California. La scorsa settimana la star ha dovuto affrontare un enorme contraccolpo dopo aver pubblicato una foto di lei e del fidanzato Travis Scott, 31 anni, abbracciati davanti alla loro flotta di jet e auto di lusso. prima di salire sull'aereo - con il viaggio che richiede più tempo nonostante i 12 minuti di volo. 

Un fan della star dei reality si è chiesto: "Perché devo limitare il consumo di carne e usare cannucce di carta mentre l'1% riesce a pompare tonnellate di carbonio nell'atmosfera per una gita di un giorno a Palm Springs". 

Un altro fan ha aggiunto: "Questa esibizione di ricchezza è incredibile, così distaccata dalle lotte delle persone comuni". 

Arnault, il miliardario che ci fa le eco-prediche? Il suo yacht... la foto dello scandalo. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 luglio 2022

Ormai una volta all'anno uno degli uomini più ricchi al mondo, Bernard Arnault, il presidente e amministratore delegato francese di LVMH, l'azienda di marchi di lusso come Louis Vuitton, fa tappa nei mari dell'Italia a bordo del suo mega yacht Symphony. Nel 2020 passò dalla Sicilia, per salire poi in Calabria, Puglia e Campania. Lo scorso anno approdò nelle acque del Golfo di Napoli. Quest'anno ha bissato l'esperienza, rimanendo attraccato a Marina Piccola per 5 giorni prima di proseguire verso il Principato di Monaco.

Il secondo tra i paperoni del globo (con un patrimonio che ammonta a 160 miliardi), spende da sempre molto tempo a bordo del suo palazzo marino di lusso da 150 milioni di euro: è lungo ben 101 metri, ha a bordo 8 cabine vip, 12 stanze per l'equipaggio, una piscina (con all'interno una cascata), 2 sale cinema, una spa, un beach club, una palestra, una biblioteca, diversi bar, un eliporto e un campo da golf (!). Un ben di Dio che non spinge comunque Arnault a pagare qualche euro di tasse, visto che batte bandiera delle Cayman. Ma questa è un po' un'abitudine. Prima di questo piccolo natante, possedeva l'Amadeus, un'imbarcazione di 230 piedi dotata di jacuzzi, palestra e cinema (valore: 50 milioni). Era intestata alla Symphony Yachting Ltd., una società delle Isole Vergini Britanniche inserita tra i Pandora Papers.

Il vizietto esentasse di Arnault, per di più, poiché è grande come una petroliera, inquina pure come una petroliera. Il francese è il quarto tra i magnati del mondo per quantità di Co2 emessa nell'aria ogni anno. Una buona parte è dovuta proprio ai consumi di Symphony, che rilascia circa 11mila tonnellate di anidride carbonica ogni 12 mesi, l'equivalente di 5mila utilitarie come la Fiat Panda. Per stare in pace con la coscienza, il produttore di Symphony (l'olandese Feadship) sostiene che sia uno yacht ecologico. Utilizza infatti una tecnologia a propulsione ibrida dotata di un moderno banco di batterie, e spende il 30% in meno di energia rispetto a uno yacht comparabile.

Il punto è che quasi non esistono. Ma, visto il bonus eco, Arnault pensa bene di compensare col jet privato, scelto lo scorso 28 maggio per un viaggio di dieci minuti da West London a East London. Dieci minuti di volo pollice verde. E pensare che sul sito di LVMH si trova un rapporto consolidato sugli impegni e le iniziative sociali e ambientali dell'azienda, che si apre con un editoriale di Arnault in persona che racconta l'attenzione all'ambiente, alle nuove sfide sanitarie e all'impegno nel sociale dell'azienda. Così da essere trasparente e facilitare il dialogo con i suoi stakeholder. Delle uscite con Symphony, però, è meglio non vengano a sapere. 

Perché dobbiamo prestare attenzione alla morte di un giornalista e di un attivista in Brasile. FERDINANDO COTUGNO Il Domani il 19 giugno 2022

Questa settimana parliamo dell’omicidio di un giornalista britannico e di un attivista brasiliano nella Foresta amazzonica, della siccità in Italia, della minaccia del sale nei fiumi del mondo e dell’estetica dei parchi eolici italiani. 

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Buongiorno, benvenute(i) a un nuovo appuntamento con Areale, iniziamo, ci sono tante cose da dire.

DUE OMICIDI LUNGO LA FRATTURA

Partiamo da due nomi: Dom Phillips e Bruno Pereira. Phillips era un giornalista britannico, Pereira era un attivista brasiliano per i diritti degli indigeni. Erano scomparsi nella Vale do Javari, uno dei più grandi territori indigeni del Brasile, un’area interna più grande dell’Austria, quasi al confine col Perù. Phillips stava completando le sue ricerche per un libro che stava scrivendo, How to save the Amazon, il racconto su come nella più importante foresta del mondo uno sviluppo sostenibile sia ancora possibile. Un libro di speranza e possibilità. Pereira era la sua guida. La polizia brasiliana ha trovato i loro corpi e arrestato due uomini, che avrebbero già confessato l’omicidio. Una storia orribile, che abbiamo il dovere di conoscere.

Come ha scritto Jonathan Watts sul Guardian, il giornalista e l’attivista sono stati assassinati «in una guerra globale non dichiarata ufficialmente contro la natura e contro le persone che la difendono. Il loro lavoro era importante per il pianeta che abitiamo e per le attività che lo minacciano, e deve essere continuato. Le linee del fronte di questa guerra sono le ultime regioni biodiverse della Terra: le foreste, le terre umide, gli oceani, essenziali per la stabilità del clima e per il sistema planetario che sostiene la nostra stessa vita. L’integrità di questi ecosistemi è sotto attacco da parte del crimine organizzato e dei governi criminali che vogliono sfruttare il legname, l’acqua e le estrazioni minerarie per profitti illegali a breve termine».

Nel 2020, ultimo anno su cui i dati raccolti da Global witness sono disponibili, sono stati uccisi quattro difensori dell’ambiente ogni settimana, 227 tra attivisti come Pereira e giornalisti come Phillips. I paesi più pericolosi per la protezione attiva degli ecosistemi sono Colombia, Messico e Filippine. Il Brasile, con 20 omicidi nel 2020, è al quarto posto.

Ci vorrà tempo per conoscere i dettagli della morte di Phillips e Pereira, o forse non succederà mai, la polizia brasiliana è stata lenta nell’avviare le ricerche, il presidente Jair Bolsonaro ha definito la loro uccisione «un atto malvagio», ma ha anche dato la colpa alle due vittime per essersi inoltrate in un territorio pericoloso. La valle è «uno degli ultimi santuari della wilderness in Amazzonia e nel mondo, ma è anche un punto caldo del traffico di fauna selvatica, dell’estrazione di legname illegale, luogo di conflitti tra le comunità indigene e i residenti, nel quale le attività criminali sono impunite», spiega Scott Wallace, autore di The unconquered: in search of the Amazon’s last uncontacted tribes. È anche una nuova rotta della cocaina che parte dal Perù, diventato il secondo produttore globale dopo la Colombia.

Nella valle dove sono stati uccisi Phillips e Pereira vivono 6.000 indigeni divisi in 26 gruppi etnici, 19 dei quali ancora praticamente incontattati. Gli attivisti dal 2019 puntano il dito contro Bolsonaro, per aver creato le condizioni politiche che hanno fatto esplodere la devastazione ecologica e lo sviluppo di attività criminali ed estrattive in quel territorio. Sullo sfondo di questo duplice omicidio, e della guerra contro la natura di cui scriveva Jonathan Watts, c’è la domanda: a chi appartiene l’Amazzonia? Cosa è la sovranità brasiliana (o peruviana o boliviana) di un territorio così importante per l’umanità tutta? Gli indigeni – e le persone che lavorano per proteggerli o per raccontare le loro storie – vivono lungo questa linea di frattura: la ricerca accademica da anni li ha eletti, dati alla mano, gli unici custodi credibili di questi ecosistemi per conto di tutta l’umanità. Una posizione inaccettabile per il sovranista Bolsonaro, che dal 2019 ha visto quell’ecosistema come una grande miniera di risorse a cielo aperto da sfruttare e di terra da ricolonizzare. È questo lo scenario della morte di Phillips e Pereira. Il sovranismo è pericoloso per il clima quanto i combustibili fossili.

Phillips viveva in Brasile da anni. Nella sua prima vita si era occupato a lungo di musica, amava Björk e Bowie, aveva raccontato la scena rave britannica e aveva scritto un libro sull’ascesa della musica elettronica e della cultura dj. Era arrivato in Brasile per scrivere e fare ricerche e così era iniziata la sua seconda vita, da corrispondente all’estero. Aveva seguito i giochi olimpici e i mondiali di calcio, ma la grande missione era diventata il racconto degli ecosistemi della sua nuova terra. Quello nella valle doveva essere il suo ultimo viaggio di ricerca prima di pubblicare How to save the Amazon. Aveva 57 anni. Pereira aveva 41 anni e due figli, veniva dal nord est, aveva lavorato per Funai, Fundação Nacional do Índio. Viaggiavano e lavoravano insieme da quattro anni.

QUESTA È L’ACQUA

La crisi idrica che è esplosa nel dibattito pubblico italiano (più o meno, diciamo che almeno è finalmente visibile) ha tante radici diverse: la crisi climatica, il crollo delle precipitazioni nella parte più importante dell’anno idrologico (autunno e inverno), la difficoltà nel percepire l’emergenza climatica come tale, i ritardi nell’adattamento del territorio, la cultura degli sprechi. Ne ho scritto in questo articolo: la siccità è diventata la nuova normalità climatica italiana. È una tempesta perfetta, mi ha detto Luca Brocca di Irpi, ma non dobbiamo illuderci di poter resistere, sopravvivere e dimenticare. Questa è l’acqua, avrebbe detto David Foster Wallace. E forse è per questo che non la vediamo più. Speriamo di non dover dire: questa era l’acqua. 

Ci sono tanti aspetti ecologici preoccupanti, in questa storia che procede dai monti e dai laghi alpini fino alle valli e al delta, ma forse la più sinistra di tutte è la risalita di 15 chilometri del cuneo salino nel delta del Po, con l’acqua salmastra del mare che si prende spazio e conquista le falde, per il triplice effetto della scarsità di acqua dolce, dell’aumento quasi disperato dei nostri prelievi e della risalita del livello del mare.

Non è solo la storia del Po, è la storia dei fiumi del mondo. Nel delta del Mekong il sale è stato paragonato – per il livello della minaccia chimica – all’agente arancio americano usato nella guerra del Vietnam. In questa, che è una delle aree più densamente popolate e più importanti dal punto di vista agricolo dell’Asia, il cuneo salino è risalito di 64 chilometri all’interno del delta. Anche qui il disastro è un effetto combinato: innalzamento del mare a valle, sfruttamento dell’acqua a monte, per un fiume lungo 5mila chilometri che passa attraverso sei paesi.

Uno studio pubblicato dalle università di Manchester e Amburgo aveva prodotto una mappa della salinizzazione globale dei fiumi. Non solo il Po e il Mekong: Australia, Messico, Sudafrica, Stati Uniti, Brasile, Spagna. La risalita del livello salino lì dove dovrebbe esserci acqua dolce potrebbe essere una delle prime cause di migrazioni ambientali, le nazioni insulari del Pacifico potrebbero ritrovarsi senza acqua dolce per la metà di questo secolo, aveva avvisato una ricerca dello US Geological survey. E un territorio dove non si può bere è un territorio dove non si può vivere.

Nel triplo delta di Gange, Brahmaputra e Meghna in Bangladesh la perdita di acqua dolce per la risalita del mare nei corpi idrici è già citata come la prima causa di migrazioni. Negli Stati Uniti un terzo dei fiumi è diventato più salato negli ultimi venticinque anni, nel Rio Grande la salinità è cresciuta del 400 per cento, in Australia occidentale due milioni di ettari di coltivazioni sono stati danneggiati dal sale, un danno per 700 milioni di dollari all’anno. Un terzo del cibo mondiale dipende dall’irrigazione, un quinto dell’acqua che usiamo per irrigare nel mondo è contaminata dal sale.

PARCHI EOLICI, VENTO E IL FUTURO CHE ESISTE

Tiriamo il fiato, so che è tanto da mandare giù. Quindi parliamo di una cosa bella. Legambiente ha pubblicato la seconda edizione di Parchi del vento, la guida turistica dei parchi eolici italiani. Sì, turistica. A me personalmente piace, ma so che l’eolico provoca sentimenti estetici contrastanti, ed è normale, perché sono nuovi, sono obiettivamente grandi e vistosi, e anche perché l’Italia è un paese educato a un’idea feticistica del paesaggio. Tendiamo a viverlo come qualcosa di immutabile, eterno e naturale, quando invece il paesaggio è l’esatto opposto, è la cosa più umana che esista, è la nostra modellazione del naturale, è la prova che esistiamo, che non possiamo né dobbiamo sparire. Il paesaggio è storia, è il riflesso nello specchio naturale di quello che siamo, vale per i boschi, vale per l’agricoltura, vale anche per l’eolico. 

«L’idea di una guida turistica ai parchi eolici italiani nasce dall’obiettivo di permettere a tutti di andare a vedere da vicino queste moderne macchine che producono energia dal vento e di approfittarne per conoscere dei territori bellissimi, fuori dai circuiti turistici più frequentati», si legge nell’introduzione. E il senso della guida, e del sito dove è possibile consultarla gratuitamente è esattamente questo: andare a vedere con i propri occhi non solo questi luoghi a modo loro strani e suggestivi, ma anche come il paesaggio italiano, e noi con esso, siamo dentro la storia, e questo essere nella storia e poter cambiare le cose contiene la possibilità stessa di salvarci.

Dopo la conclusione di Cop26, e quel suo assurdo finale che aveva offerto al carbone una scappatoia per decenni di emissioni, ero sull’autobus che mi portava all’aeroporto di Edimburgo, stanco e assonnato. Mi ero voltato per guardare il paesaggio e avevo visto un parco eolico lungo l’autostrada, mi aveva fatto lo stesso effetto che aveva fatto al professor Alan Grant vedere lo stormo di pellicani fuori dall’elicottero che lo portava via sano e salvo dal Jurassic Park: ricordargli che i fossili devono restare fossili e che il futuro, nonostante tutto, esiste, ed è interessante e pieno di possibilità.

Ciao! Ferdinando Cotugno

(ANSA il 21 ottobre 2022) - Ci sono undici indagati nel procedimento penale aperto dalla Procura dI Barcellona Pozzo di Gotto per l'incendio dello scorso 25 maggio a Stromboli sul set della fiction sulla Protezione civile e per la possibile connessione con l'erosione provocata dal nubifragio del 12 agosto che ha messo in ginocchio l'isola delle Eolie. Il provvedimento è stato firmato dal sostituto procuratore, Carlo Brai. 

Fra gli indagati ci sono i rappresentanti delle società "11 Marzo" e "Best Sfx" Roberto Ricci, Matteo Levi ed Elio Terribili; i vigili del fuoco Alessandro Romeo, Carmelo Siracusa, Antonino Lo Faro, Giuseppe Marra, Simona Pognant (dirigente romana); l'ex sindaco Marco Giorgianni, il dirigente Mirko Ficarra e l'attuale primo cittadino, Riccardo Gullo. Il pm ha nominato quattro consulenti: Gianni Podestà, Lamberto Griffini, Maria Vietti e Diego Italiano.

La serie che ha distrutto Stromboli non viene fermata. Perché? Francesca Galici il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

Troppo spesso non si pesano le parole e le loro conseguenze: lo sanno bene gli abitanti di Stromboli, la cui isola è andata a fuoco per girare una serie tv.

Può un'isola andare (quasi) completamente distrutta per la realizzazione di una fiction? Domanda retorica, perché in un Paese civile è impensabile che accada. Ma siamo in Italia e da noi anche questo diventa possibile. L'isola di Stromboli dallo scorso martedì è una distesa di cenere, arida e inospitale. E, almeno stavolta, il vulcano non c'entra niente. Sì, perché l'isola è abituata alle eruzioni e non ce la si può certo prendere con la natura che fa il suo dovere quando una colata di lava porta via tutto quello che trova sulla sua strada. Ma quando a causare la devastazione è la mano umana che, senza criterio, accende un fuoco per agevolare le inquadrature per una fiction televisiva, è comprensibile che monti la rabbia di un'intera comunità. Ah, c'è anche un paradosso in questa triste vicenda, perché la serie tv che si stava girando a Stromboli è dedicata alla Protezione civile. Oltre il danno, anche la beffa.

La procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha giustamente aperto un fascicolo per fare chiarezza sull'accaduto e come nei più classici copioni delle magagne all'italiana è già iniziato il rimbalzo di responsabilità. La Rai se n'è subito tirata fuori, spiegando che si tratta di una produzione esterna alla tv di Stato. La produzione dice di aver chiesto tutti i permessi ma chi doveva concedere le autorizzazioni dice di non aver dato nessun nulla osta. In tutto questo l'isola vede letteralmente andare in fumo la stagione turistica che sarebbe dovuta essere quella del rilancio dopo la pandemia.

Incendio a Stromboli, giallo sulle autorizzazioni della fiction con la Angiolini

Gli operatori della zona hanno calcolato che l'incendio ha causato danni per circa 50 milioni di euro, bruciando le coltivazioni, i boschi e le distese di macchia mediterranea, necessari per garantire l'equilibrio all'ecosistema stromboliano, ormai completamente distrutto. Qualcuno parla di tragica fatalità ma accendere un fuoco, anche se controllato, quando soffiano venti di scirocco non può essere definita una fatalità, è come lanciarsi da una rupe senza paracadute e sperare di atterrare sul morbido per non farsi male. Qualcuno parlerebbe di tragico destino? Difficile.

Certo, gli slanci di solidarietà non sono mancati, anche da parte di chi sta lavorando a questa fiction, ma questo non spazza via la rabbia degli abitanti. Anche perché l'intervista rilasciata dal produttore della serie tv ha gettato benzina sul fuoco (scusate il gioco di parole) negli umori degli isolani. Perché davanti a tutto questo, a chi ha rischiato di perdere la casa per l'incendio e a chi teme di perdere gli introiti della stagione estiva ormai iniziata, alla domanda di un giornalista che chiede se le riprese verranno bloccate non ci si può permettere di rispondere: "Assolutamente no, non vedo perché". Si chiama buon senso, e anche empatia. Perché a volte le parole, e i sentimenti che suscitano, fanno più male del danno stesso. E gli occhi lucidi di chi, a fine lavori lascia l'isola spostandosi altrove, lasciandosi alle spalle tutto per continuare come se nulla fosse, non servono a riparare il disastro.

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2022.

Ma come si fa ad accendere un fuoco quando soffia il vento di scirocco? E come fa a non saperlo chi sta girando una fiction proprio sulla Protezione civile? Stromboli da sempre è un set naturale per grandi registi, da Roberto Rossellini a Nanni Moretti, ma questa volta è solo la protagonista di un'autentica tragedia. 

«Sull'isola non c'è più un filo d'erba - dice il sindaco di Lipari Marco Giorgianni - è un miracolo che non ci siano vittime». In fumo oltre sei ettari di macchia mediterranea. «Parliamo di circa il 50% dell'area a verde dell'isola» stima la Protezione civile regionale. Evacuato un ristorante con 30 persone, mentre in 50 sono stati costretti a lasciare le loro case. 

Un giorno e una notte di fiamme e dense nuvole di fumo, come se tutta l'isola fosse diventata una gigantesca «sciara del fuoco», il costone roccioso dove si riversano le colate laviche del vulcano perennemente in attività.

Per ore gli isolani hanno affrontato da soli le fiamme. In attesa che arrivassero prima un elicottero da Catania, poi i canadair e vigili del fuoco da altre isole. A Stromboli infatti non c'è un presidio stabile dei pompieri. Anche se quando è divampato l'incendio ce n'erano cinque. Ed erano lì proprio per vigilare sulla fiction Rai del regista Marco Pontecorvo con Ambra Angiolini dal titolo, appunto, «Protezione civile». 

«Eravamo sull'isola per garantire assistenza durante le riprese - precisano dal comando generale -. Non sappiamo se le fiamme siano divampate sul set. In quel momento non eravamo sul posto, altrimenti avremmo vigilato». 

Decine di testimoni raccontano che il fuoco è stato acceso da maestranze impegnate nella fiction. «Io ho fatto anche la comparsa - dice Rosaria Cincotta -, il giorno prima abbiamo girato la scena dell'evacuazione al porto. 

Mercoledì mattina invece sono andati su, nella zona del Timpone, per provare la scena di un principio di incendio. 

C'erano anche due ragazzi dell'isola che aiutano le maestranze. Qualcuno ha appiccato il fuoco ma le fiamme si sono rapidamente propagate, proprio per lo scirocco. Gli avevano detto di non farlo, ma loro avevano premura». «Doveva essere un incendio controllato in una riserva naturale - aggiunge Roberta Denti, giornalista milanese di casa sull'isola - ma è andato fuori controllo». Lo conferma anche il capo della Protezione civile siciliana Salvatore Cocina: «È stata una grandissima leggerezza. Hanno simulato un incendio per una scena, ma senza il controllo dei vigili del fuoco». Ironia della sorte le fiamme hanno divorato persino la casermetta della Protezione civile.

Sulla vicenda la Procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha già aperto un'inchiesta e i carabinieri della compagnia di Milazzo stanno ascoltando decine di testimoni, compreso il regista. Al momento l'inchiesta è contro ignoti, ma gli inquirenti lasciano capire che a breve potrebbero esserci i primi indagati. 

Chiaramente in questa brutta storia Ambra non c'entra nulla. Per giorni ha postato foto di lei sorridente al mare e sul set e ieri era ancora sull'isola, visibilmente frastornata di fronte a tanta devastazione. «Questa è un'isola bellissima - avrebbe detto, secondo il racconto di alcuni isolani -, voglio tornare e vorrei fare anche qualcosa: sto pensando a una raccolta fondi».

Alle fiamme hanno fatto seguito le polemiche. Il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi ha presentato un'interrogazione parlamentare: «la Rai deve fare chiarezza». La Rai ha replicato: «Non abbiamo responsabilità sulla produzione affidata alla società "11 marzo"». Controreplica: «La Rai non se la può cavare così». Mentre la società «11 marzo» parla genericamente di «incidente dovuto al caso e all'imprevedibile».

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 28 maggio 2022. 

L'incendio di scena che si è trasformato in una vera catastrofe per l'ecosistema di Stromboli, distruggendo metà della sua vegetazione, era ampiamente previsto dal copione della fiction. La sua descrizione si trova alla fine dell'11ª puntata di Protezione civile, la serie diretta dal regista Marco Pontecorvo con Ambra Angiolini tra i protagonisti, che la società di produzione 11 Marzo Film stava girando sull'isola siciliana.

Dopo una giornata di scaricabarile sull'esistenza o meno di una scena che prevedeva l'incendio, inizialmente negata da tutti, ecco che a dirimere ogni dubbio arriva il copione che descrive per bene quello che doveva accadere per colpa del vulcano, uno dei più attivi d'Europa, ma che non ha eguagliato la mano dell'uomo. 

A svelare la scena 11.51 prevista a pagina 79 della scrittura del novembre 2021 è stata l'edizione siciliana del TGR Rai in un servizio dalla giornalista Eleonora Mastromarino. Nella poche righe, prima si legge l'ambientazione, «interno Stromboli, villette, giorno». Poi la descrizione, «Marina apre gli occhi, intorpidita. Nella villetta c'è una strana luce rossastra. Il vulcano prorompe in un altro boato, che subito sveglia la ragazza di soprassalto...». Fino al «con orrore, nota che la casa è circondata dalle fiamme... fine undicesima puntata».

Una scena che probabilmente è stata già messa agli atti dell'inchiesta aperta dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ma che non poteva restare nascosta più di tanto. E così, dopo il primo momento in cui dalla troupe negavano l'esistenza di una scena di fuoco, è stato lo stesso regista Pontecorvo a chiarire che seppur in quel momento «non erano in atto riprese ma solo la preparazione per la scena da girare poco dopo», quella scena «esisteva sulla sceneggiatura ed era prevista nella maniera in cui la stavamo approntando per quella giornata come da nostro programma». 

Intanto sull'isola si fanno i primi calcoli dei danni. Per Max Cincotta, operatore turistico strombolano e proprietario del Bar Ingrid, dedicato alla Bergman che qui nel 1949 girò il suo primo film diretta dal suo compagno Roberto Rossellini, «si parla di 50 milioni di euro» di danni, attribuendo però parte delle responsabilità alle amministrazioni locali perché, continua, «bastava che la montagna venisse curata con delle strisce anti-fuoco e lo scempio sarebbe stato evitato».

I tecnici del Laboratorio di Geofisica sperimentale, oltre a manifestare solidarietà agli isolani dichiarandosi «vicini alle persone di Stromboli per la tragedia dell'incendio vissuta», hanno segnalato che anche loro, «relativamente al monitoraggio vulcanico», hanno subito alcuni danni: la stazione Sci, che si trova a 500 metri di quota sopra Punta Labronzo, «non è più funzionante e pertanto il sistema di monitoraggio frane non è attivo così come i segnali della telecamera di Punta dei Corvi non sono disponibili in quanto si appoggiavano al ponte radio della stazione Sci. Nonostante i danni subiti, tutti i sistemi di allerta vulcanica sono perfettamente funzionanti».

Rosa Oliva, presidente della Pro Loco Stromboli, denuncia che «il disastroso incendio che ha interessato gran parte dell'isola, la cui violenza non ha avuto pari neppure rispetto a quelli conseguenti innescati dalle eruzioni vulcaniche, ha evidenziato ancora una volta lo stato di abbandono e incuria in cui versa il territorio dell'isola» e lamenta «una grave assenza delle istituzioni dello Stato, in un'isola con un ecosistema delicato, dichiarata Patrimonio Unesco, e visitata ogni anno da migliaia di turisti, troppi forse, quando essi arrivando ad ondate incontrollate nel periodo di punta della stagione estiva».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2022.

«Avevamo le autorizzazioni per girare quella scena e sul posto c'erano i vigili del fuoco proprio per controllare che tutto avvenisse in sicurezza». Parla di un «grave incidente», ma non ci sta a finire sul banco degli imputati per il rogo di Stromboli. Matteo Levi è a capo della «11 marzo», una delle più importanti società di produzione italiane. Erano loro a gestire la lavorazione della fiction «Protezione civile» come ha tenuto a precisare la Rai, quasi a voler prendere le distanze. 

«Prima di tutto vorrei dire che in questa storia Ambra non c'entra nulla. Non erano sul posto né lei né Pontecorvo che sono stati associati a questa vicenda in modo vergognoso. Hanno scritto che Ambra la mattina era al bar a prendere la brioche. Invece le assicuro che era sconvolta e ha pianto tutta la notte». 

Era prevista la sua presenza sul set?

«Sarebbe dovuta arrivare in un secondo momento». 

A che punto eravate del vostro lavoro?

«A Stromboli avremmo finito di girare oggi. Dobbiamo consegnare la produzione nel marzo 2023 per una programmazione in autunno». 

Ma cosa è successo esattamente mercoledì mattina?

«Non voglio entrare nei dettagli perché c'è un'inchiesta e la ricostruzione è delegata a chi era sul posto. Posso però dire che noi avevamo autorizzazioni precise per tutto quello che abbiamo fatto, con il supporto dei vigili del fuoco, che erano sul set». 

Il Comune dice che quella è zona di riserva e dunque dipende dalla Forestale

«Noi abbiamo chiesto al Comune un permesso specifico per tutte le giornate di riprese, se poi serviva un'autorizzazione della Forestale penso che sia compito del Comune dirci: "per questo non basta la nostra autorizzazione". Tra l'altro credo che la zona dell'incidente non fosse neppure sotto il controllo della Forestale».

Lei dice che sul posto c'erano i vigili del fuoco, loro però dicono che erano distanti.

«So di questa loro tesi, i magistrati accerteranno qual è la verità. Io so solo che i vigili del fuoco sono arrivati con una squadra, mi pare di 4 persone, da noi ospitate in albergo con tutte le spese pagate. Poi, durante la fase di preparazione della scena, c'era chi di loro stava vicino alla macchina da presa, chi invece stava attaccando i manicotti a delle cisterne. Ma ripeto: ci rimettiamo all'inchiesta». 

I vigili del fuoco dovevano solo presidiare il set?

«Avrebbero dovuto preparare, come stavano facendo, il luogo dove effettuare le riprese. Sono loro che sul posto danno le direttive su cosa fare, quando e come. Io non voglio prendermela con i vigili del fuoco che hanno operato al meglio, per questo lo considero un incidente disastroso. Tra l'altro per girare quella scena abbiamo ingaggiato il massimo esperto in Italia per gestire i fuochi. Sono loro che debbono dare indicazioni su come operare sul set in queste fasi». 

Chi ha appiccato il fuoco? Non vi siete resi conto che c'era vento di scirocco?

«Questo non lo so e non sta a me stabilire se c'era troppo vento. Noi per queste riprese ci affidiamo a persone competenti e sono loro a dirci poi come andare sott' acqua o come accendere un fuoco».

Avete compreso subito la gravità della situazione?

«Immediatamente, ma le fiamme sono partite così velocemente che neanche i vigili del fuoco sono riusciti a controllarle». 

Bloccherete la fiction?

«Assolutamente no, non vedo perché. Anche se resta il trauma per un incidente dolorosissimo. Siamo tutti sconvolti, ma io guardo le carte sulla base delle quali abbiamo operato. Se poi la Procura non le riterrà sufficienti me ne assumerò la responsabilità».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

«Sono venuta solo per dare una mano». Canotta scura, capelli raccolti, è arrivata di buon mattino e si è messa subito all'opera per spalare fango e recuperare vestiti e oggetti nelle case che ancora portano i segni dell'alluvione del 12 agosto. Dopo oltre due mesi Ambra Angiolini torna a Stromboli. 

L'attrice è stata vista e fotografata nella zona di Piscità, vicino all'abitazione di un'amica. Nessuna dichiarazione, solo poche parole scambiate con alcuni isolani. E anche il suo agente conferma: «È andata in completa autonomia per aiutare le persone dell'isola... in momenti di difficoltà è sempre una cosa utile e giusta».

L'attrice era stata sull'isola nel maggio scorso, sul set della fiction «Protezione Civile», del regista Rai Marco Pontecorvo. E fu proprio durante le riprese che scoppiò un violento incendio. In una giornata di scirocco qualcuno decise di accendere quel lo che doveva essere solo un rogo controllato inserito nel copione. 

Ma l'incendio andò rapidamente fuori controllo, mandando in fumo oltre 5 ettari di macchia mediterranea. Uno sfregio che ha cambiato il paesaggio dell'isola.

Non solo. Come avevano previsto molti isolani quell'incendio avrebbe compromesso il fragile equilibro idrogeologico. E, purtroppo, avevano ragione. Anche se l'alluvione del 12 agosto è stato un evento climatico eccezionale, le conseguenze sono state ancor più pesanti per le ferite sul territorio lasciate dal rogo del 25 maggio scorso. «Il nubifragio ha assunto dimensioni catastrofiche proprio per il danneggiamento della vegetazione durante le riprese cinematografiche» hanno denunciato qualche giorno fa anche le guide vulcanologiche che operano sull'isola. 

Ecco perché la visita di Ambra è stata letta da molti come una sorta di tributo per i danni provocati durante le riprese della fiction della quale è protagonista, anche se l'attrice è totalmente estranea ai fatti e, al momento dell'incendio controllato, non era neanche sul set. Chi l'ha incontrata quei giorni racconta di averla vista «letteralmente sconvolta e in lacrime».

Ambra è sbarcata sull'isola assieme all'attore Andrea Bosca e al direttore della produzione della fiction Luca Palmentieri. Si vocifera che a settembre dovrebbero riprendere le riprese di «Protezione Civile» e questo mentre ancora l'inchiesta, avviata dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, segna inspiegabilmente il passo. «Purtroppo i tempi della giustizia non sono rapidi come la gente si aspetta, ma stiamo andando a fondo» ha dichiarato recentemente il pm che ha in mano il fascicolo.

Eppure da tempo i carabinieri hanno presentato il loro rapporto dal quale emergerebbero chiaramente le responsabilità di alcuni addetti alla produzione. Anche l'amministrazione comunale attende il processo nel quale è pronta a costituirsi parte civile. Da sempre l'isola è un set naturale per il mondo del cinema, con importanti ricadute per l'economia locale, ma un'eventuale ripresa della produzione di «Protezione Civile» a qualcuno fa storcere il naso. 

«Anche io ho sentito dire che vogliano riprendere le riprese della fiction - afferma il nuovo sindaco di Lipari Riccardo Gullo -. Se hanno tutte le autorizzazioni necessarie è un loro diritto lavorare. A me personalmente non è stata presentata alcuna richiesta. Verificherò se ci sono precedenti autorizzazioni in tal senso». 

Intanto l'amministrazione comunale ha completato una prima stima dei danni sull'isola che ammontano ad oltre dieci milioni. «Spero che vengano erogati presto - dice il sindaco -, poi però bisognerà affrontare un altro problema: le opere strutturali necessarie perché simili episodi non si verifichino più».

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 29 maggio 2022. 

Minchia, meno male che a Stromboli (dove le riprese di una fiction dedicata alla protezione civile stava per cancellare l’isola a causa di un incendio) non c’era Selvaggia Lucarelli: già me la immagino, novella Enea, che fugge tra le fiamme portando in spalla il figlio, il fidanzato cuoco, le padelle, i souvenir etnici (da Etna), gli animali da affezione e la differenziata; stavolta sì che vi avrebbe fatto il… i conti in tasca. 

La verità è che non siamo cosa. Ma dai. Io non lo so che roba assumono a Palermo per delirare di modernità, turismo, spettacolo, cinema, movida, mondanità, uippis. Probabilmente è la cotoletta alla palermitana (è l’unico luogo al mondo che ancora non ha capito che la cotoletta si fa con l’uovo e soprattutto si frigge!) che causa loro le allucinazione, o l’“arancina” che, non esistendo in natura, si ribella e li avvelena. Ma levateci mano, non sono cose per noi: le “friction” fatele fare altrove.

Minchia doveva esserci un incendietto in un giardinetto di una villetta, incidente domestico che capita decine di volte in tutti i giardinetti della Sicilia, con questa mania che abbiamo del barbecue, e che tutti noi riusciamo a domare affrontandoli con le peroni ghiacciate.

E invece sul set c’erano i pompieri, gli specialisti degli incendi, e Stromboli è andata in fumo come un cerino.

E’ l’aria di Sicilia, ma non inteso come scirocco, ma come aria dei siciliani, il “ma chi se ne fotte” contagia. Adesso, la produzione, giustamente, dice che si affida alla magistratura, ma vogliamo scommettere che alla fine si scoprirà una certa “machiseneffotitudine”?

Intanto la Sicilia è stata a Cannes, nella persona dell’assessore allo spettacolo, al turismo e alla bellicapellitudine Manlio Messina, a promuovere la Sicilia come “set a cielo aperto”, che fa un po’ il paio, a luogo comune, con la “splendida cornice” (alle minchiate, soprattutto). Progetto dal costo di due milioni e duecentomila euro (ma l’assessore ha smentito: “costerà solo un milione e seicentomila euro).

Dice che c’abbiamo il ritorno d’immagine, anche se sembra più un ritorno di fiamma. Ora, Manlio lo conosciamo. Nella sua pagina facebook c’è una specie di foto di lui, con i loghi della regione e con il logo di “Variety”. Il post dice: “Variety, tra i più importanti giornali al mondo nel settore cinema, dedica la copertina alla Sicilia e al progetto “Sicily Women and Cinema”. (Ho fatto lo screenshot, ovviamente) 

Ho controllato, a me sembrava strano che “Variety” mettesse in copertina Manlio Messina, e i loghi della Regione Sicilia. Minchia non la trovo. Sono sicuro che Manlio non mente. Quindi, o gli ha mentito un collaboratore, o l’ufficio stampa che ha pagato duecentomila euro. Spero di essere smentito da Manlio, ma nel caso io avessi ragione, prendi in considerazione la mia proposta: per cinquantamila euro ti vendo una mia stand-up in cui ti prendo in giro, anche a Musumeci se vuoi, e con un grande risparmio vi faccio fare una malafigura ancora più grande.

Paolo Landi per doppiozero.com il 27 maggio 2022.

L'ultima novità in fatto di social network, dopo la rapida eclissi di Clubhouse, si chiama Minus, la piattaforma dove si possono condividere solo cento post. Esaurito questo numero il profilo resta ma inattivo, non si può più fare nulla, in una logica all'incontrario rispetto ai social tradizionali, che vorrebbe ridare valore alle parole o alle immagini, da soppesare nella loro utilità prima di pubblicarle. 

Naturalmente non è un vero social ma una provocazione dell'artista e docente alla Illinois University Ben Grosser. Lui ha risposto così a una richiesta della Arebyte Gallery di Londra per la mostra Software for Less, che nell'ottobre scorso voleva indagare sugli effetti psicologici, culturali e politici delle app social sulle persone.

Grosser, già nel 2012 aveva creato Demetricator, una estensione del browser per eliminare il conteggio dei like sotto ai messaggi condivisi su Facebook, per capire se questa modalità poteva scoraggiare la bulimia social. 

Il suo gesto artistico prefigura un futuro prossimo in cui qualcuno ci chiederà – come ci hanno già chiesto, per esempio, di non disperdere i rifiuti nell'ambiente – di tenere un atteggiamento responsabile verso la dematerializzazione crescente che caratterizza le nostre vite. 

Quando mettiamo una foto su Instagram o un commento su Twitter condividendo e mettendo like, quando lavoriamo da casa, quando archiviamo i nostri documenti sul pc, quando entriamo nel network globale che acquista e vende Bitcoin, stiamo dematerializzando.

Dematerializzare è il mantra tecnologico che vorrebbe accelerare lo sviluppo sostenibile ottimizzando i processi: l'home working ci evita di spostarci usando auto, metropolitane, treni, aerei e risparmiando quindi carburante, diminuendo l'inquinamento atmosferico; la solitudine nella quale ci confinano i social network, dandoci tuttavia l'impressione di avere una vita popolata di amici, pare molto eco-sostenibile anche se psicologicamente poco salutare; inviare mail e usare Excel ci abitua a fare a meno della carta, con benefici per la foresta amazzonica; la tecnologia migliora la filiera manifatturiera riducendo impiego di energia e di materie prime.

Il nuovo paradigma del capitalismo digitale considera la rilevante discontinuità nella struttura dei rapporti di produzione, delle relazioni interpersonali e sociali, trasformando il più possibile tutto ciò che è materiale in entità digitale. 

Nel 2016, a Parigi, centonovanta Paesi firmarono un accordo "per conseguire l'obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura (...), raggiungere il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra al più presto (...) e intraprendere rapide riduzioni in seguito, in linea con le migliori conoscenze scientifiche, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissione e gli assortimenti antropogenici di gas a effetto serra nella seconda metà del secolo”.

Il cambiamento climatico che sta interessando il nostro pianeta, sotto forma di condizioni estreme come siccità, ondate di caldo, piogge intense, alluvioni, frane, innalzamento dei mari, acidificazione degli oceani, con la biodiversità fortemente compromessa, necessita quantomeno di una presa di coscienza del problema. 

Ma mettiamo che, in un futuro distopico, Greta Thunberg venga presa in parola e tutti – dal cittadino che non getta più il pacchetto di sigarette vuoto dal finestrino della macchina ma lo smaltisce educatamente nei cestini della raccolta differenziata, ai governi di tutti gli Stati che abbassano le loro emissioni, investono in tecnologie, assumendo come impegno quotidiano la protezione dell'ambiente – immaginiamo, dicevamo, che tutti mantengano, sempre, un atteggiamento costantemente virtuoso.

Ipotizziamo anche uno scenario in cui la procreazione diminuisca a livelli tali da riportare la popolazione mondiale a standard pre-moderni e, contemporaneamente, l'idea sovranista vinca, impedendo qualunque forma di emigrazione/immigrazione. 

Si avvererebbe forse la profezia che lo scrittore Benjamin Labatut ha rappresentato nel suo libro Un verdor terrible (tradotto da Adelphi recentemente con il titolo Quando abbiamo smesso di capire il mondo): "Le piante, nutrite all'eccesso da un'umanità in soggezione, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde".

Questa immagine fantascientifica paradossale è perfetta per spingerci a fare considerazioni che ci riportano all'origine di questo discorso: mentre sembriamo tutti impegnati a raggiungere la così detta neutralità carbonica entro il 2050, (quasi) nessuno mette in guardia sui pericoli della dematerializzazione, dove la particella "de" usata in funzione privativa, vorrebbe togliere concretezza materica a tutto ciò che è tridimensionale. Ricopriremo i grattacieli e le città di boschi verticali senza accorgerci che un altro nemico, difficile da riconoscere perché dematerializzato, attenta al nostro equilibrio biologico.

L'invisibile inquinamento delle nostre foto su Instagram, delle nostre quotidiane opinioni su Twitter, degli sproloqui cui ci abbandoniamo su Facebook, i dati che forniamo a Linkedin sulle nostre storie professionali, i video imbarazzanti su Tik Tok, la condivisione dei colori che ci piacciono su Pinterest, i follower da acchiappare su YouTube: tutto questo "torpor terrible", parafrasando Labatut e intendendo l'ottundimento delle facoltà psichiche che ci ipnotizza quando stiamo sui social, crea danni. La dematerializzazione fa bene da una parte ma è pericolosa da un'altra. 

Nessuna tecnologia è neutrale, nessuna è gratis, nemmeno le app inventate da Zuckerberg, al contrario di quanto lui vorrebbe farci credere. Ce ne accorgiamo anche quando accendiamo il pc: una specie di vento, il soffio di un organismo in affaticamento, accompagna per qualche secondo la connessione che illumina lo schermo (mentre, fuori, il cerchio rosso del contatore immaginiamo giri vorticosamente).

Pare che l'energia che consumiamo per usare tutti i device digitali presenti sul pianeta (smartphone, server, terminali, reti ecc.) cresca al ritmo del 10% l'anno. Ogni informazione, circolando in rete, è inviata da onde elettromagnetiche prodotte da antenne alimentate a corrente, o da fasci che si propagano in fibre ottiche. Google è proprietario di un'infinità di siti, che richiedono enormi capacità di stoccaggio per rispondere ai miliardi di domande che vengono poste ogni frazione di secondo.

I grandi server che immagazzinano e processano i dati necessitano di imponenti potenze elettriche per funzionare ed essere raffreddati (impiegando, tra l'altro, colossali quantità d'acqua). Ci si spaventa a leggere i dati che Google stesso ha rivelato sul consumo energetico che gli è necessario per fornire i suoi servizi: pari a un quarto della produzione di una centrale nucleare media ogni anno (swissinfo.ch).

Gli algoritmi che prendono in carico le informazioni che gratuitamente forniamo a Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Jack Dorsey (Twitter), Larry Page e Sergej Brin (Google), Reid Hoffman (Linkedin) ma anche a Netflix, Dazn, Amazon, le dirottano poi a entità socioeconomiche, politiche, finanziarie, commerciali: dati che hanno un valore enorme per il loro potere di influenzare qualunque nostra scelta, come è enorme la potenza energetica indispensabile per rilasciarli. Comprare Bitcoin causa l'immissione in atmosfera di una quantità di circa ventitré milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, come le emissioni annuali di città come Las Vegas o di piccole nazioni come la Giordania.

L'incremento esponenziale del traffico dati tecnologico dovuto alla crescente dematerializzazione è un problema oggi sottovalutato ma serio. Così, mentre crediamo di combattere battaglie ambientaliste sui social, con i nostri tweet indignati e le foto choc, non facciamo altro che consumare un prodotto commerciale, contribuendo all'inquinamento, proprio come quando abbandoniamo la lattina di Coca Cola nel bosco, gettiamo in mare il sacchetto di plastica coi rifiuti, o schiacciamo con la punta della scarpa un mozzicone. La peculiarità di queste nuove forme di comunicazione sta inoltre nella loro estrema volatilità: tutto si consuma in lassi di tempo sempre più brevi, è l'escamotage ideato per farceli consumare di più. Ne deriva un debito cognitivo allarmante: la quantità di informazioni a nostra disposizione cresce continuamente, impedendo al cervello umano di metabolizzarle, generando danni all'ecologia della nostra mente e alla nostra psicologia, scaraventandoci in un perpetuo senso di inadempienza e di insoddisfazione.

Il digital devide è fonte di un'altra assurda contraddizione. Nei Paesi avanzati, dove il PIL cresce in media del 2% la spesa per la digitalizzazione – come riportato dal fisico Roberto Cingolani, oggi Ministro della transizione ecologica – cresce dal 3 al 5% negli ultimi anni. Nei Paesi dove la crescita non c'è, il gap digitale aumenta. 

Un cittadino americano possiede in media dieci dispositivi digitali, processando circa centoquaranta gigabyte (miliardi di byte) di dati ogni mese, in confronto a un cittadino indiano che, con un solo dispositivo connesso, consuma due gigabyte (invece dei centoquaranta del cittadino medio americano). La digitalizzazione continua ad essere un fenomeno non uniformemente distribuito sul pianeta ma il suo impatto ambientale è subìto da tutti. Il politically correct ambientalista ha dunque bisogno di un aggiornamento urgente, se non vogliamo che i sacrosanti allarmi lanciati da Greta non finiscano tra i reperti archeologici di Instagram.

Una battaglia non esclude l'altra, ovviamente, e si può impegnarsi per la riduzione del CO2 mentre lottiamo per la consapevolezza di quanto sia cruciale nel futuro delle nuove generazioni l'ecologia digitale. 

Ma, per farlo, bisognerebbe aver chiaro che un comportamento coerente esigerebbe una serie di rinunce, oltre a limitare il bla bla bla istituzionale stigmatizzato da Greta: non ultima quella di chiederci – tanto per cominciare da qualcosa di semplice – quanto siano necessarie le foto che pubblichiamo su Instagram, le opinioni che scriviamo su Twitter, gli sproloqui su Facebook. Buttare il pacchetto di sigarette vuoto nel cestino o resistere al caldo di un'estate normale tenendo spenta l'aria condizionata sembrerebbe più facile. Ma, anche qui, abbiamo delle resistenze.

L’inquinamento da farmaci dilaga nei fiumi di tutto il mondo. LUIGI BIGNAMI, divulgatore, su Il Domani il 06 marzo 2022

Un nuovo studio ha esaminato la presenza di prodotti farmaceutici nei fiumi del mondo.

Secondo i risultati, in più di un quarto delle località studiate le concentrazioni sono a livelli potenzialmente tossici. Lo studio ha monitorato 1.052 siti lungo 258 fiumi in 104 paesi di tutti i continenti, rappresentando così l’impronta farmaceutica di 471,4 milioni di persone.

Per 36 di questi paesi è stato il primo studio sulla presenza di farmaci nei rispettivi corsi d’acqua principali. Tra i fiumi esaminati vi sono il Tamigi in Gran Bretagna, il Rio delle Amazzoni in Brasile e il Tevere in Italia.

LUIGI BIGNAMI, divulgatore. Giornalista scientifico italiano, laureato in scienze della terra a Milano

Come inquinare meno (davvero) in 10 mosse. Alessandro Ferro il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Per fare in modo di avviarci a un modo libero dal carbone, il cambiamento riguarda singolarmente anche ognuno di noi: ecco un decalogo di "regole" che sarebbe bene imparare a seguire.

In un mondo ormai avviato alla transizione ecologica, ognuno di noi può fare tanto per salvaguardare il pianeta. Ecco perchè il cambiamento parte dall'individuo, da ognuno di noi, prima che sia troppo tardi e periodi di siccità si alternino ad alluvioni e viceversa. Il Washington Post, uno dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti, ha creato un decalogo con delle norme da osservare individualmente per provare a ridurre quella che viene chiamata "l'impronta di carbonio" di ogni singola persona.

Meno sprechi alimentari

Parlando di Stati Uniti, ad esempio, l'impronta di carbonio prodotta dai rifiuti alimentari è maggiore rispetto a quella del settore aereo. Gli sprechi hanno conseguenze devastanti per l'ambiente perché sono stati prodotti cibi con enormi emissioni di gas serra, le conseguenze ambientali della produzione di cibo che nessuno mangia sono enormi. Secondo l'organizzazione no profit ReFed, la maggior parte degli sprechi alimentari, circa il 37%, avviene in casa. Per evitare il ripetersi di queste condizioni, il consiglio è di tenere un elenco degli alimenti a portata di mano organizzando il frigorifero in modo da poter tenere traccia di ciò che c'è dentro. Alcune persone trovano utile etichettare le cose con la data in cui sono state acquistate o cucinate, altri usano un sistema in cui gli articoli più vecchi vanno sullo scaffale più in alto per poterli raggiungere prima. Insomma, ogni trovata è utile per evitare di buttare cibo, non ce lo possiamo permettere.

Via il prato dal giardino

Il nostro caro prato costa tanto all'atmosfera: soltanto negli Usa, si stima che ci siano dai 40 ai 50 milioni di acri di prato quasi quanto tutti i parchi nazionali del paese messi insieme. Secondo l'Environmental Protection Agency, la manutenzione di quei prati consuma quasi 3 trilioni di galloni di acqua all'anno, oltre a 59 milioni di libbre di pesticidi che possono infiltrarsi nella nostra terra e nei nostri corsi d'acqua. E poi, per la manutenzione sono stati utilizzati circa 3 miliardi di galloni di benzina per far funzionare le attrezzature da giardino, l'equivalente di quasi 6 milioni di autovetture in funzione per un anno. Qual è la soluzione? "Sostituire l'erba con le piante è uno dei modi più importanti per mantenere un cortile ecologico. La posa del pacciame è un punto di partenza facile. Uccide rapidamente l'erba e offre una tela bianca per la semina", scrivono gli esperti.

Come salvare la barriera corallina

Per salvare le barriere coralline bisogna iniziare dagli abbronzanti che si portano in spiaggia: vanno abbandonate le creme solari e gli articoli da toletta che contengono ossibenzone e altri prodotti chimici e optare per prodotti a base minerale. In valigia, poi, andrebbe messa una bottiglia d'acqua riutilizzabile, magari inserita nei thermos, così da evitare la plastica monouso. Il decadimento delle barriere, infatti, è spesso opera delle sostanze che dalle spiagge finiscono in mare. Non ci pensiamo nemmeno, la Natura sì.

Acquistare in maniera sostenibile

Mettersi nell'ottica di uno shopping sostenibile a 360 gradi: esistono pochissime cose che si possono acquistare e costituiscono beneficio per il clima. La maggior parte dei prodotti richiede terra, acqua e combustibili fossili per la produzione, l'uso e il trasporto. Vestiti, elettrodomestici, prodotti per il bagno, giocattoli, ecc. hanno intrinsecamente un costo ambientale in termini di emissioni di carbonio, quindi CO2. È così che si può sostituire l'auto con un veicolo elettrico, provare a rinnovare o riutilizzare gli oggetti esistenti piuttosto che acquistare sempre più cose. Invece di comprare tovaglioli di carta, si possono strappare le vecchie magliette per usarle come stracci: va costruita un'"economia circolare" nella comunità e in casa.

Proteggere le foreste

L'Italia non possiede le grandi foreste americane ma ce ne sono tante, così come in Europa. Esistono già numerosi gruppi che mirano a proteggere le foreste e gli alberi secolari. Alcuni gruppi, soprattutto oltreoceano, hanno interessi forestali più ampi tra i quali la promozione della piantumazione di alberi e altre iniziative di ripristino.

Veicoli elettrici

Anche se ancora costano molto, il futuro è dell'elettrico a scapito del monossido di carbonio prodotto dalle auto a benzina e gasolio. Secondo una recente ricerca, i veicoli elettrici tendono anche ad avere costi di carburante e manutenzione inferiori rispetto alle auto a gas, rendendoli più economici nel corso della loro vita rispetto ai veicoli con motore a combustione. Il Dipartimento dell'Energia americano ha un elenco completo di sconti, crediti d'imposta e altri programmi offerti in ogni Stato per incentivarne l'acquisto, Europa e Italia sono invece ancora molto indietro.

Migliorare la propria abitazione

Gli agenti atmosferici si presentano in molte forme, ma la più semplice è chiudere le crepe intorno a finestre e porte. Secondo il Dipartimento dell'Energia americano, dal 25 al 30% del riscaldamento e del raffreddamento domestico viene perso attraverso le finestre. Per migliorare l'efficientamento, si possono identificare i punti di perdita accendendo gli aspiratori della cucina e del bagno, creando un leggero differenziale di pressione tra interni ed esterni per poi sollevare un bastoncino di incenso acceso in potenziali aree problematiche: se il fumo oscilla o soffia in una direzione, c'è una corrente d'aria che deve essere sistemata. Il vetro di una finestra, poi, è "uno degli anelli più deboli" nella difesa di un edificio contro la radiazione solare secondo quanto dichiarato dalla scienziata Alexandra Rempel, perché trasmette facilmente il calore. Il modo migliore per evitare tutto questo è installare coperture esterne per finestre (persiane o tende da sole a scomparsa).

Cambiamento climatico ed equità razionale

Gli scienziati del clima sono chiari sul fatto che una società giusta ed equa non è possibile su un pianeta che è stato destabilizzato dalle attività umane. Uno studio degli Atti della National Academy of Sciences ha rilevato che le comunità nere e ispaniche degli Stati Uniti sono esposte a un inquinamento atmosferico molto maggiore di quello che producono attraverso azioni come la guida e l'uso dell'elettricità. Al contrario, i bianchi americani hanno una qualità dell'aria migliore rispetto alla media nazionale anche se le loro attività sono la fonte della maggior parte degli inquinanti. "Comprendere che il cambiamento climatico avrà un impatto sproporzionato su queste comunità è un passo importante per combattere il riscaldamento globale e creare un mondo più giusto", si legge sul quotidiano americano.

Compensazioni di carbonio

Senza cambiamenti sistemici nella società come una rete elettrica completamente alimentata da energia rinnovabile o un sistema alimentare che genera quantità inferiori di emissioni di gas serra, è praticamente impossibile per una singola persona o anche una grande istituzione passare completamente al carbonio freee, libero. "L'intero scopo delle compensazioni", ha affermato Barbara Haya, ricercatrice sulla politica climatica dell'Università della California a Berkeley, "è quello di creare un modo per un individuo, un'azienda o un'università di pagare qualcun altro per ridurre le emissioni per coprire le emissioni che non possono ridursi”.

Le persone possono acquistare compensazioni per le emissioni di un'attività specifica, come un volo internazionale, o acquistare pacchetti con noti come "la compensazione del carbonio del matrimonio verde" e "pacchetto di vita equilibrato". I buoni progetti, però, dovrebbero essere permanenti e applicabili con ulteriori sforzi che non vanno compensati per spostare le emissioni da qualche altra parte. In questo modo non si risolverebbe nulla.

Trasmetterle

Infine, una sola parola contiene tutti i punti elencati finora: trasmettere, cioé educare figli, amici e coetanei a essere parte del cambiamento che non è un problema delle prossime generazioni, come si è sempre sentito. È un problema di adesso, e riguarda l'ultimo bambino nato e il più anziano vivente sulla Terra.

La guerra ha riacceso la luce sui disastri ecologici dimenticati del Donbass. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 27 febbraio 2022

Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter di Domani sul clima e l’ambiente.

Questa settimana parliamo della polveriera ecologica in Ucraina orientale, dell’«accordo di Parigi» sulla plastica, della crisi globale incendi e del ghiaccio marino in Antartide. 

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Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, che arriva in una settimana dolorosa e difficile, piena di cose che non avremmo pensato di leggere, vedere, scoprire. Cominciamo proprio da lì, dove tutti stiamo guardando.

LE MINIERE DI CARBONE DEL DONBASS

Il Donbass è la «miccia che ha scatenato l’incendio», come l’ha definita Dario Quintavalle su Domani, la regione orientale dell’Ucraina dove la Russia ha riconosciuto le repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk.

L’etimologia del nome Donbass è: bacino del carbone del Donetsk. L’area è stata uno degli epicentri minerari del mondo, con centinaia di estrazioni attive e inattive, una catastrofe ecologica in slow motion, in grado di contaminare acqua e suolo, sulla quale la guerra ha riacceso i riflettori e che rischia di avvelenare ancora di più.

Secondo un report della Banca mondiale, in Donbass ci sono 900 siti industriali, 40 fabbriche metallurgiche, 177 siti chimici ad alto rischio, 113 siti che usano materiali radioattivi, 248 miniere, 1.230 chilometri di tubature che trasportano gas, petrolio e ammoniaca, 10 miliardi di tonnellate di rifiuti industriali. Una polveriera che gli otto anni di conflitto, e questa invasione russa, rischiano di far detonare.

Il sito di giornalismo investigativo Bellingcat aveva sviluppato già nel 2017 una serie di mappe e risorse digitali che danno la misura del pericolo in corso ancora oggi.

In duecento anni di storia, nel Donbass sono state estratte 15 miliardi di tonnellate di fonti fossili di energia, principalmente carbone. Già prima della guerra il ministero ucraino dell’Ecologia e delle risorse naturali aveva contato un totale di 4.240 punti di pericolo ambientale, un catalogo che comprende perdite di metano, rischi di radiazioni, stabilità idrodinamica del suolo, dispersioni chimiche.

La preoccupazione principale è per le vecchie miniere di carbone: quando un’estrazione viene chiusa non può essere semplicemente abbandonata, è necessario pompare continuamente fuori l’acqua per evitare che i bacini idrici vengano contaminati da metalli pesanti come piombo, mercurio, arsenico. La guerra limita o impedisce queste operazioni, ed è una cosa che avevamo visto accadere già prima dell’invasione in 35 siti diversi, perché ai separatisti filo-russi mancano volontà e risorse per farlo.

Le miniere sono state lasciate al loro destino, si sono allagate e stanno inquinando l’acqua usata per bere e irrigare. L’Istituto nazionale di studi strategici dell’Ucraina ha definito la contaminazione chimica una «minaccia imminente» per almeno 300mila persone, un civile su quattro lungo la linea di combattimento non ha più accesso a una fonte affidabile di acqua potabile. L’incidenza di infezioni gastrointestinali nei bambini è decine di volte più alta che nel resto del paese.

Nel 2018 l’allora ministro dell’Ecologia Ostap Semerak aveva addirittura parlato di una «seconda Chernobyl» nella miniera abbandonata di YunKom, che ha una storia particolare e molto pericolosa.

Era stata aperta da una società belga negli anni Dieci del Novecento ed era una delle più produttive nella storia dell’Urss. Alla fine degli anni Settanta qui erano stati condotti test nucleari sotterranei, che avevano lo scopo di ridurre le esplosioni causate da perdite di metano, diventate più frequenti man mano che l’estrazione scendeva di profondità. Le cariche da 0,3 kiloton avevano creato una sorta di camera sotterranea piena di radiazioni a 900 metri di profondità, una capsula radioattiva che per quarant’anni è stata pompata e tenuta asciutta, anche dopo che la miniera è stata chiusa. Poi è arrivata la guerra, nel 2018 i separatisti hanno abbandonato YunKom a se stessa e anche qui è arrivata l’acqua, la contaminazione ha il potenziale di rendere radioattiva quella che viene usata da milioni di persone e che arriva fino al mare di Azov. YunKom si trova a quaranta chilometri dalla città di Donetsk.

E poi ci sono le centrali nucleari a fare paura. L’Ucraina è un paese dell’atomo, scrive il Bulletin of the Atomic Scientist. Metà dell’energia elettrica usata dagli ucraini arriva da quindici reattori nucleari.

Il paradosso del nucleare è che il suo uso pacifico ne fa anche uno strumento militare per le forze occupanti, è la tesi del libro Nuclear Power Plants as Weapons for the Enemy, scritto dall’ex membro dell’Ufficio di affari politico-militari del Dipartimento di stato americano Bennett Ramberg, ed è uno dei timori più spaventosi su questa invasione, che un’esplosione possa verificarsi, intenzionalmente o meno, in uno di questi reattori. Sono un’infrastruttura decisiva per il paese e il pericolo di un “incidente” in tempo di guerra è elevatissimo.

Infine c’è ovviamente Chernobyl, dove si è combattuto e dove le radiazioni hanno superato il livello di guardia, ma non c’è stato nessun danno alle strutture nucleari. Per ora. 

NON NE USCIREMO RICICLANDO

Lunedì 28 febbraio inizia a Nairobi, in Kenya, un negoziato importantissimo, di cui abbiamo parlato già qui ad Areale: quello per avere un trattato internazionale sulla plastica. Sarebbe il più importante patto internazionale multilaterale sull’ambiente dai tempi dell’accordo di Parigi del 2015, e si spera che, per ambizione, possa anche superarne i limiti che hanno rallentato l’azione sul clima in questi anni. A organizzare il tavolo è l’Unep, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

«Dovrà essere un momento da consegnare ai libri di storia», ha detto Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’agenzia Onu. Il problema è che la storia è ancora lontana, a Nairobi si getteranno, nel miglior scenario possibile, le basi per un negoziato che potrebbe durare anche due anni prima di sfociare in un trattato pienamente esecutivo. La cornice è quella della quinta sessione della United Nations Environmental Assembly, tecnicamente Unea-5.2.

La politica va lenta e le crisi corrono veloci. Ci sono però delle basi per sperare: più di 50 paesi (anche alcuni che inizialmente erano riottosi a un accordo vincolante, come Usa e Cina) ora sostengono l’idea di un trattato sulla plastica. Addirittura grandi brand utilizzatori di plastica (come Coca Cola) si sono rassegnati ad avere qualche tipo di limitazione o vincolo imposto dalla comunità internazionale. Di recente hanno iniziato ad appoggiare la prospettiva anche i produttori di plastica, spesso costole dell’industria delle fonti fossili.

Insomma, a questo punto è chiaro che un accordo di qualche tipo ci sarà, il punto è che tipo di accordo e in che tempi. Una frase molto chiara sulle intenzioni Onu l’ha detta Andersen, intervistata da AFP: «Non possiamo uscirne riciclando». È un punto fondamentale, se proviamo ad allargare lo sguardo dal nostro immediato contesto e vediamo cos’è diventata la plastica per l’umanità. La produzione ha superato in modo irreversibile la nostra capacità di gestirla.

Ogni anno vengono prodotte 400 milioni di tonnellate di plastica. Nel 2040, senza un accordo, rischiano di essere 800 milioni. Nei dieci minuti che avrete impiegato a leggere Areale, altrettanti camion pieni di plastica non riciclata sono stati riversati nell’ambiente. Solo meno del 10 per cento di quella usata nel mondo viene riciclata, non c’è strutturalmente modo per aumentare questo dato: due miliardi di persone usano la plastica in paesi dove non ci sono infrastrutture per riciclarla. Il 90 per cento di quella usata nel mondo viene bruciata o buttata in discarica, da lì finisce nei fiumi e negli oceani.

Quindi il punto è: quale accordo uscirà dal negoziato? La versione al ribasso, di produttori e consumatori di plastica, punta forte su design e riciclo. La versione al rialzo, invece, è basata su un’idea più radicale, prova a guardare a tutto il suo ciclo di vita. Plastica monouso al bando (come in Unione europea) e riduzione della produzione. Oltre all’accordo di Parigi, il modello è la storia di successo del Protocollo di Montreal contro l’uso delle sostanze che minacciavano lo strato di ozono nell’atmosfera.

Qui potete leggere le due bozze di accordo in competizione. Quella più estensiva, firmata da Ruanda e Perù, copre tutto il ciclo di vita della plastica. Quella più conservatrice, firmata dal Giappone, si concentra su fine uso e oceani.

La settimana prossima sapremo.

STORIE DI GHIACCIO E FUOCO

Le rilevazioni satellitari del ghiaccio marino (la parte di oceano coperta per più del 15 per cento di ghiaccio galleggiante) ai due poli sono iniziate nel 1979. Da allora abbiamo visto che Artico e Antartide si comportano in maniera differente, con il primo a destare più preoccupazione, vista la costante e drammatica riduzione del ghiaccio marino anno dopo anno.

In Antartide la situazione è un po’ diversa, la copertura era addirittura aumentata, ma le cose sono cambiate velocemente negli ultimi anni. Un record negativo era stato stabilito nel 2014, in Antartide, poi di nuovo nel 2017, infine un nuovo punto basso, il peggiore quindi da quando esistono questi dati satellitari, è stato raggiunto nel 2021, secondo i dati del US national snow and ice data center.

L’attribuzione di questo fenomeno alla crisi climatica e al riscaldamento globale è complessa, visto il numero delle variabili in gioco. Ogni anno il ciclo di fusione e formazione del ghiaccio marino in Antartide riguarda una superficie grande il doppio dell’Australia (e l’Australia è grande) e questo processo è influenzato da temperature, correnti, venti, ed è quindi difficile individuare cause singole. Sicuramente sono numeri mai visti, che probabilmente dipendono da una combinazione di fattori.

Second Walt Meier, ricercatore del centro, intervistato dal Guardian, un’ipotesi solida è che venti molto forti sul Mare di Ross abbiano spinto il ghiaccio verso nord, dove è stato fuso da acque più calde o spezzato da onde più forti. Non possiamo dire che sia climate change, né possiamo escluderlo. «Ora gli scienziati devono solo aspettare e vedere», ha detto Meier.

È uscito il primo rapporto dell’Unep sulla crisi globale degli incendi. Ci sono dei numeri preoccupanti, il rischio globale di roghi devastanti rischia di aumentare del 57 per cento entro fine secolo, e stiamo assistendo a un loro potenziamento anche in zone dove prima non erano così comuni: Russia, Tibet, India settentrionale. Ma l’interesse più forte, e quello che riguarda più da vicino l’Italia, è sul bisogno di prevenzione, di una risposta diversa, che non insegua il fuoco ma lo anticipi, adattando gli ecosistemi alle nuove condizioni.

«Il riscaldamento del pianeta sta trasformando i paesaggi in polveriere. Più eventi estremi portano venti più forti, più caldi, più asciutti ad alimentare le fiamme. Troppo spesso la nostra risposta è tardiva, costosa. Troppi paesi soffrono di una mancanza cronica di investimenti e prevenzione. Il vero costo degli incendi – finanziario, sociale e ambientale – si estende per giorni, settimane, talvolta anni dopo che le fiamme si sono spente».

In Italia è stata pubblicata da poche settimane la prima Strategia forestale nazionale, e uno degli obiettivi cardine parla proprio di questo: raddoppiare nel giro di cinque anni la superficie pianificata, anche per coordinare meglio l’adattamento degli ecosistemi forestali alla crisi incendi, perché quello che abbiamo visto l’estate scorsa in Sardegna, Calabria, Sicilia, Abruzzo, rischia di non essere l’eccezione di una brutta annata. Il rapporto Onu si legge qui.

Su Spotify invece c’è una nuova puntata del podcast Ecotoni che faccio con Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano. In questa puntata parliamo di cosa significa avere una strategia forestale, cosa cambia, perché è una notizia importante. 

Per questa settimana è tutto, coraggio, sono giorni complicati e difficili, pieni di ansia, in cui il mondo si presenta in tutta la sua irredimibile complessità.

A presto, Ferdinando Cotugno

DATI. Il 77% dell’energia deriva da combustibili fossili. AP su Il Domani il 22 febbraio 2022

L’energia lorda disponibile è il totale della domanda di energia di un paese. Se andiamo ad analizzare come è evoluta la sua composizione, si nota come in Italia e in Europa dipendiamo ancora in grande parte dai combustibili fossili per la fornitura energetica complessiva. Nel 2020 secondo i dati Eurostat, i combustibili fossili rappresentavano ancora il 70 per cento dell’energia lorda dell’intera Ue e per l’Italia il 77 per cento. Trent’anni fa, quella percentuale era pari a 82 per cento per l’Ue e oltre il 93 per cento per l’Italia. La diminuzione degli ultimi decenni è frutto di investimenti e aumento dell’utilizzo delle energie rinnovabili che ha raggiunto il 22 per cento dell’energia lorda in media in Unione europea (e il 20 per cento in Italia) ed evidenzia come le nostre economie stiano cercando di transitare verso un sistema (e una crescita) sempre più sostenibile per l’ambiente.

L'Onu punta l'indice contro il siderurgico di Taranto: "Ex Ilva ha violato i diritti umani e compromesso la salute dei cittadini". Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite, David R. Boyd nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". La Repubblica il 15 febbraio 2022.

"La produzione nell'impianto siderurgico Ilva di Taranto ha compromesso la salute dei cittadini e violato i diritti umani per decenni, provocando un grave inquinamento atmosferico. I residenti che vivono nelle vicinanze dell'impianto "soffrono di malattie respiratorie, cardiache, cancro, disturbi neurologici e mortalità prematura". 

Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile, David R. Boyd, d'intesa con il relatore speciale Marcos Orellana sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e lo smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". Il rapporto è stato  pubblicato e approvato dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Proprio Orellana è stato a Taranto nelle prime settimane di dicembre 2021 ed ha avuto incontri con gli esponenti del mondo ambientalista. 

Il rapporto conclusivo è stato diffuso da Marina Castellaneta, ordinario di diritto internazionale nel dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Bari. "Tra i luoghi più degradati in Europa occidentale - si segnala - i relatori hanno individuato proprio la zona dell'Ilva di Taranto che si trova nella stessa situazione di zone come quella di Quintero-Puchuncavi in Cile, Bor in Serbia e Pata Rat in Romania". "Il diritto a un ambiente salubre - scrive il relatore speciale Boyd - può essere garantito solo se si limita l'utilizzo di sostanze tossiche che colpiscono le persone più vulnerabili".

L’ex Ilva e Taranto in un rapporto dell’ONU. Le vicende legate al siduerurgico in una relazione sull'inquinamento mondiale. GIANMARIO LEONE su Il Corriere di Taranto il 15 febbraio 2022.

Sta avendo molta risonanza mediatica in queste ultime ore, una relazione del Relatore Speciale dell’ONU (Organizzazione Nazioni Unite) sul tema dei diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile, diffusa quest’oggi ai mezzi d’informazione dal titolo: “Il diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile: ambiente non tossico“.

Nella docuemnto in questione, il relatore speciale David R.Boyd, con la collaborazione dello Special Rapporteur sulle implicazioni per i diritti umani della gestione ecologicamente corretta e dello smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos Orellana, identifica in un ambiente non tossico uno degli elementi sostanziali di ogni cittadino ad avere il diritto a vivere in un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile.

Il Relatore Speciale nel documento descrive “la continua intossicazione delle persone e del pianeta, che sta causando ingiustizie e creando zone di sacrificio, aree estremamente contaminate vulnerabili e dove i gruppi emarginati sopportano un onere sproporzionato in termini di salute, diritti umani e conseguenze ambientali dovute all’esposizione all’inquinamento e alle sostanze pericolose”.

Il relatore evidenzia gli obblighi dello Stato, le responsabilità commerciali e le buone pratiche correlate per garantire un ambiente non tossico prevenendo l’inquinamento, eliminando l’uso di sostanze tossiche e per riabilitare i siti contaminati.

Nel paragrafo 45 della relazione viene citato anche il caso di Taranto: “L’acciaieria Ilva di Taranto, in Italia, ha compromesso la salute delle persone e violato diritti umani per decenni scaricando enormi volumi di inquinamento atmosferico tossico. Nelle vicinanze i residenti soffrono di livelli elevati di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, malattie neurologiche debilitanti e mortalità prematura. Bonifica e risanamento sono le attività che avrebbero dovuto iniziare nel 2012 sono state posticipate al 2023, con il Governo che ha introdotto decreti legislativi speciali che consentono la prosecuzione dell’impianto operativo. Nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso che l’inquinamento continuava, mettendo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione residente nelle aree a rischio”.

Difatti la nota a margine del suddetto paragrafo riporta la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 24 gennaio 2019 (Cordella et al. c. Italia domande congiunte n. 54414/13 e n. 54264/15), “segnando una tappa importante nella saga giudiziaria dell’acciaieria Ilva di Taranto. La Corte ha stabilito all’unanimità la responsabilità dell’Italia di non aver adottato le misure amministrative e legali necessarie per disinquinare l’area interessata e per fornire ai singoli un effettivo rimedio interno per contestare lo status quo pericoloso e incerto, in violazione degli artt. 8 e 13 del Convenzione Europea sui Diritti Umani”.

Tra l’altro lo stesso lo scorso dicembre, proprio il Relatore Speciale ONU su sostanze tossiche e diritti umani, Marcos Orellana, venne in visita a Taranto, accompagnato da Legambiente nel quartiere Tamburi di Taranto e lungo il Mar Piccolo. Una visita, quella di Orellana, finalizzata all’analisi degli effetti avversi di prodotti chimici, della gestione dei rifiuti, pesticidi e della contaminazione industriale sui diritti umani, che sta facendo attraversando diversi siti del nostro paese toccati da contaminazione, da Roma e alle regioni Veneto, Campania e appunto Puglia.

Di fatto l’ennssima fotografia di un qualcosa che è sin troppo risaputo da queste parti, che appunto riguarda quanto accaduto negli ultimi decenni, seppur tralasciando l’impatto dovuto ad altre aziende presenti tutt’ora o in passato sul territorio come l’ex Cementir, l’Eni, la Marina Militare, l’Hydrochemical, le tante discariche che hanno contribuito non poco nell’aver fatto di Taranto un Sito di Interesse Nazionale.

Un breve paragrafo, quello sulla città di Taranto, dove si afferma anche qualcosa di assolutamente non vero, quando si parla di attività di bonifica e risanamento che dovevano partire nel 2012 rinviate al 2023, quando invece le cose non stanno esattamente cosi.

Un documento che non dice niente di più e niente di nuovo su una situazione che in realtà, oggi, è comunque molto diversa rispetto a dieci anni fa o a cinquant’anni fa. Ma sul quale i soliti squali si sono lanciati subito per avere l’ennesimo giorno di notorietà a scapito della città di Taranto e dei suoi cittadini.

Di seguito pubblichiamo il rapporto integrale dell’ONU.

IL RAPPORTO. Onu, il dossier choc sull’ex Ilva di Taranto: «Area tra le più inquinate e degradate al mondo». L’accusa al governo italiano: «Lo stato non garantisce un ambiente salubre, le bonifiche rinviate al 2023 non rispettano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.

NON SOLO ILVA. Ex Ilva: Oms, emissioni causa di eccesso di mortalità. ANSA il 21 gennaio 2022. "L'impatto degli impianti" ex Ilva, dal 2010 al 2015, sull'ambiente e la salute dei cittadini "è stato considerevole ma non del tutto caratterizzato. Mentre le emissioni dirette nell'aria sono relativamente ben monitorate, si sa meno di altre vie di esposizione, come l'inquinamento di suolo e acqua. Le emissioni nell'aria dell'impianto ex Ilva, rispetto alla concentrazione di Pm 2.5, sono causa di eccesso di mortalità e altri impatti negativi sulla salute che hanno anche costi economici". Lo ha stabilito il "Rapporto di valutazione di impatto sanitario per gli scenari produttivi dell'acciaieria di Taranto", condotto dall'Oms, Organizzazione mondiale della sanità, e commissionato dalla Regione Puglia. Lo studio è stato presentato online questa mattina da Francesca Racioppi, direttrice Centro Europeo per l'Ambiente e la Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e da Marco Martuzzi, attuale direttore del Dipartimento Ambiente dell'Istituto Superiore di Sanità, ed ex dirigente Oms. Lo studio è iniziato nel 2019. "Le stime di questo rapporto sono pienamente in linea con le valutazioni della Regione Puglia", è stato detto. Racioppi ha sottolineato che "non è stato possibile stimare accuratamente gli impatti sulla salute meno gravi, rispetto alla mortalità, che riguardano i bambini". (ANSA).

Tutti fanno finta di non vedere che il porto di Taranto è una bomba ecologica. Andrea Moizo su editorialedomani.it il 30 dicembre 2021. Sono passati 7 anni dall’avvio del progetto, ma il dragaggio del porto di Taranto resta fermo. Le difficoltà realizzative non sono state risolte malgrado commissariamento e decreto Semplificazioni. Il problema tecnico comporta rischi ambientali: la vasca di contenimento dei fanghi inquinati non dà garanzie di tenuta. La Via intanto è scaduta e l’Autorità portuale ne ha chiesto il rinnovo. L’istanza è però sprovvista delle migliorie progettuali necessarie ma, dopo la stazione appaltante, anche il ministero della Transizione ecologica ora fa finta di niente e manda avanti la pratica.

La classifica dei porti europei più inquinanti: Rotterdam e Anversa i peggiori. Italia terza per le emissioni.  Marco Cimminella su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il nostro Paese è al terzo posto per gas serra (con con oltre 15 milioni di tonnellate) generati dall'attività delle navi, dal trasporto e dalla logistica marittima. 

Alcuni grandi porti in Europa inquinano tanto, quasi al livello di una centrale a carbone. Con le loro operazioni logistiche, con le grandi navi che entrano ed escono, e che caricano e scaricano merce, producono ogni anno un'enorme quantità di CO2 che ostacola il raggiungimento degli obiettivi di neutralità carbonica. Solo il porto di Rotterdam ne genera 13,7 milioni di tonnellate ogni anno, il risultato peggiore in Europa: dietro ci sono Anversa e Amburgo, che salgono su questo triste podio con, rispettivamente, 7,4 e 4,7 milioni di tonnellate.

Greenpeace: "Centomila voli fantasma in Europa: inquinano come 1,4 milioni di auto". Marco Cimminella su La Repubblica l'1 febbraio 2022. 

Per gli ambientalisti le compagnie fanno volare (e inquinare) aerei vuoti per conservare gli slot di decollo e atterraggio negli aeroporti, come impone la legge europea. Ma l'Ue nega che sia vero. 

Non solo inquinano tanto, ma sono anche inutili. Sono aerei che attraversano i cieli europei vuoti o quasi per consentire alle compagnie aeree di conservare gli slot di decollo e atterraggio negli aeroporti: secondo Greenpeace causano un enorme danno ambientale, equivalente a quello provocato dalle emissioni annuali prodotte da oltre 1,4 milioni di veicoli. L'organizzazione ambientalista ha fatto una stima: questi viaggi nel Vecchio Continente sarebbero più di 100 mila. Difficile dire con precisione quali sono le compagnie che fanno partire più aerei senza passeggeri: le società non comunicano questo numero. Tuttavia, il ceo di Lufthansa Carsten Spohr ha spiegato che la compagnia potrebbe essere costretta a operare circa 18 mila voli fantasma in questi mesi per non rischiare di perdere le proprie finestre orarie di partenza e arrivo. 

Secondo la legge europea, infatti, in circostanze normali se non viene effettuato almeno l'80% dei collegamenti previsti, la compagnia inadempiente può perdere gli slot non utilizzati, che devono essere poi riassegnati. A causa della pandemia di Covid-19, che ha abbattuto il traffico aereo con gravi ripercussioni economiche sul comparto, la Commissione europea aveva deciso di abbassare questa soglia al 50% dei voli: dal prossimo marzo e fino a ottobre, aumenterà di nuovo al 64%. 

"Di fronte alla crisi climatica, i voli fantasma - e qualsiasi altro volo non necessario in presenza di alternative ecologiche - dovrebbero essere vietati", ci dice per email Herwig Schuster, portavoce di Greenpeace EU Mobility for All campaign, sottolineando che "l'Ue deve eliminare questa regola dell''use-it-or-lose-it' (lo usi o lo perdi), che incoraggia i voli fantasma, e dovrebbe sostituirla con un sistema che minimizza le emissioni". 

Inoltre, Greenpeace invita anche l'Ue a proibire i voli a corto raggio quando c'è un'alternativa connessione ferroviaria non più lunga di sei ore. 

Le grandi compagnie aeree hanno chiesto sospensioni all'applicazione di questa regola europea. Le difficoltà del mercato, considerando anche gli effetti negativi della variante Omicron sulla domanda di viaggi, ha spinto le società a tagliare i voli: solo Lufthansa pianifica di cancellarne 33 mila tra gennaio e marzo 2022. Air France Klm ha chiesto flessibilità nell'applicazione delle regole di force majeure (vale a dire, quando possono essere considerate giustificate le ragioni fornite dagli operatori per il mancato utilizzo degli slot), visto che lo sviluppo della pandemia e le restrizioni ai viaggi minacciano la ripresa del settore. 

Tuttavia due settimane fa, un funzionario della Commissione Ue aveva sottolineato che la regola europea non ha causato problemi alle compagnie aeree né ci sono evidenze di operatori che fanno viaggiare aerei vuoti a causa della normativa. Il portavoce della Commissione Stefan De Keersmaecker aveva detto alla stampa che nell'attuale stagione invernale il traffico aereo aveva raggiunto il 73-78% del 2019 secondi i dati di Eurocontrol, e che si prevede per il 2022 un traffico aereo annuale pari all'88% di quello del 2019. 

È d'accordo con la posizione di Bruxelles l'associazione che rappresenta gli aeroporti del Vecchio Continente, l'Aci Europe. Secondo l'organismo, le regole comunitarie sulle soglie di utilizzo degli slot vengono incontro alle necessità delle compagnie aeree provocate dalla pandemia, e quindi non c'è alcuna ragione sostenibile per operare voli fantasma. 

"Compagnie aeree, aeroporti e tante altre realtà stanno fronteggiando le difficoltà economiche causate dalle restrizioni ai viaggi conseguenti all'emergenza sanitaria. Tuttavia, oltre al fatto che la commissione Ue ha abbassato la soglia di uso degli slot dall'80 al 50% nel periodo invernale, è stata introdotta anche un'altra specifica misura" ci spiegano al telefono. Si tratta della “Justified Non-Use of Slots”: una volta chiesta l'applicazione al coordinatore di slot, le compagnie aeree potranno usare i loro slot negli aeroporti anche per meno del 50% del tempo. Una misura pensata per affrontare le conseguenze della crisi provocata dal Covid-19, che riguarda non solo divieti di viaggio, ma anche restrizioni di movimento, quarantene o misure di isolamento che condizionano negativamente la possibilità di viaggiare o la richiesta di viaggi in specifiche rotte.

Secondo l'Aci Europe, le stime di Greenpeace sono ipotetiche, e alle compagnie aeree è stata concessa flessibilità per affrontare la difficile situazione economica. E anche se il mercato non si è ancora ripreso, l'aspettativa di una migliore stagione estiva renderebbe ancora più ingiustificato il ricorso alla pratica dei voli fantasma. Come mostrano gli stessi dati raccolti dall'associazione degli aeroporti europei, il traffico passeggeri nel 2021 è cresciuto del 37% rispetto al 2020: tuttavia, è ancora sotto il livello pre-pandemia per un valore del 59%. 

Non bisogna dimenticare che la questione ambientale si intreccia con la dinamica di competizione tra vettori storici e compagnie low cost. Sul tema è intervenuto infatti anche Ryanair che ha chiesto alla Commissione Ue di ignorare le affermazioni di Lufthansa sui voli fantasma. Il ceo della società con sede a Dublino Michael O’Leary ha detto che il gruppo tedesco "piange lacrime di coccodrillo", perché più che al problema ambientale, è interessato a proteggere i suoi slot: "Gli slot sono il mezzo con cui blocca la concorrenza e limita la scelta nei grandi hub come Francoforte, Bruxelles Zaventem e Vienna".

L'analisi di Greenpeace

Nel suo studio, per calcolare le emissioni inquinanti dei voli fantasma l'associazione ambientalista ha considerato un Boeing 747-400 con circa 200 posti e una distanza di volo media di circa 900 km, che è sottostimata. Sebbene Lufthansa non abbia specificato quali siano le destinazioni di questi viaggi e i mezzi impiegati, considerando una stima di 20 tonnellate di emissioni di CO2 per collegamento, solo i voli fantasma del gruppo tedesco causerebbero un danno al clima pari a 360.000 tonnellate di CO2.

"Non si conoscono i numeri delle altre compagnie - ci dicono da Greenpeace -. Sulla base dei numeri di Lufthansa, stimiamo che la quota dei voli fantasma sia simile in tutto il settore dell'aviazione e proporzionale alla quota di mercato delle compagnie". 

La quota di mercato dell'azienda tedesca in Europa è pari al 17%, spiega l'associazione ambientalista: quindi il numero totale dei voli fantasma sul continente potrebbe essere leggermente superiore a 100 mila. Un valore che si tradurrebbe in un danno per l'ambiente equivalente a 2,1 milioni di tonnellate di CO2.

"Anche se l'Ue ha abbassato la soglia dall'80 al 50% durante la pandemia, questo non è stato sufficiente a evitare che aerei degli viaggiassero vuoti o semi vuoti", ci spiegano, ricordando che per la stagione estiva che comincia a marzo la soglia dell'utilizzo degli slot salirà al 64%.

Università Bicocca, un professore si dimette e svela gli affari tra ateneo ed ENI. L'Indipendente il 17 novembre 2022.

Il professor Marco Grasso, direttore dell’Unità di ricerca “Antropocene” della Milano-Bicocca, si è dimesso dall’incarico per denunciare gli affari che l’università milanese intrattiene con la multinazionale petrolifera Eni. Riportiamo in maniera integrale la lettera aperta con la quale ha annunciato le proprie dimissioni, ritenendo sia di ampio interesse pubblico, perché capace di documentare come Eni possa penetrare tra le attività di uno dei principali atenei italiani, influenzandole.

«Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su “progetti di ricerca di interesse comune” relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).

Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca “Antropocene” del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (Ciseps) dell’Università Bicocca.

L’unità “Antropocene” si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e Eni. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.

I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici. In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.

A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche Eni – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.

Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.

I partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le ‘false soluzioni’ che sostengono.

Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.

In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, “una pazzia morale ed economica”, che ci potrebbe portare al “suicidio collettivo”.»

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

La guerra dei movimenti per il clima contro l’Eni per capire da che parte sta il governo. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 15 febbraio 2022.

I movimenti ambientalisti italiani hanno presentato un’istanza contro Eni per il mancato rispetto delle linee guida Ocse per le imprese sull’ambiente e i diritti umani. 

Formalmente, l’obiettivo è aprire un tavolo di trattativa al ministero dello sviluppo economico. Difficilmente accadrà, ma l’orizzonte è quello di una guerra culturale e mediatica contro Eni sul greenwashing. 

In una configurazione simile, gli stessi movimenti avevano fatto causa allo stato italiano per inadempienza climatica. Contro Eni hanno preferito una mediazione, con lo scopo politico di stanare il governo sulle politiche energetiche.

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

Eni, l’abito verde non fa il monaco dell’energia fossile più sostenibile. ALESSANDRO PENATI, economista, su Il Domani il 07 dicembre 2021

Il caso Eni è pero sintomatico di una grande mistificazione che non riguarda solo la società del cane a sei zampe che sputa fuoco (a proposito, a quando un logo più “verde”?).

La pressione di opinione pubblica e investitori perché le società energetiche diventino “verdi” crea il convincimento che la transizione energetica debba passare principalmente da una riduzione dell’offerta di energie fossili da parte delle società.

Se però non cade anche la domanda (dal carburante per le auto al gas per il riscaldamento), o le società energetiche mantengono l’offerta di energia fossile, e si creano solo incentivi al green washing. 

ALESSANDRO PENATI, economista. Presidente e fondatore della Quaestio Capital Management. Ha alle spalle una lunga carriera accademica in Economia e Finanza (University of Pennsylvania, Università Bocconi, Padova e Cattolica di Milano) e di editorialista per i principali quotidiani italiani.

Sanremo, la Rai non risponde su quanto vale la sponsorizzazione di Eni. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 31 gennaio 2022

Il 31 gennaio la conferenza stampa degli sponsor con l’a.d. di Eni Gas e Luce Guberti seduto accanto al conduttore Amadeus. L’accordo, ha risposto la Rai a Domani, non prevede limiti per gli artisti, che possono lamentarsi del greenwashing e criticare il petrolio e il gas

La Rai non risponde su quanto vale la partnership per Sanremo che ha stretto con Eni. Come anticipato da Domani, il 31 si è svolta la conferenza stampa dal teatro Ariston per presentare gli sponsor del Festival, e Amadeus era seduto proprio accanto all’amministratore delegato di Eni gas e luce, Stefano Goberti. Gli ambientalisti hanno lanciato l’allarme per la possibile operazione di greenwashing dell’azienda, cioè l’intenzione di sembrare più verde nonostante si occupi in via prioritaria di petrolio e gas.

Nessun dettaglio è stato offerto sul compenso che ha spinto la tv di stato non solo a concedere spazi promozionali ma anche a cambiare il tradizionale tappeto rosso in un “green carpet”, un tappeto di erba finta davanti alle porte del teatro Ariston per porre l’accento sulle attività verdi di Eni: «Preferisco non dare numeri», ha risposto l’amministratore delegato di Rai pubblicità, Gian Paolo Tagliavia. Dal «punto di vista scaramantico è meglio non fare numeri, li facciamo domenica», quando Sanremo 2022 sarà finito. 

Eni, e nello specifico Eni gas e luce, la società che si occupa di vendita al dettaglio di energia, rinnovabili e mobilità elettrica, si prepara al lancio del suo nuovo nome e marchio Plenitude, anche in vista anche della quotazione in borsa.

Proprio Plenitude sarà al centro della sponsorizzazione. La partnership con Rai e Rai Pubblicità, hanno spiegato l’ad di Rai pubblicità e Amadeus, darà vita durante il Festival «a un processo per analizzare, per la prima volta, l’impatto dell’evento in termini di consumi ed emissioni di CO2 correlate all’organizzazione e allo svolgimento dell’evento stesso, attraverso strumenti innovativi». 

Il tappeto verde, ha detto invece il dirigente Eni Goberti «rappresenta il colore del nostro nuovo logo e racconta del nostro percorso verso la transizione energetica». Un’operazione che secondo gli ambientalisti punta a mettere in secondo piano le reali operazioni dell’azienda, l’Eni infatti nonostante Plenitude (Eni gas e luce) macina utili in larghissima parte grazie all’estrazione di petrolio e metano, nulla a che fare con le attività verdi.

Oltre al “green carpet”, visibile ormai da giorni a Sanremo, non sono stati dati ulteriori dettagli sugli spazi che verranno concessi all’azienda.

Domani ha chiesto ad Amadeus se l’accordo prevede dei limiti per gli artisti o se saranno liberi di esprimere il loro dissenso nei riguardi dell’operazione pubblicitaria o se potranno criticare petrolio e gas.

Alla domanda ha voluto rispondere l’amministratore delegato di Rai pubblicità, Tagliavia: «Ci mancherebbe pure, non ci sono dei vincoli rispetto a quello che gli artisti possono dire. Gli artisti possono dire tutto».

GIÀ PRONTO IL “GREEN CARPET”. Sanremo, l’Eni prova a usare il palco dell’Ariston per far dimenticare il petrolio. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 31 gennaio 2022

L’Eni sarà il principale sponsor di Sanremo per lanciare “Plenitude”, il nome della nuova società che unisce vendita al dettaglio di elettricità e gas, rinnovabili e mobilità elettrica.Un’operazione per fare attecchire il suo nuovo simbolo dai colori verdi nelle simpatie del pubblico, ma anche in vista della quotazione in borsa entro l’anno. Già il 31 è prevista una conferenza stampa con Amadeus.

Greenpeace lancia l’allarme: «Questo è un esempio perfetto di come funziona il greenwashing, mettere in mostra la propria componente apparentemente più sostenibile mentre si occupa di tutt’altro» 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Eni sponsor a Sanremo e Cosmo dice «stop al greenwashing» sul palco. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 05 febbraio 2022.

Il cantautore Cosmo sul palco mentre accompagnava la Rappresentante di Lista al mixer ha lanciato il suo messaggio contro le operazioni per fare apparire verdi le attività che non lo sono. Gli ambientalisti avevano chiesto di prendere posizione contro la campagna pubblicitaria di Eni

Alla fine è successo: il cantautore Cosmo sul palco di Sanremo mentre accompagnava la Rappresentante di Lista al mixer nella serata delle cover ha lanciato il suo messaggio per l’ambiente: «Stop greenwashing» ovvero alle operazioni costruite per far sembrare verde quello che verde non è. Il video dell’esibizione ha cominciato a circolare sul web messaggio ambientalista incluso.

Quest’anno, come raccontato da Domani, tra gli sponsor del Festival c’è Eni, anzi, il Cane a sei zampe è il finanziatore principale dell’evento musicale per lanciare il suo nuovo marchio Plenitude che a breve andrà a sostituire il nome di una delle società di Eni, Eni gas e luce, mantenendo le stesse attività: vendita al dettaglio di luce e gas, energie rinnovabili e mobilità elettrica.

Un’operazione che per Greenpeace e Fridays for future è appunto greenwashing. Qualche giorno fa avevano lanciato anche su queste pagine un appello agli artisti per prendere posizione che finora era rimasto inascoltato.

Come risposto a Domani durante la conferenza stampa di lancio degli sponsor gli artisti hanno piena libertà di esprimere la loro opinione. 

Finora la Rai non ha rivelato quanto vale la sponsorizzazione di Eni e in questi giorni oltre all’ormai celebre “green carpet” di erba finta che accompagna tutti gli artisti fino alla porta, per sottolineare «la sostenibilità», sono andate in onda ripetute pubblicità, lo spazio radio vede campeggiare come sfondo il Cane a sei zampe con il nuovo colore verde e il presentatore Amadeus ha ringraziato Eni dal palco.

Il nuovo marchio Plenitude dovrà essere quotato in borsa entro l’anno, in un periodo in cui i mercati prestano molta attenzione alle iniziative green. 

Per gli ambientalisti si tratta di puro marketing, visto che la gran parte delle attività di Eni resta focalizzata su petrolio e gas.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

FESTIVAL VIETATO PER GLI AMBIENTALISTI. Il vero vincitore di Sanremo è il greenwashing. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 05 febbraio 2022. 

Agli attivisti di Greenpeace che giovedì sera hanno manifestato pacificamente fuori dal teatro Ariston contro la sponsorizzazione di Eni-Plenitude, è stato dato un foglio di via da Sanremo per tre anni. Meglio non tenere il problema lontano dal Festival

Al Festival di Sanremo il main sponsor Eni – Plenitude ci racconta la sua svolta tutta rinnovabili e ambiente. Tra auto e crociere, tra gli sponsor va in scena il mondo delle emissioni di Co2.

Agli attivisti di Greenpeace che giovedì sera hanno protestato fuori dal Teatro Ariston è stato dato il foglio di via per tre anni da Sanremo. 

Sembra quasi un messaggio in codice: tenere la crisi climatica lontana dal Festival. L’unica storia da raccontare deve essere quella di Plenitude. FERDINANDO COTUGNO

Cosa sta succedendo davvero al petrolio. Andrea Muratore il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il 2021 ha fatto segnare un rilancio nella domanda di petrolio. Risorsa ben lontana dalla fine che molti pronosticano. 

Quota cento dollari al barile è sempre più vicina per il prezzo del petrolio. Ma la pensione si allontana per il "re" delle risorse energetiche. Tuttora restio ad abbandonare il suo trono o, perlomeno, una posizione di relativa maggioranza in un mercato globale che lo vede insidiato dal gas naturale e dalle fonti rinnovabili.

Nelle ultime settimane il greggio Brent, estratto nel Mare del Nord, benchmark chiave per i mercati europei e occidentali assieme al texano Wti, ha oscillato attorno all'asticella dei 90 dollari al barile, scendendo di poco sotto di esso attorno alla giornata del 10 febbraio per le notizie positive sui possibili accordi nucleari iraniani. La motivazione di questo fatto è dovuta in primo luogo alla tenuta della domanda, trainata soprattutto dai mercati asiatici, e dal caos logistico globale che ha sconvolto il mercaato delle materie prime.

Nel nuovo superciclo delle materie prime legato alla battaglia per la transizione energetica e alla sfida geopolitica del gas naturale, insomma, ci sarà ancora spazio per“Re petrolio”. E torna alla mente il celebre detto secondo cui l'età della pietra non è finita per mancanza di pietre: mentre discute su come abbandonarlo, il mondo ha sempre più sete di petrolio. Lo testimonia la corsa al greggio che anche l'amministrazione "ambientalista" di Joe Biden negli Usa ha sdoganato, aumentando i permessi estrattivi rispetto a Donald Trump. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato che la produzione di petrolio è salita del 4,6% tra settembre 2020 e 2021. Già alla fine dell’estate scorsa analisti, nota Gianni Bessi su StartMag, “affermavano che la domanda mondiale ritornerà alla quota precedente alla pandemia, cioè circa 100 milioni e passa di tonnellate”, pronosticando che tale quota potesse addirittura esser superata nel 2022. Schroders, uno dei principali colossi dell’asset management a livello globale, ha di fatto confermato nei suoi studi questa previsione: “Ci aspettiamo che la domanda di petrolio cresca a 100,23 milioni di barili al giorno nel 2022, con un aumento di 3,5 dal 2021 e ampiamente al di sopra dei livelli del 2019 di 98,27”, ha scritto in un report recente.

Nei mesi in cui l’economia globale si stava riprendendo dopo la prima batosta del Covid e la richiesta di petrolio è tornata a crescere, le grandi aziende petrolifere si sono dimostrate timorose a cominciare un nuovo ciclo di investimento per produrre più greggio a causa dell'analisi delle opportuntià offerte dalla svolta green e dalla transizione energetica. Questo però ha portato gli operatori finanziari a ritenere difficile un aumento degli investimenti in attività estrattive, che però il mercato ha ritenuto potesse tradursi in scarsità di forniture e un aumento del prezzo nel breve e medio periodo, avviando il più classico ciclo delle profezie che si autoavverano. La batosta inflativa che ha colpito gas naturale ed elettricità ha fatto il resto, richiamando a un sano realismo, anche considerato il fatto che la la “geografia” della domanda ha visto il “Re” dei mercati energetici essere sempre più dipendente dall'attrazione dei mercati asiatici. La cui dinamicità si è scaricata sull'Occidente portando a una bomba nel prezzo del petrolio che crescendo nelle quotazioni, nel valore borsistico e, di converso, nella dinamicità delle scommesse finanziarie ad essi associate, sarà sempre più condizionato dalle prospettive di medio-lungo periodo dei maggiori consumatori. E questo impone di fare nuovamente i conti con la risorsa più demonizzata, bistrattata, criticata ma ancora decisiva nell'era della transizione energetica. Come ogni sovrano attempato, capace di difendere la sua posizione anche nei momenti di maggiore minaccia.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

LA STORIA DEL COLOSSO DEL PETROLIO. Così la Exxon finanziava i negazionisti climatici. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 28 gennaio 2022.

Gli scienziati dell’azienda petrolifica Exxon, con la collaborazione di ricercatori esterni, crearono rigorosi modelli climatici che confermavano il consenso scientifico emergente sul riscaldamento globale

Secondo una mail di Leonard Bernstein, un esperto che lavorava per la Exxon, gli scienziati della compagnia petrolifera sapevano per certo che i combustibili fossili erano causa del cambiamento climatico già nel 1981, ma l’azienda ha speso milioni nei decenni successivi per promuovere il negazionismo climatico.

Molti dei finanziamenti della compagnia erano diretti a “scienziati negazionisti” o ai cosiddetti falsi esperti, che avevano il compito di attaccare la scienza del clima, e a campagna pubblicitarie o strategie comunicative che potessero promuovere il messaggio negazionista.

STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

I CATTIVI DEL CLIMA. L'American Petroleum Institute è il tempio del negazionismo climatico.

Il presidente di Api Mike Sommers a ottobre ha testimoniato al Congresso sul ruolo delle aziende di combustibili fossili nel cambiamento climatico. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 05 dicembre 2021.

L’American Petroleum Institute ha dietro le grandi aziende delle energie fossili. Per decenni ha guidato campagne di disinformazione sul clima: spende e impegna lobbisti per opporsi al taglio delle emissioni.

L’API è stata una delle prime associazioni commerciali a orchestrare campagne di disinformazione e negazionismo sul clima. Eppure era consapevole del problema, che negava, già dal 1980.

Ha speso oltre 98 milioni di dollari in attività di lobbying dal 1998. Si oppone, da decenni e spesso con successo, a politiche sulla riduzione delle emissioni.

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STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 Gennaio 2022.

I funzionari dell'ambiente del Cile hanno chiesto al Regno Unito di «assumersi la responsabilità» e impedire che migliaia di tonnellate di vestiti provenienti dall'Europa e dagli Stati Uniti vengano scaricati illegalmente nel deserto di Atacama. Maisa Rojas ha avvertito che le enormi montagne del "fast fashion" che vengono scartate e bruciate hanno «conseguenze ambientali per l'intero pianeta». 

Il paese dell'America Latina è stato a lungo un centro di abbigliamento di seconda mano e invenduto prodotto in Cina o Bangladesh, vestiti che passano attraverso i mercati dell'Asia, dell'Europa occidentale e del Nord America prima di arrivare nell'emisfero meridionale.

Circa 60.000 tonnellate di abbigliamento arrivano ogni anno al porto di Iquique nella zona franca di Alto Hospicio, dove vengono acquistate da mercanti di abbigliamento o contrabbandate in altre nazioni sudamericane. Ma almeno 39.000 tonnellate di abiti non possono essere vendute e finiscono nelle discariche nel deserto. 

Le pile di tessuti vengono bruciate, rilasciando fumi tossici e inquinando il terreno. Il governo cileno insiste sul fatto che sta lottando per regolamentare il commercio.

Maisa Rojas, direttrice del Centro cileno per la scienza del clima e la resilienza, che sarà ministro dell'ambiente del Cile a marzo, ha dichiarato alla BBC: «Non è facile conciliare così tanti interessi come vietare lo scarico di indumenti usati. Non è fattibile. Gli uomini d'affari devono fare la loro parte e smettere di importare rifiuti, ma anche i paesi sviluppati devono assumersi le proprie responsabilità. Ciò che sta accadendo qui in Cile ha conseguenze ambientali per l'intero pianeta».

Negli ultimi decenni, il crescente appetito del mondo occidentale per la moda usa e getta veloce ha incoraggiato i produttori di articoli economici in Cina e Bangladesh a produrre in eccesso. I grandi marchi di "fast fashion" tentano i consumatori offrendo capi economici e nuove gamme, perché l'industria cerca di rispondere ai mutevoli gusti dei consumatori il più rapidamente possibile.

L'ascesa del 'fast fashion' è sicuramente legata ai social media e alla crescita della cultura dell'influencer. Quando una celebrità pubblica una foto con indosso un nuovo outfit che piace ai suoi follower, i marchi di "fast fashion" si affrettano a fornirlo per primi. 

Esempi di marchi di "fast fashion" includono Boohoo, che possiede una gamma di marchi tra cui Pretty Little Thing, Oasis e Warehouse.

Ogni anno, l'industria del "fast fashion" richiede 93 miliardi di metri cubi d'acqua, sufficienti per soddisfare le esigenze di circa 5 milioni di persone. Gli ambientalisti affermano che l'industria è responsabile di circa il 20% dell'inquinamento delle acque industriali a causa del trattamento e della tintura dei tessuti. 

Ci sono anche problemi con i materiali e i proventi, come la produzione di cotone, che utilizza il 6% dei pesticidi mondiali e il 16% degli insetticidi.

L'industria provoca anche una grande quantità di rifiuti tessili. Le montagne del "fast fashion" del deserto di Atacama ne sono un esempio, ma più in generale la quantità di tessuti prodotti a livello globale per persona è più che raddoppiata da 5,9 kg a 13 kg nel periodo 1975-2018. 

Nel frattempo, molti dei vestiti acquistati vengono buttati via dopo essere stati indossati solo una manciata di volte.

Gli attivisti avvertono anche che il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio totali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata tra il 2000 e il 2014 e l'industria è «responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale». Per realizzare un singolo paio di jeans sono necessari 7.500 litri di acqua. 

Lo stesso rapporto afferma che la produzione di abbigliamento e calzature contribuisce per l'8% ai gas serra globali e che «ogni secondo viene seppellita o bruciata una quantità di tessuti equivalente a un camion della spazzatura».

Indipendentemente dal fatto che le pile di vestiti vengano lasciate all'aperto o interrate sottoterra, inquinano l'ambiente, rilasciando sostanze nocive nell'aria o nei canali sotterranei dell'acqua. Gli indumenti, sintetici o trattati con sostanze chimiche, possono impiegare 200 anni per biodegradarsi e sono tossici quanto le gomme o la plastica. 

Ogni anno in Cile arrivano così tanti vestiti che i commercianti non possono sperare di venderli e nessuno è disposto a pagare le tasse e le tariffe necessarie per trasportarli altrove. Alex Carreno, un ex impiegato portuale che lavorava nella zona di importazione, ha dichiarato: «Questi capi arrivano da tutto il mondo. Ciò che non viene venduto a Santiago né inviato ad altri paesi rimane nella zona franca».

Ma non tutti i vestiti vanno sprecati. Alcune delle persone più povere di questa regione di 300.000 abitanti si affidano agli usa e getta per vestire se stessi e le loro famiglie, o frugano nelle discariche per trovare cose da vendere nel loro quartiere.

Dalle centrali a carbone viene il 4,9% dell’energia elettrica italiana. Ecco dove sono e quali sono le sfide. Giuliana Ferraino su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.

Nel tempo della transizione energetica, cioè nel passaggio da combustibili fossili inquinanti a fonti di energia pulite o green, quanto pesa in Italia l’energia elettrica prodotta dal carbone, la fonte più peggiore — la più sporca — in termini di emissioni? Ecco i numeri inediti dell’anno appena finito. Nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 14 Terawattora (o TWh) di carbone, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico italiano, un valore che rappresenta circa il 4,9% della produzione totale netta di energia elettrica italiana.

Nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 14 Terawattora (o TWh) di carbone, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico italiano e a circa il 4,9% della produzione totale netta di energia elettrica italiana dal 6,2% di 2 anni fa. Castelnuovo (Bocconi): i problemi della conversione al gas

L’Italia ha deciso di eliminare il carbone come fonte energetica entro il 2025, per combattere il cambiamento climatico, alla luce della nuova tassonomia europea. Però l’uscita dal carbone, sostituita in parte dal gas naturale, rischia di far impennare ulteriormente i prezzi dell’energia. Secondo la bozza di un documento che sarà inviato alla Commissione europea , il gruppo di esperti Ue, che ha contribuito a costruire la classificazione delle attività verdi (la tassonomia), si prepara a bocciare la bozza di regolamento che stabilisce le condizioni alle quali gas naturale e nucleare possano essere considerati attività «verdi».

Quale sarà l’impatto sulla bolletta degli italiani? I dati della produzione di energia elettrica dalle centrali a carbone dell’anno scorso in crescita rispetto al 2020, quando la produzione era stata di circa 12,9 TWh, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico nazionale e al 4,7% della produzione totale netta di energia elettrica italiana. Ma il 2020 è stato il primo anno del Covid, il più duro, con molte fabbriche ferme e attività chiuse per i lockdown. Per capire il trend perciò è più corretto confrontare gli ultimi dati (ancora provvisori) con quelli registrati due anni fa, prima dell’inizio della pandemia. Nel 2019 la produzione di carbone è stata di circa 17,6 TWh, pari al 5,5% circa del fabbisogno elettrico italiano e al 6,2% della produzione totale netta di energia elettrica italiana.

In un anno di forte ripresa come il 2021, con il prodotto interno lordo in crescita del 6,3%, paragonando i dati con il 2019, si osserva quindi che nel mix energetico italiano il carbone pesa di meno, scendendo dal 5,5% del fabbisogno elettrico italiano al 4,3% e dal 6,2% al 4,9% della produzione netta totale.

Rispetto a 10 anni fa la produzione di elettricità da carbone è stata dimezzata. E quest’anno probabilmente diminuirà ancora visto che lo scorso 31 dicembre l’Enel ha «spento» definitivamente la centrale a carbone «Eugenio Montale» di La Spezia, dopo aver ricevuto l’autorizzazione finale dal ministero della Transizione ecologica per la cessazione definitiva dell’impianto, visibile all’uscita dell’autostrada della Cisa o della Genova-Livorno quando si procede verso La Spezia, con l’ultima gigantesca ciminiera rimasta sulle 4 originali, nella zona industriale che include, tra l’altro, la fabbrica di armamenti Oto Melara. Prima della chiusura la vecchia centrale Enel spezzina è stata però riattivata per alcuni giorni, a metà dicembre, insieme alla centrale di Monfalcone di A2a, per sopperire ai guasti di alcune centrali nucleari francesi, che hanno tagliato l’export di elettricità verso l’Italia.

Ma quante sono le centrali a carbone in Italia? E dove sono? Oltre all’impianto a La Spezia che, sul bellissimo tratto di costa che porta a Porto Venere, ospita anche un rigassificatore Snam a Panigaglia, l’Enel controlla altre 5 centrali a carbone: a Fusina, in provincia di Venezia, a Brindisi, a Civitavecchia, nel Sulcis e a Bastardo, in Umbria. La seconda centrale a carbone della Sardegna, nella zona settentrionale della regione, è del gruppo ceco Eph, che fa capo all’imprenditore Daniel Křetínský. Infine, la centrale di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, è controllata da A2a.

«La produzione italiana sembra marginale, ma nel mondo il carbone resta la principale fonte per produrre elettricità, in particolare in Cina e in India che ottengono i due terzi dell’energia elettrica da questa combustibile, che è la principale fonte dei gas serra», afferma matteo Castelnuovo, professore di Economia dell’energia alla Sda Bocconi e direttore del master in Sustainbility and energy management . «Perciò servirebbe la produzione di tutte le fonti rinnovabili più tutto il nucleare per eliminare il carbone dalla produzione di elettricità», afferma il docente.

Ecco i numeri: nel 2019, prima della pandemia, il carbone valeva il 37% della produzione mondiale di energia elettrica. In Europa il quadro è migliore: il carbone valeva il 15% e in Italia, come abbiamo visto prima circa il 6%, mentre la Germania è il Paese avanzato con la maggior percentuale di carbone nel mix elettrico (il 27%). «Perciò Berlino ha molto pi bisogno di gas di noi, per la transizione», valuta Castelnuovo, ricordando però che «nel 2020 i tedeschi hanno raggiunto «il 46% di fonti rinnovabili, soprattutto eolico, e poi solare». E ora il nuovo ministro per l’Ambiente, il leader dei Verdi Robert Habeck, ha un piano molto aggressivo per accelerare i tempi.

Il rischio è che l’attuale crisi energetica post pandemia riporti di moda il carbone, a dispetto di un prezzo della CO2 molto alto, intorno agli 80 euro. Come stanno facendo Cina e India, al di là dei proclami per l’ambiente. In Italia l’obiettivo è di convertire le centrali esistenti al gas, come prevede l’Enel per l’impianto di La Spezia e Fusina, Civitavecchia e Brindisi. «Ma nel breve termine ci potrebbe essere la tentazione di usarle di più o di riaccenderle, come è successo a dicembre, per nuovi guasti alle centrali nucleari francesi o per i tagli al gas russo», teme il docente. Per il quale, invece, dobbiamo «tenere la barra dritta verso la transizione». 

Che fare quindi delle centrali a carbone rimaste? «Al netto die problemi tecnici, le centrali vanno chiuse, per passare alle nuove tecnologie. Perché il problema del gas, con cui si vorrebbero riaprire, è duplice. «Innanzitutto — sostiene Castelnuovo — quando si brucia gas, si emette CO2, anche se la metà di quando si brucia carbone. Il secondo problema è che bisogna tenere conto delle emissioni del metano a monte, cioè le perdite lungo la filiera, nei pozzi, nelle pipeline. E il metano è 30 volte più potente della CO2, pur avendo il vantaggio di dissolversi nell’arco di 20-30 anni rispetto alla CO2, che invece per centinaia di anni, tant’è che il 75% dei gas serra oggi è costituito da anidride carbonica».

La soluzione è «investire in nuove tecnologie, per sganciarsi il prima possibile da carbone, petrolio e gas. E puntare sulle rinnovabili». E’ un suggerimento «accademico», che va d’accordo con gli esperti contrari all’inserimento di nucleare e gas naturale nelle tassonomia Ue, ma si scontra con l’auemnto della domanda globale di energia, in un contesto di tensioni geopolitiche con la Russia, che ha già fatto volare i prezzi della bolletta energetica di cittadine e imprese in tutto il mondo. 

La sfida è grande così: la quota di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) rappresenta l’80% dei nostri consumi ed è rimasta invariata negli ultimi 30 anni. Adesso abbiamo 28 anni per portarla a zero netto, cioè entro li 2050.

Quanto inquina il 10 per cento più ricco. FILIPPO TEOLDI su Il Domani il 17 Gennaio 2022.

Secondo quanto individuato in un recente rapporto, a livello globale, il 10 per cento più ricco delle persone (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di Co2 per persona all’anno ed è responsabile di quasi la metà (il 48 per cento) delle emissioni globali di Co2. Il 50 per cento più povero è responsabile di quasi il 12 per cento delle emissioni globali di carbonio nel 2019. La disuguaglianza globale nelle emissioni pro capite è dovuta a grandi disuguaglianze nelle emissioni medie tra i paesi e a disuguaglianze ancora più grandi nelle emissioni all’interno di ciascun paese. Guardando ai dati storici, dal 1990 le emissioni dell’1 per cento più ricco delle persone sono aumentate più velocemente di qualsiasi altro gruppo per due motivi. Il primo, è l’aumento superiore alla media del reddito e della ricchezza di questo gruppo rispetto agli altri. Il secondo è l’impatto sulle emissioni Co2 dei loro investimenti.

Filippo Teoldi è Data Editor di Domani. Prima di arrivarci, Filippo ha lavorato come data researcher per il Daily Shot al Wall Street Journal e prima ancora come economista a Palazzo Chigi e a lavoce.info. Milanese di nascita, ha studiato all’Università Bocconi e alla Columbia University di New York, città dove ha vissuto negli ultimi anni. 

L'India combatte lo smog a cannonate d'acqua. Giuliano Aluffi su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Le goccioline d'acqua sparate ad alta pressione catturano le particelle inquinanti. Uno scienziato della Northwestern University spiega come funziona anche il suo sistema alternativo, sempre ispirato alla natura.  

A Nuova Delhi si combatte l'aria sporca con cannoni ad acqua che catturano, grazie alle gocce sparate ad alta pressione, le particelle inquinanti e le trasportano a terra. Il comitato di controllo dell'inquinamento ha richiesto di recente - come riporta il The New Indian Express - che i siti edilizi di dimensioni inferiori a 20.000 metri quadrati si equipaggino di un cannone antismog, e via in crescendo fino a quattro cannoni per i siti tra 60.000 e 80.000 metri quadrati. 

"Questo approccio si ispira alla natura", spiega Kyoo-Chul Park, docente di ingegneria meccanica alla Northwestern University, che studia da anni soluzioni antismog basate su materiali "smart". "Quando piove, le gocce catturano molti degli inquinanti presenti nell'aria: per questo dopo la pioggia vediamo il cielo più nitidamente".

Kyoo-Chul Park, docente di ingegneria meccanica alla Northwestern University  

Professor Park, che caratteristiche devono avere le "nuvolette antismog" artificiali? 

"Il fattore chiave è la dimensione delle goccioline. Se abbiamo una stessa quantità di acqua, le gocce piccole sono più efficaci delle grandi. Questo perché se le gocce sono grandi avranno meno possibilità di interagire con le particelle di sostanze inquinanti sospese nell'aria: ad esempio il particolato PM-10 tenderà a fluttuare intorno alle gocce grandi senza farsi assorbire. L'ideale quindi sono goccioline piccole, di dimensioni simili alle particelle. Per i PM-10 l'ideale è quindi una gocciolina di 10 micron. E le gocce non devono nemmeno essere eccessivamente piccole, altrimenti a quel punto su di loro, più della forza di gravità che le porta a terra, agisce la forza del vento che le trasporta altrove, senza risolvere il problema dell'inquinamento". 

Come si può ottimizzare questo processo? 

"In diversi modi, ad esempio cercando di ridurre l'energia necessaria per disperdere le goccioline. Un altro fattore è il liquido che viene usato per produrre le goccioline: se usiamo acqua purificata, possiamo avere il massimo effetto, però si ha un costo legato alla purificazione. Oltre alla qualità dell'acqua bisogna poi tenere conto della quantità: in alcune zone dell'India dove questo sistema di abbattimento dello smog viene usato, tramite cannoni che sparano goccioline d'acqua, non ci sono problemi di approvvigionamento. Ma in molte zone più aride, dove non c'è abbastanza acqua nemmeno per l'uso potabile, non si può usare una risorsa come l'acqua in questo modo. E per ovvi motivi non si possono usare nemmeno le acque di scarico, come ha ricordato di recente, a Nuova Delhi, il comitato di controllo dell'inquinamento". 

A proposito di siccità: so che lei ha ideato anche un sistema per ricavare l'acqua dalla nebbia. Potrebbe essere una soluzione? 

"Ho sviluppato un sistema per catturare le gocce d'acqua sospese nella nebbia, che non vengono tirate giù dalla forza di gravità, a differenza delle gocce di pioggia. Per far sì che le gocce si addensino e intrappolare l'acqua si può usare una rete fatta di fibre super-idrofile: l'interazione tra le maglie della rete e le goccioline permette di raccogliere l'acqua. Ottimizzando la geometria delle fibre, e rendendo porosa la loro superficie, si può raccogliere più acqua. Questo permette di raccogliere acqua per l'agricoltura e per l'uso potabile. Un'ispirazione che viene dalla natura è il sistema usato dalle sequoie. In California possono superare i 100 metri di altezza. E non è possibile trasportare così in alto l'acqua assorbita dalle radici: per questo queste piante assorbono attraverso le foglie l'acqua contenuta nell'aria. La struttura di queste foglie è simile al reticolo che ho sviluppato per raccogliere l'acqua". 

Anche lei ha ideato un sistema per raccogliere lo smog attraverso speciali filtri reticolari addensanti, ispirato alle reti per ricavare acqua dalla nebbia. Come funziona? 

"La parola stessa smog è composta da "smoke", fumo, e "fog", nebbia. Dove per "smoke" si intendono gli inquinanti trasportati dall'aria. Se l'umidità relativa è alta, queste particelle inquinanti hanno una maggiore quantità d'acqua che le circonda. Quindi ho pensato: 'Come posso usare i miei studi sulla raccolta d'acqua per affrontare il problema dello smog?'. Soprattutto pensando a luoghi come le città dell'India o della Cina. L'approccio per raccogliere lo smog è simile a quello per raccogliere l'acqua, ma c'è una differenza fondamentale: le particelle inquinanti, che sono solide, tendono a intasare il reticolo poroso che vogliamo usare per far addensare lo smog. Un po' come i filtri dell'aspirapolvere possono intasarsi se non li si ripulisce periodicamente. Quindi è importante poter rimuovere queste particelle solide dal reticolo. Una soluzione che abbiamo sviluppato è usare materiali come il diossido di titanio, per rimuovere le particelle organiche. Ma ci sono anche particelle inorganiche: per queste è necessaria una rimozione meccanica usando la resistenza dell'aria una volta che le particelle si aggregano sulla superficie del filtro". 

Come si applicano queste idee? 

"Pensiamo all'inquinamento delle acque: una volta che le particelle inquinanti sono in mare, è molto difficile rimuoverle perché si disperdono su una grande quantità d'acqua. Per questo abbiamo filtri e impianti per il trattamento dell'acqua a monte, ad esempio in prossimità degli scarichi fognari o industriali. Per lo stesso principio, una volta che gli inquinanti sono nell'aria è difficile rimuoverli. Bisogna quindi usare questi sistemi di raccolta dello smog là dove viene prodotto: ad esempio con dei filtri aggiuntivi sulle ciminiere".

L'India e il difficile addio al carbone. Morire di smog o di povertà? Carlo Pizzati su La Repubblica il 5 gennaio 2022. Nel Paese che ha frenato Cop26 si soffoca d'inquinamento tra nuove mafie, miniere che devastano foreste e centrali contestate ma necessarie a crescere. Nelle settimane in cui il premier indiano Narendra Modi preparava l'annuncio per Cop26 sull'obiettivo zero emissioni non prima del 2070, gli Stati del Nord dell'India erano tormentati dai blackout. Mentre Greta Thunberg affilava le accuse al "bla bla" di governi e industrie, e i ministri dell'Ambiente indagavano sulle possibilità di un accordo evanescente sui gas inquinanti, Delhi fronteggiava un serio incremento nella sospensione della fornitura di energia alla rete elettrica.

«Non rinunciamo alle fonti fossili: lavoriamo con Rubbia per l’energia pulita dal gas». Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2022.

 Franco Bernabé: «Siamo vissuti per 250 anni in una situazione di energia molto abbondante e a basso costo: prima il carbone, poi il petrolio e più recentemente il metano. Non c’era mai stato bisogno di concentrarci sulla ricerca di alternative. Ora tutto sta cambiando, ma non c’è ragione per cui l’intelligenza umana non possa trovare soluzioni». Franco Bernabè ha lavorato con le fonti di energia per gran parte della sua carriera. Lo ha fatto da amministratore delegato dell’Eni dal 1992 al 1998 e lo sta facendo ora da presidente di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva. 

Dottor Bernabè, le fonti rinnovabili come l’eolico e il fotovoltaico sono le alternative che servono?

«Sono la prima risposta quando si è capito che la rapidità con cui si sta accumulando la CO2 nell’atmosfera creerà senz’altro delle conseguenze inaspettate. All’inizio erano fuori mercato e sussidiate, poi il costo è crollato. La regione dell’Asia Pacifico ha installato più di metà delle rinnovabili al mondo e grazie all’effetto di scala i costi sono diminuiti del 50% negli ultimi cinque anni. È bastato aumentare la produzione e migliorare la tecnologia per ottenere enormi vantaggi. I limiti sono però noti: servono spazi enormi e c’è discontinuità nella produzione».

L’Italia punta molto sulle rinnovabili per la transizione, è ragionevole?

«Come ho detto, è la prima risposta. Ma in Italia sono cinque anni che le rinnovabili quasi non crescono. Nel 2015 avevamo quasi 19 Gigawatt installati e nel 2020 eravamo appena a 21. In Germania nello stesso tempo si è passati da 39 a 53, in Asia Pacifico da 90 a 422. Da qualche parte il problema in Italia ci sarà, se continuiamo a parlarne ma la crescita è impercettibile». 

E dov’è il problema?

«Ci sono le sovrintendenze da convincere. Siamo un Paese nel quale il paesaggio è un patrimonio da preservare, che può creare posti di lavoro e prosperità. E comunque non dimentichiamo che, a livello mondiale, solare e eolico non sono più del 5% del mix. Le fonti fossili restano ancora l’85% del totale».

Non potremo fare a meno degli idrocarburi?

«Di petrolio ci sarà ancora bisogno soprattutto per la chimica. E il gas è la più recente delle fonti fossili, a minori emissioni di CO2 ed era considerato fino a qualche tempo fa la fonte di transizione per i prossimi cent’anni».

Non c’è tutto questo tempo...

«No, certo, ma il gas naturale ha due caratteristiche: ce n’è in abbondanza per centinaia di anni; e si presta con un processo di cracking alla separazione atomica di idrogeno da carbonio, per produrre idrogeno senza emettere CO2».

Ma la reazione cosiddetta di «steam reforming» per produrre l’idrogeno genera molta CO2, no?

«In quel caso sì. Invece se si scindono le molecole di idrogeno dal carbonio riscaldando il metano senza farlo bruciare, con la pirolisi, non si produce anidride carbonica. Da un lato c’è l’idrogeno pulito e dall’altro una polvere di carbonio che può essere utilizzata in vari modi».

È una nuova tecnologia, ma è economicamente e tecnologicamente sostenibile?

«C’erano dei problemi ingegneristici, ma il premio Nobel della Fisica Carlo Rubbia e i ricercatori del Politecnico di Milano sostengono che possono essere risolti. Carlo Mapelli del Politecnico di Milano, che è consigliere d’amministrazione di Acciaierie d’Italia, sta lavorando a una tecnologia simile ma con un processo diverso. Il gas può essere trasportato agli impianti siderurgici, dove può avvenire il processo di cracking per pirolisi o catalisi».

Cosa manca perché questo progetto, che per ora è di laboratorio, sia applicato su scala industriale?

«Investimenti, naturalmente. Ma è un progetto indicativo del fatto che l’intelligenza umana può trovare le soluzioni, una volta applicata al problema della scarsità di energia che non ci eravamo mai posti dall’inizio della rivoluzione industriale».

Lei ritiene che la scissione a zero emissioni nel metano dell’idrogeno dal carbonio sarà la tecnologia decisiva?

«Può essere una delle molte soluzioni che concorrono. Dico solo che non si può pensare di abbandonare le fonti fossili, con il potenziale di innovazione che c’è ancora dentro. Quando un problema è complesso, la mente umana può risolverlo se vi si applica. Invece se affrontiamo il tema della transizione energetica come una guerra di religione, allora ci perdiamo».

C’è molta tensione perché in Europa si stanno affrontando sacrifici per ridurre le emissioni, mentre il principale inquinatore è la Cina...

«Non credo che le scadenze europee più vicine potranno essere realizzate. E la Cina è il Paese che più di ogni altro sta sviluppando le rinnovabili, tra l’altro con emissioni pro-capite più basse della Germania, degli Stati Uniti o dell’Australia (ma non dell’Italia). La Cina è anche il Paese che sta facendo il maggiore sforzo di sviluppo tecnologico delle rinnovabili e anche qui l’Europa rischia di arrivare in ritardo, di diventare importatore di tecnologie altrui».

Le batterie sono un’altra questione geopolitica: la Cina controlla molte delle materie prime per lo stoccaggio elettrico. Come se ne esce?

«Fu la Cina per prima a sviluppare le batterie a ioni di litio per i droni spia, che poi mise a disposizione per usi civili. L’unica soluzione è concentrarsi sull’innovazione, sapendo che le rinnovabili sono essenziali ma non bastano».

Il costo dei diritti d’inquinamento (Ets) in un anno è passato da 37 a oltre 80 euro a tonnellata di anidride carbonica. Sui conti di un’impresa dell’acciaio pesa?

«Pesa moltissimo per tutta l’industria energivora, sempre di più. La CO2 costa. Per questo è fondamentale sviluppare un processo che non ne generi». 

L'odore dei fanghi. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Bernardo Iovene. Collaborazione di Alessandra Borella e Greta Orsi 

Tonnellate di fanghi e gessi fuori norma e inquinati da sostanze tossiche sarebbero state sversate sui terreni di quattro regioni d'Italia.

Le procure di Brescia, Lodi e Pavia hanno scoperto centinaia di migliaia di tonnellate di fanghi e gessi fuori norma e inquinati da sostanze tossiche che sono state sversate sui terreni del nord Italia, in quattro regioni e centinaia di province. Le inchieste sono partite dalle denunce degli abitanti che per anni hanno subito i miasmi provenienti dai centri di trattamento di fanghi e gessi sotto inchiesta. Report ha ricostruito la filiera dei fanghi “tal quale” e quella del prodotto diventato gesso di defecazione, una pratica ormai consolidata che si muove in un vuoto normativo, come ha ammesso lo stesso ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani. Quest’anno entrerà in vigore un nuovo regolamento europeo, ma ogni Stato può continuare a utilizzarli secondo le proprie normative nazionali. E se in Spagna, Gran Bretagna e Irlanda sono largamente impiegati come fertilizzanti, in Olanda, Belgio e Svizzera preferiscono incenerirli. E l'Italia come si comporta? I fanghi dei depuratori civili e industriali possono essere recuperati in agricoltura come concime perché contengono azoto e fosforo utili ai terreni, ma anche una serie di inquinanti, metalli pesanti, idrocarburi e PCB considerati cancerogeni. Una legge del 2018 ha stabilito dei limiti per queste sostanze, ma se trattato, il fango diventa gesso e può essere utilizzato come un fertilizzante e sfuggire ai controlli severi che invece ci sono per i fanghi tal quale.

L’ODORE DEI FANGHI Di Bernardo Iovene Collaborazione: Alessandra Borella, Greta Orsi Immagini: Giovanni de Faveri, Alfredo Farina, Davide Fonda

BERNARDO IOVENE Quindi questo qua viene da un depuratore di Merano?

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì, dal depuratore…

BERNARDO IOVENE Sono gli scarti di un depuratore

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì, esattamente. Il fango che entra attraverso il nostro impianto deve avere già caratteristiche idonee all'utilizzo in agricoltura così come entra, quindi questo qua più marrone viene da Pistoia

BERNARDO IOVENE Da Pistoia questo qua

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Esatto. Perché…

BERNARDO IOVENE Poi tutto questo viene tutto mescolato?

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Assolutamente per omogeneizzare…

BERNARDO IOVENE È lui che mescola

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Esattamente il nostro operatore che miscela anche il materiale e lo omogeneizza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I fanghi vengono dalla depurazione delle fogne delle nostre città le acque depurate vanno nei corsi d'acqua, rimane il fango che la parte solida ed è un rifiuto che va smaltito. Ma c'è anche la possibilità di utilizzarlo come concime in agricoltura.

BERNARDO IOVENE Io se penso ai fanghi da depurazione penso alle fogne no che arrivano nell'impianto di depurazione, le acque pulite vanno seguono il loro corso e tutta la schifezza si trattiene e diventa fango o no?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Dire schifezza è una cosa esagerata. Noi facciamo delle cose quando andiamo in bagno e poi dopo vanno nelle fogne

BERNARDO IOVENE Perché dentro le fogne circola di tutto

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Ci può andare di tutto

BERNARDO IOVENE Circolano i topi e c'è il Comune che va a derattizzazione, piombo ci sarà, degli idrocarburi

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE C’è del rame, c’è dello zinco, c'è tutta una serie di cose che devono avere dei parametri. Cosa vuol dire? Che un depuratore prima di essere un depuratore, diciamo così che ha la possibilità di mettere fango in agricoltura, ha bisogno di un controllo continuativo per sei mesi, ogni 15 giorni viene fatto un controllo e deve rimanere sempre dentro i parametri perché se solo una volta sfora il parametro quel depuratore non può portare fango

BERNARDO IOVENE Non è idoneo

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Non è idoneo e tutto questo è controllato dall'Arpa

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dai depuratori idonei arrivano in queste vasche dove decantano e si stabilizzano da uno a tre mesi finché non diventa un prodotto omogeneo

BERNARDO IOVENE Quindi questo è il prodotto che voi date all’agricoltore

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Questo è il prodotto che va in agricoltura. Viene fatta l'analisi e poi viene portato

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Lo ricordo ancora, si tratta comunque di rifiuti

BERNARDO IOVENE Rifiuti che però adesso vanno sui campi agricoli dove poi viene coltivato 

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Beh, il problema è proprio quello insomma… Di che cosa si nutre quello che cresce su un campo che è stato fertilizzato con i fanghi della depurazione? Sarebbe importante saperlo perché poi molto probabilmente ce lo mangiamo. Ora quello che potrebbe considerarsi anche un esempio virtuoso di economia circolare e di recupero dei rifiuti è diventato un vero incubo per i cittadini di centinaia di comuni del nord Italia. Si tratta proprio dei fanghi di depurazione trattati come fertilizzanti. Insomma, sono quelle cosette che noi facciamo quando noi andiamo in bagno dice simpaticamente Paolo Ceccardi presidente del Centro di agricoltura per l’ambiente. Contengono per loro natura degli inquinanti, poi se ne aggiungono altri che vengono dispersi nell’ambiente e finiscono nel depuratore dei fanghi di provenienza civile. Ora la legge consente lo smaltimento di questi fanghi sul campo, sui campi agricoli e il letame cosiddetto umano se viene trattato con la calce viva e però è considerato ancora a tutti gli effetti un rifiuto, viene tracciato dall’impianto fino allo smaltimento all’ultimo momento mentre invece se aggiungi alla calce l’acido solforico avviene una magia cioè i fanghi si trasformano in gessi di defecazione e quello che ne esce fuori non è più un rifiuto, il letame viene trasformato in prodotto, in merce e può circolare liberamente. Questo avviene anche con i fanghi di provenienza industriale ed entrambi possono essere smaltiti sui campi. Arrivano ad essere offerti come fertilizzante agli agricoltori, spesso sono ignari e gli agricoltori sono allettati perché gli viene offerto il trasporto, il fertilizzante gratuito poi si presentano con mezzi pesanti che spargono il gesso di defecazione e poi lo interrano anche. Sarebbe anche un esempio di economia circolare virtuosa se non fosse che dentro poi ci si infila il criminale, ci si infila la sostanza cancerogena e poi se non fosse che i fanghi puzzano, eccome se puzzano! Il nostro immarcescibile condottiero Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La stessa ditta si occupa a sue spese del trasporto all'azienda agricola. Si tratta di rifiuti che puzzano e quindi appena arrivano sul campo sempre la ditta dei fanghi provvede allo scarico e allo spargimento sul terreno. E dopo anche all’aratura. Oggi su questo campo sono arrivati dieci camion, a usufruire di questo servizio totalmente gratuito è l'azienda agricola.

BERNARDO IOVENE È il beneficiario diciamo lei.

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) Sono il beneficiario ma siamo tutti beneficiari perché questo…

BERNARDO IOVENE È un recupero

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) È un classico esempio di economia circolare, noi aziende agricole abbiamo bisogno di sostanza organica, la comunità ha bisogno di eliminare dei rifiuti dei depuratori e appena arriva il prodotto in azienda deve essere interrato immediatamente in modo da arrecare meno danno e meno disturbo per la popolazione.

BERNARDO IOVENE Per la popolazione

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) Quest'anno è stato seminato grano l'anno prossimo verrà seminato del mais. Però bisogna anche che i residenti se per un giorno sentono un po’ di puzza insomma portino un po’ di pazienza.

BERNARDO IOVENE Un po' di pazienza. Lei come la chiama questa sostanza?

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) È un esame letame, letamo umano; vogliamo chiamarlo letame umano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A pagare tutto questo sistema siamo noi attraverso la bolletta dell'acqua. Paghiamo chi depura. E chi depura poi paga le ditte per lo smaltimento dei fanghi.

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Il prezzo medio sono 60-65 euro alla tonnellata

BERNARDO IOVENE E un camion quante tonnellate ha?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE 30

BERNARDO IOVENE 30 tonnellate quindi ogni camion sono 6 x 3, 18 sono a 1.800 euro no?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il letame umano della città di Piacenza però all'analisi non è risultato idoneo. Questa è l'acqua depurata che finisce nel Po, mentre il fango che esce, all'inizio liquido poi diseccato, va direttamente nel termovalorizzatore e viene bruciato, ma costa.

EUGENIO BERTOLINI – AMMINISTRATORE DELEGATO IREN AMBIENTE Un prezzo di smaltimento di un fango, diciamo fuori norma rispetto all'agricoltura, viaggia intorno diciamo dai 130 ai 140 euro a tonnellata

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ricapitolando bruciare il fango nei termovalorizzatori costa 140 euro a tonnellata, smaltirlo invece su un campo agricolo 65 euro. Meno della metà. Spostiamoci in Lombardia al depuratore della città di Brescia

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Questi sono i batteri

BERNARDO IOVENE Ammazza, siamo sicuri qua?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Siamo sicurissimi

BERNARDO IOVENE Non è che ci attaccano? Questi batteri

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Assolutamente, sono batteri si nutrono della sostanza organica che c'è nelle fognature, crescono

BERNARDO IOVENE Mamma mia che schifo però

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA E quando sono cresciuti vengono estratti. E quello è il fango, il fango non è altro che batteri.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quando i batteri si nutrono durante la depurazione, producono biogas. Anche qui il fango viene disidratato. Ogni giorno qui a Brescia riempiono 4 container di fango che poi vanno al termovalorizzatore distante due chilometri.

BERNARDO IOVENE Quanto pagate?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA 140 euro a tonnellata più o meno

BERNARDO IOVENE Quanto fango producete?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Su questo impianto 9-10 mila tonnellate di fango all'anno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un milione e mezzo di euro l'anno solo per smaltire i fanghi. Sia il depuratore che l’inceneritore sono di A2A ma evidentemente sono di rami diversi dell’azienda. I fanghi del depuratore di Rovato invece, siamo sempre in provincia di Brescia, producono un fango idoneo per l'agricoltura.

BERNARDO IOVENE Dove va questo fango?

MAURO OLIVIERI - DIRETTORE TECNICO ACQUE BRESCIANE Questo fango va a recupero in agricoltura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma in Lombardia i prezzi sono il doppio che in Emilia-Romagna.

MAURO OLIVIERI - DIRETTORE TECNICO ACQUE BRESCIANE Per i fanghi idonei l'attuale appaltatore si è aggiudicato la gara per 120 euro a tonnellata trasporto e smaltimento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Lombardia è la regione dove ci sono più impianti di recupero dei fanghi ma a differenza dell'Emilia-Romagna prima di spedirli in agricoltura è obbligatorio un trattamento con calce viva

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) In base alla normativa nazionale potrebbe anche andare

BERNARDO IOVENE Potrebbe anche andare

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Per quella nazionale ma per quella lombarda no

BERNARDO IOVENE Voi lo analizzate questo fango?

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Assolutamente. È già analizzato prima che arrivi

BERNARDO IOVENE 7 E che cosa ci trovate dentro che diciamo non può andare? Perché non può andare?

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Sostanzialmente per gli aspetti microbiologici

BERNARDO IOVENE Ad esempio? Ci faccia un esempio da far capire

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Salmonelle. Coliformi fecali, salmonelle. Questi sono i parametri che normalmente non sono conformi rispetto a quella che è la norma nazionale, alla norma regionale per cui dovevano essere trattati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora il letame umano se vuoi spargerlo sui campi agricoli della Lombardia devi trattarlo con la calce viva, questo per la presenza di alcuni batteri come le salmonelle. Però questo rende più costoso lo smaltimento, costa 120 euro a tonnellata in Lombardia, 65 euro a tonnellata nelle altre regioni. Questo però se vuoi smaltirlo appunto sui campi agricoli. Se invece, il letame umano, i fanghi di derivazione civile hanno dei limiti di metalli pesanti eccessivi come a Piacenza, stiamo parlando di metalli pesanti come il Piombo, il Cadmio, il Nichel e tanti altri… allora li devi portare a bruciare nell’ inceneritore e questo costa un po' di più, 120, 130 euro a Piacenza, se lo bruci invece a Brescia 140 euro dove c’è A2A che incassa le bollette dell’acqua per la depurazione, pensa lei allo smaltimento, si paga anche l’incenerimento ma non si fa neppure lo sconto. Ecco insomma ha funzionato così per tantissimi anni, dove si controllavano i depuratori, si controllano ancora oggi i depuratori in maniera rigorosa e i fanghi che uscivano da lì, considerati rifiuti, venivano monitorati fino allo smaltimento fino quando non c’è stato un signore che si è fatto venire un’idea e ha aggiunto alla calce viva del trattamento dei fanghi civili anche l’acido solforico, una sostanza che serve per abbassare il livello dei metalli pesanti e i fanghi si sono trasformati in gessi di defecazione ma, per magia, quello che viene considerato un rifiuto, il letame, diventa un prodotto, una merce libera di circolare, niente più tracciamento, niente più controlli Ma qual è la ricaduta e quale è stata, e di chi è stata l’idea?

BERNARDO IOVENE Questa è della città di Carpi?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo è il fango come arriva dagli impianti di depurazione. Viene poi introdotto in questi contenitori dove viene miscelato con calce, acido solforico, carbonato di calcio e/o solfato di calcio. Alla fine, viene fuori il cosiddetto gesso di defecazione, non è bianco, rimane scuro ed è considerato un prodotto fertilizzante a tutti gli effetti.

BERNARDO IOVENE Lei mi diceva prima che viene considerato uno dei delinquenti che produce questi 8

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Tutti noi che facciamo questa attività ormai godiamo di una pessima fama. Nel 2005 noi abbiamo brevettato il sistema per produrre gessi di defecazione e abbiamo ottenuto la prima autorizzazione…

BERNARDO IOVENE Cioè voi siete i primi?

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Abbiamo inventato questo, questo disastro.

BERNARDO IOVENE Questo disastro. Certo. Quindi lei è il responsabile?

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Sono io. Purtroppo poi si è diffusa BERNARDO IOVENE Si è diffusa in tutta Italia

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Si è diffusa in tutta Italia e purtroppo, in taluni casi, è stata applicata molto male.

BERNARDO IOVENE Il fango tal quale soggetto a dei controlli…

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Pesantissimi.

BERNARDO IOVENE Pesantissimi. Voi, invece, vi liberate di questi controlli…

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Esclusivamente sotto il profilo amministrativo, abbiamo un'autorizzazione sola per l'impianto e non abbiamo più innumerevoli autorizzazioni di quel fango specifico di depurazione che doveva essere autorizzato

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con i gessi sostanzialmente si sfugge ai controlli carico per carico perché smette di essere rifiuto e viaggia come un prodotto. L'Emilia Romagna ha una legislazione come vedremo particolare e più restrittiva ma in Lombardia ad esempio è permesso utilizzare per fare i gessi anche fanghi prodotti da depuratori industriali, un mix che può sprigionare odori nauseabondi per la popolazione che vive sulle vie trafficate dai fanghi

FABIANO CABRINI - PRESIDENTE VIVAMBIENTE La Lombardia raccoglie la maggior parte dei fanghi da refluo di tutte le regioni italiane, che raccolgono 42 tipi diversi di trattamenti industriali, quindi dalle 9 concerie, alla pelletteria, alla farmaceutica, alla chimica in generale. L'acido solforico e la soda non riescono ad eliminare nessun elemento di questa chimica che finisce nei fanghi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La norma, inserita d’urgenza: stabilisce i limiti per utilizzare fanghi provenienti dall’ industria del tessile, delle plastiche, della farmaceutica che rilasciano sostanze come idrocarburi pesanti, PCB, Toluene, Selenio, Cromo esavalente, Berillio e Arsenico. È un paradosso! Perché i controlli sui gessi si fanno solo sui metalli, non su altre sostanze chimiche. E nei paesi arrivano con i gessi, odori strani, indecifrabili anche per i sindaci, che sono all’oscuro degli spargimenti. Perché non ricevono le comunicazioni. L’ultimo caso è a Castiglione d’Adda.

COSTANTINO PESATORI – SINDACO CASTIGLIONE D’ADDA (LO) Nauseante, cioè veramente l'aria per il potenziale sversamento che potrebbe esserci stato martedì nessuna comunicazione in Comune è arrivato per cui, è arrivata, per cui evidentemente non si trattava di fanghi ma di gessi

UMBERTO DACCÒ – CONSIGLIERE COMUNALE CASTIGLIONE D’ADDA (LO) Odori chimici, a come ad esempio quella di martedì. Odore di pesce marcio ma che raggiunge dei livelli veramente nauseabondi indescrivibili. Non si può mettere una popolazione nella condizione di non poter uscire.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infuriati, sempre nel lodigiano, a ridosso del Po, sono i cittadini dei comuni vicini a una delle maggiori aziende che opera nel settore dei fanghi la CRE, Centro di Ricerche Ecologiche, con due impianti uno a Maccastorna e l'altro a Meleti.

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Non sono sottoposti a nessuna normativa per cui noi ci troviamo queste sostanze sparse in area golenale soprattutto sul piacentino nelle rive limitrofe del Po. E quando passano i camion lì è una cosa insopportabile cioè anche a 200, 300 metri si sentono le molestie olfattive

BERNARDO IOVENE E queste le ha filmate lei?

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Questi signori, passano a 80 all’ora allora in un paese con i 300 quintali sopra e ora che la finiscono adesso ne abbiamo le scatole piene

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Quando uno è seduto a tavola a mezzogiorno e passano tre o quattro di questi qui, questi signori… dice ah possiamo anche rallentare ma per quanto riguarda la puzza ve la dovete tenere. No, questi signori la puzza se la devo tenere loro

BERNARDO IOVENE Ma stiamo parlando di una ditta in particolare? sempre la CRE?

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Sempre la CRE.

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Sono stati inquisiti nel 2016, ci sono stati 12 arresti. Ecco la nostra preoccupazione è anche quella

FABIANO CABRINI - PRESIDENTE VIVAMBIENTE Il problema è che loro non riescono a togliere i contaminanti da questi fanghi e da gessi per cui noi ce li mangiamo perché finiscono nei prosciutti, nelle carni, in tutto finiscono nella nostra alimentazione quotidiana.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nel 2016 viene arrestato l’amministratore unico della CRE per 110 mila tonnellate di fanghi da depuratori civili e industriali non recuperati e quindi, rifiuti, sversati in campi agricoli tra il 2012 e il 2015 tra le province di Lodi, Cremona e Pavia. Avrebbero fruttato 45 milioni di euro falsificando analisi dei terreni e dei fanghi. La CRE attualmente è sotto sorveglianza di commissari giudiziari.

BERNARDO IOVENE È successo quello che è successo no?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL È successo anche quello sì.

BERNARDO IOVENE Insomma, fanghi, tonnellate di fanghi illegali sparsi sulle campagne no?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sull’illegalità magari ci si potrebbe anche discutere. L’azienda ovviamente ha preso atto di tutta questa situazione, ha iniziato a mettersi a posto, diciamo a fare le cose come devono essere fatte

BERNARDO IOVENE Come devono essere fatte

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL E quindi

BERNARDO IOVENE Ma i vecchi proprietari ci sono ancora però?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL 11 Sì, ci sono i proprietari però c'è una governance diversa. Noi siamo un'azienda che è governata tra virgolette dai commissari

BERNARDO IOVENE E intanto chissà quante schifezze ci siamo mangiati noi insomma negli anni

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL No, però questa è, voglio dire, non sono proprio così d'accordo. Ci può essere stato in un certo periodo un comportamento anomalo che però è stato punito

BERNARDO IOVENE Ah ho capito però è finito comunque in agricoltura, nelle nostre pance diciamo.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sì, però non diciamo, non diciamo che prima era sempre così.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Speriamo la lezione sia servita anche perché qui, come nel resto della Lombardia, arrivano i fanghi da tutta Italia

BERNARDO IOVENE Questo qua viene dall’acquedotto pugliese?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sì esatto

BERNARDO IOVENE Addirittura, da Bari viene?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Viene da Bari perché ovviamente c'è stata una gara e quando c'è una gara noi partecipiamo tenendo presente che avremo dei costi per portarlo il materiale in agricoltura.

BERNARDO IOVENE Questi qua sono i famosi trattori.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL In questo sistema si procede a distribuire i fanghi sui terreni

BERNARDO IOVENE Questi sono la gioia degli abitanti.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Ovviamente il prof…, l'odore, diciamo quello non può essere, non può essere fermato più di tanto. Nel senso che non esiste una normativa precisa, se non il codice della strada.

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Qui però l’odore è micidiale eh…

BERNARDO IOVENE Vabbè Ci stiamo attenti

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal lodigiano ci spostiamo in provincia di Pavia dove sono concentrate molte aziende di trattamento dei fanghi. Questa è la Alan, una delle storiche, poi c’è la Var nella zona tra Belgioioso e Linarolo. Qui l'Arpa dopo numerosissime proteste in seguito a odori nauseabondi ha distribuito un metodo di segnalazione per i cittadini.

BERNARDO IOVENE Presenza altissima. Odore nauseabondo.

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) Qualcuno non credeva nella buona riuscita di questa attività che è stata lunga

BERNARDO IOVENE Tipo immondizia durata almeno un'ora tuttora persistente

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) L'indirizzo di dove veniva rilevata, più gli orari

BERNARDO IOVENE Plastica bruciata. Odore pungente, odore marcio. Odore acre

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) Diciamo che con questo metodo siamo andati ad indirizzare Arpa verso dei controlli mirati che poi alla fine sono sfociati nell'inchiesta che poi…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'inchiesta si è conclusa il 3 dicembre con l'arresto del sindaco di Barbaniello che ometteva i controlli e consigliava al vigile di mettersi in ferie quando il sindaco di un altro paese, Mezzanino, con cui condividono la polizia municipale, ordinava i controlli sugli sversamenti dei fanghi. BERNARDO IOVENE Cioè, lei si è trovato in mezzo…

ADRIANO PIRAS – SINDACO DI MEZZANINO (PV) 13 Io mi sono trovato in mezzo a un'intercettazione telefonica, nel senso che io chiedo al vigile di venire a fare un sopralluogo, il vigile mi dice no devo andare a dare assistenza al mio papà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra gli indagati anche i responsabili alcuni dipendenti della Var, la ditta produce fanghi misti a compost che rientrano nella categoria dei gessi. La Var è l'incubo di Linarolo, il paese più vicino che vediamo sullo sfondo, gli odori avevano raggiunto un limite insopportabile.

BERNARDO IOVENE La Var è lì praticamente

FABRIZIO GNOCCHI – CONSIGLIERE COMUNALE DI LINAROLO (PV) La Var è lì. I miasmi sono veramente rilevantissimi

ABITANTE LINAROLO (PV) Quando si sa che dentro ci sono anche cose che non ci dovrebbero essere e che non sono state smaltite correttamente, la cosa diventa preoccupante

ABITANTE LINAROLO (PV) Ed è un problema grave e anche che noi qui coltiviamo riso, mais e abbiamo anche la soia

ABITANTE LINAROLO (PV) A nessuno piace la puzza se poi la puzza diventa anche tossica. Ma qua siamo pieni eh…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO in periodo soprattutto di lockdown le aziende dovevano per legge areare i locali anche più volte durante la giornata

GIANLUCA PALLADINI – PRESIDENTE PALLADINI SRL - LINAROLO (PV) È un odore che fa piangere gli occhi, è un odore che dà fastidio, senti proprio che ti dà fastidio l'interno.

BERNARDO IOVENE Praticamente dovevate aprire qui durante il lockdown.

GIANLUCA PALLADINI – PRESIDENTE PALLADINI SRL - LINAROLO (PV) Aprire le nostre, i nostri vasistas e si apriva e si richiudeva subito perché il miasma, l’odore era insopportabile

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'accusa della procura è inquinamento ambientale. Alla Var non si rispettavano i tempi di maturazione dei fanghi che rimanevano rifiuti. Dai campionamenti fatti dall'Arpa, su vari campi dove sono stati espansi sarebbe emersa una concentrazione di arsenico e di altre sostanze

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Allora l’ammendante compostato da fanghi di per sé non richiede per legge la ricerca di idrocarburi piuttosto che IPA, PCB, e altre cose simpatiche di questo tipo. In questi casi estendiamo le ricerche anche a questi parametri.

BERNARDO IOVENE Sono stati trovati?

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Sì, sì, beh… si ritrovano sempre

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Idrocarburi IPA e PCB si ritrovano sempre, vuol dire che ci sono in tutti i fanghi che vanno in agricoltura ma la legge, sui gessi di defecazione, non prevede la ricerca di questi inquinanti. Si trovano solo in casi di indagini che sono complicatissime perché non sono previste neanche le comunicazioni preventive sulle analisi e nemmeno sulla destinazione finale del campo agricolo.

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Non c’è questo meccanismo di tracciabilità e quindi noi non sappiamo quando vengono sparsi questi gessi

BERNARDO IOVENE E quelli della Var rientravano in questa categoria?

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Esattamente

ABITANTI LOMELLINA Basta fanghi, basta fanghi!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui nella Lomellina si coltiva e si raccoglie riso e le aziende, specie quelle biologiche, cominciano a risentire di questa problematica delle risaie concimate con fanghi e gessi.

BERNARDO IOVENE Che danno avete voi da tutto questo?

ALBERTO FUSAR IMPERATORE – AZIENDA AGRICOLA “IL SOLE” – OTTOBIANO (PV) Ma un danno di immagine ma alla fine anche economico per tutti perché la Lomellina, la provincia di Pavia come singola provincia, è storicamente la provincia più importante in Italia e come qualità di riso nel mondo.

ALDA LA ROSA - FUTURO SOSTENIBILE IN LOMELLINA Trasparenza, io cittadino devo sapere esattamente quale azienda spande. Una cosa che chiediamo che ci sia scritto sull'etichetta liberi da fanghi

ANNA CROTTI - COMITATO “NO AI FANGHI” IN LOMELLINA Nelle dichiarazioni di chi fa i gessi di defecazione si dice che i gessi non dovrebbero avere puzza. Allora perché sono così puzzolenti? vuol dire che non sono stati controllati, non sono maturi, o non sono state fatte le operazioni che avrebbero dovuto essere fatte. Ma sotto alla puzza ci sono tantissime cose che noi non sappiamo.

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quello che sappiamo invece è che nel pavese ci sono 13 ditte che lavorano i fanghi è diventato un centro di raccolta di fanghi provenienti dai depuratori di vari comuni d’Italia e addirittura dell’estero.

ATTILIO BONETTA – CHIMICO Il quantitativo di fanghi lavorati nel nostro territorio che è un milione e 100mila tonnellate l'anno. In provincia di Pavia se ne producono circa 48 mila tonnellate, tutto il resto vengono da fuori provincia. Contengono un sacco di contaminanti, dai metalli, alle microplastiche, agli antibiotici, noni fenolo, polibromo di feniletere che sono di ritardanti di fiamma. Qui i terreni sono argillosi, si coltiva il riso, per cui vanno nelle falde, negli acquiferi superficiali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In mancanza di un coordinamento nazionale la Lombardia è quella che usa in maniera più disinvolta i gessi di defecazione. Insomma, avevano anche provato a limitarne l’uso ma non ci sono riusciti. In quei gessi di defecazione ci sono sia i fanghi di provenienza civile che quelli di lavorazione industriale, 42 lavorazioni industriali diverse. Parliamo di sostanze pesanti perché sono gli scarti della lavorazione delle pelli delle pellicce, della lavorazione della plastica, della gomma, dei detergenti, della farmaceutica. Sostanze ad alto, ad alta tossicità, sostanze chimiche che se ci spruzzi sopra un po' di soda, un po' di acido solforico non è che ottieni un beneficio. Eppure, la legge consente di poterli smaltire sui campi come se fossero un prodotto. E L’altro paradosso è che la legge non impone di cercare queste sostanze chimiche, impone solo di cercare metalli pesanti. Se trovi delle diossine o degli idrocarburi insomma appartiene solo alla buona volontà del controllore. È per questo che su quelle terre, le terre dei fanghi, come sulle terre dei fuochi, sono sorti degli osservatori dei cittadini, delle associazioni che vigilano e denunciano. Grazie proprio a una delle loro denunce è stato arrestato un sindaco che aveva chiuso gli occhi complice quando doveva essere il primo a sorvegliare sulla salute dei propri cittadini. E se invece ci sono dei sindaci che vogliono tutelarli, non possono farlo, questo per un paradosso della legge perché praticamente se smaltisci un fango di provenienza civile è considerato un rifiuto che cosa devi fare? Devi avvisare quindici giorni prima il sindaco 16 della città, l’Arpa e viene monitorato il terreno dove viene smaltito questo fango di origine civile e vedere se e quanto fango tollera. Se invece è un gesso di defecazione è un prodotto e sfugge a tutti in controlli. Possono sversare senza avvisare alcun sindaco anche se dentro ci sono delle sostanze cancerogene. Ora anche se poi su quel campo ci vai a piantare del grano, del mais, dell’erba medica di cui si nutre una bestia o anche semplicemente se ci coltivi del riso. È successo anche in Lomellina dove i produttori bio sono infuriati perché questo fenomeno sta rovinando l’immagine, l’economia, l’ambiente di un intero territorio dove viene coltivato il riso tra i più famosi al mondo. Insomma, prima o poi il bubbone doveva scoppiare nel pavese che è la provincia che ha più impianti di trattamento dei fanghi nel nostro paese. Ecco insomma pensate che nella provincia del pavese vengono prodotti e trattati 48 mila tonnellate di fanghi. Ma, negli stessi impianti di trattamento vengono trattati invece oltre un milione di tonnellate. Questo perché arrivano fanghi da trattare da tutte le parti d’Italia, anche dall’estero. Siccome l’affare c’è poi alla fine non è che sono tutti santi.

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Quello che è grave è che un decreto legislativo di un governo ammetta la presenza di sostanze cancerogene in un materiale che va nel terreno e dal quale possono derivare dei prodotti destinati all'alimentazione anche dei bambini ed è ammesso che arsenico, berillio, cadmio, cromo, nichel siano presenti in queste quantità che sono quantità elevate. Per di più…

BERNARDO IOVENE Che sono i valori limite diciamo…

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA E sono i valori limite

BERNARDO IOVENE Benzene

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Il benzene, ma lo stirene è un probabile benzopirene, il cloruro di vinile, il tricloretilene, cioè questi siamo sicuri che sono cancerogeni e se noi siamo sicuri

BERNARDO IOVENE E sono ammessi nella produzione

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA la loro presenza è ammessa nei fanghi di defecazione che vengono utilizzati in agricoltura.

BERNARDO IOVENE In agricoltura. Praticamente abbiamo la legge che permette di mettere degli inquinanti direttamente sul terreno.

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Sul piatto!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul piatto sono arrivate anche le 150 mila tonnellate di fanghi e gessi tossici della WTE di Brescia. Le indagini, durate due anni, erano partite grazie alla denuncia del sindaco di Monticelli, un comune della provincia pavese. Era stato allertato dai suoi cittadini colpiti da miasmi nauseabondi dopo lo sversamento sui terreni dei gessi dell'azienda bresciana.

ENRICO BERNERI – SINDACO DI MONTICELLI PAVESE (PV) Il gesso non essendo rifiuto non hanno l'obbligo di segnalarlo alla Provincia, nemmeno al Comune. Quindi arrivano direttamente. Ecco lo vede qui il mucchio nero.

BERNARDO IOVENE Questo qua è il mucchio

ENRICO BERNERI – SINDACO DI MONTICELLI PAVESE (PV) Sì, sì. Qui spiegano le caratteristiche del prodotto. La prima che è venuta a spargere i fanghi è la WTE a gennaio del 2018.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le indagini si concludono il 24 maggio quando la procura di Brescia diffonde le intercettazioni dai contenuti scioccanti: gli smaltitori di fanghi tossici ridevano al pensiero di bambini che avrebbero mangiano i frutti di quei terreni che avevano avvelenato.

 PERESONA 1 Antonio non è vero che non avete fatto male a nessuno perché l’ambiente l’avete disintegrato voi.

PERSONA 2 Per conto terzi. Va bene.

PERSONA 1 Si, alla fine qua ci viviamo noi eh

PERSONA 2 Allora io sono stato un delinquente, io ho fatto il delinquente, consapevolmente. E no ma è vero eh Simone, guarda che io ogni tanto ci penso eh… chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi di Vertelli! E vabbè c…

CESARE NASCÈ - TENENTE COLONNELLO CARABINIERI FORESTALI BRESCIA Queste 150 mila tonnellate di rifiuti sono state sparse su parecchi campi di quattro regioni del Nord Italia. Parliamo di 4 regioni, 12 province e più di 70 comuni, su terreni, parecchi ettari di terreno. Sono più di trentamila Tir

PERSONA 1 Stamattina ti ho trovato un altro clientino in Piemonte

PERSONA 2 Ma dove?

PERSONA 1 Sizzano

PERSONA 2 Sizzano ah…bei posti

PERSONA 1 Sono veramente belli, proprio paesaggisticamente, andiamo proprio a rovinarli con i gessi

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Andavano a rovinare i campi perché nel trattamento, secondo la Procura, utilizzavano un acido di recupero da oli di batterie esauste. La WTE in provincia di Brescia ha tre impianti oggi sotto sequestro, il primo è a Calcinato.

LAURA CORSINI - COMITATO CITTADINI CALCINATO (BS) Quando abbiamo iniziato ad apprendere queste notizie siamo entrati nel dramma perché noi, da 20 anni, sapevamo cosa significava la perdita di gessi di defecazione sulle strade, uscivano fino a 100, 110 tir e trattori carichi al giorno, così come usava l'acido solforico che acquistava da ditte che recuperavano le batterie

ABITANTE DI CALCINATO (BS) Arrivavano queste vampate di odore acre che ti prendeva alla gola, non riuscivi più a trattenere il respiro.

ABITANTE DI CALCINATO (BS) è sempre stato un inferno perché appunto i miasmi, fare una cena o fare un pranzo, vedere la gente che va via perché non sa come fare per dirti oddio dove sono venuta. Alle due o tre di notte ti capitava che invece ti dovevi svegliare perché avevi la gola infiammata gli occhi che ti piangono e i bambini che piangono

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei tre impianti della WTE è a Quinzano, qui la situazione è peggiore, i trattamenti dei fanghi sono a ridosso del paese, i cittadini per 16 anni raccontano una vita d’inferno fino alla data del sequestro.

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Noi andavamo a letto la sera con la paura di non svegliarci il mattino, ma anche i bambini che facevano la strada in bicicletta spesso correvano a casa con gli occhi gonfi, rossi, la gola che bruciava

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Io ho respirato tutto, non sapevo più cosa dovevo fare io per tappare le finestre. Star male in casa e vomitare

BERNARDO IOVENE Un inferno?

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Un inferno sì. Io 16 anni di inferno ho fatto.

BERNARDO IOVENE Adesso sta un po' meglio?

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Sì, sì.

BERNARDO IOVENE E sorrida allora

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Talmente era insopportabile la puzza che lungo il percorso dei camion per andare a sversare i fanghi e gessi nei campi si sono formati spontaneamente dei comitati. Qui siamo a Vighizzolo

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Passavano di qui perché andavano nella bassa bresciana.

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Al passaggio dovevi sempre chiudere la finestra perché per dieci minuti ti rimaneva l’odore

BERNARDO IOVENE Quanto ne passavano al giorno?

BERNARDO IOVENE Tanti, una cinquantina penso

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Davano veramente tanta puzza. Quando passavano carichi e anche quando tornavano scarichi. Qui c’è il semaforo qua che stavano fermi e lì le case, li facevano aerosol a tutto spiano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo le intercettazioni sono rimasti increduli anche gli agricoltori che hanno accettato gratuitamente di far fertilizzare i terreni con i gessi tossici.

BERNARDO IOVENE Perché erano gratuiti, sono stati sempre gratuiti questi fanghi

AGRICOLTORE Erano a norma, con tutte le carte in regola, l’agronomo ha detto che sono ottimi, anziché usare l’urea chimica che costa

BERNARDO IOVENE Lei su quanti ettari l'ha messa?

AGRICOLTORE Neanche dieci ettari.

BERNARDO IOVENE Dieci ettari

MOGLIE AGRICOLTORE Perché io questo liquame ho sentito che puzza tanto. Ho detto ma, siamo in regola? Perché guardate che mi sembra che puzza… No no signora, per l’amor di Dio, c’abbiamo qua guardi tutto in regola… Dove mi fa fastidio, biologico

BERNARDO IOVENE Materiale biologico

MOGLIE AGRICOLTORE Chi pensa che invece hanno falsificato qualcosa

BERNARDO IOVENE Quanto risparmiava con questi fanghi?

AGRICOLTORE 150 euro…

BERNARDO IOVENE E basta? Questo è tutto quello che risparmiava?

AGRICOLTORE A ettaro

BERNARDO IOVENE Ah, a ettaro. Quindi 2000 euro diciamo?

AGRICOLTORE Sì. Per essere su sul giornale a fare… ma vai…

BERNARDO IOVENE Lei complessivamente quanto ha potuto risparmiare?

AGRICOLTORE Su due volte? 800 euro

BERNARDO IOVENE 800 euro. E quando ha saputo questa storia che ha pensato?

AGRICOLTORE Chi?

BERNARDO IOVENE Lei

AGRICOLTORE Niente che cosa dovevo pensare? Siamo stati dei coglioni, perché l’han fatto… cioè nessuno va ad avvelenare la sua terra! Non siamo così, siamo agricoltori ma non siamo ignoranti perché lavoriamo i campi, non so se mi spiego.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Coldiretti si considera parte lesa e ostinata a dare battaglia vuole costituirsi nei procedimenti che saranno aperti dall’autorità giudiziaria

STEFANO MASINI - RESPONSABILE AREA AMBIENTE E TERRITORIO COLDIRETTI Ci sono imprese che lavorano onestamente ma è molto facile eludere tutte le prescrizioni che sono previste. Ad esempio noi siamo quelli che dicono per poter utilizzare fanghi, gessi, no? Occorre avere su un trattore un GPS per poter geolocalizzare tutte le operazioni. Bisogna modificare la normativa, anche perché dal punto di vista europeo un regolamento del 2009 dice che non è possibile considerare fertilizzanti quei prodotti che derivano dalla lavorazione del fango e quindi perché ancora noi proseguiamo ad avere una disciplina non conforme?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Che la disciplina sullo smaltimento di fanghi e gessi sia carente lo denuncia da anni il direttore dell'Arpa di Brescia. È uno dei massimi esperti nel settore.

FABIO CAMBIELLI - DIRETTORE ARPA BRESCIA La norma stessa non va a prevedere dei criteri di base che consentono poi di fare i controlli come Dio comanda, prevede come analisi di conformità, per poter portare i gessi nei campi agricoli, solo l'analisi dei metalli ma nei gessi non troviamo solo i metalli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Proprio dalle indagini della procura di Brescia infatti sono emerse tutte le lacune del sistema: oltre alla chimica inorganica, c’è la chimica dei composti organici, perché 22 in quei gessi sono state trovate concentrazioni elevate di idrocarburi pesanti di toluene e di fenoli.

FABIO CAMBIELLI - DIRETTORE ARPA BRESCIA Ad oggi però la norma di legge, a differenza di quella che ad oggi regolamenta l'utilizzo dei fanghi, non prevede l'analisi di questa sostanza. Se ad oggi le analisi sui composti organici non sono previste è bene che queste analisi vengano introdotte

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Carenza nella norma e nei controlli. Se i fanghi vengono controllati i gessi no. I comitati disperati sono vent'anni che invano scrivono a tutti. La prima risposta è arrivata però dal presidente del Consiglio Draghi

IMMA LASCIALFARI - PRESIDENTE AMBIENTE FUTURO LOMBARDIA E lui ci scrive: è senz'altro vero che questo episodio, quello della WTE, pone con rinnovata urgenza il tema di un potenziamento nei controlli. Regione Lombardia fa una norma in mancanza di quella dello Stato ok, in agosto, viene impugnata dal Ministero dell'Ambiente, dall’ ormai non so più che ministero sia a questo punto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, la Regione Lombardia ha tentato di colmare il vuoto normativo che esiste nella differenza tra fanghi e gessi.

FABIO ROLFI - ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA REGIONE LOMBARDIA Il Consiglio regionale ha votato una legge che equipara il tracciamento, i gessi ai fanghi, peraltro approvato a larga maggioranza, il governo poco dopo l’ha impugnata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma di questa situazione emergenziale ormai sono tutti al corrente, compreso il ministro

BERNARDO IOVENE Cioè qua abbiamo da Brescia a Pavia, passando per Lodi e per tutto il Nord Italia, insomma ormai sono anni che vengono sparse in agricoltura questi fanghi inquinati, un problema, cioè è un'emergenza.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Normalmente non dovrebbe nemmeno succedere che all'acqua di depurazione e al fango, dovuta alla depurazione dell'acqua civile, si uniscano fanghi che vengono dalla depurazione di acque di reflui industriali perché lì c'è di tutto…

BERNARDO IOVENE Ma la legge lo prevede però…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA È quello che a quanto pare è avvenuto visto che, dopo il decreto Genova, sono stati innalzati i limiti per poter mettere insieme diciamo componenti diversi. Ora, questo è un problema fondamentale che va stroncato e va fatto assolutamente il tracciamento.

BERNARDO IOVENE Però io le devo dire che la Regione Lombardia ci aveva tentato insomma no di fare questo tracciamento…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Sono al corrente, è stata bloccata perché ci sono delle prerogative, qui è più una cosa legale, alcune alcuni tipi di leggi possono essere fatti dallo Stato centrale altri, altri dalle Regioni.

BERNARDO IOVENE Anche a norma, insomma, noi queste sostanze ce le ritroviamo nei fanghi che ricadono sui terreni. Chi ci deve mettere mano?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Ci dovrà mettere mano per forza la normativa nazionale e il nostro ministero. Noi diciamo, in questi nove mesi da quando siamo a bordo, abbiamo fatto il bando per i nuovi impianti, il bando stiamo facendo per il tracciamento digitale, l'accordo con il nucleo della Forestale operativo ecologico dell'Arma dei Carabinieri e adesso secondo me questo è un ottimo momento per cominciare a lavorare su questo perché oggettivamente visto che viene sfruttato, ovviamente in maniera illegittima, va cambiato.

BERNARDO IOVENE Allora ministro prendiamo un impegno? Cosa…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Io, guardi… adesso noi ci guardiamo tutto quanto, più, più che metterci la faccia e venire a parlare con lei non posso, lo guardiamo senz'altro, va corretto…

BERNARDO IOVENE È un impegno che poi finisce là oppure insomma…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA No no, qua non finisce niente. Come ovvio ho cercato di studiare tutto quello che c'era quando ci siamo sentiti e dobbiamo intervenire, è fuor di dubbio lo faremo lo faremo prestissimo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Concludiamo con un segnale che già dal 2004 ha dato la regione Emilia-Romagna che ha vietato con una delibera l'utilizzo di fanghi da depuratori industriali che non siano alimentari

IRENE PRIOLO ASSESSORE ALL’AMBIENTE REGIONE EMILIA ROMAGNA 24 È ora, di guardare a quelli che probabilmente oggi la normativa individua come marker possibili tumorali, per cui abbiamo una delibera che ha regolamentato appunto la disciplina per la gestione dei fanghi e una delibera che restringe il campo dell'utilizzo, ovvero del trattamento all'interno degli impianti, non consentendo da questo punto di vista il trattamento delle acque reflue da impianti industriali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dal 2004 che l'Emilia-Romagna ha vietato lo sversamento di fanghi industriali sui loro campi agricoli però è inutile perché, essendo un prodotto, la merce circola e gli arrivano il 90 per cento dei gessi defecati sui propri campi dalla Lombardia. Ora è ovvio che se non si mette la tracciabilità questo tipo di prodotto, insomma, il caos non si ferma. Lo sa bene il ministro Cingolani che ha preso un impegno e siamo certi che lo porterà a termine prima della fine del suo mandato. Ora proprio il fatto di essere sotto, senza controllo ha consentito di smaltire sui campi il doppio dei fanghi che sarebbe stato consentito se fossero solamente fanghi di provenienza civile perché qui i gessi di defecazione sono stati sversati fino a 70 tonnellate per ogni ettaro di terreno. Ora va anche detto che la colpa, come ha ricordato il ministro Cingolani è anche del decreto Genova che ha sostanzialmente ad un certo punto innalzato la presenza dei limiti degli idrocarburi nei fanghi, limiti che erano stati abbassati invece da una sentenza della Cassazione nel 2017 che aveva dato però la stura a una serie di ricorsi da parte degli enti locali che hanno bloccato di fatto il sistema. Però se tu alzi il limite di una sostanza cancerogena, comunque, ne legittimi la presenza e allora che senso ha però porre un limite se però per legge questa sostanza non la vai a cercare nei fanghi perché per legge cerchi solo i metalli pesanti. Insomma, nelle maglie di questa legge abbiamo visto ci si infila a proprio agio i criminali. Abbiamo ascoltato con le nostre orecchie, per esempio, i manager delle Wte che ridevano mentre i cittadini erano disperati al pensiero che un bambino avesse mangiato una pannocchia che era stata coltivata su quei terreni che avevano contribuito ad avvelenare così come hanno avvelenato quei paesaggi incontaminati della provincia del novarese a Sizzano dove si produce un vino doc. Insomma, ridevano e sversavano 33 mila tir sui campi di 70 comuni del nord Italia. Insomma, bisognerà cessate questo far west, non c’è che augurarsi altro che la giustizia faccia il proprio corso e noi, da parte nostra, ci auguriamo anche che una di quelle pannocchie coltivate sui terreni che hanno avvelenati sia finita anche sulla loro tavola. Insomma, adesso passiamo invece a chi il problema delle deiezioni non se lo pone proprio.

A caval donato. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Max Brod

Perché Polizia e Carabinieri a cavallo lasciano le deiezioni dei loro animali a terra?

Il decoro delle vie cittadine e dei parchi pubblici è tutelato da norme finalizzate a non sporcare con le deiezioni animali questi luoghi, che sono di tutti. Oltre ad essere nocivi per il decoro, gli escrementi rappresentano un fattore di rischio per il virus del tetano e sono un ostacolo per disabili, runner e turisti. Ma allora perché Polizia e Carabinieri a cavallo lasciano le deiezioni dei loro animali a terra durante il pattugliamento? Il problema sembra diffuso nei corpi di polizia di mezzo mondo, anche se c’è chi ha cercato e trovato una soluzione: a Cannes (Francia), la Polizia Municipale ha ideato un sistema per evitare di lasciare sporco dopo il passaggio. Report ha raccolto le lamentele dei cittadini che devono convivere con questo inconveniente ed è andato a interpellare i diretti interessati: i responsabili nazionali dei reparti di Polizia e Carabinieri a cavallo.

“A CAVAL DONATO” di Max Brod immagini Chiara D'Ambros, Cristiano Forti montaggio: Riccardo Zoffoli Grafiche Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora voi direte, ma con tanti problemi che abbiamo perché vi è venuto in mente di trattare proprio questo? Insomma, è difficile darvi torto, però noi abbiamo voluto dare un piccolo contributo, il nostro, con il sorriso, a un piccolo problema. Gli escrementi di cavallo. Un animale che tanto amiamo, sono gli escrementi che vengono lasciati per strada, non certo per colpa del cavallo. Ora è incredibile, ma insomma sono spesso oggetto gli escrementi di diatribe anche molto accese tra gli amministratori locali, i cittadini, gli operatori turistici. E poi non è insomma cosa semplice da trattare per un cittadino, un turista, un disabile il fatto di trovarsi difronte a gestire un escremento di un cavallo. La soluzione eppure ci sarebbe, diamo anche un contributo alle nostre forze dell’ordine a cavallo. Il nostro Max Brod.

MAX BROD FUORI CAMPO Un pieno da 10 chili di alimento secco al giorno che vuol dire 25 chili di deiezioni quotidiane che su una popolazione di 370mila cavalli solo in Italia significa gestire 92mila quintali di deiezioni. Cosa voglia dire lo sanno bene a Montescaglioso: è il paese del cavallo. Eppure, appena arrivati, si trova un divieto: niente equini in centro.

VINCENZO ZITO – SINDACO DI MONTESCAGLIOSO (MT) Il cavallo può entrare se c’è una iniziativa o una manifestazione e comunque dopo specifica richiesta e autorizzazione da parte della struttura comunale.

MAX BROD FUORI CAMPO Con più di cento residenti possessori di un cavallo il sindaco è dovuto correre ai ripari per i troppi escrementi lasciati dopo il loro passaggio.

VINCENZO ZITO – SINDACO DI MONTESCAGLIOSO (MT) Le deiezioni devono essere comunque pulite non possono essere lasciate per strada perché quelle creano dei problemi seri di carattere igienico-sanitario.

MAX BROD FUORI CAMPO Anche a Scarlino, undici chilometri di coste e cale meravigliose frequentate da chi fa trekking e chi va in sella al cavallo, gli attriti sono nati a causa delle deiezioni.

 FRANCESCA TRAVISON – SINDACA DI SCARLINO (GR) Abbiamo fatto un’ordinanza sindacale per cui le deiezioni vengono raccolte altrimenti ci sono delle multe piuttosto salate.

MAX BROD FUORI CAMPO Stimolati dalle multe, gli operatori turistici della zona per mantenere i sentieri puliti, hanno cambiato le loro abitudini.

MARIO PAOLI – OPERATORE TURISTICO Noi ci siamo attrezzati che dietro la nostra carovana con i cavalli abbiamo sempre chi raccoglie quello che sporca il cavallo.

MAX BROD C’è chi potrebbe dire vabbè siamo in un sentiero, natura per natura, non c’è bisogno di pulire.

MARIO PAOLI - OPERATORE TURISTICO Assolutamente. Passa altra gente a piedi, passa gente in bicicletta.

ARIANNA CECCHINI – GUIDA EQUESTRE Dato che siamo appena partiti con il nostro gruppo, i cavalli ovviamente fanno i propri bisogni. Inizio a pulire la strada.

MAX BROD FUORI CAMPO Pulire non è solo una questione estetica o per evitare disagi. Tutela anche da rischi sanitari.

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO Noi leghiamo diciamo la vita del cavallo al rischio del tetano.

MAX BROD È per questo che le deiezioni rappresentano un fattore di rischio?

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO Certamente lo rappresentano, il tetano lo si acquisisce ferendosi e ci si infetta con le spore del Clostridium tetani microbo che è eliminato dalle feci, dalle deiezioni di numerosi animali. I cavalli son quelli meglio studiati.

MAX BROD Chi però ha fatto un vaccino tendenzialmente può stare tranquillo?

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO No, il vaccino ci toglie ogni dubbio.

MAX BROD FUORI CAMPO Cannes, Costa Azzurra. Le forze dell’ordine arrivano sulla spiaggia a cavallo. Passeggiano tra i bagnanti. Tuttavia, non lasciano tracce maleodoranti.

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES Il sindaco ci ha chiesto di studiare un sistema per raccogliere le deiezioni. Ci siamo messi al lavoro con il maniscalco, abbiamo preso le misure e creato dei prototipi. Li abbiamo modificati fino ad arrivare a un risultato soddisfacente. Quando il sacco è attaccato sta dietro al cavallo, queste cinghie tengono il sacco durante la deiezione e questo è il sistema di evacuazione.

MAX BROD FUORI CAMPO Il gesto è semplice: si scende un attimo, si svuota la sacca e si continua il pattugliamento. Quello che appare un provvedimento per la tutela della salute pubblica, in realtà risolve anche una contraddizione.

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES Non possiamo permetterci di lasciare sporco per terra e allo stesso tempo verbalizzare chi lascia per strada le deiezioni canine.

MAX BROD La sacca è d’intralcio se dovete intervenire o essere operativi?

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES No, abbiamo arrestato delle persone con la sacca dietro, siamo partiti al galoppo.

MAX BROD FUORI CAMPO A parte Cannes, nel resto del mondo il problema rimane. In America il video di una ragazza che si è messa a raccogliere le deiezioni lasciate dai poliziotti a cavallo è diventato virale. In Australia, addirittura, c’è chi si è lamentato direttamente con l’ex premier.

CITTADINO AUSTRALIANO Ferma i poliziotti a cavallo qui, lasciano gli escrementi sulla passeggiata, per favore Mike.

MAX BROD FUORI CAMPO In Italia, Polizia e Carabinieri a cavallo pattugliano i nostri parchi. Ma dopo il loro passaggio non mancano le lamentele.

LORENZO GRASSI - OSSERVATORIO SHERWOOD VILLA ADA (RM) Noi abbiamo avuto molte segnalazioni da parte dei frequentatori del parco. Abbiamo biciclette, disabili e anziani che finiscono comunque per calpestare questo tipo di problema.

MAX BROD FUORI CAMPO E infatti a Villa Borghese, tempio di bellezza e natura a due passi dal centro di Roma, ecco cosa succede: il cavallo della Polizia sporca per terra e si allontana senza che nessuno pulisca.

MAX BROD Quando il cavallo lascia la deiezione vostra, siete voi che dovete pulire?

CARABINIERE A CAVALLO No, nel parco non c’è nessuno che pulisce.

POLIZIOTTO A CAVALLO Funziona così, perché questione di un’ora che si sgretola.

MAX BROD FUORI CAMPO Altro che un’ora: una volta a terra, il regalino rimane lì per giorni, e turisti e runner sono costretti allo slalom. Nel centro delle città negozianti e albergatori hanno optato per il fai da te.

PORTIERE Capita, loro la lasciano e se ne vanno.

MAX BROD E che avete fatto? PORTIERE Abbiamo pulito, che dobbiamo fa?

MAX BROD FUORI CAMPO Anche le forze dell’ordine sono consapevoli del problema.

VIGILE URBANO Eh, lo so, la deiezione sui Fori pure per noi infatti è scabrosa, sui Fori e pure su via del Corso.

MAX BROD FUORI CAMPO Eppure, i carabinieri a cavallo conoscono perfettamente il disagio provocato dalle deiezioni, tanto da aver modificato i loro percorsi, senza però trovare una soluzione definitiva.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Non stiamo facendo più le pattuglie nelle aree cittadine proprio per questo motivo, perché ci siamo resi conto di questa sensibilità del cittadino.

MAX BROD Lo stesso cittadino nei parchi vive la stessa cosa.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Il degrado della deiezione sull’asfalto è più lungo rispetto a quello che avviene su un prato, su un’area verde.

MAX BROD Molti viali dei parchi, anche a Roma, sono asfaltati.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Assolutamente.

MAX BROD FUORI CAMPO In tema di deiezioni, però, se a lasciarle sono i cavalli dei vetturini, scatta la multa. Per questo sono stati costretti a trovare una soluzione.

ANGELO SED – PRESIDENTE NUOVA ASSOCIAZIONE VETTURINI ROMANI Ci siamo costruiti una sorta di contenitore dove vanno a finire le deiezioni del cavallo. Poi si toglie la busta, si getta e si cambia proprio per non sporcare.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Abbiamo sperimentato qui da noi all’interno una sacca posteriore per i cavalli stile quella che utilizzano le botticelle però non l’abbiamo ritenuta percorribile perché durante il servizio di pattuglia la sacca si riempirebbe per le dimensioni che ha e non avrebbe, quindi, il carabiniere modo di cambiarla.

MAX BROD Cosa ci dobbiamo aspettare, che tutto rimanga com’è?

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Io spero mi auguro ripeto che anche il cittadino capisca che dovrà schivare una fianda. È vero, la dovrà schivare, però cosa gli permette di fare quella fianda? La presenza, appunto, forze di polizia che vigilano.

MAX BROD FUORI CAMPO Le forze dell’ordine a cavallo svolgono un compito fondamentale di presidio del territorio a cui non possiamo rinunciare, quello che non si capisce è come mai non si siano organizzate per lasciarlo pulito.

ROBERTO GARBARI - SOSTITUTO COMMISSARIO RESPONSABILE SEZIONE IPPICA L’operatore di Polizia a cavallo è tecnicamente impossibilitato a scendere e raccogliere chiaramente l’escremento.

MAX BROD FUORI CAMPO Certamente è impensabile che un poliziotto possa scendere da cavallo per pulire per terra. Tuttavia, ci sarebbero delle soluzioni possibili. Un buon esempio viene dal comune di Firenze, dove la Polizia Municipale a cavallo fa così.

AGENTE Centrale, una segnalazione per la spazzatrice.

SILVIA BENCINI - COMMISSARIA COORDINATRICE VIGILI URBANI A CAVALLO (FI) Noi abbiamo fatto un accordo con una società per la rimozione dei rifiuti: la pattuglia chiama la centrale operativa, di solito in tempi dieci minuti, un quarto d’ora intervengono.

MAX BROD Mi permetto di farle vedere un paio di soluzioni che abbiamo trovato in giro. Queste sono la Polizia a cavallo di Cannes con la sacca e questa è Vigili di Firenze che chiamano e arriva la spazzatrice.

ROBERTO GARBARI - SOSTITUTO COMMISSARIO RESPONSABILE SEZIONE IPPICA Adotteremo qualsiasi misura e ci scusiamo comunque anche con i cittadini di questo disagio. Siamo a disposizione di ogni tipo di suggerimento.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbè ci hanno preso sul serio. Intanto li ringraziamo per la disponibilità. Poi la bella notizia è che di soluzioni insomma ci sono, le hanno trovate i nostri cugini francesi e anche dall’amministrazione comunale di Firenze viene un esempio virtuoso. La seconda cosa importante è che comunque toglie da un imbarazzo una soluzione perché non puoi con una mano sinistra lasciare un territorio sporco di deiezioni e dall’altra pensare di multare chi lascia invece le deiezioni sullo stesso territorio. E poi è importante che i reparti a cavallo della polizia e dei carabinieri ci siano perché garantiscono la nostra sicurezza. Inoltre, anche per il significato che ha il corpo a cavallo perché non attacca, non offende, viene utilizzato in caso di necessità laddove c’è da contenere, perché agisce in base ad un principio della materia: cioè uno spazio occupato da un corpo, non può essere occupato da un altro corpo. Quindi niente violenza. Niente uso della forza.

·        La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

I tribunali “segreti” che consentono ai colossi energetici di denunciare i Governi. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 19 Novembre 2022

Esiste un sistema giudiziario segreto che consente a chi investe in combustibili fossili di citare in giudizio i Governi qualora questi adottino politiche che ne scoraggiano l’utilizzo. Il problema è che, come riferisce il Guardian, tale organizzazione è stata accusata di parzialità istituzionale, problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Tutto questo è possibile per via dell’esistenza del Trattato sulla Carta dell’Energia (ECT), un patto firmato da circa 40 Paesi (molti dei quali però iniziano ad allontanarsene, come la Germania), pensato nello specifico per proteggere gli investimenti nei combustibili fossili grazie ad uno strano e contestato meccanismo. In altre parole: le aziende che ritengono di aver subito un danno dallo Stato per via dalle politiche energetiche e climatiche adottate, possono trascinarlo in tribunale e costringerlo ad un risarcimento miliardario. Tale meccanismo, nato negli anni ’90, fu pensato e istituito per tutelare gli investitori dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Fondamentalmente per proteggere le imprese energetiche che operavano in quei territori dall’espropriazione e dalle nuove regolamentazioni.

A gestire le vicende che ruotano attorno all’ECT ci sono dei “tribunali”, che negli anni e nella maggior parte dei casi hanno dato alle società energetiche la possibilità di chiedere un risarcimento ai Governi. Di fatto le aziende petrolifere, del gas e del carbone di tutto il mondo hanno ricevuto più di 100 miliardi di dollari dai tribunali ECT, probabilmente perché questi ultimi, come riferisce il Guardian e come abbiamo detto a inizio del pezzo, non sono imparziali e hanno problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Il funzionamento dei tribunali dell’ECT si basa su molti sistemi, diversi però da quelli giuridici tradizionali (dove la magistratura dovrebbe essere nominata pubblicamente e in maniera indipendente), e le regole prese come punto di riferimento sono quelle formulate dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie internazionali (ICSID) della Banca mondiale.

Per ogni caso, si legge sul Guardian, si sceglie un collegio di tre ‘arbitri’: “uno nominato dallo Stato, uno dall’investitore e un terzo che funge da presidente ed è selezionato dagli altri due arbitri”. La scelta di uno dei componenti può essere contestata se una parte non è d’accordo, ma non è garantito che alla fine ci sia un cambio. Una volta stabilito il “trio”, si procede in questo modo. Il caso viene presentato e discusso davanti ad un gruppo di avvocati, che rappresentano rispettivamente ognuna delle due parti. Il tutto avviene a porte chiuse, e non c’è obbligo di divulgare al pubblico l’esito della controversia.

L’intoppo però sta proprio nel meccanismo di funzionamento interno: un avvocato, ad esempio, può assumere un certo ruolo in un caso (consulente per un investitore, per citarne uno) ed essere scelto come presidente in un altro. Tuttavia quest’ultima figura dovrebbe essere al contrario in grado di giudicare in maniera indipendente. In base ai casi giudicati fino ad ora dall’ECT, in un numero significativo di questi, “un individuo che aveva precedentemente agito in qualità di arbitro nominato da un investitore, in un altro caso simile è stato nominato per agire come difensore per un’altra parte”. Visto che tali operazioni si svolgono in segretezza, è spesso complicato stabilire che gli arbitri, ad esempio, non abbiano legami con gli avvocati coinvolti nel processo o non siano essi stessi degli avvocati. Anzi, il silenzio che avvolge le vicende può essere sfruttato per indirizzare i processi in una precisa direzione, anche se il regolamento dice che gli arbitri dovrebbero essere “persone di alto carattere morale e riconosciuta competenza nei campi del diritto, del commercio, dell’industria o della finanza, alle quali si può fare affidamento per esercitare un giudizio indipendente”.

Ed ecco l’ennesimo inghippo: le regole sono autogestite dagli arbitri e va a finire che «l’obiettivo principale dell’ECT è promuovere e proteggere gli investimenti in combustibili fossili, che non è affatto l’obiettivo dell’accordo di Parigi», come ha detto Patrice Dreiski, ex dirigente dell’ECT. Infatti negli ultimi anni la maggior parte delle controversie ha coinvolto gli Stati dell’UE per via della loro intenzioni a spendere denaro per incentivare le rinnovabili e ridurre i combustibili fossili. Per fare qualche esempio, nel 2021 le società energetiche tedesche RWE e UNIPER si sono appellate all’ECT ​​per citare in giudizio i Paesi Bassi, chiedendo un risarcimento di diversi miliardi di euro per la politica di eliminazione dell’energia a carbone entro il 2030 messa in atto dal Paese. Un episodio simile è capitato anche ai danni dell’Italia. Nel 2017 la compagnia petrolifera britannica Rockhopper ha citato in giudizio il nostro Governo – che si è ritirato dall’ETC nel 2016 – per aver vietato le trivellazioni petrolifere sulla costa adriatica. Nell’agosto del 2022 il tribunale ha stabilito che l’Italia dovrà pagare, per questo, 190 milioni di euro. Di esempi simili ce ne sono moltissimi, soprattutto perché i Paesi stanno cercando di ridurre le proprie emissioni per rispettare l’accordo di Parigi del 2015 sul clima.

Per questo motivo è giunta da Bruxelles la proposta di eliminare gradualmente l’ECT ​​all’interno dei confini dell’UE: sono gli stessi membri ormai a non mostrare particolare entusiasmo per il meccanismo. Francia e Paesi Bassi, ad esempio, hanno annunciato di volerlo abbandonare a breve perché non più in linea con gli obiettivi climatici. Potrebbero optare per la stessa scelta molti altri Stati, soprattutto perché ad oggi, gli investitori in combustibili hanno vinto il 64% dei casi ECT conclusi. [di Gloria Ferrari]

Francesco Bechis per “il Messaggero” il 21 settembre 2022.

È un cortocircuito verde. Mentre a Bruxelles gli Stati Ue chiedono alla Commissione di allentare il taglio sui consumi di elettricità, in Italia la transizione verso le energie rinnovabili è in stallo. Da una parte i privati che vogliono investire nel settore green crescono a vista d'occhio. Dall'altra, la quasi totalità dei nuovi progetti legati al Pnrr - presentati al Mite con un percorso accelerato introdotto dal governo Draghi - restano in attesa di un via libera.

Si tratta di quasi 20 Gigawatt (18,67). Poco meno di un terzo di quei 70 Gigawatt - circa 8 l'anno - che secondo il governo dovrebbero essere installati nei prossimi 9 anni per centrare i traguardi della Conferenza di Parigi sul Clima. Il sito del ministero guidato da Roberto Cingolani parla chiaro. Sono 508 i progetti di energia rinnovabile in lista d'attesa.

Di questi, solo uno ha ottenuto il semaforo verde. […]

L'iter è un percorso a ostacoli. Accertata la regolarità del progetto la palla passa alla commissione Pniec-Pnrr. Cioè l'organo di 40 commissari entrato in carica nel gennaio scorso con l'obiettivo di creare un canale preferenziale per i progetti delle rinnovabili legati ai fondi europei. La commissione ha messo il turbo ad aprile, quando sono stati nominati tutti i commissari. Ad oggi ha emesso pareri favorevoli per 2,274 Gigawatt complessivi di energia rinnovabile, con una percentuale che sfiora il 100% di sì. Ma non basta. Ottenuto il parere serve infatti il via libera del Mibact insieme al Mite. Ed è qui che si arena una parte dei progetti.

Energia vs paesaggio, difficile uscirne. Non a caso la settimana scorsa Cingolani ha tirato una stoccata alle soprintendenze culturali: «Se vince sempre il paesaggio bisogna dire ai cittadini che rispetto ai costi dell'energia ci sono altre priorità». Quando tra dicasteri non si trova la quadra, il dossier finisce sul tavolo di Palazzo Chigi, con il Cdm a vestire i panni dell'arbitro. E può succedere che qui arrivi la luce verde, come lo scorso 28 luglio per 11 impianti eolici. Ma la questione va risolta a monte.

Certo, il picco di progetti presentati non è facile da gestire. La crisi energetica e i fondi del Pnrr hanno fatto delle rinnovabili un'occasione ghiotta per tanti privati. Fatto sta che lo stop prosegue. E presenta un conto diverso a seconda delle regioni. Al Sud, dove sole e vento sono più generosi e il mercato cresce in fretta, è salatissimo. In testa c'è la Puglia, con 168 impianti in attesa di via libera, segue la Basilicata con 98 progetti fermi. […]

Clima, il pressing della diplomazia italiana per frenare la svolta verde. “Mai vista una cosa simile”. Alla vigilia del voto al Parlamento europeo sul pacchetto ambiente, la Rappresentanza ha tallonato come non mai gli eurodeputati connazionali per spingerli sulle posizioni del governo: incontri, email, lista di emendamenti. La denuncia dell’onorevole Evi (Verdi): “La prima volta che subiamo pressioni del genere. Però alla fine ha vinto il coraggio”. Carlo Tecce su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

Come mai successo, la diplomazia italiana a Bruxelles ha tallonato i 76 eurodeputati connazionali alla vigilia del voto il nove giugno al Parlamento Europeo sul pacchetto per l’ambiente denominato «Fit for 55». Soprattutto si è mobilitata per allentare le misure contro l’industria di auto e moto inquinanti.

Nessuno batte i governi europei con le buone intenzioni, quando tocca ai fatti, però, sono molto più titubanti. Il percorso è ancora lungo, ma il passaggio in seduta plenaria era fondamentale.

Al solito la rappresentanza italiana presso l’Unione europea, guidata dall’ambasciatore Pietro Benassi, già consigliere diplomatico di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, ha inviato agli eurodeputati la posizione del governo sul tema. Fin qui niente di anomalo.

Per esempio, Roma era contraria al blocco totale entro il 2035 della vendita di autoveicoli con motore termico, cioè a diesel, benzina, metano, ibride, molto propensa all’utilizzo dei carburanti sintetici e alla deroga per le auto e moto di lusso (Ferrari, Maserati, Ducati etc) che non superano le 10.000 immatricolazioni all’anno. Tutto ciò la diplomazia italiana l’ha spiegato agli eurodeputati nelle apposite schede col consueto italiano misto inglese: «Sosteniamo soluzioni verso la mobilità a basse e zero emissioni ambiziose ed economicamente sostenibili, che prevedano un impegno credibile a ridurre le emissioni, anche senza prospettare per il 2035 un ‘phasing-out’ dei veicoli con motore termico. Possono, in tal senso, comprendere target inferiori al 100% per quell’anno (come, ad esempio, del 90%)».

In quest’occasione, però, la rappresentanza italiana si è spinta oltre. Ha organizzato un irrituale incontro con gli assistenti dei parlamentari e, soprattutto, ha inviato poi una email con uno spiccio elenco di emendamenti, una serie di numeri, e la semplice distinzioni fra «in linea» e «non in linea». Come quei foglietti lisi che i parlamentari di Camera e Senato si passano di mano in mano a dicembre quando c’è da licenziare la legge di Bilancio. Quantomeno sgradevole. 

La rappresentanza a Bruxelles deve aggiornare gli europarlamentari, ma non può influenzarne le scelte. Deve illustrare le idee del governo, non fare una lista di cose da avallare o respingere. Dice la eurodeputata al secondo mandato Eleonora Evi, portavoce di Europa Verde: «In otto anni non mi era mai capitato che la diplomazia italiana fosse così pressante nell’indicarci la linea del governo. Peraltro questo tipo di forte pressione è stata esercitata per salvare la produzione di auto inquinanti. Non ci sono riusciti perché il Parlamento europeo ha deciso per una svolta coraggiosa, una svolta che il governo ha prima abbracciato con i ministri Cingolani, Giovannini e Giorgetti e infine velocemente abbandonato. Ci vorrà ancora tempo per varare le nuove regole, noi Verdi saremo a vigilare affinché non ci siano trucchi o compromessi al ribasso».

IL NEGAZIONISMO ORGANIZZATO. Inganni, falsi studi, lobbying, così la Camera di Commercio degli Stati Uniti lotta contro l’ambiente. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 25 dicembre 2021.

Negazionismo aggressivo negli anni Novanta, argomentazioni fallaci negli anni Duemila, studi ingannevoli sull’accordo di Parigi.

Cambiando strategia, ma rimanendo fedele ai suoi finanziatori la più vecchia e potente associazione commerciale degli Stati Uniti d’America ha scientificamente rallentato la transizione a un mondo sostenibile.

Ora però una inchiesta del Congresso ricostruisce passo passo tutta la strategia di questo negazionismo ricco e organizzato.

Chevron inganna il pubblico con il greenwashing ma continua a inquinare. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 7 Gennaio 2022.

In passato, Chevron ha lavorato per screditare la scienza del clima e diffondere il messaggio negazionista.

Oggi l’industria petrolifera accetta pubblicamente l’esistenza del cambiamento climatico e, in parte, la responsabilità antropica nella crisi climatica ma continua a fare pressione “dietro le quinte” per ostacolare le politiche climatiche e ambientali.

Solo negli ultimi quattro anni, Chevron ha speso oltre 30 milioni di dollari in lobbying, secondo i dati di OpenSecrets.

STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

La sfida del greenwashing: quando la sostenibilità è solo di facciata. Francesca Bernasconi il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. ​Che cos’è il greenwashing e come sconfiggerlo? La sfida per un futuro realmente sostenibile. La lotta ai cambiamenti climatici, l’energia rinnovabile e le azioni sostenibili accompagnano ormai la vita di tutti i giorni. Pubblicità, slogan e motti aziendali parlano di progetti green, prodotti a zero impatto ambientale e produzioni con ridotte emissioni di CO2. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Alcune aziende, infatti, usano la sostenibilità solamente come facciata, per nascondere le loro reali azioni. È il fenomeno del greenwashing, che rappresenta la nuova sfida del futuro.

Che cos’è il greenwashing?

Il termine deriva dall’unione delle parole inglesi green, verde, e washing, lavare, che richiamano il verbo whitewash, imbiancare. Quest’ultimo, però, assume anche il significato di coprire, quindi nascondere. Il termine venne introdotto dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che nel 1986 lo utilizzò per descrivere la pratica delle catene alberghiere, che facevano leva su problematiche ambientali per un risparmio economico sul lavaggio degli asciugamani dei clienti. Il greenwashing consiste nella pratica di creare l’impressione falsa che un prodotto o un servizio venga effettuato nel rispetto dell’ambiente e tenendo conto dei principi di sostenibilità, quando in realtà provoca danni ambientali. Secondo gli Orientamenti per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, se le “dichiarazioni ambientali" o "dichiarazioni verdi" sono false, allora si può parlare di greenwashing, “ovvero marketing ambientale fuorviante”. Questo avviene quando le aziende nascondono i loro comportamenti anti-ambientali sotto slogan, dichiarazioni e dati di sostenibilità. Una sostenibilità di facciata, che serve solamente a far credere di mantenere un profilo green, portando avanti attività con un impatto ambientale più dannoso.

Come riconoscere un’azienda che fa greenwashing

Ma come capire se un’azienda che porta avanti il marchio della sostenibilità sia realmente impegnata nella lotta ambientale o se si tratti solo di una messa in scena? Ci sono delle caratteristiche da tenere in considerazione, che possono mostrare l’uso o meno del greenwashing da parte di un’azienda. Solitamente, una sostenibilità di facciata è accompagnata dai seguenti elementi:

Uso di termini vaghi e affermazioni non verificabili;

Uso di segnali visivi fuorvianti, come simboli e colori che evocano la tutela dell’ambiente;

Narrazione e uso di parole e termini green: utilizzare un linguaggio sostenibile induce i clienti a pensare che l’azienda sia in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

In genere, la presenza di queste tre caratteristiche nella comunicazione indica l’utilizzo del greenwashong da parte di un’azienda, che per mascherare i propri consumi si nasconde dietro una facciata di sostenibilità, lotta alle emissioni e al cambiamento climatico.

Greenwashing: una sfida per il futuro

Oggi, la lotta al greenwashing rappresenta una sfida per il futuro. Per contrastare questa pratica, l’Unione Europea ha redatto il Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), entrato in vigore nel marzo 2021, con lo scopo di garantire una maggior trasparenza nell’impegno alla sostenibilità. Uno dei principali obiettivi del documento dell'Ue è proprio la lotta al greenwashing, tanto che in alcuni articoli del SFDR viene sottolineata la necessità per le aziende di fornire informazioni sull'integrazione dei rischi per la sostenibilità, sulle considerazioni degli impatti negativi sull'ambiente e sulla promozione di fattori ambientali e di investimenti sostenibili. Anche a detta del segretario generale del Forum Finanza Sostenibile, Francesco Bicciato, contrastare la pratica del greenwashing rientra tra i principali obiettivi futuri: "Con entusiasmo raccogliamo le sfide del futuro: la trasparenza, la ricerca, la divulgazione, il contributo per una transizione giusta e la promozione del dialogo costruttivo con le istituzioni e gli attori economici pubblici e privati", ha affermato durante l’evento conclusivo della Settimana SRI 2021. Fondamentale per il futuro è, infatti, la lotta al greenwashing e la promozione di attività e investimenti sostenibili, per fare in modo che la cura ambientale e la lotta al cambiamento climatico diventino un punto fermo nelle attività aziendali.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

·        La Risorsa dei Rifiuti.

«Agire per il clima»: Roberto Saviano spiega l’origine della parola “Terra dei fuochi” (e i reati collegati). Valeria Sforzini su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.

Il termine “Terra dei fuochi” è arrivato al grande pubblico tramite il suo libro «Gomorra». Ma Roberto Saviano non se l’era inventato. Nel 2004, mentre faceva le sue ricerche, è incappato in questo nome scritto su un documento che fino ad allora era passato inosservato. A definire in questo modo la terra tra Caserta e Napoli era stato un dirigente di Legambiente. L’avevano definita in questo modo perché, proprio come i viaggiatori che costeggiavano in barca di notte il territorio di Cile e Argentina, vedendo i fuochi accesi dalle popolazioni indigene, avevano rinominato quelle zone “Terra del fuoco” , allo stesso modo, «Chi proseguiva nell’asse mediano Caserta Napoli di notte vedeva questi roghi accesi» e lo aveva soprannominato “terra dei fuochi”. È da questo nome che Roberto Saviano è partito a raccontare il legame stretto tra criminalità e ambiente, nel suo intervento nel corso della maratona «Agire per il clima», organizzata da Corriere della Sera e Pianeta 2030 in occasione della Giornata Mondiale dell’ambiente.

Il giornalista e scrittore, oggi in libreria con «Solo è il coraggio», è intervenuto all’evento di Corriere e Pianeta 2030, intervistato da Micol Sarfatti: «Dopo tanti anni la a situazione non è cambiata. Tanta attenzione e un incredibile investimento emotivo non hanno mutato molto le cose». Conclusa la diretta streaming della seconda giornata della maratona di talk dedicati al tema «Agire per il clima»

«Sembra strano», ha detto Saviano , intervistato da Micol Sarfatti nel corso del panel “Le parole del clima”, gestito dalla redazione di “Sette”. «ma la situazione non è cambiata. Tanta attenzione e un incredibile investimento emotivo non hanno cambiato molto le cose». Saviano, che oggi è in libreria con “Solo è il coraggio” edito da Bompiani. «C’è stato un punto di confusione», continua. «A un certo punto le persone confondevano terra dei fuochi con l’emergenza della monnezza a Napoli. Ma è stato un cortocircuito virtuoso perché l’ermegenza napoletana ha attirato l’attenzione sulla terra dei fuochi». Solo che nel primo caso, nella terra dei Fuochi, a emettere il fumo sono rifiuti tossici “intombati”, ovvero sotterrati, o rifiuti speciali bruciati. «A Napoli sono rifiuti normali», spiega. «Oggi la situazione non si è risolta. Semplicemente, quella monnezza viene spedita in Olanda». Ma il problema non riguarda solo la Campania e il meridione. «Oggi se ne parla di più e si è capito che non si trattava solo di spazzatura del Sud, ma che lì arriva tutta la spazzatura del Nord Italia, ma anche della Germania, per esempio, e si è distrutta gran parte della eccellenza della campagna casertana attraverso un meccanismo perverso».

Meccanismo malato

Un meccanismo che ha coinvolto, loro malgrado, contadini e agricoltori locali. E a pagarne è stata la ricchezza della terra. «Dovete immaginare che la terra da cui provengo aveva pesche meravigliose, albicocche, noci pesche e mele annurche, mandorle, ciliegie e tutta la filiera della mozzarella», racconta Saviano. «Ora la domanda è: come hanno fatto contadini e proprietari terrieri che amano la loro terra a venderla o affittarla per gli sversamenti di qualsiasi tipo?». Tra alberi da frutto e allevamenti di du bufale, anche toner, vernici, cataste e cataste di materiali di smaltimento di ospedali: «Tutti cumulati, nascosti, “intombati”». Perché vendere la terra ai camorristi ? «La risposta è che loro vendevano per salvare la terra», spiega. «Siccome i supermercati ormai compravano i limoni e e ciliegie andaluse, le mele israeliane, iniziavano a prendere frutta a un prezzo minore. I proprietari terrieri casertani per essere competitivi dovevano abbassare i loro prezzi e allora cosa facevano. Un pezzo lo davano ai rifiuti tossici, il resto lo tenevano e mantenevano l’altra parte dell’attività. Ecco perchè qui è stato lo stato a mancare, che avrebbe dovuto intervenire con grande muscolarità, aiutare l’impresa e proteggere il territorio».

Nuove generazioni

Le nuove generazioni sono quelle che possono darci più speranza? «Le nuove generazioni mi ispirano fiducia perchè attraverso la loro lotta all’ambiente stanno mettendo in discussione il sistema capitalistico attuale», commenta. «Hanno una visione nuova, radicalmente diversa dalla mia generazione, che era ancora molto ancorata al passato. Io facevo le manifestazioni con gli slogan degli anni ‘70». Se dovesse passare un insegnamento ai più giovani, sarebbe quello di “seguire i soldi” e di non pensare che sia sufficiente una soluzione dall’alto per risolvere i problemi. «Non è sufficiente secondo me ottenere una legge», aggiunge Saviano. «Vedere come i governi taglino le emissioni o si approccino al consumo della plastica. Serve anche capire nella declinazione quotidiana se questo avvenga davvero o se – come vedo da decenni – si faccia finta. Guardate i soldi come si stanno muovendo, non fidatevi di chi parla solo di verde, di mondo nuovo. come le economie si stanno muovendo».

Tutti le vogliono. Cosa sono le terre rare, e perché la loro importanza è in crescita? Enrico Pitzianti su L'Inkiesta il 18 Febbraio 2022

Essenziali per la transizione ecologica, oggi se ne parla moltissimo anche per le tecnologie di ultima generazione. Anche se, per la cronaca, a dirla tutta non sono né “terre”, né tantomeno “rare”.  

Di terre rare si parla sempre più spesso. Si dice che sono essenziali per la tecnologia e che le grandi potenze se le contendono, ed entrambe le cose sono vere. Ma c’è da fare molta attenzione agli equivoci: il fatto che oggi se ne parli moltissimo e che servano per le tecnologie di ultima generazione non vuol dire che siano “nuove”. E per di più, anche se si chiamano “terre rare”, non sono né “rare” né tantomeno delle “terre”. 

Partiamo dall’ultimo punto. Le terre rare sono dei metalli, per la precisione sono 17 elementi chimici: lo Scandio, l’Ittrio e altri quindici metalli, tutti e quindici “lantanoidi”. I nomi sono: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio e Lutezio. 

Veniamo alla rarità. Può sembrarci strano ma le terre rare non sono rare. Come ricorda Stanley Mertzman, professore di geoscienze al Franklin & Marshall College, «anche la terra rara più rara, il Tulio, è 125 volte più comune dell’oro. E la terra rara meno rara, il Cerio, è 15mila volte più abbondante dell’oro». L’ultimo equivoco da evitare è credere che siano “nuove”. La prima terra rara fu scoperta nel lontano 1787 da un tenente dell’esercito svedese, Carl Axel Arrhenius. E anche le restanti sedici le conosciamo da almeno un secolo, con le ultime scoperte tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento.

Tolte di mezzo le definizioni e i possibili equivoci rimane la domanda: perché le terre rare sono così importanti oggi? E davvero la loro importanza è in ascesa? La risposta alla prima domanda è che questi metalli sono essenziali per produrre alcune delle tecnologie più importanti per i settori strategici. E non solo per i settori importanti al giorno d’oggi, ma soprattutto per quelli che lo saranno nel prossimo futuro, come la componentistica per pannelli fotovoltaici, per la tecnologia militare e per quella aerospaziale. Non solo: le terre rare sono indispensabili per produrre le batterie ricaricabili, di conseguenza per produrre gli smartphone, i computer, i tablet, le auto elettriche e ibride, i monopattini elettrici e così via. Servono anche per produrre gli altri dispositivi elettronici, compresi quelli utili in campo medico, gli schermi Lcd, i televisori e anche molta della strumentazione utile negli impianti petrolchimici. 

Altra domanda: perché mai le grandi potenze “si contendono” le terre rare, se non sono davvero rare? Le terre rare sono al centro della competizione economica, e quindi anche politica e militare, tra Stati Uniti e Cina perché oltre l’80% vengono estratte proprio in Cina (e, in misura minore, in Vietnam). Il governo di Pechino, consapevole della loro importanza per l’attuale sviluppo tecnologico, e di conseguenza economico e militare, ne controlla il flusso a proprio vantaggio. Tanto che nel 2012, ormai un decennio fa, l’Unione europea, il Giappone e gli Stati Uniti hanno fatto richiesta di sanzioni contro la Cina, chiedendo l’apertura di un procedimento all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). 

Un altro elemento da tenere in considerazione è che il termine “rare” viene dal fatto che si tratta di metalli dispersi sulla Terra in basse concentrazioni, oltre che difficili da identificare, da estrarre e da trasformare. Da queste difficoltà, insieme alla loro importanza per i settori strategici, viene la corsa tra Paesi per accaparrarsi le risorse disponibili. 

Se possiamo ipotizzare che l’importanza delle terre rare sia in costante ascesa è grazie all’andamento del loro valore sul mercato. Naturalmente, in generale, la forte domanda di questi metalli ha un diretto effetto sui prezzi. Una tonnellata cubica di Europio, per esempio, costa oltre 600mila euro. Ma ciò che conta non sono i prezzi in assoluto, semmai il fatto che il loro prezzo è in costante ascesa sin dalla metà del Novecento.

A questo punto ci si potrebbe domandare se non ci sia un’alternativa alle terre rare, visto che sono così costose, così importanti per lo sviluppo tecnologico e si estraggono quasi solamente in Cina. La risposta è che no, al momento non c’è nessuna alternativa. Le terre rare sono uno di quei nodi delle catene del valore, come i microchip, in cui l’Occidente è in svantaggio e in grande ritardo rispetto all’Oriente. Eppure, come dicevamo all’inizio di questo articolo, le terre rare sono essenziali per la transizione ecologica, per produrre la tecnologia necessaria a produrre le pale eoliche da utilizzare offshore e per la produzione di impianti per l’energia solare.

Parte della transizione ecologica passerà necessariamente per l’elettrificazione di ciò che oggi funziona con i combustibili fossili, come le auto. Ma anche per queste, per i loro motori e l’apparecchiatura di bordo, servono le terre rare.

Paolo Travisi per "Il Messaggero" il 3 gennaio 2021. Nel 2020 in Italia è aumentata la quantità di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, i cosiddetti Raee, oltrepassando le 78 mila tonnellate, quasi l'8% in più del 2019. 

Computer, smartphone e lavatrici se non smaltiti correttamente possono rappresentare un rischio per l'ambiente e per l'uomo. Ciò che è meno noto, è che le schede interne ai dispositivi elettronici sono ricche di materiali preziosi, uno su tutti l'oro.

Ma l'Italia, come altri paesi europei, non è in grado di trarre valore da questi rifiuti, motivo per cui l'Enea sta sviluppando il progetto Portent, con l'obiettivo di ricavare risorse dagli scarti. 

Danilo Fontana, lei è il responsabile del progetto Portent, sviluppato nel laboratorio Enea di Tecnologie per il riuso, il riciclo, il recupero e la valorizzazione di rifiuti. Di cosa si occupa il laboratorio?

«Ci occupiamo della valorizzazione delle matrici complesse di origine naturale e antropica, che al loro interno contengono elementi diversi. Nel primo caso può trattarsi di una roccia, da cui estrarre i minerali o le terre rare, chimicamente molto difficili da separare, nel secondo caso di un refluo dell'industria, per esempio tessile, che contiene elementi di colorazione, fibra sintetica, saldature. E ancora il computer, la matrice complessa per eccellenza che comprende gran parte della tavola periodica degli elementi».

Qual è la finalità del vostro laboratorio?

«Valorizzare la matrice giunta a fine vita, introdurla nel sistema di economia circolare, evitando che finisca in discarica; deve essere studiata per individuare la strategia migliore al fine di recuperare la maggior parte del contenuto, con un'attenzione particolare ai reflui che possono essere prodotti durante i processi di trattamento. Se eseguo una procedura per recuperare l'oro di una scheda, produco nello stesso tempo un refluo, per il quale si cerca di minimizzarne l'impatto cercandone un utilizzo alternativo».

Dal 2019 al 2020 la raccolta pro-capite è salita a 6,12 kg, ma spesso i consumatori non sanno dove buttare uno smartphone che non funziona più.

«A causa della pandemia c'è stato un rallentamento degli acquisti ed una tendenza al riuso, si cerca di riparare l'oggetto tecnologico o magari acquistarne uno rigenerato, un fatto molto positivo nell'ottica di economia circolare.  Per quanto riguarda i piccoli device, come il cellulare, può essere buttato nelle isole ecologiche oppure riconsegnato al venditore, mentre nei casi di prodotti più grandi, come la lavatrice, alla consegna del nuovo si ritira il vecchio. Alcuni comuni, invece, con il contributo di Enea hanno realizzato lo smart bin, un contenitore dove si introduce il Raee, che fornisce informazioni ambientali e consegna buoni sconto».

Cosa accade se uno smartphone non è smaltito correttamente?

«Un telefonino abbandonato nell'ambiente, con gli agenti atmosferici si degrada e rilascia gli elementi contenuti, ad esempio nella batteria, metalli pesanti, come cobalto, manganese, litio, molto nocivi per l'ambiente». 

In Italia qual è il ciclo di trattamento per un rifiuto tech?

«Il rifiuto Raee viene smantellato e selezionati i vari materiali che lo compongono. Nel caso della lavatrice, l'oblò finisce nel recupero del vetro, la struttura in quella di plastica e metallo, dal motore è recuperato il rame, dopodiché i materiali separati e triturati vengono commercializzati nelle filiere consolidate nel nostro paese. Per device più complessi, come i computer, vale la stessa procedura, ma la scheda elettronica, cioè la parte più ricca, è lavorata all'estero».

In Europa?

«In Svezia, Belgio, Francia, Paesi dove ci sono grandi impianti che attraverso tecnologie miste, come la pirometallurgia ed idrometallurgia sono in grado di recuperare i materiali preziosi che compongono le schede. In questi Paesi c'è una tradizione di industria pesante, eredità del periodo bellico, quando si costruivano cannoni e carro armati che dopo la guerra hanno riconvertito i loro grandi impianti. Queste industrie comprano i pezzi in tutta Europa riuscendo a valorizzarli».

Cosa manca all'Italia?

«Il boom di questi device tech è avvenuto negli ultimi 20 anni e quei Paesi sono stati più veloci dell'Italia a trasformare e rifiuti in risorsa anziché in un problema». 

Cosa perdiamo mandando all'estero questi rifiuti?

«Grandi quantità di oro, argento, palladio, i tre elementi presenti in maggior quantità in smartphone, computer, server. Poi c'è il rame ed elementi ritenuti critici dall'Ue, in totale sono 27, sia per difficoltà di approvvigionamento che per il valore economico».

Con il progetto Portent, cosa farete?

«Il primo passaggio è l'individuazione delle varie componenti. Nel primo anno di Portent, co-finanziato dalla Regione Lazio tramite fondi europei, ci occuperemo della caratterizzazione merceologica del telefono; abbiamo acquisito un numero importante di cellulari a fine vita, li abbiamo smontati in ogni loro parte, il case, la scheda elettronica, il display, la tastiera, l'antenna e per ognuno stiamo caratterizzando il tipo di materiale.

Dopodiché passeremo alla composizione chimica dei vari telefoni per avere una stima della composizione media della scheda e nel secondo anno svilupperemo un processo di recupero dei materiali».

E dopo ci sarà uno sviluppo industriale?

«In un secondo progetto, è probabile, che le conoscenze acquisite serviranno per le verifiche in scala pilota, cioè per la fase di industrializzazione, in cui sarà testato sul campo il lavoro di Portent, un progetto unico nel suo genere in Italia, con un grande valore a livello ecologico ed ambientale.

Tra i benefici c'è quello di diminuire il ricorso all'estrazione di nuovi minerali e di valorizzare sul territorio quel tipo di rifiuto. Enea, tra l'altro, ha già avviato un impianto pilota, Romeo, che si occupa del recupero di oro nelle schede dei computer».

·        L’Amianto.

(ANSA il 14 luglio 2022) - La chiavetta Usb dove si trova "il 90% degli atti" del processo Eternit bis è inservibile e la Corte d'appello è costretta a un rinvio. Il colpo di scena oggi, era in programma la sentenza. "Siamo mortificate - hanno spiegato i giudici - ma quando siamo andate a cercare un certo passaggio di una consulenza tecnica non abbiamo trovato nulla. È come se la chiavetta fosse vuota o danneggiata". L'imputato è l'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, per il quale il pg Pellicano aveva chiesto la conferma della condanna a 4 anni per la morte di due persone dovuta, secondo l'accusa, all'amianto lavorato nello stabilimento di Cavagnolo.

Processo Eternit bis, la chiavetta Usb è vuota: salta sentenza a Torino. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

Conteneva «il 90% degli atti». I giudici: «Mortificati». L’imputato è l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, il suo legale: «Se emergesse che i documenti non sono mai stati caricati, procedimenti nulli». 

La chiavetta Usb sulla quale è custodito «il 90% degli atti» del processo Eternit bis è inservibile e la Corte d’Appello di Torino è costretta a un rinvio. Il colpo di scena si è verificato oggi, giovedì 14 luglio, nel giorno in cui era in programma la sentenza. «Siamo mortificate — hanno spiegato i giudici della terza sezione d’Appello, presieduta da Flavia Nasi — ma quando siamo andate a cercare un certo passaggio di una consulenza tecnica non abbiamo trovato nulla. È come se la chiavetta fosse vuota o danneggiata».

L’imputato è l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, per il quale il pg Carlo Maria Pellicano aveva chiesto la conferma della condanna a 4 anni. Il magnate è accusato di omicidio colposo plurimo aggravato dalla previsione dell’evento per aver causato la morte per mesotelioma pleurico e asbestosi di una cittadina di Cavagnolo, in provincia di Torino, e di un lavoratore dello stabilimento Eternit che aveva sede in quel comune. In primo grado il Tribunale aveva anche condannato l’imputato al risarcimento in favore delle famiglie da liquidarsi in separato giudizio civile. Erano state stabilite pure delle somme a titolo di provvisionale in favore degli enti costituiti parte civile, tra cui l’associazione Afeva e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil.

La Corte ha chiesto al procuratore Pellicano di recuperare il materiale e il magistrato ha spiegato che si rivolgerà al collega che sostenne l’accusa in primo grado, il quale sta utilizzando gran parte degli stessi atti nell’analogo processo in corso a Vercelli e che riguarda le vittime di Casale Monferrato. La causa è stata rinviata alla fine di settembre per quella che tecnicamente è stata definita «ricostruzione di atti mancanti». La Corte concederà poi alle difese un ulteriore «termine» di 15 giorni.

Insomma, se la questione tecnica sembra facilmente risolvibile potrebbe restare in sospeso un aspetto processuale. A sollevare i dubbi è l’avvocato del magnate svizzero, Astolfo Di Amato: «Sono rimasto notevolmente sorpreso. Adesso, però, si tratta di capire se la chiavetta si sia danneggiata o se gli atti non siano mai stati caricati e quindi depositati». Il punto è che i documenti in questione, in gran parte consulenze tecniche, sono quelli alla base della sentenza di primo grado. «Se emergesse che non sono mai stati caricati, entrambi i procedimenti sarebbero nulli — sottolinea il legale —. Valuteremo se chiedere una perizia alla prossima udienza».

Una posizione che stupisce gli avvocati Ezio Bonanni e Andrea Merlino Ferrero, che assistono i familiari di una vittima e l’Osservatorio nazionale amianto. «Per noi è un mero problema tecnico — spiega Ferrero —. Pur rispettando le tesi dei colleghi, penso sia quanto meno strumentale ipotizzare un mancato deposito di atti processuali».

La chiavetta usb è danneggiata, salta la sentenza Eternit all’appello. Ignazio Riccio l'15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Rinviata a novembre l’udienza. Il pm ha chiesto la conferma dei quattro anni di reclusione per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny.

Quello denominato “Eternit bis” è un processo che dura da diciotto anni, senza che si riesca ad arrivare a una sentenza definitiva. L’ultimo e clamoroso epilogo si è consumato nei giorni scorsi, quando l’udienza della corte d’appello è stata rinviata al prossimo 29 novembre. Il motivo è paradossale: la chiavetta usb che conteneva tutto il materiale processuale era vuota e, quindi, non si è potuto procedere. Non si sa se il dispositivo si è danneggiato o è stato manomesso. Resta il fatto che si dovrà ricominciare daccapo nella raccolta degli atti che accusano di omicidio colposo l'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny. Il proprietario di Eternit nel filone di processo di competenza del tribunale di Torino era stato condannato, in primo grado, nel 2019, a quattro anni di reclusione e al risarcimento economico in favore delle famiglie delle persone decedute.

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L’accusa di omicidio colposo plurimo, come riporta il quotidiano Libero, è caduta sulle spalle di Schmidheiny in seguito al decesso per mesotelioma pleurico e asbestosi, malattie provocate dall’esposizione all’amianto, di un ex dipendente e di una cittadina di Cavagnolo, una cinquantina di chilometri a est del capoluogo piemontese, sulle colline del Monferrato, dove si trovava uno degli stabilimenti Eternit. Il Pm, all’appello, aveva chiesto la conferma dei quattro anni di carcere, ma la pendrive ha fatto saltare tutto. La vicenda Eternit è molto complessa ed è stata divisa in quattro filoni processuali per le centinaia di morti sospette per tumore probabilmente contratti negli stabilimenti dell’azienda svizzera.

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Schmidheiny ha sempre minimizzato, dichiarandosi non colpevole fin dall’inizio. Ma, il 23 maggio 2019, il tribunale di Torino l’aveva condannato a quattro anni di reclusione per omicidio colposo. Poi, il ricorso in appello, con il colpo di scena della chiavetta usb fuori uso. Gli altri filoni processuali, intanto, vanno avanti. A Novara è ancora in corso il dibattimento in primo grado, mentre a Napoli, c’è stata la condanna a tre anni e sei mesi di carcere per il magnate di Eternit. Secondo l’accusa, l’amianto avrebbe provocato la morte di un operaio della sede di Bagnoli. Ci sono poi i casi di Casale Monferrato e di Reggio Emilia, per i decessi avvenuti nella fabbrica di Rubiera.

Amianto, l’inutile processo eterno per migliaia di vittime dell’Eternit. LAURA LOGUERCIO su Il Domani il 25 aprile 2022

Il 6 aprile scorso. Il numero uno della Eternit Stephan Schmidheiny è stato condannato a Napoli a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, per  la morte di Antonio Balestrieri, operaio della Eternit di Bagnoli ucciso da un mesotelioma pleurico.

I pm avevano chiesto 23 anni e 11 mesi per l’omicidio volontario di otto persone, ma per sei casi è scattata la prescrizione, e per il settimo, Franco Evangelista,  Schmidheiny è stato assolto perché la vittima abitava nella zona ma non lavorava alla Eternit. 

Il primo processo contro Schmidheiny è iniziato a Torino nel 2009. Accusato per la morte o la malattia di quasi tremila persone, è stato condannato a 18 anni in appello ma nel 2014 la Cassazione ha dichiarato tutto prescritto. Però i processi continuano, in giro per l’Italia. Inutili.

"Noi delusi, è una vergogna". Eternit, c’è la sentenza ma non la giustizia: le lacrime dei familiari, sono 902 le vittime dell’amianto di Bagnoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Il cosiddetto processo Eternit ieri si è concluso dopo un iter lungo e complicato. C’è stata la sentenza ma non la giustizia, come spesso capita quando tra indagini e dibattimento trascorrono decenni. E non c’è stata giustizia per nessuno. Non c’è stata per la memoria delle vittime, non c’è stata per il dolore dei loro familiari, nemmeno per l’imputato. Da qualunque prospettiva lo si voglia osservare, questo è un processo che lascia l’amaro in bocca. Uno di quei processi in cui resta il dubbio che la verità sia diversa da quella che si è accertata in dibattimento. I parenti delle vittime hanno pianto e urlato dopo la lettura in aula del dispositivo. «Vergogna! Vergogna!», hanno gridato. In mattinata davanti al Tribunale avevano organizzato un sit-in.

L’unico imputato, il magnate svizzero ultrasettantenne Ernest Schmidheiny, proprietario degli stabilimenti Eternit in Italia, è stato condannato a 3 anni e sei mesi per omicidio colposo in relazione alla morte di uno solo degli operai dello stabilimento, Antonio Balestrieri (morto il 21 ottobre 2009 per mesotelioma pleurico), mentre per gli altri casi (otto in tutto, cinque operai, due loro mogli e un residente della zona) ci sono state sei prescrizioni e una assoluzione (l’assoluzione ha riguardato il caso di Franco Evangelista, che abitava nei pressi dello stabilimento ma non era un dipendente). Per l’imputato la Procura aveva proposto la condanna a 23 anni e 11 mesi per omicidio volontario plurimo con dolo eventuale, ritenendo che il magnate fosse a conoscenza dei rischi provocati dall’amianto e del fatto che nello stabilimento di Bagnoli si stessero verificando episodi preoccupanti per la salute dei lavoratori adottando interventi ritenuti esigui per tutelare la salute di chi era esposto all’amianto. Eppure sin dagli anni ’40 diversi studi hanno dimostrato la potenza cancerogena dell’amianto, anche detto Eternit, accertando che sbriciolandosi diventava polvere sottile al punto da essere invisibile ma pericolosa al punto da essere letale.

Nelle fabbriche si depositava sulle tute degli operai e nelle case sulle mani delle moglie che lavavano quelle tute. Una volta inalata, si infilava nei tessuti molli del corpo generando una malattia capace di restare per anni nell’ombra e poi manifestarsi con tutti i suoi dolorosi effetti, cancri e malattie respiratorie croniche. In Italia l’amianto è stato messo al bando soltanto con la legge 257 del 1992. Per le morti degli operai di Bagnoli le indagini furono avviate nel 2004 e il processo, inizialmente incardinato a Torino, arrivò a Napoli nel 2019 dopo la pronuncia del giudice torinese dell’udienza preliminare che aveva superato un’eccezione dei legali dell’industriale uscito per prescrizione da un altro processo con un capo di imputazione diverso ma imputato a Novara per morti da amianto e a Torino per disastro ambientale. Nel primo processo torinese si decise di derubricare il reato da omicidio volontario a omicidio colposo. Insorsero i familiari delle vittime, parti civili assieme a una serie di associazioni tra cui l’Osservatorio nazionale amianto (Ona) di Ezio Bonanni rappresentato dall’avvocato Flora Rose Abate e l’associazione Mai più Amianto.

Gli stessi familiari e le stesse associazioni che ieri hanno lasciato il tribunale tra le lacrime e la delusione dopo la sentenza pronunciata dai giudici della seconda sezione della Corte d’assise. «È una sentenza che lascia l’amaro in bocca soprattutto perché non siamo sicuri che la realtà processuale coincida con la realtà storica dato il lungo tempo trascorso», ha commentato l’avvocato Elena Bruno, legale dell’associazione Mai più Amianto. «La vita di mio padre per i giudici vale 3mila e 300 euro, ridicolo», è stato l’amaro commento di Ciro Balestrieri, figlio di Antonio, una delle vittime. Delusione anche nelle parole dell’avvocato Flora Abate: «Come Ona onlus andremo avanti. Aspettiamo di leggere le motivazioni per capire i passaggi che ha fatto la Corte per arrivare a questa decisione di condannare l’imprenditore per colpa cosciente, poi valuteremo come eventualmente impugnare la decisione». Valuterà un ricorso anche l’avvocato Astolfo Di Amato, legale di Schmidheiny: «Impugneremo certamente la decisione – ha commentato – , comunque è motivo di soddisfazione il fatto che sia stato escluso il dolo».

Amianto: Isochimica Avellino, 4 condanne a 10 anni, 22 assolti. Nello stabilimento venivano bonificate carrozze ferroviarie su commesse delle Fs. Sono 33 gli ex operai deceduti per patologie legate alla lunga esposizione al materiale fibroso. La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Quattro condanne a dieci anni di reclusione e ventidue assoluzioni. E' questo il verdetto di primo grado pronunciato dopo cinque ore di camera di consiglio dai giudici del tribunale di Avellino sull'Isochimica, la fabbrica del capoluogo irpino nella quale per quasi dieci anni, a partire dalle fine degli anni Settanta, venivano bonificate dall'amianto le carrozza ferroviarie su commesse delle Ferrovie dello Stato. 

Il collegio giudicante (presidente Sonia Matarazzo, giudici a latere Pier Paolo Calabrese e Gennaro Lezzi) ha condannato a dieci anni di reclusione il responsabile della sicurezza di Isochimica, Vincenzo Izzo, e il suo vice, Pasquale De Luca; Aldo Serio e Giovanni Notarangelo, funzionari di Ferrovie dello Stato. Disposta anche una provvisionale di 50mila euro per ognuna delle famiglie dei 33 ex operai deceduti per patologie correlate alla prolungata esposizione all'amianto. La pena corrisponde alla richiesta fatta dalla pubblica accusa rappresentata dal sostituto procuratore di Avellino, Roberto Patscot, per i reati di disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

Assolti per non aver commesso il fatto gli altri imputati che dovevano rispondere di concorso in disastro colposo per omissione di atti di ufficio. Tra questi l'ex sindaco di Avellino, Giuseppe Galasso e la giunta comunale del tempo, tre dirigenti comunali, i titolari delle imprese che si sono succedute nei lavori di bonifica del sito, il curatore fallimentare dell'Isochimica. L'accusa aveva chiesto condanne da due anni e sei mesi a due anni.

Assolto anche un altro ex sindaco di Avellino, Paolo Foti, rinviato a giudizio con l'accusa di rifiuto in atto di ufficio, e il medico della Asl responsabile dell'unità amianto, per non aver commesso il fatto. Per entrambi era stata chiesta la condanna a sei mesi di reclusione. Il processo, durato quasi sei anni, si è svolto nell'aula bunker del carcere di Poggioreale di Napoli a causa della mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino.

Gli ex operai dell'Isochimica a Borgo Ferrovia, davanti ai cancelli dell'azienda nella quale, a cavallo degli anni Settanta, cominciarono a lavorare giovanissimi inconsapevoli dei gravi pericoli per la salute connessi all'amianto inalato nel processo di scoibentazione delle carrozze ferroviarie.

Presenti anche le vedove e i congiunti degli ex operai deceduti.

"E' stato chiarito definitivamente che il mandante della tragedia vissuta all'Isochimica sono le Ferrovie dello Stato", commenta Carlo Sessa, l'ex operaio che per decenni si è battuto per avere una parola di verità e di giustizia. La sentenza di oggi arriva trentasei anni dopo la prima denuncia presentata dal Wwf che nel 1986 segnalava alla Procura di Avellino lo smaltimento illecito di rifiuti tossici che avveniva all'Isochimica di Elio Graziano, l'imprenditore salernitano deceduto il quattro marzo del 2017 e dunque uscito dal processo incardinato sulla scorta dell'inchiesta condotta dall'ex Procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo.

Nel 2009 un'altra denuncia, da parte dell'attivista Giovanni Maraia sulla mancata bonifica del sito di Borgo Ferrovia e le malattie contratte dagli ex operai, fa partire l'inchiesta della Procura di Avellino che vedrà impegnati in continuità gli ex procuratori Angelo Di Popolo e il suo successore, Rosario Cantelmo, e che concluderà il percorso con la richiesta di rinvio a giudizio di 26 persone.

Il processo di primo grado, nel quale si sono costituite 270 parti civili, è durato cinque anni e sette mesi. Nel corso delle 127 udienze, celebrate nell'aula bunker del carcere Poggioreale di Napoli per mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino, è stata ricostruita la storia delle responsabilità che hanno portato alla morte per patologie collegate alla prolungata esposizione di amianto di 33 ex operai mentre almeno altri 200 ex operai sono ammalati conclamati di patologie asbesto correlate.

Nelle loro consulenze, prestate a titolo gratuito, i periti della Procura hanno attestato che "tutti gli operai Isochimica sono in pericolo di vita" ma anche sottolineato che nessun lavoratore risultava sottoposto a diagnosi o visita da parte del medico di fabbrica.

Giacomo Nicola per “Il Messaggero” il 21 dicembre 2021. La sentenza non ha precedenti. Lo Stato dovrà rispondere della morte di un'insegnante che si era ammalata per via della presenza di amianto a scuola. E la condanna è pesante, una cifra che sfiora il milione di euro. A pagare dovrà essere il ministero dell'Istruzione al risarcimento di oltre 930 mila euro per la morte di Olga Mariasofia D'Emilio. Alla donna era stato diagnosticato un mesotelioma, provocato dall'esposizione all'amianto nella scuola in cui lavorava. La notizia è stata resa ufficiale ieri dall'Ona, l'Osservatorio nazionale amianto. «Si tratta della prima condanna del Miur per la presenza di amianto negli istituti scolastici», ha sottolineato l'organizzazione. Alla docente il 17 maggio del 2002 era stato diagnosticato il mesotelioma per l'esposizione alla fibra killer durante l'insegnamento nei laboratori di chimica e fisica della scuola media Farini di Bologna. La sua agonia è durata 15 anni ed è terminata con la morte il 21 febbraio 2017. Nel corso della malattia la professoressa ha ottenuto dall'Inail il riconoscimento di malattia professionale e nel 2007 aveva avviato la procedura giudiziaria per il risarcimento dei danni. 

L'EMERGENZA

Una sentenza che crea un precedente non da poco. Il caso della professoressa D'Emilio infatti non è isolato. «L'amianto nelle scuole sta provocando una vera e propria epidemia tra docenti e non docenti - sottolinea Ezio Bonanni, presidente Ona -. A decine, e ben oltre i 91 casi censiti dal VI rapporto mesoteliomi, sono deceduti per questa neoplasia: è la punta dell'iceberg per le malattie da amianto. Per questo, infatti, insistiamo affinché il Ministero della Salute, d'intesa con il Miur, disponga al più presto la bonifica e messa in sicurezza di tutti gli istituti scolastici». La famiglia dell'insegnante si è unita a questa battaglia. «Il mio sogno è quello di far sì che le sofferenze di mia madre, e della mia famiglia, non si ripetano per altri insegnanti e impiegati nella scuola - spiega Silvana Valensin, figlia della docente scomparsa - Quello del mesotelioma è un flagello e dobbiamo vincere la battaglia contro l'amianto. Mi auguro che si giunga quanto prima alla bonifica di tutte le scuole italiane e di tutti i siti contaminati che si trovano in tutte le regioni».

IL CENSIMENTO

In base a quanto riporta l'Ona, nel 9 per cento delle scuole italiane (53.113 sedi, di cui 40.749 statali e 12.564 paritarie), sono stati censiti materiali di amianto. Nel 2021, alla ripresa dell'anno scolastico, risulta che ci sono ancora il 4,3 per cento degli edifici scolastici con presenza della fibra killer, quindi nella misura di 2.292 scuole, con esposizione di 356mila studenti (rispetto alla totalità di 8,3 milioni), ai quali si aggiungono 50mila soggetti tra docenti e personale scolastico. Il rischio negli istituti va oltre l'utilizzo delle onduline con dispersione esterna, perché in molti casi i materiali utilizzati sono interni e provocano la contaminazione dei luoghi in cui si svolge l'attività didattica. Nel 2021 i casi arrivano a 130 e a 500 con i tumori del polmone.

La decisione del Tribunale del lavoro di Bologna. Professoressa muore per l’amianto a scuola, la sentenza storica: Ministero deve risarcire oltre 900mila euro. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Dicembre 2021. Ben quindici anni di agonia, dal 17 maggio 2002, quando le venne diagnosticato un mesotelioma per l’esposizione all’amianto, fino alla morte avvenuta il 21 febbraio 2017. Cinque anni dopo il decesso il tribunale del lavoro di Bologna ha condannato il ministero dell’Istruzione al pagamento di un risarcimento da 930.258 euro nei confronti degli eredi di Olga Mariasofia D’Emilio, docente di chimica e fisica della scuola media Farini di Bologna.

Una condanna arrivata appunto per la lunga esposizione della docente all’amianto durante l’insegnamento nei laboratori di fisica e chimica della scuola media di Bologna.

Si tratta, come ricorda l’Ona, l’Osservatorio nazionale amianto, della prima condanna del Miur per la presenza di amianto negli istituti scolastici.

La condanna è stata inflitta dal giudice del lavoro del Tribunale di Bologna che ha accolto la richiesta degli avvocati Ezio Bonanni e Massimiliano Fabiani, legali dell’Osservatorio nazionale amianto, associazione a cui si erano rivolti i figli della docente, Andrea e Silvana, per tutelare i diritti della madre.

“L’amianto nelle scuole sta provocando una vera e propria epidemia tra docenti e non docenti”, spiega al Corriere della Sera Ezio Bonanni, presidente Ona. “Ben oltre i 91 casi censiti dal VI rapporto mesoteliomi, sono deceduti per questa neoplasia molto rara, che è la punta dell’iceberg per le malattie da amianto. Per questo, insistiamo affinché il ministero della Salute, d’intesa con quello dell’Istruzione, disponga al più presto la bonifica e la messa in sicurezza di tutti gli istituti scolastici”, sottolinea Bonanni.

Olga Mariasofia D’Emilio aveva ottenuto il riconoscimento della malattia professionale dall’Inail e nel 2007 aveva avviato la procedura giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni.

“Il mio sogno è quello di far sì che le sofferenze di mia madre, e della mia famiglia, non si ripetano per altri insegnanti e impiegati nella scuola”, sono invece le parole di Silvana Valensin, figlia della docente scomparsa. “Quello del mesotelioma è un flagello e dobbiamo vincere la nostra battaglia contro l’amianto. Mi auguro che si giunga quanto prima alla bonifica di tutte le scuole e di tutti i siti contaminati“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

·        Emergenza energetica ed è austerity.

Emergenza energetica ed è austerity in Italia. Nel ‘73 costa caro l’embargo dei Paesi arabi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Novembre 2022

È il 26 novembre 1973. In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare la notizia del colpo di Stato militare in Grecia, con cui il generale Ioannides ha deposto il presidente Papadopoulos, a capo della dittatura dei colonnelli dal 1967. Nelle pagine interne, invece, si affronta il tema dell’«austerity», una parola che gli italiani hanno imparato a pronunciare già da alcuni mesi: il Paese intero, in quei giorni, sta facendo i conti con una eccezionale emergenza energetica. Il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica del Kippur, Egitto e Siria hanno sferrato un attacco coordinato contro Israele, dando inizio alla quarta guerra arabo-israeliana.

L’offensiva ha determinato l’embargo delle forniture di petrolio da parte dei paesi arabi verso gli stati filo-israeliani. In Italia e in altri paesi occidentali si avverte presto l’onda d’urto di questa complessa situazione geopolitica: vengono imposte pesanti restrizioni, che incidono sulla vita quotidiana, per contenere i consumi energetici. Gli italiani sono costretti a confrontarsi con l’aumento dei costi del carburante, il divieto di circolazione di mezzi nei giorni festivi, modifiche dei limiti di velocità, riduzione dell’illuminazione pubblica e chiusure anticipate delle attività commerciali.

Il 25 novembre è stata l’ultima domenica di circolazione normale prima dell’applicazione dei provvedimenti del Governo: «I baresi - anche loro diligenti allievi della dottrina consumistica – hanno speso alla solita maniera l’ultimo weekend prima che scatti l’austerità. Gran parte dei gitanti s’è riversata a Torre a Mare: atto ultimo di una consuetudine nata decenni fa. Bar, ristoranti, pizzerie hanno fatto affaroni. Lorenzo, cameriere, dice “Una giornata eccezionale, come non ricordo da parecchio tempo”. Ma sarà l’ultima, per lui questa giornata si è conclusa con il licenziamento. Adesso i ristoranti di Torre a Mare forse chiuderanno di domenica. Chi ci verrebbe? I baresi in autobus? Da escludere. “Quest’anno è avvelenato per noi. Prima il colera e adesso l’austerità”..».

Una foto di Luca Turi mostra un calesse sul lungomare barese; così recita la didascalia: «Carrozzelle in anticipo sulle strade: una sensazione nuova, più riposante, tenere fra le mani non più il volante, ma le briglie». Ecco il commento del cronista: «L’automobile scende dall’altare su cui l’hanno innalzata anni e anni di sfrenato consumismo: la spinta pubblicitaria alle cilindrate sempre maggiori, le autostrade. Ci avevamo messo anni per imparare, ora dovremo disimparare tutto in sette giorni». I baresi, però, si abitueranno alle nuove misure, che dureranno fino al marzo dell’anno successivo.

·        Le Correnti del mare.

Il Giappone e la maxi-turbina da 33o tonnellate per produrre energia pulita con le correnti oceaniche. Enrico Maria Corno su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Le centrali a maree esistono da molti anni. A Tokyo provano con un’altra strada: test superati, potenzialità fino a 200 Gigawatt, metà del fabbisogno energetico del Paese. 

Il Giappone è uno dei paesi più sensibili alla sostenibilità, soprattutto dopo la tragedia di Fukushima. La transizione energetica è diventata ancor di più un'esigenza in virtù del fatto che Tokyo è ancora fortemente vincolata dall'importazione di combustibili fossili e ciò pesa enormemente sul debito pubblico, più alto perfino di quello italiano.

Questi sono i presupposti che hanno portato la compagnia privata IHI Corporation, in collaborazione con la New Energy and Industrial Technology Development Organization, a investire sull'innovativo Progetto Kairyu che punta a produrre molta dell'energia necessaria al paese attraverso la forza del mare che - trattandosi di un'isola - ne è ovviamente la risorsa principale.

Finita la fase di test durata 3 anni

La notizia di questi giorni è che il progetto Kairyu abbia terminato con successo il periodo di test durato oltre tre anni nelle profondità al largo delle coste orientali del Giappone, producendo 100 kilowatt in modo autonomo e pulito grazie allo sfruttamento delle correnti sottomarine. 100 kilowatt (peraltro ottenibili con una velocità media di flusso di soli tre nodi, circa 1 metro e mezzo al secondo) al momento sono una inezia, soprattutto se paragonati alle capacità produttiva degli impianti eolici (circa 3,6 megawatt per una turbina offshore di dimensioni medie) ma ciò che interessa è più la modalità peculiare che caratterizza il processo.

Maxi-generatore ancorato al fondale

Posizionato in questa prima fase lungo la dorsale sottomarina dove transita la Corrente Kuroshio, una delle più forti al mondo, Kairyu è un vero e proprio generatore da 330 tonnellate che galleggia sotto la superficie del mare, ancorato al fondale. Una descrizione sommaria lo rappresenterebbe come una struttura composta da tre cilindri lunghi una ventina di metri: la fusoliera centrale ha funzioni di galleggiamento mentre le due laterali contengono altrettante pale da turbina di 11 metri di lunghezza che vengono mosse dall'acqua delle correnti oceaniche. Le due turbine non solo generano energia ma contribuiscono anche a mantenere l'impianto (delle dimensioni di 20 x 20 metri) in una posizione stabile: ogni pala infatti gira nella direzione opposta alla gemella, annullando così le forze che farebbero ruotare la struttura attorno al proprio asse.

Una caratteristica fondamentale di questo impianto sta inoltre nella sua capacità di regolarsi in funzione delle esigenze. L'altezza innanzitutto: la struttura è stata ormeggiata a circa 50 metri di profondità ma può essere portata in superficie per facilitare le operazioni di manutenzione e può essere abbassata fino in profondità per evitare per quanto possibile la forza distruttiva dei tifoni che sono soliti devastare la zona. Allo stesso modo è regolabile anche che l'angolo di inclinazione delle pale dei rotori per meglio seguire la forza della corrente e rendere più efficiente la produzione. Ovviamente, funi e catene che ancorano la struttura al fondo dell'oceano ospitano anche i cavi di trasmissione che raggiungono il cavo principale sommerso che a sua volta si collega con la rete elettrica terrestre.

I tempi per il via

Nonostante i test siano stati superati con successo, ci vorrà ancora un po’ prima di sfruttare l’energia del mare con il sistema Kairyu: sarà attivo per uso commerciale tra una decina di anni ma per allora la capacità produttiva sarà ben superiore ai soli 100 kilowatt generati finora. La IHI Corp. stima che in futuro, con gli adeguati impianti, in quel punto dell'oceano la corrente oceanica Kuroshio potrebbe produrre oltre 200 gigawatt di energia elettrica, circa 25 volte più della più grande centrale nucleare del mondo, quella di Kashiwazaki-Kariwa, per altro ora non attiva, che equivalgono a quasi il 50% del fabbisogno nazionale.

·        L’Eolico.

Frenare le pale eoliche e "il sacco del paesaggio". I principi di diritto aiutino ad arginare la prepotenza concettuale di associazioni come Fai. Vittorio Sgarbi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In questa difficile emergenza occorre tornare a principi certi del diritto per la tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, per i quali i più recenti testi di riferimento dovrebbero fornire gli strumenti per un efficace contrasto delle prepotenze concettuali, sotto forma di provvedimenti legislativi suggeriti da pseudoassociazioni culturali che sostengono le speculazioni economiche con la copertura di una cultura Green, che conduce a queste conclusioni: «È innegabile che la diffusione degli impianti per produrre energia da fonti rinnovabili, in linea con gli obiettivi di de-carbonizzazione, inciderà sui nostri territori, trasformando i paesaggi. La sfida che si pone è quella di non restare osservatori passivi della rivoluzione in atto, ma di governarla e orientarla con la più formidabile dotazione di competenze di cui saremo capaci come sistema-Paese. Coniugare gli obiettivi della transizione energetica con la lungimiranza nella pianificazione paesaggistica e la qualità della progettazione è quindi la sfida cruciale del prossimo futuro».

È la sorprendente posizione di alcune associazioni ambientaliste, tra cui il Fai, secondo cui «impianti eolici e fotovoltaici possono convivere con il Paesaggio italiano».

L'Italia non è solo i suoi monumenti, ma anche il suo paesaggio, è doveroso stare dalla parte dei valorosi Soprintendenti che, in trincea, difendono l'Italia dagli speculatori e dalla mafia responsabili del «sacco del paesaggio» in Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata, garantendo loro i necessari strumenti legislativi.

La situazione è drammatica ed esplicita: intercettato in carcere, e utilmente, Totò Riina, nella stessa occasione in cui minacciò il Pm Di Matteo, che per questo fu immediatamente dotato di super scorta, disse chiaramente che l'affare di Matteo Messina Denaro in Sicilia, cioè del presunto attuale capo della mafia, a Castelvetrano, Mazara del Vallo, Salemi, Alcamo e Marsala, erano «i pali eolici», affermando quel nesso tra la mafia e l'eolico e il fotovoltaico, documentato dal sequestro all'imprenditore di Alcamo Vito Nicastri di 1 miliardo e 600 milioni di euro, per la funzione di «semplificatore» e sviluppatore degli impianti.

Preso atto che il 65 per cento degli edifici costruiti in Italia, e anche intere aree industriali e periferiche, hanno meno di 70 anni non è difficile immaginarli rivestiti di pannelli fotovoltaici, risparmiando i campi agricoli che nessuno protegge, ricercati dagli speculatori per il loro inferiore valore economico.

I nemici del paesaggio vorrebbero mettere campi fotovoltaici in tutte le aree libere, anche a Venezia, ignorando Mestre e Marghera, e anche a Paestum e a Pompei, per «modernizzare il paese», e magari chiudere le fastidiose Soprintendenze.

Gli spazi contaminati sono più che sufficienti per l'energia rinnovabile, lasciando intatti i campi agricoli di quel mondo esaltato da Pasolini di cui si celebra il centenario con innumerevoli iniziative, tradendone però, nei fatti, il pensiero.

Una risposta normativa è in Diritto e gestione del patrimonio culturale di Antonio L. Tarasco, edito da Laterza.

Il volume, che descrive il disegno istituzionale e lo stato attuale della difesa del patrimonio culturale e del paesaggio, arricchisce la letteratura esistente, forte di una specifica esperienza dell'autore maturata nel settore e corredato da un'ampia presentazione sia di dati quantitativi sia di elementi legislativi. Arriva inoltre mentre è in atto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con un flusso largo di risorse superiori ai 4 miliardi di euro relativi alla Missione I Componente III destinati ai settori «patrimonio culturale per la prossima generazione», «piccoli siti culturali», «industria culturale e creativa».

Ma non si dimentichino la visione d'assieme e lo sfondo di maggior respiro. Al processo di allocazione finanziaria del Piano fa riscontro il rilancio della funzione di centro di erogazione, di programmazione e di valutazione del Ministero della cultura. D'altronde un'amministrazione orientata all'efficienza corrisponde sia agli impieghi specifici del Pnrr sia alle esigenze generali del sistema economico italiano, così da cooperare pro quota ad elevarne il potenziale di crescita e la capacità competitiva.

In un contesto di numerose tessere da comporre, questo contributo percorre una strada con snodi molto chiari. Supera la separazione tra quadro giuridico e dinamica economico-gestionale dei processi, avvicina tra loro i relativi blocchi disciplinari sottesi di cui concorre a riformulare le tradizionali linee di divisione. Il libro è altresì ricco di dati, senza «cullarsi» in un'elencazione sterile di cifre che rischierebbe solo di verniciare di rigore scientifico l'ordine del discorso. Si sofferma pertanto sulla capacità ordinatoria dei sistemi di regole, sui compiti e le responsabilità dell'alta amministrazione, si àncora all'esperienza concreta con esempi e richiami puntuali agli istituti più avanzati (in particolare il partenariato pubblico-privato), guarda oltre confine e ricostruisce il profilo di quei modelli gestionali (francese, anglosassone) che appaiono di massima evidenza come fattori di modernizzazione del settore.

Sulla base quindi di un approccio che riconosce la complessità del terreno di indagine, il volume evita anche di arenarsi sulle secche della sterile contrapposizione tra valori collettivi (cultura) e il fascio degli interessi economici e materiali in gioco. Un taglio che non sorprende, essendo a tutti gli effetti il patrimonio culturale del Paese una entità da comprendersi all'interno del circuito economico-produttivo nazionale. Certo agli artt. 3 e 6 del Codice vigente, tutela e valorizzazione costituiscono due categorie diversificate, sicché la fruizione rappresenta un elemento teleologico esterno alla tutela. Tuttavia, da un punto di vista sostanziale in precisi ambiti come il restauro o la circolazione internazionale dei beni culturali, tutela e valorizzazione tendono a fondere i loro orizzonti, fermo restando che il nucleo fondamentale della politica dei beni culturali è costituito dalla garanzia dell'integrità del bene. Fin dalla sua nascita infatti l'impianto dell'amministrazione dei beni culturali incorporata presso il Ministero della pubblica istruzione metteva in risalto componenti prevalentemente «di conservazione». Una filosofia progettuale innegabile, un pattern frutto di sedimentazioni di lunghissima durata su cui impegnarsi a fondo e che deve continuare a riverberarsi sul presente ed essere sempre con noi. Non necessariamente cioè occorre aderire ai dubbi, stare nelle incertezze senza essere impazienti di pervenire a fatti e ragioni. Viceversa è possibile contare sulle tracce preesistenti, stare sui sentieri già segnati, anziché essere costretti a decifrare ed esplorare di volta in volta i «materiali del bosco».

Una scelta obbligata infine lo spazio apposito dedicato al paesaggio, per ragioni di ordine sia formale sia sostanziale, a cominciare dalla disciplina che per ragioni «diacroniche» si radica nel Codice Urbani del 2004 e tiene insieme beni culturali e paesaggio. Soprattutto a valle della recente riforma dell'art. 9 della Costituzione, l'ambiente assume formalmente rango primario e pone così un problema di coordinamento con il paesaggio. Ma non determina la tirannia dell'interesse ambientale rispetto alla cura del paesaggio. Semmai scolpisce la tutela delle matrici ambientali in quanto valore già presente nella giurisprudenza costituzionale, amministrativa e ordinaria del Paese, senza con questo operare un braccio di ferro tra un diritto e l'altro o l'imposizione di un diritto sull'altro. Sarebbe contrario allo stesso spirito e alla lettera della Carta costituzionale. Stravolta ora da Legambiente e dal Fai. Combatteremo anche con la collaborazione legislativa di Tarasco.

Sardegna, invasi dalle pale non dai controlli. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

Sono 514 le torri eoliche in mare, in buona parte alte 265 metri, in attesa di essere costruite. Lo denunciano gli ambientalisti del Grig, il Gruppo di intervento giuridico, in prima fila «non» contro le energie alternative ma le «speculazioni energetiche». 

Sapete quante furono le bellissime Torri costruite a difesa dei 1836 chilometri delle coste della Sardegna a partire da 476 d.C. per difendere l’isola dalle incursioni piratesche, soprattutto nel ‘500 e in particolare ai tempi di Khayr al-Din Barbarossa, il celeberrimo condottiero ottomano che dominò il Mediterraneo tra la fine del XV secolo e i primi decenni del XVI? In totale, in circa un millennio e mezzo, 105. Per oltre la metà oggi distrutte o ridotte in condizioni precarie. Quelle medie erano alte 10 metri, quelle più alte arrivavano a quattordici. E il loro fascino, quando non è stato guastato da improvvidi interventi edilizi, è rimasto intatto fino ad oggi.

Bene. Sapete ora quante torri eoliche in mare, in buona parte alte 265 metri cioè diciannove volte più delle torri antiche più alte dell’antica Ichnusa, sono in attesa d’essere costruite in Sardegna? Un’enormità: 514. Dieci volte (dieci volte!) di più della cinquantina di antiche in condizioni decenti o restaurate. Lo denunciano gli ambientalisti del Grig, il Gruppo di intervento giuridico da sempre in prima fila «non» contro le energie alternative ma le «speculazioni energetiche» di chi è interessato solo all’affare, che hanno presentato sabato l’ennesimo «atto di opposizione al rilascio di una nuova concessione demaniale marittima». «Come si trattasse della richiesta di tirar su un chiosco», spiega il portavoce del Grig,Stefano Deliperi: «Il buon senso dovrebbe imporre procedure ovvie: lo Stato, le Regioni, le soprintendenze, dovrebbero essere obbligati a individuare, non alle calende greche ma in tempi rapidi le aree migliori sia per produrre energia eolica col massimo risultato ottenibile sia a tutelare quanto più si può i paesaggi, le flore, le faune, i tesori archeologici per poi mettere questa mappa a disposizione di tutte le imprese. Qui, finora, succede il contrario».

Vale a dire che tutti ma proprio tutti i 514 piloni agganciati in mare davanti a coste bellissime circondate dalla palizzata eolica (308 aerogeneratori solo nelle acque della Gallura, della Maddalena, della Costa Smeralda, di Tavolara e San Teodoro) sono stati progettati da aziende private. Non uno dagli uffici pubblici. Fatto è che «nessuna procedura di V.A.S. (Valutazione ambientale strategica) e nessun procedimento di V.I.A. (Valutazione di impatto ambientale) è stato neppure avviato»...

Dai colli toscani a Taranto, la guida turistica dei parchi eolici italiani. La Repubblica il 15 giugno 2022. Un progetto realizzato da Legambiente e presentato in occasione della giornata mondiale del vento. Un volume e un sito internet raccontano i territori che ospitano questi impianti con cartine interattive e informazioni turistiche

Dalle montagne liguri affacciate sul mare a Matera, seguendo i colli toscani e siciliani, le aree interne e i piccoli paesi abruzzesi, molisani e campani. I parchi eolici della Penisola, integrati nel paesaggio e con il consenso delle comunità, non solo contribuiscono alla transizione ecologica, rifornendo di energia rinnovabile famiglie e imprese, ma favoriscono anche lo sviluppo del territorio, creando valore e occupazione. Nel 2022 sono arrivati a quota 18 da Nord a Sud lungo lo Stivale, mappati in undici regioni italiane e raccontati dalla seconda edizione della "Guida turistica dei parchi eolici italiani": un'iniziativa presentata oggi 15 giugno in occasione della Giornata mondiale del vento, il Global Wind Day, a opera di Legambiente.

Dal primo impianto eolico in mare a Taranto fino al primo parco cooperativo a Gubbio (Perugia), passando per le torri e le installazioni artistiche nell'altopiano dell'Ogliastra (Nuoro), l'innovazione green viene descritta in un volume e sul sito parchidelvento.it con cartine interattive e informazioni turistiche. Un progetto dell'associazione ambientalista, la prima guida al mondo dedicata al turismo eolico. "L'obiettivo è invitare a scoprire territori affascinanti, spesso esclusi dai circuiti turistici più frequentati, osservando da vicino le moderne macchine che producono energia dal vento, indubbiamente tra i laboratori più interessanti della transizione energetica", ha spiegato Legambiente.

"In questo periodo si parla molto di rinnovabili - ha commentato Stefano Ciafani, presidente nazionale dell'associazione - Su queste bisogna puntare per rendere il nostro sistema energetico libero da carbone, petrolio e gas e da qualsiasi dipendenza dall'estero. Si discute molto anche del tema di come integrarle al meglio nel paesaggio, specie in un Paese come l'Italia, ricco di risorse culturali e ambientali. Questa guida racchiude esempi virtuosi che dimostrano che l'eolico può essere fatto bene e integrarsi perfettamente nel paesaggio, con il consenso delle comunità e diventando un valore aggiunto anche in chiave turistica. Per questo è necessario far crescere gli impianti a terra e in mare, con procedure che premino la qualità e la partecipazione dei territori".

Anche le pale eoliche inquinano? Si sperimenta la turbina riciclabile al 100%. Pietro Mecarozzi su La Repubblica il 30 Maggio 2022.

Il ciclo di vita di un aerogeneratore è in media di 20 anni. Nel 2050 si stima che se ne dovranno smaltire 43 milioni di tonnellate. Ma si sperimentano nuovi materiali per il riuso.

Una pala eolica riciclabile al 100%, in grado di rivoluzionare il mondo dell'energia e dell'economia circolare. E quello che sta tentando di fare la GE Renewable Energy, attraverso la sua sussidiaria LM Wind Power, che ha progettato e realizzato la prima pala eolica riciclabile da 62 metri nel suo stabilimento di Ponferrada, in Spagna. 

Il prototipo rientra nel più ampio progetto Zebra (Zero waste blade reseArch), guidato dal centro di ricerca francese Irt Jules Verne. L'iniziativa riunisce aziende industriali e centri tecnici per dimostrare su vasta scala la rilevanza tecnica, economica e ambientale delle pale eoliche dotate di un eco-design che faciliti il riciclaggio. 

Un obiettivo non scontato, in quanto l'industria del vento produce sempre più energia, ma non rispettando in toto i principi dell'economia circolare. Nel 2019 sono state installate 22mila nuove turbine e si stima che la capacità di energia eolica installata aumenterà del 9% fino al 2030 a livello globale. Il ciclo di vita di una pala eolica è mediamente di 20 anni, e al momento non esistono soluzioni circolari per smaltirle. Con un aumento dell'impiego di questa fonte, ci sarà pertanto un aumento dei rifiuti da gestire: secondo uno studio dell'Università di Cambridge nel 2050 si dovranno smaltire 43 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti proprio dagli aerogeneratori. 

Con queste premesse, LM Wind Power ha iniziato da poco i test per valutare la durata strutturale e verificare proprietà e prestazioni della pala. Si tratta di un progetto avviato nel 2020, che ha visto coinvolti diversi attori fra aziende e centri di ricerca. Arkema, altro componente del gruppo, ha sviluppato Elium, una resina termoplastica riciclabile per depolimerizzazione o dissoluzione. Tale resina, che sulla pala eolica Zebra è stata rinforzata con fibra di vetro di nuova generazione, è stata presentata nel 2013 da Arkema e successivamente individuata come materiale adatto per una pala eolica riciclabile e quindi inclusa nel progetto. 

La resina costituisce l'intero scheletro della struttura, in quanto presenta esattamente le stesse specifiche di una resina termoindurente: si trasforma alla stessa maniera di una resina epossidica, e può essere stampata facilmente utilizzando tecniche di infusione o flex-molding. Le resine epossidiche sono polimeri con reazione a freddo. Il formulato è, di norma, costituito da una resina base e da un indurente che, miscelati, danno origine a uno strato vetrificato lucido. È utilizzata molto nell'industria elettrica-elettronica in quanto è un materiale isolante. 

Il riciclo di queste enormi pale, di fatto, può avvenire attraverso un processo di riciclo chimico, grazie alla depolimerizzazione della resina, e quindi la sua scissione dalla fibra di rinforzo in vetro. Il prototipo dovrà mostrare se questa resina, utilizzata in questa applicazione insieme a fibre di vetro, è adatta alla produzione industriale di pale eoliche. Sarà poi un altro membro del consorzio, Canoe, a preoccuparsi del processo di riciclaggio, utilizzando un metodo da loro stessi sviluppato che consente il recupero sia del monomero di metacrilato di metile sia della fibra. 

"Con questo progetto stiamo affrontando due sfide cruciali del settore", ha spiegato John Korsgaard, direttore senior per l'eccellenza ingegneristica presso LM Wind Power. "Da un lato, stiamo procedendo verso la nostra visione di pale a rifiuti zero, prevenendo e riciclando i rifiuti di produzione. Dall'altro, stiamo portando la riciclabilità a un nuovo livello: il materiale composito termoplastico delle lame a fine vita ha di per sé un valore elevato e può essere facilmente utilizzato in altri settori come materiali compositi, ma può anche essere depolimerizzato e la resina riutilizzata nella produzione eolica". 

Dopo la produzione, la pala sarà testata nelle strutture della LM Wind Power in Danimarca. Poi verranno verificati e analizzati i metodi di riciclaggio di tutti i materiali a fine vita, con l'obiettivo di lanciare il prodotto sul mercato entro e non oltre il 2023.

Francesco Bechis per “il Messaggero” il 21 settembre 2022.

È un cortocircuito verde. Mentre a Bruxelles gli Stati Ue chiedono alla Commissione di allentare il taglio sui consumi di elettricità, in Italia la transizione verso le energie rinnovabili è in stallo. Da una parte i privati che vogliono investire nel settore green crescono a vista d'occhio. Dall'altra, la quasi totalità dei nuovi progetti legati al Pnrr - presentati al Mite con un percorso accelerato introdotto dal governo Draghi - restano in attesa di un via libera.

Si tratta di quasi 20 Gigawatt (18,67). Poco meno di un terzo di quei 70 Gigawatt - circa 8 l'anno - che secondo il governo dovrebbero essere installati nei prossimi 9 anni per centrare i traguardi della Conferenza di Parigi sul Clima. Il sito del ministero guidato da Roberto Cingolani parla chiaro. Sono 508 i progetti di energia rinnovabile in lista d'attesa.

Di questi, solo uno ha ottenuto il semaforo verde. […]

L'iter è un percorso a ostacoli. Accertata la regolarità del progetto la palla passa alla commissione Pniec-Pnrr. Cioè l'organo di 40 commissari entrato in carica nel gennaio scorso con l'obiettivo di creare un canale preferenziale per i progetti delle rinnovabili legati ai fondi europei. La commissione ha messo il turbo ad aprile, quando sono stati nominati tutti i commissari. Ad oggi ha emesso pareri favorevoli per 2,274 Gigawatt complessivi di energia rinnovabile, con una percentuale che sfiora il 100% di sì. Ma non basta. Ottenuto il parere serve infatti il via libera del Mibact insieme al Mite. Ed è qui che si arena una parte dei progetti.

Energia vs paesaggio, difficile uscirne. Non a caso la settimana scorsa Cingolani ha tirato una stoccata alle soprintendenze culturali: «Se vince sempre il paesaggio bisogna dire ai cittadini che rispetto ai costi dell'energia ci sono altre priorità». Quando tra dicasteri non si trova la quadra, il dossier finisce sul tavolo di Palazzo Chigi, con il Cdm a vestire i panni dell'arbitro. E può succedere che qui arrivi la luce verde, come lo scorso 28 luglio per 11 impianti eolici. Ma la questione va risolta a monte.

Certo, il picco di progetti presentati non è facile da gestire. La crisi energetica e i fondi del Pnrr hanno fatto delle rinnovabili un'occasione ghiotta per tanti privati. Fatto sta che lo stop prosegue. E presenta un conto diverso a seconda delle regioni. Al Sud, dove sole e vento sono più generosi e il mercato cresce in fretta, è salatissimo. In testa c'è la Puglia, con 168 impianti in attesa di via libera, segue la Basilicata con 98 progetti fermi. […]

Ci sono 1400 progetti di solare ed eolico: la burocrazia li blocca. Secondo i dati forniti da Terna, sono tante le domande arrivate nei primi 10 mesi del 2021, per un totale di energia pari a 150GW, ma come dimostra l'ultimo rapporto di Legambiente le autorizzazioni richiedono anni. L'approvazione di anche solo la metà permetterebbe di completare la transizione energetica dell'Italia. Luca Fraioli su La Repubblica il 13 gennaio 2022.  

Se anche solo il 50% delle rinnovabili oggi sulla carta arrivasse al termine del tortuoso iter autorizzativo, se la metà dei progetti presentati diventassero realtà, l'Italia avrebbe di fatto già compiuto la tanto ambita transizione energetica. Il fotovoltaico e l'eolico oggi in lista d'attesa sarebbero più che sufficienti a soddisfare il fabbisogno di energia pulita, abbattendo le emissioni secondo i parametri europei, senza dover tirare in ballo il nucleare o prolungare la vita dei combustibili fossili, a cominciare dal gas naturale. La denuncia arriva dal rapporto di Legambiente "Scacco matto alle fonti rinnovabili", appena pubblicato. Ma ancor più dai dati aggiornati forniti da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale e che rappresenta un osservatorio privilegiato, visto che chiunque voglia produrre energia deve prima essere autorizzato a distribuirla. 

Il dato di partenza è il seguente: per centrare l'obiettivo della transizione energetica il nostro Paese dovrà installare entro il 2030 80 GW di rinnovabili, con una media di 8 GW l'anno nel decennio a venire (anche se il 2021 ce lo siamo giocato installando appena 1 GW). La cosa straordinaria, come mostrano i numeri di Terna, è che a fine ottobre scorso erano pervenute richieste di autorizzazione per impianti eolici e solari sulla terraferma (on shore) pari a 130GW, cui vanno sommati 22,7 GW di richieste per pale eoliche da mettere in mare (off shore). Dunque un totale di oltre 150 GW richiesti, quando ce ne basterebbero 80. Non solo: Terna ha anche già dato il parere positivo all'allaccio alla rete elettrica per la maggior parte degli impianti proposti. L'85% (pari a circa 110 GW) per l'on shore e il 75% (circa 17 GW) per l'off shore hanno infatti ottenuto il via libera. 

Infine, un dato che sembra smentire quanti ritengono che negli ultimi anni le aziende delle rinnovabili, scoraggiate dalla burocrazia italiana, abbiamo preferito investire all'estero: dal 2018 a oggi le richieste di connessione sono cresciute del 297%. E solo nei primi dieci mesi del 2021 sono pervenute al gestore della rete ben 1439 nuove domande (974 per impianti fotovoltaici, 465 per pale eoliche).

Il problema è che l'ok di Terna rappresenta solo l'inizio di un percorso a ostacoli. Quando infatti una azienda si candida alla realizzazione di un parco eolico o fotovoltaico chiede innanzitutto la possibilità di connettersi alla rete, poi parallelamente avvia il resto dell'iter autorizzativo. Ed è in questa seconda parte del cammino che si nascondono insidie tali da decimare i progetti e rallentare per anni da realizzazione di quelli superstiti.

"A mettere sotto scacco matto le rinnovabili sono normative obsolete, la lentezza nel rilascio delle autorizzazioni, discrezionalità nelle procedure di Valutazione di impatto ambientale, blocchi da parte delle sovrintendenze, norme regionali disomogenee tra loro a cui si aggiungono contenziosi tra istituzioni. E, la poca chiarezza è anche causa delle opposizioni dei territori che devono districarsi tra regole confuse e contraddittorie", si legge nel rapporto di Legambiente. Spesso il risultato, nota l'associazione, è che i tempi medi per ottenere l'autorizzazione alla realizzazione di un impianto eolico si attestino intorno ai 5 anni, contro i 6 mesi previsti dalla normativa. Poi magari ne occorrono altri due per la costruzione vera e propria di una centrale che rischia di essere obsoleta, essendo stata concepita quasi un decennio prima.

Un caso esemplare è quello del parco eolico di San Bartolomeo in Galdo (Benevento). Dopo un lungo iter che ha portato all'approvazione dell'infrastruttura, l'azienda ha proposto di utilizzare aerogeneratori di ultima generazione, più alti e più potenti, riducendone il numero da 16 a 3. Ma la locale Soprintendenza si è opposta: bisognerà valutare come le nuove torri incideranno sul paesaggio. Quindi, paradossalmente, si realizzano le 16 pale approvate e non la soluzione a minor impatto paesaggistico.

Ma il rapporto di Legambiente "Scacco matto alle fonti rinnovabili", da questo punto di vista, è una miniera di storie di ordinaria burocrazia: sono infatti elencate 20 vicende emblematiche di come solare, eolico e biogas si arenino, tra veti incrociati e conflitti istituzionali, in tutta la Penisola, dal Veneto alla Sicilia. 

Che fosse il groviglio di poteri centrali e locali il principale rischio per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, titolare dell'omonimo ministero, lo aveva capito fin dall'insediamento, nel febbraio 2021. Allora dichiarò che sarebbe stata necessaria in realtà una "transizione burocratica". A quasi un anno di distanza Cingolani ha rivendicato alcuni risultati: "Il Decreto semplificazioni porterà da 1200 a 300 giorni l'iter autorizzativo per nuovi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili", ha annunciato a inizio dicembre, spiegando che di fronte a situazioni di stallo d'ora in poi sarà il governo a intervenire sbloccando la situazione. E qualche giorno dopo: "Sono stati autorizzati in queste settimane 400 megawatt proprio grazie a quei poteri". Si tratta di 12 impianti (10 fotovoltaici, per la maggiore parte nel viterbese, e 2 eolici), che però rappresentano ben poca cosa rispetto agli 8.000 megawatt (8GW) di rinnovabili che si sarebbero dovuti installare nel corso del 2021 per rispettare la tabella di marcia europea.

"I progetti sbloccati - avverte il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani - riguardano però grandi impianti fotovoltaici a terra e piccoli impianti eolici, quando invece andrebbero realizzati soprattutto sistemi agrivoltaici, che producono elettricità come integrazione e non sostituzione della coltivazione agricola, e grandi parchi eolici, magari coinvolgendo i territori per ridurre la sindrome Nimby. Oltre a favorire le comunità energetiche che usano localmente l'elettricità prodotta da fonte rinnovabile". 

D'altra parte lo stesso Cingolani aveva ammesso: "Sul tavolo di palazzo Chigi ci sono 40 progetti bloccati per 6 GW". E allora: se sono stati sbloccati 12 progetti da 0,4 GW, che fine hanno fatto i restanti 28 da 5,6 GW? E soprattutto: chi è che li tiene fermi? Dal Mite rispondono in modo sibillino: provate a chiedere al ministero della Cultura. Che però preferisce non replicare. E tuttavia non è un mistero che siano spesso le Soprintendenze a fermare molti progetti, per l'impatto che possono aver sul paesaggio naturale o sui centri storici italiani. 

"La transizione energetica - commenta Ciafani - si farà se finiranno sia il gioco delle parti tra ministeri che la guerra degli enti locali. Il ministro Franceschini deve fissare regole chiare sulla semplificazione delle autorizzazioni del fotovoltaico integrato sui tetti nei centri storici, perché altrimenti le Soprintendenze continueranno a dire sempre no. E ne beneficerà chi vuole fare fotovoltaico a terra oppure nuove centrali a gas".

Per superare l'impasse è stato ora ideato il meccanismo delle "aree non idonee": le Regioni devono comunicare al governo dove non si possono realizzare impianti eolici o fotovoltaici. Il che significa che poi non ci si può più opporre se pannelli o pale vengono collocate su terreni non inclusi nell'elenco delle "aree non idonee". Dunque è in atto una sorta di censimento di zone industriali dismesse, terreni inquinati o comunque non utilizzati a fini agricoli, da destinare alla produzione di energia pulita. Ma molti Comuni non stanno partecipando alla raccolta dei dati e c'è già chi teme che si metteranno di traverso a suon di ricorsi quando scopriranno che sul loro territorio stanno per essere montati pannelli o pale. 

L'ennesima insidia da scongiurare sul cammino delle rinnovabili. In modo che almeno la metà di quei progetti da 150 GW che giacciono nei cassetti da trasformare in realtà. E, con loro, la transizione energetica dell'Italia.

La prima pala nel golfo: sta nascendo il parco eolico di Taranto. Raffaele Capriglia su La Repubblica il 17 febbraio 2022.

La seconda puntata dell'inchiesta sulle rinnovabili in Italia. Il progetto di Renexia è stato avviato nel 2008 e solo ora è stata appena installata la prima turbina delle dieci che sorgeranno a 2 km dalla costa. Beleolico produrrà energia pulita pari a 60mila Mwh per la città.

Taranto punta sulla transizione energetica sfruttando l'energia dal vento. Il primo parco eolico offshore del Mediterraneo sta nascendo nelle acque del golfo ionico, nell'area antistante il molo polisettoriale, a 2 km e mezzo dalla costa. Pochi giorni fa è stata ultimata l'installazione della prima turbina di Beleolico, il progetto che fa capo a Renexia, società del gruppo Toto: sono stati montati i pezzi dell'aerogeneratore. Si va avanti, intanto, con i lavori e tra qualche settimana l'intero parco marino - in tutto 10 turbine - sarà completo.

Beleolico produrrà energia pulita pari a 60mila Mwh per la città di Taranto. Per Renexia, si tratta di "un esempio concreto di transizione energetica", in cui "Taranto diviene il centro di partenza dell'energia del futuro, pulita e sostenibile, grazie al vento e al mare". L'investimento totale è di 80 milioni di euro. L'area di mare interessata è di 131mila metri quadrati. La costruzione del parco eolico rappresenta il primo passo un percorso che il Paese sta intraprendendo in termini di sostenibilità ambientale, verso gli obiettivi del nuovo Piano Nazionale Energetico che prevedono per l'Italia 114Gw di energia da fonti rinnovabili entro il 2030. 

Beleolico sarà composto da dieci turbine per una capacità complessiva di 30 Mw in grado di assicurare una produzione di oltre 58mila MWh, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. In termini ambientali vuol dire che, nell'arco dei 25 anni di vita prevista, consentirà di evitare la produzione di circa 730mila tonnellate di anidride carbonica. L'eolico offshore sfrutta la maggiore forza del vento garantita dal posizionamento in mare delle turbine, rispetto ad un impianto eolico terrestre; ed inoltre, non consuma suolo. Si tratta di "una vera alternativa alle centrali climalteranti, per la produzione di energia pulita e per contribuire alla riduzione delle emissioni in atmosfera di CO2 nel rispetto delle direttive dell'Europa". 

La storia dell'impianto è lunga e articolata. Il progetto inizia nel 2008 e vive fasi alterne, caratterizzate da cambi societari terminati con l'attuale gestione di Renexia e da un braccio di ferro dinanzi alla giustizia amministrativa tra il Comune di Taranto e i proponenti dell'epoca. Dal 2008 ad oggi, quasi 14 anni di complesse vicende autorizzative che hanno ritardato l'avvio dell'impianto; lo stesso ha ricevuto il parere positivo della Commissione Via e Vas nel 2012, respingendo il parere negativo presentato dalla Regione Puglia e il parere della Sovrintendenza per l'impatto visivo generato davanti alla zona industriale di Taranto. Successivamente, l'allora Comune di Taranto, che si era espresso in maniera contraria all'opera, aveva fatto ricorso al Tar di Lecce rimarcando, tra le motivazioni, l'illegittimità del provvedimento. Il ricorso è stato bocciato dal tribunale amministrativo pugliese e la sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato. Nel 2013, l'iniziativa ha ricevuto l'autorizzazione unica.

Nel settembre 2021, si è giunti alla fase finale, con lo sbarco delle componenti e della nave cantiere Mpi Resolution di Van Oord, che sta supportando l'assemblaggio. Oggi i lavori si sono sbloccati, anche se, ad allungare i tempi, nell'ottobre 2021 c'è stato uno stop ad opera appena iniziata, poi superato, a causa di un problema tecnico. Dopo l'infissione parziale nei fondali delle fondazioni monopalo (400 tonnellate di acciaio, lunghe 50 metri, diametro di 4,5 metri), si è svolto l'assemblaggio delle torri suddivise in quattro segmenti. È stata poi montata la prima turbina ed infine, con un sistema di gru, le tre pale, che si muoveranno con la spinta del vento e trasformeranno questa forza naturale in energia. Le turbine, ultime nel montaggio, sono prodotte da MingYang Smart Energy, tra i maggiori produttori cinesi di queste componenti, al loro primo grosso lavoro in Europa. Non lontana dal parco eolico, a tre km, c'è la sottostazione elettrica che, attraverso un sistema di cavi, riverserà l'energia green nella rete Terna e da qui la stessa sarà poi diffusa sul territorio. 

Questa tecnologia "riduce tutti i tradizionali elementi di inquinamento", sottolinea Riccardo Toto, direttore generale Renexia, "e nel periodo della concessione, 25 anni, in cui saremo a Taranto, vogliamo avviare un percorso per diventare parte di questa città che ci sta ospitando, a cui siamo grati e a cui forniremo energia. Ci stiamo impegnando per creare una filiera industriale intorno al parco, per valorizzare le risorse imprenditoriali e professionali già presenti e far nascere una filiera italiana per la realizzazione e gestione di parchi eolici offshore, per far diventare Taranto il punto di riferimento di questo settore".

Il primo eolico offshore che cambia il Mediterraneo. Alessandro Ferro il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A Taranto è nato il primo parco eolico offshore d'Italia e dell'intero Mediterraneo: ecco come è nata l'opera, quali sono i vantaggi e i progetti futuri.

Nelle acque del Golfo di Taranto è stata completata l'installazione della prima turbina di Beleolico, il primo parco eolico marino offshore in Italia e nell'intero Mar Mediterraneo.

L'opera

I tecnici specializzati di Renexia, la società del Gruppo Toto titolare del progetto, hanno ultimato il posizionamento di tutte le componenti del primo aerogeneratore chiamato G07. Le fasi di assemblaggio hanno consentito l'installazione delle torri, suddivise in 4 segmenti, poi è stato il turno della turbina e delle tre pale. Beleolico, come si legge sull'Ansa, sarà composto da dieci turbine per una capacità complessiva di 30 MegaWatt in grado di assicurare una produzione di oltre 58mila MW ogni ora, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. Nell'arco di 25 anni, è stato stimato che si potranno risparmiare circa 730mila tonnellate di Co2. "L'operazione - ha spiegato Renexia in una nota - rappresenta il primo passo del nostro Paese in un articolato percorso di transizione energetica, verso gli sfidanti obiettivi del nuovo Piano Nazionale Energetico (Pniec) che prevedono per l'Italia 114Gw di energia da fonti rinnovabili al 2030. La città di Taranto diviene così il centro di partenza dell'energia del futuro, pulita e sostenibile, grazie al vento e al mare".

I vantaggi dell'eolico offshore

L’eolico in mare è una tecnologia che porta vantaggi nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili, perché sfrutta il vento del mare che ha una forza maggiore. In questo modo, Beleolico sarà in grado di generare più energia rispetto a un impianto eolico sulla terraferma. I vantaggi per l'ambiente sono notevoli: non occupa un suolo fisico, costituisce una vera alternativa per la produzione di energia pulita perché riduce la produzione CO2 ed è un concreto contributo al percorso di transizione ecologica ed energetica che l’Italia ha intrapreso. Finalmente, verranno sfruttati i venti che rendono vantaggiosa la realizzazione di altre centrali eoliche offshore grazie alla nuova tecnologia delle pale che presentano rotori sempre più efficienti e impianti sempre più alti che catturano meglio le correnti d'aria. E poi, per evitare la problematica della profondità dei fondali, molti impianti non saranno più fissati ma "ancorati" come fossero un impianto galleggiante.

L'obiettivo futuro

Ecco perché, tra qualche anno, le centrali eoliche potranno essere costruite a largo a differenza di Taranto con la centrale che si trova a poche decine di metri dal molo. Come si legge su Repubblica, però, Taranto non è che la prima "pietra" di un progetto molto più ambizioso di Renexia che ha l'obiettivo di realizzare il parco galleggiante offshore più grande del mondo nel Canale di Sicilia tra la Tunisia e la zona compresa tra Trapani e Mazara del Vallo ad una profondità compresa tra 100 e 600 metri. "Il progetto - di cui fa parte anche il fondo di investimento Apollo - è nella fase delle autorizzazioni e prevede un investimento da oltre 9 miliardi per un totale di 190 pale distanziate l'una dall'altra da 3,5 chilometri, per una potenza installata complessiva da 2.900 megawatt". Questa potenza, da sola, sarebbe capace di di soddisfare il fabbisogno di energia di tutta la popolazione siciliana, intorno ai 5 milioni di abitanti secondo le ultime stime.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        Il Gas metano.

Estratto dall'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 settembre 2022.

Viene da "caos" la parola gas, inventata dall'alchimista fiammingo van Helmont (1557-1644). Gli pareva, ci avverte Savinio (Nuova Enciclopedia, Adelphi), che il "vapore sottile", che sarebbe stato poi chiamato anidride carbonica, somigliasse alla sostanza imponderabile del caos, aria fissa e massa informe, il vuoto di materia che, secondo Platone, diede origine a tutte le cose. 

Duemilacinquecento anni dopo, dunque, il caos della filosofia greca è il gas che racconta il nostro tempo di rigassificatori negati, di rubinetti che si chiudono e bollette che rincarano, del tubo di acciaio che dalla Russia, attraversando la Mongolia, arriverà in Cina.

Gas è il monosillabo che racchiude "un mondo in cui spaventose energie, e non parlo solo degli arsenali nucleari, dormono di un sonno leggero" scrisse Primo Levi, che era un chimico, narratore della tavola degli elementi (Il sistema periodico, Einaudi), amico dell'Idrogeno, che è il più leggero dei gas, e discendente dell'Argon, che è il più nobile dei gas. Ma, ci spiega la filologia, avendo gas e caos la stessa radice dei verbi greci dell'ottimismo, il campo semantico si allarga.

Così, al di là delle apparenze, il caos della matematica è lo stesso delle acque gassate. E l'effervescenza in bottiglia è lo stesso subbuglio delle città: caos e gas di scarico, dare gas e sentirsi gasati nel caos calmo, nel fuoco che produce gas e nel gas che diventa fuoco, anche quello delle passioni tossiche di Gianna Nannini: "Quest' amore è una camera a gas".  […] 

E sullo sfondo del Grande Disordine c'è sempre Pirandello che nacque nella contrada Caos, "il luogo dove avvengono i naufragi". E però, a ricordarci che ben prima dello scellerato Putin, la parola gas rimandava alla guerra e alla morte, c'è ancora Primo Levi che, nel suo memorabile ultimo articolo intitolato "Il buco nero di Auschwitz", scrisse che era stato il "gas prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche" a garantire l'eliminazione fisica di milioni di persone con metodo industriale. E oggi quel gas torna a dare la morte di Stato nelle prigioni della Carolina e persino in Italia dove i detenuti si suicidano sniffando le bombolette che alimentano i fornelli.

"Esplodere o implodere, questo è il problema" si chiedeva Italo Calvino (Cosmicomiche - Einaudi) facendo il verso all'Amleto: "che sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola". 

Grazie al carobollette ENI aumenta gli utili di 10 miliardi: + 311%.  Valeria Casolaro su L’Indipendente il 29 ottobre 2022.

Volano i guadagni di Eni nel 2022: nei primi nove mesi dell’anno corrente l’azienda ha aumentato del 311% i propri profitti, superando i dieci miliardi di euro di utile netto, escluse le spese straordinarie. Nonostante ciò, il Cane a sei zampe ha deciso di tagliare le forniture di metano ad Acciaierie d’Italia (ex Ilva), la più grande acciaieria della penisola, perché considerata morosa e inadempiente per via di 300 milioni di euro di bollette non pagate. La fabbrica ha ora 90 giorni di tempo per trovare un fornitore che sia disposto a siglare un contratto nonostante la situazione in cui verte.

Eni ha dichiarato di aver dovuto «valutare con la massima prudenza il proprio impegno sulle forniture di gas per l’anno termico 2022/23», per via «della forte incertezza e instabilità che da molti mesi caratterizzano lo scenario dei mercati energetici». Il gruppo ha in effetti precisato di registrare una perdita netta nelle attività italiane di circa un miliardo di euro, soprattutto per via della tassa sugli extra-profitti, il cui importo finale, da saldare il 15 dicembre, ammonterà a 1,4 miliardi (provvedimento contro il quale l’azienda ha comunicato di aver fatto ricorso).

Al via, quindi, lo stop alle forniture di metano ad Acciaierie d’Italia, per via dell’inadempienza nei pagamenti. Al momento a rifornire la fabbrica è Snam, controllata dello Stato tramite la Cassa depositi e prestiti a mezzo del “servizio di default”, disciplinato da una delibera di Arera. L’erogazione del servizio era stata sospesa lo scorso 30 settembre, tuttavia Eni ha comunicato di aver «offerto la possibilità di prolungare la fornitura di gas per il mese di ottobre a tutti i nostri clienti che avessero contratti in scadenza a fine settembre e che non avessero potuto concludere accordi con altri fornitori», compresa Acciaierie d’Italia. [di Valeria Casolaro]

Eni taglia il gas ad Acciaierie d’Italia-ex Ilva che non ha pagato forniture per 300 milioni di euro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Ottobre 2022.

Il dossier ILVA rischia di diventare la prima questione industriale da risolvere per il nuovo governo Meloni. E' partita una corsa contro il tempo per reperire un fornitore di gas per o stabilimento siderurgico di Taranto

Se persino l’ENI, fornitore che storicamente ha sempre fornito metano all’ex ILVA, ora Acciaierie d’Italia, ha smesso di fornire energia alla più grande fabbrica d’Italia, che ha accumulato debiti per circa 300 milioni di fatture non pagate alla società energetica, allora è necessario interrogarsi sulla gestione di Lucia Morselli . Se quella di Taranto non fosse la più grande acciaieria italiana che al momento non è priva di gas alimentando con la sua materia prima prodotta gli impianti del Nord a forno elettrico, non ci sarebbe da preoccuparsi. E’ partita una corsa contro il tempo per reperire un fornitore di gas. 

Per rifornire Acciaierie d’Italia all’ ENI è subentrata la Snam, un’ altra società di Stato controllata tramite Cassa depositi e prestiti, grazie al “servizio di default” che disciplinato da una delibera Arera, l’autorità garante per l’energia, che concede 90 giorni di tempo per trovare un fornitore che faccia un contratto a chi si trova in questa situazione. Il periodo di default vero e proprio quindi partirebbe, il 1° gennaio, considerato che l’ENI, a causa della morosità ed inadempienza dell ’ex Ilva, ha interrotto l’erogazione lo scorso 30 settembre. Peraltro una successiva delibera dell’ Arera emanata lo scorso 12 ottobre, consentirebbe all’ENI di poter firmare contratti mese per mese con pagamento anticipato, con Acciaierie d’Italia, a condizioni molto peggiorative per la società guidata dall’ Ad Lucia Morselli.

Il dossier ILVA rischia di diventare la prima questione industriale da risolvere per il nuovo governo Meloni. CI sono alcuni decreti attuativi, in carico al ministero del Tesoro ora guidato da Giancarlo Giorgetti, che da ministro dello Sviluppo economico riuscì a far riconoscere nel decreto Aiuti-bis di agosto 1 miliardo di euro in carico a Invitalia, frutto dell’accordo con cui Acciaierie d’Italia si è dotata di una governance paritetica pubblico-privato che concede al socio ArcelorMittal il 50% del capitale ancora per poco . Quei soldi che servivano all’aumento del capitale sociale previsto dagli accordi fra lo Stato e la multinazionale franco-indiana, non sono ancora arrivati ma difficilmente potrebbero essere usati per pagare gas ed energia elettrica. In tal caso potrebbero essere ritenuti “aiuti di Stato”. Che sono vietati dalle normative comunitarie europee. Redazione CdG 1947

Le eco trivelle di Cingolani per trovare gas: "Senza autonomia schiavi della Cina". Il consulente del governo sull’energia spiega come trovare altri giacimenti. A Bracciano avviata la ricerca di litio. C’è il rischio che sia bloccata. Annarita Digiorgio il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Durante il suo intervento programmatico il Presidente Meloni ha detto che «abbiamo il dovere di sfruttare i giacimenti di gas nei nostri mari». Una rivoluzione politica rispetto all'egemonia no Triv degli ultimi anni. E poco importa se Meloni o Salvini avessero invitato a votare contro lo «Sblocca Italia» di Renzi nel 2016: quel referendum non raggiunse il quorum, perché a mobilitarsi furono solo i governatori «notriv» del Pd. Ma la moratoria sulle trivelle è arrivata lo stesso, due anni dopo, con l'avvento dei grillini al governo. E nel frattempo è scoppiata una guerra. Durante l'ultima campagna elettorale, sfidando il populismo decrescista, il centrodestra si era unito nella promessa di aumentare la produzione nazionale. Ora che hanno vinto le elezioni, il governo ha confermato quelle intenzioni. Ma tecnicamente cosa farà? Ne abbiamo parlato con Roberto Cingolani, in una chiacchierata informale al rientro dal Lussemburgo. 

La continuità è data dal passaggio di consegne del decreto sull'Energy Release che Cingolani aveva annunciato sullo scadere del governo Draghi, e su cui il governo Meloni ha deciso di metterci la firma. Con quel decreto verranno messi a disposizione delle aziende energivore italiane due miliardi di metri cubi di gas nazionale ad un prezzo particolarmente vantaggioso.

Per ottenere questo gas, che altrimenti gli operatori venderebbero sul mercato, li si autorizza nel frattempo a esplorare altre zone in cui ci sono già dei giacimenti attivi, arrivando a raddoppiare la produzione italiana fino a 5/6 miliardi di metri cubi nei prossimi due anni e mezzo. Per riaprire nuovi giacimenti invece va rivisto completamente il «Pitesai», che era fermo da un sacco di tempo sostituito dalle moratorie del governo Conte, ma comunque frutto di quella stagione. 

Ma conviene oggi aprire nuovi pozzi in Italia, rispetto all'osservazione di avere giacimenti troppo frazionati, con poco gas e quindi poco remunerativi? I dati attuali in realtà sono relativi a ricerche effettuate venti anni fa. Ma ci sono cose che si possono fare abbastanza facilmente come il raddoppio della produzione da quelli già attivi. «Opere chirurgiche e non ciclopiche - dice Cingolani - ma va ricordato che i croati tirano su un sacco di gas da giacimenti che sarebbero anche nostri». 

Cingolani è d'accordo con quanto ci ha raccontato il presidente di Federacciai Antonio Gozzi sulla capacità delle aziende italiane di lavorare alla cattura di co2: «Qualunque sistema di produzione di energia con carbon Capture dimezza la co2, i norvegesi questa cosa la fanno normalmente». In Italia invece i passati governi hanno fermato questa opzione, ma anche questa scelta è frutto solo di una decisione politica. «Tecnicamente si può fare, è utile, e se adesso ci sono linee diverse vanno esplorate». Ma purtroppo anche se finalmente il governo ha una linea politica diversa, trova ancora forti avversità dovute alle ritrosie nimby degli enti locali, come avvenuto su rigassificatore, tap e pale eoliche. 

Ad esempio oggi a Bracciano è stata avviata la ricerca del Litio, che è fondamentale per l'accumulo dell'energia se abbiamo deciso (ciecamente) di elettrificare tutto. Ma anche lì bisogna trivellare, e se gli enti bloccano diventeremo schiavi della Cina. Anche di questo ha parlato il Presidente Meloni nel suo discorso quando ha fatto cenno alla neutralità tecnologica. Cingolani ha più volte ricordato anche durante il governo Draghi che «siamo secondi al mondo nella produzione di carburanti sintetici, gli altri non ce l'hanno e cercano di impedirci di sfruttarla costringendoci all'abbandono totale dei veicoli a combustione, ma noi dobbiamo insistere perché un motore a carburante sintetico decarbonizza più dell'elettrico». 

L'idrogeno infine è un buon vettore, ma «se costa 7 euro al chilo quello verde è lontano da qualunque possibilità di esercizio reale. L'idrogeno grigio può costare molto meno ma devi aprire alla possibilità di carbon capture».

La morte di Mattei geniale artefice del «miracolo italiano».  La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.

Sessant’anni fa moriva Enrico Mattei. ​​«La Gazzetta del Mezzogiorno» del 30 ottobre 1962 si occupa del caso: tre giorni prima il fondatore e presidente dell’Eni, Ente nazionale idrocarburi, ha perso la vita in un misterioso incidente aereo. Il bimotore Morane Saulnier di Mattei - partito dall’aeroporto Fontanarossa di Catania e diretto a Milano Linate - è precipitato a Bascapè, in provincia di Pavia. La «Gazzetta» segue l’inchiesta e pubblica in prima pagina la foto dell’on. Aldo Moro mentre esprime le sue condoglianze alla vedova. Nato ad ad Acqualagna, nelle Marche, nel 1906, Enrico Mattei inizia giovanissimo a lavorare come operaio; a meno di trent’anni si mette in proprio fondando l’Industria Chimica Lombarda. Nel 1943 si unisce alla Resistenza e nel maggio 1945 sfila accanto a Ferruccio Parri e Luigi Longo nella Milano appena liberata. Nominato commissario liquidatore dell’Agip, riesce a salvare e rilanciare l’azienda, dando nuovo impulso alle perforazioni petrolifere. Si batte per la creazione dell’Eni, di cui nel 1953 viene eletto presidente: opponendosi strenuamente al cartello delle «sette sorelle», Mattei avvia la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano e gestisce con grandi risultati la politica energetica dell’Italia. Sull’incidente aereo si addensano subito molti dubbi. Si legge sulla «Gazzetta»: «Sono proseguiti oggi gli esami della commissione tecnica presieduta dal generale d’aviazione Savi per cercare di stabilire la vera causa della tragica morte di Enrico Mattei: per ora si è sempre costretti a mantenersi nel campo delle ipotesi». Scartata la possibilità che il pilota, considerata la sua esperienza, abbia commesso un errore, restano da seguire poche altre piste: un malore del comandante o forse un guasto a bordo. «Un atto di sabotaggio?» - si chiede ancora il cronista - «qualcuno dei testimoni dice d’aver sentito, prima del boato a terra, il fragore lontano d’una esplosione..». Prende piede, si legge sulla «Gazzetta», un’ultima ipotesi: il simultaneo blocco dei due reattori dell’aereo. «Occorre tenere presente a questo proposito che soltanto venerdì scorso a Parigi un apparecchio del tutto simile a quello dell’ing. Mattei è precipitato con tre alti ufficiali a bordo in seguito al blocco dei reattori». Solo nel 2003 si stabilirà con sicurezza che l’aereo era stato sabotato la sera precedente con una piccola carica di esplosivo. La dinamica è, quindi, ormai chiara, ma - a causa della sistematica attività di depistaggio e occultamento delle prove emersa nel corso delle indagini - resta ancora il mistero sui reali mandanti dell’attentato in cui ha perso la vita uno degli artefici del «miracolo economico» italiano del dopoguerra.

Enrico Mattei, perché all'Italia manca una figura come la sua. Giancarlo Mazzuca su Libero Quotidiano il 29 ottobre 2022

A sessant' anni dalla tragica scomparsa di Enrico Mattei, la figura del rifondatore dell'Eni è sempre più al centro dell'attenzione generale. In un comunicato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha definito ieri un uomo delle istituzioni capace di dare grandi benefici all'Italia e, al tempo stesso, in grado di far crescere anche i Paesi produttori di petrolio e gas.

Il capo dello Stato ha aggiunto che l'azione di Mattei «ha contribuito a porre l'Italia al crocevia dei dialoghi di pace e di cooperazione per lo sviluppo». Non solo: secondo il Quirinale, Enrico appartiene a pieno titolo «alla schiera dei costruttori della Repubblica». È proprio il caso di dire che, con la gravissima crisi energetica che ci sta mettendo alle corde, l'esempio dell'imprenditore marchigiano (era nato nel 1906 ad Acqualagna, una delle capitali del tartufo) è al centro dell'attenzione generale.

Sempre ieri il premier Meloni ha, infatti, definito Mattei «un grande italiano che ha contribuito a fare dell'Italia una potenza economica». Ma già martedì scorso, nel suo intervento alla Camera, il presidente del Consiglio l'aveva considerato uno dei maggiori artefici della ricostruzione post-bellica dell'Italia. La neo-premier aveva anche reso nato un suo progetto: il governo dovrebbe farsi promotore di «un piano Mattei» per l'Africa in grado di frenare l'ondata migratoria verso il Belpaese.

Il padre del cane a sei zampe è stato ricordato molto spesso negli ultimi mesi e tanti, a causa dei prezzi del petrolio e del gas sempre più alti per via della guerra in Ucraina, si sono chiesti come lui avrebbe affrontato, se fosse stato ancora vivo, una simile emergenza. Lui si sarebbe certamente stupito nel constatare come l'Italia fosse caduta così in basso sul piano energetico ma poi avrebbe anche indicato la strada giusta per poterci risollevare. È il caso dei rapporti con l'Algeria che l'Eni aveva molto potenziato a cominciare proprio da quel gasdotto che, partendo dal Sahara, si chiama appunto «Enrico Mattei». Rapporti con Algeri molto stretti che, nel corso degli anni, non vennero poi mantenuti tanto che oggi stiamo bussando con il cappello in mano (vedi la recente visita in Africa dell'ex-premier Draghi) per cercare di ottenere un po' di quel greggio che ci manca. Se ci fosse stato ancora Enrico...

A sessant' anni di distanza, quel tragico schianto del bireattore francese Moraner-Saulnier a Bascapé nel Pavese (a bordo, oltre a Mattei, c'erano il pilota Alessio Bertuzzi ed il giornalista americano William McHale) è diventato un "giallo" sempre più intricato tenendo anche conto che alla «cloche» sedeva un pilota molto esperto. Ormai nessuno parla più di un semplice incidente e lo stesso Mattarella ha detto ieri che, sulla morte di Mattei, «grava l'ombra di un criminale attentato». Tra le ipotesi ancora in piedi, quella più accreditata coinvolge i servizi segreti francesi proprio in considerazione del fatto che l'Eni aveva deciso di investire molto sul petrolio algerino. Altri due possibili scenari tirano invece in ballo le "Sette sorelle", le grandi compagnie petrolifere internazionali, ed anche la mafia soprattutto dopo l'omicidio, nel 1970, del giornalista Mauro De Mauro che era stato incaricato di indagare su quel disastro aereo. Tante ipotesi che forse resteranno tali per sempre. A questo punto, una sola cosa è certa: oggi più che mai in Italia manca una figura come Mattei. Sul fronte petrolifero e non solo. 

Enrico Mattei, l’uomo che sfidò i giganti del petrolio: un mistero che dura da 60 anni. Massimiliano Jattoni Dall’Asèn su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

E’ la sera del 27 ottobre 1962. Mancano tre minuti alle 19. Un bimotore Paris II, decollato alle 16:57 da Catania e diretto a Milano Linate, sta sorvolando le campagne del Pavese, non lontano da Melegnano. Dalla torre di controllo seguono la manovra a pochi minuti dall’atterraggio, quando il velivolo scompare dal radar. L’allarme è immediato, ma nei campi vicino al paesino di Bascapè, in provincia di Pavia, i soccorritori trovano solo i rottami dell’aereo. E i resti, sparsi un po’ ovunque, dei tre uomini che si trovavano a bordo: Enrico Mattei, presidente dell’Eni, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale, della testata Time–Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Nel giro di 24 ore la notizia fa il giro del mondo. Inizia così uno dei tanti misteri irrisolti d’Italia.

Le origini

A 60 anni esatti dalla morte, il «caso Mattei» è un cold case. Il velivolo precipitò a causa di un malore del pilota? O fu un attentato? Certo è che il biplano Paris II aveva già subito un sabotaggio in passato e Mattei era un uomo molto discusso, che aveva diviso con la sua spregiudicatezza l’opinione pubblica. Nato ad Acqualagna il 29 aprile 1906 in una famiglia di modesta estrazione, Enrico Mattei inizia a lavorare come operaio in una conceria a Roma, ma è cosa di breve durata: nel giro di breve ne diventa direttore. Quando si trasferisce a Milano si reinventa rappresentante di commercio per l’azienda di vernici Max Meyer, ma soli trent’anni avvia una sua attività, l’Industria chimica lombarda. Ma ad animare Mattei non sono solo ambizione e un incredibile fiuto: il figlio del brigadiere Antonio vuole meritarsi quello che ha e in quegli anni torna a studiare per diplomarsi come ragioniere («Mio padre diceva che è brutto essere poveri, perché non si può studiare e senza titolo di studio non si può fare strada», ricorderà molti anni dopo durante il discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Camerino) . Ma i venti di guerra spirano sull’Italia e sui sogni del giovane Mattei. Il conflitto è una parentesi che lo vede comandante del Corpo volontari per la libertà come partigiano “bianco”, per la sua estrazione cattolica. Dopo la liberazione di Milano, sfila in testa al corteo del 6 maggio 1945 a fianco di Luigi Longo, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna. Tre giorni dopo viene nominato commissario liquidatore della Snam e dell’Agip, l’azienda statale per il petrolio fondata da Mussolini nel 1926. 

Il petrolio

Invece di seguire le istruzioni del nuovo Governo repubblicano, intravedendo i possibili sviluppi, Mattei decide di non chiudere «il carrozzone statale» e riprende le trivellazioni abbandonate durante il conflitto. Ed è un successo: a Caviaga, in Val Padana, trova il metano, mentre nel 1949, con un vero e proprio colpo di scena, da un pozzo a Cortemaggiore zampilla improvvisamente l’oro nero. «L’Italia ha il petrolio. Ne ha tanto da bastare a se stessa — è l’annuncio entusiasta sul Corriere della Sera dell’epoca — e forse potrà entrare in concorrenza con le altre Potenze produttrici». Ma la gestione disinvolta delle risorse dello Stato da parte dell’imprenditore e neoeletto nelle fila della Democrazia Cristiana accende un forte dibattito in Parlamento. Nulla che comunque lo fermi. Mentre costruisce l’architettura della sua creatura, spaziando dalle pompe di benzina, ai gasdotti, ai moderni Motel Agip, Mattei non ha tempo di andare per il sottile. Nella costruzione del polo petrolchimico di Ravenna si vanterà lui stesso d’aver violato più di 8mila leggi e ordinanze. E così all’accusa di dare quattrini ai partiti in cambio di favori e di finanziare anche i fascisti del Movimento sociale italiano, Mattei risponde senza nascondersi: «Io uso i partiti come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo».

Gli appoggi (trasversali) della politica

Grazie alla Dc, ma anche a una maggioranza politica trasversale a tutto il Parlamento, Mattei si affaccia sul palcoscenico internazionale: acquista petrolio dall’Urss, stipula un accordo con lo scià di Persia offrendogli il 75% degli utili, cerca petrolio in Libia, Egitto, Giordania, pestando i piedi al cartello anglo-americano delle Sette Sorelle. Mentre in Tunisia, Marocco e Algeria, Mattei arriva a intromettersi negli affari interni attirandosi molte antipatie, e nell’agosto del 1961 gli arriva una lettera minatoria dall’O.A.S., l’associazione terroristica dell’estrema destra francese, contraria all’indipendenza algerina.

L’ostilità francese

Ma Mattei non cerca volutamente nemici. «In qualche momento della presidenza Mattei — racconta il suo successore all’Eni, Eugenio Cefis a Dario Di Vico, in un’intervista pubblicata sul Corriere il 6 dicembre 2002 — forse poteva anche prevalere la logica di “molti nemici, molto onore” e con il senno di poi si può sicuramente dire che c’era della mitologia». «Francamente non penso che qualcuno si potesse illudere che ammazzando Mattei si potesse distruggere l’Eni. Nessuno lo poteva pensare... Se devo ragionare in termini di fantapolitica, allora più che a un sabotaggio americano penserei a un attentato di ostilità francese. Avevano ancora il dente avvelenato per i nostri rapporti con l’Algeria».

La versione di Vincenzo Calia

Trascorrono i decenni e le ipotesi sulla morte di Enrico Mattei si accumulano. Le indagini sulla morte si scontrarono con gravi depistaggi. Sul banco degli imputati ci sono l’Oas, l’organizzazione di estrema destra francese, l’intelligence francese, la Cia, la mafia. Ssi pensa che anche il giornalista Mauro De Mauro sia stato ucciso dalla mafia mentre stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Mattei, mentre per altri Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato anche lui ad indagare sulla morte del presidente dell’Eni. Le prime inchieste dell’aeronautica militare e della magistratura chiudono però le indagini come disastro accidentale. Per rimettere tutto in discussione bisognerà attendere il 1994, quando un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, decide di riaprire le indagini colpito dalle rivelazioni del boss Tommaso Buscetta che aveva collegato l’incidente di Bascapè e la morte del giornalista Mauro De Mauro che indagava sull’incidente dell’imprenditore per conto del regista Francesco Rosi, alle prese con il film Il caso Mattei. «Il magistrato Calia — scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 7 marzo 2003 — ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma ha vigorosamente argomentato come, a suo giudizio, Mattei sia stato vittima di un attentato i cui mandanti vanno cercati in Italia...». 

Sessant'anni dal caso. Chi era Enrico Mattei: la storia del Presidente dell’ENI e del più grande mistero della storia d’Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Enrico Mattei è stato imprenditore, partigiano, editore, dirigente pubblico, fautore di una politica estera alternativa, protagonista del boom economico e vittima di quello che è spesso definito il più grande giallo della storia della Repubblica italiana: il mistero del suo aereo che precipitò a Bascapè, in provincia di Pavia, il 27 ottobre del 1962, dopo l’esplosione di una bomba sul velivolo. A sessant’anni dalla morte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato per come “mise a disposizione la sua esperienza di dirigente industriale dando impulso alla ricostruzione con una forza e una capacità di leadership che lo hanno reso una personalità simbolo della ripresa produttiva del Paese nel dopoguerra. La sua azione ha contribuito a porre l’Italia al crocevia dei dialoghi di pace e cooperazione per lo sviluppo. Con coraggio ha proseguito nella sua opera, pur conoscendo bene quali poteri e quali interessi gli erano avversi. Il suo esempio e la sua figura appartengono a pieno titolo alla schiera dei costruttori della Repubblica”.

Enrico Mattei era nato ad Acqualagna, oggi provincia di Pesaro e Urbino, il 29 aprile 1906. Primo di cinque fratelli, il padre era sott’ufficiale dei carabinieri, la madre casalinga. A 13 anni cominciò a lavorare come verniciatore, poi come garzone in una conceria a Matelica di cui sarebbe diventato direttore nel giro di poco, a soli vent’anni. Quando nel 1929 si trasferì a Milano fondò una propria azienda nel settore chimico. Era iscritto al partito fascista e nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulus.

Quando nel 1943 lasciò la guida dell’azienda a due suoi fratelli, si unì alla Resistenza ed entrò a far parte del comando militare del Comitato di Liberazione Nazionale, in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Il 29 aprile 1945 sfilò a Milano alla testa delle formazioni partigiane, fu insignito della Medaglia d’oro della Resistenza e della Bronze Star dell’esercito americano. Subito dopo la guerra fu incaricato di liquidare l’Agip, l’Azienda Generale Italiana Petroli, nata durante il fascismo e soprannominata “Associazione gerarchi in pensione” per gli scarsi risultati ottenuti.

Lui decise di rilanciarla, convinto che un’impresa nazionale potesse rappresentare la strada principale per l’indipendenza energetica dell’Italia. Da un’ex dirigente allontanato dall’azienda venne a sapere di un giacimento di petrolio a Caviaga, nel lodigiano. C’era metano, non petrolio, che in compenso cominciò a essere estratto a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza. Le attività di estrazione continuarono veloci e numerose in Pianura Padana, così come vennero realizzati gasdotti che collegarono tutto il Paese. A Ravenna venne fondato uno dei primi poli petrolchimici. Enrico Mattei fondò nel 1953 l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, che andò a incorporare la vecchia Agip. Per simbolo venne scelto l’iconico cane a sei zampe che sputa fuoco, “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote”.

Le stazioni di servizio con i gabinetti, la pulitura dei vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici furono altre trovate di Mattei che intanto finanziava partiti, correnti e giornali. Mattei nel 1956 contribuì alla nascita del quotidiano Il Giorno, che sosteneva le imprese dell’Eni e la linea della sinistra democristiana di Amintore Fanfani. Per sopperire alla penuria di risorse energetiche Mattei uscì dai canali ufficiali, controllati dagli Stati Uniti, per recuperare fonti cominciò a trattare direttamente con Paesi ricchi di petrolio come Libia, Marocco, Iran ed Egitto. Gli accordi con questi Paesi prevedevano la cessione agli stessi del 75% dei profitti, il coinvolgimento di questi nel processo produttivo e la qualificazione della forza lavoro locale. Si parlava all’epoca in Italia di “neoatlantismo”: una politica inserita nel Patto ma aperta a collaborazioni con i Paesi non allineati.

Il successo di Mattei entrò però in conflitto con le grandi compagnie petrolifere, per lo più statunitensi, che definiva ironicamente “le sette sorelle” (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum) che ai Paesi del Medioriente offrivano al massimo i 50% dei profitti. “Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”, si leggeva in un rapporto del Dipartimento di Stato americano del settembre 1957.

Questo successo suscitò preoccupazione e contrasti anche nella stessa Italia dove pure ambienti politici e industriali erano sostenuti dai finanziamenti di Washington. Mattei nel 1960 concluse anche un accordo con l’Unione Sovietica che prevedeva il rifornimento di petrolio in cambio di merci italiane. Una specie di linea rossa. Mattei si schierò inoltre per l’indipendenza dell’Algeria (ricca di petrolio) dalla Francia. Dopo questa iniziativa ricevette le minacce dell’Organisation de l’Armée Secrète, un’organizzazione di estrema destra francese. A Mattei è stato intitolato un giardino nel centro di Algeri che porta il suo nome così come il gasdotto che tramite la Tunisia collega l’Algeria in Italia.

Mattei aveva una guardia personale, composta da ex partigiani. Stava concludendo un accordo con l’Algeria quando morì. Erano le 18:40 del 27 ottobre del 1962 quando il bireattore Morane-Saulnier, su cui stava viaggiando da Catania a Milano, precipitò in discesa verso l’aeroporto di Linate. A Bascapè, in provincia di Pavia. A bordo con lui c’erano Irnerio Bertuzzi, ex pilota dell’aeronautica militare, e il giornalista di Life William McHale. La prima inchiesta sullo schianto si concluse nel 1966 con il “non doversi procedere in ordine ai reati rubricati a opera di ignoti perché i fatti relativi non sussistono”.

Si parlò di una manovra mal eseguita e perfino di suicidio da parte del pilota. Una commissione di inchiesta ipotizzò un’avaria. Alcuni testimoni, contadini di Bascapè, avevano però raccontato, nelle ore successive all’incidente, di aver visto l’aereo incendiarsi in volo. La tesi dell’attentato travisato da incidente venne avanzata dal celebre film del 1972 Il caso Mattei diretto dal regista Francesco Rosi e interpretato dall’attore Gian Maria Volontè.

Fanfani nel 1986 parlò del caso Mattei come del primo gesto terroristico in Italia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta raccontò ai magistrati che “il primo delitto ‘eccellente’ di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell’Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione”. Una richiesta secondo il collaboratore di giustizia arrivata dalla mafia americana. L’inchiesta aperta nel 1996 a Pavia e chiusa sette anni dopo, con dodici perizie e 612 testimonianze, portarono alla conclusione: sull’aereo era esplosa una bomba.

I mandanti dell’attentato non furono mai individuati: le ipotesi più accreditate rimandano proprio a mafiosi italiani su mandato della mafia italoamericana. Al caso di Mattei è collegata la scomparsa del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro: il cronista era stato incaricato dal regista Rosi di raccogliere elementi per il suo film. De Mauro scomparve nel nulla, e non fu mai più ritrovato, il 16 settembre del 1970. Il processo per la sparizione si è concluso nel 2011. La Corte di Assise di Palermo confermò che la Mafia voleva coprire i mandanti dell’attentato di Bascapè. I giudici aggiunsero nella sentenza che la morte di Mattei fu un attentato eseguito “su input di una parte del mondo politico”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 26 ottobre 2022.

La parabola di Enrico Mattei (1906-1962) si è conclusa nei cieli sopra Bascapè quando il Morane-Saulnier MS.760, con cui stava tornando a Milano da Catania, precipitò nelle campagne pavesi, dopo essere esploso in volo, mentre era in fase di avvicinamento all'aeroporto di Linate. Si chiudeva così, con la morte del suo inventore, un tentativo di indipendenza energetica che nel mondo non aveva eguali e aveva fatto del cane a sei zampe un simbolo.

Quanto potesse essere pericoloso muoversi nell'ambito della guerra energetica che caratterizzava quegli anni può illustrarlo un altro episodio mai completamente risolto e, guarda caso, legato ad un incidente aereo. Nel 1961, l'anno precedente alla morte di Mattei, Dag Hammarskjöld, il secondo Segretario generale delle Nazioni Unite moriva a bordo di un Douglas DC-6 dell'Onu. 

Si era in piena crisi del Congo, uno dei principali fornitori mondiali di uranio. Il clima mondiale era quello, una guerra fredda dell'energia e del petrolio e, forse, vedendo le attuali guerre dell'energia e del gas, non è cambiato, anzi.

Non stupisce quindi che il caso Mattei su cui si è giunti ad una tardiva verità giudiziaria, che però non porta verso colpevoli certi, abbia attirato l'attenzione sia di storici e giornalisti che di romanzieri. È di oggi l'uscita, per i tipi di Feltrinelli, di L'Italia nel Petrolio (pagg. 544, euro 25) a firma di Riccardo Antoniani (ricercatore alla Sorbone Nouvelle) e di Giuseppe Oddo (giornalista d'inchiesta). 

Il volume prende in considerazione un gran numero di documenti e nella parte iniziale si dedica ad evidenziare un dato fattuale: la differenza di visione strategica tra Enrico Mattei e il suo numero due Eugenio Cefis (1921 - 2004). Negli ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando a un'intesa triangolare fra Italia, Francia e Algeria per la posa di un metanodotto transmediterraneo che avrebbe dovuto far affluire in Europa il gas estratto nel Sahara.

A differenza di Cefis, che operò per riequilibrare i rapporti fra l'Eni e le sette sorelle e per ricondurre la politica petrolifera italiana nel perimetro, angusto ma sicuro, degli interessi economici e militari dell'Alleanza atlantica, Mattei si impegnò fino alla fine per attuare il suo progetto di indipendenza energetica che avrebbe potuto accelerare il processo di unificazione dell'Europa e trasformare l'Italia in una potenza industriale avanzata. 

Dopo la morte di Mattei le cose presero un'altra piega. Un percorso ricostruito anche da Paolo Morando in Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza 2021) che invece smonta molti dei pezzi della leggenda nera su Cefis. Soprattutto per quanto riguarda la sua ricchezza. In questa intricata vicenda non esistono pistole fumanti...

Forse anche per questo dal punto di vista letterario quello di Mattei in Italia è diventato il giallo dei gialli. 

A partire dal citatissimo romanzo, mai ultimato, di Pasolini: Petrolio (la nuova edizione curata da Walter Siti è uscita nell'aprile del 2022). Nella primavera-estate del 1972, si fece strada in Pasolini l'idea di scrivere il romanzo: divenne poi il progetto più importante sulla scrivania fino all'assassinio del 2 novembre 1975. 

In Petrolio, Pasolini voleva fare i nomi, o almeno provarci, del nuovo Potere, solo all'apparenza senza volto, che stava provocando un profondissimo cambiamento antropologico (noi ora lo chiameremmo globalizzazione e turbo capitalismo). Pasolini intuì che il potere si sarebbe fatto globale e sarebbe uscito dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato: l'azienda multinazionale. L'opera è un non finito, composto di capitoli mobili, che Pasolini chiamava «Appunti».

Al di là delle difficoltà enormi per i critici che si sono avventurati in questo infinito/non finito, dal materiale dai suoi lampi sull'Eni - veri, presunti, mancanti - escono fondamentalmente due ipotesi. La prima. Mattei sarebbe stato eliminato dalla mafia su commissione di americani e francesi, infastiditi, come dicevamo, dall'attivismo di Mattei in Africa e in Medio Oriente.

La seconda. Il colpevole sarebbe Eugenio Cefis, manager legato alla corrente democristiana di Amintore Fanfani e con precise idee politiche. 

Il teorema pasoliniano ha influenzato giornalisti e scrittori. Giusto per citare l'ultimo romanzo, in ordine di tempo: Ho ucciso Enrico Mattei di Federico Mosso, pubblicato per i tipi di Gog nel 2021, mescola con abilità realtà e finzione.

Nelle pagine ci sono Mattei e Cefis ma anche spie senza nome, che muovono segretamente le ruote della Storia. E un agente è dunque il protagonista del libro, l'uomo che ha manomesso l'aereo sul quale viaggia Mattei. La morte del giornalista Mauro De Mauro e del poeta Pier Paolo Pasolini sono legate a quel primo omicidio, Mattei, del quale forse avevano scoperto troppo? Ho ucciso Enrico Mattei prova a immaginare una risposta.

L'ultima intervista a Francesco Forte: "Mattei? Attentato premeditato". Francesco Forte (Busto Arsizio, 11 febbraio 1929 - Torino, 1º gennaio 2022) è stato uno dei più importanti studiosi, accademici e politici italiani. La sua lunga vita, è scomparso all’età di 93 anni, incrocia i passaggi più delicati e difficili della Prima Repubblica. Federico Bini il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Esclusiva

Nel luglio del 2021 avevo iniziato a scrivere un libro sui tanti incontri che ho avuto con i grandi personaggi del '900 italiano. E dopo una bella collaborazione, con una preziosa introduzione al mio libro Un passo dietro Craxi (Edizioni We), chiesi al professore e senatore Francesco Forte di potergli fare alcune domande su un uomo che aveva conosciuto da vicino e che ancora oggi continua a lasciare non solo un grande mistero sulla sua morte ma anche una grande eredità economica e politica. Il riferimento è ovviamente a Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, citato anche nel discorso di insediamento dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il professor Forte, con la gentilezza che lo contraddistingueva, non esitò a rispondere alle mie domande. Alla sua improvvisa scomparsa, avevo deciso di lasciare questa inedita intervista nel cassetto in attesa della futura pubblicazione. Ma il ritrovato interesse su una figura chiave della nostra nazione, mi ha convinto ad anticiparla, e a farla uscire oggi 27 ottobre 2022 a sessant’anni esatti dal tragico “incidente” aereo di Bascapè. Mi sia pertanto concesso di mandare un pensiero affettuoso a Francesco Forte, una mente lucida e brillante che manca all’Italia.

Professor Forte, come si diventa Enrico Mattei?

“Serve capacità imprenditoriale, che Mattei si è creato partendo da una piccola impresa marchigiana, e molta tenacia”.

È stato talmente spregiudicato nel suo modo di condurre gli affari tanto da portarlo non vicino ma direttamente alla morte?

“Mattei è stato vittima di un attentato premeditato, attuato dall’OAS, servizio segreto deviato franco-algerino, allo scopo di impedire all’Eni di operare in Algeria, con un accordo globale, riguardante il gas algerino”.

L’Italia del dopoguerra aveva intuito la sua lungimiranza?

“La lungimiranza di Mattei e la modernità dell’Eni - di cui io sono stato consulente economico dalla fondazione in poi, Gino Giugni era l’esperto per la formazione del personale - era ben nota e gli ha creato molti avversari politici e molte denigrazioni, mentre era stata capita dalle grandi multinazionali americane, che avevano deciso di allearsi con l’Eni. Sull’aereo in cui perì, vi era solo un giornalista americano, che lo intervistava in relazione agli accordi che Mattei avrebbe fatto con le sette sorelle del petrolio. Nessun dirigente dell’Eni era su quell’aereo, perché tutti sapevamo che partendo dalla Sicilia la mafia avrebbe potuto sabotarlo. Così tutti quelli che vi erano saliti all’andata, da San Donato Mianese, per l’inaugurazione della nuova e moderna raffineria Eni nel porto siculo, rimasero con un pretesto o l’altro in Sicilia e poi tornarono con aerei di linea”.

Quali erano i rapporti tra De Gasperi e Mattei? E come rimase legato politicamente alla Dc dopo la scomparsa dello statista trentino?

“Mattei aveva un rapporto particolare con Ezio Vanoni, che, a sua volta, De Gasperi aveva scelto come suo ministro per le Finanze e l’Economia, avendolo conosciuto nel 1943, quando fu fatto il Codice di Camaldoli. Io fui assunto come esperto economico, nonostante i miei 25 anni, sia perché avevo scritto saggi sulla tassazione della benzina, del gasolio, dei lubrificanti, del bollo auto come prezzo ombra per l’uso delle strade e sui pedaggi per l’uso delle autostrade, sia perché allievo e supplente di Vanoni alla sua cattedra di Scienza delle Finanze all’Università di Milano. Mattei era stato capo dei partigiani democristiani in Val d’Ossola ed era il rappresentante della Dc, nei cinque capi partigiani, che sfilarono a Milano il 25 aprile, con Pertini per i socialisti, Longo per i comunisti, il generale Cadorna per l’esercito del Regno di Italia, il cui governo provvisorio era allora a Bari”.

Montanelli lo definì come “colui che aveva legalizzato la tangente”.

“Il termine è esatto, ma con un gioco di parole, fa supporre che si tratti della illegalità diventata costume politico. Invece l’Eni faceva regolari contratti con i rappresentanti legali dei paesi petroliferi per l’uso dei loro pozzi e l’esplorazione del territorio. Solitamente costavano il 3% ed erano denunciati all’Ufficio Italiano Cambi per consentire l’esportazione legale dei capitali. Per il gas russo negli anni ‘70, l’Eni pagò una % maggiore, perché una quota andava al Pci e ci fu un condono che ne sanò l’irregolarità”.

Dalla liquidazione dell’Agip inventò l’Eni e si mise a fare concorrenza ai grandi del settore.

“L’Agip, quando Mattei la prese, aveva le piantine con i risultati delle esplorazioni petrolifere, che aveva fatto, in Libia (senza successo), in Croazia e dintorni con successo limitato, ma foriero di sviluppo, e nelle montagne di Edolo ove si era trovata la cosiddetta carbonella, che è catrame secco, indizio di petrolio, che faceva supporre che ci fosse petrolio nel Nord Italia. Gli esperti del petrolio ne erano a conoscenza e Mattei aveva chiesto di fare il capo dell’Agip perché lo sapeva, mentre gli altri pensavano che lo avesse fatto perché aveva la rete di distribuzione di benzina e gasolio. Le trivellazioni portarono alla luce poco petrolio, a Cortemaggiore e una enorme riserva di gas in Val Padana e petrolio nell’area di Novara, sotto le Alpi".

Tra le celebri battute di Mattei ce n’era una straordinaria: “Non mi entusiasma entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca”.

“Che significava che lui era un manager innovatore, come i tanti che allora sorsero in Italia. Mattei si era iscritto all’Università Cattolica, Facoltà di Economia, con preside Marcello Boldrini, illustre statistico, nato come Mattei a Matelica, nelle Marche. E Mattei, che aveva il culto dei professori di materie economiche mise a capo dell’Agip il professor Boldrini”.

In che modo la grande finanza, dagli Agnelli, Falck a Pirelli guardavano Mattei?

“Gianni Agnelli, che io ho conosciuto personalmente lo ammirava e lo considerava un alleato per il made in Italy dell’auto. In genere invece i capi delle imprese elettriche e di quelle chimiche, che erano importanti nella finanza lo osteggiavano, come pericoloso rivale”.

L’ostilità della politica italiana, così come lo fu con tanti grandi del capitalismo lo portò a prendersi un “pezzo” di Dc e a fondare un giornale, Il Giorno, guidato da Baldacci.

“Poiché tutte le grandi imprese private avevano un giornale, Mattei fece altrettanto, per difendersi, e scelse Gaetano Baldacci, giornalista innovatore”.

Quale ritratto fa di Gaetano Baldacci? E in che modo Il Giorno dal 21 aprile 1956 rivoluzionò il giornalismo?

“Baldacci aveva un oscuro passato politico, ma poteva fare giornali di ogni indirizzo. Grazie a una équipe di eccezione, che era selezionata dall’amministratore delegato. Lanciò il primo giornale di stile americano, mettendo insieme un gruppo di giornalisti innovatori, a partire da Gianni Brera per lo Sport a Giancarlo Fusco per l’umorismo a Umberto Segre per gli Esteri. Il Giorno aveva anche la 'pagina economica' novità assoluta per l’Italia. Non trovarono nessun giornalista economico. Una settimana prima di uscire in edicola presero me, come supplente part-time, in quanto scrivevo sul settimanale Il Mercurio, articoli con la rubrica Alice nel paese dei bilanci. Segre che faceva la rubrica Esteri mi chiese di dare una mano provvisoriamente e anche l’ENI me lo chiese, riducendomi gli altri impegni. Il Giorno era di centro sinistra, io ero socialdemocratico già da studente universitario. Dopo tre mesi, non trovando un giornalista economico adeguato mi chiesero di restare. Nel frattempo Massimo Fabbri, giornalista professionista che faceva le rubriche di Borsa, aveva imparato a fare la pagina a economica e ne divenne direttore, io facevo solo il fondo. Baldacci pare facesse affari pubblicando articoli di gruppi di interesse, in cambio di soldi e fu sostituito da Italo Pietra, giornalista professionista che diede lui l’indirizzo alla parte economica”.

Come mai nei progetti industriali di Mattei molta resistenza più che all’estero la trovò in Sicilia? La politica locale e l’ombra di Cosa Nostra si misero di traverso ai suoi piani di espansione?

“A mio parere e negli ambienti dei vari settori Eni con cui avevo contatto, si aveva l’impressione che ci fosse un intreccio fra i politici locali, la mafia e interessi di ambienti francesi. Non necessariamente controllati dal governo francese, che condizionavano i nostri referenti in Sicilia nella politica e nei giornali locali e di cui si capiva solo che l’Eni era osteggiato da Cosa Nostra, ma con legami con interessi sconosciuti, non certo le multinazionali americane, con cui l’Eni aveva ormai un compromesso”.

L’intuizione di Mattei per il nucleare?

“Dopo la morte di Mattei, l’Eni si era reso conto che il nucleare non avrebbe sostituito il petrolio e la petrolchimica e che vi erano energie alternative. Per cui l’economicità del nucleare appariva sempre più dubbia mentre si ingigantiva il problema delle scorie radioattive e l’Eni divenne contrario al nucleare mentre l’Enel e gli altri lo sostenevano dicendo che esso era ostacolato dall’Eni, in cui io ormai studiavo tutte le energie alternative, compresi gli scisti bituminosi, da cui ora gli Usa ricavano gran parte del gas”.

Quali erano i legami tra l’Eni e i paesi del Medio Oriente?

“Con i paesi del Medio Oriente vi erano rapporti alterni, dipendenti dal gruppo che era al potere e dal fatto che Iran e Iraq erano rivali e che l’Eni aveva trovato petrolio in Egitto e in una zona contesa da Israele. In genere l’Eni aveva ottimi rapporti con i paesi petroliferi piccoli, come il Kuwait. La formula Eni fifty-fifty in cui la metà è di una società petrolifera Eni insieme a una società petrolifera locale in minoranza, agevolava la persistenza dei rapporti di collaborazione”.

In che modo la CIA guardava all’attivismo di Mattei?

“Per quel che ne so io, alla CIA Mattei era gradito in Africa e in Medio Oriente e in particolare in Libia e in Tunisia. Non era gradito in Russia dato che ciò creava una dipendenza dall’Urss e finanziava il Pci. Ma sulla Russia la CIA, dall’epoca del comunismo asiatico faceva il doppio gioco”.

Lei ha conosciuto privatamente e istituzionalmente figure del calibro di Craxi, Andreotti, Fanfani ecc… come definirebbe Mattei?

“Un imprenditore innovatore che amava l’Italia, ma anche i paesi poveri del terzo mondo, e concepiva l’impresa pubblica come un’impresa di mercato”.

Quel “Piano Mattei” per tornare grandi nel Mediterraneo. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 27 Ottobre 2022

Nel suo discorso programmatico per la fiducia al Governo alla Camera dei Deputati il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto citare Enrico Mattei, di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario della morte: lo ha fatto per confermare l’obiettivo di far tornare grande l’Italia nel Mediterraneo, per ragioni geografiche, economiche e politiche – anche di politica internazionale, essendo il nostro Paese il fronte sud della NATO.

Queste le parole con cui la premier ha menzionato il fondatore dell’Eni: ” […] Un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo […] Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per Africa, un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub sahariana. Ci piacerebbe così recuperare il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”.

Mattei infatti voleva sviluppare il potenziale africano invitando i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente a ribellarsi alla povertà e a quello che potremmo definire l’aiuto non richiesto per farsi spiegare come sfruttare il loro potenziale di crescita economica. Tu chiamalo sovranismo se vuoi: economico ma anche energetico. Sappiamo come è andata a finire: oggi 27 ottobre scorso sono passati 60 anni dalla sua misteriosissima morte.

Messi alle strette dalle sanzioni energetiche alla Russia siamo alla ricerca di canali di approvvigionamento alternativi a quelli che fino a ieri ci forniva l’Orso bianco. Adesso Eni diversifica le importazioni, in Algeria, Congo e Nigeria, trattando anche con Gerusalemme per il gas (soluzione ideale: il gasdotto Eastmed che da Israele arriva in Puglia passando per Cipro e Grecia).

Però, però: 73 anni fa veniva scoperto a Cortemaggiore in Emilia il primo giacimento di metano e petrolio in Europa. A Cortemaggiore, vicino a Piacenza, in una perforazione di quell’ENI allora presieduta da Enrico Mattei, si scoprì il primo giacimento profondo di metano contenente petrolio dell’Europa. Grazie all’abilità di quel manager, la scoperta ebbe un grande impatto mediatico e Cortemaggiore si ritrovò sotto l’attenzione di tutti i giornali, mentre il petrolio estratto venne utilizzato per produrre una benzina chiamata appunto Supercortemaggiore. 

La scoperta del “petrolio made in Italy” (per sostenere la sua politica imprenditoriale finanziò l’apertura di un quotidiano allora assolutamente innovativo, Il Giorno) spinse Mattei a lavorare per un grande obiettivo politico ed economico, che oggi a distanza di settant’anni suona drammaticamente attualissimo: l’autonomia energetica dell’Italia.

Ma le “sette sorelle”, come Mattei chiamò quelle compagnie petrolifere mondiali (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf, Shell e British petroleum) che avrebbero dominato per fatturato la produzione petrolifera mondiale almeno fino alla crisi del 1973, non presero affatto bene questo modo di autonomia energetica dell’Italia.

Ma una notte la storia ebbe fine, quando l’aereo privato di Mattei esplose nel cielo sopra Bescapé in provincia di Pavia. Il velivolo del manager era partito da Catania con Mattei, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale per arrivare a Milano, ma prossimo a Linate precipitò: i testimoni parlarono di “una fiammata improvvisa”.

Parve fin da subito evidente che quell’incidente non fosse un incidente ma un attentato, che tra l’altro impedì a Mattei di chiudere un accordo di produzione con l’Algeria contrastante con gli interessi delle “sette sorelle”.

Qual è la verità del caso Mattei? Pasolini, forse, nella finzione narrativa del suo romanzo incompiuto “Petrolio”, ce ne lasciò una indicando… “casa nostra”, mentre oggi il collaboratore di giustizia Maurizio Avola avrebbe svelato che a mettere la bomba sull’aereo di Mattei sarebbe stata Cosa Nostra (americana).

Di certo, con la sua politica autonoma nell’ENI Enrico Mattei aveva dato fastidio alle suddette “sette sorelle” e pure all’OAS (Organisation de l’Armée Secrète) per il sostegno all’indipendenza algerina (e ora sappiamo perché). Leggete il romanzo di Frederick Forsyth “Il giorno dello sciacallo”, pubblicato nel 1971 e da cui due anni dopo Fred Zinnemann trasse un bellissimo film.

E a proposito di film, una possibile verità, fra le tante verità, ce la diede Francesco Rosi con “Il caso Mattei” del 1972. Mentre due anni fa Federico Mosso (GOG) ci diede un suo contributo con il libro “Ho ucciso Enrico Mattei”.

Sia come sia, il padre dell’ENI ci aveva giusto. Idem per il progetto di sviluppo del continente africano, quel “Piano Mattei” citato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con cui ha voluto auspicare un progetto di crescita per l’Africa con effetti economici anche per l’Italia (leggi: stabilizzazione dei flussi migratori ed energetici).

Un risultato che poteva essere raggiunto anche quando il Cav siglò col raìs Gheddafi sotto la tenda del Colonnello a Bengasi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia per ridurre il numero dei clandestini che giungevano sulle nostre coste e disporre anche di «maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità». Poi sappiamo come andò a finire. Ma oggi il Cav ha ripreso un discorso interrotto 10 anni fa rivendicando gli accordi di Pratica di Mare con cui mise allo stesso tavolo USA e Russia, Bush e Putin. Anche questa sembra attualità.

Un'Italia del futuro fra libertà, giustizia e progresso grazie all'energia: il sogno di Enrico Mattei è tutt'altro che realtà. A sessant'anni dalla morte dell'imprenditore, il 27 ottobre del '62, il progetto di Eni e di rendere il nostro Paese indipendente sul fronte delle risorse è sempre più attuale. Francesco Giubilei il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Se Enrico Mattei fosse ancora in vita, non crederebbe ai propri occhi osservando la situazione energetica in cui si trova l'Italia tra caro bollette, rischio di razionamenti e assenza di una propria autonomia. Soprattutto il fondatore di Eni, scomparso il 27 ottobre 1962 a causa della caduta del suo aereo in seguito a un sabotaggio, rimarrebbe attonito per la mancanza di una prospettiva a medio lungo termine per il nostro Paese su un tema cruciale per l'interesse e la sicurezza nazionale come l'energia.

A distanza di sessant'anni dalla morte, colpiscono l'attualità della sua visione e la capacità di dar vita, in un momento storico molto complesso dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, a un colosso come l'Eni, determinante per rendere l'Italia una potenza industriale e portare la nostra nazione tra i grandi del pianeta. Secondo Alessandro Aresu, Mattei «non accettava l'idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all'Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere».

Non a caso lo stesso Mattei scriveva: «noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».

Tutta la sua attività è stata portata avanti promuovendo l'interesse nazionale italiano come scrive Nico Perrone, autore della biografia Enrico Mattei edita da Il Mulino: «Aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo Paese è il riconoscimento che venne al presidente dell'Ente nazionale idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo».

Per raggiungere l'obiettivo di un'Italia forte sul piano economico e industriale, comprese la necessità di realizzare un'autonomia energetica sin dal '45-'46 intuendo che per l'Italia il motore della ricostruzione sarebbe derivato dalla possibilità di avere energia in abbondanza e a costi competitivi. Occorreva perciò ottenere quanti più fornitori possibile e, pur mantenendo il posizionamento atlantico, riuscì a stringere accordi con paesi africani, mediorientali, con la Russia e la Cina. Proprio questa capacità di muoversi al di fuori delle alleanze occidentali e oltre la cortina di ferro, lo portò a numerosi attriti con gli Stati Uniti. Per mitigare gli effetti delle sue aperture terzomondiste e mantenere un legame con l'alleato americano, venne così coniata la nuova visione del neoatlantismo in cui l'Italia assunse il ruolo di «intermediario internazionale non richiesto».

Facendo sponda con la Democrazia cristiana, Mattei riuscì non solo a impedire la messa in liquidazione dell'Agip nel primo dopoguerra ma a realizzare una strategia per la produzione di petrolio italiano attraverso le perforazioni a cominciare dalla Val Padana. L'unico modo affinché l'Italia si affermasse come potenza industriale, poteva derivare a suo giudizio dalla realizzazione di una sovranità energetica. La scoperta di un giacimento di petrolio a Cortemaggiore in Emilia, il primo in Europa, ebbe un grande impatto anche da un punto di vista mediatico e contribuì a rendere più solido il ruolo dell'Eni nell'immaginario degli italiani, complice la celebre benzina Supercortemaggiore.

Un attivismo che non poteva essere giudicato positivamente dalle «Sette sorelle», le compagnie petrolifere americane, inglesi e anglo-olandesi unite in un cartello che controllava oltre il 90% delle riserve petrolifere al di fuori degli Stati Uniti da cui Mattei cercò di affrancarsi concependo l'Ente nazionale idrocarburi non come una semplice azienda ma come parte di un insieme più ampio sinergico al sistema paese.

Per lui l'Eni doveva essere un tassello fondamentale nella politica estera italiana: «noi crediamo nell'avvenire del nostro Paese; abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso; sentiamo il dovere di lavorare, in tutta la misura delle nostre forze, per costruire giorno per giorno l'edificio della libertà e della giustizia in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».

Mattei immaginò l'Eni come una grande realtà energetica a sostegno dell'interesse nazionale italiano; per raggiungere questo obiettivo creò l'Agi, agenzia stampa di proprietà dell'azienda e fondò il quotidiano Il Giorno, due strumenti a servizio della rete internazionale che aveva saputo tessere. Tutta la sua attività è stata animata dalla volontà di superare quel «complesso di inferiorità nazionale» che troppo spesso ha rappresentato un tratto antropologico degli italiani precludendo al nostro Paese, specie in politica estera, spazi poi occupati da altri.

Secondo Francesco Cossiga «Mattei è l'ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani», mentre Leonardo Giordano nel libro Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe ricorda come Mattei si sia «inventato qualcosa che in Italia non abbiamo, la politica energetica». Una politica energetica che si è interrotta quel tragico 27 ottobre 1962 a Bascapè ma che oggi dobbiamo riscoprire e di cui non possiamo più fare a meno non solo ricordando ma attualizzando la lezione del padre dell'Eni. Al contrario, negli ultimi anni ci si è allontanati dai suoi insegnamenti illudendosi di poter dipendere solo dall'estero per la produzione di energia, dismettendo l'estrazione nazionale di gas e affidandoci eccessivamente a un unico fornitore, un errore che Mattei non avrebbe mai compiuto.

Oltre che un visionario, Mattei è stato un patriota e l'emblema di una storia italiana di successo; nato ad Acqualagna, un piccolo paese marchigiano, pur avendo raggiunto i vertici dello Stato, non ha mai dimenticato le sue origini come ebbe a dire poco prima della sua morte: «sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l'Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi». La sua è stata prima di tutto una grande storia italiana.

Enrico Mattei, il sovranista energetico che sfidò il mondo e per questo morì. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022

Nel 60° anniversario dell'attentato che pose fine alla vita e alla parabola imprenditoriale di Enrico Mattei, esce per le edizioni Byoblu il libro di Gianfranco Peroncini "Veni Vidi Eni" (volume 2) dedicato alla biografia dell'uomo e al suo sovranismo energetico. Il sottotitolo precisa l'oggetto dello studio: "L'attentato di Bascapè. Sette mandanti per sette sorelle: un delitto abissale...". Mattei morì insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHale il 27 ottobre 1962 nei cieli di Linate, quando il suo aereo esplose in volo sopra il Comune di Bascapè. Spiega l'autore: «Già il fatto che un tenace magistrato (Vincenzo Calia) sia riuscito ad accertare a decenni di distanza, nell'arco di un'inchiesta durata dal 1994 al 2003, che la morte di Mattei è da attribuire ad un congegno esplosivo collocato sul suo aereo, dev' essere considerato un successo formidabile. Oltre queste colonne d'Ercole, ovvero individuare esecutori e mandanti non è possibile avventurarsi. Fondamentale, però, inquadrare l'attentato di Bescapè nella sua cornice storico-politica».

Lei scrive che nell'immediata vigilia dell'attentato, contro il fondatore dell'Eni si fossero addensate le condizioni di una "tempesta perfetta".

«Guerra Fredda, tensioni mediorientali, forniture di greggio sovietico, futuro europeo della formula pilota italiana del centrosinistra, pervicace inserimento dell'Italia in zone nevralgiche ed esplosive dello scacchiere internazionale. Non ultimo la sintonia con la nuova amministrazione Usa di J.F.

Kennedy. Un filo rosso che accomuna i due personaggi è l'ostilità della Cia, soprattutto dei suoi handler di massimo livello, ambienti che non possono vedere Mattei e che non amano, per così dire, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti. 

La guerra tra Mattei e le compagnie petrolifere americane ha il suo culmine alla fine degli anni '50 ma parte da lontano...

«Nel 1946 Mattei viene indicato come liquidatore di Agip, azienda di Stato fondata nel 1926 allo scopo di garantire le necessarie forniture di petrolio all'Italia. Anziché smobilitare, Mattei continua invece le ricerche finché, nel marzo 1946, trova il metano nello storico pozzo di Caviaga 2 nel Lodigiano. È l'oro bianco che sarà il motore del "miracolo economico" italiano.

Mattei si comportò in maniera diametralmente opposta a Romano Prodi, al quale decenni dopo fu affidato il compito di liquidare l'Iri, compito che gestirà con impegno alacre sino ad arrivare alla presidenza del Consiglio a Roma e a quella della Commissione europea a Bruxelles. Mattei, invece, fu l'uomo che osò sfidare il mondo in nome dello strategico sovranismo energetico nazionale. Ne avrebbe pagato il prezzo». 

È questa la chiave dell'attentato di Bascapè?

«Mattei ripeteva sempre che non esiste indipendenza politica senza indipendenza economica, avendo compreso che un'ampia disponibilità di energia a prezzi accessibili era condizione necessaria perla ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra. Tra il 1954 e il 1955 l'Eni comincia la sua crociata mediorientale fuori dal controllo dei grandi gruppi petroliferi. In Egitto, in Persia in Libia... A Teheran firma un accordo rivoluzionario (75% del ricavato al produttore e 25% all'estrattore contro la tradizionale formula angloamericana del fifty/fifty). Sino al capolavoro in odore di "eresia atlantica": dall'Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, ottiene forniture di greggio in cambio di merci prodotte in Italia, sgravando così la bilancia dei pagamenti nazionale. Poi punta sull'Algeria, appena indipendente, per replicare il modello persiano».

È paradossale che il "petroliere senza petrolio" muoia proprio mentre sembra sul punto di siglare una pace con Washington grazie all'amministrazione Kennedy.

«Mattei muore poco prima di firmare con l'Algeria e la Francia un accordo straordinario per il rifornimento di metano e petrolio e prima del viaggio negli Stati Uniti che avrebbe sancito il suo trionfo definitivo, benedetto dalla Casa Bianca. Sul suo assassinio non ci sono certezze ma con ogni evidenza, date le ripercussioni a cascata prodotte dalla sua scomparsa, non poteva che essere deciso molto in alto. Da "profondità abissali", per così dire, e con il concorso locale dei comprimari necessari. Con ogni probabilità gli stessi mandanti che avrebbero replicato lo stesso copione a Dallas, il 22 novembre 1963. Un anno dopo Bascapè».  

Dall’omicidio Mattei a Eugenio Cefis: così l’Italia ha perso la corsa al gas e petrolio. L’attentato che ha ucciso il fondatore dell’Eni, l’ascesa del suo ex vice, la scalata alla Montedison. I fondi neri ai partiti. Il romanzo-choc di Pasolini rimasto incompiuto. Un libro-inchiesta documenta come e perché è finito il sogno tricolore dell’indipendenza energetica. Paolo Biondani su L'Espresso il 24 Ottobre 2022.

Un'Italia che conquista l'indipendenza energetica: si libera dal giogo delle multinazionali, esplora e sfrutta al meglio le proprie risorse, stringe accordi privilegiati con le nazioni emergenti che hanno bisogno di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall'Egitto all'Iran, dalla Libia al Marocco. Una strategia che stava cambiando l'economia e la politica internazionale del nostro Paese, ma è stata fermata con una bomba: l'attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, ha ucciso il fondatore dell'Eni, Enrico Mattei, con altre due vittime, sull'aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.