Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

 

L’AMBIENTE

QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        L’Inquinamento Acustico.

Giulio Sensi per il “Corriere della Sera” il 10 maggio 2022.

È difficile misurarlo perché la sua immaterialità lo rende sfuggente, ma rappresenta una delle principali minacce per la salute umana e anche per gli animali. In molte città italiane soprattutto nel centro-nord circa tre persone su quattro, secondo le stime dell'Eea, l'Agenzia europea per l'ambiente, sono esposte ad alti livelli di inquinamento acustico causato dai trasporti su strada. Ma il traffico stradale non è l'unico rumore nocivo.

Attività produttive e commerciali, aeroporti, ferrovie: pochi sono gli italiani che possono dire di vivere al riparo da inquinamento acustico importante. I controlli ci sono e vengono attivati in gran parte su iniziativa dei cittadini, ma manca ancora una strategia e soprattutto una pianificazione preventiva. «È un tema rilevante e poco conosciuto, se ne parla meno - spiega Anita Ishaq, analista di Openpolis che vi dedica un monitoraggio periodico - rispetto ad altre forme di inquinamento.

Ma i rumori molto alti non provocano solo problemi all'udito: possono causare anche stress a livello fisico con conseguenti patologie gravi come le cardiopatie, senza considerare gli effetti sulle specie animali».

Principi fondamentali L'Eea stima che almeno il 20% della popolazione europea viva in aree dove i livelli di rumore da traffico stradale sono dannosi per la salute, circa 22 milioni di adulti sono sottoposti al fastidio, 6,5 milioni soffrono di disturbi del sonno e 12.500 bambini in età scolastica hanno problemi di apprendimento perché vivono nei pressi dei principali aeroporti. Sono 48mila i casi di cardiopatie causate ogni anno dall'inquinamento acustico in Europa.

Le regole ci sono e il riferimento è la legge quadro sull'inquinamento acustico del 1995 che stabilisce i principi fondamentali in materia di tutela dell'ambiente esterno e dell'ambiente abitativo, ma i decreti attuativi della norma hanno creato una architettura complessa, ancora oggi incompleta. Il 37% dei Comuni italiani, la gran parte di loro si trova nel Mezzogiorno, non ha ancora approvato e adottato un Piano di classificazione acustica.

«La norma prevede anche - spiega Francesca Sacchetti, responsabile dell'Area valutazione, prevenzione e controllo inquinamento da agenti fisici dell'Ispra - che le Regioni predispongano un Piano regionale triennale di intervento per la bonifica dall'inquinamento acustico, definendo l'ordine di priorità delle azioni sul territorio regionale. I comuni adeguano i singoli piani di risanamento acustico comunale al Piano regionale. 

Ma a livello nazionale questi Piani triennali per la bonifica dall'inquinamento acustico sono ampiamenti disattesi nell'ambito della Pianificazione territoriale delle Regioni». Lo strumento fondamentale per la gestione e risoluzione delle problematiche di inquinamento acustico sul territorio è il Piano di risanamento comunale, l'atto conseguente a quello di classificazione acustica.

«Al 2020 - spiega ancora Sacchetti - il Piano di risanamento acustico è uno strumento scarsamente utilizzato sull'intero territorio nazionale. Solo 66 comuni dei 4.964 dotati di classificazione acustica ne hanno approvato uno, confermando negli anni una percentuale di poco superiore all'1%». Se c'è poca iniziativa sul piano della prevenzione, qualcosa in più viene fatto su quello dei controlli. Secondo i dati Istat, il 77,1% di essi sono stati effettuati nel 2020 su istanza di privati cittadini.

«L'esposto dei residenti - spiega Ishaq - è alla base della maggior parte dei controlli. Le persone possono indicare la fonte dei rumori e tutte le informazioni in loro possesso. Il Comune incarica l'Agenzia regionale di protezione dell'ambiente, l'Arpa, di fare i controlli e se vengono rilevate irregolarità scattano le sanzioni. Ovviamente questo presuppone tempistiche specifiche, anche a livello tecnico». 

Fra i Comuni capoluogo quello con più istanze dei cittadini nel 2020 è stato Messina, con 21,8 ogni 100.000 abitanti, poi Palermo (10,4) e Napoli (5,8). Ma per stimare le più inquinate devono essere incrociati i dati sui controlli con quelli delle sanzioni ed è sempre nelle grandi citta, come Napoli, Firenze, Genova, Bologna, Venezia, Cagliari, Torino, Milano, Roma, che emergono i superamenti delle soglie stabilite dalla legge. L'area più inquinata è quella della pianura padana, piena di strade e priva di barriere naturali.

«Nel 37,4% delle sorgenti controllate - spiega Sacchetti dell'Ispra - è stato rilevato almeno un superamento dei limiti normativi. Le attività di servizio e commerciali sono anche le sorgenti per le quali si rileva la più elevata percentuale di superamenti dei limiti normativi, pari al 43%, seguite dalle infrastrutture aeroportuali per il 40%. Superamenti significativi si riscontrano anche per le infrastrutture stradali, il 34,8%, e ferroviarie, 33,3%, e dovuti alle attività produttive il 32,7%». «Un modo per affrontare il problema - conclude Ishaq - sarebbe però la pianificazione sostenibile a lungo termine integrata a quella urbanistica con limitazione dei rumori e barriere protettive».

·        L’Inquinamento atmosferico.

L’inquinamento può provocare infarto anche in un cuore sano. Redazione Salute su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

Lo indica uno studio dell’Università Cattolica-Policlinico Gemelli di Roma. La causa sarebbe da ascrivere a un’infiammazione cronica che altera l’endotelio, il rivestimento interno dei vasi. 

L’inquinamento dell’aria soffoca i vasi del cuore e può provocare l’infarto, anche in un cuore sano. Lo indica uno studio coordinato da Rocco Antonio Montone e Filippo Crea, cardiologi di Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS- Università Cattolica, campus di Roma, che dimostra come l’aria inquinata possa causare l’infarto anche a chi ha coronarie senza aterosclerosi significativa (MINOCA, Myocardial Infarction with Non-Obstructive Coronary Arteries), determinando uno spasmo prolungato dei vasi. Il rischio di incorrere in un’ischemia da spasmo delle coronarie aumenta fino a 11 volte nei soggetti più pesantemente esposti all’inquinamento da particolato fine (PM2.5), causato soprattutto dal traffico veicolare.

Lo studio

Lo studio è stato presentato al congresso della Società Europea di Cardiologia (ESC) in corso a Barcellona e pubblicato in contemporanea su Journal of American College of Cardiology (JACC). «Abbiamo studiato il fenomeno – spiega Rocco Antonio Montone — su 287 pazienti di entrambi i sessi di età media 62 anni; il 56% di loro era affetto da ischemia miocardica cronica in presenza di coronarie “sane” (i cosiddetti INOCA), mentre il 44% aveva addirittura avuto un infarto a coronarie sane (MINOCA). La loro esposizione all’aria inquinata è stata determinata in base all’indirizzo di domicilio. Tutti sono stati sottoposti a coronarografia, nel corso della quale è stato effettuato un test provocativo all’acetilcolina. Il test è risultato positivo (cioè l’acetilcolina ha provocato uno spasmo delle coronarie) nel 61% dei pazienti; la positività del test è risultata molto più frequente tra i soggetti esposti all’aria inquinata, in particolare se anche fumatori e dislipidemici». «Questo studio dimostra per la prima volta – prosegue il dottor Montone — un’associazione tra esposizione di lunga durata all’aria inquinata e comparsa di disturbi vasomotori delle coronarie, suggerendo così un possibile ruolo dell’inquinamento sulla comparsa di infarti a coronarie sane; in particolare, l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) nel nostro studio è risultato correlato allo spasmo delle grandi arterie coronariche». «Gli spasmi dei vasi del cuore – spiega Massimiliano Camilli, dottorando di ricerca presso l’Istituto di Cardiologia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma — potrebbero essere dovuti al fatto che l’esposizione di lunga durata all’aria inquinata determina uno stato di infiammazione cronica dei vasi, con conseguente disfunzione dell’endotelio (lo strato di rivestimento della parete interna dei vasi)».

Le ricadute

«Alla luce dei risultati di questo lavoro – conclude il professor Filippo Crea, Ordinario di Malattie dell’apparato cardiovascolare all’Università Cattolica del Sacro Cuore, campus di Roma e direttore dell’Unità Operativa Complessa di Cardiologia della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS — limitare l’esposizione all’inquinamento ambientale (possibilmente riducendone le emissioni) potrebbe ridurre il rischio residuo di futuri eventi cardiovascolari correlati alla cardiopatia ischemica, sia su base aterosclerotica, che da spasmo delle coronarie. L’uso di purificatori di aria in casa e l’utilizzo delle mascherine facciali quando ci si trova immersi nel traffico delle grandi città potrebbe dunque già essere consigliato ai soggetti a rischio, in attesa di studi che ne valutino il reale impatto sulla riduzione del rischio. E naturalmente ribadiamo il divieto di fumo e la necessità di uno stretto controllo dei fattori di rischio per tutti, ma ancora di più a chi è esposto all’inquinamento, come chi vive in una grande città».

Che cos’è il test all’acetilcolina

Nei pazienti con cardiopatia ischemica senza evidenza di ostruzione delle coronarie da placche aterosclerotiche, nel corso della coronarografia può essere effettuato un test provocativo con iniezione di acetilcolina per slatentizzare la tendenza allo spasmo. Questo test è fondamentale per giungere a una diagnosi del meccanismo responsabile dell’infarto e permette dunque di intraprendere una terapia mirata.

Cos’è l’inquinamento da particolato fine (PM2.5) e grossolano (PM10)

Per materiale particolato aerodisperso si intende l’insieme delle particelle atmosferiche solide e liquide sospese in aria ambiente. Il PM2.5 (particolato fine) indica le particelle di diametro aerodinamico inferiore o uguale ai 2,5 μm che derivano da tutti i tipi di combustione (motori di automobili, impianti per la produzione di energia, combustione di legna per il riscaldamento domestico, incendi boschivi e vari processi industriali). Le particelle di dimensioni comprese tra 2,5 – 10 μm (tra le quali il PM10) sono dette grossolane e derivano soprattutto da processi meccanici (macinazione, erosione, fenomeni di attrito nei trasporti su strada quali usura dei freni, dei pneumatici e abrasione delle strade). Il PM10 può avere anche un’origine naturale (l’erosione delle rocce, le eruzioni vulcaniche, incendi boschivi).

Da ansa.it il 26 maggio 2022.  

Oltre 20 milioni di bambini che vivono nei 39 Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dell'Unione Europea hanno livelli elevati di piombo nel loro sangue, una delle sostanze tossiche ambientali più pericolose. È quanto si evince dall'ultima Report Card pubblicata oggi dal Centro di Ricerca UNICEF Innocenti.

La Finlandia, l'Islanda e la Norvegia si posizionano nel primo terzo della classifica nel fornire un ambiente sano per i loro bambini ma finiscono nell'ultimo terzo nella classifica per quanto riguarda "Il mondo in generale", con alti tassi di emissione, rifiuti elettronici e consumi. In Islanda, Lettonia, Portogallo e Regno Unito, 1 bambino su 5 è esposto a umidità o muffa a casa, mentre a Cipro, in Ungheria e Turchia più di 1 bambino su 4 ne è esposto. 

Molti bambini respirano aria tossica sia fuori che dentro le loro case. Il Messico è uno dei paesi con il maggior numero di anni di vita in buona salute persi a causa dell'inquinamento dell'aria, equivalente a 3,7 anni per 1.000 bambini, mentre la Finlandia e il Giappone hanno il più basso, a 0,2 anni. In Belgio, Repubblica Ceca, Israele, Paesi Bassi, Polonia e Svizzera oltre 1 bambino su 12 è esposto a elevato inquinamento da pesticidi. L'inquinamento da pesticidi è stato collegato al cancro, compresa la leucemia infantile, e può danneggiarne i sistemi nervoso, cardiovascolare, digestivo, riproduttivo, endocrino, sanguigno e immunitario. 

Per questo Unicef chiede ai governi a livello nazionale, regionale e locale di migliorare l'ambiente in cui vivono oggi i bambini, riducendo i rifiuti, l'inquinamento dell'aria e dell'acqua e garantendo abitazioni e quartieri di alta qualità; migliorare le condizioni ambientali dei bambini più vulnerabili. 

I bambini delle famiglie povere tendono ad essere maggiormente esposti ai danni ambientali rispetto ai bambini delle famiglie più ricche; garantire che le politiche ambientali siano a misura di bambino; coinvolgere i bambini, i principali soggetti interessati del futuro; i governi e le imprese devono intraprendere subito azioni efficaci per onorare gli impegni presi per ridurre le emissioni di gas serra entro il 2050.   

La maggior parte dei Paesi ricchi sta creando condizioni malsane, pericolose e nocive per i bambini di tutto il mondo. E' quanto si evince dalla nuova Report Card 17. 'Luoghi e Spazi - Ambiente e benessere dei bambini' pubblicata oggi dal Centro di Ricerca UNICEF Innocenti che mette a confronto i risultati ottenuti da 39 Paesi dell'Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) e dell'Unione Europea (UE) nel fornire ambienti sani ai bambini.

 Il rapporto presenta indicatori come l'esposizione a inquinanti nocivi, tra cui aria tossica, pesticidi, umidità e piombo; l'accesso alla luce, agli spazi verdi e a strade sicure; il contributo dei Paesi alla crisi climatica, al consumo di risorse e allo smaltimento dei rifiuti elettronici; e afferma che se tutti i cittadini del mondo consumassero le risorse al ritmo dei paesi dell'OCSE e dell'UE, sarebbe necessario l'equivalente di 3,3 pianeti Terra per mantenere i livelli di consumo. Se tutti consumassero le risorse al ritmo di Canada, Lussemburgo e Stati Uniti, sarebbero necessari almeno 5 pianeti Terra.

"La maggior parte dei Paesi ricchi non solo non riesce a fornire ambienti sani ai bambini all'interno dei propri confini, ma contribuisce anche alla distruzione degli ambienti in cui vivono i bambini in altre parti del mondo", ha dichiarato Gunilla Olsson, Direttore del Centro di Ricerca UNICEF Innocenti. "In alcuni casi, vediamo che i Paesi che forniscono ambienti relativamente sani per i bambini nel proprio paese sono tra i maggiori responsabili dell'inquinamento che distrugge gli ambienti dei bambini all'estero".

Ogni giorno 165 morti a causa dell’inquinamento. L’aria ora deve cambiare. Giulio Sensi su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

I dati allarmanti dell’ultimo rapporto di Asvis sugli effetti di Pm10 e inquinanti. 60mila morti all’anno per le conseguenze nocive sulla nostra salute. Le soluzioni vanno trovate a livello globale. 

Nella primavera del 2020, in pieno lockdown, le centraline di rilevamento della qualità dell’aria di molte città della Pianura padana continuavano a segnare livelli altissimi di concentrazioni di Pm10. Le auto degli italiani erano ferme, il Paese bloccato, ma l’inquinamento in alcune città della Pianura padana non accennava a scendere. Gli scienziati se lo aspettavano, perché «la questione - spiega Giovanni Fini, curatore dell’ultimo rapporto «Qualità dell’aria» di Asvis, l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile - è molto più complessa di quanto l’opinione pubblica avverta». Ogni anno le polveri sottili provocano più di 60.000 morti in Italia, 165 in media al giorno. Alcune città e aree geografiche italiane hanno la qualità dell’aria fra le peggiori in Europa: la prima è la Pianura padana, considerata da autorevoli studi scientifici come l’area a maggior rischio sanitario in Europa per l’inquinamento atmosferico insieme ad alcune regioni della Polonia e della Repubblica Ceca. La causa è il mix di emissioni di caldaie domestiche a legna e gasolio, allevamenti intensivi, attività industriali. Ma anche altre zone come la Valle del Sacco nel Lazio e l’agglomerato di Napoli e Caserta sono attenzionate.

Le polveri sottili però sono un nemico tanto invisibile quanto complicato da trattare. «C’è uno scollamento - spiega Fini - fra causa ed effetto. A differenza di altri inquinanti, non esiste un effetto diretto e proporzionale fra riduzione delle emissioni e qualità dell’aria. Questo accade per due fattori: il primo è la diffusione su larga scala di alcuni inquinanti che rende difficili collegare le emissioni alle concentrazioni. Il secondo è che buona parte dell’inquinamento è di origine secondaria, cioè prodotto da reazioni chimiche e fisiche in atmosfera generate da altri inquinanti. Si tratta di un fattore che complica le cose, perché alle città viene chiesto di fare interventi pesanti di moderazione del traffico, ma poi le centraline nei giorni successivi alle limitazioni continuano a segnare le stesse concentrazioni di inquinanti e i cittadini non comprendono».

Qualcosa va meglio

Eppure di passi avanti negli anni ne sono stati fatti molti. Grazie ai progressi tecnologici, l’inquinamento dei mezzi di trasporto incide oggi solo per il 12%, mentre in passato era la fonte principale. «Rispetto a 50 anni fa - spiega Miriam Cominelli, presidente del Coordinamento Agende 21 locali italiani e assessore all’ambiente del Comune di Brescia che insieme a Fini ha curato il rapporto di Asvis - c’è stato un miglioramento, ma dobbiamo comprendere che per una soluzione radicale serve una maggiore regia a livello nazionale. Questo fenomeno non ha solo conseguenze ambientali, ma anche dirette e nocive sulla salute dei cittadini. E spesso sono le fasce della popolazione deboli a subire i contraccolpi più negativi sulla salute».

Interventi e protocolli

«È necessario intervenire - prosegue - con azioni che siano concordate a più livelli, in cui la dimensione locale faccia la sua parte insieme alle Regioni e il piano nazionale. È difficile comprendere come si possano limitare, per esempio, le emissioni dei mezzi stradali solo nelle aree urbane, quando nella Pianura padana le autostrade passano in mezzo alle città. Ci deve essere un coordinamento fra i diversi livelli istituzionali».

«Proprio la situazione della Pianura padana - aggiunge Fini - dimostra l’urgenza di lavorare insieme: alcune analisi hanno dimostrato che, anche qualora riuscissimo ad azzerare le emissioni dell’Emilia Romagna, l’inquinamento calerebbe solo del 30% a causa del fenomeno del rimescolamento. Milano da sola non può risolvere i suoi problemi, come non possono Torino, Bologna o le città del Veneto». Asvis ha anche monitorato le 17 azioni previste dal Protocollo «Aria Pulita» firmato da Ministeri e Regioni a Torino tre anni fa e che istituiva un Piano d’azione biennale per il miglioramento della qualità dell’aria con un impegno di 400 milioni di euro annui: solo quattro sono state attuate e le maggiori carenze riguardano l’abbattimento delle emissioni di ammoniaca e i disincentivi ai veicoli più inquinanti e all’uso di biomasse e gasolio per il riscaldamento. «Il tema dell’agricoltura - spiega Cominelli - è centrale, ma va affrontato in modo complessivo, senza penalizzare gli attori del sistema agricolo: vanno sostenuti perché acquisiscano strumenti che diminuiscano l’impatto sulla qualità dell’aria.

L’Italia sta già subendo diverse procedure di infrazione e l’Unione europea si appresta ad approvare nuovi limiti già fissati dall’Organizzazione mondiale della sanità. Ad oggi poche città italiane rimarrebbero dentro questi limiti. Dobbiamo lavorare meglio e insieme ad una transizione positiva». «Anche i cittadini - conclude Fini - devono fare la loro parte. Cambiare la macchina è oggi più facile grazie agli incentivi, ridurre le emissioni domestiche è più complicato. Una spinta i bonus la stanno dando. È un tema faticoso, ma il passaggio dalle fonti fossili all’elettrico rinnovabile è la svolta che va sostenuta».

LA SETTIMANA DELLA SCIENZA. Il metano cresce nell’atmosfera in modo “pericolosamente veloce”. LUIGI BIGNAMI, divulgatore su Il Domani il 28 febbraio 2022

L’anno scorso le concentrazioni di metano nell’atmosfera hanno superato le 1.900 parti per miliardo, quasi il triplo dei livelli preindustriali.

La fusione del permafrost (i terreni che dovrebbero essere permanentemente ghiacciati) a causa del cambiamento climatico potrebbe esporre la popolazione artica a concentrazioni molto elevate di radon.

Quando muore una stella come il Sole può diventare una “nana bianca” e la sua morte causa inesorabilmente anche la fine dei pianeti che la circondavano

LUIGI BIGNAMI, divulgatore. Giornalista scientifico italiano, laureato in scienze della terra a Milano

Monica Perosino per “La Stampa” il 24 gennaio 2022.

Ogni anno in Europa muoiono oltre trecentomila persone a causa dell'aria inquinata. Le polveri sottili si insinuano nel naso, nella laringe, si spingono fino ai bronchi e provocano infarti, ictus, malattie respiratorie, diabete, tumori, ipertensione, malattie cardiovascolari. 

Nell'Unione Europea il 97% della popolazione urbana è esposta a livelli di particolato fine superiori agli ultimi livelli delle linee guida stabilite dall'Organizzazione Mondiale della Sanità, linee che, se seguite, eviterebbero 166mila morti premature all'anno.

Il rapporto 2021 sulla qualità dell'aria dell'Agenzia Europea per l'Ambiente, sebbene evidenzi un calo di tutti i principali inquinanti atmosferici dal 2005 in avanti, sottolinea che l'inquinamento atmosferico resta il più grande rischio per la salute dei cittadini europei, peggiore anche del fumo e della malnutrizione. 

Oltre a monossido di carbonio, biossido di azoto e zolfo, ozono e altri, le sostanze più pericolose per la salute sono particolato PM2.5 e PM10, quelle minuscole particelle prodotte dalla combustione del carburante nei trasporti, dalle industrie, dall'agricoltura e dal riscaldamento.

Il particolato con un diametro uguale o inferiore a 10 micron (µm), ovvero più piccolo di un quinto della larghezza di un capello umano, è in grado di penetrare in profondità nei polmoni, le PM2.5 possono entrare perfino nel flusso sanguigno. Per questo, il particolato fine è l'inquinante atmosferico con il maggiore impatto sulla salute in termini di morte prematura e malattie.

In questo caso, avverte l'Eea, «il luogo in cui vivi influisce sui rischi a cui sei esposto». E non c'è nulla per cui gioire. Guardando la mappa dell'Ue, si nota una macchia più scura sull'Europa dell'Est e sulla Pianura Padana, sono le aree in cui è più presente il particolato fine. 

Tra le città con i livelli di PM10 più elevati troviamo Zagabria, Bucarest, Salonicco e Belgrado, mentre il primato per le massime concentrazioni di biossido di azoto va a Napoli seguita da Cracovia, Atene e Parigi.

E se guardiamo i livelli di diossido di azoto nella classifica delle città europee più inquinate e con il più alto tasso di mortalità ci sono molti centri italiani. Per quanto riguarda la mortalità per PM2,5, in particolare, al primo posto c'è Cremona, seguita da Vicenza, Brescia, Pavia, con una presenza massiccia delle città della Pianura Padana. 

Le persone che vivono nelle città più grandi tendono ad essere esposte a concentrazioni più elevate di biossido di azoto a causa delle emissioni del traffico, mentre ci vive nell'Europa centrale e orientale, la combustione di combustibili solidi per il riscaldamento domestico e il loro utilizzo nell'industria determina le più alte concentrazioni di particolato e benzopirene (un cancerogeno).

L'Europa meridionale, invece, è esposta alle più alte concentrazioni di ozono, la cui formazione è determinata dalla luce solare. Se gli Stati Ue si adeguassero alle nuove e aggiornate linee guida dell'Organizzazione Mondiale della Sanità del 2021 si potrebbero evitare, nella sola Europa, oltre 166mila morti premature all'anno. Se si considera anche la correlazione tra inquinamento e diffusione delle pandemie, il beneficio per la salute sarebbe ancora maggiore.

Diversi studi infatti, hanno dimostrato che il Covid preferisce l'aria inquinata, e che l'inquinamento atmosferico può facilitare la trasmissione del virus e aumentarne la persistenza nell'atmosfera.

Rispetto al 2005, nel 2019 i decessi prematuri attribuiti all'esposizione al particolato fine sono diminuiti del 33% nell'Ue-27, ma certamente non basta. L'obiettivo, dice l'Oms, è che tutti i Paesi raggiungano i livelli di qualità dell'aria raccomandati, andando a limitare le emissioni delle auto vecchie, l'uso di combustibili fossili e gli allevamenti intensivi.

Federica Mereta per “la Repubblica - Salute” il 27 gennaio 2022.

Chi soffre di allergia e abituato: nei periodi a rischio, prima di mettersi in marcia, guarda la classica tabella dei pollini e provvede a fare le sue scelte, evitando che le sue mucose incontrino i possibili “nemici”. Per il benessere dell’apparato cardiovascolare, sarebbe necessario fare lo stesso.  

Se il vostro cuore e a rischio perchè soffrite di diabete, avete il colesterolo e/o la pressione alta, siete sovrappeso, fate i conti con malattie croniche dell’apparato respiratorio, abituatevi a guardare l’indice di qualità dell’aria oltre a controllare la temperatura esterna. Il cocktail clima rigido e ristagno degli inquinanti può diventare una minaccia per la salute delle arterie, tanto da aumentare il rischio di andare incontro a un infarto. 

A lanciare l’ennesimo appello sulla necessita di ridurre gli inquinanti emessi da tubi di scarico, riscaldamenti e fabbriche e un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine, a firma di Sanjay Rajagopalan, dell’Ospedale Universitario di Cleveland, e Philip J. Landrigan, del Dipartimento di Biologia dell’Universita di Boston.  

L’analisi prende in esame le più recenti osservazioni scientifiche sul tema e, oltre a consigliare il controllo delle polluzioni atmosferiche prima di uscire per chi ha il cuore non proprio in forma, gli esperti avvisano di ridurre per quanto possibile jogging e corsa veloce quando l’aria e particolarmente inquinata, di non esporsi ad attività lavorative che possono farci respirare sostanze nocive, di utilizzare mascherine se l’inquinamento e alle stelle, di preferire per gli spostamenti gli orari in cui il traffico cala. 

Il tutto, ricordando che anche a casa possiamo fare qualcosa: in primo luogo tramite la classica misura di “aprire le finestre” (ovviamente se all’esterno l’aria e buona), utilizzando depuratori ambientali ed evitando quelle fonti di inquinamento domestico, a partire dal fumo di sigaretta fino all’abuso delle candele profumate, che possono mettere a repentaglio il benessere cardiovascolare.  

«I diversi inquinanti atmosferici possono avere un’azione negativa molto pesante su cuore e arterie, attraverso meccanismi diversi che purtroppo tendono a sommarsi tra loro e a moltiplicare gli effetti pericolosi», spiega Massimo Volpe, ordinario di Cardiologia all’Università Sapienza di Roma e Presidente della Societa italiana per la prevenzione cardiovascolare (Siprec): «Sappiamo che l’esposizione al particolato (riconoscibile con la sigla Pm e numeri diversi a seguire) può indurre un danno vascolare diretto, attraverso un aumento dei processi ossidativi delle cellule della parete arteriosa, con conseguente incremento dei radicali liberi nocivi per le cellule stesse, oltre a favorire l’infiammazione». 

Tutto e dovuto al fatto che il tessuto arterioso, esposto all’azione di questi componenti, sviluppa meccanismi difensivi che purtroppo col tempo risultano nocivi per la salute. Da un lato, questi sistemi di difesa portano ad attivare invisibili segnali intracellulari che a loro volta determinano appunto la produzione di radicali liberi; dall’altro, l’infiammazione tende a richiamare i polimorfonucleati (particolari globuli bianchi) e le piastrine con una maggior tendenza alla coagulazione del sangue. 

Il risultato e che si e maggiormente predisposti all’aterotrombosi, e, soprattutto, chi già soffre di patologie cardiovascolari – o comunque ha dei fattori predisponenti – rischia che si rompa più facilmente una placca su un’arteria, come per esempio una coronaria o la carotide, e che si ostruiscano i vasi. Aumenta, quindi, il pericolo di andare incontro a un infarto o a un ictus. 

A completare il quadro dei possibili effetti diretti dell’inquinamento sulla salute dell’apparato cardiovascolare, infine, «va ricordato che in genere l’esposizione cronica favorisce la vasocostrizione e quindi l’innalzamento della pressione, con la più probabile comparsa di ipertensione», aggiunge Volpe. Insomma: l’inquinamento atmosferico, come ricordano gli esperti sul New England Journal of Medicine, può quasi essere considerato un fattore di rischio cardiovascolare aggiuntivo di cui tenere conto. 

«La variazione a breve termine dei livelli di Pm (da ore a giorni) e associata a un aumento dei rischi di infarto miocardico, ictus e morte per malattie cardiovascolari», scrivono gli esperti sulla prestigiosa rivista americana. Che non e pero l’unica a sottolineare la relazione tra smog e malattie cardiovascolari. Al Nejm si aggiunge, infatti, il grande studio internazionale su quasi 160 mila persone adulte tra i 35 e i 70 anni seguite per 15 anni, coordinato dagli scienziati dell’Università Statale dell’Oregon e apparso su Lancet Planetary Health. 

Durante il periodo di osservazione più di 3200 persone sono morte per malattie cardiovascolari e circa 9.150 hanno avuto un infarto o un ictus. Gli eventi sono aumentati del 5% per ogni 10 microgrammi per metro cubo in più rilevati nella concentrazione di particolato fine (Pm 2.5), uno degli inquinanti atmosferici più diffusi, con una traslazione statistica che fa riflettere: il 14% di tutti gli eventi cardiovascolari osservati potrebbe essere attribuibile proprio al particolato Pm 2.5.

I dati sono confermati anche da osservazioni italiane, come la ricerca pubblicata su Jacc Cardiovascular Imaging dai cardiologi della Fondazione Policlinico Gemelli Irccs che mette in luce un’associazione tra i livelli di esposizione alle polveri fini (Pm 2,5) e la presenza di placche aterosclerotiche più infiammate e aggressive, cioè pronte a causare un infarto per rottura di placca.  

«La ricerca – spiega il primo autore dello studio, Rocco A. Montone, cardio- logo interventista e di terapia intensiva cardiologica del Gemelli – ha preso in esame 126 pazienti con infarto miocardico, sottoposti ad Optical Coheren- ce Tomography (Oct), un’indagine con uno speciale microscopio che permette di visualizzare le placche coronariche direttamente dall’interno dei vasi». 

Correlando le caratteristiche delle placche con l’esposizione anche per due anni precedenti a inquinanti ambientali si e visto che i pazienti che respirano a lungo aria inquinata, in particolare il particolato fine, che penetra in profondità nei polmoni soprattutto se respirato dalla bocca, presentano placche aterosclerotiche coronariche piu aggressive e prone alla rottura (sono più ricche di colesterolo e hanno un cappuccio fibroso più sottile).  

E, infatti, nelle persone esposte a elevati livelli di Pm 2,5, il fattore scatenante dell’infarto e più spesso la rottura del- portante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. 

Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della placca aterosclerotica.  

Le placche infiammate (cioè infiltrate da macrofagi) ed e presente anche un maggior livello di infiammazione sistemica, testimoniato dall’aumento dei livelli di proteina C reattiva nel sangue. Insomma: l’inquinamento atmosferico, e in particolare quello da particolato associato agli altri invisibili elementi che respiriamo, diventa una minaccia per il benessere cardiovascolare.  

Un’ulteriore conferma italiana la offre una ricerca pubblicata qualche tempo fa su International Journal of Environmen- tal Research and Public Health, condotta dall’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano e dall’Istituto Clinico Humanitas. Lo studio ha dimostrato come il rischio di accesso al pronto soccorso per eventi cardiovascolari acuti sia associato all’aumento del particolato atmosferico (Pm 10) secondo un andamento stagionale, più dannoso nel periodo autunno-inverno, ma anche più pericoloso nelle giornate con alte temperature atmosferiche. 

Non solo: la ricerca ha aggiunto un tassello importante sul campo mostrando che esiste una particolare associazione tra aumento del Pm 10 e patologie cardiovascolari durante i picchi di epidemie influenzali, a conferma di quanto le infezioni virali possano fare da “carburante” per le reazioni di arterie e cuore. Stando alla ricerca, in autunno e in inverno l’innalzamento di 10 microgrammi/m3 di Pm 10 causerebbe un incremento del rischio cardiovascolare tra il 18 e il 23%, probabilmente a causa della diversa composizione chimica del particolato atmosferico e della diversa risposta fisiologica agli stress ambientali. 

«D’altro canto, considerando anche quanto stiamo osservando con Covid-19, c’è pure questo ulteriore meccanismo indiretto che mette a repentaglio la salute dei vasi arteriosi», riprende Volpe: «Quando si verifica un’infiammazione delle vie respiratorie, magari indotta dall’esposizione a inquinanti e implementata da un’infezione virale come l’influenza o, appunto, da Sars-CoV 2, si liberano citochine, cioè composti che facilitano l’infiammazione. 

Quindi, a prescindere dall’oggettiva azione diretta dei virus sulle cellule cardiache, si crea una condizione che facilita l’infiammazione dell’endotelio (la parete più interna delle arterie) e quindi anche la possibilità che si manifestino fenomeni di trombosi all’interno dei vasi». Si tratta di osservazioni supportate da chiare ipotesi di laboratorio che confermano come alti livelli di Pm nell’aria possano contribuire al peggioramento delle condizioni cliniche di persone infette da Sars-CoV2 (e più in generale dai virus respiratori), soprattutto in correlazione con altre patologie pregresse. 

L’inquinamento non renderebbe più facile l’accesso del virus nell’organismo, ma piuttosto si comporterebbe proprio alla stregua di colesterolo alto, ipertensione, diabete e obesità, aumentando il pericolo per cuore e arterie. «Tutte queste osservazioni confermano come la prevenzione cardiovascolare si leghi indissolubilmente alla sostenibilità ambientale», conclude Volpe: «Le automobili, la produzione industriale e l’urbanizzazione hanno creato una condizione per cui, soprattutto in alcune aree, la qualità dell’aria può diventare una minaccia per la salute per il sistema cardiocircolatorio. Inoltre, la vita in citta può favorire anche l’inattività fisica e di conseguenza l’obesità e le alterazioni metaboliche, creando un circolo vizioso estremamente pericoloso per il cuore. 

Questa attenzione, in chiave preventiva, deve partire fin dai bambini, che già ora sono esposti a condizioni ambientali non ottimali e tendono a sviluppare frequentemente alterazioni metaboliche che mettono a rischio cuore e vasi». Nei più piccoli, peraltro, l’inquinamento atmosferico può aprire la strada all’ipertensione futura e alle sue conseguenze. Non ci credete? Rileggete una ricerca su 70 bambini seguiti poi fino all’età adulta a Los Angeles, pubblicata su Environmental Health e condotta dai ricercatori dell’Università della California del Sud. 

Lo studio ha valutato nel tempo un particolare parametro della salute delle arterie, ovvero i cambiamenti nello spessore tra tonaca intima e media (due strati della parete delle carotidi). Gli scienziati americani hanno esaminato l’esposizione media residenziale agli inquinanti ambientali come l’ozono, il biossido di azoto e il particolato, analizzando i dati derivanti dai sistemi di monitoraggio dell’aria, fino a stimare l’esposizione agli ossidi di azoto in base alla vicinanza della casa di un bambi- no alle strade maggiormente trafficate. 

Come parametro di valutazione e stato considerato appunto il mutamento dello spessore tra i due strati delle arterie carotidi, con misurazioni effettuate intorno ai 10 anni e poi di nuovo sui giovani di vent’anni. In chi risultava maggiormente esposto ai fumi di traffico e inquinamenti vari si e osservato una modificazione del parametro intimamedia della carotide di circa 1,7 micron l’anno: traslando i dati, questo “restringimento” del tutto impercettibile sarebbe correlabile a un incremento medio della pressione arteriosa di circa 10 millimetri di mercurio, con conseguente incremento del rischio cardiovascolare.

·        Gli Inquinatori.

A VOLTE RITORNANO.  Report Rai PUNTATA DEL 12/12/2022

Di Bernardo Iovene Collaborazione di Greta Orsi e Lidia Galeazzo

Immagini di Alfredo Farina e Andrea Lilli

Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia.

Nel 2021 Report aveva documentato la spedizione dal porto di Salerno di 282 container di rifiuti in Tunisia. Furono sequestrati nel porto di Sousse perché illegali per il governo tunisino, e finirono in carcere il ministro dell’ambiente e vari funzionari della dogana e dell’agenzia nazionale dei rifiuti tunisina. La Tunisia ha fatto pressioni perché i rifiuti tornassero in Italia, ci sono state anche proteste da parte degli ambientalisti sotto la nostra ambasciata a Tunisi. Bernardo Iovene ha ricostruito gli aggiornamenti della vicenda a partire dal viaggio del nostro ministro degli esteri il 28 dicembre del 2021 in Tunisia, fino al rientro dei rifiuti l’11 febbraio di quest’anno. Trasportati nel centro di raccolta di Persano, tra i comuni di Serre e Altavilla Silentina, la loro presenza ha suscitato le proteste dei cittadini dell’area. Restano decine di milioni di euro da pagare dopo che la nostra magistratura avrà stabilito le responsabilità. Ma la storia non è finita: in Tunisia ci sono ancora 69 container da riportare in Italia, sui quali la Tunisia ci fa sapere che non transige.

A VOLTE RITORNANO Di Bernardo Iovene Collaborazione Greta Orsi - Lidia Galeazzo Immagini Alfredo Farina - Andrea Lilli Grafica Federico Ajello

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 28 dicembre scorso Di Maio va in missione diplomatica in Tunisia, incontra il ministro degli Esteri, la premier e il presidente Sayed. Parlano di stabilità interna, di immigrazione e anche dei rifiuti arrivati dall’Italia nel luglio 2020. Fatalmente però, proprio il giorno dopo la visita di Di Maio, i rifiuti parcheggiati nei locali della ditta tunisina Soreplast vanno a fuoco.

BERNARDO IOVENE Questi sono i rifiuti.

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sì, questi sono i rifiuti…

BERNARDO IOVENE Bruciati. Sono andati a fuoco…

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sì. Sono andati a fuoco. Questo è praticamente che cosa è rimasto. Sono quasi 1900 tonnellate…

BERNARDO IOVENE Adesso dove sono questi rifiuti bruciati?

MAJDI KARBAI - DEPUTATO PARLAMENTO TUNISINO 2019 - 2022 Sono ancora a Mordin in un capannone. Il deposito della società tunisina.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In Tunisia per la storia di questi rifiuti italiani il Ministro e i funzionari dopo due anni sono ancora in carcere cautelativo.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Per la prima volta nella storia della Tunisia che il Ministro è andato dal suo ufficio alla casella prigione, come dicono; la prima volta, perché c'era anche complicità delle autorità tunisine. In Italia, non ho sentito…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non se ne è parlato.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Non se ne è parlato perché il danno per la Tunisia è non solo economico: economico, sociale, politico, ambientale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo la visita di Di Maio, il governo tunisino ha incaricato per le trattive proprio l’ambasciatore in Italia.

MOEZ SINAOUI – AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Ho trattato io con la presidenza della Regione Campania.

BERNARDO IOVENE Direttamente con De Luca?

MOEZ SINAOUI– AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Direttamente con De Luca, sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ambasciatore ha trattato sulla restituzione di 282 container contenenti i rifiuti, che dalla Campania erano stati spediti in Tunisia. Si tratta di rifiuti scarto della raccolta differenziata; devono essere smaltiti in discarica o bruciati nell’inceneritore. Solo che in Italia costerebbe smaltirli - all’epoca costava - 200 euro a tonnellata, in Tunisia te la cavavi con 48 euro. Così la società salernitana di smaltimento rifiuti, la SRA prende contatti con l’omologa tunisina, la Soreplast e, in base a questo accordo, avrebbe dovuto spedire 120 mila tonnellate nel paese nordafricano spendendo invece di 24 milioni, 5 milioni 760 mila euro, più il trasporto. Comunque un bel risparmio. Ma se devi spedire dei rifiuti all’estero, devi sottostare a determinate regole. In questo caso alla convenzione di Basilea che richiede che la Regione Campania contatti i così detti focal point. Si tratta di funzionari del ministero dell’Ambiente, quello italiano e l’omologo tunisino. La Regione Campania ha contattato quello italiano, non l’omologo tunisino. E così che cosa è successo? Che una volta che sono partiti dalla Campania i 282 container, appena sono sbarcati in Tunisia nel porto di Sousse, sono stati sequestrati. Sono stati arrestati il ministro dell’Ambiente, il responsabile, il direttore dell’agenzia dei rifiuti tunisina, sarebbe stato arrestato anche il proprietario dell’azienda tunisina di smaltimento rifiuti se non che è scappato ed è latitante. Ora, Huston, abbiamo un problema: chi paga le giornate di sequestro dei rifiuti al porto tunisino? Chi paga il viaggio in nave? Chi paga l’affitto dei container? Insomma, parliamo di una cifra oltre i 43 milioni di euro. E poi, una volta sbarcati in Italia, dove hanno portato i rifiuti? Il nostro Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il 20 febbraio, presenti le autorità tunisine, i container lasciano il porto di Sousse e tornano a Salerno. Appena sbarcati, però, vengono sequestrati dalla procura; la Regione poi ordina di stoccarli temporaneamente nel comprensorio militare di Persano, a Serre, provincia di Salerno, dove già nel 2007 stoccarono, sempre temporaneamente, le ecoballe dell’emergenza rifiuti, che però sono ancora qua.

BERNARDO IOVENE Cioè, l'hanno contattata prima?

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 No! Zero, zero.

BERNARDO IOVENE Cioè voi sapete che arrivano i container qua…

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Dai giornali.

BERNARDO IOVENE Ah, dai giornali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Appena saputo dell’arrivo dei rifiuti dalla Tunisia, sindaci, ambientalisti e cittadini sono tornati a protestare come 15 anni fa.

RAFFAELE PETRONE - MEMBRO COMITATO BATTIPAGLIA DICE NO Per evitare che la protesta potesse sfociare in un blocco serio, si è deciso di portare i rifiuti in una zona militare.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E mentre c’è la protesta, dal sito che è invalicabile perché militare, cominciano a uscire camion carichi delle ecoballe ferme lì da 14 anni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E da ieri che li stanno spostando, da ieri?

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, sì… Guarda caso…

CARMINE AQUINO - MEMBRO COMITATO AMBIENTE E SALUTE ALBANELLA Per farci accettare in maniera più gradevole, insomma, queste 6mila tonnellate che ci ritornano dalla Tunisia rimuovono ecoballe che andavano rimosse tanti anni fa.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sul territorio di Serre c'è una mega discarica che si chiama Macchia Soprana. È stato fatto un protocollo di intesa, 13 anni fa, tra le istituzioni che a Serre, dopo questa mega discarica, non sarebbe stato fatto alcun tipo di stoccaggio e/o discarica di qualunque tipo di rifiuto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, a questo sito di stoccaggio nel comune di Serre si aggiunge la discarica di Macchia Soprana che, nonostante le proteste di un intero popolo, fu imposta dall’allora commissario straordinario Guido Bertolaso, furono abbattuti ettari di bosco per portarci la spazzatura proveniente dalle province di Napoli e Caserta. Oggi la discarica non è ancora bonificata.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Qui è stato tagliato.

BERNARDO IOVENE Perché era tutto bosco...

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, era tutto bosco, sono stati tagliati dieci ettari di bosco.

BERNARDO IOVENE Vi hanno detto “sopportate, questa è l'ultima volta”, diciamo.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Sì, per questo c'è rabbia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il sindaco di Serre, che ha concluso il suo mandato a giugno scorso, conserva ancora il documento firmato dal ministro dell’ambiente di allora, dal commissario straordinario, dai presidenti di Regione e Provincia.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 “Le parti si impegnano affinché l'intero territorio del Comune di Serre non abbia più ad essere interessato da attività di stoccaggio e smaltimento di ogni o qualsiasi tipo di rifiuti”.

BERNARDO IOVENE Ma questa cosa è veramente…

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 Lo sa che cosa mi ha detto il vicepresidente Bonavitacola, che è delegato anche all'ambiente? E vabbè l'hanno fatto 15 anni fa da altre persone.

BERNARDO IOVENE Cioè, voi non contate niente come sindaco parliamoci chiaro no, insomma, è questa la cosa.

FRANCO MENNELLA - SINDACO DI SERRE (SA) 2017 -2022 È una risata amara, sì! Ma nemmeno per Regione e Provincia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed è così per tutti gli altri impianti che hanno interessato i comuni della piana del Sele: tutti i protocolli di intesa non sono stati mai rispettati, qui siamo a Battipaglia.

CECILIA FRANCESE - SINDACA DI BATTIPAGLIA (SA) Son carta straccia e noi stiamo aspettando ancora i ristori di quell'intervento del 2002 e la costituzione del Cdr.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine, però, il 20 aprile, i container rimpatriati dalla Tunisia vengono trasferiti a Persano, scortati dalla polizia, con l’applauso ironico dei sindaci e le proteste dei cittadini contro la Regione che non li ha neppure consultati.

CARMINE AQUINO - MEMBRO COMITATO AMBIENTE E SALUTE ALBANELLA Quel nostro governatore De Luca che qui costruì la sua carriera politica per dare queste terre ai contadini, adesso a quei contadini ha deciso di cospargerli dei rifiuti della SRA di ritorno dalla Tunisia, dove sta ad indagare la magistratura.

BALDASSARRE CHIAVIELLO - FONDATORE MOVIMENTO SERRE PER LA VITA Forse è stato troppo affascinato dal potere. Lui quando vedrà, se vedrà questa cosa, si ricorderà di me. Si ricorderà quando stavamo insieme a lottare per la gente che non aveva voce.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’ordinanza, però, è firmata dal presidente della provincia.

BERNARDO IOVENE Il presidente della Provincia, no, è il sindaco di un paesino come il vostro: non vi ha neanche chiamato per dirvi qualcosa?

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) Assolutamente no.

BERNARDO IOVENE Neanche per dirvi: collega, vedi che qua stanno...

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) No, no, no, no. Assolutamente perché evidentemente aveva ordini dall'alto di non farlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A noi invece il presidente della Provincia di Salerno aveva dato disponibilità per un’intervista, ma il giorno dell’appuntamento ha disdetto; abbiamo quindi provato a chiamarlo.

FRANCO ALFIERI - PRESIDENTE PROVINCIA DI SALERNO Pronto? BERNARDO IOVENE Pronto presidente. Sono Bernardo Iovene, di Rai3, di Report…

BERNARDO IOVENE Adesso però vi chiameranno quando li apriranno questi container?

FRANCESCO CEMBALO - SINDACO DI ALTAVILLA SILENTINA (SA) È una battuta?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto a operazione conclusa, ecco come si presenta il sito di Persano: i 213 container rimpatriati dalla Tunisia hanno trovato posto accanto alle ecoballe di 14 anni fa; andranno caratterizzati e smaltiti, questa è la promessa, ma questi territori continuano a pagare colpe non proprie.

MARIA MUSCARÀ – CONSIGLIERA REGIONALE GRUPPO MISTO - REGIONE CAMPANIA Secondo le carte l'errore gravissimo è stato compiuto all'interno degli uffici della Regione Campania, i quali stranamente non riuscivano a trovare il focal point tunisino, tanto da doversi rivolgersi a Google non trovando neanche su Google.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il funzionario che ha commesso l’errore dichiara che si era rivolto al consolato perché, dopo averlo cercato sul web, non aveva individuato il focal point tunisino, come richiesto dalla Convenzione sui rifiuti di Basilea. Giustificazione contestata dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul ciclo illecito dei rifiuti; l’ex presidente ci mostra invece come sarebbe stato semplice individuarlo.

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 Questo è il sito della Convenzione di Basilea, quello internazionale. Basta cliccare su Country, contatti…

BERNARDO IOVENE C’è anche nome e cognome?

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 Nome, cognome, contatto, numero di telefono, proprio a prova di bambino.

BERNARDO IOVENE C’è tutto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Due click e viene fuori il nome del focal point presso il ministero dell’Ambiente tunisino: si chiama Abderrazak Marzuki.

STEFANO VIGNAROLI - PRESIDENTE COMMISSIONE PARLAMENTARE D’INCHIESTA SUI RIFIUTI 2018 - 2022 E invece un funzionario regionale che fa questo per lavoro dice che non sapevano e si sono dovuti rivolgere al console tunisino in Campania, che anch'esso ha confermato questo focal point errato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Regione Campania, nella persona del presidente, del vicepresidente e di un dirigente, è protagonista in questa strana storia, ma come al solito si sottraggono a interviste con noi di Report. Tra l’altro la ditta che ha spedito i rifiuti in Tunisia, la SRA, è in possesso di un documento del 2019 di una spedizione di rifiuti in Tunisia di un’altra ditta autorizzata dallo stesso funzionario che in quel caso aveva individuato il focal point che è sempre lo stesso, Abderrazak Marzuki. Questo dimostrerebbe che in effetti conosceva già la procedura.

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Il dirigente in questione scrive che solamente nel novembre del 2020 ha appreso che il signor Abderrazak Marzouki del Ministero tunisino…

BERNARDO IOVENE Era il focal point.

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Fatto sta che però la Regione due anni prima aveva avuto modo di rivolgersi a questo soggetto.

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Ma è importante anche la firma del dirigente che è lo stesso...

BERNARDO IOVENE Voi questo documento qua lo porterete in tribunale?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Certo, è un documento ufficiale, la loro firma con un protocollo regionale, voglio dire. Dove c’è individuato il focal point.

BERNARDO IOVENE Mi pongo questo problema, no, per la sosta a quanto siamo arrivati? A 20 milioni di euro?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Facendo un calcolo orientativamente penso di sì.

BERNARDO IOVENE Il viaggio di ritorno, lo stoccaggio nel porto di Salerno, poi sono dati a Persano, lì devono essere caratterizzati, poi devono essere smaltiti, devono andare da qualche parte, sono tutti costi: a carico di chi andranno? Chi paga?

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Lo dovrebbe chiedere voglio dire a Regione Campania e Ministero.

BERNARDO IOVENE I rifiuti sono i vostri, non è che sono di qualcun altro. Siete voi! Sono i vostri.

ALFONSO PALMIERI - AMMINISTRATORE DELEGATO SVILUPPO RISORSE AMBIENTALI S.R.L. Io non sono disposto a mettere la mano sul fuoco dopo che hanno cambiato anche i piombi. Lei è convinto che sono i nostri? Io non lo so se sono i nostri rifiuti.

BERNARDO IOVENE Il paradosso di tutta questa storia è che alla fine a pagare saremo noi. Saremo noi cittadini a pagare tutta questa storia?

FRANCESCO AVAGLIANO - AVVOCATO Ma questo probabilmente sì, ma a mio avviso, per l'inerzia e per la mala gestione di una questione che poteva essere risolta dal primo momento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una volta che i tribunali di Salerno e Potenza stabiliranno le responsabilità e la quantificazione del danno, restano quelli da pagare in Tunisia. L’ambasciatore che a differenza della Regione Campania ci mette la faccia avverte…

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Noi abbiamo subìto un danno: due anni il 20% dello spazio di commerciali del porto di Sousse è stato bloccato. Lo Stato italiano è responsabile. Vogliamo dare un esempio, così, prima di esportare rifiuti illegalmente in Tunisia, illegalmente sottolineo, devono riflettere due volte prima di farlo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto la Tunisia insiste perché l’Italia torni a riprendersi anche la seconda parte dei rifiuti e cioè i 69 containers rimasti nella ditta tunisina e che in parte sono stati bruciati.

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA La priorità è il rimpatrio dei rifiuti, la seconda parte e dopo vedremo. BERNARDO IOVENE Lei è convinto che torneranno anche quelli?

MOEZ SINAOUI - AMBASCIATORE DELLA TUNISIA IN ITALIA Sono convinto perché sì, sono convinto e spero fra poche settimane riusciremo anche a chiudere definitivamente questa vicenda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 900 tonnellate sono ancora là in Tunisia. L’ambasciatore che era così ottimista, col nostro Bernardo Iovene, da qualche giorno non lo è più perché la Regione Campania, non gli risponde più al telefono. Lo tratta come ha trattato noi di Report. Solo che noi siamo un’umile trasmissione del servizio pubblico, lui è il rappresentante di una nazione che ha subito anche un torto. C’è ora da pagare i danni, oltre 40 milioni di euro. Chi lo farà? La magistratura sta indagando, dovrà identificare il colpevole e perché c’è stato questo errore. È una inchiesta che è partita grazie al lavoro di un collega del Mattino, Pasquale Sorrentino e da quello di due colleghe del consorzio giornalistico IRPI. Grazie a loro. Viva il giornalismo di inchiesta. Poi, sul fatto di chi pagherà alla fine di tutto questo giro, noi purtroppo qualche sospetto già ce l’abbiamo.

La complicata relazione tra moda e chimica Marina Savarese su L'Indipendente il 12 dicembre 2022.

Moda e chimica, due mondi apparentemente distanti, hanno in realtà una relazione molto stretta, anche se a tratti conflittuale. Basta avvicinarsi alla scienza tessile per scoprire che la moda, senza la chimica, va da poche parti. È nei capi che s’indossano, nei cosmetici che vengono usati quotidianamente, negli elementi di arredo della casa, nei giocattoli… dappertutto. C’è, anche se non si vede, e la portiamo giornalmente con noi a contatto con l’organo più grande che abbiamo: la pelle.

L’uso di sostanze chimiche nel tessile è una pratica indispensabile per conferire ai tessuti determinate caratteristiche o qualità: si usano per ammorbidire, per lavare a fondo, per ottenere particolari tipi di colorazioni, per rendere le superfici idrorepellenti, dare stabilità termica o quel praticissimo effetto anti-macchia che salva da innumerevoli lavatrici. Nel corso degli anni le tecniche si sono affinate, la scienza ha fatto grandi passi in avanti e, grazie alla sperimentazione, si sono ottenuti notevoli progressi in molti processi per la realizzazione di questi trattamenti. Per questo, quando si parla di eco-design, non si può prescindere dal chemical management. I primi passi verso una gestione attenta delle sostanze chimiche si sono mossi negli anni 90, con la diffusione di certificazioni volontarie sulla sicurezza chimica dei capi come Oekotex ed Ecolabel. Ma è nel 2007 che è entrata in vigore la direttiva europea Reach (Registration, Evalutation, Authorisation of Chemicals), un regolamento che registra, valuta, autorizza e limita l’uso delle sostanze chimiche tossiche, andando a escludere quelle nocive per l’ambiente e per la salute durante tutte le fasi di produzione del prodotto, con il fine di garantire una maggior sicurezza per il cliente finale. In generale, tutti i prodotti realizzati al 100% in Europa, hanno un certificato REACH oppure sono dichiarati fuori legge. E fin qui tutto bene. 

Il problema sopraggiunge quando i prodotti o la materia prima sono importati dagli altri Paesi (con la delocalizzazione delle produzioni si fa presto a capire che questo è il caso in cui, fatta la regola, si trova subito il modo per aggirarla). Se un abito è realizzato con un tessuto importato dall’India, non c’è nessuna garanzia del rispetto dell’uso delle sostanze chimiche consentite, se non un’auto-certificazione dell’azienda stessa (praticamente bisogna andare sulla fiducia) o con test effettuati a campione (in maniera sporadica e assolutamente casuale). E non si parla solo dell’uso delle sostanze e della pericolosità per chi le maneggia quotidianamente, ma anche del loro smaltimento, che avviene spesso nei corsi d’acqua in modo non proprio pulito (in alcuni Paesi, per capire qual è il colore-tendenza dell’anno, basta affacciarsi a vedere di che nuance è il fiume che si trova vicino alle aziende tessili). La gestione dei processi chimici non è di per sé semplice, figuriamoci quando ci spostiamo in zone remote dove certi tipi di controlli o norme non esistono. Per ovviare a questo far west, nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox My Fashion, con la quale ha chiesto ai marchi di moda di sostituire i prodotti chimici inquinanti con altri più sicuri. Non ridurre, ma eliminare direttamente certe sostanze; disciplinandone lo smaltimento e impedendo il liberarsi in maniera selvaggia di elementi non biodegradabili che stanno causando danni all’intero ecosistema (l’esempio più noto sono i PFC perfluorocarburi – usati principalmente per l’idrorepellenza e l’impermeabilità – che una volta rilasciati nell’ambiente, possono restarvi per centinaia di anni).

La campagna ha ottenuto un notevole successo e oggi sono molte le imprese che elaborano e impongono ai propri fornitori specifiche RSL (Restricted Substances List), cioè liste di sostanze soggette a restrizioni, e crescono azioni collettive di soggetti industriali che condividono l’impegno per produzioni chimicamente più sicure (la più diffusa è la M-RSL Manufacturing Restricted Substances List di ZDHC, fondazione Zero Discharges of Hazardous Chemicals).

Con tutte queste accortezze e normative, possiamo quindi dormire sonni tranquilli comodamente avvolti nei nostri pigiami? Non ancora. Nonostante gli impegni e i passi in avanti di un sistema sempre più attento e capace di valutare ciò che usa, al momento disponiamo di un mosaico di normative provenienti da dozzine di paesi che stanno cercando di costruire uno standard di sicurezza chimica in maniera incoerente e disorganizzata. Un intricato mondo fatto di certificazioni private, conflitti d’interesse, giochi economici (chi paga le certificazioni? Chi impone ai produttori di andare veloce e gioca al ribasso con i prezzi impedendo di adeguarsi agli standard richiesti?), scarichi di responsabilità e informazioni nascoste ad arte (tanto che per il cliente finale è pressoché impossibile accedere a questi dati). Con il risultato che certe sostanze circolano ancora indisturbate (come da ultimo report di Greenpeace sul colosso Shein che “ha registrato quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”). 

La soluzione, come suggerito dal Report di Transformers Foundation, potrebbe stare in un’azione reazionaria, collaborativa e coesa. Che si crei uno standard unico, chiaro e adottato su larga scala, indipendentemente dal marchio o dal fornitore. Che si educhino reparti di design, spronandoli a lavorare gomito a gomito con chi ne sa di chimica e con i fornitori stessi, fornendo mezzi economici e tecnologici a questi ultimi per stare al passo con i tempi e spingerli a usare agenti chimici più sicuri. La legge, poi, dovrebbe garantire standard minimi uguali per tutti, controllando ciò che entra nel paese in maniera costante. Infine, fornire una lista delle sostanze presenti nei capi per permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli, sarebbe un gesto auspicabile per mettere la salute pubblica davanti ai profitti. 

Ma forse questa, più che chimica, è utopia…[di Marina Savarese]

Mercato del carbonio, come le aziende riescono a inquinare gratis. Simone Valeri su L'Indipendente il 2 dicembre 2022.

Negli ultimi nove anni, le grandi aziende dell’UE in prima linea nel rilascio di gas serra e di sostanze inquinanti hanno ricevuto dei ‘diritti ad inquinare’ per un valore complessivo pari a quasi 100 miliardi di euro. A denunciarlo il nuovo rapporto del WWF ‘Where did all the money go?’, il quale ha messo in evidenza un paradossale risultato del già ampiamente criticato mercato del carbonio. Il documento sottolinea un esito in totale controtendenza con il principio ‘chi inquina paga’ – uno dei principi cardine dell’Unione – perché chi inquina, pare proprio che possa continuare a farlo, indisturbatamente e anche a costo zero. Dal 2013 al 2021, il 53% delle emissioni incluse nel sistema di scambio di quote di carbonio dell’UE (ETS), è stato infatti rappresentato da queste concessioni gratuite. In teoria, i ricavi delle quote di carbonio delle aziende climalteranti dovrebbero finanziare la decarbonizzazione ma, in pratica – secondo le valutazioni dell’associazione ambientalista – meno del 58% dei proventi è finito in investimenti realmente utili per il clima.

Nel periodo considerato dall’analisi, appena il 47% di tutte le emissioni coperte dall’ETS sono state soggette a un prezzo del carbonio. Ciò significa che, mentre il costo medio sul

mercato era di 14,02 euro per tonnellata di anidride carbonica (CO2) emessa, il prezzo reale pagato dalle industrie, tenendo conto delle quote gratuite, è stato di soli 6,58 euro. Questi ‘diritti ad inquinare’ rappresentano delle quote di emissioni che vengono distribuite tra le aziende produttrici, dove una quota allocata corrisponde all’autorizzazione ad emettere una tonnellata equivalente di CO2. La logica del meccanismo vorrebbe che le aziende più inquinanti fossero penalizzate, in quanto costrette a comprare sul mercato nuove quote di emissioni, a loro volta cedute dalle aziende meno impattanti che non hanno consumato invece tutti i loro ‘diritti ad inquinare’. Secondo il WWF, poiché consegnate a beneficio di settori ad alto impatto energetico, la distribuzione di queste concessioni è avvenuta però in modo illogico.

Le grandi aziende inquinanti hanno infatti ricevuto, per la precisione, 98,5 miliardi di euro in quote gratuite, un valore superiore a quanto i principali responsabili della crisi climatica abbiano dovuto spendere per acquistare ulteriori quote. Tra l’altro, i ‘diritti ad inquinare’ sarebbero stati concessi senza vincoli o condizioni dal punto di vista climatico, così, alcuni colossi energetici, avendo a disposizione troppe quote di emissione gratuite, hanno persino potuto rivenderne una parte guadagnando miliardi di euro. «Questa analisi – ha commentato Romain Laugier del WWF, tra i principali autori del rapporto – dimostra che nell’ultimo decennio il sistema ETS si è basato sul principio ‘chi inquina non paga’, con miliardi e miliardi di entrate perse che i Paesi dell’UE avrebbero invece potuto investire nella decarbonizzazione industriale». In definitiva, il suggerimento avanzato per Bruxelles è quello di eliminare gradualmente, ma il prima possibile, le quote gratuite e, nel mentre, assicurarsi che le aziende che le ricevono rispettino condizioni rigorose per la riduzione delle loro emissioni.[di Simone Valeri]

Non solo glifosato: gli altri pesticidi non testati approvati in Europa. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 2 dicembre 2022.

Il 30% di tutti i pesticidi autorizzati all’interno dell’Unione Europea è approvato "per estensione", ovverosia viene riapprovato senza una nuova valutazione finale del relativo rischio: è quanto denunciato da foodwatch, un’organizzazione che si batte per la sicurezza dei prodotti alimentari, sulla base di una sua recente ricerca. Da quest’ultima, nello specifico, è emerso che nonostante l’autorizzazione per 135 pesticidi su un totale di 455 attualmente approvati nell’UE sia "effettivamente scaduta", essa è stata "rinnovata più e più volte per anni" senza che l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare) mettesse in campo una nuova valutazione sulla sicurezza degli stessi.

Un problema, quello appena citato, certamente non di poco conto, visto che come sottolineato dall’organizzazione tra i 135 pesticidi riapprovati alcuni sono "molto utilizzati". Tra questi c’è ad esempio il Flufenacet, un "erbicida i cui metaboliti contaminano le falde acquifere" e "la cui autorizzazione era già scaduta nel 2012", ma non solo. Anche l’approvazione della "neurotossica" deltametrina – un insetticida – è stata "prorogata ripetutamente dal 2013, pur essendo l’insetticida stato etichettato dall’UE come un cosiddetto ‘candidato alla sostituzione’, il che significa che dovrebbe effettivamente avere un periodo di approvazione più breve a causa dei suoi particolari effetti pericolosi". Sostanze a quanto pare da usare con le pinze, dunque, ma nonostante ciò di fatto riapprovate a cuor leggero, tramite un meccanismo che non può che portare ad ipotizzare che pesticidi non dotati dei necessari requisiti di sicurezza siano continuati ad essere utilizzati. Un’ipotesi, del resto, non del tutto infondata: basterà ricordare il caso dell’insetticida Phosmet, la cui autorizzazione come sottolineato da foodwatch sarebbe dovuta scadere il 30 settembre 2017 ma è stata prorogata per 5 anni. Tuttavia a novembre 2022, dopo che l’EFSA ha definito un rischio elevato quello legato al Phosmet – descrivendolo in alcuni casi come "inaccettabile" – l’insetticida è stato vietato: nel mentre, però, è dunque stato utilizzato nonostante non fosse sicuro.

Da ricordare, poi, il fatto che tale opinabile meccanismo riguarda anche l’erbicida glifosato: come infatti precisato da foodwatch, recentemente la Commissione UE ha "annunciato di voler prolungare l’uso del glifosato fino a dicembre 2023, nonostante il parere finale dell’EFSA sul controverso pesticida sia previsto non prima del prossimo anno". Un dettaglio, quest’ultimo, che non può che generare dubbi e perplessità, essendo il glifosato un erbicida molto discusso: basterà ricordare che – come rivelato da un’indagine della ONG Générations Futures – il rapporto di valutazione sulla sicurezza del glifosato, firmato da quattro Stati membri dell’UE, è stato condotto ignorando oltre il 90% degli studi scientifici disponibili sul tema.

Insomma, il prolungamento dell’autorizzazione del glifosato – che si vorrebbe effettuare senza avere alle spalle la valutazione finale dell’EFSA – non può che catturare l’attenzione. Tuttavia, come sottolineato da foodwatch la situazione relativa al glifosato rappresenta solo la "punta dell’iceberg". Il problema, come visto, è infatti molto più esteso di quanto si possa pensare, con una consistente parte dei pesticidi autorizzati nell’Unione Europea che viene riapprovata senza una nuova valutazione finale del rischio. È per questo, quindi, che l’organizzazione chiede che venga effettuata una riforma completa dell’attuale prassi autorizzativa dell’UE, concentrandosi tra l’altro su delle tasse di autorizzazione più elevate per i produttori di pesticidi in modo che le autorità dell’UE possano "condurre la valutazione del rischio in tempo" e sul ritiro dal mercato immediato di "tutti i pesticidi non valutati dall’EFSA secondo le regole di valutazione del rischio stabilite dal Regolamento CE 1107/2009″. Inoltre, l’UE dovrebbe definire una "strategia di uscita dai pesticidi coerente ed efficace", con l’obiettivo di avere un’agricoltura priva degli stessi entro il 2035: al momento, però, le premesse non sembrano delle migliori. [di Raffaele De Luca]

Domani la popolazione sulla Terra raggiungerà gli 8 miliardi di persone. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 14 novembre 2022.

Secondo una proiezione delle Nazioni Unite domani 15 novembre il numero di esseri umani presenti sulla Terra toccherà per la prima volta quota 8 miliardi, un miliardo in più rispetto a dodici anni fa. Un numero troppo grande per essere compreso e rapportato alla realtà, ma non così impossibile da credere se si pensa che “nel tempo che impieghi a leggere queste due righe, la popolazione mondiale è cresciuta di circa 20 persone”, per citare l’esempio utilizzato dall’Australian Broadcasting Corporation, la principale emittente radiotelevisiva australiana.

Certo, quella dell’ONU è sicuramente una data simbolica, seppur frutto di sue precise proiezioni – è impossibile stabilire il momento esatto in cui diventeremo 8 miliardi. Ma è, al di là di tutto, l’emblema dei progressi che la medicina e la scienza hanno fatto negli ultimi anni. La maggior parte delle persone vive meglio e più a lungo e la velocità con cui i bambini vengono al mondo ci pare sia aumentata vorticosamente. Su quest’ultimo punto però le cose stanno diversamente. Il tasso di fertilità negli ultimi anni è piuttosto basso: se non ce ne accorgiamo subito è perché le conseguenze diventano più visibili dopo alcuni anni. È il caso dell’India, ad esempio, paese abitato da un’alta percentuale di “giovani”: le previsioni dicono che, nonostante questo, la popolazione raggiungerà il picco di 1,6 miliardi nel 2049 e scenderà a 1,1 miliardi entro il 2100. La maggior parte della crescita della popolazione si concentrerà invece soprattutto in alcune zone dell’Africa, del Medio Oriente e dell’Asia – come Repubblica Democratica del Congo, Egitto, Etiopia, India, Nigeria, Pakistan, Filippine e Tanzania – dove l’accesso ai contraccettivi è ancora fortemente limitato, così come il rispetto dei diritti delle donne.

Molte di loro sono costrette ad accettare matrimoni precoci, o a lasciare la scuola per dedicarsi alla famiglia. L’accesso all’aborto è praticamente impensabile, anche in caso di stupro o malformazione del feto. È qui, dove in generale mancano istruzione e diritti che il tasso di fertilità rimane molto più alto della media. Un calo demografico sta investendo invece la Cina, paese che ha notoriamente combattuto per anni, con leggi specifiche, la sovrappopolazione (vedi politica del figlio unico). Le stime dicono che i residenti potrebbero arrivare a circa 730 milioni (dimezzandosi) entro il 2100. Un dato allarmante, soprattutto se si pensa che in molti paesi, ad esempio, il sistema pensionistico sta in piedi grazie alle persone che si trovano in età lavorativa. In un paese dominato da “anziani” possono esserci per questo molte più difficoltà finanziarie. 

Ed è così che dovrebbe andare. I dati dimostrano che, se la popolazione mondiale ha impiegato 12 anni per passare da 7 a 8 miliardi, per raggiungere i 9 miliardi impiegherà 15 anni (nel 2037). Nel periodo tra il 2020 e il 2021, ad esempio, la popolazione mondiale è cresciuta meno dell’1%. Non accadeva dal 1950. Secondo le Nazioni Unite potremmo arrivare a sfiorare i 10 miliardi nel 2050, con un picco di 10,4 miliardi di persone nel 2080. Una cifra che dovrebbe rimanere invariata fino al 2100.

Tuttavia, a prescindere dai numeri, usando le parole di Antonio Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, «se non colmiamo l’abisso tra chi ha e chi non ha, ci troveremo davanti un mondo forte di 8 miliardi di persone dominato da tensioni, sfiducia, crisi e conflitti». Il divario tra ricchi e poveri è infatti ancora molto ampio e causa già decine di conflitti. Basti pensare che l’1% più ricco intasca un quinto del reddito mondiale e che i cittadini dei paesi più ricchi hanno un’aspettativa di vita più lunga di 30 anni rispetto a quelli dei più poveri. «Man mano che il mondo è diventato più ricco e più sano, anche queste disuguaglianze sono cresciute» e tutta un’altra serie di questioni (come il riscaldamento globale) «stanno innescando rabbia e risentimento contro i paesi sviluppati», ha ribadito Guterres.

Guterres ha ragione. Vivere in un pianeta abitato da 8 miliardi di persone ha – non poche – conseguenze e comporta delle responsabilità collettive. Prima di tutto nei confronti del pianeta stesso: la nostra crescita influenza lo sviluppo delle altre specie, per diversi motivi. Tra cui lo spazio e il nutrimento. In un articolo pubblicato su New Scientist si legge che “tre quarti di tutta la terraferma e due terzi degli oceani sono già stati significativamente alterati dalle persone”. Questo perché chiediamo dal pianeta molto più di quanto ci possa dare. Uno studio del 2020 ha calcolato che il nostro attuale sistema alimentare può nutrire in modo sostenibile “solo” 3,4 miliardi di persone. Significa che dare da mangiare alle restanti equivale a sfruttare la Terra più di quanto potrebbe. L’unica soluzione a disposizione è il cambiamento dei metodi produttivi, a cominciare dal cibo.

In generale sappiamo che le comunità più vulnerabili saranno le più colpite, in un modo o nell’altro, perché come ha detto la demografa Elin Charles-Edwards «se sei ricco, sei in grado di adattarti e trovare un’alternativa», ma se non lo sei devi convivere e sopravvivere alla realtà. [di Gloria Ferrari]

DAGONEWS il 19 novembre 2022.

Otto miliardi di esseri umani sono troppi per il pianeta Terra? Il 15 novembre abbiamo raggiunto questo numero e in tanti si stanno chiedendo quanto sia sostenibile per il pianeta. Ma per la maggior parte degli esperti il problema non è il numero, ma il consumo eccessivo di risorse da parte dei ricchi 

«Otto miliardi di persone, è una pietra miliare per l'umanità - ha affermato Natalia Kanem, capo del Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione - Tuttavia, mi rendo conto che questo momento potrebbe non essere celebrato da tutti. Alcuni esprimono preoccupazione per il fatto che il nostro mondo sia sovrappopolato. Sono qui per dire chiaramente che il numero di vite umane non è motivo di paura».

Quindi siamo troppi?

Molti esperti dicono che la domanda è sbagliata. Invece della paura della sovrappopolazione, dovremmo concentrarci sul consumo eccessivo delle risorse del pianeta da parte dei più ricchi. «Troppi per chi, troppi per cosa? Se mi chiedi, ti dico non credo» ha detto all'AFP Joel Cohen del Laboratory of Populations della Rockefeller University.

Le nostre scelte fanno sì che gli esseri umani consumino molte più risorse, come foreste e terra, di quante il pianeta possa rigenerare ogni anno. Il consumo eccessivo di combustibili fossili, ad esempio, porta a maggiori emissioni di anidride carbonica, responsabili del riscaldamento globale. Avremmo bisogno della capacità di 1,75 Terre per soddisfare in modo sostenibile i bisogni della popolazione, secondo il Global Footprint Network e le ONG del WWF.

«Siamo stupidi. Ci manca la lungimiranza. Siamo avidi. Non usiamo le informazioni che abbiamo. Ecco dove risiedono le scelte e i problemi» ha detto Cohen. 

«Il nostro impatto sul pianeta è influenzato molto più dal nostro comportamento che dai nostri numeri - ha affermato Jennifer Sciubba, ricercatrice del Wilson Center, un think tank.

Sono l'aria condizionata che mi piace, la piscina che ho fuori e la carne che mangio che causano molti più danni». Se tutti sul pianeta vivessero come cittadini indiani, avremmo bisogno solo della capacità di 0,8 Terre all'anno, secondo il Global Footprint Network e il WWF. Se consumassimo tutti come residenti negli Stati Uniti, avremmo bisogno di cinque Terre all'anno. Le Nazioni Unite stimano che il nostro pianeta ospiterà 9,7 miliardi di persone entro il 2050.

Clima, nessun Paese sta rispettando i target per 1,5 gradi e l'Italia sta messa peggio degli altri. Luca Fraioli su La Repubblica il 14 Novembre 2022.

Il Climate Change Performance Index 2023 presentato a Cop27 registra lo stallo del nostro Paese nel mantenere gli impegni al 2030 per frenare la crisi climatica. Pesano il "rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l'emergenza"

SHARM EL-SHEIKH. Quali Paesi stanno rispettando i loro impegni climatici? Nessuno, tantomeno l'Italia, che si ferma a un mediocre 29esimo posto nella speciale classifica sulle performance climatiche dei governi. Il podio anche quest'anno è rimasto desolatamente deserto: nessuno tra gli Stati presi in considerazione ha infatti raggiunto gli obiettivi necessari a fronteggiare il riscaldamento globale e a contenere l'aumento della temperatura media entro la soglia critica di 1,5°C a fine secolo. Brillano però Danimarca e Svezia, rispettivamente al quarto e al quinto posto, e sorprendono non poco Cile, Marocco e India, che occupano dalla sesta all'ottava posizione. 

Lo scenario è quello disegnato questa mattina, nella sala Luxor di Cop27 a Sharm El Sheikh, dalla presentazione del Climate Change Performance Index 2023, rapporto redatto da Germanwatch, l'organizzazione non governativa con sede a Bonn che dal 1991 monitora le politiche pubbliche sull'ambiente, in collaborazione con Climate Action Network, NewClimate Institute e con Legambiente per l'Italia. L'analisi prende in considerazione 59 nazioni, più l'Unione europea nel suo complesso, rappresentanti il 90% delle emissioni climalteranti del Pianeta. Le performance hanno come parametro di riferimento gli obiettivi dell'Accordo di Parigi e gli impegni assunti al 2030 e vengono misurate attraverso il un indice basato per il 40% sul trend delle emissioni, per il 20% sullo sviluppo di rinnovabili ed efficienza energetica e per il restante 20% sulla politica climatica.

Questo spiega lo stallo dell'Italia, che rispetto all'edizione dello scorso anno del rapporto scala una solo posizione (dalla 30esima alla 29esima, appunto) e non si schioda dal centro-classifica. A pesare, si legge nel rapporto, "sono principalmente il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili e una politica climatica ancora inadeguata a fronteggiare l'emergenza". 

"Serve una drastica inversione di rotta", conferma Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente. "Si deve aggiornare al più presto il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), per garantire una riduzione delle nostre emissioni climalteranti, in linea con l'obiettivo di 1.5°C, di almeno il 65% entro il 2030". In effetti, il Pniec nella sua versione attuale consente un taglio delle emissioni di appena il 37% rispetto al 1990 entro il 2030. "Ma va anche confermato il phase-out del carbone entro il 2025", continua Ciafani, "senza ricorrere a nuove centrali a gas. L'Italia può centrare l'obiettivo climatico del 65%, soprattutto grazie al contributo delle rinnovabili, ma deve velocizzare sia gli interminabili iter di autorizzazione dei grandi impianti industriali alimentati dalle fonti pulite sia quelli delle comunità energetiche, causati soprattutto dai conflitti tra ministero dell'Ambiente e della Cultura e dalle inadempienze delle Regioni". 

Tra i Paesi del G20, che si ritroveranno a Bali da domani per parlare anche di clima, solo India (ottavo posto), Regno Unito (undicesimo) e Germania (sedicesimo) si posizionano nella parte alta della classifica, mentre l'Unione Europea sale di tre gradini rispetto allo scorso anno, raggiungendo il 19° posto grazie a nove Paesi posizionati nella parte alta della classifica, frenata però dalle pessime performance di Ungheria e Polonia che continuano a essere fanalino di coda.

La Cina, maggiore responsabile delle emissioni globali, scivola al 51esimo posto perdendo ben 13 posizioni rispetto allo scorso anno: nonostante il grande sviluppo delle rinnovabili, le emissioni cinesi continuano a crescere per il forte ricorso al carbone e la scarsa efficienza energetica del sistema produttivo. Un gradino più in basso, al 52° posto, si piazzano gli Stati Uniti, secondo emettitore globale che però guadagna tre posizioni rispetto allo scorso anno: un risultato attribuibile alla nuova politica climatica ed energetica dell'Amministrazione Biden.

Agli ultimi tre posti della classifica, tre Paesi esportatori e utilizzatori di combustibili fossili: Iran, Arabia Saudita e Kazakistan.

L’Italia spende ancora milioni di euro per sovvenzionare gli allevamenti intensivi. Francesca Naima su  L'Indipendente il 16 novembre 2022.

In Italia i soldi pubblici stanziati in nome della sicurezza alimentare vengono investiti anche a favore degli allevamenti intensivi che oltre a causare ingente inquinamento e a non assicurare il benessere animale, rappresentano luoghi ideali per il proliferare di virus. A fare luce sui finanziamenti indirizzati a grandi realtà che compromettono gli equilibri naturali è una recente inchiesta di Greenpeace Italia. La mappa degli allevamenti diffusa dall’ONG conferma altresì la pianura Padana come “Zona rossa” in quanto supera la metà del totale italiano sia per la quantità di allevamenti presenti che per le emissioni degli ultimi, ed è in prima posizione denaro pubblico ricevuto.

L’ONG ha preso in esame i maggiori emettitori italiani di ammoniaca nel 2020, risalendo in tutto a 894 siti appartenenti a 722 aziende, gli stessi che hanno incassato un totale di 32 milioni di euro nello stesso anno. Ciò significa che delle 722 aziende, nove su dieci hanno ricevuto circa 50mila euro a testa direttamente dai fondi pubblici della PAC (Politica agricola comune europea) creata per tutt’altro fine, perché su carta «Sostiene gli agricoltori e garantisce la sicurezza alimentare dell’Europa». Greenpeace ha scavato a fondo sui sostegni della PAC, trovandosi faccia a faccia con una spinosa realtà. Proprio negli ultimi anni di osannata urgenza di transizione ecologica, i sussidi indirizzati agli allevamenti intensivi sono addirittura aumentati.

Nel 2015 “solo” il 67 per cento delle aziende italiane a cui appartengono le strutture inserite nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti riceveva i finanziamenti della Politica agricola comune. Nel 2020 invece, i sussidi sono stati oltremodo generosi e ne hanno beneficiato l’85,5 per cento delle imprese incluse nel registro, le 722 poc’anzi nominate. La mappa diffusa dall’ONG basata sul Registro Europeo include però le strutture più grandi perché molti degli allevamenti emettitori di ammoniaca sfuggono al monitoraggio. E comunque dalla mappa risulta chiaro come a detenere un triste record tanto per il numero di allevamenti che per le emissioni dagli ultimi causate, siano realtà perlopiù situate nella pianura Padana. Solo in Lombardia esistono 462 allevamenti (sempre considerando i registrati) responsabili di 11.600 tonnellate di ammoniaca emesse eppure “premiati” con quasi 17 milioni di euro, circa il 53 per cento del totale dei sussidi PAC erogati nel 2020 mentre nello stesso anno, ad altre regioni italiane sono stati indirizzati 3 milioni di euro ciascuna.

Ciò che denuncia Greenpeace è quindi un vero e proprio nonsenso, perché la stessa Italia finanzia con soldi pubblici ciò che in Europa genera il 17,5 per cento di PM2,5, particolari polveri sottili tanto fine da entrare nel sangue attraverso i polmoni. La dannosità su più fronti degli allevamenti intensivi è stata denunciata da tempo ormai, ma focalizzandosi solo sul versante inquinamento viene alla luce come essi abbassino sensibilmente la qualità dell’aria e di conseguenza l’aspettativa di vita. Superano le emissioni di polveri sottili solo gli impianti di riscaldamento (con il 37 per cento di PM2,5).

Il contributo degli allevamenti intensivi all’inquinamento atmosferico si spiega perché nei rifiuti zootecnici si trovano ingenti quantità di ammoniaca (NH3), gas che si combina con gli ossidi di azoto e di zolfo una volta liberato nell’atmosfera, generando così le polveri sottili. Ciononostante nel 2020 è stato possibile registrare solo il 7,5 per cento delle emissioni italiane di NH3 che provengono dalla zootecnia (circa 20mila tonnellate). Il restante 92 per cento rimane senza colpevoli, proprio perché non monitorato e assente dal Registro. «Una lacuna che potrebbe essere colmata, come previsto dalla proposta della Commissione Ue di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali», sottolinea Greepeace.

Mentre vengono a galla sempre più incoerenze, piccole realtà ecologiche sulle quali varrebbe la pena investire sono state costrette a chiudere i battenti (basti pensare che tra il 2004 e il 2016 sono circa 320mila le aziende agricole minori fallite) e intanto gli allevamenti intensivi causa di inquinamento, avvelenamento dell’aria con polveri fini quali le PM2.5, che sfruttano impropriamente risorse preziose e costringono gli animali a vivere in condizioni indicibili – creando inoltre ambienti rischiosi a livello sanitario – vengono sostenuti con soldi pubblici teoricamente resi disponibili per tutt’altri obiettivi, tra i quali aiutare le aziende «Ad affrontare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali». Certo però non deve essere facile evitare di sostenere economicamente aziende molto affermate. Molte delle 722 nell’elenco sono infatti legate a giganti quali Veronesi SpA (la holding di Aia e Negroni) oppure fanno parte di gruppi finanziari come Generali o di realtà ben affermate nella zootecnia come il gruppo Cascone. I cittadini possono comunque agire appoggiando iniziative per chiedere al governo di agire contro gli allevamenti intensivi, come la raccolta firme indetta dalla stessa Greenpeace.

[di Francesca Naima]

Miliardari e jet privati. Elon Musk, Jeff Bezos, Bill Gates: i paladini dell’ambiente che inquinano di più.  Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 10 Novembre 2022.

I cittadini sono sempre più scoraggiati a utilizzare l’automobile nei centri urbani. A oggi in Europa sono oltre 320 (diventeranno 507 nel 2025) le città che hanno introdotto low emission zones, zone in cui non solo è proibito guidare auto inquinanti, ma spesso è anche prevista una tassa ecologica per tutte le altre vetture, eccettuate quelle elettriche. Ma perché per entrare nel centro di Milano e Londra bisogna pagare un’ecotassa (da 5 a 27 euro), mentre chi si sposta con l’aereo privato che inquina enormemente di più non paga nulla?

In un’ora 2 tonnellate di CO2

In appena un’ora, un jet privato produce in media 2 tonnellate di CO2, ovvero un quarto delle emissioni di un cittadino europeo in un anno (8,2 tCO2eq). Per esempio, il Cessna Citation Excel (velivolo leggero lungo 16 metri con un’autonomia di 2.700 km che può ospitare fino a otto persone), uno dei più venduti in Occidente, per ogni km percorso produce 1,7 kg di CO2. Il Beechcraft King Air 200, altro jet molto richiesto in Europa, può ospitare fino a sei passeggeri e ha un’autonomia più breve, 1.900 km: per ogni km emette 1,1 kg di CO2. Vuol dire che questi aerei sono da 5 a 14 volte più inquinanti di quelli commerciali e 50 volte più dei treni: e oltretutto trasportano pochissimi passeggeri, a volte anche uno solo.

I grandi inquinatori

La sproporzione dell’inquinamento prodotto dai jet privati ha sollevato l’indignazione degli attivisti che sui social hanno lanciato account di «flight-tracking», ovvero pagine in cui tracciano le rotte dei jet privati e ne denunciano gli effetti sul clima. Il più efficace è stato l’americano Jack Sweeney che utilizzando i dati pubblici dei transponder (codici che contraddistinguono un aereo) ha aperto una quindicina di account per seguire quotidianamente i viaggi dei miliardari americani e delle star dello spettacolo. Tra i più celebri ci sono @CelebJets, @ElonJet, @BezosJets e @GatesJets, gli ultimi tre dedicati agli itinerari degli uomini più ricchi d’America, Elon Musk, Jeff Bezos e Bill Gates, che si professano convinti ambientalisti. Analizzando i dati presentati da Sweeney, il sito dell’emittente France Info ha stilato la classifica dei 10 jet più inquinanti nei primi 8 mesi del 2022. Al primo posto ci sono i due Gulfstream G650 di Bill Gates, aerei con un’autonomia di 13.900 km che possono ospitare fino a 18 persone: in meno di 8 mesi hanno prodotto 3.210 tonnellate di CO2. Già nel 2018 il fondatore di Microsoft era stato indicato in uno studio dell’Università di Lund (Svezia) come la star globetrotter con la peggiore impronta di carbonio. Alle spalle di Gates ci sono i jet del musicista J-Z (1.915 tonnellate di CO2), del miliardario Jeff Bezos (1.787 tonnellate), dell’influencer Kim Kardashian (1.700), del rapper Drake (1.379) e del fondatore di Tesla Elon Musk (1.223). S’aggiungono i 52 voli (14 transatlantici) effettuati dal calciatore Leo Messi tra il primo giugno e il 31 agosto (1.502 tonnellate di anidride carbonica) e i 28 viaggi tra il 20 agosto e il 15 ottobre di Mark Zuckerberg, altro paladino dell’ambiente che con il suo Gulfstream G650 ha prodotto oltre 253 tonnellate di CO2. Perché prendere il jet privato per viaggi brevissimi che potrebbero comodamente essere fatti con altri mezzi meno inquinanti? Ad agosto l’influencer Kylie Jenner ha volato per 17 minuti con il suo Bombardier BD 700 per andare da Los Angeles alla vicina Camarillo (distanza 60 km) emettendo una tonnellata di CO2. A luglio è stata la volta del rapper Drake che per trasferirsi da Toronto a Hamilton in Canada ha scelto un volo privato di 14 minuti. Nello stesso mese la star di Hollywood Mark Wahlberg ha impiegato 23 minuti per trasferirsi da Dublino a Shannon e giocare una partita di golf nel resort Adare Manor. Ma il record di volo lampo va all’ex campione del mondo di pugilato Floyd Mayweather che in dieci minuti ha raggiunto Las Vegas dalla vicina Henderson emettendo una tonnellata di CO2.

Numeri record

Ci sono numeri che devono fare riflettere. Nel 2021 l’industria dei jet privati ha toccato il record di 3,3 milioni di voli, +7% rispetto al 2019, anno in cui si era registrato il precedente primato. Le cifre più alte negli Usa, Paese che conta una flotta di 21.900 aerei d’affari, di cui oltre 13 mila jet disponibili sul mercato (dati 2019). In tutto i voli sono stati 2,3 milioni: nel solo periodo natalizio (dal 20 dicembre al 2 gennaio 2022) sono state segnalate 127 mila partenze di jet Oltreoceano (+41% in più rispetto allo stesso periodo di due anni prima). In Europa i movimenti di aerei privati (arrivi, partenze e sorvoli) negli aeroporti sono stati 728.008 (+5% rispetto al 2019, QUI il documento). Di questi, 111.985 sono voli da e verso l’Italia (+9% rispetto al 2019). Per l’anno in corso si prevede un’ulteriore impennata. Nei primi 9 mesi del 2022 i movimenti negli scali europei sono stati 814.043 (+26% rispetto al 2021, QUI il documento).

Gli aeroporti più trafficati in Europa

In Europa circolano 3.930 jet privati, di cui 194 di base negli scali italiani (solo 133 sono registrati fiscalmente nel nostro Paese). L’aeroporto che ha attirato i maggiori movimenti è Paris Le Bourget (48.421), seguito da Nizza-Costa Azzurra (36.234) e Ginevra (31.823). Nella top 30 ci sono tre scali italiani: Linate (sesto con 20.444 movimenti), Ciampino (decimo con 15.592) e Olbia-Costa Smeralda (ventunesimo con 11.855). Sette delle 10 rotte più inquinanti percorse da velivoli privati in Europa si trovano sull’asse Regno Unito-Francia-Svizzera-Italia (QUI il documento): i Paesi che producono più CO2 con i jet privati sono Regno Unito (425.499 tonnellate, 19,2% del totale), Francia (365.630 tonnellate, 16,5%) e Italia (227.653 tonnellate, 10,2%).

Tratte brevi e verso luoghi di vacanza

Per giustificare l’intenso utilizzo, miliardari e imprenditori affermano che i jet privati permettono di raggiungere luoghi che non sono serviti da rotte commerciali e di risparmiare tanto tempo. In realtà, il 70% dei voli effettuati con i jet sono tra città europee, la maggior parte ben servite dai mezzi di trasporto. Il 50% di questi viaggi copre distanze inferiori a 500 km tra cui due delle tre tratte più trafficate del 2021: Ginevra-Paris Le Bourget (3.241 voli), Paris Le Bourget-Nizza-Costa Azzurra (2.586) e Roma Ciampino-Milano Linate (1.836). Le tratte brevi inquinano molto per il maggiore consumo di cherosene in decollo e atterraggio rispetto alla fase di crociera. I jet potrebbero essere sostituiti quasi sempre con un’opzione meno inquinante, con un tempo extra di poco più di due ore. Il caso più eclatante è il collegamento Ginevra-Parigi, il più frequentato in Europa. La tratta di 409 km potrebbe essere percorsa in treno con 2 ore e 22 minuti in più rispetto al jet, ma evitando di emettere 6,9 tonnellate di CO2. Per il collegamento Milano-Roma basterebbe appena un’ora e 11 minuti in più e si risparmierebbero 3,8 tonnellate di CO2. Infine, il traffico aumenta in maniera evidente durante i periodi estivi e verso località di vacanza, dunque non ha nulla a che fare con le attività di business degli imprenditori.

Tasse e cambiamenti

L’unico Paese europeo ad aver approvato una vera tassa sui jet privati per ogni viaggio è la Svizzera: la «Swiss Private Flight Levy» varia da 500 a 3mila euro a seconda del peso massimo al decollo (MTOW). La norma, però, è attualmente sospesa dopo che gli elettori elvetici hanno bocciato la revisione della legge sulla CO2 in un referendum nazionale del 2021. In Italia su ogni volo privato si paga da 10 euro per le tratte che non superano i 100 km a 200 euro per le tratte oltre i 1.500 km. Tuttavia, qualcosa sta cambiando soprattutto in Francia. A Parigi l’attivismo degli ecologisti ha spinto Bernard Arnauld, il secondo uomo più ricco del mondo, a vendere il suo Bombardier Global Express (valore stimato 60 milioni di euro) per sfuggire ai radar su Twitter. Il ministro della Transizione Ecologica Christophe Béchu ha annunciato che dal 2023 saranno applicate tasse molto più alte. Non è detto che una riforma del genere spinga miliardari e super-ricchi ad essere più sostenibili, ma almeno si troveranno nuove risorse da destinare all’ambiente.

In questi giorni si tiene in Egitto la Conferenza Onu sul cambiamento climatico Cop27. L’auspicio è che all’aeroporto di Sharm El Sheikh non si riproduca il traffico di jet privati di leader e delegati visto l’anno scorso alla Conferenza di Glasgow.

Come la crisi climatica è diventata una questione di (tanti) soldi. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani l’08 novembre 2022

Quando è stata firmata la convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici (1992) e sono iniziate tre anni dopo le conferenze sul clima (Berlino 1995) i cambiamenti climatici erano una minaccia futura, da evitare e prevenire.

Quasi trent'anni dopo, è diventata una crisi globale da declinare al presente: è per questo motivo che il tema è progressivamente passato da come prevenirli a come affrontarli. E come affrontarli è un problema di risorse finanziarie.

È per questo motivo che a COP27 si parla di soldi molto più che di transizione dei sistemi energetici, dei trasporti, dell'industria del cibo. La giustizia climatica è giustizia finanziaria: la questione morale del clima funziona così. Senza giustizia finanziaria non ci sono diritti umani. La linea dell'acqua che sale si governa così.

Quando è stata firmata la convenzione quadro dell'Onu sui cambiamenti climatici (1992) e sono iniziate tre anni dopo le conferenze sul clima (Berlino 1995) i cambiamenti climatici erano una minaccia futura, da evitare e prevenire. Quasi trent'anni dopo, è diventata una crisi globale da declinare al presente: è per questo motivo che il tema è progressivamente passato da come prevenirli a come affrontarli. E come affrontarli è un problema di risorse finanziarie.

È per questo motivo che a COP27 si parla di soldi molto più che di transizione dei sistemi energetici, dei trasporti, dell'industria del cibo. La giustizia climatica è giustizia finanziaria: la questione morale del clima funziona così. Senza giustizia finanziaria non ci sono diritti umani. La linea dell'acqua che sale si governa così.

NARRATIVA

C'è una rivolta - sempre meno sotto traccia - contro le grandi istituzioni finanziarie. È un cambio di narrativa, era chiaro già nelle parole della premier di Barbados Mia Mottley: se a Glasgow l'avversario erano le multinazionali dei combustibili fossili, qui sono istituzioni «inaccessibili, ostili e oppressive» come Fondo monetario internazionale o Banca mondiale. Sono parole di Eddie Perez, responsabile diplomazia climatica di Climate Action Network, che ha dato carne e sostanza al patto climatico di solidarietà invocato ieri dal segretario generale delle Nazioni Unite Guterres: «I conti della crisi climatica sono salati, qui cerchiamo speranza per salvare vite, ospedali, case e turismo, servono soldi per farlo». Quanti e da chi è il tema di questa COP.

La storia che ha cambiato definitivamente la narrativa sul loss and damage, «il conto salato e presente della crisi», è quella del Pakistan devastato dal monsone poco più di un mese fa: milioni di sfollati e miliardi di dollari di danni e perdite.

Tutto questo accade al presente e deve essere risolto al presente. Non c'è più niente di remoto o futuro nella crisi climatica. Tra Glasgow e Sharm sono cambiati i tempi verbali del clima, non più «cosa sarà» ma «cosa è». Perez ha spiegato che non ci sarà nessun testo finale concordato qui a COP27 se non ci sarà un accordo per moltiplicare i flussi finanziari e cambiarne la natura - slegandoli il più possibile dal debito ed «evitando che diventino sussidi per l'industria assicurativa del nord del mondo». E non ci sarà accordo senza una struttura che diventi in grado di erogare fondi per loss and damage già dal 2024. Il tema è entrato in agenda per la prima volta nella storia di una COP, con una deadline fissata tra due anni.

Come ci si arriva? Secondo Nafkote Dabi, policy lead di Oxfam, non si può arrivare a rispettare quella deadline se la struttura e il meccanismo non vengono messi a punto già in questa COP, con delle funzioni precise e specifiche su come raccogliere e come indirizzare i fondi.

A COP28, il prossimo anno, questa struttura deve aver individuato anche un flusso di consegna dei fondi.A COP29 deve essere finalizzata e pienamente operativa.

Se non avranno questo tipo di rassicurazioni ufficiali, i rappresentanti politici del blocco di oltre 130 paesi in via di sviluppo faranno saltare tutto il processo già da Sharm El Sheikh.

IL SIMBOLO TOSSICO

Si respira una forte insofferenza politica in questa COP27, un'atmosfera dove la rabbia ha preso il posto della speranza che si respirava a Glasgow. Il feticcio e l'oggetto simbolo di questa rabbia sono i 100 miliardi l'anno di aiuti promessi già dal 2009 (COP15) da Stati Uniti, Europa, Australia, Canada, Giappone ai paesi in via di sviluppo. Sono arrivati molto lentamente, praticamente sgocciolando, mai del tutto, «come beneficenza» e sotto forma di prestiti. Ormai sono considerati una distrazione tossica, non solo perché mancano ancora 17 miliardi a questa colletta, ma perché la colletta in sé è del tutto insufficiente per un problema che nel frattempo è arrivato alla scala dei triliardi, 2mila miliardi di dollari all'anno già dal 2030, secondo uno studio commissionato dai governi britannico e dell'Egitto e presentato qui.

È con questo che ci stiamo confrontando.

E questi dati offrono una prospettiva diversa anche al risalto dato dal governo italiano al fondo italiano per il clima, che triplica gli investimenti, è vero, ma da una base insufficiente e rimanendo lontanissimo non solo alla scala necessaria per recuperare fiducia tra i blocchi ma anche rispetto alle promesse fatte in passato. 

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista. Napoletano, come talvolta capita, vive a Milano, per ora. Si occupa di clima, ambiente, ecologia, foreste. Per Domani cura la newsletter Areale, ha un podcast sui boschi italiani, Ecotoni, sullo stesso argomento ha pubblicato il libro Italian Wood (Mondadori, 2020). È inoltre autore di Primavera ambientale. L’ultima rivoluzione per salvare la vita umana sulla Terra (Il Margine, 2022).

Altro che indennizzi: che cosa chiedono davvero i Paesi emergenti alla Conferenza sul clima. Federico Rampini su Il Corriere della Sera l’8 Novembre 2022.

«Carbonizzare per poi decarbonizzare»: l’approccio alla questione del cambiamento climatico dei Paesi emergenti punta su uno sviluppo il più rapido possibile. Che comporterà l’uso di energie fossili «per una ragionevole durata» 

Uno dei massimi esperti dell’energia, Daniel Yergin, ha confidato di recente che «l’approccio più maturo alla questione del cambiamento climatico oggi è quello dei Paesi emergenti».

Non si riferiva alla richiesta di indennizzi che il Sud del pianeta rivolge ai Paesi ricchi, bensì all’idea che «bisogna prima carbonizzare per poi de-carbonizzare».

In altri termini: per costruire un nuovo modello di sviluppo più sostenibile, basato in modo determinante su energie rinnovabili, bisogna essere ricchi.

Per diventare ricchi bisogna industrializzarsi e questo comporta l’uso di energie fossili per una ragionevole durata. Decenni.

Questo non è il messaggio che piace a Greta Thunberg né agli imbrattatori di Van Gogh che riportano d’attualità l’eco-terrorismo degli anni Settanta. Ma — sostengono i Paesi emergenti — è il messaggio del realismo, del pragmatismo, e anche della scienza.

I paesi del Sud del pianeta hanno di fronte a sé due modelli molto concreti. Cina e India sono le due superpotenze a cui s’ispirano tutti coloro che sognano un decollo economico simile al loro.

A New Delhi, il premier Narendra Modi si è dato come obiettivo di generare metà dell’elettricità con fonti rinnovabili entro il 2030. L’obiettivo è molto ambizioso ma bisogna precisare subito che una parte da leone in queste rinnovabili la fa il nucleare. Inoltre, l’altra metà dell’elettricità indiana resterà affidata a energie fossili. E poiché l’India cresce, le «due metà» del suo fabbisogno elettrico nel 2030 saranno molto più grosse di oggi. Risultato: l’India prevede di aver bisogno di aggiungere una capacità di 28 gigawatt di centrali a carbone e Modi sta approvando l’apertura di nuove miniere di carbone. Carbonizzare per poi de-carbonizzare, appunto, senza sacrificare lo sviluppo economico in mancanza del quale non esiste un futuro sostenibile.

La Cina è un esempio ancora più macroscopico di questo pragmatismo. A tutti gli effetti si prepara a diventare la superpotenza «verde» del futuro. Già oggi siamo tutti dipendenti dalla Cina per i nostri pannelli solari e le batterie delle nostre auto elettriche. Il dominio cinese nelle rinnovabili ambisce a diventare quasi un monopolio.

Al tempo stesso la Cina ha investito 400 miliardi insieme alla Russia per trasportare gas dalla regione artica della Siberia fino a casa propria. In quanto al carbone, oggi la Cina ne consuma più di tutto il resto del mondo messo assieme. E non ha alcuna intenzione di metterlo al bando, né nel breve né nel medio termine. Nel solo anno 2021 la Repubblica Popolare ha costruito il triplo di centrali a carbone (per un totale di 33 gigawatt di produzione elettrica) di tutto il resto del mondo.

Qualsiasi cosa dica e faccia l’Occidente, il futuro delle emissioni carboniche si decide a Pechino e New Delhi molto più che a Washington e Bruxelles.

I Paesi meno sviluppati dell’Asia, l’Africa subsahariana, l’America latina, guardano a Cina e India come ai due modelli realistici e attraenti, non alle parole di Greta Thunberg.

Poi, per mettere a tacere le critiche degli ambientalisti occidentali, i Paesi poveri ci chiedono qualche migliaio di miliardi di indennizzi e aiuti vari. Ma sia chiaro a cosa puntano davvero: ad accelerare il loro sviluppo, che nell’immediato significa più consumo di energie fossili e più emissioni di CO2. Uno sviluppo alternativo, tutto pulito, semplicemente non esiste.

Cop27, follia ecologista: ci tocca risarcire i danni climatici a chi inquina di più. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano l’8 novembre 2022

È la Cina il primo emissore globale di Co2: nel 2017, 9.838.754.028 tonnellate. Dopo gli Usa, con 5.269.529.513, terza è l'India, con 2.466.765.373. E quarta la Russia, con 1.692.794.839. Ma né, Xi Jinping, né Modi, né Putin saranno alla 27esima Conferenza delle Parti della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici in Egitto: la conferenza Cop27 di Sharm el Sheikh, che parte oggi. A differenza di Biden, malgrado le Mid Term a immediato ridosso. E ci sarà anche Giorgia Meloni, che potrebbe tenere un incontro bilaterale con il presidente dell'Egitto Abdel Fattah al Sisi. Assenze tanto più significative, in quanto i 30.000 partecipanti dovranno discutere non solo di surriscaldamento globale, emissioni nocive e modalità per far fronte ai cambiamenti climatici, ma anche di una proposta di compensazione dei Paesi più ricchi ai più poveri e vulnerabile a cambio climatico. Si parla di almeno 340 miliardi di dollari all'anno, secondo la stima del Programma Onu per l'Ambiente. Sono oltre oltre 12 volte i 29 miliardi effettivamente arrivati nel 2020, e tre volte e mezzo i 100 miliardi che erano stati promessi nel 2009 a partire dal 2020, e che probabilmente saranno raggiunti nel 2023.

 PARADOSSI

Un paradosso è che il primo ministro indiano non c'è, ma l'India si pone alla testa del fronte dei Paesi che bussa alla cassa, rimproverando ai Paesi più ricchi i ritardi negli aiuti promessi. Nel dossier sono i finanziamenti per la transizione energetica, i costi dell'adattamento ai cambiamenti climatici già provocati e la compensazione dei danni. Secondo l'Onu, Tra il 2000 e il 2020 sono stati registrati 7.348 disastri naturali che hanno coinvolto oltre 4 miliardi di persone, con 2.970 miliardi di dollari di perdite economiche. E nel conto non stanno ad esempio le ultime alluvioni che un mese fa in Pakistan hanno fatto oltre 1.700 vittime, 33 milioni di sfollati e circa 40 miliardi di dollari di danni, con un impatto sul Pil che sarà del -5% nel 2022 e del -2% nel 2023. Ma l'India ottiene dal carbone il 70% della propria elettricità, e in pratica vuole che gli paghino le spese per la propria transizione: 220 miliardi di dollari all'anno!

Sull'adattamento, «l'azione è rallentata, e bisogna dare un segnale. E dobbiamo cominciare la discussione sulla finanza per il loss & damage», ha avvisato alla vigilia della Conferenza di Sharm el-Sheikh il rappresentante speciale egiziano, Wael Aboulmagd. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry, presidente designato della Conferenza, ha fatto sapere che l'obiettivo dell'evento è passare dalla negoziazione e pianificazione alla realizzazione degli obiettivi posti nelle passate edizioni. Durante la Cop26 di Glasgow, i partecipanti si erano impegnati ad accelerare la riduzione di combustibili fossili e di emissioni di carbonio.

 TEMPERATURA

Nel Glasgow Climate Act, i firmatari avevano stabilito di contenere l'aumento medio della temperatura terrestre entro 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, a ridurre del 45% le emissioni di CO2 entro il 2030, ad approvare e adottare i meccanismi dell'accordo di Parigi e a raddoppiare le misure finanziarie a sostegno dell'adattamento climatico. I Paesi partecipanti si sono poi impegnati ad aggiornare i piani nazionali con obiettivi più ambiziosi. Tuttavia, finora solo 24 Paesi su 193 hanno presentato i loro piani alle Nazioni Unite. «I governi nazionali devono rafforzare ora i loro piani d'azione per il clima e attuarli nei prossimi otto anni», ha messo in guardia Simon Stiell, segretario esecutivo delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, durante un briefing con la stampa la scorsa settimana.

Anche il ministro dell'Ambiente e della Sicurezza Energetica Gilberto Pichetto accompagnerà Giorgia Meloni. Lo rende noto il ministero secondo cui «nel quadro dell'azione multilaterale di contrasto al riscaldamento climatico, l'Italia svolge tradizionalmente un ruolo particolarmente attivo e costruttivo». Inoltre il ministro «tornerà a Sharm el Sheikh dal 13 al 14 novembre per presenziare all'apertura del segmento ministeriale dei lavori, al fine di dare impulso ai negoziati sui diversi dossier in discussione e per partecipare sia ad alcune importanti attività organizzate dalla Presidenza egiziana, sia ad altrettante iniziative che si svolgeranno presso il Padiglione Italiano». La presenza alla Cop 27 del Premier Meloni e del Ministro Pichetto, dice sempre il ministero, «confermano il ruolo attivo del nostro Paese su tutte quelle tematiche che, in piena sintonia con i nostri Partner europei, si ritengono di elevata priorità nel quadro delle azioni per contrastare il riscaldamento del pianeta». 

Bruxelles incontra le lobby del fossile una volta ogni due giorni. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 30 ottobre 2022.

Tra l’inizio di febbraio e la fine di settembre di quest’anno la Commissione europea ha tenuto un totale di 113 incontri con quattro delle principali compagnie dell’industria fossile (Eni, Repsol, Total e Shell), al ritmo di quasi uno ogni due giorni. Tuttavia, lo stesso non si può dire sia valso anche per i rappresentanti della società civile e delle associazioni a tutela dell’ambiente, che non hanno di fatto mai potuto incontrare né i delegati della Commissione, né tanto meno la presidente Ursula von der Leyen. Questo nonostante la retorica di questa Commissione ruoti strettamente intorno al discorso della transizione ecologica e nonostante la stessa von der Leyen abbia dichiarato in più di un’occasione che il tema costituisca una questione prioritaria per il suo mandato. I dati sono stati raccolti da Fossil Free Politics, una rete di quasi 200 associazioni (della quale è parte anche l’Italia con ReCommon) che si batte per l’eliminazione dei combustibili fossili.

D’altronde, suona quantomeno contraddittorio il fatto che, per far fronte all’emergenza energetica esplosa in seguito allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, la Commissione si sia rivolta proprio alle compagnie del fossile per avere consigli sulle modalità di riduzione della dipendenza dal gas e dal petrolio russo: le medesime, sottolinea il rapporto, che “hanno creato la dipendenza europea dai combustibili fossili russi estraendo il gas russo, lavorando con partner russi quali Gazprom e Rosneft e costruendo nuovi gasdotti dalla Russia all’Europa, come il Nordstream2”.

Il 18 maggio 2022 la Commissione europea pubblica una comunicazione ufficiale nella quale espone il contenuto del piano RePowerEU, dopo averlo annunciato l’8 marzo, all’indomani dello scoppio della guerra in Ucraina. Il piano si propone di “risparmiare energia, produrre energia pulita, diversificare il nostro approvvigionamento energetico” con il fine di “rendere l’Europa indipendente dai combustibili fossili ben prima del 2030”. Non può non apparire un controsenso, quindi, che tra le soluzioni adottate vi sia stata l’estrazione di gas da Paesi con regimi repressivi quali Azerbaigian, Arabia Saudita e Qatar e la costruzione di nuove infrastrutture per la lavorazione del GNL. Il piano prevede, inoltre, lo sfruttamento di nuove risorse quali l’idrogeno e il biometano, “che sono altamente redditizi per l’industria ma anche disastrosi per il clima” scrive il rapporto.

Nei mesi precedenti all’elaborazione del RePowerEU, von der Leyen aveva comunicato lei stessa di aver discusso della possibilità di “diversificare le scorte e ridurre la richiesta di gas” e di come “ridurre la nostra dipendenza” dal gas russo direttamente con i capi delle grandi aziende dell’industria fossile e con l’European Roundtable of Industrialists (ERT), associazione composta da amministratori delegati di decine di multinazionali tra le quali anche Total, Shell, BP ed Eni. Il conflitto d’interesse appare qui più evidente che mai.

Secondo le evidenze raccolte all’interno del rapporto di Fossil Free Politics, in un meeting del 21 marzo svoltosi con Shell, BP, Total, Eni, E.ON, Vattenfall e il presidente di ERT i giganti dell’industria fossile avrebbero dichiarato che l’Europa avrebbe dovuto “evitare pesanti interventi sul mercato, come imporre il price cap”. Sette mesi dopo sono molti i Paesi a insistere sulla necessità di imporre un tetto ai prezzi dell’energia, ma la Commissione sembra andare molto a rilento nel valutare la questione.

Secondo i dati elaborati dal Il Fatto Quotidiano, in un articolo di oggi domenica 30 ottobre a firma di Stefano Vergine, è di almeno 113 il numero degli incontri tra la Commissione e le principali big dell’industria fossile, e questo solamente nel periodo tra inizio febbraio e fine settembre: un ritmo di quasi una ogni due giorni. In testa c’è Shell, con 34 incontri ufficiali, seguita da Total con 30 incontri, Eni con 29 e Repsol con 20. Nel frattempo, la società civile e le associazioni per l’ambiente non hanno potuto godere delle stesse possibilità di discutere delle soluzioni per la crisi energetica e climatica con alcun membro della Commissione europea: von der Leyen si sarebbe infatti rifiutata di incontrare i rappresentanti di Green 10, una coalizione di dieci delle più grandi realtà per l’ambiente a livello europeo. Manovre che tingono le promesse della Commissione circa la transizione ecologica di un pallido verde greenwashing. [di Valeria Casolaro]

Patricia Tagliaferri per “il Giornale” il 18 ottobre 2022.

Anche il 2022 si conferma un anno nero per la qualità dell'aria. Sarà perché durante la pandemia le misure antinquinamento sono state allentate, perché piove poco, il traffico è sempre più congestionato o non si fa abbastanza per incrementare la mobilità sostenibile, ma lo smog continua ad essere un'emergenza in molte città italiane, che fanno fatica a rispettare i valori suggeriti dall'Organizzazione Mondiale della Sanità per il Pm10, ossia le cosiddette polveri sottili.

Un problema che ha gravi ripercussioni sulla salute, al punto che in Italia l'inquinamento atmosferico miete più vittime che nel resto d'Europa: secondo le ultime stime dell'Agenzia europea ambiente, infatti, il 17% dei morti per inquinamento in Europa (1 su 6) è italiano. I dati pubblicati da Legambiente nell'edizione autunnale del dossier «Mal'aria 2022» fanno suonare un campanello d'allarme per l'inquinamento atmosferico nei tredici capoluoghi monitorati nei primi dieci mesi dell'anno.

Nessuna delle città rispetta i valori suggeriti dall'Oms, che per il Pm10 indica 15 microgrammi/metro cubo (per il Pm2.5 5 microgrammi/metro cubo e per l'NO2 10 microgrammi/metro cubo). Sono Milano, Torino e Padova - con rispettivamente 69, 54 e 47 giornate di sforamento - ad essere fuori legge per quanto riguarda i valori delle particelle inquinanti presenti nell'aria che respiriamo, avendo superato con almeno una delle centraline la soglia dei 35 giorni previsti con una media giornaliera superiore ai 50 microgrammi/metro cubo.

Codice giallo per Parma (25), Bergamo (23), Roma (23) e Bologna (17) che hanno già consumato la metà dei giorni di sforamento. A seguire, Palermo e Prato (15), Catania e Perugia (11) e Firenze (10) che sono già in doppia cifra. A Torino e Milano il Pm10 ha una media annuale, eccedente il valore Oms, del +121% e del +122%. A Perugia la percentuale si ferma al +36%, mentre a Bari arriva al +53% e Catania al +75%. Situazione ancora più critica per quanto riguarda il Pm2.5, le particelle di dimensioni aerodinamiche minori, dove lo scostamento dai valori Oms oscilla tra il +123% di Roma al +300% di Milano. Male anche per l'NO2, l'ossido di azoto, altro componente dell'inquinamento dell'aria, la cui eccedenza dei valori medi registrati rispetto al limite dell'Oms varia tra il +97% di Parma fino al +257% di Milano.

Il direttore generale di Legambiente, Giorgio Zampetti, denuncia «il preoccupante immobilismo della politica italiana davanti alle emissioni di biossido di azoto, dovute in gran parte al traffico veicolare». Immobilismo che è già costato una condanna all'Italia da parte della corte di Giustizia europea. Gli strumenti per ridurre le emissioni inquinanti per Legambiente ci sono. Portare i limiti di velocità in autostrada da 130 a 100 km/h, per esempio, consentirebbe di tagliare le emissioni di CO2 del 20% e del NO2 del 40%.

Ma soprattutto potenziare la mobilità pubblica, incentivare il trasporto pubblico, condiviso ed elettrico, la sharing mobility, implementare Ztl, Lez (Low emission zone) e Zez (Zero emission zone), seguendo il modello di Londra, Amsterdam, Parigi, Bruxelles o Anversa. Nel nostro Paese, poi, il poco che si faceva nelle grandi città per combattere lo smog è stato interrotto negli anni dell'emergenza Covid.

«Un errore», per Andrea Poggio, responsabile Mobilità di Legambiente, perché «la ripartenza si preannuncia peggiore». «La vera sfida - spiega - sarà l'incremento dell'offerta di servizi di trasporto pubblico e di mobilità condivisa elettrica per tutti. In Italia abbiamo più auto che patenti, con un quarto delle metropolitane, dei tram e dei bus elettrici d'Europa».

Lo smog a Milano strada per strada: cappa sopra le scuole, aria fuorilegge per il 50% dei bambini. Gianni Santucci su Il Corriere della Sera il 17 Ottobre 2022

La mappa interattiva elaborata dai «Cittadini per l’aria». Nella zona di piazzale Loreto la concentrazione media di biossido di azoto è di 55 microgrammi per metro cubo, cinque volte il limite indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità 

A sinistra la mappa della concentrazione di biossido di azoto (No2) a Milano, un gas tossico di colore rosso bruno; a destra il valore registrato a piazzale Loreto

A ridosso di piazzale Loreto (uno dei quadranti più trafficati e inquinati della città) c’è una dozzina di scuole. Le migliaia di bambini e ragazzi che le frequentano respirano un livello di biossido di azoto intorno ai 55 microgrammi per metro cubo come media annuale. La legge europea impone di non superare il limite di 40. Le linee guida aggiornate invece dall’Organizzazione mondiale della sanità nel 2021 dicono che per proteggere la salute la soglia dovrebbe essere molto più bassa, 10 microgrammi.

Sono questi i limiti che bisogna tenere a mente quando si prova a navigare sulla mappa di Milano appena elaborata dall’associazione Cittadini per l’aria: alla cartina della città è sovrapposta la «nuvola» dell’inquinamento da No2 quasi strada per strada (con una definizione per quadrati da 50 metri per lato) e si vede infine la collocazione delle oltre mille scuole, dagli asili ai licei, dalle pubbliche alle private. Moltissime, come si nota già a colpo d’occhio, sono collocate proprio nei pressi delle grandi arterie di scorrimento, quelle che per livello di smog sono un reticolato di viola intenso.

Se questa è l’immagine, la traduzione in numeri della rappresentazione visiva dice che oltre 110 mila bambini e studenti respirano ogni giorno aria nociva, con un livello di veleni molto al di sopra dei limiti di legge. L’altro 45 per cento delle scuole si trova in zone o quartieri che rispettano quella soglia, ma sono appena sotto: l’aria che si respira, anche lì, è dunque gravemente tossica stando alle raccomandazioni dell’Oms.

La mappa dell’No2 dei Cittadini per l’aria sarà da oggi sul sito dell’associazione e permette un doppio livello di consultazione. Oltre alla ricerca sulle scuole, può essere consultata anche per indirizzo, ad esempio di residenza o di lavoro, e restituisce sia i livelli di inquinamento, sia le stime di quali possano essere i danni per la salute con riferimento alle ricerche scientifiche più aggiornate, dunque l’aumento del rischio di mortalità e di infarto per gli adulti e l’asma le patologie respiratorie per i bambini e i ragazzi. La mappa è stata elaborata sfruttando un meccanismo di intelligenza artificiale e anche sulla base dei dati raccolti da centinaia di milanesi che hanno aderito ai progetti si scienza partecipata dei Cittadini per l’aria.

Secondo l’ultimo report dell’Arpa sulla qualità dell’aria in Lombardia, a differenza di altri inquinanti come le polveri sottili, per i quali negli ultimi anni si è verificata una progressiva tendenza alla riduzione che ha permesso di rispettare alcuni parametri di legge, la concentrazione media annua di No2 a Milano è stata di 44 microgrammi per metro cubo nel 2021. Ha spiegato Francesco Forastiere, tra i maggiori epidemiologi italiani, da poco premiato per i suoi contribuiti dalla «International society for environmental epidemiology»: «L’inquinamento colpisce soprattutto i più deboli: i bambini ancora nel grembo della mamma, riducendo la loro crescita, i bambini nei primi anni di vita, aumentando la frequenza d’infezioni respiratorie, provocando crisi di asma, ritardando la crescita cognitiva e l’apprendimento; infine gli anziani, con l’aumento di problemi respiratori, cardiovascolari e neurologici, favorendo una mortalità precoce. Si tratta di un pericolo infido e sottile, difficile da riconoscere, che però la scienza è stata in grado di scovare. Le azioni per evitare questo insidioso pericolo sono tante, basta avere il coraggio di applicarle».

Il problema dei rifiuti elettronici: li conserviamo perché non sappiamo dove buttarli. Simone Cosimi La Repubblica il 14 Ottobre 2022 

L'indagine Ipsos-Erion: in media teniamo nel cassetto 9 apparecchi elettrici ed elettronici rotti o che non usiamo. Uno su sei confessa di essersene liberato in modo inappropriato. Male i giovani. Ecco le soluzioni

Ne abbiamo in media 9. Sono gli apparecchi elettronici rotti o che non usiamo ma che conserviamo ancora in casa. Tecnicamente si tratta di Raee, rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche: l'81% dice di possederne almeno uno ancora funzionante ma inutilizzato e il 61% se lo tiene, pure se è rotto (tra quest'ultimi per il 33% si tratta di vecchi cellulari, per il 23% di caricabatterie e per il 17% di laptop).

Raee: cosa sono e come smaltirli 

Ma perché questa sindrome da accumulo? La speranza è l'ultima a morire: il 39% pensa di poterlo riparare, mentre il 30% di poterne utilizzare le parti di ricambio ma - attenzione - il 23% dichiara ancora di non conoscere la corretta procedura di smaltimento e il 15% ha difficoltà nel raggiungere un centro di raccolta. Molti, insomma, sostanzialmente alla pari di chi vorrebbe ripararli, vorrebbero sbarazzarsene ma non sanno come fare. E allora giustamente invece di gettarli nell'indifferenziata li tengono. 

È uno degli scenari dipinti dall'indagine condotta da Ipsos ed Erion in occasione della Giornata internazionale dei rifiuti elettronici, il 14 ottobre, e intitolata "Raee e Rpa. Livelli di conoscenza, opinioni e comportamenti. Cosa nascondono nei loro cassetti gli Italiani?" (disponibile qui). Un altro, parallelo, riguarda le batterie: più di un italiano su due dichiara di avere in casa pile e batterie esauste. Il rapporto è stato realizzato su un campione di 1.400 cittadini italiani (dai 18 ai 75 anni), utilizzando la metodologia CAWI, Computer Assisted Web Interview.

Uno su sei smaltisce i Raee nell'indifferenziata

Riguardo alle modalità di dismissione, a fronte di un 63% di intervistati che si sono liberati di almeno un rifiuto di questo genere negli ultimi 12 mesi, uno su sei dichiara di averlo fatto in modo inappropriato, gettandolo nel sacco dell'indifferenziata, nel cassonetto stradale o nel bidone della plastica. Si tratta di un problema enorme: i Raee sono rifiuti speciali contenenti decine di materiali e componenti, dai metalli preziosi alle terre rare, che vanno trattati in modi specifici, che dispersi nell'ambiente hanno un enorme potere inquinante ma che se correttamente riciclati costituiscono un vero tesoro. Ai primi posti per conferimento scorretto: asciugacapelli (22%), tostapane e frullatore (20%) e caricabatterie per cellulari (18%), che si spera nei prossimi anni diventeranno di meno grazie alla recente direttiva approvata dal Parlamento Europeo. Tutto questo, ed è la notizia peggiore, nonostante il 79% conosca i rischi ambientali di un errato conferimento.

Male i giovani: non sanno di cosa si parla né cosa si rischia

Stabile rispetto al 2021 il livello di conoscenza dell'acronimo Raee con il 44% degli intervistati che ne ha già sentito parlare. Il Nord è la zona con i cittadini più informati (47%), seguito dal Centro (46%), fanalino di coda il Sud e le isole con il 37%. Molto rimane da fare: senza consapevolezza non c'è sensibilizzazione che tenga. E il problema è che sono proprio i giovani, spesso gli utenti più intensivi dei dispositivi elettronici, i più ignoranti in materia: l'89% dei 18-26enni dichiara di avere almeno un apparecchio elettrico o elettronico ormai in disuso e il 73% di non essersene disfatto anche se rotto. Basso, anche, il livello di conoscenza e consapevolezza in materia: solo il 26% dei giovani sa cosa significa l'acronimo Raee e il 32% ancora non conosce le criticità ambientali legate a uno scorretto conferimento. Un problema enorme, se inquadrato in prospettiva. 

Questo gap informativo porta infatti a gravi conseguenze: quattro giovani su 10 si sono liberati del proprio caricabatterie gettandolo nel sacco dell'indifferenziata, nel cassonetto stradale o nel bidone della plastica. Anche in tema pile e batterie esauste, la fascia 18-26 anni risulta poco virtuosa, ambientalista a parole ma non nella pratica: soltanto il 39% conosce i rischi di uno sbagliato conferimento e il 70% le tiene in casa anche una volta scariche.

Cosa serve per migliorare: punti di raccolta vicino a casa

Cosa occorre, insomma, per migliorare la situazione, ancora sconfortante? Il 35% degli italiani chiede di aumentare le iniziative di comunicazione e le campagne informative, mentre il 32% vorrebbe veder riportate sui prodotti informazioni chiare circa le modalità di conferimento del rifiuto. Tra i principali incentivi alla corretta dismissione, invece, spicca la presenza di un punto di raccolta vicino a casa (28%): servirebbero piccole isole ecologiche, specialmente nelle grandi città, raggiungibili a piedi e dove portare tutti gli apparecchi su cui si abbiano dei dubbi. Qui, intanto, alcune indicazioni utili sul conferimento uno contro zero. 

"Il quadro che ci presenta Ipsos è allarmante: sono davvero ancora troppi i Raee e i Rifiuti di pile e accumulatori dimenticati nelle case degli italiani, rifiuti che, se avviati al corretto riciclo, potrebbero rappresentare una miniera strategica di materie prime di cui il nostro paese è sempre più povero. Occorre maggiore informazione, questo è chiaro - spiega Danilo Bonato, direttore generale di Erion, che è il principale sistema multi-consortile no profit di nato nel 2020 dalla fusione dei consorzi Ecodom e Remedia - importante però che ci sia anche più responsabilità da parte di noi cittadini nello sfruttare maggiormente i servizi a disposizione per conferire le proprie apparecchiature non più utilizzate o non più funzionanti: tenerle dimenticate nei cassetti, in soffitta o in cantina è esso stesso un gesto contro l'ambiente. Bisogna invertire questa tendenza. Mi rivolgo soprattutto ai giovani: voi che rappresentate il futuro, date il buon esempio! Riciclare è fondamentale. Con un piccolo gesto, infatti, possiamo ridurre la nostra impronta ecologica evitando danni al pianeta oltre a incrementare le nostre fonti di approvvigionamento di materie prime, allentando la dipendenza economica dell'Italia da paesi esteri".

Cala la raccolta differenziata, ma sui Raee nel complesso si cresce

Guardando ai comportamenti degli italiani in fatto di sostenibilità, si rileva un trend in calo rispetto al 2021 tra chi dichiara di fare spesso la raccolta differenziata (80% rispetto all'85%). E - nonostante il boom delle piattaforme di dispositivi ricondizionati, su tutti gli smartphone, e le scelte dei produttori in termini di assistenza e pezzi di ricambio - è solo il 39% (-14%) che preferisce riparare un oggetto piuttosto che sostituirlo con uno nuovo. Le nuove generazioni risultano almeno le più propense alla condivisione, come sharing e noleggio, e all'acquisto di prodotti riciclati e ricondizionati. 

Segnale positivo, invece, per le abitudini di riciclo di Raee e Rpa, con un +7% nel numero di intervistati che dichiara di farne spesso la raccolta differenziata. "L'economia circolare fatica ancora a trovare spazio nella quotidianità delle persone: dalla ricerca che abbiamo realizzato per Erion, manca, infatti, la piena consapevolezza che tale processo si può innescare proprio a partire dal corretto riciclo dei nostri rifiuti - commenta Alberta Della Bella, senior researcher Ipsos Public affairs - sono soprattutto le nuove generazioni a rivelare un'adesione più  ideale che pratica alle buone regole della sostenibilità, in particolare quando si tratta di Raee e Rpa. Informare sul fatto che questi rifiuti sono prima di tutto delle risorse e non semplici scarti è fondamentale, ancor di più se consideriamo che i rifiuti correlati ai prodotti elettronici sono quelli con il maggior tasso di crescita".

I veleni del Nord, le colpe da dividere. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022. 

Non va omesso di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord

La Pianura padana è la regione più inquinata d’Europa», ha detto Roberto Castelli a L’Aria che tira su La7. Vero. Anche se la realtà è sempre stata spazzata sotto il tappeto per occultare le enormi responsabilità della più spregiudicata imprenditoria lombarda, veneta, emiliana e piemontese, le inchieste giudiziarie e parlamentari hanno detto parole definitive. Meno oneste sono invece quelle che l’ex guardasigilli ha aggiunto: «Migliaia di padani muoiono ogni anno per garantire il lavoro e quindi il reddito di cittadinanza per chi non lavora. Guardate che il Nord non ce la fa più». Con chi ce l’ha: con la Campania e il resto del Sud che secondo l’Osservatorio Inps ricevono 1,65 milioni su 2,65 milioni di assegni erogati? Buttata in così, l’accusa dell’ex ministro è monca e inaccettabile. Perché omette di ricordare un nodo centrale: troppi meridionali sono stati uccisi dai veleni scaricati nelle terre e nei mari del Sud, da veleni prodotti al Nord. Basti ricordare certe messe celebrate da don Maurizio Patricello, il parroco di Caivano, tra le foto dei bambini morti di cancro: «Qui sono pentiti tutti: i poveretti che hanno taciuto su quello che vedevano, i camionisti, i camorristi... Tutti meno gli affaristi e gli imprenditori settentrionali che si son liberati dei rifiuti tossici».

Certo, la catena di avvelenamenti assassini va attribuita soprattutto ai camorristi che si sono venduti i campi e i frutteti loro e di poveracci ricattati. Ovvio. Ma come ha spiegato alla giornalista Daniela De Crescenzo Gaetano Vassallo, il «ministro dei rifiuti» dei Casalesi nel libro Così vi ho avvelenato («Alla mia famiglia ho fatto sequestrare 43 milioni di euro in un colpo: 45 appartamenti, 7 ville, i terreni, un Park Hotel, un ristorante, tutti soldi...») non furono meno colpevoli per i morti avvelenati, troppi imprenditori del Nord: «Facemmo arrivare di tutto... Scaricammo fanghi, ceneri, residui di lavorazioni industriali, residui di conceria... Risparmiare faceva piacere a tutti e trovare clienti, viste le amicizie che avevamo coltivato, diventò facilissimo... Casalesi: un nome, una garanzia». Di più: «Sorrido quando al Nord parlano della Terra dei Fuochi con sufficienza: tanti sono convinti di essersi liberati dei rifiuti con poca spesa. Ma spesso le sostanze tossiche non hanno mai nemmeno lasciato i siti di provenienza». Giravano solo le carte. I veleni restavano lì. E il reddito di cittadinanza non c’entra un fico secco.

La sanzione secondaria. Report Rai PUNTATA DEL 28/11/2022 di Manuele Bonaccorsi

A Priolo in Sicilia il dramma del petrolchimico siracusano che rischia di chiudere.

Il petrolchimico di Priolo (Siracusa), capace di produrre da solo un terzo del fabbisogno italiano di derivati del petrolio, rischia di chiudere, lasciando senza lavoro circa 10mila lavoratori. E i nostri distributori senza benzina, con conseguenze drammatiche sul sistema dei trasporti. Per quale motivo? Report racconterà le due grandi minacce che rischiano di mettere al tappeto questa importante realtà produttiva. La prima sono le sanzioni contro Mosca. La società petrolifera russa Lukoil, che controlla il principale impianto della zona industriale siracusana, seppur non sottoposta alle misure restrittive dell’Unione Europea, non riesce più a farsi rilasciare dalle banche le lettere di credito necessarie all’acquisto di greggio sui mercati mondiali. E dal 5 dicembre, a causa delle sanzioni, non potrà neppure importare il greggio russo. Report svelerà lo scontro geopolitico in atto sul petrolchimico siracusano, che coinvolge anche gli interessi statunitensi sul mercato mondiale dei carburanti. La seconda minaccia è giudiziaria. La Procura di Siracusa ha posto sotto sequestro il depuratore che tratta i reflui inquinanti del petrolchimico. L’accusa è durissima: disastro ambientale. Se i magistrati dovessero realmente fermare l’impianto di depurazione, l’intero petrolchimico dovrebbe chiudere i battenti.

LA SANZIONE SECONDARIA di Manuele Bonaccorsi collaborazione Federico Marconi consulenza Luisa Santangelo immagini Dario D’India – Andrea Lilli – Paco Sannino montaggio Riccardo Zoffoli

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora andiamo in Sicilia, vicino Siracusa, dove c’è un petrolchimico, una parte importante, una raffineria dei russi della Lukoil. È un impianto strategico perché fornisce il 20 per cento del carburante che è nei nostri impianti in tutta Italia, ma è anche strategico per l’occupazione. E però rischia la chiusura e 10mila persone rischiano di andare per strada. Perché? Che cosa è successo?

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo in Sicilia, sulla costa tra Siracusa e Catania. Qui sorge uno dei più grandi petrolchimici d’Europa, esteso per oltre 40 chilometri quadrati e capace di produrre oltre un terzo del fabbisogno italiano di derivati del petrolio.

ENZO PARISI – LEGAMBIENTE AUGUSTA Sono tutte multinazionali, ormai di nazionale qui non è rimasto niente. Abbiamo i russi della Lukoil che sono lì. Sono costrette a importare solo petrolio russo, ne hanno importato, il mese passato, qualcosa come una milionata di tonnellate.

MANUELE BONACCORSI E queste navi sono tutte petroliere?

ENZO PARISI – LEGAMBIENTE AUGUSTA Quasi tutte.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La nostra indipendenza energetica passa anche da questi impianti, controllati da aziende extraeuropee. La russa Lukoil, acquistava gran parte del greggio dal mercato mediorientale. Ma dopo lo scoppio della guerra in Ucraina le sanzioni finanziarie le hanno impedito di stipulare accordi commerciali.

DIEGO BIVONA - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA SIRACUSA Il paradosso di questa sanzione è che Lukoil, che utilizzava circa il 30% del petrolio russo, da quando ha iniziato l'embargo lavora il 100% del petrolio russo, risultando il più grosso consumatore dopo la Cina e l'India.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma nelle prossime settimane, le nuove sanzioni europee bloccheranno completamente le importazioni di greggio russo. La raffineria potrebbe addirittura chiudere i battenti.

DIEGO BIVONA - PRESIDENTE CONFINDUSTRIA SIRACUSA Il 5 dicembre la Lukoil non può più fare entrare una goccia di petrolio grezzo nel proprio stabilimento.

ROBERTO ALOSI - SEGRETARIO GENERALE CGIL SIRACUSA La Lukoil, uno dei più grossi stabilimenti che abbiamo qui, occupa oltre 3000 lavoratori e per il sistema che abbiamo industriale profondamente integrato per effetto domino si rischia di travolgere tutto il sistema industriale petrolchimico siracusano. Parliamo di un bacino di circa 10.000 lavoratori.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Pochi giorni fa a Siracusa sono scesi in piazza migliaia di lavoratori. Con loro la chiesa, i sindaci, le scuole.

OPERAIO Noi facciamo parte di una comunità che però rischia di essere risucchiata in una crisi da cui non so se usciremo facilmente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma se l’impianto dovesse davvero chiudere le conseguenze riguarderebbero l’intero Paese.

MANUELE BONACCORSI Cioè rischiamo di trovare i distributori di benzina chiusi?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Molti sì, con degli impatti terrificanti sui trasporti pesanti, trasporto merci e quindi sul costo dei beni che arrivano nei supermercati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Salvatore Carollo è uno dei massimi esperti mondiali di mercato petrolifero. Per 20 anni è stato il responsabile del trading di Eni, l’uomo che firmava le compravendite di petrolio per il colosso energetico italiano.

MANUELE BONACCORSI Per quale motivo la raffineria Isab di Priolo non è più stata in grado di acquistare petrolio sui mercati internazionali ed è stata costretta ad acquistare solo quello russo?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Si è pensato che siccome è una società russa, automaticamente non aveva più diritto a ottenere la lettera di credito indispensabile per l'acquisto di greggio presso i paesi produttori. Questa interpretazione delle sanzioni è andata al di là di quello che le sanzioni stesse prevedevano. Perché Lukoil, anche se è una società russa, non è oggetto delle sanzioni.

MANUELE BONACCORSI Cioè possono operare liberamente.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Possono operare liberamente. E lo fanno, anche negli Stati Uniti, dove hanno dei sistemi di distribuzione di prodotti petroliferi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Quando a ottobre il nuovo esecutivo si ritrova tra le mani la patata bollente del rischio di una chiusura dell’impianto, corre ai ripari. Il ministero dell’Economia redige una comfort letter, rivolta alle banche. Dice: date pure credito a Lukoil le sanzioni non si applicano. Sembrerebbe tutto risolto. Eppure…

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Sarebbe stato sufficiente se non ci fosse stata una presa di posizione pesante dell'amministrazione americana che ha cercato di bloccare questo provvedimento.

MANUELE BONACCORSI Però noi non siamo sottoposti alla giurisdizione statunitense.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Assolutamente, però quale banca si mette a emettere una lettera di credito sapendo che poi potrebbe avere una reazione negativa dal mercato americano.

MANUELE BONACCORSI Cioè gli Stati Uniti potrebbero sanzionare, volendo la banca che ha emesso la lettera di credito ai russi.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Esatto. Potrebbero succedere azioni di ritorsione. Viene pure il dubbio che, siccome c'è stato un fondo americano che aveva mostrato interesse a comprare la raffineria di Priolo e questa presa di posizione americana è un modo di sollecitare la Lukoil a fare business con il fondo americano.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A presentare la proposta è stato il fondo statunitense Crossbridge Energy. Ma Lukoil, secondo il Financial Times, ha rifiutato l’offerta. Intanto il tempo scorre. il 18 novembre, al Ministero dello Sviluppo Economico il ministro Urso riunisce le parti sociali. C’è il presidente della regione siciliana Schifani, il direttore dello stabilimento Lukoil, il russo Maniakhine, e i sindacati. Sono invitati anche i rappresentanti delle banche. Sono loro gli unici che possono salvare il petrolchimico. Ma al tavolo non si presentano.

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Chi rappresenta le banche è stato il grande assente al tavolo. Questo non è accettabile.

MANUELE BONACCORSI Secondo lei perché?

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Non ho una risposta da darle.

MANUELE BONACCORSI Un’idea se la sarà fatta

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL Sì

MANUELE BONACCORSI Ce la dica

DANIELA PIRAS - SEGRETERIA NAZIONALE UILTEC-UIL No MANUELE BONACCORSI Mi perdoni per quale motivo secondo lei le banche italiane non vogliono concedervi credito. Può essere che dipende dagli Stati Uniti? C’è il rischio di sanzioni secondarie? Lei è russo, lo sa benissimo come funzionano le sanzioni secondarie; è possibile? Le banche che motivazioni adducono quando vi dicono non vi concediamo il credito? Questo ce lo può dire però… Non ce lo può dire?

EUGENE MANIAKHINE – DIRETTORE GENERALE ISAB -LUKOIL Grazie. Buona giornata. Piacere.

MANUELE BONACCORSI Ministro, è vero che le banche temono le sanzioni secondarie da parte del governo americano? Mi risponde?

ADOLFO URSO - MINISTRO SVILUPPO ECONOMICO Faccia la domanda alle banche.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Chiariamo bene questo concetto: c'è una guerra in corso e ci sono delle sanzioni e delle attività di solidarietà verso l'Ucraina. Mentre stiamo facendo insieme una battaglia nobile, nello stesso tempo alcuni stanno pensando un po’ a fare i loro affari.

MANUELE BONACCORSI Cioè se noi volessimo veramente creare un danno alla Russia bloccando le sue esportazioni di petrolio, cosa dovremmo fare?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Questa domanda me l'hanno fatta, diciamo una società di consulenza internazionale che mi aveva contattato a febbraio chiedendomi delle opinioni su come strutturare delle eventuali sanzioni. E alla domanda precisa: “Come potremo bloccare il petrolio russo effettivamente?” Ho detto: ”Dal punto di vista tecnico, queste sanzioni non colpiscono la Russia, perché se anziché mandarlo in Europa lo mando nell'estremo Oriente dove me lo pagano di più, io non ho nessun problema finanziario”.

MANUELE BONACCORSI E per chi lavorava a queste società di consulenza?

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Per il governo ucraino.

MANUELE BONACCORSI Cioè, il governo ucraino ha consigliato le sanzioni all'Unione Europea quanto meno.

SALVATORE CAROLLO – EX DIRETTORE ENI TRADING & SHIPPING Ha portato un pacchetto di proposte all'Europa.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’ex responsabile del trading dell’Eni, Carollo, ci da una notizia: sarebbe stato il governo ucraino, attraverso la multinazionale KPMG, a suggerire un pacchetto di sanzioni che poi l’Europa avrebbe fatto proprio. E proprio le sanzioni hanno generato un paradosso in questa vicenda della Lukoil: la Lukoil è un’azienda russa sulla quale però non è stata applicata la sanzione. E prima della guerra importava il 70% del petrolio che raffinava da Africa e Medio Oriente. Poi sono scattate le sanzioni, a quel punto le banche non hanno più emesso lettere di credito. La Lukoil non ha più potuto acquistare petrolio e ha pensato all’unica alternativa possibile, quella di importare il proprio petrolio direttamente dalla Russia. Ora, che cosa è successo, che il governo Draghi non si è molto occupato di questa vicenda e ha lasciato la patata bollente a quello della Meloni. Il ministero dell’Economia ha mandato una lettera alle banche, invitandole ad emettere nuovamente lettere di credito, ma hanno fatto orecchie da mercante. Le banche temono le sanzioni secondarie del governo americano. America che ha anche un’attenzione particolare sulla vicenda Lukoil. Infatti un fondo americano, Crossbridge, ha presentato un’offerta alla Lukoil, c’è un tema che riguarda la carenza di gasolio raffinato negli Stati Uniti, per questo questo fondo è interessato alla Lukoil. Ma i russi hanno respinto al mittente l’offerta. Però il 5 dicembre potrebbe accadere che la Lukoil sia costretta a chiudere i battenti. Entrano in vigore le nuove sanzioni dell’Europa sull’energia, quindi la Lukoil non potrà più importare petrolio russo. A quel punto si aprirebbe un grosso problema per il nostro paese, perché dalla Lukoil arriva il 20 per cento del carburante raffinato, che viene distribuito in tutto il paese. Poi c’è un’emergenza occupazione, rischiano di finire per strada 10mila operai, considerando anche l’indotto. E a questo punto al nostro governo non rimangono che due strade: uno, la nazionalizzazione, un impegno imponente, importante, l’altra sarebbe chiedere una deroga alle sanzioni. Non sarebbe la prima volta, è già accaduto un’altra volta, quando l’Eni intratteneva rapporti commerciali con l’Iran. Però tutti questi non sono gli unici problemi: la Lukoil potrebbe essere chiusa anche per altri motivi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, che cosa è successo. Che la procura di Siracusa ha sequestrato il depuratore di Priolo. Perché li confluivano i reflui dal petrolchimico, reflui tossici, anch’essi prodotti anche dalla Lukoil. Secondo i magistrati il depuratore non era in grado di depurare bene e dunque migliaia di tonnellata di sostanze tossiche sarebbero finite nell’ambiente. Per questo l’accusa è disastro ambientale. Sono finiti indagati i manager che gestivano il depuratore. Si tratta di manager pubblici e privati. Perché la società che gestiva il depuratore è a maggioranza pubblica, soprattutto della Regione Siciliana, e poi ci sono dentro anche i privati. E chi controllava la qualità dell’inquinamento all’interno del depuratore erano proprio responsabili scelti dalle ditte private, cioè da chi avrebbe inquinato. Il nostro Manuele Bonaccorsi è riuscito a entrare nell’impianto sequestrato, che cosa ha scoperto?

ENZO PARISI - LEGAMBIENTE AUGUSTA Il depuratore sta lì con il suo scarico che attraversa quest'area e giunge a un miglio fuori dalla costa. Da questa parte il mare, con i suoi lidi, gli ombrelloni.

MANUELE BONACCORSI Cioè, qui, si fa il bagno?

ENZO PARISI - LEGAMBIENTE AUGUSTA Certo, la gente fa il bagno e lo fa molto volentieri. Le evidenze di cui parla invece la magistratura, i periti della magistratura, sarebbero diverse: secondo loro il depuratore ha scaricato a mare in cinque anni 2500 tonnellate di idrocarburi, più o meno una tonnellata e mezzo al giorno.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questa estate la Procura di Siracusa ha posto sotto sequestro il depuratore biologico consortile di Priolo Gargallo, gestito da una società mista pubblico privata, la IAS. La maggioranza del capitale, il 65,5 %, è della regione siciliana, il 7,5 dei due comuni del comprensorio; il resto è dei privati, le aziende petrolchimiche che inviano qui tutti i reflui inquinanti prodotti dagli impianti. L’accusa dei pm è gravissima: disastro ambientale. Il prof. Maggiore, tra i massimi esperti di depuratori, ha potuto visionare alcuni contratti tra le aziende petrolchimiche e IAS, che regolano la qualità dei reflui che vengono conferiti al depuratore.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 La legge stabilisce dei limiti di immissione in fognatura. C’è un limite per gli idrocarburi totali: 10mg per litro. Solfuri il limite è due milligrammi per litro, e c’è una cosa che anche qui lascia stupefatti: valori massimi ammessi in base al contratto che io ho per l'acido solfidrico 60, non due, 60 mg per litro e, per quanto riguarda gli idrocarburi, 200 mg per litro anziché 10. Venti volte di più. Ma non solo

MANUELE BONACCORSI Ma questa cosa è completamente illegale.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Ci sono le deroghe, significa fino al 40% in più rispetto ai valori massimi ammessi è ammesso; semplicemente ti faccio pagare un po’ di più.

MANUELE BONACCORSI Solo che questo depuratore non era in grado di fare questa lavorazione

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 No, tutto questo secondo me non è che è nato per caso. Cioè c'è stata una volontà politica di questo tipo: scaricare i costi del privato sul pubblico.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Infatti, secondo lo statuto, nonostante la società che gestiva impianto di depurazione fosse a maggioranza pubblica, i direttori venivano nominati dalle aziende private.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICA DELL’AMBIENTE - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Chi dirige tecnicamente l'impianto, sono gli stessi che inquinano. Controllori e controllati.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Maggiore è un ex consulente dell’azienda che gestiva l’impianto di depurazione e nel 2016 aveva già denunciato tutto: l’impianto è tecnicamente incapace di gestire i reflui fuori norma che vengono conferiti. Ma nessuno lo aveva ascoltato. Eppure, la soluzione era a portata di mano: per abbattere almeno in parte gli inquinanti sarebbe bastato chiudere le vasche e convogliare i fumi in un camino, con un impianto detto tecnicamente di “deodorizzazione”. E in effetti IAS questo impianto l’aveva realizzato nel lontano 2009; l’allora ministra dell’Ambiente, la siracusana Stefania Prestigiacomo, si era precipitata a inaugurarlo.

STEFANIA PRESTIGIACOMO - MINISTRA DELL’AMBIENTE 2008-2011 - DAL TGR SICILIA DEL 22/07/2009 Ricordo che ancora non facevo politica e si parlava dell’esigenza di coprire le vasche. Ovviamente con le nuove tecnologie si è risolto il problema con questo impianto, quindi un grande plauso.

RICCARDO MAGGIORE – PROFESSORE DI CHIMICO - UNIVERSITÀ DI CATANIA 1973 - 2016 Dopo la costruzione dell'impianto ci si accorse che le concentrazioni delle sostanze da abbattere erano addirittura fino a 300 volte superiori a quelle che erano state date come dato di progetto per la progettazione, cioè il progetto era basato su dati completamente avulsi dalla realtà.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Cioè l’impianto appena costruito era abbondantemente sottodimensionato per le sostanze da depurare.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Questo è l'impianto di deodorizzazione, però io lo conosco parzialmente perché sono arrivato l’anno scorso, lo hanno abbandonato anni fa.

MANUELE BONACCORSI Ah, questo è l’impianto che doveva entrare in funzionamento e non è mai entrato in funzione?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sono state fatte delle prove, non hanno dato l'esito sperato e quindi poi non è stato più utilizzato.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’impianto di deodorizzazione è abbandonato da 13 anni; appena acceso è subito andato in tilt. Da allora i fumi tossici provenienti dalle vasche del depuratore hanno inquinato l’aria, secondo i tecnici della Procura al ritmo di 77 tonnellate l’anno, fra cui 13 tonnellate di benzene, sostanza cancerogena. La troupe di Report è l’unica ad aver avuto l’autorizzazione a entrare dentro l’impianto. A guidarci nella visita è il responsabile ambientale Roberto Sportiello.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Le acque vengono inviate in queste grandi vasche dove c'è l’impianto di trattamento biologico, ovvero ci sono dei batteri che si nutrono degli inquinanti presenti all'interno delle acque e sostanzialmente le rendono pulite e pronte per essere immesse nel Mar Ionio.

MANUELE BONACCORSI Questi batteri sono in grado anche di aggredire gli inquinanti provenienti dall'industria degli idrocarburi?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sono in grado di aggredire e abbattere il 99,5% degli idrocarburi; quindi, quello che entra sostanzialmente viene degradato tutto.

MANUELE BONACCORSI Ma scusi, però, vuol dire l'impianto è perfetto, fa il suo lavoro, perché è stato sequestrato?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Per gli idrocarburi noi abbiamo analisi che confortano il funzionamento dell’impianto.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’impianto è sequestrato dal tribunale, per un probabile disastro ambientale, ma per il responsabile ambientale dell’impianto va tutto benissimo. Il motivo lo capiamo a latere dell’intervista.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA I composti volatili presenti in aria – il benzene, l’idrogeno solforato, tutte le sostanze potenzialmente pericolose - noi li monitoriamo una volta l’anno e siamo sostanzialmente, anche lì, sempre al di sotto dei limiti.

MANUELE BONACCORSI Lei è di qua?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Io sono di Siracusa.

MANUELE BONACCORSI E dove lavorava prima?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Alla raffineria Isab.

MANUELE BONACCORSI Ah, viene dall’Isab.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Volevo dare il mio contributo di esperienza.

MANUELE BONACCORSI Ma a Isab esattamente cosa faceva?

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Il responsabile ambiente.

MANUELE BONACCORSI Caspita aveva un ruolo importante.

ROBERTO SPORTIELLO – INGEGNERE IAS SPA Sostanzialmente sempre quello che faccio qua, ho un po’ di esperienza.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Dunque, a gestire gli aspetti ambientali dell’impianto di depurazione sequestrato, è il tecnico proveniente dall’industria petrolifera che programmava proprio l’invio dei reflui inquinanti da parte della principale azienda della zona, l’Isab, oggi proprietà Lukoil. L’azienda riferisce che i reflui venivano analizzati quotidianamente tramite questo campionatore automatico. E i risultati delle analisi appaiono perfetti. Come si spiega? Nel 2019 la Procura di Siracusa trova traccia di una potenziale falsificazione delle analisi in alcune intercettazioni

GIUSEPPE FAZIO – DIPENDENTE IAS SPA Il depuratore funziona perché il laboratorio scrive numeri a minchia!

LUIGI BRUNO – EX RESPONSABILE LABORATORIO IAS SPA A volte, per esempio come per gli oli, li facciamo solo quando c'è una necessità impellente, uno ogni tanto a spot perché sono analisi costose e, su indicazione del vecchio direttore, che dovevamo risparmiare, cioè quando ci accorgiamo che il COD non passa, certi parametri non li facciamo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E quindi, dove sono finiti i veleni del petrolchimico? Pippo Sorbello, ex consigliere di amministrazione del depuratore, è un politico di lungo corso, assessore regionale tra il 2008 e il 2009. L’impianto lo conosce come le sue tasche. Lo incontriamo in un bar a Priolo.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Il trucco è stato sempre di fare rimanere all’interno dell’impianto i rifiuti, non smaltirli. Per non smaltirli le vasche sono tutte piene di rifiuti.

MANUELE BONACCORSI Invece di essere smaltiti li tengono lì.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Sì.

MANUELE BONACCORSI Quindi hanno trasformato l’impianto in una discarica.

PIPPO SORBELLO – EX CDA IAS SPA Nell’equalizzazione ci sono 15mila tonnellate di fanghi, che comporterà una spesa non indifferente per essere tirati fuori.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ma come è possibile che questo inquinamento andasse avanti per anni senza che nessuno se ne accorgesse? Patrizia Brundo, una commercialista di Avola è stata l’ultima presidente della società, nominata dalla Regione Sicilia. Sapeva che la gestione dell’impianto rischiava di produrre un grave danno ambientale?

PATRIZIA BRUNDO - PRESIDENTE IAS SPA 2019-2022 Queste domande dovrebbe farle al direttore generale. Lui ci scriveva che andava tutto bene, noi ci fidavamo di lui.

MANUELE BONACCORSI Il controllo è andare a vedere le carte.

PATRIZIA BRUNDO - PRESIDENTE IAS SPA 2019-2022 Sì, è andare a vedere le carte. Lei ha perfettamente ragione, ma l'attività gestionale non competeva alla governance.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Prima di lei lo scranno di presidente era occupato da Maria Grazia Brandara, collaboratrice dell’ex assessore della Regione siciliana Mariella Lo Bello. Entrambe sono imputate per associazione a delinquere a Caltanissetta per il processo il cui principale accusato è l’ex presidente di Confindustria Sicilia Antonello Montante. Per i pm di Siracusa fu Brandara ad approvare lo statuto che consegnava ai privati tutti i poteri nella gestione dell’impianto.

MANUELE BONACCORSI Furono i privati in qualche modo a imporla quella modifica statutaria?

MARIA GRAZIA BRANDARA - PRESIDENTE IAS SPA 2016-2020 Diciamo era nelle cose, perché loro mettono i soldi. Tutto il bilancio, 17 milioni di euro, lo mettono i privati. E quindi quelli volevano il controllo dei loro soldi.

MANUELE BONACCORSI Voi eravate informati che era una situazione completamente fuori controllo?

MARIA GRAZIA BRANDARA - PRESIDENTE IAS SPA 2016-2020 Lei ha davanti la persona più corretta che ci sia in Sicilia e oltre.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Se gli amministratori di nomina politica si voltano dall’altra parte, cosa ha fatto invece l’Agenzia regionale all’ambiente, l’Arpa, che avrebbe il compito di verificare?

MANUELE BONACCORSI Come può essere che una società del genere sversa nell'ambiente tonnellate di inquinanti senza che voi ve ne rendiate conto e li fermate prima?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Noi siamo in numero insufficiente a gestire, a rispondere a tutte quelle attività che ci competono per legge.

MANUELE BONACCORSI Ad esempio, nella zona industriale di Siracusa, quanto personale avete?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Sono quattro, sono quattro.

MANUELE BONACCORSI Quattro persone per uno dei petrolchimici più grandi d'Europa?

VINCENZO INFANTINO - DIRETTORE GENERALE ARPA SICILIA Sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Negli anni il depuratore non viene quasi mai controllato anche perché non è dotato di una autorizzazione integrata ambientale, il documento necessario per dare il via libera ad aziende grandi e pericolose dal punto di vista ambientale.

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA Aveva una semplice autorizzazione allo scarico, scaduta da parecchi anni. Due anni fa circa ha chiesto una autorizzazione unica ambientale che è un'autorizzazione che si rilascia alle piccole e medie imprese.

MANUELE BONACCORSI Tipo, di quale misura?

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA Tipo gli autolavaggi, tipo i frantoi, tipo le lavanderie.

MANUELE BONACCORSI Lei mi sta dicendo che l'azienda che gestisce gli scarichi del più grande petrolchimico d'Europa ha chiesto l'autorizzazione che avrebbe dovuto chiedere un autolavaggio?

GIUSEPPE RAIMONDO - ASSESSORE AMBIENTE COMUNE DI SIRACUSA L’autorizzazione unica ambientale si rilascia anche agli autolavaggi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nell’agosto 2014 IAS, società dell’impianto di depurazione, aveva scritto al ministero dell’Ambiente, chiedendo se per svolgere la sua attività il depuratore avesse bisogno di un’AIA. La risposta del direttore generale Grimaldi è degna di Don Abbondio: “sembrerebbe non configurarsi una competenza statale”. Il ministero gira allora l’incartamento alla Regione Sicilia. Ma la Regione che pure è la proprietaria del depuratore, chiude il plico in un cassetto e se ne dimentica per 8 anni. Dopo il sequestro della magistratura, questo luglio i tecnici dell’assessorato siciliano all’ambiente si precipitano ad autorizzare l’impianto, che fino a quel momento è tecnicamente abusivo.

MANUELE BONACCORSI Assessore, le volevo fare se possibile, un paio di domande su Ias, il depuratore.

TOTO CORDARO - ASSESSORE ALLA TUTELA AMBIENTALE REGIONE SICILIANA 2017-2022 Ci vediamo in assessorato. Siccome faccio l’assessore, la ricevo da assessore, avrete tutta la considerazione che meritate, anche domani mattina magari no, vediamo lunedì mattina, sono a vostra disposizione.

MANUELE BONACCORSI Io devo riscendere da Roma...

TOTO CORDARO - ASSESSORE ALLA TUTELA AMBIENTALE REGIONE SICILIANA 2017-2022 Noi, lei non deve riscendere: lei si gode due giorni di mare fantastico, abbiamo un sole bellissimo e io le do la considerazione che meritate.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Mimmo Turano, influente politico di Alcamo, in provincia di Trapani, è stato per anni il titolare delle Attività Produttive nella giunta regionale siciliana. La proprietà dell’impianto sequestrato era riconducibile al suo assessorato.

MANUELE BONACCORSI Assessore, salve, Bonaccorsi di Report.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Ah benissimo, dopo, dopo, dopo, dopo.

MANUELE BONACCORSI Dopo il comizio?

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 No, assolutamente. Dopo. Voi avete chiesto un appuntamento e lo avrete.

MANUELE BONACCORSI Non mi ha mai risposto.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 No, ho risposto alla e-mail dicendo che ero in campagna elettorale.

MANUELE BONACCORSI No, guardi, la risposta non è mai arrivata. Io le volevo fare solo una domanda sul depuratore IAS.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITA’ PRODUTTIVE SICILIA 2017- 2022 No.

MANUELE BONACCORSI Può essere che la Regione non si sia accorta che era un impianto abusivo?

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Lei è un provocatore; registri e lo mandi in onda. Io voglio rilasciare l’intervista, ne sentirete di belle appena mi sentirà parlare.

MANUELE BONACCORSI E io sono felice di ascoltarla, però lei mi deve rispondere.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Come no? Dopo, finita la campagna elettorale, lei riceverà una mail, verrà nel mio studio e parleremo di tutto.

MANUELE BONACCORSI Finita la campagna? Sicuro? Perché non sono riuscito a parlare con nessuno della Regione. Pare che questo impianto…

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Non è vero, non è vero, non è vero, non è vero.

MANUELE BONACCORSI Proprio nessuno, il vuoto.

MIMMO TURANO - ASSESSORE ATTIVITÀ PRODUTTIVE SICILIANA 2017- 2022 Mi deve mandare in onda quello che le dico. Lei sta dicendo una bugia, perché le hanno risposto alla e-mail. Mi dia un bacio.

MANUELE BONACCORSI Con piacere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un po’ un bacio di Giuda perché non ha mantenuto niente di quello che ci aveva promesso, né ci ha inviato mail, né ci ha richiamato. Come ci ha ripensato anche l’altro assessore, Cordaro, il quale non se l’è più sentita di rilasciare un’intervista. Umanamente noi lo capiamo, perché come fai a giustificare questa mostruosità laddove c’è un impianto, un depuratore a maggioranza pubblica, dove però comandano i privati. Sono i privati che hanno sostanzialmente indicato chi doveva controllare la quantità di inquinamento all’interno di quel depuratore. Gli stessi che inviano dei reflui con delle sostanze tossiche: per contratto, quel contratto che è riuscito a vedere il nostro Manuele Bonaccorsi, che permette di inviare sostanze più tossiche, con dei limiti più alti rispetto alla legge. Ecco, peccato che questo depuratore non sia in grado di trattare quel tipo di rifiuti e ha agito fino al sequestro senza alcuna autorizzazione. Poi i controlli pubblici hanno funzionato come abbiamo visto. Adesso siamo a un punto di svolta. La procura ha chiesto ai privati: fermate l’immissione di quei reflui al depuratore. E i privati hanno risposto: è impossibile, perché altrimenti dovremmo fermare gli impianti. E allora come se ne esce? La procuratrice capo di Siracusa ci ha scritto e ci ha detto: l’autorizzazione ambientale rilasciata dalla regione ha dei profili di illegittimità, servirebbe una legge specifica che consenta al depuratore di agire in deroga alla legge ordinaria, oppure la procura dovrà necessariamente procedere con il fermo dei reflui. Ecco questo comporterebbe la chiusura immediata del petrolchimico. Servirebbe una legge ad hoc, come nel caso dell’Ilva. Perché tutto è veleno e niente è veleno. È la legge che fa il veleno.

La vergogna senza fine del petrolchimico di Siracusa: «Da 40 anni il depuratore non funziona: tutto va in aria e in mare». Omissioni, carte truccate, controlli inesistenti. L’Espresso in esclusiva ha letto tutti i documenti alla base dell’indagine della procura per disastro ambientale legato al più grande impianto italiano e tra i maggiori d’Europa. Ma neppure l’inchiesta siciliana ferma le grandi aziende, che sversano ancora in un impianto non adatto. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 12 settembre 2022

«Il depuratore funziona perché il laboratorio scrive numeri a minchia!…se si viene a sapere fuori, che noi non abbiamo controllato mai un cazzo!». È l’ottobre del 2019 e due dirigenti dell’impianto di depurazione del più grande polo petrolchimico d’Italia, e tra i più grandi d’Europa, vengono intercettati dalla procura di Siracusa. Inizia così una indagine che ha portato il mese scorso al sequestro di una struttura che per quarant’anni non ha mai funzionato nonostante lì le più grandi aziende chimiche e petrolifere d’Europa - e non solo -  abbiano scaricato, e scarichino ancora, fanghi e agenti inquinanti: per intenderci, Eni, i russi della Lukoil, i sudafricani della Sasol, gli indiani della Sonatrach. 

L’indagine della procura aretusea per disastro ambientale guidata da Sabrina Gambino, arrivata a normalizzare uffici infestati dal sistema del corruttore di giudici Piero Amara, alza il velo sull’inquinamento di un pezzo del Paese avvenuto in maniera incredibile con una serie di azioni superficiali di chi doveva controllare e della politica concentrata solo a spartire qualche posto di sottogoverno. L’Espresso ha potuto leggere nella sua completezza tutta la documentazione alla base di un’inchiesta che lascia davvero senza parole. Sembra incredibile che questo sia avvenuto negli anni Duemila, eppure le intercettazioni e le analisi dei periti incaricati dalla procura lasciano poco spazio ai dubbi: per decenni, e ancora oggi come vedremo, si è «compromessa la qualità dell’aria e del mare» dove insistono diversi agglomerati urbani, da Siracusa a Priolo, Melilli e anche alcuni paesi interni. 

In questo polo, dove ogni anno si lavorano 14 milioni di tonnellate di greggio, il 26 per cento della raffinazione complessiva in Italia, l’impianto di depurazione non ha mai funzionato per smaltire i reflui industriali che infatti venivano, e vengono, mischiati a quelli civili. Ma è solo un «escamotage», come scrivono i sostituti procuratori Tommaso Pagano e Salvatore Grillo. Il risultato è che secondo i periti della procura solo negli ultimi anni sono state emesse in atmosfera abusivamente 77 tonnellate di idrocarburi e agenti inquinanti all’anno, fra le quali 13 tonnellate di benzene. E in mare sono finite 1.500 tonnellate di agenti inquinanti mischiate ai fanghi per usi civili.

L'inchiesta ruota attorno alla gestione della società mista pubblico-privato “Industria acqua siracusana” (Ias), che gestisce la depurazione nel polo petrolchimico. La parte pubblica con Regione e Comuni ha la maggioranza, i privati sono rappresentati dalle grandi aziende. La politica negli anni si è accontentata di gestire le nomine dei presidenti dei cda: in questo ruolo dagli anni Ottanta si sono alternati i principali politici della zona dai tempi della Dc, dall’ex presidente della Regione Santi Nicita al comunista Salvatore Raiti. Ultimamente era diventata terreno di pascolo per gli uomini e le donne legate al sistema di Antonello Montante, l’ex vicepresidente di Confindustria condannato in secondo grado per associazione a delinquere: come Maria Grazia Brandara (unica indagata tra gli ex componenti cda Ias), a processo in uno dei filoni di inchiesta su Montante; oppure Maria Battiato, moglie del colonnello dei carabinieri Giuseppe D’Agata, anche lui coinvolto in un secondo processo in corso per i «servigi» offerti all’ex leader degli industriali; e, ancora, la procura fa rientrare nell’orbita Montante le nomine nei cda Ias di Gianluca Gemelli, compagno dell’ex ministra dello Sviluppo economico Federica Guidi, e del sindacalista Salvatore Pasqualetto, che in una intercettazione di Battiato veniva definito uno «che non capiva nulla degli argomenti trattati». Ma c’è un motivo che forse spiega queste nomine e lo racconta interrogata la stessa Maria Battiato: «La società formalmente è a maggioranza pubblica, ma è totalmente in mano al volere dei soci privati…posso dire che era interesse dei privati quello di continuare a gestire l’impianto così come si era sempre fatto, senza intervenire per migliorare le problematiche ambientali pure da me segnalate». 

E come funzionava questo impianto? Lo ha “scoperto” la procura quando ha inviato lì i suoi consulenti tecnici, che in una relazione scrivono: «I dati rilevati postulerebbero una capacità depurativa dell’impianto pari al 90 per cento degli idrocarburi immessi dagli utenti…Tuttavia l’impianto non è ontologicamente in grado di smaltire neanche un microgrammo di idrocarburi. Non risultano presenti sezioni espressamente dedicate alla separazione degli oli e della loro rimozione. Analogamente non risultano flussi in uscita relativi agli idrocarburi». 

Resta quindi una domanda: con quale tecnicismo alla fine le soglie di legge venivano rispettate sulla carta? La risposta, in maniera incredula, la scrivono gli stessi pm: «Una parte degli idrocarburi calcolata in 77 tonnellate all’anno si disperde nella matrice aria mediante evaporazione dalla superficie delle vasche, a causa dell’assenza di un impianto di convogliamento delle emissioni. La restante parte che, stando alle autorizzazioni potrebbe addirittura superare le 1.500 tonnellate all’anno, sarà inevitabilmente quasi totalmente presente nel refluo in uscita…Se tuttavia queste enormi quantità di idrocarburi finiti in mare vengono diluite, grazie al mescolamento con i reflui civili con carico inquinante bassissimo, esse magicamente rientreranno nei limiti previsti dalla legge. È chiaro che si tratta di un escamotage, di un trucco buono a gettare fumo negli occhi e che non avrebbe potuto ingannare - per circa 40 anni - tutti gli enti deputati al controllo e alla tutela ambientale… Alla luce dei deficit strutturali si ritiene di poter serenamente affermare che dall’inaugurazione dell’impianto biologico consortile si fa sostanzialmente finta di depurare i reflui provenienti dai processi produttivi delle grandi aziende della zona industriale, immettendo inquinanti non smaltiti in atmosfera e nel mare Ionio, in quantitativi tali da produrre un vero e proprio disastro ambientale».

Ma chi doveva controllare questo impianto? Se una piccola azienda ha bisogno di 24 autorizzazioni per poter iniziare la sua attività, come è possibile che sia stato dato così l’ok al più importante depuratore del sistema industriale italiano? La procura ha scoperto che l’impianto non ha mai avuto una Autorizzazione integrata ambientale nazionale. Ha solo una autorizzazione regionale perché considerato un depuratore per usi civili, quando invece l’80 per cento riguarda reflui petroliferi e industriali. Ma c’è di più: l’Autorizzazione regionale si basa su un secondo impianto mai entrato in funzione: «L’intera progettazione e il sistema autorizzatorio hanno come presupposto il funzionamento dell’impianto di deodorizzazione che non risulta essere mai entrato in esercizio».

Per filtrare il benzene, che arrivava e arriva in quantità enormi, occorreva e occorre cambiare costantemente i filtri. Ma nessuno, né i privati né il pubblico, ha affrontato questa spesa. Così «è stato scelto consapevolmente e dolosamente di staccare l’impianto e proseguire nonostante il suo mancato funzionamento..Ias è dunque attualmente priva di un sistema di abbattimento delle emissioni in atmosfera e ciò nonostante continua nell’esercizio del depuratore, come se nulla fosse».

Un altro elemento incredibile di questa storia è che la Regione per oltre un decennio non si è accorta che quel depuratore non smaltiva solo reflui civili: «La Regione avrebbe dovuto rilasciare un’autorizzazione allo scarico di sostanze pericolose, l’unica che può avere senso di esistere in relazione al depuratore che dovrebbe smaltire i rifiuti di uno dei poli petrolchimici più grandi d’Europa…e invece l’impianto viene autorizzato a scaricare in mare come se in esso confluissero solo reflui domestici, facendo magicamente scomparire gli ingombranti serbatoi e le sterminate tubazioni delle aziende petrolchimiche che occupano il litorale fra Siracusa e Augusta». La procura ha quindi chiesto aiuto a dei consulenti per rispondere anche a un’altra banale domanda: «È stata o meno compromessa la qualità dell’aria e del mare?». La risposta dei tecnici, dopo analisi e la consultazione di una miriade di documenti, è secca: «La risposta è affermativa».

La verità comunque è che tutti gli attori di questo romanzo incivile erano consapevoli dello stato dell’arte. Scrive la procura dopo aver letto mail e intercettazioni di scambi tra componenti cda Ias e dirigenti delle società private: «È provato che tutti, esponenti Ias e soci privati, siano perfettamente informati del mancato funzionamento dell’impianto: essi sono quindi tutti consapevoli della impossibilità per il depuratore di garantire una tutela dell’ambiente equivalente nel suo insieme».

Resta allora ancora un’altra domanda: ma dopo il sequestro, cosa è successo? La procura ha nominato un amministratore giudiziario con il compito di chiudere l’impianto. Ma per far questo occorre trovare un accordo con i colossi energetici presenti, che hanno chiesto dai 5 ai 7 anni di tempo per fermare gli impianti senza creare ulteriori danni irreversibili. In questo momento il polo petrolchimico marcia come prima, perché la vera questione di fondo è che non si può fermare la più grande industria di raffinazione del Paese dove lavorano quasi 12 mila persone tra diretti e indotto. E non si fermerà. C’è però un elemento chiave, che non ha nulla di penale, ma è sostanziale: davvero i privati dai fatturati miliardari non possono investire per realizzare un vero depuratore che salvaguardi la salute dell’ambiente, dei cittadini e di chi là dentro lavora? La procura calcola l’investimento minimo necessario in 21 milioni di euro. E la politica, nazionale e regionale, cosa dice? A quest’ultima domanda possiamo in realtà già rispondere: nulla. Nemmeno in campagna elettorale qualcuno ha detto qualcosa su come questo disastro sarà fermato. D’altronde parliamo solo del più grande polo petrolchimico del Paese.

Petrolchimico di Siracusa, le minacce del sindaco alle aziende: «Se non assumete chi dico io vi mando i controlli». Ai domiciliari Giuseppe Gianni, primo cittadino di Priolo: ai dirigenti di Eni e Sonatrach ha chiesto posti di lavoro e appalti. «Se devo rompere i coglioni io ce la faccio». La procura indaga anche per disastro ambientale: il depuratore gestito dai Comuni non ha mai funzionato. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 4 Ottobre 2022.

Il sindaco chiedeva assunzioni, in cambio prometteva di chiudere un occhio sui controlli ambientali nel polo petrolchimico più grande d’Italia e tra i principali d’Europa. La minaccia era sempre la stessa ai dirigenti dell’Eni e della Sonatrach, le due grandi multinazionali che insieme alla Sasol hanno impianti nel polo di Siracusa: «Se devo rompere i coglioni io ce la faccio». Dove per «rompere i coglioni» significa semplicemente fare i controlli.

In questa che sembra una piccola storia di provincia, con un sindaco del paese di Priolo Gargallo, Giuseppe Gianni detto Pippo finito ai domiciliari, c’è forse la vera spiegazione del perché in questo polo negli ultimi quarant’anni, secondo un’altra indagine della procura di Siracusa guidata da Sabrina Gambino raccontata nei dettagli da L’Espresso, è andato in scena un grave disastro ambientale con compromissione di aria e mare: il tutto perché semplicemente il depuratore pubblico (gestito in maggioranza dai Comuni di Melilli, Siracusa, Priolo e dalla Regione) del più grande polo petrolchimico del Paese non ha mai funzionato per i fanghi e i reflui industriali.

La società di gestione del depuratore, Industrie acque siracusane (Ias) è in mano alla Regione e ai Comuni del comprensorio: tanto che l’attuale presidente è, si legge nelle carte dell’inchiesta su Gianni, vicina proprio a quest’ultimo.

Non a caso intercettata la presidente dice a Gianni: «Eseguo quello che dici tu». Dalle intercettazioni emerge come il sindaco Gianni abbia più volte chiesto ai dirigenti di Eni e Sonatrach assunzioni minacciando in caso di fare i controlli ambientali (che invece si sarebbero dovuti avviare a prescindere, chiaramente): tanto che proprio per le mancate assunzioni richieste, Gianni ha inviato un giorno il capo dei vigili urbani di Priolo nel polo. E lì il capo dei vigili urbani non si era mai visto.

Ma andiamo per ordine. Il 22 febbraio scorso nella stanza del sindaco si tiene un incontro con gli ingegneri Antonino Governanti e Nicola Ceccato, dirigenti della società Versalis del gruppo Eni. Gianni chiede loro di favorire in un appalto dell’Eni una azienda locale nella quale lavorano molti cittadini di Priolo. Il fine può essere anche “nobile”, dare lavoro ai propri cittadini, scrive in sintesi lo stesso magistrato. Ma non con questo metodo e soprattutto non con un ricatto che seguirà da lì a breve non appena Gianni capisce che i due non hanno intenzione di assecondarlo.

Gianni inizia a raccontare una storia di un ex direttore di uno stabilimento del polo che non aveva detto sì alle sue richieste e lui ha detto ai dirigenti del Comune: «Andate a vedere tutte le carte, voglio vedere tutti gli interventi che avete fatto in questi 10 anni, se devo rompere i coglioni ce la faccio a romperli». E aggiunge Gianni: «Dopo sono tornati tutti buoni, io capisco che si dà uno al sindacato, uno al tribunale uno all’ispettorato. Ma se tu ne prendi diciannove uno me ne dai? Sbaglio dottore Ceccato? ». La risposta di Ceccato è netta: «Il messaggio è chiaro». Gianni conclude: «Mi dia una mano per darvi una mano. Date una mano per darvi una mano….Ricevo anche qualche denuncia, perché l’architetto Miconi che era all’urbanistica e rompeva i coglioni a tutta la zona industriale l’ho mandato a fanculo e mi ha denunciato. Ma non me ne fotte niente perché io inseguo le idee…Non è che tutti i comuni vicini devono prendere tutte cose e il Comune di Priolo deve restare a guardare, perché poi io alla gente cosa gli dico?».

Gianni in cambio delle assunzioni mette a disposizione anche le sue conoscenze in Regione. Per essere chiari: la Regione è una delle principali colpevoli del disastro ambientale, secondo la procura, non avendo mai controllato il rispetto delle autorizzazioni ambientali concesse alla società che gestisce il depuratore. In un altro caso Gianni ha fatto scattare i controlli, che non erano mai stati fatti in realtà e lo racconta lui stesso, quando in un bar di Catania incontra Rosario Pistorio, dirigente della Sonatrach. Gli chiede di assumere delle persone e di favorire una azienda dell’indotto. E a mo’ di avvertimento rievoca anche un recente episodio, quando ha mandato il comandante dei vigili urbani nell’impianto Versalis dopo «lo sfiaccolamento del 17 giugno 2022». Racconta Gianni di aver detto al comandante di andare in procura perché «si era rotto i coglioni». Cioè non lo avevano assecondato nelle sue richieste. Ma il tema vero è: quel controllo forse andava fatto sempre e prima? Ma Gianni può decidere quando fare i controlli, scrive la procura, anche nel depuratore del polo perché l’ultima presidente della società di gestione dell’impianto è vicina a lui. Scrive la procura: «Il potere di influenza riservato al sindaco di Priolo all’interno della società consortile incide evidentemente su un aspetto fondamentale visto che Ias ha il compito di smaltire la maggior parte dei reflui industriali delle aziende del polo (e che per anni, come emerso in una seconda indagine, hanno potuti smaltirli un modo illecito anche grazie alla compiacenza, o almeno alla mancata solerzia, dei Comuni facenti parte dello Ias».

Le intercettazioni ambientali svolte hanno permesso di comprendere che nel periodo in cui Gianni formula la sua richiesta a Pistorio, il suo potere di influenza all’interno di Ias è perfino superiore ai poteri che derivano dalla sola partecipazione sociale, potendo egli contare sull’incondizionata fiducia, per non dire sull’obbedienza, della presidente e legale rappresentante di Ias, Patrizia Brundo. Nel corso di conversazioni captate la Brundo giunge a dire a Gianni “Tutto quello che tu mi dici, io anche a volte sbaglio, anche se a volte non lo capisco, lo eseguo”.

Una cosa è fuori di dubbio: se non per inerzia, come si spiega altrimenti che il depuratore del più grande polo petrolchimico del Paese per 40 anni non abbia depurato i reflui e i fanghi industriali e nessuno lo abbia denunciato?

Petrolchimico di Siracusa, la relazione shock: «Così gli scarichi incontrollati hanno compromesso mare e aria». Le consulenza tecnica alla base dell’inchiesta della procura per disastro ambientale nel più grande centro di raffinazione del Paese: «La continua immissione in aria di idrocarburi determina la compromissione della salubrità dell’ambiente». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 15 settembre 2022.

L’Espresso pubblica in esclusiva la consulenza tecnica alla base dell’indagine per disastro ambientale nel più grande polo petrolchimico del Paese e tra i più grandi d’Europa: quello di Siracusa. Come raccontato in un ampio servizio la procura della Repubblica aretusea guidata da Sabrina Gambino dopo tre anni di indagini, intercettazioni e perizie, ha contestato a una ventina di dirigenti della società che gestisce il “non” depuratore e delle grandi aziende, la mancata depurazione di fanghi e prodotti industriali eliminati quindi in aria e nel mare con annesso inquinamento. 

Proprio su quest’ultimo punto, e cioè sulle conseguenze per l’ambiente della mancata depurazione, si è soffermata una perizia consegnata ai magistrati il 5 maggio dello scorso anno e in parte finita poi nella richiesta di sequestro dell’impianto di depurazione avvenuto lo scorso giugno. La consulenza tecnica è firmata dai tecnici Mauro Sanna, Rino Felici e Nazzareno Santilli, che hanno consegnato una integrazione per rispondere a due questi chiave posti dai pubblici ministeri Tommaso Pagano e Salvatore Grillo: «Se le emissioni diffuse in atmosfera individuate dalla consulenza dell’ingegnere Polizzi e tenuto conto della natura e della quantità di refluo non depurato immesso in acqua nel corso del tempo dall’impianto di Industria acqua siracusana (la società che gestisce il depuratore, ndr) siano tali da generare una compromissione o un deterioramento significativi e misurabili della matrice aria e della matrice acqua; e siano tagli da generare una offesa della pubblica incolumità in ragione della rilevanza del fatto per il numero di persone offese o esposte a pericolo, in relazione tanto ai lavoratori impiegati, quanto agli abitanti dei centri di Priolo Gargalo, Melilli e Siracusa, nonché degli agglomerati urbani interessati dalle emissioni».

Scrivono i consulenti nella perizia: «Le vasche maggiori di trattamenti dell’impianto di depurazione Ias mancando di idonei sistemi di mitigazione e contenimento, ogni anno emettono in aria ambiente complessivamente 77,4 tonnellate di composti organici volatili, costituite da 13,6 tonnellate di benzene, 9,8 tonnellate da toluene, 11,3 tonnellate di xiliene e 42,8 tonnellate da residui composti, nonché da 7,4 tonnellate di idrogeno solforato. Tali quantità, sommate a quelle emesse dagli insediamenti produttrici, contribuiscono a determinare un deterioramento della qualità dell’aria…La continua immissione in aria di idrocarburi, non mitigata e/o limitata da idonei impianti di abbattimento in dotazione all’Ias, determina nelle zone limitrofe all’impianto la compromissione della salubrità dell’aria ambiente che è la primaria condizione di garanzia per una buona qualità della vita degli abitanti dei centri di Priolo Gargallo, Melilli e Siracusa…. Naturalmente la diffusione di tali composti in determinate situazione meterologiche può estendersi ad altri comuni».

Un capitolo della relazione si intitola poi “Gli effetti tossici e nocivi”: «Gli effetti degli inquinanti immessi in atmosfera, e in particolare quelli tossici e nocivi che essi hanno sulla salute umana sia in modo diretto, attraverso la respirazione, sia in modo indiretto, attraverso il consumo di alimenti contaminati provenienti dalle campagne interessate dalle emissioni, sono i seguenti…L’esposizione cronica a benzene provoca tre tipi di effetti: danni ematologici, danni genetici ed effetti oncogeni; altro inquinante da considerare rilevante è l’idrogeno solforato, gasi incolore dall’odore caratteristico di uova marce, ed è una sostanza estremamente tossica poiché irritante e asfissiante. L’inquinamento delle acque con idrogeno solforato provoca moria di pesci; l’effetto sulle piante non è acuto, ma cronico per la sottrazione di microelementi essenziali per il funzionamento dei sistemi enzimatici».

Restando sul tema acqua, i tecnici scrivono che «l’esercizio continuo dell’impianto consortile di Priolo Gargallo che genera costantemente la immissione di idrocarburi in acqua senza alcun controllo da parte del soggetto gestore determina una compromissione ed un deterioramento della matrice acqua, anche indipendente dal suo uso». E proseguono: «L’impianto Ias ha un unico scarico costituito da una condotta sottomarina che scarica a 35 metri di profondità a circa 1.750 metri a largo della costa della penisola Magnisi, provvista di diffusori per avere una migliore miscelazione con le acque marine. Sulla costa a nord-ovest della scarico sono presenti gli insediamenti produttivi di Versalis spa, Isab e a seguire la rada de porto di Augusta. Verso est, lungo il litorale vi è la presenza di alcuni stabilimenti balneari che nel periodo maggio-settembre hanno un’alta frequentazione di persone, circa 2.600 bagnanti, come massima presenza giornaliera. Gli idrocarburi scaricati sono soggetti all’andamento delle correnti marine che dalla costa portano al largo gli inquinanti disperdendoli e rendendoli disponibili alla fauna acquatica in una vasta area, con i possibili impatti sulla catena trofica anche in funzione della pescosità delle acque in quell’area marina…La quantità complessiva di idrocarburi scaricati in eccesso nell’ambiente negli anni oggetto di indagine (2016-2020) ammonta a 2.297 tonnellate che diventano 2.409 se si considera l’effetto della diluzioni indotto dai reflui civili. L’assetto impiantistico, che sin dall’avvio del depuratore vede l’assenza di una sezione dedicata alla rimozione degli idrocarburi, evidenzia che lo scarico in eccesso di idrocarburi perdura fin dal suo avviamento avvenuto nell’anno 1983, provocando pertanto una considerevole immissione di idrocarburi in eccesso nell’ambiente…Infine altro elemento da considerare è rappresentato dal numero di persone esposte a pericolo in quanto fruitori diretti dello specchio di mare con la balneazione o altre attività amene, quali la pesca o la navigazione da diporto, anche in considerazione dell’evaporazione degli idrocarburi a causa dell’insolazione. Non a caso la presenza dello scarico unita agli sversamenti pregressi degli stabilimenti chimici e petrolchimici del polo di Siracusa ha determinato per tutto lo specchio d’acqua che si estende da Augusta a Siracusa l’adozione del divieto di pesca».

Petrolchimico di Siracusa, interrogazione a Bruxelles: «Fare chiarezza sul disastro ambientale». L’Eurodeputato Ignazio Corrao chiede l’intervento della Commissione Ue dopo la documentazione pubblicata da L’Espresso sull’indagine della procura. Antonio Fraschilla su L'Espresso il 19 settembre 2022.

«Nel territorio di Siracusa è attualmente in atto uno dei disastri ambientali più gravi d'Europa. L'impianto di depurazione del più grande polo petrolchimico d'Italia non funziona e non ha mai funzionato per smaltire i reflui industriali. Il tutto con la complicità della politica e dei privati che hanno fatto profitti miliardari infischiandosene dell'ambiente e della salute dei cittadini». È quanto afferma l'eurodeputato siciliano Ignazio Corrao in riferimento al recente sequestro del depuratore del polo petrolchimico di Siracusa, Priolo e Melilli, rilanciato dall'inchiesta dell'Espresso. 

«Le più grandi aziende chimiche e petrolifere del mondo, come Eni, Lukoil, Sasol, Sonatrach - spiega Corrao - per decenni e in modo consapevole hanno scaricato, e scaricano ancora, fanghi e agenti inquinanti, avvelenando l'aria e il mare, a ridosso di agglomerati urbani, come Siracusa, Priolo, Melilli. Ancora oggi, nonostante il sequestro, l'impianto è in uso, anche se non è assolutamente in grado di smaltire idrocarburi né abbattere le emissioni in atmosfera. Per questo, ho chiesto alla Commissione UE, in via urgente, di occuparsi del caso e di prendere provvedimenti per garantire il rispetto della Direttiva sulle emissioni industriali e sulla responsabilità ambientale e riparazione del danno ambientale».

«Auspico che l'inchiesta de L'Espresso, che ha puntato i riflettori sul caso, e le indagini della magistratura spingano le autorità ad intervenire immediatamente per ripristinare la depurazione, e punire severamente chi ha avvelenato per decenni la nostra terra», conclude l'eurodeputato siciliano». 

Da ilnapolista.it il 7 settembre 2022.

Dopo la battuta ironica sulla lotta al cambiamento climatico che ha destato tanta polemica, all’allenatore del Psg, Christophe Galtier, oggi ha risposto anche Greenpeace. L’associazione ambientalista ha organizzato una manifestazione davanti al Parc des Princes, dove si gioca Psg-Juventus ed ha piazzato davanti allo stadio un carro a vela, offrendo un passaggio a Galtier, che aveva detto, ieri, «andremo in trasferta in barca a vela». 

L’amministratore delegato di Greenpeace Francia ha spiegato ai microfoni di Le Parisien:

“Abbiamo portato un carro a vela pochi minuti prima dell’inizio del match del Psg contro la Juventus per sfidare Christophe Galtier e Kylian Mbappé, per dire loro “anche voi avete un ruolo in questa crisi climatica. Invece di ironizzare su un problema serio durante una conferenza stampa, dovreste dare l’esempio e spiegarci come il Psg può contribuire allo sforzo contro il cambiamento climatico.

Queste persone hanno una notevole influenza in giro per il mondo, non c’è motivo per Kylian Mbappé di deridere la crisi climatica come ha fatto, preferiremmo vederlo interpretare il ruolo di ambasciatore. Non ci aspettiamo scuse, ma ci aspettiamo che tornino sul punto, per dire che si rammaricano del loro atteggiamento, che sono ben consapevoli della crisi climatica e che si sforzeranno di partecipare alla lotta contro questa crisi”.

STEFANO MONTEFIORI per il Corriere della Sera il 7 settembre 2022.  

L'unico a ridere prima alla smorfia e poi alla mediocre battuta dell'allenatore Christophe Galtier in conferenza stampa è stato Kylian Mbappé, superstar del Paris Saint-Germain e della nazionale francese, già modello di comportamento e di impegno civile, da lunedì campione un po' meno perfetto. Non si ride sui jet privati, non in Francia in questo momento.

La società Psg è oggetto di critiche da giorni perché sabato scorso ha postato su Twitter un video dall'aereo che stava portando la squadra a Nantes, per la partita poi vinta 3 a 0. Il centrocampista Marco Verratti inquadra il capitano Marquinhos, che mostra i suoi occhiali da sole gialli seduto accanto all'altra stella brasiliana Neymar Jr: «Bello no? Ti piace?», dice in italiano Marquinhos a Verratti, e Neymar Jr. grida «Bello ragazzo!». I campioni si divertono, sono spensierati e vogliono farlo sapere, il testo - «Bella atmosfera nell'aereo diretto a Nantes» - è innocente, e questo è il problema. 

Da mesi anche in Francia imperversa la polemica sull'impatto ambientale ed energetico dei jet privati, dopo un'estate di incendi, caldo e siccità senza precedenti e nel momento in cui il governo chiede a tutti i francesi sacrifici come usare la lavatrice solo la notte o accorciare il tempo della doccia. Il ministro dei Trasporti Clément Beaune ha annunciato che vuole limitare l'uso dei jet privati, ormai associati a iper diseguaglianza e incoscienza civile, ma giocatori e società del Paris Saint-Germain sembrano ignari e sconnessi dalla realtà. 

Nantes dista meno di due ore in treno ad alta velocità da Parigi. Era davvero necessario prendere l'aereo, per giunta privato? Lo ha chiesto in pubblico il capo dei Tgv, Alain Krakovitch: «Ri-ri-rinnovo la nostra proposta di un'offerta Tgv che sia adatta alle vostre esigenze specifiche: sicurezza, rapidità ed eco mobilità». 

È vero che l'apparizione di Mbappé , Messi, Verratti e gli altri in una stazione ferroviaria scatenerebbe il caos, provocando ritardi e disagi agli altri passeggeri. Ma è vero anche che altri in Europa ci stanno provando: il grande Liverpool, per esempio, ha scelto il treno per andare a giocare contro il Fulham, a Londra, a 300 chilometri di distanza. Quindi si può fare, o almeno se ne può parlare. Ma quando lunedì un giornalista ha posto la domanda a Galtier in conferenza stampa - «che cosa pensa della proposta del Tgv?

Ne ha parlato con i suoi giocatori?» -, il coach ha fatto una pausa teatrale, ha guardato Mbappé seduto al suo fianco, facendolo scoppiare a ridere, e poi ha risposto: «A dire il vero, stiamo pensando di organizzare i nostri spostamenti in carro a vela», evocando lo sport praticato sulle spiagge ventose del Nord. La battuta non è piaciuta a nessuno, dal governo – «Ironia fuori luogo», ha detto il ministro delle Finanze, Bruno Le Maire - all'opposizione ecologista, che denuncia la «secessione climatica» in corso: tutti sono chiamati a ridurre i consumi, ma una classe di super privilegiati non si sente coinvolta. Delusione (ma anche indulgenza) per Mbappé, già campione di cause nobili - dalla lotta al razzismo al rifiuto delle scommesse come sponsor -, per qualche istante trasformatosi nel più superficiale dei 23enni.

Dal “Corriere della Sera” il 2 settembre 2022.

Dopo Sinistra italiana ed Europa verde, anche Beppe Grillo si schiera contro l'uso dei jet privati per difendere l'ambiente. Dal suo blog avanza la proposta di replicare la campagna francese I Fly Bernard, l'account Twitter di un militante che dà indicazioni su come tracciare i voli privati, identificare i proprietari (miliardari) degli aerei e conoscere i chilometri che percorrono. « Potremmo farlo anche noi in Italia, che ne dite?», suggerisce il garante del Movimento 5 Stelle.

Estratto dell’articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 2 settembre 2022.  

[…] Mentre Conte gira l'Italia fra selfie in maniche di camicia, Grillo ritira su la saracinesca del suo blog e torna a battere sulle vecchie battaglie del Movimento. Anzi, di Grillo. […] Canapa libera, voto ai sedicenni, ambientalismo 2.0. L'ultimo post si scaglia contro gli «aerei dei super-miliardari» e il loro «consumo folle» di carburanti che inquinano. La soluzione? Metterli al bando, come chiedono di fare gli ambientalisti francesi, dice Grillo. «Potremmo emulare l'iniziativa anche in Italia, che dite?». 

È un ritorno amarcord, quasi un dejavu. Sono passati vent' anni da quando il comico genovese tuonava contro il «jet privato intercontinentale della Parmalat», sembrano due giorni. L'effetto retrò è ricercato. Così scorrendo il blog ci si imbatte in un altro video. C'è Grillo sul palco, a Genova nel 1997. Lo spettacolo, «Cervello», è sold-out. «Con la Canapa si fa tutto, come si fa a vietarla?», grida lui. Ecco un altro ritorno, la marijuana libera. 

È un punto fermo del programma elettorale targato Conte, dove si apre alla «produzione limitata di cannabis per uso terapeutico». Il copyright però è ancora una volta di Grillo, che più di una volta ha rispolverato dalle sue teche il comizio genovese sulle droghe leggere. 

«Spinello sì o spinello no? È una domanda stupida - sentenzia oggi sul blog - abbiamo messo fuorilegge una pianta a causa di uno degli usi più stupidi. È come se tu bevi, ti viene un po' di cirrosi e mettiamo fuorilegge la vigna». […]

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 2 settembre 2022.  

Non perde il vizio mister Beppe Grillo, sempre più dottor Jekyll e mister Hyde. Nel nome della frenesia elettorale che vede Conte e i Cinque Stelle posizionarsi a sinistra per manganellare Letta e il Pd, il supercomico ha deciso di imbracciare anche lui la lupara contro i jet privati. Inquinano, ulula dal suo blog, e sembra uno di quegli ambientalisti estremisti che sanzionano soltanto i comportamenti altrui. Si è scordato - per l'età che avanza inesorabile - i bei tempi, quando lui privilegiava gli yacht superinquinanti dei suoi amici del cuore.

E diceva, allora, di non essere un ecologista... Ma ora si è scatenato. Adesso, come detto, fa le pulci a chi usa jet privati (mica gli yacht) e li sbatte sul suo blog, manco fosse un Fratoianni qualsiasi. Ora e non ieri, come se fosse un francese qualunque. Vuole farci imitare il presidente francese Macron, Beppe Grillo, nel risparmio di energia. E scrive: «In un contesto di crisi Il comico si energetica e riscaldamento globale, i francesi sono invitati a ripetere piccoli gesti quotidiani per ridurre il loro consumo di elettricità e la loro impronta di carbonio. 

"Uno sforzo" chiesto alle famiglie nell'ambito di un "piano di sobrietà" volto a superare l'inverno senza interruzioni di corrente. Tuttavia, i francesi super ricchi continuano ad utilizzare i loro jet privati per viaggi (professionali o personali) che possono essere effettuati in treno o in auto. Per questo è iniziata una vera e propria denuncia social contro il consumo folle di questi ultra miliardari».

Così Beppe Grillo in un post sul suo blog, dove suggerisce: «Potremmo emulare l'iniziativa anche in Italia, che ne dite?». Il fondatore del M5S spiega che «negli ultimi mesi account Twitter e Instagram hanno tracciato i viaggi degli aerei dei super miliardari. 

Tra i tanti, quello più seguito è "I Fly Bernard", un account Twitter di un famoso militante francese che fa il bilancio del peso ambientale dei jet privati dei miliardari francesi. Il nome dell'account "I Fly Bernard" è un richiamo al boss del lusso francese Bernard Arnault, proprietario di LVMH (Louis Vuitton, Christian Dior, Sephora, Fendi, Céline...). "Quello che sto cercando di denunciare è il loro uso di jet privati come taxi", ha dichiarato il creatore dell'account, un ingegnere che desidera rimanere anonimo».

È il "nuovo" Beppe Grillo, insomma. Ben diverso da quello pizzicato nei primi anni Duemila su uno yacht al largo della Sardegna. Ancora si trovano in circolazione le foto del settimanale Eva Tremila che lo immortalavano in costume da bagno mentre saliva faticosamente, causa una pancia di tutto rispetto, a bordo di un'imbarcazione. Proprio Liberò lo battezzò come "L'ecofurbetto".

 Ovvero, il classico predicatore del bene mentre razzola male, che fa battaglie e promuove campagne ecoambientali, come quella a favore dell'auto a idrogeno, mentre invece se ne va in giro spensierato sudi un motoscafo «da 490 cavalli, due motoroni alimentati da inquinantissimo e puzzolentissimo gasolio». All'epoca se ne uscì con una specie di «a mia insaputa» ante litteram, così giustificandosi: «In realtà quella barca, un motoscafo di sei metri e mezzo che non ha un motore da 490 cavalli, non è mia ma di un amico che è anche il mio medico. Io mi trovavo in spiaggia, al Mortorio, e da lì l'ho raggiunto a nuoto per un saluto e due chiacchiere. E poi, scusi, cosa significa "ecofurbetto"? Non sono un ecologista, non mi occupo di ecologia ma di sistemi e tecnologie». Si vede che la passione per l'ecologia - nella nuova disputa anti jet - gli è arrivata a tarda età. 

Chi c'è dietro Jet dei Ricchi, l'account Instagram che svela quanto inquinano i vip italiani. Valentina Ruggiu su La Repubblica l'1 settembre 2022. 

Il team di under 30 stima l'impatto ambientale dei jet privati delle persone più ricche d'Italia e lo paragona a quello di una persona media, così il concetto di disuguaglianza ambientale diventa accessibile a tutti. Per alimentare un dibattito pubblico abbracciato da Fridays for Future, Europa Verde e Sinistra Italiana

"Nessun essere umano ha bisogno di un jet privato, tantomeno i ricchi". Hanno meno di 30 anni, sono sparsi per l'Italia ma a unirli è un obiettivo comune: rivelare quanto inquinano i paperoni nostrani con i loro voli in solitaria. Il progetto, nato il 24 giugno, si chiama non a caso Jet dei Ricchi, è attivo con un account su Instagram e su Twitter e nel mirino sono già finiti i viaggi di vip, politici e imprenditori come Diego Della Valle, Matteo Renzi, i Ferragnez, Gianluca Vacchi, Sfera Ebbasta o Elettra Lamborghini. Così, a colpi di post e tag, il loro lavoro ha portato la questione dei jet privati direttamente all'interno del dibattito elettorale, grazie al sostegno di Europa Verde e Sinistra Italiana, oltre che a quello dei Fridays for Future.

"Non siamo dei Mr Robot, siamo solo attivisti che lavorano o hanno lavorato nel campo dell'impatto ambientale. Non lo facciamo per soldi o fama, abbiamo tutti un lavoro e vogliamo mantenere l'anonimato. Il nostro unico obiettivo - spiega uno dei promotori - è alimentare un dialogo pubblico sull'impatto che i voli di lusso hanno sull'ambiente affinché si arrivi anche in Italia a parlare di una loro futura abolizione così come già sta accadendo in Francia". 

E proprio in Francia è nato il progetto da cui Jet dei Ricchi ha tratto spunto: L'Avion de Bernard, che segue e calcola quanto inquina l'aereo di Bernard Arnault, terzo uomo più ricco del mondo e patron di Lvmh, multinazionale proprietaria di oltre 70 marchi del mondo del lusso, tra cui Louis Vuitton e Christian Dior. "Rispetto a loro noi abbiamo scelto di non concentrarci su una sola persona perché non vogliamo che ci sia un accanimento e anche perché puntiamo a restituire un quadro più ampio del fenomeno. Vorremmo abbracciare le 40-50 persone più potenti del nostro Paese".

La disuguaglianza climatica tra il milionario e il cittadino medio

Così il jet privato anche in Italia è diventato uno strumento per comunicare la disuguaglianza climatica. "Se dico che il 10% più ricco del Pianeta è responsabile del 50% dei gas a effetto serra è difficile da immaginare, ma se dico che Gianluca Vacchi per 57 minuti di volo privato, da Bologna a Taranto andata e ritorno, ha emesso un livello di CO2 pari a quella prodotta da due persone nell'arco di un anno solo per andare a inugurare un ristorante della sua catena di Kebab, allora il discorso è più chiaro per tutti".

Grazie al confronto, cifre astratte e fredde assumono un significato comprensibile a chiunque, rendendo manifesto il peso che i privilegi di alcuni hanno sull'ambiente e quanto ogni singolo volo privato possa vanificare gli sforzi della collettività. "Molti ci scrivono demoralizzati, ci dicono che i loro sacrifici non hanno senso se poi si permette a queste persone di inquinare con voli che a volte sono addirittura brevissimi. Questo - spiega il team - è un punto delicato del nostro lavoro noi ripetiamo sempre che non per questo possiamo venir meno alle nostre responsabilità. Quello che possiamo fare invece è agire sulle abitudini di quell'1% di super ricchi che sono responsabili del 17% delle emissioni totali del comparto aviazione".

Come rintracciare i voli e calcolare l'impatto di CO2

Ma come si svolge il loro lavoro? "Non c'è nulla di complicato: i dati che usiamo sono tutti pubblici e i calcoli sono facilmente replicabili", spiegano. Il primo passo ovviamente è rintracciare la targa di un jet: "Possiamo scovarla dalla foto di un giornale, da un articolo o dalle immagini che i vip stessi postano sui social". Tramite la targa si cerca poi il velivolo su uno dei software open source come Flightradar o Adsbexchange. Da queste piattaforme si può ottenere un dato fondamentale: il tragitto e quindi la durata del volo. Informazione che, insieme al consumo di carburante al minuto, rintracciabile nelle specifiche tecniche del velivolo, servirà a determinare la quantità di CO2 emessa. "Basta moltiplicare la quantità di carburante bruciata al minuto per la durata del viaggio e infine per un fattore di emissione, che per il cherosene di tipo A è di 3,06 chilogrammi di CO2 al litro. Un valore che ci è fornito dall'ente francese Ademe". 

Oltre ai calcoli, c'è poi tutta una parte di lavoro incentrato sulla ricerca, verifica e incrocio delle informazioni che serve per determinare se un personaggio sta effettivamente viaggiando sull'aereo che si sta seguendo. Operazione fondamentale soprattutto per i jet privati in affitto: i cosiddetti taxi dei cieli.

Lo scempio dei taxi dei cieli

Oltre alla difficoltà nel tracciamento, secondo Jet dei Ricchi i velivoli a noleggio hanno anche un'altra conseguenza: "Hanno lo stesso problema dei taxi: quando lo chiami arriva da te vuoto e questo fa sì - dice il team citando dati del quotidiano francese Le Figaro - che il 40% dei jet privati volino vuoti e ricordiamoci che si tratta di oggetti che quando si muovono emettono ogni 50 minuti l'equivalente di quello che una persona media europea emette in un anno tutte le volte che prende la macchina, tutte le volte che viaggia in treno, in aereo, che si fai spedire un pacco e così via. Questa roba è un'aberrazione in una società che sostiene di essere nel cammino della sostenibilità. Inoltre dobbiamo pensare che i jet a noleggio costituiscono la maggioranza degli voli privati che gira in Europa: affittati da persone sufficientemente ricche per pagare un viaggio, ma non abbastanza per comprare un aereo e mantenerlo".

Name&Shame: pubblicare i dati sui social

L'ultima fase del lavoro è quella della pubblicazione dei dati. Un post e delle storie in cui viene taggato il personaggio di turno, nella speranza che il messaggio arrivi anche al diretto interessato. "La tecnica del name and shame, di puntare il dito pubblicamente verso una persona, è una tattica che si usa sin dagli anni '80, con Greenpeace che scriveva i nomi delle baleniere con il sangue. Tuttavia non ci ha mai risposto nessuno. Solo Gianluca Vacchi si è staggato tre volte dal nostro post, ci piace considerarlo un segno di vita", dice ridendo il team.

Voli privati per piacere, non per business

"Una delle accuse che spesso ci fanno - raccontano gli analisti - è che attacchiamo persone che lavorano, che hanno un business talvolta internazionale e che devono risparmiare tempo". Tuttavia l'ultimo report dell'Ong Transport&Environment delinea un altro quadro. Sulla base dei dati forniti dall'European business aviation association (EBAA) viene sottolineato come una quota consistente dei voli privati sia effettuata per piacere e non per motivi aziendali. "Abbiamo identificato un chiaro picco nel traffico dell'aviazione privata durante i mesi estivi - si legge - con gli aeroporti delle località soleggiate che registrano la maggior parte dei loro introiti proprio in quel periodo". Inoltre, si legge sempre nel report, il 70% dei jet privati viene impiegato per voli intra-Eu e hanno il doppio delle probabilità, rispetto a un volo di linea, di essere usati per viaggi inferiori ai 500 Km.

Un privilegio che non è più sostenibile

Nel traffico aereo privato d'Europa l'Italia è al terzo posto in classica per emissioni, superata dal Regno Unito e dalla Francia che ricoprono rispettivamente il primo e il secondo scalino della graduatoria. "L'aviazione privata di lusso rappresenta in termini assoluti una percentuale piuttosto bassa a livello di emissioni di CO2 rispetto a tutto il comparto - specifica il team di analisti - ma sono oggetti inutili e la prima cosa che si fa quando la situazione è tragica e bisogna portare a casa la pellaccia, che in questo caso è il Pianeta, è tagliare le cose superflue. I ricchi possono viaggiare in altri modi: possono prenotarsi un intero vagone su un treno, prendersi una residenza in un luogo senza dover fare in giornata Ancona- Parigi-Ancona come se fosse possibile perché non è più possibile. Questo modo di vivere non è più sostenibile in un mondo che cerca di reagire già con estrema fatica alla crisi climatica e che già sappiamo che non riuscirà a rispettare gli accordi di Parigi".

Il futuro del progetto

Se il primo passo del collettivo di Jet dei Ricchi è creare consapevolezza e dibattito, il secondo step è quello di tramutare i dati ottenuti dal loro lavoro in proposte di intervento volte a limitare l'uso dei jet privati. "Non viviamo su un altro Pianeta", concludono . "Sappiamo che è impossibile abolirli da un giorno all'altro, ma è possibile agire in altri modi come per esempio inserendo una tassa sul carburante. Ci stiamo lavorando, quello che ci interessa è che tutte le forze politiche arrivino a parlare di abolizione dei jet privati". Intanto ad averlo fatto è stata l'alleanza Europa Verde e Sinistra Italiana, che non ha inserito il tema nel programma elettorale di settembre, ma ha deciso di abbracciare la proposta promuovendo una campagna sui social. Così come il Fridays for Future, che ha inserito il tema nelle proposte della loro agenda climatica.

Chi ridicolizza la proposta seria di abolire i jet privati è fuori dal tempo. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 31 agosto 2022

Quella di abolire i jet privati per ridurre le emissioni è una proposta coerente per una coalizione che vede accoppiato un partito la cui priorità è l’ambiente con un partito la cui priorità è l’uguaglianza sociale.

E invece succede che questa proposta sia diventata bersaglio di derisione e grasse risate con esponenti della politica, giornalisti e personaggi tv che si danno di gomito sui social.

Non si inverte la rotta senza piani ambiziosi e chi ridicolizza proposte come quella sui jet privati fingendo che sia una questione di lotta di classe e non di sopravvivenza del pianeta, non è solo arrogante: è, soprattutto, vecchio. 

Se dovessi pensare a qualcosa che abbia davvero a che fare con la crisi della sinistra e su come la forbice tra vecchie e nuove generazioni si stia allargando sempre di più, penso alla polemica di questi giorni sui jet privati.

Nello specifico, sulla proposta di Europa verde e Sinistra italiana di abolirli perché «l’1 per cento della popolazione più ricca del pianeta inquina il doppio della metà più povera. È per questo che il prezzo dei capricci dei super ricchi lo paghiamo tutte e tutti, nonché le prossime generazioni», viene spiegato.

Insomma, una proposta coerente per una coalizione che vede accoppiato un partito la cui priorità è l’ambiente con un partito la cui priorità è l’uguaglianza sociale.

Voglio dire, se Europa verde e Sinistra italiana proponessero di tassare i cassaintegrati che mangiano vegano potremmo stupirci, ma visto che propongono di chiedere ai più ricchi di non usare i jet come fossero taxi perché sono taxi che inquinano in maniera spaventosa, non dovremmo sorprenderci. Anzi, ci dovrebbe sembrare un tema di discussione importante.

E invece succede che questa proposta sia diventata bersaglio di derisione e grasse risate con esponenti della politica, giornalisti e personaggi tv che si danno di gomito sui social.

Si spanciano per l’ingenuità della proposta perché secondo loro irrealizzabile, perché è roba da veterocomunisti, perché “questi sarebbero i problemi della sinistra ahahah”. 

NON C’È NIENTE DA RIDERE

In realtà questi non sono problemi della sinistra, ma pure quelli della destra, del terzo polo, dei poli nord e sud e delle tribù del Borneo, perché ai voli privati e di linea dobbiamo il 2-3 per cento delle emissioni globali di CO2, ai voli privati dobbiamo circa il 3-4 per cento delle emissioni provenienti dal traffico aereo.

E questa è una stima approssimativa, che non tiene conto dell’aumento dell’utilizzo dei jet privati negli ultimi tempi (nel 2021 le partenze dall’Italia di questo tipo di voli sono state oltre 55mila, dice il Post) quindi è evidente che non si affronti una questione irrisoria ma, al contrario, molto seria.

E invece ci ridono su in parecchi, da Matteo Renzi al suo fido deputato Luigi Marattin, al direttore de Linkiesta Christian Rocca e poi a una delle colonne di Propaganda Makkox, e ancora Luca Bottura, Luca Bizzarri e così via. Ahaha che ridere.

Ma quali sono i loro argomenti? Secondo Matteo Renzi, «per salvare l’ambiente non devono abolire i jet ma il nucleare» o anche «una idiozia così non la sentivo dai tempi dei navigator di Di Maio. Si mette il seme per una svolta filosovietica e per abolire la proprietà privata».

Come ha fatto notare il segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni, è evidente la preoccupazione di Renzi di dover raggiungere l’Arabia Saudita con un aereo di linea. Per intenderci, di quelli da pezzenti. O su un cammello, chissà.

Del resto parliamo di colui che da premier, come jet privato personale non aveva preteso un 12 posti come Briatore, ma direttamente un Air Force One, costato alle casse dello stato (168 milioni di euro per 8 anni di esercizio) e all’ambiente svariate tonnellate di CO2.

Insomma, che il tema ambientale non gli stesse particolarmente a cuore lo sospettavamo. Rottamatore e riciclatore sì, ma solo se si parla di politica. Ovviamente gli va dietro Luigi Marattin, con il consueto fare sprezzante.

Il suo tweet: «In attesa che lo stesso slogan abbia “proprietà” al posto di “jet” (è solo questione di tempo, visti i soggetti), una riflessione: al 31/12/2021 risultano 133 jet privati registrati fiscalmente in Italia. Sicuramente abolendoli si risolve il problema dell’ambiente nel mondo». Capito?

Dall’abolizione del jet privato a voli popolari solo a bordo dello Sputnik è un attimo. E nessuno che gli abbia spiegato, con calma, che anche in quel covo di bolscevichi che è il governo Macron si sta pensando di abolire o comunque ridimensionare l’utilizzo dei jet privati (lo hanno proposto sia il ministro dei trasporti francese Clément Beaune che il deputato verde Julien Bayou)

DECISIONI COLLETTIVE

Tra l’altro, la storia dei 133 jet registrati fiscalmente in Italia è piuttosto fessa, visto che non sappiamo quanti non siano registrati fiscalmente in Italia e quante (e quali) tratte coprano l’anno, ma soprattutto: cosa significa che abolendoli non risolviamo il problema dell’ambiente nel mondo?

Abolendo cosa risolveremmo il problema ambientale nel mondo? Ovviamente nulla, se si tratta di un’azione singola, perché il cambiamento climatico in corso è causato da un insieme di fattori e scelte scellerate, anacronistiche, superficiali o poco lungimiranti.

In molti casi tornare indietro è complesso, in altri meno. Ci sono decisioni che ricadrebbero su milioni di persone e non sarebbero sostenibili nel breve periodo, altre come il ridimensionamento o l’abolizione dei jet privati sono scelte che coinvolgerebbero un numero più ristretto di persone, per giunta in grado di pagarsi la prima classe di un aereo di linea o di coprire le tratte più brevi sedute comodamente su una macchina guidata da altri.

MONDO CAPOVOLTO

«Poi mettiamo una tassa anche sugli ombrellini da cocktail e direi che il più è fatto», ha commentato Luca Bottura. Luca Bizzarri, ad un tweet dell’europarlamentare Eleonora Evi che ricordava, appunto, che l’1 per cento della popolazione più ricca inquina il doppio di quella più povera, ha risposto: «Voglio essere nell’1 per cento, ora accendo la Vespa e la lascio accesa fino a stasera» per poi passare a perculare l’utilizzo della schwa su un manifesto elettorale.

Grasse risate da parte di alcuni dei più esposti nemici pubblici delle destre, roba da mondo capovolto. E in effetti partecipa al perculamento anche uno dei protagonisti di Propaganda, Makkox, che scrive «Comincia a dire addio alla carrozza executive!», in risposta a un tweet di dileggio del direttore de Linkiesta Christian Rocca.

Lo aspettiamo col sorrisetto beffardo a perculare Diego Bianchi la prossima volta che inviterà di nuovo a Propaganda Greta Thunberg, con le sue proposte ben più radicali dell’abolizione dei jet. Chissà quanto coraggio.

Insomma, il tema delle emissioni per questi luminari dell’ecologia nonché quello degli sforzi equi per l’ambiente è roba da cabaret.

E invece è una cosa serissima, perché un vero processo di sradicamento di abitudini antiecologiche richiederà, nel futuro prossimo, sacrifici a tutti e tutti dovranno fare la propria parte, in maniera bilanciata.

INGIUSTIZIA SOCIALE

Oggi mio padre, a 90 anni, viene multato se butta per sbaglio la plastica nel sacchetto dell’umido, ma Gianluca Vacchi, come documenta il prezioso account Instagram @Jetdeiricchi, per andare a inaugurare un kebab a Taranto, può prendere un jet privato e immettere 5,7 tonnellate di anidride carbonica, «ovvero la quantità pari a quella prodotta da due persone in un anno intero per l’insieme dei loro trasporti» (nel caso di mio padre nemmeno, visto che non si muove quasi più).

Un’ingiustizia sociale e ambientale che andrebbe presa molto seriamente, cosa che sta accadendo all’estero, mentre qui è già diventata oggetto di volgare dileggio.

In questi casi, poi, c’è sempre una certezza: quando il professor Riccardo Puglisi beffeggia qualcuno o qualcosa su Twitter (in questo caso la faccenda dei jet privati), si può stare sicuri che la ragione sia dalla parte del beffeggiato.

Secondo alcuni ambientalisti, la spocchia fessa di Puglisi produce anch’essa emissioni di CO2 pari a quelle del jet usato dai Ferragnez per quell’ora di volo sul jet privato che li separa da Ibiza. Insomma, l’aviazione privata di lusso è un tema.

Non l’unico, certamente, ma è un tassello importante tra i cambiamenti che dovremo affrontare. E chi sostiene che sarebbe un danno economico per una serie di segmenti del settore, guarda ciò che ha davanti e non l’orizzonte: il cambiamento climatico in atto è destinato a impoverire drammaticamente tutta l’umanità.

Non si inverte la rotta senza piani ambiziosi e chi ridicolizza proposte come quella sui jet privati fingendo che sia una questione di lotta di classe e non di sopravvivenza del pianeta, non è solo arrogante: è, soprattutto, vecchio. 

Erica Orsini per “il Giornale” il 26 agosto 2022.

Nell'era del post Brexit tra Parigi e Londra scoppia la guerra dei liquami. Tre europarlamentari francesi hanno accusato il Regno Unito di mettere a rischio il benessere degli esseri umani, della flora e della fauna marina, rilasciando liquami freschi nel Canale della Manica e nel Mare del Nord.

L'accusa giunge subito dopo la diffusione della notizia che almeno una cinquantina di spiagge dell'Inghilterra e del Galles erano state considerate altamente inquinanti per i bagnanti proprio per il medesimo motivo. Le copiose piogge degli ultimi giorni avevano infatti deviato ingenti quantità provenienti dalle acque di scolo nei fiumi e nel mare.

Gli europarlamentari hanno quindi accusato il governo britannico, con un reclamo ufficiale presentato alla Commissione Europea, di essere venuto meno ai suoi precisi impegni ambientali danneggiando così l'ambiente circostante. Alla Commissione hanno inoltre richiesto di prendere provvedimenti «politici e legali» per contrastare quella che appare una chiara violazione delle regole ambientali internazionali.

Una violazione che sarebbe conseguenza diretta, secondo i politici francesi, della Brexit dato che la decisione britannica di abbassare gli standard qualitativi sulla qualità delle acque si è resa possibile proprio dopo l'uscita del Regno Unito dall'Unione Europea. 

«Questa decisione è inaccettabile - scrivono nella lettera inviata a Bruxelles - e richiede un'azione immediata per bloccare l'inquinamento nelle acque del canale e del Mare del Nord. Temiamo per le conseguenze negative che potrebbero venir determinate dal basso livello qualitativo delle acque comuni sulla biodiversità marina, così come sulla produzione ittica».

I tre deputati, che appartengono al gruppo centrista del Parlamento Europeo, affermano che «dopo la Brexit il Regno Unito si è auto esonerato dal regolamento europeo ambientale», ma sottolineano che pur non aderendo alle sue regole dal gennaio dello scorso anno, il governo britannico ha comunque sottoscritto un accordo commerciale e di cooperazione all'interno del trattato d'uscita che gli impone di adempiere alla legislazione del mare delle Nazioni Unite, relativa alla protezione delle acque condivise.

«Ciononostante il Regno Unito ha scelto di abbassare gli standard di qualità della sua acqua - concludono i deputati - e questo non è accettabile, il Canale e il Mare del Nord non sono terreni di discarica». 

Un portavoce del governo britannico ieri ha replicato che le accuse francesi «semplicemente non corrispondono alla verità», ma è stato implicitamente contraddetto dalla risposta di alcune delle compagnie delle acque che hanno confermato di «stare lavorando per risolvere il problema». 

E del resto, lo scorso anno, la società inglese Southern Water ha ricevuto una multa record di 90 milioni di sterline per aver riversato nel mare del Sussex, Kent e Hampshire miliardi di litri di liquami non trattati.

Il Regno Unito ha un sistema combinato di fognature che riversa negli stessi canali sia l'acqua piovana che quella proveniente dai bagni e dalle cucine dei cittadini inglesi. In casi eccezionali, come durante le piogge molto abbondanti e in concomitanza con periodi di forte siccità, le fognature vengono sopraffatte dal liquame e per evitare che questo fuoriesca negli spazi aperti delle strade e vicino alle abitazioni, viene deviato temporaneamente nel mare. Water Uk, che rappresenta l'industria delle acque britanniche, ha confermato che le compagnie hanno deciso di investire, tra il 2020 e il 2025, più di 3 miliardi di sterline per migliorare la situazione.

I veri responsabili del riscaldamento sono Cina e India. Oggi l'Occidente non può fare di più. Pier Luigi del Viscovo il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Di fronte alla tragedia, il primo obbligo è la verità. Speculare per tirare acqua al mulino delle proprie idee è una bassezza umiliante.

Di fronte alla tragedia, il primo obbligo è la verità. Speculare per tirare acqua al mulino delle proprie idee è una bassezza umiliante.

È vero, al netto di infrastrutture che mancano e previsioni assenti, la siccità e la disgrazia della Marmolada sono riconducibili al riscaldamento climatico indotto dalla concentrazione in atmosfera di gas serra, soprattutto anidride carbonica. Fino al 1850 il livello era stabile intorno a 280 parti-per-milione, salito nel 2000 a 370 e oggi, dopo appena vent'anni, a 420. La situazione sta peggiorando, non migliorando, a dispetto delle denunce dei movimenti ambientalisti. Nel 1995 ci fu la prima Cop, quella di Berlino, sponsor forte il vicepresidente Al Gore, a cui gli elettori preferirono un pur debole Bush figlio. A novembre scorso a Glasgow siamo arrivati alla numero 26: ventisei anni di allarmi, sul clima che aumentava e sul tempo che si riduceva, mentre nulla di realmente efficace veniva fatto.

Non vogliamo più né siccità né disastri mortali, tipo ghiacciaio o inondazioni, e la politica prende impegni affinché non accadano. La verità? Ce ne saranno altri e meglio faremmo a prepararci ad essi. D'accordo, ma comunque facciamo anche qualcosa per evitare che si ripetano. La verità? Possiamo fare tante cose, ma nulla che incida davvero sul riscaldamento. A parte che stiamo già riducendo le emissioni dal 1980, pesiamo troppo poco per fare la differenza. Secondo i dati dell'International Energy Agency, l'Unione Europea nel 2021 ha emesso meno di 3 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2, più o meno quante ne emetteva la Cina a inizio secolo. Oggi il Dragone con 12 Gt, un terzo di tutte le emissioni antropiche, è di gran lunga il principale responsabile, davanti agli USA con meno di 5 Gt, ma in calo dal 2000. La verità? Le economie emergenti non possono diminuire le emissioni perchè devono offrire energia ai cittadini. Nel 2021 la domanda di elettricità in Cina è aumentata del 10%, aggiungendo l'equivalente di tutta l'Africa.

Dovrebbe bastare per passare da contrastare il riscaldamento a contrastare gli effetti del riscaldamento. Nient'affatto. Per molti europei l'obiettivo non è limitare i danni ma mondarsi la coscienza, per essere ricchi e colti. Così, puntano il dito sulle responsabilità storiche. L'Occidente si è sviluppato a carbone e petrolio e ora tocca agli altri: perché non dovrebbero? È la tesi dei Paesi emergenti, e si capisce, ma anche degli ambientalisti occidentali, e non si capisce. Intanto, i dati dicono qualcosa di diverso. Vero che dal 1850 gli Stati Uniti hanno emesso più CO2 di tutti (20%), ma la Cina ha recuperato bene (11) seguita da Russia (7) Brasile (5) e Indonesia (4), questi ultimi per lo sfruttamento del suolo.

Poi, sollevano il tema delle emissioni pro-capite: non è giusto chiedere ai cinesi, che sono 1,4 miliardi, di limitarsi, quando noi non lo facciamo. Anche qui, il cittadino americano emette più di tutti, 14 tonnellate/anno, ma poi viene il russo, con 12. Giapponese, cinese e tedesco stanno a 8 tons, mentre italiani, inglesi e francesi emettono meno di 5 tons a testa.

La verità? Attribuirci colpe pregresse o infondate non elude il ruolo determinante delle economie emergenti sulle emissioni e sul riscaldamento. Hanno una domanda di energia in crescita e bisogna sperare che la soddisfino sempre meno col carbone e sempre più col nucleare, come dovremmo fare anche noi.

Insomma, anche una decrescita infelice che riportasse l'Europa al 700 non riuscirebbe a fermare il riscaldamento globale. Chi pensa il contrario ha in mente solo il suo personale biglietto per il Regno dei Cieli.

Dagonews da dailymail.co.uk il 19 luglio 2022.

Kylie Jenner è stata criticata per aver preso un volo di 12 minuti sul suo jet privato, per un viaggio che sarebbe durato 30 minuti in auto. La miliardaria magnate della bellezza, 24 anni, è stata accusata di essere una "criminale del clima" per il suo viaggio a corto raggio attraverso la California la scorsa settimana.  

Ha volato sul suo lussuoso aereo privato "Kylie Air" due volte attraverso la contea il 13 luglio e di nuovo solo due giorni dopo, il 15 luglio. Il jet ha viaggiato per 35 minuti da Palm Springs, appena fuori Los Angeles, a Van Nuys, a Los Angeles, vicino alla sua villa di Hidden Hills da 36 milioni di dollari il 15 luglio.  

Due ore dopo la bonazza con i due figli è poi volata da Van Nuys, a Camarillo, nella contea di Ventura, in California, un viaggio durato solo 12 minuti secondo CelebrityJets su Twitter. Se la star avesse guidato il viaggio di 26 miglia da casa sua a Hidden Hills a Camarillo, ci sarebbero voluti circa 30 minuti. 

Ma invece la star ha guidato per 30 minuti nella direzione sbagliata fino all'aeroporto di Van Nuys, prima di saltare sull'aereo, con il viaggio che ha richiesto più tempo nonostante i 12 minuti di volo. L'account ha anche rivelato che l'aereo Bombardier Global 7500 ha viaggiato da Camarillo, in California, a Van Nuys due giorni prima, il 13 luglio, un viaggio di soli 17 minuti. 

Il suo jet ha poi preso un volo di 29 minuti più tardi lo stesso giorno, viaggiando da Van Nuys a Palm Springs, in California. La scorsa settimana la star ha dovuto affrontare un enorme contraccolpo dopo aver pubblicato una foto di lei e del fidanzato Travis Scott, 31 anni, abbracciati davanti alla loro flotta di jet e auto di lusso. prima di salire sull'aereo - con il viaggio che richiede più tempo nonostante i 12 minuti di volo. 

Un fan della star dei reality si è chiesto: "Perché devo limitare il consumo di carne e usare cannucce di carta mentre l'1% riesce a pompare tonnellate di carbonio nell'atmosfera per una gita di un giorno a Palm Springs". 

Un altro fan ha aggiunto: "Questa esibizione di ricchezza è incredibile, così distaccata dalle lotte delle persone comuni". 

Arnault, il miliardario che ci fa le eco-prediche? Il suo yacht... la foto dello scandalo. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 luglio 2022

Ormai una volta all'anno uno degli uomini più ricchi al mondo, Bernard Arnault, il presidente e amministratore delegato francese di LVMH, l'azienda di marchi di lusso come Louis Vuitton, fa tappa nei mari dell'Italia a bordo del suo mega yacht Symphony. Nel 2020 passò dalla Sicilia, per salire poi in Calabria, Puglia e Campania. Lo scorso anno approdò nelle acque del Golfo di Napoli. Quest'anno ha bissato l'esperienza, rimanendo attraccato a Marina Piccola per 5 giorni prima di proseguire verso il Principato di Monaco.

Il secondo tra i paperoni del globo (con un patrimonio che ammonta a 160 miliardi), spende da sempre molto tempo a bordo del suo palazzo marino di lusso da 150 milioni di euro: è lungo ben 101 metri, ha a bordo 8 cabine vip, 12 stanze per l'equipaggio, una piscina (con all'interno una cascata), 2 sale cinema, una spa, un beach club, una palestra, una biblioteca, diversi bar, un eliporto e un campo da golf (!). Un ben di Dio che non spinge comunque Arnault a pagare qualche euro di tasse, visto che batte bandiera delle Cayman. Ma questa è un po' un'abitudine. Prima di questo piccolo natante, possedeva l'Amadeus, un'imbarcazione di 230 piedi dotata di jacuzzi, palestra e cinema (valore: 50 milioni). Era intestata alla Symphony Yachting Ltd., una società delle Isole Vergini Britanniche inserita tra i Pandora Papers.

Il vizietto esentasse di Arnault, per di più, poiché è grande come una petroliera, inquina pure come una petroliera. Il francese è il quarto tra i magnati del mondo per quantità di Co2 emessa nell'aria ogni anno. Una buona parte è dovuta proprio ai consumi di Symphony, che rilascia circa 11mila tonnellate di anidride carbonica ogni 12 mesi, l'equivalente di 5mila utilitarie come la Fiat Panda. Per stare in pace con la coscienza, il produttore di Symphony (l'olandese Feadship) sostiene che sia uno yacht ecologico. Utilizza infatti una tecnologia a propulsione ibrida dotata di un moderno banco di batterie, e spende il 30% in meno di energia rispetto a uno yacht comparabile.

Il punto è che quasi non esistono. Ma, visto il bonus eco, Arnault pensa bene di compensare col jet privato, scelto lo scorso 28 maggio per un viaggio di dieci minuti da West London a East London. Dieci minuti di volo pollice verde. E pensare che sul sito di LVMH si trova un rapporto consolidato sugli impegni e le iniziative sociali e ambientali dell'azienda, che si apre con un editoriale di Arnault in persona che racconta l'attenzione all'ambiente, alle nuove sfide sanitarie e all'impegno nel sociale dell'azienda. Così da essere trasparente e facilitare il dialogo con i suoi stakeholder. Delle uscite con Symphony, però, è meglio non vengano a sapere. 

Perché dobbiamo prestare attenzione alla morte di un giornalista e di un attivista in Brasile. FERDINANDO COTUGNO Il Domani il 19 giugno 2022

Questa settimana parliamo dell’omicidio di un giornalista britannico e di un attivista brasiliano nella Foresta amazzonica, della siccità in Italia, della minaccia del sale nei fiumi del mondo e dell’estetica dei parchi eolici italiani. 

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Buongiorno, benvenute(i) a un nuovo appuntamento con Areale, iniziamo, ci sono tante cose da dire.

DUE OMICIDI LUNGO LA FRATTURA

Partiamo da due nomi: Dom Phillips e Bruno Pereira. Phillips era un giornalista britannico, Pereira era un attivista brasiliano per i diritti degli indigeni. Erano scomparsi nella Vale do Javari, uno dei più grandi territori indigeni del Brasile, un’area interna più grande dell’Austria, quasi al confine col Perù. Phillips stava completando le sue ricerche per un libro che stava scrivendo, How to save the Amazon, il racconto su come nella più importante foresta del mondo uno sviluppo sostenibile sia ancora possibile. Un libro di speranza e possibilità. Pereira era la sua guida. La polizia brasiliana ha trovato i loro corpi e arrestato due uomini, che avrebbero già confessato l’omicidio. Una storia orribile, che abbiamo il dovere di conoscere.

Come ha scritto Jonathan Watts sul Guardian, il giornalista e l’attivista sono stati assassinati «in una guerra globale non dichiarata ufficialmente contro la natura e contro le persone che la difendono. Il loro lavoro era importante per il pianeta che abitiamo e per le attività che lo minacciano, e deve essere continuato. Le linee del fronte di questa guerra sono le ultime regioni biodiverse della Terra: le foreste, le terre umide, gli oceani, essenziali per la stabilità del clima e per il sistema planetario che sostiene la nostra stessa vita. L’integrità di questi ecosistemi è sotto attacco da parte del crimine organizzato e dei governi criminali che vogliono sfruttare il legname, l’acqua e le estrazioni minerarie per profitti illegali a breve termine».

Nel 2020, ultimo anno su cui i dati raccolti da Global witness sono disponibili, sono stati uccisi quattro difensori dell’ambiente ogni settimana, 227 tra attivisti come Pereira e giornalisti come Phillips. I paesi più pericolosi per la protezione attiva degli ecosistemi sono Colombia, Messico e Filippine. Il Brasile, con 20 omicidi nel 2020, è al quarto posto.

Ci vorrà tempo per conoscere i dettagli della morte di Phillips e Pereira, o forse non succederà mai, la polizia brasiliana è stata lenta nell’avviare le ricerche, il presidente Jair Bolsonaro ha definito la loro uccisione «un atto malvagio», ma ha anche dato la colpa alle due vittime per essersi inoltrate in un territorio pericoloso. La valle è «uno degli ultimi santuari della wilderness in Amazzonia e nel mondo, ma è anche un punto caldo del traffico di fauna selvatica, dell’estrazione di legname illegale, luogo di conflitti tra le comunità indigene e i residenti, nel quale le attività criminali sono impunite», spiega Scott Wallace, autore di The unconquered: in search of the Amazon’s last uncontacted tribes. È anche una nuova rotta della cocaina che parte dal Perù, diventato il secondo produttore globale dopo la Colombia.

Nella valle dove sono stati uccisi Phillips e Pereira vivono 6.000 indigeni divisi in 26 gruppi etnici, 19 dei quali ancora praticamente incontattati. Gli attivisti dal 2019 puntano il dito contro Bolsonaro, per aver creato le condizioni politiche che hanno fatto esplodere la devastazione ecologica e lo sviluppo di attività criminali ed estrattive in quel territorio. Sullo sfondo di questo duplice omicidio, e della guerra contro la natura di cui scriveva Jonathan Watts, c’è la domanda: a chi appartiene l’Amazzonia? Cosa è la sovranità brasiliana (o peruviana o boliviana) di un territorio così importante per l’umanità tutta? Gli indigeni – e le persone che lavorano per proteggerli o per raccontare le loro storie – vivono lungo questa linea di frattura: la ricerca accademica da anni li ha eletti, dati alla mano, gli unici custodi credibili di questi ecosistemi per conto di tutta l’umanità. Una posizione inaccettabile per il sovranista Bolsonaro, che dal 2019 ha visto quell’ecosistema come una grande miniera di risorse a cielo aperto da sfruttare e di terra da ricolonizzare. È questo lo scenario della morte di Phillips e Pereira. Il sovranismo è pericoloso per il clima quanto i combustibili fossili.

Phillips viveva in Brasile da anni. Nella sua prima vita si era occupato a lungo di musica, amava Björk e Bowie, aveva raccontato la scena rave britannica e aveva scritto un libro sull’ascesa della musica elettronica e della cultura dj. Era arrivato in Brasile per scrivere e fare ricerche e così era iniziata la sua seconda vita, da corrispondente all’estero. Aveva seguito i giochi olimpici e i mondiali di calcio, ma la grande missione era diventata il racconto degli ecosistemi della sua nuova terra. Quello nella valle doveva essere il suo ultimo viaggio di ricerca prima di pubblicare How to save the Amazon. Aveva 57 anni. Pereira aveva 41 anni e due figli, veniva dal nord est, aveva lavorato per Funai, Fundação Nacional do Índio. Viaggiavano e lavoravano insieme da quattro anni.

QUESTA È L’ACQUA

La crisi idrica che è esplosa nel dibattito pubblico italiano (più o meno, diciamo che almeno è finalmente visibile) ha tante radici diverse: la crisi climatica, il crollo delle precipitazioni nella parte più importante dell’anno idrologico (autunno e inverno), la difficoltà nel percepire l’emergenza climatica come tale, i ritardi nell’adattamento del territorio, la cultura degli sprechi. Ne ho scritto in questo articolo: la siccità è diventata la nuova normalità climatica italiana. È una tempesta perfetta, mi ha detto Luca Brocca di Irpi, ma non dobbiamo illuderci di poter resistere, sopravvivere e dimenticare. Questa è l’acqua, avrebbe detto David Foster Wallace. E forse è per questo che non la vediamo più. Speriamo di non dover dire: questa era l’acqua. 

Ci sono tanti aspetti ecologici preoccupanti, in questa storia che procede dai monti e dai laghi alpini fino alle valli e al delta, ma forse la più sinistra di tutte è la risalita di 15 chilometri del cuneo salino nel delta del Po, con l’acqua salmastra del mare che si prende spazio e conquista le falde, per il triplice effetto della scarsità di acqua dolce, dell’aumento quasi disperato dei nostri prelievi e della risalita del livello del mare.

Non è solo la storia del Po, è la storia dei fiumi del mondo. Nel delta del Mekong il sale è stato paragonato – per il livello della minaccia chimica – all’agente arancio americano usato nella guerra del Vietnam. In questa, che è una delle aree più densamente popolate e più importanti dal punto di vista agricolo dell’Asia, il cuneo salino è risalito di 64 chilometri all’interno del delta. Anche qui il disastro è un effetto combinato: innalzamento del mare a valle, sfruttamento dell’acqua a monte, per un fiume lungo 5mila chilometri che passa attraverso sei paesi.

Uno studio pubblicato dalle università di Manchester e Amburgo aveva prodotto una mappa della salinizzazione globale dei fiumi. Non solo il Po e il Mekong: Australia, Messico, Sudafrica, Stati Uniti, Brasile, Spagna. La risalita del livello salino lì dove dovrebbe esserci acqua dolce potrebbe essere una delle prime cause di migrazioni ambientali, le nazioni insulari del Pacifico potrebbero ritrovarsi senza acqua dolce per la metà di questo secolo, aveva avvisato una ricerca dello US Geological survey. E un territorio dove non si può bere è un territorio dove non si può vivere.

Nel triplo delta di Gange, Brahmaputra e Meghna in Bangladesh la perdita di acqua dolce per la risalita del mare nei corpi idrici è già citata come la prima causa di migrazioni. Negli Stati Uniti un terzo dei fiumi è diventato più salato negli ultimi venticinque anni, nel Rio Grande la salinità è cresciuta del 400 per cento, in Australia occidentale due milioni di ettari di coltivazioni sono stati danneggiati dal sale, un danno per 700 milioni di dollari all’anno. Un terzo del cibo mondiale dipende dall’irrigazione, un quinto dell’acqua che usiamo per irrigare nel mondo è contaminata dal sale.

PARCHI EOLICI, VENTO E IL FUTURO CHE ESISTE

Tiriamo il fiato, so che è tanto da mandare giù. Quindi parliamo di una cosa bella. Legambiente ha pubblicato la seconda edizione di Parchi del vento, la guida turistica dei parchi eolici italiani. Sì, turistica. A me personalmente piace, ma so che l’eolico provoca sentimenti estetici contrastanti, ed è normale, perché sono nuovi, sono obiettivamente grandi e vistosi, e anche perché l’Italia è un paese educato a un’idea feticistica del paesaggio. Tendiamo a viverlo come qualcosa di immutabile, eterno e naturale, quando invece il paesaggio è l’esatto opposto, è la cosa più umana che esista, è la nostra modellazione del naturale, è la prova che esistiamo, che non possiamo né dobbiamo sparire. Il paesaggio è storia, è il riflesso nello specchio naturale di quello che siamo, vale per i boschi, vale per l’agricoltura, vale anche per l’eolico. 

«L’idea di una guida turistica ai parchi eolici italiani nasce dall’obiettivo di permettere a tutti di andare a vedere da vicino queste moderne macchine che producono energia dal vento e di approfittarne per conoscere dei territori bellissimi, fuori dai circuiti turistici più frequentati», si legge nell’introduzione. E il senso della guida, e del sito dove è possibile consultarla gratuitamente è esattamente questo: andare a vedere con i propri occhi non solo questi luoghi a modo loro strani e suggestivi, ma anche come il paesaggio italiano, e noi con esso, siamo dentro la storia, e questo essere nella storia e poter cambiare le cose contiene la possibilità stessa di salvarci.

Dopo la conclusione di Cop26, e quel suo assurdo finale che aveva offerto al carbone una scappatoia per decenni di emissioni, ero sull’autobus che mi portava all’aeroporto di Edimburgo, stanco e assonnato. Mi ero voltato per guardare il paesaggio e avevo visto un parco eolico lungo l’autostrada, mi aveva fatto lo stesso effetto che aveva fatto al professor Alan Grant vedere lo stormo di pellicani fuori dall’elicottero che lo portava via sano e salvo dal Jurassic Park: ricordargli che i fossili devono restare fossili e che il futuro, nonostante tutto, esiste, ed è interessante e pieno di possibilità.

Ciao! Ferdinando Cotugno

(ANSA il 21 ottobre 2022) - Ci sono undici indagati nel procedimento penale aperto dalla Procura dI Barcellona Pozzo di Gotto per l'incendio dello scorso 25 maggio a Stromboli sul set della fiction sulla Protezione civile e per la possibile connessione con l'erosione provocata dal nubifragio del 12 agosto che ha messo in ginocchio l'isola delle Eolie. Il provvedimento è stato firmato dal sostituto procuratore, Carlo Brai. 

Fra gli indagati ci sono i rappresentanti delle società "11 Marzo" e "Best Sfx" Roberto Ricci, Matteo Levi ed Elio Terribili; i vigili del fuoco Alessandro Romeo, Carmelo Siracusa, Antonino Lo Faro, Giuseppe Marra, Simona Pognant (dirigente romana); l'ex sindaco Marco Giorgianni, il dirigente Mirko Ficarra e l'attuale primo cittadino, Riccardo Gullo. Il pm ha nominato quattro consulenti: Gianni Podestà, Lamberto Griffini, Maria Vietti e Diego Italiano.

La serie che ha distrutto Stromboli non viene fermata. Perché? Francesca Galici il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

Troppo spesso non si pesano le parole e le loro conseguenze: lo sanno bene gli abitanti di Stromboli, la cui isola è andata a fuoco per girare una serie tv.

Può un'isola andare (quasi) completamente distrutta per la realizzazione di una fiction? Domanda retorica, perché in un Paese civile è impensabile che accada. Ma siamo in Italia e da noi anche questo diventa possibile. L'isola di Stromboli dallo scorso martedì è una distesa di cenere, arida e inospitale. E, almeno stavolta, il vulcano non c'entra niente. Sì, perché l'isola è abituata alle eruzioni e non ce la si può certo prendere con la natura che fa il suo dovere quando una colata di lava porta via tutto quello che trova sulla sua strada. Ma quando a causare la devastazione è la mano umana che, senza criterio, accende un fuoco per agevolare le inquadrature per una fiction televisiva, è comprensibile che monti la rabbia di un'intera comunità. Ah, c'è anche un paradosso in questa triste vicenda, perché la serie tv che si stava girando a Stromboli è dedicata alla Protezione civile. Oltre il danno, anche la beffa.

La procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha giustamente aperto un fascicolo per fare chiarezza sull'accaduto e come nei più classici copioni delle magagne all'italiana è già iniziato il rimbalzo di responsabilità. La Rai se n'è subito tirata fuori, spiegando che si tratta di una produzione esterna alla tv di Stato. La produzione dice di aver chiesto tutti i permessi ma chi doveva concedere le autorizzazioni dice di non aver dato nessun nulla osta. In tutto questo l'isola vede letteralmente andare in fumo la stagione turistica che sarebbe dovuta essere quella del rilancio dopo la pandemia.

Incendio a Stromboli, giallo sulle autorizzazioni della fiction con la Angiolini

Gli operatori della zona hanno calcolato che l'incendio ha causato danni per circa 50 milioni di euro, bruciando le coltivazioni, i boschi e le distese di macchia mediterranea, necessari per garantire l'equilibrio all'ecosistema stromboliano, ormai completamente distrutto. Qualcuno parla di tragica fatalità ma accendere un fuoco, anche se controllato, quando soffiano venti di scirocco non può essere definita una fatalità, è come lanciarsi da una rupe senza paracadute e sperare di atterrare sul morbido per non farsi male. Qualcuno parlerebbe di tragico destino? Difficile.

Certo, gli slanci di solidarietà non sono mancati, anche da parte di chi sta lavorando a questa fiction, ma questo non spazza via la rabbia degli abitanti. Anche perché l'intervista rilasciata dal produttore della serie tv ha gettato benzina sul fuoco (scusate il gioco di parole) negli umori degli isolani. Perché davanti a tutto questo, a chi ha rischiato di perdere la casa per l'incendio e a chi teme di perdere gli introiti della stagione estiva ormai iniziata, alla domanda di un giornalista che chiede se le riprese verranno bloccate non ci si può permettere di rispondere: "Assolutamente no, non vedo perché". Si chiama buon senso, e anche empatia. Perché a volte le parole, e i sentimenti che suscitano, fanno più male del danno stesso. E gli occhi lucidi di chi, a fine lavori lascia l'isola spostandosi altrove, lasciandosi alle spalle tutto per continuare come se nulla fosse, non servono a riparare il disastro.

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 27 maggio 2022.

Ma come si fa ad accendere un fuoco quando soffia il vento di scirocco? E come fa a non saperlo chi sta girando una fiction proprio sulla Protezione civile? Stromboli da sempre è un set naturale per grandi registi, da Roberto Rossellini a Nanni Moretti, ma questa volta è solo la protagonista di un'autentica tragedia. 

«Sull'isola non c'è più un filo d'erba - dice il sindaco di Lipari Marco Giorgianni - è un miracolo che non ci siano vittime». In fumo oltre sei ettari di macchia mediterranea. «Parliamo di circa il 50% dell'area a verde dell'isola» stima la Protezione civile regionale. Evacuato un ristorante con 30 persone, mentre in 50 sono stati costretti a lasciare le loro case. 

Un giorno e una notte di fiamme e dense nuvole di fumo, come se tutta l'isola fosse diventata una gigantesca «sciara del fuoco», il costone roccioso dove si riversano le colate laviche del vulcano perennemente in attività.

Per ore gli isolani hanno affrontato da soli le fiamme. In attesa che arrivassero prima un elicottero da Catania, poi i canadair e vigili del fuoco da altre isole. A Stromboli infatti non c'è un presidio stabile dei pompieri. Anche se quando è divampato l'incendio ce n'erano cinque. Ed erano lì proprio per vigilare sulla fiction Rai del regista Marco Pontecorvo con Ambra Angiolini dal titolo, appunto, «Protezione civile». 

«Eravamo sull'isola per garantire assistenza durante le riprese - precisano dal comando generale -. Non sappiamo se le fiamme siano divampate sul set. In quel momento non eravamo sul posto, altrimenti avremmo vigilato». 

Decine di testimoni raccontano che il fuoco è stato acceso da maestranze impegnate nella fiction. «Io ho fatto anche la comparsa - dice Rosaria Cincotta -, il giorno prima abbiamo girato la scena dell'evacuazione al porto. 

Mercoledì mattina invece sono andati su, nella zona del Timpone, per provare la scena di un principio di incendio. 

C'erano anche due ragazzi dell'isola che aiutano le maestranze. Qualcuno ha appiccato il fuoco ma le fiamme si sono rapidamente propagate, proprio per lo scirocco. Gli avevano detto di non farlo, ma loro avevano premura». «Doveva essere un incendio controllato in una riserva naturale - aggiunge Roberta Denti, giornalista milanese di casa sull'isola - ma è andato fuori controllo». Lo conferma anche il capo della Protezione civile siciliana Salvatore Cocina: «È stata una grandissima leggerezza. Hanno simulato un incendio per una scena, ma senza il controllo dei vigili del fuoco». Ironia della sorte le fiamme hanno divorato persino la casermetta della Protezione civile.

Sulla vicenda la Procura di Barcellona Pozzo di Gotto ha già aperto un'inchiesta e i carabinieri della compagnia di Milazzo stanno ascoltando decine di testimoni, compreso il regista. Al momento l'inchiesta è contro ignoti, ma gli inquirenti lasciano capire che a breve potrebbero esserci i primi indagati. 

Chiaramente in questa brutta storia Ambra non c'entra nulla. Per giorni ha postato foto di lei sorridente al mare e sul set e ieri era ancora sull'isola, visibilmente frastornata di fronte a tanta devastazione. «Questa è un'isola bellissima - avrebbe detto, secondo il racconto di alcuni isolani -, voglio tornare e vorrei fare anche qualcosa: sto pensando a una raccolta fondi».

Alle fiamme hanno fatto seguito le polemiche. Il deputato di Italia Viva Michele Anzaldi ha presentato un'interrogazione parlamentare: «la Rai deve fare chiarezza». La Rai ha replicato: «Non abbiamo responsabilità sulla produzione affidata alla società "11 marzo"». Controreplica: «La Rai non se la può cavare così». Mentre la società «11 marzo» parla genericamente di «incidente dovuto al caso e all'imprevedibile».

Antonio Calitri per “il Messaggero” il 28 maggio 2022. 

L'incendio di scena che si è trasformato in una vera catastrofe per l'ecosistema di Stromboli, distruggendo metà della sua vegetazione, era ampiamente previsto dal copione della fiction. La sua descrizione si trova alla fine dell'11ª puntata di Protezione civile, la serie diretta dal regista Marco Pontecorvo con Ambra Angiolini tra i protagonisti, che la società di produzione 11 Marzo Film stava girando sull'isola siciliana.

Dopo una giornata di scaricabarile sull'esistenza o meno di una scena che prevedeva l'incendio, inizialmente negata da tutti, ecco che a dirimere ogni dubbio arriva il copione che descrive per bene quello che doveva accadere per colpa del vulcano, uno dei più attivi d'Europa, ma che non ha eguagliato la mano dell'uomo. 

A svelare la scena 11.51 prevista a pagina 79 della scrittura del novembre 2021 è stata l'edizione siciliana del TGR Rai in un servizio dalla giornalista Eleonora Mastromarino. Nella poche righe, prima si legge l'ambientazione, «interno Stromboli, villette, giorno». Poi la descrizione, «Marina apre gli occhi, intorpidita. Nella villetta c'è una strana luce rossastra. Il vulcano prorompe in un altro boato, che subito sveglia la ragazza di soprassalto...». Fino al «con orrore, nota che la casa è circondata dalle fiamme... fine undicesima puntata».

Una scena che probabilmente è stata già messa agli atti dell'inchiesta aperta dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina), ma che non poteva restare nascosta più di tanto. E così, dopo il primo momento in cui dalla troupe negavano l'esistenza di una scena di fuoco, è stato lo stesso regista Pontecorvo a chiarire che seppur in quel momento «non erano in atto riprese ma solo la preparazione per la scena da girare poco dopo», quella scena «esisteva sulla sceneggiatura ed era prevista nella maniera in cui la stavamo approntando per quella giornata come da nostro programma». 

Intanto sull'isola si fanno i primi calcoli dei danni. Per Max Cincotta, operatore turistico strombolano e proprietario del Bar Ingrid, dedicato alla Bergman che qui nel 1949 girò il suo primo film diretta dal suo compagno Roberto Rossellini, «si parla di 50 milioni di euro» di danni, attribuendo però parte delle responsabilità alle amministrazioni locali perché, continua, «bastava che la montagna venisse curata con delle strisce anti-fuoco e lo scempio sarebbe stato evitato».

I tecnici del Laboratorio di Geofisica sperimentale, oltre a manifestare solidarietà agli isolani dichiarandosi «vicini alle persone di Stromboli per la tragedia dell'incendio vissuta», hanno segnalato che anche loro, «relativamente al monitoraggio vulcanico», hanno subito alcuni danni: la stazione Sci, che si trova a 500 metri di quota sopra Punta Labronzo, «non è più funzionante e pertanto il sistema di monitoraggio frane non è attivo così come i segnali della telecamera di Punta dei Corvi non sono disponibili in quanto si appoggiavano al ponte radio della stazione Sci. Nonostante i danni subiti, tutti i sistemi di allerta vulcanica sono perfettamente funzionanti».

Rosa Oliva, presidente della Pro Loco Stromboli, denuncia che «il disastroso incendio che ha interessato gran parte dell'isola, la cui violenza non ha avuto pari neppure rispetto a quelli conseguenti innescati dalle eruzioni vulcaniche, ha evidenziato ancora una volta lo stato di abbandono e incuria in cui versa il territorio dell'isola» e lamenta «una grave assenza delle istituzioni dello Stato, in un'isola con un ecosistema delicato, dichiarata Patrimonio Unesco, e visitata ogni anno da migliaia di turisti, troppi forse, quando essi arrivando ad ondate incontrollate nel periodo di punta della stagione estiva».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 28 maggio 2022.

«Avevamo le autorizzazioni per girare quella scena e sul posto c'erano i vigili del fuoco proprio per controllare che tutto avvenisse in sicurezza». Parla di un «grave incidente», ma non ci sta a finire sul banco degli imputati per il rogo di Stromboli. Matteo Levi è a capo della «11 marzo», una delle più importanti società di produzione italiane. Erano loro a gestire la lavorazione della fiction «Protezione civile» come ha tenuto a precisare la Rai, quasi a voler prendere le distanze. 

«Prima di tutto vorrei dire che in questa storia Ambra non c'entra nulla. Non erano sul posto né lei né Pontecorvo che sono stati associati a questa vicenda in modo vergognoso. Hanno scritto che Ambra la mattina era al bar a prendere la brioche. Invece le assicuro che era sconvolta e ha pianto tutta la notte». 

Era prevista la sua presenza sul set?

«Sarebbe dovuta arrivare in un secondo momento». 

A che punto eravate del vostro lavoro?

«A Stromboli avremmo finito di girare oggi. Dobbiamo consegnare la produzione nel marzo 2023 per una programmazione in autunno». 

Ma cosa è successo esattamente mercoledì mattina?

«Non voglio entrare nei dettagli perché c'è un'inchiesta e la ricostruzione è delegata a chi era sul posto. Posso però dire che noi avevamo autorizzazioni precise per tutto quello che abbiamo fatto, con il supporto dei vigili del fuoco, che erano sul set». 

Il Comune dice che quella è zona di riserva e dunque dipende dalla Forestale

«Noi abbiamo chiesto al Comune un permesso specifico per tutte le giornate di riprese, se poi serviva un'autorizzazione della Forestale penso che sia compito del Comune dirci: "per questo non basta la nostra autorizzazione". Tra l'altro credo che la zona dell'incidente non fosse neppure sotto il controllo della Forestale».

Lei dice che sul posto c'erano i vigili del fuoco, loro però dicono che erano distanti.

«So di questa loro tesi, i magistrati accerteranno qual è la verità. Io so solo che i vigili del fuoco sono arrivati con una squadra, mi pare di 4 persone, da noi ospitate in albergo con tutte le spese pagate. Poi, durante la fase di preparazione della scena, c'era chi di loro stava vicino alla macchina da presa, chi invece stava attaccando i manicotti a delle cisterne. Ma ripeto: ci rimettiamo all'inchiesta». 

I vigili del fuoco dovevano solo presidiare il set?

«Avrebbero dovuto preparare, come stavano facendo, il luogo dove effettuare le riprese. Sono loro che sul posto danno le direttive su cosa fare, quando e come. Io non voglio prendermela con i vigili del fuoco che hanno operato al meglio, per questo lo considero un incidente disastroso. Tra l'altro per girare quella scena abbiamo ingaggiato il massimo esperto in Italia per gestire i fuochi. Sono loro che debbono dare indicazioni su come operare sul set in queste fasi». 

Chi ha appiccato il fuoco? Non vi siete resi conto che c'era vento di scirocco?

«Questo non lo so e non sta a me stabilire se c'era troppo vento. Noi per queste riprese ci affidiamo a persone competenti e sono loro a dirci poi come andare sott' acqua o come accendere un fuoco».

Avete compreso subito la gravità della situazione?

«Immediatamente, ma le fiamme sono partite così velocemente che neanche i vigili del fuoco sono riusciti a controllarle». 

Bloccherete la fiction?

«Assolutamente no, non vedo perché. Anche se resta il trauma per un incidente dolorosissimo. Siamo tutti sconvolti, ma io guardo le carte sulla base delle quali abbiamo operato. Se poi la Procura non le riterrà sufficienti me ne assumerò la responsabilità».

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 21 agosto 2022.

«Sono venuta solo per dare una mano». Canotta scura, capelli raccolti, è arrivata di buon mattino e si è messa subito all'opera per spalare fango e recuperare vestiti e oggetti nelle case che ancora portano i segni dell'alluvione del 12 agosto. Dopo oltre due mesi Ambra Angiolini torna a Stromboli. 

L'attrice è stata vista e fotografata nella zona di Piscità, vicino all'abitazione di un'amica. Nessuna dichiarazione, solo poche parole scambiate con alcuni isolani. E anche il suo agente conferma: «È andata in completa autonomia per aiutare le persone dell'isola... in momenti di difficoltà è sempre una cosa utile e giusta».

L'attrice era stata sull'isola nel maggio scorso, sul set della fiction «Protezione Civile», del regista Rai Marco Pontecorvo. E fu proprio durante le riprese che scoppiò un violento incendio. In una giornata di scirocco qualcuno decise di accendere quel lo che doveva essere solo un rogo controllato inserito nel copione. 

Ma l'incendio andò rapidamente fuori controllo, mandando in fumo oltre 5 ettari di macchia mediterranea. Uno sfregio che ha cambiato il paesaggio dell'isola.

Non solo. Come avevano previsto molti isolani quell'incendio avrebbe compromesso il fragile equilibro idrogeologico. E, purtroppo, avevano ragione. Anche se l'alluvione del 12 agosto è stato un evento climatico eccezionale, le conseguenze sono state ancor più pesanti per le ferite sul territorio lasciate dal rogo del 25 maggio scorso. «Il nubifragio ha assunto dimensioni catastrofiche proprio per il danneggiamento della vegetazione durante le riprese cinematografiche» hanno denunciato qualche giorno fa anche le guide vulcanologiche che operano sull'isola. 

Ecco perché la visita di Ambra è stata letta da molti come una sorta di tributo per i danni provocati durante le riprese della fiction della quale è protagonista, anche se l'attrice è totalmente estranea ai fatti e, al momento dell'incendio controllato, non era neanche sul set. Chi l'ha incontrata quei giorni racconta di averla vista «letteralmente sconvolta e in lacrime».

Ambra è sbarcata sull'isola assieme all'attore Andrea Bosca e al direttore della produzione della fiction Luca Palmentieri. Si vocifera che a settembre dovrebbero riprendere le riprese di «Protezione Civile» e questo mentre ancora l'inchiesta, avviata dalla Procura di Barcellona Pozzo di Gotto, segna inspiegabilmente il passo. «Purtroppo i tempi della giustizia non sono rapidi come la gente si aspetta, ma stiamo andando a fondo» ha dichiarato recentemente il pm che ha in mano il fascicolo.

Eppure da tempo i carabinieri hanno presentato il loro rapporto dal quale emergerebbero chiaramente le responsabilità di alcuni addetti alla produzione. Anche l'amministrazione comunale attende il processo nel quale è pronta a costituirsi parte civile. Da sempre l'isola è un set naturale per il mondo del cinema, con importanti ricadute per l'economia locale, ma un'eventuale ripresa della produzione di «Protezione Civile» a qualcuno fa storcere il naso. 

«Anche io ho sentito dire che vogliano riprendere le riprese della fiction - afferma il nuovo sindaco di Lipari Riccardo Gullo -. Se hanno tutte le autorizzazioni necessarie è un loro diritto lavorare. A me personalmente non è stata presentata alcuna richiesta. Verificherò se ci sono precedenti autorizzazioni in tal senso». 

Intanto l'amministrazione comunale ha completato una prima stima dei danni sull'isola che ammontano ad oltre dieci milioni. «Spero che vengano erogati presto - dice il sindaco -, poi però bisognerà affrontare un altro problema: le opere strutturali necessarie perché simili episodi non si verifichino più».

Ottavio Cappellani per “la Sicilia” il 29 maggio 2022. 

Minchia, meno male che a Stromboli (dove le riprese di una fiction dedicata alla protezione civile stava per cancellare l’isola a causa di un incendio) non c’era Selvaggia Lucarelli: già me la immagino, novella Enea, che fugge tra le fiamme portando in spalla il figlio, il fidanzato cuoco, le padelle, i souvenir etnici (da Etna), gli animali da affezione e la differenziata; stavolta sì che vi avrebbe fatto il… i conti in tasca. 

La verità è che non siamo cosa. Ma dai. Io non lo so che roba assumono a Palermo per delirare di modernità, turismo, spettacolo, cinema, movida, mondanità, uippis. Probabilmente è la cotoletta alla palermitana (è l’unico luogo al mondo che ancora non ha capito che la cotoletta si fa con l’uovo e soprattutto si frigge!) che causa loro le allucinazione, o l’“arancina” che, non esistendo in natura, si ribella e li avvelena. Ma levateci mano, non sono cose per noi: le “friction” fatele fare altrove.

Minchia doveva esserci un incendietto in un giardinetto di una villetta, incidente domestico che capita decine di volte in tutti i giardinetti della Sicilia, con questa mania che abbiamo del barbecue, e che tutti noi riusciamo a domare affrontandoli con le peroni ghiacciate.

E invece sul set c’erano i pompieri, gli specialisti degli incendi, e Stromboli è andata in fumo come un cerino.

E’ l’aria di Sicilia, ma non inteso come scirocco, ma come aria dei siciliani, il “ma chi se ne fotte” contagia. Adesso, la produzione, giustamente, dice che si affida alla magistratura, ma vogliamo scommettere che alla fine si scoprirà una certa “machiseneffotitudine”?

Intanto la Sicilia è stata a Cannes, nella persona dell’assessore allo spettacolo, al turismo e alla bellicapellitudine Manlio Messina, a promuovere la Sicilia come “set a cielo aperto”, che fa un po’ il paio, a luogo comune, con la “splendida cornice” (alle minchiate, soprattutto). Progetto dal costo di due milioni e duecentomila euro (ma l’assessore ha smentito: “costerà solo un milione e seicentomila euro).

Dice che c’abbiamo il ritorno d’immagine, anche se sembra più un ritorno di fiamma. Ora, Manlio lo conosciamo. Nella sua pagina facebook c’è una specie di foto di lui, con i loghi della regione e con il logo di “Variety”. Il post dice: “Variety, tra i più importanti giornali al mondo nel settore cinema, dedica la copertina alla Sicilia e al progetto “Sicily Women and Cinema”. (Ho fatto lo screenshot, ovviamente) 

Ho controllato, a me sembrava strano che “Variety” mettesse in copertina Manlio Messina, e i loghi della Regione Sicilia. Minchia non la trovo. Sono sicuro che Manlio non mente. Quindi, o gli ha mentito un collaboratore, o l’ufficio stampa che ha pagato duecentomila euro. Spero di essere smentito da Manlio, ma nel caso io avessi ragione, prendi in considerazione la mia proposta: per cinquantamila euro ti vendo una mia stand-up in cui ti prendo in giro, anche a Musumeci se vuoi, e con un grande risparmio vi faccio fare una malafigura ancora più grande.

Paolo Landi per doppiozero.com il 27 maggio 2022.

L'ultima novità in fatto di social network, dopo la rapida eclissi di Clubhouse, si chiama Minus, la piattaforma dove si possono condividere solo cento post. Esaurito questo numero il profilo resta ma inattivo, non si può più fare nulla, in una logica all'incontrario rispetto ai social tradizionali, che vorrebbe ridare valore alle parole o alle immagini, da soppesare nella loro utilità prima di pubblicarle. 

Naturalmente non è un vero social ma una provocazione dell'artista e docente alla Illinois University Ben Grosser. Lui ha risposto così a una richiesta della Arebyte Gallery di Londra per la mostra Software for Less, che nell'ottobre scorso voleva indagare sugli effetti psicologici, culturali e politici delle app social sulle persone.

Grosser, già nel 2012 aveva creato Demetricator, una estensione del browser per eliminare il conteggio dei like sotto ai messaggi condivisi su Facebook, per capire se questa modalità poteva scoraggiare la bulimia social. 

Il suo gesto artistico prefigura un futuro prossimo in cui qualcuno ci chiederà – come ci hanno già chiesto, per esempio, di non disperdere i rifiuti nell'ambiente – di tenere un atteggiamento responsabile verso la dematerializzazione crescente che caratterizza le nostre vite. 

Quando mettiamo una foto su Instagram o un commento su Twitter condividendo e mettendo like, quando lavoriamo da casa, quando archiviamo i nostri documenti sul pc, quando entriamo nel network globale che acquista e vende Bitcoin, stiamo dematerializzando.

Dematerializzare è il mantra tecnologico che vorrebbe accelerare lo sviluppo sostenibile ottimizzando i processi: l'home working ci evita di spostarci usando auto, metropolitane, treni, aerei e risparmiando quindi carburante, diminuendo l'inquinamento atmosferico; la solitudine nella quale ci confinano i social network, dandoci tuttavia l'impressione di avere una vita popolata di amici, pare molto eco-sostenibile anche se psicologicamente poco salutare; inviare mail e usare Excel ci abitua a fare a meno della carta, con benefici per la foresta amazzonica; la tecnologia migliora la filiera manifatturiera riducendo impiego di energia e di materie prime.

Il nuovo paradigma del capitalismo digitale considera la rilevante discontinuità nella struttura dei rapporti di produzione, delle relazioni interpersonali e sociali, trasformando il più possibile tutto ciò che è materiale in entità digitale. 

Nel 2016, a Parigi, centonovanta Paesi firmarono un accordo "per conseguire l'obiettivo a lungo termine relativo alla temperatura (...), raggiungere il picco mondiale di emissioni di gas a effetto serra al più presto (...) e intraprendere rapide riduzioni in seguito, in linea con le migliori conoscenze scientifiche, così da raggiungere un equilibrio tra le fonti di emissione e gli assortimenti antropogenici di gas a effetto serra nella seconda metà del secolo”.

Il cambiamento climatico che sta interessando il nostro pianeta, sotto forma di condizioni estreme come siccità, ondate di caldo, piogge intense, alluvioni, frane, innalzamento dei mari, acidificazione degli oceani, con la biodiversità fortemente compromessa, necessita quantomeno di una presa di coscienza del problema. 

Ma mettiamo che, in un futuro distopico, Greta Thunberg venga presa in parola e tutti – dal cittadino che non getta più il pacchetto di sigarette vuoto dal finestrino della macchina ma lo smaltisce educatamente nei cestini della raccolta differenziata, ai governi di tutti gli Stati che abbassano le loro emissioni, investono in tecnologie, assumendo come impegno quotidiano la protezione dell'ambiente – immaginiamo, dicevamo, che tutti mantengano, sempre, un atteggiamento costantemente virtuoso.

Ipotizziamo anche uno scenario in cui la procreazione diminuisca a livelli tali da riportare la popolazione mondiale a standard pre-moderni e, contemporaneamente, l'idea sovranista vinca, impedendo qualunque forma di emigrazione/immigrazione. 

Si avvererebbe forse la profezia che lo scrittore Benjamin Labatut ha rappresentato nel suo libro Un verdor terrible (tradotto da Adelphi recentemente con il titolo Quando abbiamo smesso di capire il mondo): "Le piante, nutrite all'eccesso da un'umanità in soggezione, sarebbero state libere di crescere a oltranza, proliferare ed espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde".

Questa immagine fantascientifica paradossale è perfetta per spingerci a fare considerazioni che ci riportano all'origine di questo discorso: mentre sembriamo tutti impegnati a raggiungere la così detta neutralità carbonica entro il 2050, (quasi) nessuno mette in guardia sui pericoli della dematerializzazione, dove la particella "de" usata in funzione privativa, vorrebbe togliere concretezza materica a tutto ciò che è tridimensionale. Ricopriremo i grattacieli e le città di boschi verticali senza accorgerci che un altro nemico, difficile da riconoscere perché dematerializzato, attenta al nostro equilibrio biologico.

L'invisibile inquinamento delle nostre foto su Instagram, delle nostre quotidiane opinioni su Twitter, degli sproloqui cui ci abbandoniamo su Facebook, i dati che forniamo a Linkedin sulle nostre storie professionali, i video imbarazzanti su Tik Tok, la condivisione dei colori che ci piacciono su Pinterest, i follower da acchiappare su YouTube: tutto questo "torpor terrible", parafrasando Labatut e intendendo l'ottundimento delle facoltà psichiche che ci ipnotizza quando stiamo sui social, crea danni. La dematerializzazione fa bene da una parte ma è pericolosa da un'altra. 

Nessuna tecnologia è neutrale, nessuna è gratis, nemmeno le app inventate da Zuckerberg, al contrario di quanto lui vorrebbe farci credere. Ce ne accorgiamo anche quando accendiamo il pc: una specie di vento, il soffio di un organismo in affaticamento, accompagna per qualche secondo la connessione che illumina lo schermo (mentre, fuori, il cerchio rosso del contatore immaginiamo giri vorticosamente).

Pare che l'energia che consumiamo per usare tutti i device digitali presenti sul pianeta (smartphone, server, terminali, reti ecc.) cresca al ritmo del 10% l'anno. Ogni informazione, circolando in rete, è inviata da onde elettromagnetiche prodotte da antenne alimentate a corrente, o da fasci che si propagano in fibre ottiche. Google è proprietario di un'infinità di siti, che richiedono enormi capacità di stoccaggio per rispondere ai miliardi di domande che vengono poste ogni frazione di secondo.

I grandi server che immagazzinano e processano i dati necessitano di imponenti potenze elettriche per funzionare ed essere raffreddati (impiegando, tra l'altro, colossali quantità d'acqua). Ci si spaventa a leggere i dati che Google stesso ha rivelato sul consumo energetico che gli è necessario per fornire i suoi servizi: pari a un quarto della produzione di una centrale nucleare media ogni anno (swissinfo.ch).

Gli algoritmi che prendono in carico le informazioni che gratuitamente forniamo a Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Jack Dorsey (Twitter), Larry Page e Sergej Brin (Google), Reid Hoffman (Linkedin) ma anche a Netflix, Dazn, Amazon, le dirottano poi a entità socioeconomiche, politiche, finanziarie, commerciali: dati che hanno un valore enorme per il loro potere di influenzare qualunque nostra scelta, come è enorme la potenza energetica indispensabile per rilasciarli. Comprare Bitcoin causa l'immissione in atmosfera di una quantità di circa ventitré milioni di tonnellate di CO2 ogni anno, come le emissioni annuali di città come Las Vegas o di piccole nazioni come la Giordania.

L'incremento esponenziale del traffico dati tecnologico dovuto alla crescente dematerializzazione è un problema oggi sottovalutato ma serio. Così, mentre crediamo di combattere battaglie ambientaliste sui social, con i nostri tweet indignati e le foto choc, non facciamo altro che consumare un prodotto commerciale, contribuendo all'inquinamento, proprio come quando abbandoniamo la lattina di Coca Cola nel bosco, gettiamo in mare il sacchetto di plastica coi rifiuti, o schiacciamo con la punta della scarpa un mozzicone. La peculiarità di queste nuove forme di comunicazione sta inoltre nella loro estrema volatilità: tutto si consuma in lassi di tempo sempre più brevi, è l'escamotage ideato per farceli consumare di più. Ne deriva un debito cognitivo allarmante: la quantità di informazioni a nostra disposizione cresce continuamente, impedendo al cervello umano di metabolizzarle, generando danni all'ecologia della nostra mente e alla nostra psicologia, scaraventandoci in un perpetuo senso di inadempienza e di insoddisfazione.

Il digital devide è fonte di un'altra assurda contraddizione. Nei Paesi avanzati, dove il PIL cresce in media del 2% la spesa per la digitalizzazione – come riportato dal fisico Roberto Cingolani, oggi Ministro della transizione ecologica – cresce dal 3 al 5% negli ultimi anni. Nei Paesi dove la crescita non c'è, il gap digitale aumenta. 

Un cittadino americano possiede in media dieci dispositivi digitali, processando circa centoquaranta gigabyte (miliardi di byte) di dati ogni mese, in confronto a un cittadino indiano che, con un solo dispositivo connesso, consuma due gigabyte (invece dei centoquaranta del cittadino medio americano). La digitalizzazione continua ad essere un fenomeno non uniformemente distribuito sul pianeta ma il suo impatto ambientale è subìto da tutti. Il politically correct ambientalista ha dunque bisogno di un aggiornamento urgente, se non vogliamo che i sacrosanti allarmi lanciati da Greta non finiscano tra i reperti archeologici di Instagram.

Una battaglia non esclude l'altra, ovviamente, e si può impegnarsi per la riduzione del CO2 mentre lottiamo per la consapevolezza di quanto sia cruciale nel futuro delle nuove generazioni l'ecologia digitale. 

Ma, per farlo, bisognerebbe aver chiaro che un comportamento coerente esigerebbe una serie di rinunce, oltre a limitare il bla bla bla istituzionale stigmatizzato da Greta: non ultima quella di chiederci – tanto per cominciare da qualcosa di semplice – quanto siano necessarie le foto che pubblichiamo su Instagram, le opinioni che scriviamo su Twitter, gli sproloqui su Facebook. Buttare il pacchetto di sigarette vuoto nel cestino o resistere al caldo di un'estate normale tenendo spenta l'aria condizionata sembrerebbe più facile. Ma, anche qui, abbiamo delle resistenze.

L’inquinamento da farmaci dilaga nei fiumi di tutto il mondo. LUIGI BIGNAMI, divulgatore, su Il Domani il 06 marzo 2022

Un nuovo studio ha esaminato la presenza di prodotti farmaceutici nei fiumi del mondo.

Secondo i risultati, in più di un quarto delle località studiate le concentrazioni sono a livelli potenzialmente tossici. Lo studio ha monitorato 1.052 siti lungo 258 fiumi in 104 paesi di tutti i continenti, rappresentando così l’impronta farmaceutica di 471,4 milioni di persone.

Per 36 di questi paesi è stato il primo studio sulla presenza di farmaci nei rispettivi corsi d’acqua principali. Tra i fiumi esaminati vi sono il Tamigi in Gran Bretagna, il Rio delle Amazzoni in Brasile e il Tevere in Italia.

LUIGI BIGNAMI, divulgatore. Giornalista scientifico italiano, laureato in scienze della terra a Milano

Come inquinare meno (davvero) in 10 mosse. Alessandro Ferro il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Per fare in modo di avviarci a un modo libero dal carbone, il cambiamento riguarda singolarmente anche ognuno di noi: ecco un decalogo di "regole" che sarebbe bene imparare a seguire.

In un mondo ormai avviato alla transizione ecologica, ognuno di noi può fare tanto per salvaguardare il pianeta. Ecco perchè il cambiamento parte dall'individuo, da ognuno di noi, prima che sia troppo tardi e periodi di siccità si alternino ad alluvioni e viceversa. Il Washington Post, uno dei quotidiani più importanti degli Stati Uniti, ha creato un decalogo con delle norme da osservare individualmente per provare a ridurre quella che viene chiamata "l'impronta di carbonio" di ogni singola persona.

Meno sprechi alimentari

Parlando di Stati Uniti, ad esempio, l'impronta di carbonio prodotta dai rifiuti alimentari è maggiore rispetto a quella del settore aereo. Gli sprechi hanno conseguenze devastanti per l'ambiente perché sono stati prodotti cibi con enormi emissioni di gas serra, le conseguenze ambientali della produzione di cibo che nessuno mangia sono enormi. Secondo l'organizzazione no profit ReFed, la maggior parte degli sprechi alimentari, circa il 37%, avviene in casa. Per evitare il ripetersi di queste condizioni, il consiglio è di tenere un elenco degli alimenti a portata di mano organizzando il frigorifero in modo da poter tenere traccia di ciò che c'è dentro. Alcune persone trovano utile etichettare le cose con la data in cui sono state acquistate o cucinate, altri usano un sistema in cui gli articoli più vecchi vanno sullo scaffale più in alto per poterli raggiungere prima. Insomma, ogni trovata è utile per evitare di buttare cibo, non ce lo possiamo permettere.

Via il prato dal giardino

Il nostro caro prato costa tanto all'atmosfera: soltanto negli Usa, si stima che ci siano dai 40 ai 50 milioni di acri di prato quasi quanto tutti i parchi nazionali del paese messi insieme. Secondo l'Environmental Protection Agency, la manutenzione di quei prati consuma quasi 3 trilioni di galloni di acqua all'anno, oltre a 59 milioni di libbre di pesticidi che possono infiltrarsi nella nostra terra e nei nostri corsi d'acqua. E poi, per la manutenzione sono stati utilizzati circa 3 miliardi di galloni di benzina per far funzionare le attrezzature da giardino, l'equivalente di quasi 6 milioni di autovetture in funzione per un anno. Qual è la soluzione? "Sostituire l'erba con le piante è uno dei modi più importanti per mantenere un cortile ecologico. La posa del pacciame è un punto di partenza facile. Uccide rapidamente l'erba e offre una tela bianca per la semina", scrivono gli esperti.

Come salvare la barriera corallina

Per salvare le barriere coralline bisogna iniziare dagli abbronzanti che si portano in spiaggia: vanno abbandonate le creme solari e gli articoli da toletta che contengono ossibenzone e altri prodotti chimici e optare per prodotti a base minerale. In valigia, poi, andrebbe messa una bottiglia d'acqua riutilizzabile, magari inserita nei thermos, così da evitare la plastica monouso. Il decadimento delle barriere, infatti, è spesso opera delle sostanze che dalle spiagge finiscono in mare. Non ci pensiamo nemmeno, la Natura sì.

Acquistare in maniera sostenibile

Mettersi nell'ottica di uno shopping sostenibile a 360 gradi: esistono pochissime cose che si possono acquistare e costituiscono beneficio per il clima. La maggior parte dei prodotti richiede terra, acqua e combustibili fossili per la produzione, l'uso e il trasporto. Vestiti, elettrodomestici, prodotti per il bagno, giocattoli, ecc. hanno intrinsecamente un costo ambientale in termini di emissioni di carbonio, quindi CO2. È così che si può sostituire l'auto con un veicolo elettrico, provare a rinnovare o riutilizzare gli oggetti esistenti piuttosto che acquistare sempre più cose. Invece di comprare tovaglioli di carta, si possono strappare le vecchie magliette per usarle come stracci: va costruita un'"economia circolare" nella comunità e in casa.

Proteggere le foreste

L'Italia non possiede le grandi foreste americane ma ce ne sono tante, così come in Europa. Esistono già numerosi gruppi che mirano a proteggere le foreste e gli alberi secolari. Alcuni gruppi, soprattutto oltreoceano, hanno interessi forestali più ampi tra i quali la promozione della piantumazione di alberi e altre iniziative di ripristino.

Veicoli elettrici

Anche se ancora costano molto, il futuro è dell'elettrico a scapito del monossido di carbonio prodotto dalle auto a benzina e gasolio. Secondo una recente ricerca, i veicoli elettrici tendono anche ad avere costi di carburante e manutenzione inferiori rispetto alle auto a gas, rendendoli più economici nel corso della loro vita rispetto ai veicoli con motore a combustione. Il Dipartimento dell'Energia americano ha un elenco completo di sconti, crediti d'imposta e altri programmi offerti in ogni Stato per incentivarne l'acquisto, Europa e Italia sono invece ancora molto indietro.

Migliorare la propria abitazione

Gli agenti atmosferici si presentano in molte forme, ma la più semplice è chiudere le crepe intorno a finestre e porte. Secondo il Dipartimento dell'Energia americano, dal 25 al 30% del riscaldamento e del raffreddamento domestico viene perso attraverso le finestre. Per migliorare l'efficientamento, si possono identificare i punti di perdita accendendo gli aspiratori della cucina e del bagno, creando un leggero differenziale di pressione tra interni ed esterni per poi sollevare un bastoncino di incenso acceso in potenziali aree problematiche: se il fumo oscilla o soffia in una direzione, c'è una corrente d'aria che deve essere sistemata. Il vetro di una finestra, poi, è "uno degli anelli più deboli" nella difesa di un edificio contro la radiazione solare secondo quanto dichiarato dalla scienziata Alexandra Rempel, perché trasmette facilmente il calore. Il modo migliore per evitare tutto questo è installare coperture esterne per finestre (persiane o tende da sole a scomparsa).

Cambiamento climatico ed equità razionale

Gli scienziati del clima sono chiari sul fatto che una società giusta ed equa non è possibile su un pianeta che è stato destabilizzato dalle attività umane. Uno studio degli Atti della National Academy of Sciences ha rilevato che le comunità nere e ispaniche degli Stati Uniti sono esposte a un inquinamento atmosferico molto maggiore di quello che producono attraverso azioni come la guida e l'uso dell'elettricità. Al contrario, i bianchi americani hanno una qualità dell'aria migliore rispetto alla media nazionale anche se le loro attività sono la fonte della maggior parte degli inquinanti. "Comprendere che il cambiamento climatico avrà un impatto sproporzionato su queste comunità è un passo importante per combattere il riscaldamento globale e creare un mondo più giusto", si legge sul quotidiano americano.

Compensazioni di carbonio

Senza cambiamenti sistemici nella società come una rete elettrica completamente alimentata da energia rinnovabile o un sistema alimentare che genera quantità inferiori di emissioni di gas serra, è praticamente impossibile per una singola persona o anche una grande istituzione passare completamente al carbonio freee, libero. "L'intero scopo delle compensazioni", ha affermato Barbara Haya, ricercatrice sulla politica climatica dell'Università della California a Berkeley, "è quello di creare un modo per un individuo, un'azienda o un'università di pagare qualcun altro per ridurre le emissioni per coprire le emissioni che non possono ridursi”.

Le persone possono acquistare compensazioni per le emissioni di un'attività specifica, come un volo internazionale, o acquistare pacchetti con noti come "la compensazione del carbonio del matrimonio verde" e "pacchetto di vita equilibrato". I buoni progetti, però, dovrebbero essere permanenti e applicabili con ulteriori sforzi che non vanno compensati per spostare le emissioni da qualche altra parte. In questo modo non si risolverebbe nulla.

Trasmetterle

Infine, una sola parola contiene tutti i punti elencati finora: trasmettere, cioé educare figli, amici e coetanei a essere parte del cambiamento che non è un problema delle prossime generazioni, come si è sempre sentito. È un problema di adesso, e riguarda l'ultimo bambino nato e il più anziano vivente sulla Terra.

La guerra ha riacceso la luce sui disastri ecologici dimenticati del Donbass. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 27 febbraio 2022

Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter di Domani sul clima e l’ambiente.

Questa settimana parliamo della polveriera ecologica in Ucraina orientale, dell’«accordo di Parigi» sulla plastica, della crisi globale incendi e del ghiaccio marino in Antartide. 

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Buongiorno lettrici e lettori di Domani, questo è un nuovo numero di Areale, che arriva in una settimana dolorosa e difficile, piena di cose che non avremmo pensato di leggere, vedere, scoprire. Cominciamo proprio da lì, dove tutti stiamo guardando.

LE MINIERE DI CARBONE DEL DONBASS

Il Donbass è la «miccia che ha scatenato l’incendio», come l’ha definita Dario Quintavalle su Domani, la regione orientale dell’Ucraina dove la Russia ha riconosciuto le repubbliche separatiste di Luhansk e Donetsk.

L’etimologia del nome Donbass è: bacino del carbone del Donetsk. L’area è stata uno degli epicentri minerari del mondo, con centinaia di estrazioni attive e inattive, una catastrofe ecologica in slow motion, in grado di contaminare acqua e suolo, sulla quale la guerra ha riacceso i riflettori e che rischia di avvelenare ancora di più.

Secondo un report della Banca mondiale, in Donbass ci sono 900 siti industriali, 40 fabbriche metallurgiche, 177 siti chimici ad alto rischio, 113 siti che usano materiali radioattivi, 248 miniere, 1.230 chilometri di tubature che trasportano gas, petrolio e ammoniaca, 10 miliardi di tonnellate di rifiuti industriali. Una polveriera che gli otto anni di conflitto, e questa invasione russa, rischiano di far detonare.

Il sito di giornalismo investigativo Bellingcat aveva sviluppato già nel 2017 una serie di mappe e risorse digitali che danno la misura del pericolo in corso ancora oggi.

In duecento anni di storia, nel Donbass sono state estratte 15 miliardi di tonnellate di fonti fossili di energia, principalmente carbone. Già prima della guerra il ministero ucraino dell’Ecologia e delle risorse naturali aveva contato un totale di 4.240 punti di pericolo ambientale, un catalogo che comprende perdite di metano, rischi di radiazioni, stabilità idrodinamica del suolo, dispersioni chimiche.

La preoccupazione principale è per le vecchie miniere di carbone: quando un’estrazione viene chiusa non può essere semplicemente abbandonata, è necessario pompare continuamente fuori l’acqua per evitare che i bacini idrici vengano contaminati da metalli pesanti come piombo, mercurio, arsenico. La guerra limita o impedisce queste operazioni, ed è una cosa che avevamo visto accadere già prima dell’invasione in 35 siti diversi, perché ai separatisti filo-russi mancano volontà e risorse per farlo.

Le miniere sono state lasciate al loro destino, si sono allagate e stanno inquinando l’acqua usata per bere e irrigare. L’Istituto nazionale di studi strategici dell’Ucraina ha definito la contaminazione chimica una «minaccia imminente» per almeno 300mila persone, un civile su quattro lungo la linea di combattimento non ha più accesso a una fonte affidabile di acqua potabile. L’incidenza di infezioni gastrointestinali nei bambini è decine di volte più alta che nel resto del paese.

Nel 2018 l’allora ministro dell’Ecologia Ostap Semerak aveva addirittura parlato di una «seconda Chernobyl» nella miniera abbandonata di YunKom, che ha una storia particolare e molto pericolosa.

Era stata aperta da una società belga negli anni Dieci del Novecento ed era una delle più produttive nella storia dell’Urss. Alla fine degli anni Settanta qui erano stati condotti test nucleari sotterranei, che avevano lo scopo di ridurre le esplosioni causate da perdite di metano, diventate più frequenti man mano che l’estrazione scendeva di profondità. Le cariche da 0,3 kiloton avevano creato una sorta di camera sotterranea piena di radiazioni a 900 metri di profondità, una capsula radioattiva che per quarant’anni è stata pompata e tenuta asciutta, anche dopo che la miniera è stata chiusa. Poi è arrivata la guerra, nel 2018 i separatisti hanno abbandonato YunKom a se stessa e anche qui è arrivata l’acqua, la contaminazione ha il potenziale di rendere radioattiva quella che viene usata da milioni di persone e che arriva fino al mare di Azov. YunKom si trova a quaranta chilometri dalla città di Donetsk.

E poi ci sono le centrali nucleari a fare paura. L’Ucraina è un paese dell’atomo, scrive il Bulletin of the Atomic Scientist. Metà dell’energia elettrica usata dagli ucraini arriva da quindici reattori nucleari.

Il paradosso del nucleare è che il suo uso pacifico ne fa anche uno strumento militare per le forze occupanti, è la tesi del libro Nuclear Power Plants as Weapons for the Enemy, scritto dall’ex membro dell’Ufficio di affari politico-militari del Dipartimento di stato americano Bennett Ramberg, ed è uno dei timori più spaventosi su questa invasione, che un’esplosione possa verificarsi, intenzionalmente o meno, in uno di questi reattori. Sono un’infrastruttura decisiva per il paese e il pericolo di un “incidente” in tempo di guerra è elevatissimo.

Infine c’è ovviamente Chernobyl, dove si è combattuto e dove le radiazioni hanno superato il livello di guardia, ma non c’è stato nessun danno alle strutture nucleari. Per ora. 

NON NE USCIREMO RICICLANDO

Lunedì 28 febbraio inizia a Nairobi, in Kenya, un negoziato importantissimo, di cui abbiamo parlato già qui ad Areale: quello per avere un trattato internazionale sulla plastica. Sarebbe il più importante patto internazionale multilaterale sull’ambiente dai tempi dell’accordo di Parigi del 2015, e si spera che, per ambizione, possa anche superarne i limiti che hanno rallentato l’azione sul clima in questi anni. A organizzare il tavolo è l’Unep, il programma delle Nazioni Unite per l’ambiente.

«Dovrà essere un momento da consegnare ai libri di storia», ha detto Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’agenzia Onu. Il problema è che la storia è ancora lontana, a Nairobi si getteranno, nel miglior scenario possibile, le basi per un negoziato che potrebbe durare anche due anni prima di sfociare in un trattato pienamente esecutivo. La cornice è quella della quinta sessione della United Nations Environmental Assembly, tecnicamente Unea-5.2.

La politica va lenta e le crisi corrono veloci. Ci sono però delle basi per sperare: più di 50 paesi (anche alcuni che inizialmente erano riottosi a un accordo vincolante, come Usa e Cina) ora sostengono l’idea di un trattato sulla plastica. Addirittura grandi brand utilizzatori di plastica (come Coca Cola) si sono rassegnati ad avere qualche tipo di limitazione o vincolo imposto dalla comunità internazionale. Di recente hanno iniziato ad appoggiare la prospettiva anche i produttori di plastica, spesso costole dell’industria delle fonti fossili.

Insomma, a questo punto è chiaro che un accordo di qualche tipo ci sarà, il punto è che tipo di accordo e in che tempi. Una frase molto chiara sulle intenzioni Onu l’ha detta Andersen, intervistata da AFP: «Non possiamo uscirne riciclando». È un punto fondamentale, se proviamo ad allargare lo sguardo dal nostro immediato contesto e vediamo cos’è diventata la plastica per l’umanità. La produzione ha superato in modo irreversibile la nostra capacità di gestirla.

Ogni anno vengono prodotte 400 milioni di tonnellate di plastica. Nel 2040, senza un accordo, rischiano di essere 800 milioni. Nei dieci minuti che avrete impiegato a leggere Areale, altrettanti camion pieni di plastica non riciclata sono stati riversati nell’ambiente. Solo meno del 10 per cento di quella usata nel mondo viene riciclata, non c’è strutturalmente modo per aumentare questo dato: due miliardi di persone usano la plastica in paesi dove non ci sono infrastrutture per riciclarla. Il 90 per cento di quella usata nel mondo viene bruciata o buttata in discarica, da lì finisce nei fiumi e negli oceani.

Quindi il punto è: quale accordo uscirà dal negoziato? La versione al ribasso, di produttori e consumatori di plastica, punta forte su design e riciclo. La versione al rialzo, invece, è basata su un’idea più radicale, prova a guardare a tutto il suo ciclo di vita. Plastica monouso al bando (come in Unione europea) e riduzione della produzione. Oltre all’accordo di Parigi, il modello è la storia di successo del Protocollo di Montreal contro l’uso delle sostanze che minacciavano lo strato di ozono nell’atmosfera.

Qui potete leggere le due bozze di accordo in competizione. Quella più estensiva, firmata da Ruanda e Perù, copre tutto il ciclo di vita della plastica. Quella più conservatrice, firmata dal Giappone, si concentra su fine uso e oceani.

La settimana prossima sapremo.

STORIE DI GHIACCIO E FUOCO

Le rilevazioni satellitari del ghiaccio marino (la parte di oceano coperta per più del 15 per cento di ghiaccio galleggiante) ai due poli sono iniziate nel 1979. Da allora abbiamo visto che Artico e Antartide si comportano in maniera differente, con il primo a destare più preoccupazione, vista la costante e drammatica riduzione del ghiaccio marino anno dopo anno.

In Antartide la situazione è un po’ diversa, la copertura era addirittura aumentata, ma le cose sono cambiate velocemente negli ultimi anni. Un record negativo era stato stabilito nel 2014, in Antartide, poi di nuovo nel 2017, infine un nuovo punto basso, il peggiore quindi da quando esistono questi dati satellitari, è stato raggiunto nel 2021, secondo i dati del US national snow and ice data center.

L’attribuzione di questo fenomeno alla crisi climatica e al riscaldamento globale è complessa, visto il numero delle variabili in gioco. Ogni anno il ciclo di fusione e formazione del ghiaccio marino in Antartide riguarda una superficie grande il doppio dell’Australia (e l’Australia è grande) e questo processo è influenzato da temperature, correnti, venti, ed è quindi difficile individuare cause singole. Sicuramente sono numeri mai visti, che probabilmente dipendono da una combinazione di fattori.

Second Walt Meier, ricercatore del centro, intervistato dal Guardian, un’ipotesi solida è che venti molto forti sul Mare di Ross abbiano spinto il ghiaccio verso nord, dove è stato fuso da acque più calde o spezzato da onde più forti. Non possiamo dire che sia climate change, né possiamo escluderlo. «Ora gli scienziati devono solo aspettare e vedere», ha detto Meier.

È uscito il primo rapporto dell’Unep sulla crisi globale degli incendi. Ci sono dei numeri preoccupanti, il rischio globale di roghi devastanti rischia di aumentare del 57 per cento entro fine secolo, e stiamo assistendo a un loro potenziamento anche in zone dove prima non erano così comuni: Russia, Tibet, India settentrionale. Ma l’interesse più forte, e quello che riguarda più da vicino l’Italia, è sul bisogno di prevenzione, di una risposta diversa, che non insegua il fuoco ma lo anticipi, adattando gli ecosistemi alle nuove condizioni.

«Il riscaldamento del pianeta sta trasformando i paesaggi in polveriere. Più eventi estremi portano venti più forti, più caldi, più asciutti ad alimentare le fiamme. Troppo spesso la nostra risposta è tardiva, costosa. Troppi paesi soffrono di una mancanza cronica di investimenti e prevenzione. Il vero costo degli incendi – finanziario, sociale e ambientale – si estende per giorni, settimane, talvolta anni dopo che le fiamme si sono spente».

In Italia è stata pubblicata da poche settimane la prima Strategia forestale nazionale, e uno degli obiettivi cardine parla proprio di questo: raddoppiare nel giro di cinque anni la superficie pianificata, anche per coordinare meglio l’adattamento degli ecosistemi forestali alla crisi incendi, perché quello che abbiamo visto l’estate scorsa in Sardegna, Calabria, Sicilia, Abruzzo, rischia di non essere l’eccezione di una brutta annata. Il rapporto Onu si legge qui.

Su Spotify invece c’è una nuova puntata del podcast Ecotoni che faccio con Luigi Torreggiani e Giorgio Vacchiano. In questa puntata parliamo di cosa significa avere una strategia forestale, cosa cambia, perché è una notizia importante. 

Per questa settimana è tutto, coraggio, sono giorni complicati e difficili, pieni di ansia, in cui il mondo si presenta in tutta la sua irredimibile complessità.

A presto, Ferdinando Cotugno

DATI. Il 77% dell’energia deriva da combustibili fossili. AP su Il Domani il 22 febbraio 2022

L’energia lorda disponibile è il totale della domanda di energia di un paese. Se andiamo ad analizzare come è evoluta la sua composizione, si nota come in Italia e in Europa dipendiamo ancora in grande parte dai combustibili fossili per la fornitura energetica complessiva. Nel 2020 secondo i dati Eurostat, i combustibili fossili rappresentavano ancora il 70 per cento dell’energia lorda dell’intera Ue e per l’Italia il 77 per cento. Trent’anni fa, quella percentuale era pari a 82 per cento per l’Ue e oltre il 93 per cento per l’Italia. La diminuzione degli ultimi decenni è frutto di investimenti e aumento dell’utilizzo delle energie rinnovabili che ha raggiunto il 22 per cento dell’energia lorda in media in Unione europea (e il 20 per cento in Italia) ed evidenzia come le nostre economie stiano cercando di transitare verso un sistema (e una crescita) sempre più sostenibile per l’ambiente.

L'Onu punta l'indice contro il siderurgico di Taranto: "Ex Ilva ha violato i diritti umani e compromesso la salute dei cittadini". Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite, David R. Boyd nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". La Repubblica il 15 febbraio 2022.

"La produzione nell'impianto siderurgico Ilva di Taranto ha compromesso la salute dei cittadini e violato i diritti umani per decenni, provocando un grave inquinamento atmosferico. I residenti che vivono nelle vicinanze dell'impianto "soffrono di malattie respiratorie, cardiache, cancro, disturbi neurologici e mortalità prematura". 

Lo scrive il relatore speciale delle Nazioni Unite sugli obblighi in materia di diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito e sostenibile, David R. Boyd, d'intesa con il relatore speciale Marcos Orellana sulle implicazioni per i diritti umani della gestione e lo smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, nel rapporto annuale intitolato "The right to a clean, healthy and sustainable environment: non-toxic environment". Il rapporto è stato  pubblicato e approvato dal Consiglio per i diritti umani dell'Onu. Proprio Orellana è stato a Taranto nelle prime settimane di dicembre 2021 ed ha avuto incontri con gli esponenti del mondo ambientalista. 

Il rapporto conclusivo è stato diffuso da Marina Castellaneta, ordinario di diritto internazionale nel dipartimento di Giurisprudenza dell'Università di Bari. "Tra i luoghi più degradati in Europa occidentale - si segnala - i relatori hanno individuato proprio la zona dell'Ilva di Taranto che si trova nella stessa situazione di zone come quella di Quintero-Puchuncavi in Cile, Bor in Serbia e Pata Rat in Romania". "Il diritto a un ambiente salubre - scrive il relatore speciale Boyd - può essere garantito solo se si limita l'utilizzo di sostanze tossiche che colpiscono le persone più vulnerabili".

L’ex Ilva e Taranto in un rapporto dell’ONU. Le vicende legate al siduerurgico in una relazione sull'inquinamento mondiale. GIANMARIO LEONE su Il Corriere di Taranto il 15 febbraio 2022.

Sta avendo molta risonanza mediatica in queste ultime ore, una relazione del Relatore Speciale dell’ONU (Organizzazione Nazioni Unite) sul tema dei diritti umani relativi al godimento di un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile, diffusa quest’oggi ai mezzi d’informazione dal titolo: “Il diritto a un ambiente pulito, salubre e sostenibile: ambiente non tossico“.

Nella docuemnto in questione, il relatore speciale David R.Boyd, con la collaborazione dello Special Rapporteur sulle implicazioni per i diritti umani della gestione ecologicamente corretta e dello smaltimento di sostanze e rifiuti pericolosi, Marcos Orellana, identifica in un ambiente non tossico uno degli elementi sostanziali di ogni cittadino ad avere il diritto a vivere in un ambiente sicuro, pulito, salubre e sostenibile.

Il Relatore Speciale nel documento descrive “la continua intossicazione delle persone e del pianeta, che sta causando ingiustizie e creando zone di sacrificio, aree estremamente contaminate vulnerabili e dove i gruppi emarginati sopportano un onere sproporzionato in termini di salute, diritti umani e conseguenze ambientali dovute all’esposizione all’inquinamento e alle sostanze pericolose”.

Il relatore evidenzia gli obblighi dello Stato, le responsabilità commerciali e le buone pratiche correlate per garantire un ambiente non tossico prevenendo l’inquinamento, eliminando l’uso di sostanze tossiche e per riabilitare i siti contaminati.

Nel paragrafo 45 della relazione viene citato anche il caso di Taranto: “L’acciaieria Ilva di Taranto, in Italia, ha compromesso la salute delle persone e violato diritti umani per decenni scaricando enormi volumi di inquinamento atmosferico tossico. Nelle vicinanze i residenti soffrono di livelli elevati di malattie respiratorie, malattie cardiache, cancro, malattie neurologiche debilitanti e mortalità prematura. Bonifica e risanamento sono le attività che avrebbero dovuto iniziare nel 2012 sono state posticipate al 2023, con il Governo che ha introdotto decreti legislativi speciali che consentono la prosecuzione dell’impianto operativo. Nel 2019 la Corte europea dei diritti dell’uomo ha concluso che l’inquinamento continuava, mettendo in pericolo la salute dei ricorrenti e, più in generale, quella dell’intera popolazione residente nelle aree a rischio”.

Difatti la nota a margine del suddetto paragrafo riporta la sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani del 24 gennaio 2019 (Cordella et al. c. Italia domande congiunte n. 54414/13 e n. 54264/15), “segnando una tappa importante nella saga giudiziaria dell’acciaieria Ilva di Taranto. La Corte ha stabilito all’unanimità la responsabilità dell’Italia di non aver adottato le misure amministrative e legali necessarie per disinquinare l’area interessata e per fornire ai singoli un effettivo rimedio interno per contestare lo status quo pericoloso e incerto, in violazione degli artt. 8 e 13 del Convenzione Europea sui Diritti Umani”.

Tra l’altro lo stesso lo scorso dicembre, proprio il Relatore Speciale ONU su sostanze tossiche e diritti umani, Marcos Orellana, venne in visita a Taranto, accompagnato da Legambiente nel quartiere Tamburi di Taranto e lungo il Mar Piccolo. Una visita, quella di Orellana, finalizzata all’analisi degli effetti avversi di prodotti chimici, della gestione dei rifiuti, pesticidi e della contaminazione industriale sui diritti umani, che sta facendo attraversando diversi siti del nostro paese toccati da contaminazione, da Roma e alle regioni Veneto, Campania e appunto Puglia.

Di fatto l’ennssima fotografia di un qualcosa che è sin troppo risaputo da queste parti, che appunto riguarda quanto accaduto negli ultimi decenni, seppur tralasciando l’impatto dovuto ad altre aziende presenti tutt’ora o in passato sul territorio come l’ex Cementir, l’Eni, la Marina Militare, l’Hydrochemical, le tante discariche che hanno contribuito non poco nell’aver fatto di Taranto un Sito di Interesse Nazionale.

Un breve paragrafo, quello sulla città di Taranto, dove si afferma anche qualcosa di assolutamente non vero, quando si parla di attività di bonifica e risanamento che dovevano partire nel 2012 rinviate al 2023, quando invece le cose non stanno esattamente cosi.

Un documento che non dice niente di più e niente di nuovo su una situazione che in realtà, oggi, è comunque molto diversa rispetto a dieci anni fa o a cinquant’anni fa. Ma sul quale i soliti squali si sono lanciati subito per avere l’ennesimo giorno di notorietà a scapito della città di Taranto e dei suoi cittadini.

Di seguito pubblichiamo il rapporto integrale dell’ONU.

IL RAPPORTO. Onu, il dossier choc sull’ex Ilva di Taranto: «Area tra le più inquinate e degradate al mondo». L’accusa al governo italiano: «Lo stato non garantisce un ambiente salubre, le bonifiche rinviate al 2023 non rispettano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo». Cesare Bechis su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.

NON SOLO ILVA. Ex Ilva: Oms, emissioni causa di eccesso di mortalità. ANSA il 21 gennaio 2022. "L'impatto degli impianti" ex Ilva, dal 2010 al 2015, sull'ambiente e la salute dei cittadini "è stato considerevole ma non del tutto caratterizzato. Mentre le emissioni dirette nell'aria sono relativamente ben monitorate, si sa meno di altre vie di esposizione, come l'inquinamento di suolo e acqua. Le emissioni nell'aria dell'impianto ex Ilva, rispetto alla concentrazione di Pm 2.5, sono causa di eccesso di mortalità e altri impatti negativi sulla salute che hanno anche costi economici". Lo ha stabilito il "Rapporto di valutazione di impatto sanitario per gli scenari produttivi dell'acciaieria di Taranto", condotto dall'Oms, Organizzazione mondiale della sanità, e commissionato dalla Regione Puglia. Lo studio è stato presentato online questa mattina da Francesca Racioppi, direttrice Centro Europeo per l'Ambiente e la Salute dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, e da Marco Martuzzi, attuale direttore del Dipartimento Ambiente dell'Istituto Superiore di Sanità, ed ex dirigente Oms. Lo studio è iniziato nel 2019. "Le stime di questo rapporto sono pienamente in linea con le valutazioni della Regione Puglia", è stato detto. Racioppi ha sottolineato che "non è stato possibile stimare accuratamente gli impatti sulla salute meno gravi, rispetto alla mortalità, che riguardano i bambini". (ANSA).

Tutti fanno finta di non vedere che il porto di Taranto è una bomba ecologica. Andrea Moizo su editorialedomani.it il 30 dicembre 2021. Sono passati 7 anni dall’avvio del progetto, ma il dragaggio del porto di Taranto resta fermo. Le difficoltà realizzative non sono state risolte malgrado commissariamento e decreto Semplificazioni. Il problema tecnico comporta rischi ambientali: la vasca di contenimento dei fanghi inquinati non dà garanzie di tenuta. La Via intanto è scaduta e l’Autorità portuale ne ha chiesto il rinnovo. L’istanza è però sprovvista delle migliorie progettuali necessarie ma, dopo la stazione appaltante, anche il ministero della Transizione ecologica ora fa finta di niente e manda avanti la pratica.

La classifica dei porti europei più inquinanti: Rotterdam e Anversa i peggiori. Italia terza per le emissioni.  Marco Cimminella su La Repubblica il 15 febbraio 2022.  

Il nostro Paese è al terzo posto per gas serra (con con oltre 15 milioni di tonnellate) generati dall'attività delle navi, dal trasporto e dalla logistica marittima. 

Alcuni grandi porti in Europa inquinano tanto, quasi al livello di una centrale a carbone. Con le loro operazioni logistiche, con le grandi navi che entrano ed escono, e che caricano e scaricano merce, producono ogni anno un'enorme quantità di CO2 che ostacola il raggiungimento degli obiettivi di neutralità carbonica. Solo il porto di Rotterdam ne genera 13,7 milioni di tonnellate ogni anno, il risultato peggiore in Europa: dietro ci sono Anversa e Amburgo, che salgono su questo triste podio con, rispettivamente, 7,4 e 4,7 milioni di tonnellate.

Greenpeace: "Centomila voli fantasma in Europa: inquinano come 1,4 milioni di auto". Marco Cimminella su La Repubblica l'1 febbraio 2022. 

Per gli ambientalisti le compagnie fanno volare (e inquinare) aerei vuoti per conservare gli slot di decollo e atterraggio negli aeroporti, come impone la legge europea. Ma l'Ue nega che sia vero. 

Non solo inquinano tanto, ma sono anche inutili. Sono aerei che attraversano i cieli europei vuoti o quasi per consentire alle compagnie aeree di conservare gli slot di decollo e atterraggio negli aeroporti: secondo Greenpeace causano un enorme danno ambientale, equivalente a quello provocato dalle emissioni annuali prodotte da oltre 1,4 milioni di veicoli. L'organizzazione ambientalista ha fatto una stima: questi viaggi nel Vecchio Continente sarebbero più di 100 mila. Difficile dire con precisione quali sono le compagnie che fanno partire più aerei senza passeggeri: le società non comunicano questo numero. Tuttavia, il ceo di Lufthansa Carsten Spohr ha spiegato che la compagnia potrebbe essere costretta a operare circa 18 mila voli fantasma in questi mesi per non rischiare di perdere le proprie finestre orarie di partenza e arrivo. 

Secondo la legge europea, infatti, in circostanze normali se non viene effettuato almeno l'80% dei collegamenti previsti, la compagnia inadempiente può perdere gli slot non utilizzati, che devono essere poi riassegnati. A causa della pandemia di Covid-19, che ha abbattuto il traffico aereo con gravi ripercussioni economiche sul comparto, la Commissione europea aveva deciso di abbassare questa soglia al 50% dei voli: dal prossimo marzo e fino a ottobre, aumenterà di nuovo al 64%. 

"Di fronte alla crisi climatica, i voli fantasma - e qualsiasi altro volo non necessario in presenza di alternative ecologiche - dovrebbero essere vietati", ci dice per email Herwig Schuster, portavoce di Greenpeace EU Mobility for All campaign, sottolineando che "l'Ue deve eliminare questa regola dell''use-it-or-lose-it' (lo usi o lo perdi), che incoraggia i voli fantasma, e dovrebbe sostituirla con un sistema che minimizza le emissioni". 

Inoltre, Greenpeace invita anche l'Ue a proibire i voli a corto raggio quando c'è un'alternativa connessione ferroviaria non più lunga di sei ore. 

Le grandi compagnie aeree hanno chiesto sospensioni all'applicazione di questa regola europea. Le difficoltà del mercato, considerando anche gli effetti negativi della variante Omicron sulla domanda di viaggi, ha spinto le società a tagliare i voli: solo Lufthansa pianifica di cancellarne 33 mila tra gennaio e marzo 2022. Air France Klm ha chiesto flessibilità nell'applicazione delle regole di force majeure (vale a dire, quando possono essere considerate giustificate le ragioni fornite dagli operatori per il mancato utilizzo degli slot), visto che lo sviluppo della pandemia e le restrizioni ai viaggi minacciano la ripresa del settore. 

Tuttavia due settimane fa, un funzionario della Commissione Ue aveva sottolineato che la regola europea non ha causato problemi alle compagnie aeree né ci sono evidenze di operatori che fanno viaggiare aerei vuoti a causa della normativa. Il portavoce della Commissione Stefan De Keersmaecker aveva detto alla stampa che nell'attuale stagione invernale il traffico aereo aveva raggiunto il 73-78% del 2019 secondi i dati di Eurocontrol, e che si prevede per il 2022 un traffico aereo annuale pari all'88% di quello del 2019. 

È d'accordo con la posizione di Bruxelles l'associazione che rappresenta gli aeroporti del Vecchio Continente, l'Aci Europe. Secondo l'organismo, le regole comunitarie sulle soglie di utilizzo degli slot vengono incontro alle necessità delle compagnie aeree provocate dalla pandemia, e quindi non c'è alcuna ragione sostenibile per operare voli fantasma. 

"Compagnie aeree, aeroporti e tante altre realtà stanno fronteggiando le difficoltà economiche causate dalle restrizioni ai viaggi conseguenti all'emergenza sanitaria. Tuttavia, oltre al fatto che la commissione Ue ha abbassato la soglia di uso degli slot dall'80 al 50% nel periodo invernale, è stata introdotta anche un'altra specifica misura" ci spiegano al telefono. Si tratta della “Justified Non-Use of Slots”: una volta chiesta l'applicazione al coordinatore di slot, le compagnie aeree potranno usare i loro slot negli aeroporti anche per meno del 50% del tempo. Una misura pensata per affrontare le conseguenze della crisi provocata dal Covid-19, che riguarda non solo divieti di viaggio, ma anche restrizioni di movimento, quarantene o misure di isolamento che condizionano negativamente la possibilità di viaggiare o la richiesta di viaggi in specifiche rotte.

Secondo l'Aci Europe, le stime di Greenpeace sono ipotetiche, e alle compagnie aeree è stata concessa flessibilità per affrontare la difficile situazione economica. E anche se il mercato non si è ancora ripreso, l'aspettativa di una migliore stagione estiva renderebbe ancora più ingiustificato il ricorso alla pratica dei voli fantasma. Come mostrano gli stessi dati raccolti dall'associazione degli aeroporti europei, il traffico passeggeri nel 2021 è cresciuto del 37% rispetto al 2020: tuttavia, è ancora sotto il livello pre-pandemia per un valore del 59%. 

Non bisogna dimenticare che la questione ambientale si intreccia con la dinamica di competizione tra vettori storici e compagnie low cost. Sul tema è intervenuto infatti anche Ryanair che ha chiesto alla Commissione Ue di ignorare le affermazioni di Lufthansa sui voli fantasma. Il ceo della società con sede a Dublino Michael O’Leary ha detto che il gruppo tedesco "piange lacrime di coccodrillo", perché più che al problema ambientale, è interessato a proteggere i suoi slot: "Gli slot sono il mezzo con cui blocca la concorrenza e limita la scelta nei grandi hub come Francoforte, Bruxelles Zaventem e Vienna".

L'analisi di Greenpeace

Nel suo studio, per calcolare le emissioni inquinanti dei voli fantasma l'associazione ambientalista ha considerato un Boeing 747-400 con circa 200 posti e una distanza di volo media di circa 900 km, che è sottostimata. Sebbene Lufthansa non abbia specificato quali siano le destinazioni di questi viaggi e i mezzi impiegati, considerando una stima di 20 tonnellate di emissioni di CO2 per collegamento, solo i voli fantasma del gruppo tedesco causerebbero un danno al clima pari a 360.000 tonnellate di CO2.

"Non si conoscono i numeri delle altre compagnie - ci dicono da Greenpeace -. Sulla base dei numeri di Lufthansa, stimiamo che la quota dei voli fantasma sia simile in tutto il settore dell'aviazione e proporzionale alla quota di mercato delle compagnie". 

La quota di mercato dell'azienda tedesca in Europa è pari al 17%, spiega l'associazione ambientalista: quindi il numero totale dei voli fantasma sul continente potrebbe essere leggermente superiore a 100 mila. Un valore che si tradurrebbe in un danno per l'ambiente equivalente a 2,1 milioni di tonnellate di CO2.

"Anche se l'Ue ha abbassato la soglia dall'80 al 50% durante la pandemia, questo non è stato sufficiente a evitare che aerei degli viaggiassero vuoti o semi vuoti", ci spiegano, ricordando che per la stagione estiva che comincia a marzo la soglia dell'utilizzo degli slot salirà al 64%.

Università Bicocca, un professore si dimette e svela gli affari tra ateneo ed ENI. L'Indipendente il 17 novembre 2022.

Il professor Marco Grasso, direttore dell’Unità di ricerca “Antropocene” della Milano-Bicocca, si è dimesso dall’incarico per denunciare gli affari che l’università milanese intrattiene con la multinazionale petrolifera Eni. Riportiamo in maniera integrale la lettera aperta con la quale ha annunciato le proprie dimissioni, ritenendo sia di ampio interesse pubblico, perché capace di documentare come Eni possa penetrare tra le attività di uno dei principali atenei italiani, influenzandole.

«Lo scorso 15 febbraio, l’Università di Milano-Bicocca e Eni hanno firmato un Joint Research Agreement (accordo di ricerca congiunta) della durata di cinque anni, in cui si sono impegnate a collaborare su “progetti di ricerca di interesse comune” relativi alla transizione energetica (batterie, geotermia, geo-bio-idro-chimica di reservoir fratturati, e fusione magnetica, tra le altre cose).

Dopo diversi tentativi infruttuosi di ottenere chiarimenti su questa partnership, ho deciso di dimettermi dall’incarico di direttore dell’unità di ricerca “Antropocene” del Centro di Studi Interdisciplinari in Economia, Psicologia e Scienze Sociali (Ciseps) dell’Università Bicocca.

L’unità “Antropocene” si occupa, tra l’altro, di questioni legate alla transizione energetica, che è appunto al centro dell’accordo fra l’università e Eni. Con le dimissioni da questo incarico intendo prendere le distanze ufficialmente dall’accordo che non condivido fra la mia università e il gigante italiano dei combustibili fossili.

I motivi di questa non condivisione sono diversi e non derivano da pregiudizi ideologici, quanto piuttosto dalla mia conoscenza della questione che deriva da anni di ricerca e di pubblicazioni scientifiche sul ruolo e le responsabilità dell’industria petrolifera nei cambiamenti climatici. In generale, sono preoccupato da tale collaborazione in un ambito di ricerca – la transizione energetica – che aspira a risolvere i problemi che Eni, e il resto dell’industria petrolifera mondiale, causa e continua a esacerbare. Ritengo che questo rapporto sia antitetico ai valori accademici e sociali fondamentali delle università, che ne possa addirittura compromettere la capacità di affrontare l’emergenza climatica.

A mio parere questo tipo di collaborazioni contravvengono agli impegni dichiarati dalle università – e anche dalla mia università – per la sostenibilità. Le compagnie dei combustibili fossili hanno nascosto, banalizzato e distorto la scienza dei cambiamenti climatici per decenni. Oggi, nonostante la scienza ci dica incontrovertibilmente che nessun investimento in nuovi progetti fossili sia possibile se vogliamo limitare il riscaldamento globale a 1,5°C, le maggiori compagnie di combustibili fossili – e anche Eni – continuano a pianificare nuovi progetti di estrazione incompatibili con gli obiettivi dell’accordo sul clima di Parigi.

Sebbene le compagnie fossili si presentino come leader della sostenibilità, i loro investimenti fossili continuano a essere enormemente maggiori di quelli in energie rinnovabili, che rappresentano solo una piccola percentuale del totale delle loro spese in conto capitale. Perciò ritengo che la pretesa dell’industria fossile di essere leader della transizione energetica non dovrebbe essere presa sul serio: collaborare con questa industria è contrario agli impegni delle istituzioni accademiche per il clima.

I partenariati di ricerca delle università con le compagnie dei combustibili fossili giocano un ruolo chiave nel greenwashing della reputazione di queste compagnie. Essi forniscono loro la tanto necessaria legittimità scientifica e culturale. Legittimità preziosa, poiché permette a queste compagnie di presentarsi all’opinione pubblica, alla politica, ai media e ai loro azionisti come agenti che collaborano con istituzioni accademiche pubbliche autorevoli su soluzioni per la transizione, rendendo più verde la loro reputazione e offuscando il loro coinvolgimento nell’ostruzionismo climatico, nonché avvallando le ‘false soluzioni’ che sostengono.

Infine, temo che le università che mantengono stretti legami con l’industria dei combustibili fossili possano incorrere in un sostanziale rischio reputazionale. Collaborando con l’industria fossile, oltre a violare le loro stesse politiche e i loro principi, minano la loro missione sociale e accademica. Sempre più spesso, la partnership con l’industria dei combustibili fossili sta erodendo la fiducia negli impegni delle istituzioni scientifiche per l’azione sul clima, portando un certo numero di esse – tra cui, per esempio, le Università di Oxford nel Regno Unito e di Princeton negli Stati Uniti – a tagliare ogni legame con l’industria, e moltissime altre in giro per il mondo a disinvestire dai fossili.

In sintesi, ritengo che le università siano vitali per pensare una transizione ecologica rapida e giusta. Tuttavia, i nostri sforzi a me sembrano minati dalla prossimità al mondo dei combustibili fossili. L’accademia e la scienza non dovrebbero aiutare, neanche involontariamente, il greenwashing fossile; piuttosto dovrebbero impegnarsi, almeno per quanto riguarda le questioni climatiche, per cambiare radicalmente una situazione che non è più accettabile, che è diventata, come dice il segretario generale delle Nazioni Unite Guterres, “una pazzia morale ed economica”, che ci potrebbe portare al “suicidio collettivo”.»

L'Indipendente non riceve alcun contributo pubblico né ospita alcuna pubblicità, quindi si sostiene esclusivamente grazie agli abbonati e alle donazioni dei lettori. Non abbiamo né vogliamo avere alcun legame con grandi aziende, multinazionali e partiti politici. E sarà sempre così perché questa è l’unica possibilità, secondo noi, per fare giornalismo libero e imparziale. Un’informazione – finalmente – senza padroni.

La guerra dei movimenti per il clima contro l’Eni per capire da che parte sta il governo. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 15 febbraio 2022.

I movimenti ambientalisti italiani hanno presentato un’istanza contro Eni per il mancato rispetto delle linee guida Ocse per le imprese sull’ambiente e i diritti umani. 

Formalmente, l’obiettivo è aprire un tavolo di trattativa al ministero dello sviluppo economico. Difficilmente accadrà, ma l’orizzonte è quello di una guerra culturale e mediatica contro Eni sul greenwashing. 

In una configurazione simile, gli stessi movimenti avevano fatto causa allo stato italiano per inadempienza climatica. Contro Eni hanno preferito una mediazione, con lo scopo politico di stanare il governo sulle politiche energetiche.

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

Eni, l’abito verde non fa il monaco dell’energia fossile più sostenibile. ALESSANDRO PENATI, economista, su Il Domani il 07 dicembre 2021

Il caso Eni è pero sintomatico di una grande mistificazione che non riguarda solo la società del cane a sei zampe che sputa fuoco (a proposito, a quando un logo più “verde”?).

La pressione di opinione pubblica e investitori perché le società energetiche diventino “verdi” crea il convincimento che la transizione energetica debba passare principalmente da una riduzione dell’offerta di energie fossili da parte delle società.

Se però non cade anche la domanda (dal carburante per le auto al gas per il riscaldamento), o le società energetiche mantengono l’offerta di energia fossile, e si creano solo incentivi al green washing. 

ALESSANDRO PENATI, economista. Presidente e fondatore della Quaestio Capital Management. Ha alle spalle una lunga carriera accademica in Economia e Finanza (University of Pennsylvania, Università Bocconi, Padova e Cattolica di Milano) e di editorialista per i principali quotidiani italiani.

Sanremo, la Rai non risponde su quanto vale la sponsorizzazione di Eni. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 31 gennaio 2022

Il 31 gennaio la conferenza stampa degli sponsor con l’a.d. di Eni Gas e Luce Guberti seduto accanto al conduttore Amadeus. L’accordo, ha risposto la Rai a Domani, non prevede limiti per gli artisti, che possono lamentarsi del greenwashing e criticare il petrolio e il gas

La Rai non risponde su quanto vale la partnership per Sanremo che ha stretto con Eni. Come anticipato da Domani, il 31 si è svolta la conferenza stampa dal teatro Ariston per presentare gli sponsor del Festival, e Amadeus era seduto proprio accanto all’amministratore delegato di Eni gas e luce, Stefano Goberti. Gli ambientalisti hanno lanciato l’allarme per la possibile operazione di greenwashing dell’azienda, cioè l’intenzione di sembrare più verde nonostante si occupi in via prioritaria di petrolio e gas.

Nessun dettaglio è stato offerto sul compenso che ha spinto la tv di stato non solo a concedere spazi promozionali ma anche a cambiare il tradizionale tappeto rosso in un “green carpet”, un tappeto di erba finta davanti alle porte del teatro Ariston per porre l’accento sulle attività verdi di Eni: «Preferisco non dare numeri», ha risposto l’amministratore delegato di Rai pubblicità, Gian Paolo Tagliavia. Dal «punto di vista scaramantico è meglio non fare numeri, li facciamo domenica», quando Sanremo 2022 sarà finito. 

Eni, e nello specifico Eni gas e luce, la società che si occupa di vendita al dettaglio di energia, rinnovabili e mobilità elettrica, si prepara al lancio del suo nuovo nome e marchio Plenitude, anche in vista anche della quotazione in borsa.

Proprio Plenitude sarà al centro della sponsorizzazione. La partnership con Rai e Rai Pubblicità, hanno spiegato l’ad di Rai pubblicità e Amadeus, darà vita durante il Festival «a un processo per analizzare, per la prima volta, l’impatto dell’evento in termini di consumi ed emissioni di CO2 correlate all’organizzazione e allo svolgimento dell’evento stesso, attraverso strumenti innovativi». 

Il tappeto verde, ha detto invece il dirigente Eni Goberti «rappresenta il colore del nostro nuovo logo e racconta del nostro percorso verso la transizione energetica». Un’operazione che secondo gli ambientalisti punta a mettere in secondo piano le reali operazioni dell’azienda, l’Eni infatti nonostante Plenitude (Eni gas e luce) macina utili in larghissima parte grazie all’estrazione di petrolio e metano, nulla a che fare con le attività verdi.

Oltre al “green carpet”, visibile ormai da giorni a Sanremo, non sono stati dati ulteriori dettagli sugli spazi che verranno concessi all’azienda.

Domani ha chiesto ad Amadeus se l’accordo prevede dei limiti per gli artisti o se saranno liberi di esprimere il loro dissenso nei riguardi dell’operazione pubblicitaria o se potranno criticare petrolio e gas.

Alla domanda ha voluto rispondere l’amministratore delegato di Rai pubblicità, Tagliavia: «Ci mancherebbe pure, non ci sono dei vincoli rispetto a quello che gli artisti possono dire. Gli artisti possono dire tutto».

GIÀ PRONTO IL “GREEN CARPET”. Sanremo, l’Eni prova a usare il palco dell’Ariston per far dimenticare il petrolio. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 31 gennaio 2022

L’Eni sarà il principale sponsor di Sanremo per lanciare “Plenitude”, il nome della nuova società che unisce vendita al dettaglio di elettricità e gas, rinnovabili e mobilità elettrica.Un’operazione per fare attecchire il suo nuovo simbolo dai colori verdi nelle simpatie del pubblico, ma anche in vista della quotazione in borsa entro l’anno. Già il 31 è prevista una conferenza stampa con Amadeus.

Greenpeace lancia l’allarme: «Questo è un esempio perfetto di come funziona il greenwashing, mettere in mostra la propria componente apparentemente più sostenibile mentre si occupa di tutt’altro» 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Eni sponsor a Sanremo e Cosmo dice «stop al greenwashing» sul palco. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 05 febbraio 2022.

Il cantautore Cosmo sul palco mentre accompagnava la Rappresentante di Lista al mixer ha lanciato il suo messaggio contro le operazioni per fare apparire verdi le attività che non lo sono. Gli ambientalisti avevano chiesto di prendere posizione contro la campagna pubblicitaria di Eni

Alla fine è successo: il cantautore Cosmo sul palco di Sanremo mentre accompagnava la Rappresentante di Lista al mixer nella serata delle cover ha lanciato il suo messaggio per l’ambiente: «Stop greenwashing» ovvero alle operazioni costruite per far sembrare verde quello che verde non è. Il video dell’esibizione ha cominciato a circolare sul web messaggio ambientalista incluso.

Quest’anno, come raccontato da Domani, tra gli sponsor del Festival c’è Eni, anzi, il Cane a sei zampe è il finanziatore principale dell’evento musicale per lanciare il suo nuovo marchio Plenitude che a breve andrà a sostituire il nome di una delle società di Eni, Eni gas e luce, mantenendo le stesse attività: vendita al dettaglio di luce e gas, energie rinnovabili e mobilità elettrica.

Un’operazione che per Greenpeace e Fridays for future è appunto greenwashing. Qualche giorno fa avevano lanciato anche su queste pagine un appello agli artisti per prendere posizione che finora era rimasto inascoltato.

Come risposto a Domani durante la conferenza stampa di lancio degli sponsor gli artisti hanno piena libertà di esprimere la loro opinione. 

Finora la Rai non ha rivelato quanto vale la sponsorizzazione di Eni e in questi giorni oltre all’ormai celebre “green carpet” di erba finta che accompagna tutti gli artisti fino alla porta, per sottolineare «la sostenibilità», sono andate in onda ripetute pubblicità, lo spazio radio vede campeggiare come sfondo il Cane a sei zampe con il nuovo colore verde e il presentatore Amadeus ha ringraziato Eni dal palco.

Il nuovo marchio Plenitude dovrà essere quotato in borsa entro l’anno, in un periodo in cui i mercati prestano molta attenzione alle iniziative green. 

Per gli ambientalisti si tratta di puro marketing, visto che la gran parte delle attività di Eni resta focalizzata su petrolio e gas.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

FESTIVAL VIETATO PER GLI AMBIENTALISTI. Il vero vincitore di Sanremo è il greenwashing. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 05 febbraio 2022. 

Agli attivisti di Greenpeace che giovedì sera hanno manifestato pacificamente fuori dal teatro Ariston contro la sponsorizzazione di Eni-Plenitude, è stato dato un foglio di via da Sanremo per tre anni. Meglio non tenere il problema lontano dal Festival

Al Festival di Sanremo il main sponsor Eni – Plenitude ci racconta la sua svolta tutta rinnovabili e ambiente. Tra auto e crociere, tra gli sponsor va in scena il mondo delle emissioni di Co2.

Agli attivisti di Greenpeace che giovedì sera hanno protestato fuori dal Teatro Ariston è stato dato il foglio di via per tre anni da Sanremo. 

Sembra quasi un messaggio in codice: tenere la crisi climatica lontana dal Festival. L’unica storia da raccontare deve essere quella di Plenitude. FERDINANDO COTUGNO

Cosa sta succedendo davvero al petrolio. Andrea Muratore il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il 2021 ha fatto segnare un rilancio nella domanda di petrolio. Risorsa ben lontana dalla fine che molti pronosticano. 

Quota cento dollari al barile è sempre più vicina per il prezzo del petrolio. Ma la pensione si allontana per il "re" delle risorse energetiche. Tuttora restio ad abbandonare il suo trono o, perlomeno, una posizione di relativa maggioranza in un mercato globale che lo vede insidiato dal gas naturale e dalle fonti rinnovabili.

Nelle ultime settimane il greggio Brent, estratto nel Mare del Nord, benchmark chiave per i mercati europei e occidentali assieme al texano Wti, ha oscillato attorno all'asticella dei 90 dollari al barile, scendendo di poco sotto di esso attorno alla giornata del 10 febbraio per le notizie positive sui possibili accordi nucleari iraniani. La motivazione di questo fatto è dovuta in primo luogo alla tenuta della domanda, trainata soprattutto dai mercati asiatici, e dal caos logistico globale che ha sconvolto il mercaato delle materie prime.

Nel nuovo superciclo delle materie prime legato alla battaglia per la transizione energetica e alla sfida geopolitica del gas naturale, insomma, ci sarà ancora spazio per“Re petrolio”. E torna alla mente il celebre detto secondo cui l'età della pietra non è finita per mancanza di pietre: mentre discute su come abbandonarlo, il mondo ha sempre più sete di petrolio. Lo testimonia la corsa al greggio che anche l'amministrazione "ambientalista" di Joe Biden negli Usa ha sdoganato, aumentando i permessi estrattivi rispetto a Donald Trump. L’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) ha calcolato che la produzione di petrolio è salita del 4,6% tra settembre 2020 e 2021. Già alla fine dell’estate scorsa analisti, nota Gianni Bessi su StartMag, “affermavano che la domanda mondiale ritornerà alla quota precedente alla pandemia, cioè circa 100 milioni e passa di tonnellate”, pronosticando che tale quota potesse addirittura esser superata nel 2022. Schroders, uno dei principali colossi dell’asset management a livello globale, ha di fatto confermato nei suoi studi questa previsione: “Ci aspettiamo che la domanda di petrolio cresca a 100,23 milioni di barili al giorno nel 2022, con un aumento di 3,5 dal 2021 e ampiamente al di sopra dei livelli del 2019 di 98,27”, ha scritto in un report recente.

Nei mesi in cui l’economia globale si stava riprendendo dopo la prima batosta del Covid e la richiesta di petrolio è tornata a crescere, le grandi aziende petrolifere si sono dimostrate timorose a cominciare un nuovo ciclo di investimento per produrre più greggio a causa dell'analisi delle opportuntià offerte dalla svolta green e dalla transizione energetica. Questo però ha portato gli operatori finanziari a ritenere difficile un aumento degli investimenti in attività estrattive, che però il mercato ha ritenuto potesse tradursi in scarsità di forniture e un aumento del prezzo nel breve e medio periodo, avviando il più classico ciclo delle profezie che si autoavverano. La batosta inflativa che ha colpito gas naturale ed elettricità ha fatto il resto, richiamando a un sano realismo, anche considerato il fatto che la la “geografia” della domanda ha visto il “Re” dei mercati energetici essere sempre più dipendente dall'attrazione dei mercati asiatici. La cui dinamicità si è scaricata sull'Occidente portando a una bomba nel prezzo del petrolio che crescendo nelle quotazioni, nel valore borsistico e, di converso, nella dinamicità delle scommesse finanziarie ad essi associate, sarà sempre più condizionato dalle prospettive di medio-lungo periodo dei maggiori consumatori. E questo impone di fare nuovamente i conti con la risorsa più demonizzata, bistrattata, criticata ma ancora decisiva nell'era della transizione energetica. Come ogni sovrano attempato, capace di difendere la sua posizione anche nei momenti di maggiore minaccia.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

LA STORIA DEL COLOSSO DEL PETROLIO. Così la Exxon finanziava i negazionisti climatici. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 28 gennaio 2022.

Gli scienziati dell’azienda petrolifica Exxon, con la collaborazione di ricercatori esterni, crearono rigorosi modelli climatici che confermavano il consenso scientifico emergente sul riscaldamento globale

Secondo una mail di Leonard Bernstein, un esperto che lavorava per la Exxon, gli scienziati della compagnia petrolifera sapevano per certo che i combustibili fossili erano causa del cambiamento climatico già nel 1981, ma l’azienda ha speso milioni nei decenni successivi per promuovere il negazionismo climatico.

Molti dei finanziamenti della compagnia erano diretti a “scienziati negazionisti” o ai cosiddetti falsi esperti, che avevano il compito di attaccare la scienza del clima, e a campagna pubblicitarie o strategie comunicative che potessero promuovere il messaggio negazionista.

STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

I CATTIVI DEL CLIMA. L'American Petroleum Institute è il tempio del negazionismo climatico.

Il presidente di Api Mike Sommers a ottobre ha testimoniato al Congresso sul ruolo delle aziende di combustibili fossili nel cambiamento climatico. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 05 dicembre 2021.

L’American Petroleum Institute ha dietro le grandi aziende delle energie fossili. Per decenni ha guidato campagne di disinformazione sul clima: spende e impegna lobbisti per opporsi al taglio delle emissioni.

L’API è stata una delle prime associazioni commerciali a orchestrare campagne di disinformazione e negazionismo sul clima. Eppure era consapevole del problema, che negava, già dal 1980.

Ha speso oltre 98 milioni di dollari in attività di lobbying dal 1998. Si oppone, da decenni e spesso con successo, a politiche sulla riduzione delle emissioni.

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STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

Dagotraduzione dal Daily Mail il 27 Gennaio 2022.

I funzionari dell'ambiente del Cile hanno chiesto al Regno Unito di «assumersi la responsabilità» e impedire che migliaia di tonnellate di vestiti provenienti dall'Europa e dagli Stati Uniti vengano scaricati illegalmente nel deserto di Atacama. Maisa Rojas ha avvertito che le enormi montagne del "fast fashion" che vengono scartate e bruciate hanno «conseguenze ambientali per l'intero pianeta». 

Il paese dell'America Latina è stato a lungo un centro di abbigliamento di seconda mano e invenduto prodotto in Cina o Bangladesh, vestiti che passano attraverso i mercati dell'Asia, dell'Europa occidentale e del Nord America prima di arrivare nell'emisfero meridionale.

Circa 60.000 tonnellate di abbigliamento arrivano ogni anno al porto di Iquique nella zona franca di Alto Hospicio, dove vengono acquistate da mercanti di abbigliamento o contrabbandate in altre nazioni sudamericane. Ma almeno 39.000 tonnellate di abiti non possono essere vendute e finiscono nelle discariche nel deserto. 

Le pile di tessuti vengono bruciate, rilasciando fumi tossici e inquinando il terreno. Il governo cileno insiste sul fatto che sta lottando per regolamentare il commercio.

Maisa Rojas, direttrice del Centro cileno per la scienza del clima e la resilienza, che sarà ministro dell'ambiente del Cile a marzo, ha dichiarato alla BBC: «Non è facile conciliare così tanti interessi come vietare lo scarico di indumenti usati. Non è fattibile. Gli uomini d'affari devono fare la loro parte e smettere di importare rifiuti, ma anche i paesi sviluppati devono assumersi le proprie responsabilità. Ciò che sta accadendo qui in Cile ha conseguenze ambientali per l'intero pianeta».

Negli ultimi decenni, il crescente appetito del mondo occidentale per la moda usa e getta veloce ha incoraggiato i produttori di articoli economici in Cina e Bangladesh a produrre in eccesso. I grandi marchi di "fast fashion" tentano i consumatori offrendo capi economici e nuove gamme, perché l'industria cerca di rispondere ai mutevoli gusti dei consumatori il più rapidamente possibile.

L'ascesa del 'fast fashion' è sicuramente legata ai social media e alla crescita della cultura dell'influencer. Quando una celebrità pubblica una foto con indosso un nuovo outfit che piace ai suoi follower, i marchi di "fast fashion" si affrettano a fornirlo per primi. 

Esempi di marchi di "fast fashion" includono Boohoo, che possiede una gamma di marchi tra cui Pretty Little Thing, Oasis e Warehouse.

Ogni anno, l'industria del "fast fashion" richiede 93 miliardi di metri cubi d'acqua, sufficienti per soddisfare le esigenze di circa 5 milioni di persone. Gli ambientalisti affermano che l'industria è responsabile di circa il 20% dell'inquinamento delle acque industriali a causa del trattamento e della tintura dei tessuti. 

Ci sono anche problemi con i materiali e i proventi, come la produzione di cotone, che utilizza il 6% dei pesticidi mondiali e il 16% degli insetticidi.

L'industria provoca anche una grande quantità di rifiuti tessili. Le montagne del "fast fashion" del deserto di Atacama ne sono un esempio, ma più in generale la quantità di tessuti prodotti a livello globale per persona è più che raddoppiata da 5,9 kg a 13 kg nel periodo 1975-2018. 

Nel frattempo, molti dei vestiti acquistati vengono buttati via dopo essere stati indossati solo una manciata di volte.

Gli attivisti avvertono anche che il settore è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio totali. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite del 2019, la produzione globale di abbigliamento è raddoppiata tra il 2000 e il 2014 e l'industria è «responsabile del 20% dello spreco totale di acqua a livello globale». Per realizzare un singolo paio di jeans sono necessari 7.500 litri di acqua. 

Lo stesso rapporto afferma che la produzione di abbigliamento e calzature contribuisce per l'8% ai gas serra globali e che «ogni secondo viene seppellita o bruciata una quantità di tessuti equivalente a un camion della spazzatura».

Indipendentemente dal fatto che le pile di vestiti vengano lasciate all'aperto o interrate sottoterra, inquinano l'ambiente, rilasciando sostanze nocive nell'aria o nei canali sotterranei dell'acqua. Gli indumenti, sintetici o trattati con sostanze chimiche, possono impiegare 200 anni per biodegradarsi e sono tossici quanto le gomme o la plastica. 

Ogni anno in Cile arrivano così tanti vestiti che i commercianti non possono sperare di venderli e nessuno è disposto a pagare le tasse e le tariffe necessarie per trasportarli altrove. Alex Carreno, un ex impiegato portuale che lavorava nella zona di importazione, ha dichiarato: «Questi capi arrivano da tutto il mondo. Ciò che non viene venduto a Santiago né inviato ad altri paesi rimane nella zona franca».

Ma non tutti i vestiti vanno sprecati. Alcune delle persone più povere di questa regione di 300.000 abitanti si affidano agli usa e getta per vestire se stessi e le loro famiglie, o frugano nelle discariche per trovare cose da vendere nel loro quartiere.

Dalle centrali a carbone viene il 4,9% dell’energia elettrica italiana. Ecco dove sono e quali sono le sfide. Giuliana Ferraino su Il Corriere della Sera il 23 Gennaio 2022.

Nel tempo della transizione energetica, cioè nel passaggio da combustibili fossili inquinanti a fonti di energia pulite o green, quanto pesa in Italia l’energia elettrica prodotta dal carbone, la fonte più peggiore — la più sporca — in termini di emissioni? Ecco i numeri inediti dell’anno appena finito. Nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 14 Terawattora (o TWh) di carbone, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico italiano, un valore che rappresenta circa il 4,9% della produzione totale netta di energia elettrica italiana.

Nel 2021 l’Italia ha prodotto circa 14 Terawattora (o TWh) di carbone, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico italiano e a circa il 4,9% della produzione totale netta di energia elettrica italiana dal 6,2% di 2 anni fa. Castelnuovo (Bocconi): i problemi della conversione al gas

L’Italia ha deciso di eliminare il carbone come fonte energetica entro il 2025, per combattere il cambiamento climatico, alla luce della nuova tassonomia europea. Però l’uscita dal carbone, sostituita in parte dal gas naturale, rischia di far impennare ulteriormente i prezzi dell’energia. Secondo la bozza di un documento che sarà inviato alla Commissione europea , il gruppo di esperti Ue, che ha contribuito a costruire la classificazione delle attività verdi (la tassonomia), si prepara a bocciare la bozza di regolamento che stabilisce le condizioni alle quali gas naturale e nucleare possano essere considerati attività «verdi».

Quale sarà l’impatto sulla bolletta degli italiani? I dati della produzione di energia elettrica dalle centrali a carbone dell’anno scorso in crescita rispetto al 2020, quando la produzione era stata di circa 12,9 TWh, pari al 4,3% del fabbisogno elettrico nazionale e al 4,7% della produzione totale netta di energia elettrica italiana. Ma il 2020 è stato il primo anno del Covid, il più duro, con molte fabbriche ferme e attività chiuse per i lockdown. Per capire il trend perciò è più corretto confrontare gli ultimi dati (ancora provvisori) con quelli registrati due anni fa, prima dell’inizio della pandemia. Nel 2019 la produzione di carbone è stata di circa 17,6 TWh, pari al 5,5% circa del fabbisogno elettrico italiano e al 6,2% della produzione totale netta di energia elettrica italiana.

In un anno di forte ripresa come il 2021, con il prodotto interno lordo in crescita del 6,3%, paragonando i dati con il 2019, si osserva quindi che nel mix energetico italiano il carbone pesa di meno, scendendo dal 5,5% del fabbisogno elettrico italiano al 4,3% e dal 6,2% al 4,9% della produzione netta totale.

Rispetto a 10 anni fa la produzione di elettricità da carbone è stata dimezzata. E quest’anno probabilmente diminuirà ancora visto che lo scorso 31 dicembre l’Enel ha «spento» definitivamente la centrale a carbone «Eugenio Montale» di La Spezia, dopo aver ricevuto l’autorizzazione finale dal ministero della Transizione ecologica per la cessazione definitiva dell’impianto, visibile all’uscita dell’autostrada della Cisa o della Genova-Livorno quando si procede verso La Spezia, con l’ultima gigantesca ciminiera rimasta sulle 4 originali, nella zona industriale che include, tra l’altro, la fabbrica di armamenti Oto Melara. Prima della chiusura la vecchia centrale Enel spezzina è stata però riattivata per alcuni giorni, a metà dicembre, insieme alla centrale di Monfalcone di A2a, per sopperire ai guasti di alcune centrali nucleari francesi, che hanno tagliato l’export di elettricità verso l’Italia.

Ma quante sono le centrali a carbone in Italia? E dove sono? Oltre all’impianto a La Spezia che, sul bellissimo tratto di costa che porta a Porto Venere, ospita anche un rigassificatore Snam a Panigaglia, l’Enel controlla altre 5 centrali a carbone: a Fusina, in provincia di Venezia, a Brindisi, a Civitavecchia, nel Sulcis e a Bastardo, in Umbria. La seconda centrale a carbone della Sardegna, nella zona settentrionale della regione, è del gruppo ceco Eph, che fa capo all’imprenditore Daniel Křetínský. Infine, la centrale di Monfalcone, in Friuli Venezia Giulia, è controllata da A2a.

«La produzione italiana sembra marginale, ma nel mondo il carbone resta la principale fonte per produrre elettricità, in particolare in Cina e in India che ottengono i due terzi dell’energia elettrica da questa combustibile, che è la principale fonte dei gas serra», afferma matteo Castelnuovo, professore di Economia dell’energia alla Sda Bocconi e direttore del master in Sustainbility and energy management . «Perciò servirebbe la produzione di tutte le fonti rinnovabili più tutto il nucleare per eliminare il carbone dalla produzione di elettricità», afferma il docente.

Ecco i numeri: nel 2019, prima della pandemia, il carbone valeva il 37% della produzione mondiale di energia elettrica. In Europa il quadro è migliore: il carbone valeva il 15% e in Italia, come abbiamo visto prima circa il 6%, mentre la Germania è il Paese avanzato con la maggior percentuale di carbone nel mix elettrico (il 27%). «Perciò Berlino ha molto pi bisogno di gas di noi, per la transizione», valuta Castelnuovo, ricordando però che «nel 2020 i tedeschi hanno raggiunto «il 46% di fonti rinnovabili, soprattutto eolico, e poi solare». E ora il nuovo ministro per l’Ambiente, il leader dei Verdi Robert Habeck, ha un piano molto aggressivo per accelerare i tempi.

Il rischio è che l’attuale crisi energetica post pandemia riporti di moda il carbone, a dispetto di un prezzo della CO2 molto alto, intorno agli 80 euro. Come stanno facendo Cina e India, al di là dei proclami per l’ambiente. In Italia l’obiettivo è di convertire le centrali esistenti al gas, come prevede l’Enel per l’impianto di La Spezia e Fusina, Civitavecchia e Brindisi. «Ma nel breve termine ci potrebbe essere la tentazione di usarle di più o di riaccenderle, come è successo a dicembre, per nuovi guasti alle centrali nucleari francesi o per i tagli al gas russo», teme il docente. Per il quale, invece, dobbiamo «tenere la barra dritta verso la transizione». 

Che fare quindi delle centrali a carbone rimaste? «Al netto die problemi tecnici, le centrali vanno chiuse, per passare alle nuove tecnologie. Perché il problema del gas, con cui si vorrebbero riaprire, è duplice. «Innanzitutto — sostiene Castelnuovo — quando si brucia gas, si emette CO2, anche se la metà di quando si brucia carbone. Il secondo problema è che bisogna tenere conto delle emissioni del metano a monte, cioè le perdite lungo la filiera, nei pozzi, nelle pipeline. E il metano è 30 volte più potente della CO2, pur avendo il vantaggio di dissolversi nell’arco di 20-30 anni rispetto alla CO2, che invece per centinaia di anni, tant’è che il 75% dei gas serra oggi è costituito da anidride carbonica».

La soluzione è «investire in nuove tecnologie, per sganciarsi il prima possibile da carbone, petrolio e gas. E puntare sulle rinnovabili». E’ un suggerimento «accademico», che va d’accordo con gli esperti contrari all’inserimento di nucleare e gas naturale nelle tassonomia Ue, ma si scontra con l’auemnto della domanda globale di energia, in un contesto di tensioni geopolitiche con la Russia, che ha già fatto volare i prezzi della bolletta energetica di cittadine e imprese in tutto il mondo. 

La sfida è grande così: la quota di combustibili fossili (carbone, petrolio e gas) rappresenta l’80% dei nostri consumi ed è rimasta invariata negli ultimi 30 anni. Adesso abbiamo 28 anni per portarla a zero netto, cioè entro li 2050.

Quanto inquina il 10 per cento più ricco. FILIPPO TEOLDI su Il Domani il 17 Gennaio 2022.

Secondo quanto individuato in un recente rapporto, a livello globale, il 10 per cento più ricco delle persone (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di Co2 per persona all’anno ed è responsabile di quasi la metà (il 48 per cento) delle emissioni globali di Co2. Il 50 per cento più povero è responsabile di quasi il 12 per cento delle emissioni globali di carbonio nel 2019. La disuguaglianza globale nelle emissioni pro capite è dovuta a grandi disuguaglianze nelle emissioni medie tra i paesi e a disuguaglianze ancora più grandi nelle emissioni all’interno di ciascun paese. Guardando ai dati storici, dal 1990 le emissioni dell’1 per cento più ricco delle persone sono aumentate più velocemente di qualsiasi altro gruppo per due motivi. Il primo, è l’aumento superiore alla media del reddito e della ricchezza di questo gruppo rispetto agli altri. Il secondo è l’impatto sulle emissioni Co2 dei loro investimenti.

Filippo Teoldi è Data Editor di Domani. Prima di arrivarci, Filippo ha lavorato come data researcher per il Daily Shot al Wall Street Journal e prima ancora come economista a Palazzo Chigi e a lavoce.info. Milanese di nascita, ha studiato all’Università Bocconi e alla Columbia University di New York, città dove ha vissuto negli ultimi anni. 

L'India combatte lo smog a cannonate d'acqua. Giuliano Aluffi su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Le goccioline d'acqua sparate ad alta pressione catturano le particelle inquinanti. Uno scienziato della Northwestern University spiega come funziona anche il suo sistema alternativo, sempre ispirato alla natura.  

A Nuova Delhi si combatte l'aria sporca con cannoni ad acqua che catturano, grazie alle gocce sparate ad alta pressione, le particelle inquinanti e le trasportano a terra. Il comitato di controllo dell'inquinamento ha richiesto di recente - come riporta il The New Indian Express - che i siti edilizi di dimensioni inferiori a 20.000 metri quadrati si equipaggino di un cannone antismog, e via in crescendo fino a quattro cannoni per i siti tra 60.000 e 80.000 metri quadrati. 

"Questo approccio si ispira alla natura", spiega Kyoo-Chul Park, docente di ingegneria meccanica alla Northwestern University, che studia da anni soluzioni antismog basate su materiali "smart". "Quando piove, le gocce catturano molti degli inquinanti presenti nell'aria: per questo dopo la pioggia vediamo il cielo più nitidamente".

Kyoo-Chul Park, docente di ingegneria meccanica alla Northwestern University  

Professor Park, che caratteristiche devono avere le "nuvolette antismog" artificiali? 

"Il fattore chiave è la dimensione delle goccioline. Se abbiamo una stessa quantità di acqua, le gocce piccole sono più efficaci delle grandi. Questo perché se le gocce sono grandi avranno meno possibilità di interagire con le particelle di sostanze inquinanti sospese nell'aria: ad esempio il particolato PM-10 tenderà a fluttuare intorno alle gocce grandi senza farsi assorbire. L'ideale quindi sono goccioline piccole, di dimensioni simili alle particelle. Per i PM-10 l'ideale è quindi una gocciolina di 10 micron. E le gocce non devono nemmeno essere eccessivamente piccole, altrimenti a quel punto su di loro, più della forza di gravità che le porta a terra, agisce la forza del vento che le trasporta altrove, senza risolvere il problema dell'inquinamento". 

Come si può ottimizzare questo processo? 

"In diversi modi, ad esempio cercando di ridurre l'energia necessaria per disperdere le goccioline. Un altro fattore è il liquido che viene usato per produrre le goccioline: se usiamo acqua purificata, possiamo avere il massimo effetto, però si ha un costo legato alla purificazione. Oltre alla qualità dell'acqua bisogna poi tenere conto della quantità: in alcune zone dell'India dove questo sistema di abbattimento dello smog viene usato, tramite cannoni che sparano goccioline d'acqua, non ci sono problemi di approvvigionamento. Ma in molte zone più aride, dove non c'è abbastanza acqua nemmeno per l'uso potabile, non si può usare una risorsa come l'acqua in questo modo. E per ovvi motivi non si possono usare nemmeno le acque di scarico, come ha ricordato di recente, a Nuova Delhi, il comitato di controllo dell'inquinamento". 

A proposito di siccità: so che lei ha ideato anche un sistema per ricavare l'acqua dalla nebbia. Potrebbe essere una soluzione? 

"Ho sviluppato un sistema per catturare le gocce d'acqua sospese nella nebbia, che non vengono tirate giù dalla forza di gravità, a differenza delle gocce di pioggia. Per far sì che le gocce si addensino e intrappolare l'acqua si può usare una rete fatta di fibre super-idrofile: l'interazione tra le maglie della rete e le goccioline permette di raccogliere l'acqua. Ottimizzando la geometria delle fibre, e rendendo porosa la loro superficie, si può raccogliere più acqua. Questo permette di raccogliere acqua per l'agricoltura e per l'uso potabile. Un'ispirazione che viene dalla natura è il sistema usato dalle sequoie. In California possono superare i 100 metri di altezza. E non è possibile trasportare così in alto l'acqua assorbita dalle radici: per questo queste piante assorbono attraverso le foglie l'acqua contenuta nell'aria. La struttura di queste foglie è simile al reticolo che ho sviluppato per raccogliere l'acqua". 

Anche lei ha ideato un sistema per raccogliere lo smog attraverso speciali filtri reticolari addensanti, ispirato alle reti per ricavare acqua dalla nebbia. Come funziona? 

"La parola stessa smog è composta da "smoke", fumo, e "fog", nebbia. Dove per "smoke" si intendono gli inquinanti trasportati dall'aria. Se l'umidità relativa è alta, queste particelle inquinanti hanno una maggiore quantità d'acqua che le circonda. Quindi ho pensato: 'Come posso usare i miei studi sulla raccolta d'acqua per affrontare il problema dello smog?'. Soprattutto pensando a luoghi come le città dell'India o della Cina. L'approccio per raccogliere lo smog è simile a quello per raccogliere l'acqua, ma c'è una differenza fondamentale: le particelle inquinanti, che sono solide, tendono a intasare il reticolo poroso che vogliamo usare per far addensare lo smog. Un po' come i filtri dell'aspirapolvere possono intasarsi se non li si ripulisce periodicamente. Quindi è importante poter rimuovere queste particelle solide dal reticolo. Una soluzione che abbiamo sviluppato è usare materiali come il diossido di titanio, per rimuovere le particelle organiche. Ma ci sono anche particelle inorganiche: per queste è necessaria una rimozione meccanica usando la resistenza dell'aria una volta che le particelle si aggregano sulla superficie del filtro". 

Come si applicano queste idee? 

"Pensiamo all'inquinamento delle acque: una volta che le particelle inquinanti sono in mare, è molto difficile rimuoverle perché si disperdono su una grande quantità d'acqua. Per questo abbiamo filtri e impianti per il trattamento dell'acqua a monte, ad esempio in prossimità degli scarichi fognari o industriali. Per lo stesso principio, una volta che gli inquinanti sono nell'aria è difficile rimuoverli. Bisogna quindi usare questi sistemi di raccolta dello smog là dove viene prodotto: ad esempio con dei filtri aggiuntivi sulle ciminiere".

L'India e il difficile addio al carbone. Morire di smog o di povertà? Carlo Pizzati su La Repubblica il 5 gennaio 2022. Nel Paese che ha frenato Cop26 si soffoca d'inquinamento tra nuove mafie, miniere che devastano foreste e centrali contestate ma necessarie a crescere. Nelle settimane in cui il premier indiano Narendra Modi preparava l'annuncio per Cop26 sull'obiettivo zero emissioni non prima del 2070, gli Stati del Nord dell'India erano tormentati dai blackout. Mentre Greta Thunberg affilava le accuse al "bla bla" di governi e industrie, e i ministri dell'Ambiente indagavano sulle possibilità di un accordo evanescente sui gas inquinanti, Delhi fronteggiava un serio incremento nella sospensione della fornitura di energia alla rete elettrica.

«Non rinunciamo alle fonti fossili: lavoriamo con Rubbia per l’energia pulita dal gas». Federico Fubini su Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2022.

 Franco Bernabé: «Siamo vissuti per 250 anni in una situazione di energia molto abbondante e a basso costo: prima il carbone, poi il petrolio e più recentemente il metano. Non c’era mai stato bisogno di concentrarci sulla ricerca di alternative. Ora tutto sta cambiando, ma non c’è ragione per cui l’intelligenza umana non possa trovare soluzioni». Franco Bernabè ha lavorato con le fonti di energia per gran parte della sua carriera. Lo ha fatto da amministratore delegato dell’Eni dal 1992 al 1998 e lo sta facendo ora da presidente di Acciaierie d’Italia, l’ex Ilva. 

Dottor Bernabè, le fonti rinnovabili come l’eolico e il fotovoltaico sono le alternative che servono?

«Sono la prima risposta quando si è capito che la rapidità con cui si sta accumulando la CO2 nell’atmosfera creerà senz’altro delle conseguenze inaspettate. All’inizio erano fuori mercato e sussidiate, poi il costo è crollato. La regione dell’Asia Pacifico ha installato più di metà delle rinnovabili al mondo e grazie all’effetto di scala i costi sono diminuiti del 50% negli ultimi cinque anni. È bastato aumentare la produzione e migliorare la tecnologia per ottenere enormi vantaggi. I limiti sono però noti: servono spazi enormi e c’è discontinuità nella produzione».

L’Italia punta molto sulle rinnovabili per la transizione, è ragionevole?

«Come ho detto, è la prima risposta. Ma in Italia sono cinque anni che le rinnovabili quasi non crescono. Nel 2015 avevamo quasi 19 Gigawatt installati e nel 2020 eravamo appena a 21. In Germania nello stesso tempo si è passati da 39 a 53, in Asia Pacifico da 90 a 422. Da qualche parte il problema in Italia ci sarà, se continuiamo a parlarne ma la crescita è impercettibile». 

E dov’è il problema?

«Ci sono le sovrintendenze da convincere. Siamo un Paese nel quale il paesaggio è un patrimonio da preservare, che può creare posti di lavoro e prosperità. E comunque non dimentichiamo che, a livello mondiale, solare e eolico non sono più del 5% del mix. Le fonti fossili restano ancora l’85% del totale».

Non potremo fare a meno degli idrocarburi?

«Di petrolio ci sarà ancora bisogno soprattutto per la chimica. E il gas è la più recente delle fonti fossili, a minori emissioni di CO2 ed era considerato fino a qualche tempo fa la fonte di transizione per i prossimi cent’anni».

Non c’è tutto questo tempo...

«No, certo, ma il gas naturale ha due caratteristiche: ce n’è in abbondanza per centinaia di anni; e si presta con un processo di cracking alla separazione atomica di idrogeno da carbonio, per produrre idrogeno senza emettere CO2».

Ma la reazione cosiddetta di «steam reforming» per produrre l’idrogeno genera molta CO2, no?

«In quel caso sì. Invece se si scindono le molecole di idrogeno dal carbonio riscaldando il metano senza farlo bruciare, con la pirolisi, non si produce anidride carbonica. Da un lato c’è l’idrogeno pulito e dall’altro una polvere di carbonio che può essere utilizzata in vari modi».

È una nuova tecnologia, ma è economicamente e tecnologicamente sostenibile?

«C’erano dei problemi ingegneristici, ma il premio Nobel della Fisica Carlo Rubbia e i ricercatori del Politecnico di Milano sostengono che possono essere risolti. Carlo Mapelli del Politecnico di Milano, che è consigliere d’amministrazione di Acciaierie d’Italia, sta lavorando a una tecnologia simile ma con un processo diverso. Il gas può essere trasportato agli impianti siderurgici, dove può avvenire il processo di cracking per pirolisi o catalisi».

Cosa manca perché questo progetto, che per ora è di laboratorio, sia applicato su scala industriale?

«Investimenti, naturalmente. Ma è un progetto indicativo del fatto che l’intelligenza umana può trovare le soluzioni, una volta applicata al problema della scarsità di energia che non ci eravamo mai posti dall’inizio della rivoluzione industriale».

Lei ritiene che la scissione a zero emissioni nel metano dell’idrogeno dal carbonio sarà la tecnologia decisiva?

«Può essere una delle molte soluzioni che concorrono. Dico solo che non si può pensare di abbandonare le fonti fossili, con il potenziale di innovazione che c’è ancora dentro. Quando un problema è complesso, la mente umana può risolverlo se vi si applica. Invece se affrontiamo il tema della transizione energetica come una guerra di religione, allora ci perdiamo».

C’è molta tensione perché in Europa si stanno affrontando sacrifici per ridurre le emissioni, mentre il principale inquinatore è la Cina...

«Non credo che le scadenze europee più vicine potranno essere realizzate. E la Cina è il Paese che più di ogni altro sta sviluppando le rinnovabili, tra l’altro con emissioni pro-capite più basse della Germania, degli Stati Uniti o dell’Australia (ma non dell’Italia). La Cina è anche il Paese che sta facendo il maggiore sforzo di sviluppo tecnologico delle rinnovabili e anche qui l’Europa rischia di arrivare in ritardo, di diventare importatore di tecnologie altrui».

Le batterie sono un’altra questione geopolitica: la Cina controlla molte delle materie prime per lo stoccaggio elettrico. Come se ne esce?

«Fu la Cina per prima a sviluppare le batterie a ioni di litio per i droni spia, che poi mise a disposizione per usi civili. L’unica soluzione è concentrarsi sull’innovazione, sapendo che le rinnovabili sono essenziali ma non bastano».

Il costo dei diritti d’inquinamento (Ets) in un anno è passato da 37 a oltre 80 euro a tonnellata di anidride carbonica. Sui conti di un’impresa dell’acciaio pesa?

«Pesa moltissimo per tutta l’industria energivora, sempre di più. La CO2 costa. Per questo è fondamentale sviluppare un processo che non ne generi». 

L'odore dei fanghi. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Bernardo Iovene. Collaborazione di Alessandra Borella e Greta Orsi 

Tonnellate di fanghi e gessi fuori norma e inquinati da sostanze tossiche sarebbero state sversate sui terreni di quattro regioni d'Italia.

Le procure di Brescia, Lodi e Pavia hanno scoperto centinaia di migliaia di tonnellate di fanghi e gessi fuori norma e inquinati da sostanze tossiche che sono state sversate sui terreni del nord Italia, in quattro regioni e centinaia di province. Le inchieste sono partite dalle denunce degli abitanti che per anni hanno subito i miasmi provenienti dai centri di trattamento di fanghi e gessi sotto inchiesta. Report ha ricostruito la filiera dei fanghi “tal quale” e quella del prodotto diventato gesso di defecazione, una pratica ormai consolidata che si muove in un vuoto normativo, come ha ammesso lo stesso ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani. Quest’anno entrerà in vigore un nuovo regolamento europeo, ma ogni Stato può continuare a utilizzarli secondo le proprie normative nazionali. E se in Spagna, Gran Bretagna e Irlanda sono largamente impiegati come fertilizzanti, in Olanda, Belgio e Svizzera preferiscono incenerirli. E l'Italia come si comporta? I fanghi dei depuratori civili e industriali possono essere recuperati in agricoltura come concime perché contengono azoto e fosforo utili ai terreni, ma anche una serie di inquinanti, metalli pesanti, idrocarburi e PCB considerati cancerogeni. Una legge del 2018 ha stabilito dei limiti per queste sostanze, ma se trattato, il fango diventa gesso e può essere utilizzato come un fertilizzante e sfuggire ai controlli severi che invece ci sono per i fanghi tal quale.

L’ODORE DEI FANGHI Di Bernardo Iovene Collaborazione: Alessandra Borella, Greta Orsi Immagini: Giovanni de Faveri, Alfredo Farina, Davide Fonda

BERNARDO IOVENE Quindi questo qua viene da un depuratore di Merano?

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì, dal depuratore…

BERNARDO IOVENE Sono gli scarti di un depuratore

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì, esattamente. Il fango che entra attraverso il nostro impianto deve avere già caratteristiche idonee all'utilizzo in agricoltura così come entra, quindi questo qua più marrone viene da Pistoia

BERNARDO IOVENE Da Pistoia questo qua

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Esatto. Perché…

BERNARDO IOVENE Poi tutto questo viene tutto mescolato?

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Assolutamente per omogeneizzare…

BERNARDO IOVENE È lui che mescola

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Esattamente il nostro operatore che miscela anche il materiale e lo omogeneizza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I fanghi vengono dalla depurazione delle fogne delle nostre città le acque depurate vanno nei corsi d'acqua, rimane il fango che la parte solida ed è un rifiuto che va smaltito. Ma c'è anche la possibilità di utilizzarlo come concime in agricoltura.

BERNARDO IOVENE Io se penso ai fanghi da depurazione penso alle fogne no che arrivano nell'impianto di depurazione, le acque pulite vanno seguono il loro corso e tutta la schifezza si trattiene e diventa fango o no?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Dire schifezza è una cosa esagerata. Noi facciamo delle cose quando andiamo in bagno e poi dopo vanno nelle fogne

BERNARDO IOVENE Perché dentro le fogne circola di tutto

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Ci può andare di tutto

BERNARDO IOVENE Circolano i topi e c'è il Comune che va a derattizzazione, piombo ci sarà, degli idrocarburi

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE C’è del rame, c’è dello zinco, c'è tutta una serie di cose che devono avere dei parametri. Cosa vuol dire? Che un depuratore prima di essere un depuratore, diciamo così che ha la possibilità di mettere fango in agricoltura, ha bisogno di un controllo continuativo per sei mesi, ogni 15 giorni viene fatto un controllo e deve rimanere sempre dentro i parametri perché se solo una volta sfora il parametro quel depuratore non può portare fango

BERNARDO IOVENE Non è idoneo

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Non è idoneo e tutto questo è controllato dall'Arpa

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dai depuratori idonei arrivano in queste vasche dove decantano e si stabilizzano da uno a tre mesi finché non diventa un prodotto omogeneo

BERNARDO IOVENE Quindi questo è il prodotto che voi date all’agricoltore

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Questo è il prodotto che va in agricoltura. Viene fatta l'analisi e poi viene portato

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Lo ricordo ancora, si tratta comunque di rifiuti

BERNARDO IOVENE Rifiuti che però adesso vanno sui campi agricoli dove poi viene coltivato 

SANTE SCAGLIARINI - RESPONSABILE RIFIUTI CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Beh, il problema è proprio quello insomma… Di che cosa si nutre quello che cresce su un campo che è stato fertilizzato con i fanghi della depurazione? Sarebbe importante saperlo perché poi molto probabilmente ce lo mangiamo. Ora quello che potrebbe considerarsi anche un esempio virtuoso di economia circolare e di recupero dei rifiuti è diventato un vero incubo per i cittadini di centinaia di comuni del nord Italia. Si tratta proprio dei fanghi di depurazione trattati come fertilizzanti. Insomma, sono quelle cosette che noi facciamo quando noi andiamo in bagno dice simpaticamente Paolo Ceccardi presidente del Centro di agricoltura per l’ambiente. Contengono per loro natura degli inquinanti, poi se ne aggiungono altri che vengono dispersi nell’ambiente e finiscono nel depuratore dei fanghi di provenienza civile. Ora la legge consente lo smaltimento di questi fanghi sul campo, sui campi agricoli e il letame cosiddetto umano se viene trattato con la calce viva e però è considerato ancora a tutti gli effetti un rifiuto, viene tracciato dall’impianto fino allo smaltimento all’ultimo momento mentre invece se aggiungi alla calce l’acido solforico avviene una magia cioè i fanghi si trasformano in gessi di defecazione e quello che ne esce fuori non è più un rifiuto, il letame viene trasformato in prodotto, in merce e può circolare liberamente. Questo avviene anche con i fanghi di provenienza industriale ed entrambi possono essere smaltiti sui campi. Arrivano ad essere offerti come fertilizzante agli agricoltori, spesso sono ignari e gli agricoltori sono allettati perché gli viene offerto il trasporto, il fertilizzante gratuito poi si presentano con mezzi pesanti che spargono il gesso di defecazione e poi lo interrano anche. Sarebbe anche un esempio di economia circolare virtuosa se non fosse che dentro poi ci si infila il criminale, ci si infila la sostanza cancerogena e poi se non fosse che i fanghi puzzano, eccome se puzzano! Il nostro immarcescibile condottiero Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La stessa ditta si occupa a sue spese del trasporto all'azienda agricola. Si tratta di rifiuti che puzzano e quindi appena arrivano sul campo sempre la ditta dei fanghi provvede allo scarico e allo spargimento sul terreno. E dopo anche all’aratura. Oggi su questo campo sono arrivati dieci camion, a usufruire di questo servizio totalmente gratuito è l'azienda agricola.

BERNARDO IOVENE È il beneficiario diciamo lei.

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) Sono il beneficiario ma siamo tutti beneficiari perché questo…

BERNARDO IOVENE È un recupero

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) È un classico esempio di economia circolare, noi aziende agricole abbiamo bisogno di sostanza organica, la comunità ha bisogno di eliminare dei rifiuti dei depuratori e appena arriva il prodotto in azienda deve essere interrato immediatamente in modo da arrecare meno danno e meno disturbo per la popolazione.

BERNARDO IOVENE Per la popolazione

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) Quest'anno è stato seminato grano l'anno prossimo verrà seminato del mais. Però bisogna anche che i residenti se per un giorno sentono un po’ di puzza insomma portino un po’ di pazienza.

BERNARDO IOVENE Un po' di pazienza. Lei come la chiama questa sostanza?

LUCA VITTORI VENENTI – SOCIETÀ AGRICOLA VITTORI VENENTI - BUDRIO (BO) È un esame letame, letamo umano; vogliamo chiamarlo letame umano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A pagare tutto questo sistema siamo noi attraverso la bolletta dell'acqua. Paghiamo chi depura. E chi depura poi paga le ditte per lo smaltimento dei fanghi.

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Il prezzo medio sono 60-65 euro alla tonnellata

BERNARDO IOVENE E un camion quante tonnellate ha?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE 30

BERNARDO IOVENE 30 tonnellate quindi ogni camion sono 6 x 3, 18 sono a 1.800 euro no?

PAOLO CECCARDI - PRESIDENTE CENTRO AGRICOLTURA AMBIENTE Sì

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il letame umano della città di Piacenza però all'analisi non è risultato idoneo. Questa è l'acqua depurata che finisce nel Po, mentre il fango che esce, all'inizio liquido poi diseccato, va direttamente nel termovalorizzatore e viene bruciato, ma costa.

EUGENIO BERTOLINI – AMMINISTRATORE DELEGATO IREN AMBIENTE Un prezzo di smaltimento di un fango, diciamo fuori norma rispetto all'agricoltura, viaggia intorno diciamo dai 130 ai 140 euro a tonnellata

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ricapitolando bruciare il fango nei termovalorizzatori costa 140 euro a tonnellata, smaltirlo invece su un campo agricolo 65 euro. Meno della metà. Spostiamoci in Lombardia al depuratore della città di Brescia

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Questi sono i batteri

BERNARDO IOVENE Ammazza, siamo sicuri qua?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Siamo sicurissimi

BERNARDO IOVENE Non è che ci attaccano? Questi batteri

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Assolutamente, sono batteri si nutrono della sostanza organica che c'è nelle fognature, crescono

BERNARDO IOVENE Mamma mia che schifo però

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA E quando sono cresciuti vengono estratti. E quello è il fango, il fango non è altro che batteri.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quando i batteri si nutrono durante la depurazione, producono biogas. Anche qui il fango viene disidratato. Ogni giorno qui a Brescia riempiono 4 container di fango che poi vanno al termovalorizzatore distante due chilometri.

BERNARDO IOVENE Quanto pagate?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA 140 euro a tonnellata più o meno

BERNARDO IOVENE Quanto fango producete?

TULLIO MONTAGNOLI – AMMINISTRATORE DELEGATO A2A CICLO IDRICO BRESCIA Su questo impianto 9-10 mila tonnellate di fango all'anno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un milione e mezzo di euro l'anno solo per smaltire i fanghi. Sia il depuratore che l’inceneritore sono di A2A ma evidentemente sono di rami diversi dell’azienda. I fanghi del depuratore di Rovato invece, siamo sempre in provincia di Brescia, producono un fango idoneo per l'agricoltura.

BERNARDO IOVENE Dove va questo fango?

MAURO OLIVIERI - DIRETTORE TECNICO ACQUE BRESCIANE Questo fango va a recupero in agricoltura.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma in Lombardia i prezzi sono il doppio che in Emilia-Romagna.

MAURO OLIVIERI - DIRETTORE TECNICO ACQUE BRESCIANE Per i fanghi idonei l'attuale appaltatore si è aggiudicato la gara per 120 euro a tonnellata trasporto e smaltimento.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Lombardia è la regione dove ci sono più impianti di recupero dei fanghi ma a differenza dell'Emilia-Romagna prima di spedirli in agricoltura è obbligatorio un trattamento con calce viva

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) In base alla normativa nazionale potrebbe anche andare

BERNARDO IOVENE Potrebbe anche andare

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Per quella nazionale ma per quella lombarda no

BERNARDO IOVENE Voi lo analizzate questo fango?

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Assolutamente. È già analizzato prima che arrivi

BERNARDO IOVENE 7 E che cosa ci trovate dentro che diciamo non può andare? Perché non può andare?

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Sostanzialmente per gli aspetti microbiologici

BERNARDO IOVENE Ad esempio? Ci faccia un esempio da far capire

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Salmonelle. Coliformi fecali, salmonelle. Questi sono i parametri che normalmente non sono conformi rispetto a quella che è la norma nazionale, alla norma regionale per cui dovevano essere trattati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora il letame umano se vuoi spargerlo sui campi agricoli della Lombardia devi trattarlo con la calce viva, questo per la presenza di alcuni batteri come le salmonelle. Però questo rende più costoso lo smaltimento, costa 120 euro a tonnellata in Lombardia, 65 euro a tonnellata nelle altre regioni. Questo però se vuoi smaltirlo appunto sui campi agricoli. Se invece, il letame umano, i fanghi di derivazione civile hanno dei limiti di metalli pesanti eccessivi come a Piacenza, stiamo parlando di metalli pesanti come il Piombo, il Cadmio, il Nichel e tanti altri… allora li devi portare a bruciare nell’ inceneritore e questo costa un po' di più, 120, 130 euro a Piacenza, se lo bruci invece a Brescia 140 euro dove c’è A2A che incassa le bollette dell’acqua per la depurazione, pensa lei allo smaltimento, si paga anche l’incenerimento ma non si fa neppure lo sconto. Ecco insomma ha funzionato così per tantissimi anni, dove si controllavano i depuratori, si controllano ancora oggi i depuratori in maniera rigorosa e i fanghi che uscivano da lì, considerati rifiuti, venivano monitorati fino allo smaltimento fino quando non c’è stato un signore che si è fatto venire un’idea e ha aggiunto alla calce viva del trattamento dei fanghi civili anche l’acido solforico, una sostanza che serve per abbassare il livello dei metalli pesanti e i fanghi si sono trasformati in gessi di defecazione ma, per magia, quello che viene considerato un rifiuto, il letame, diventa un prodotto, una merce libera di circolare, niente più tracciamento, niente più controlli Ma qual è la ricaduta e quale è stata, e di chi è stata l’idea?

BERNARDO IOVENE Questa è della città di Carpi?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Questo è il fango come arriva dagli impianti di depurazione. Viene poi introdotto in questi contenitori dove viene miscelato con calce, acido solforico, carbonato di calcio e/o solfato di calcio. Alla fine, viene fuori il cosiddetto gesso di defecazione, non è bianco, rimane scuro ed è considerato un prodotto fertilizzante a tutti gli effetti.

BERNARDO IOVENE Lei mi diceva prima che viene considerato uno dei delinquenti che produce questi 8

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Tutti noi che facciamo questa attività ormai godiamo di una pessima fama. Nel 2005 noi abbiamo brevettato il sistema per produrre gessi di defecazione e abbiamo ottenuto la prima autorizzazione…

BERNARDO IOVENE Cioè voi siete i primi?

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Abbiamo inventato questo, questo disastro.

BERNARDO IOVENE Questo disastro. Certo. Quindi lei è il responsabile?

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Sono io. Purtroppo poi si è diffusa BERNARDO IOVENE Si è diffusa in tutta Italia

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Si è diffusa in tutta Italia e purtroppo, in taluni casi, è stata applicata molto male.

BERNARDO IOVENE Il fango tal quale soggetto a dei controlli…

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Pesantissimi.

BERNARDO IOVENE Pesantissimi. Voi, invece, vi liberate di questi controlli…

FABIO CELLA - AGROSISTEMI SRL - PIACENZA Esclusivamente sotto il profilo amministrativo, abbiamo un'autorizzazione sola per l'impianto e non abbiamo più innumerevoli autorizzazioni di quel fango specifico di depurazione che doveva essere autorizzato

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Con i gessi sostanzialmente si sfugge ai controlli carico per carico perché smette di essere rifiuto e viaggia come un prodotto. L'Emilia Romagna ha una legislazione come vedremo particolare e più restrittiva ma in Lombardia ad esempio è permesso utilizzare per fare i gessi anche fanghi prodotti da depuratori industriali, un mix che può sprigionare odori nauseabondi per la popolazione che vive sulle vie trafficate dai fanghi

FABIANO CABRINI - PRESIDENTE VIVAMBIENTE La Lombardia raccoglie la maggior parte dei fanghi da refluo di tutte le regioni italiane, che raccolgono 42 tipi diversi di trattamenti industriali, quindi dalle 9 concerie, alla pelletteria, alla farmaceutica, alla chimica in generale. L'acido solforico e la soda non riescono ad eliminare nessun elemento di questa chimica che finisce nei fanghi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La norma, inserita d’urgenza: stabilisce i limiti per utilizzare fanghi provenienti dall’ industria del tessile, delle plastiche, della farmaceutica che rilasciano sostanze come idrocarburi pesanti, PCB, Toluene, Selenio, Cromo esavalente, Berillio e Arsenico. È un paradosso! Perché i controlli sui gessi si fanno solo sui metalli, non su altre sostanze chimiche. E nei paesi arrivano con i gessi, odori strani, indecifrabili anche per i sindaci, che sono all’oscuro degli spargimenti. Perché non ricevono le comunicazioni. L’ultimo caso è a Castiglione d’Adda.

COSTANTINO PESATORI – SINDACO CASTIGLIONE D’ADDA (LO) Nauseante, cioè veramente l'aria per il potenziale sversamento che potrebbe esserci stato martedì nessuna comunicazione in Comune è arrivato per cui, è arrivata, per cui evidentemente non si trattava di fanghi ma di gessi

UMBERTO DACCÒ – CONSIGLIERE COMUNALE CASTIGLIONE D’ADDA (LO) Odori chimici, a come ad esempio quella di martedì. Odore di pesce marcio ma che raggiunge dei livelli veramente nauseabondi indescrivibili. Non si può mettere una popolazione nella condizione di non poter uscire.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infuriati, sempre nel lodigiano, a ridosso del Po, sono i cittadini dei comuni vicini a una delle maggiori aziende che opera nel settore dei fanghi la CRE, Centro di Ricerche Ecologiche, con due impianti uno a Maccastorna e l'altro a Meleti.

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Non sono sottoposti a nessuna normativa per cui noi ci troviamo queste sostanze sparse in area golenale soprattutto sul piacentino nelle rive limitrofe del Po. E quando passano i camion lì è una cosa insopportabile cioè anche a 200, 300 metri si sentono le molestie olfattive

BERNARDO IOVENE E queste le ha filmate lei?

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Questi signori, passano a 80 all’ora allora in un paese con i 300 quintali sopra e ora che la finiscono adesso ne abbiamo le scatole piene

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Quando uno è seduto a tavola a mezzogiorno e passano tre o quattro di questi qui, questi signori… dice ah possiamo anche rallentare ma per quanto riguarda la puzza ve la dovete tenere. No, questi signori la puzza se la devo tenere loro

BERNARDO IOVENE Ma stiamo parlando di una ditta in particolare? sempre la CRE?

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Sempre la CRE.

ABITANTE DI CASTELNUOVO D’ADDA (LO) Sono stati inquisiti nel 2016, ci sono stati 12 arresti. Ecco la nostra preoccupazione è anche quella

FABIANO CABRINI - PRESIDENTE VIVAMBIENTE Il problema è che loro non riescono a togliere i contaminanti da questi fanghi e da gessi per cui noi ce li mangiamo perché finiscono nei prosciutti, nelle carni, in tutto finiscono nella nostra alimentazione quotidiana.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nel 2016 viene arrestato l’amministratore unico della CRE per 110 mila tonnellate di fanghi da depuratori civili e industriali non recuperati e quindi, rifiuti, sversati in campi agricoli tra il 2012 e il 2015 tra le province di Lodi, Cremona e Pavia. Avrebbero fruttato 45 milioni di euro falsificando analisi dei terreni e dei fanghi. La CRE attualmente è sotto sorveglianza di commissari giudiziari.

BERNARDO IOVENE È successo quello che è successo no?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL È successo anche quello sì.

BERNARDO IOVENE Insomma, fanghi, tonnellate di fanghi illegali sparsi sulle campagne no?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sull’illegalità magari ci si potrebbe anche discutere. L’azienda ovviamente ha preso atto di tutta questa situazione, ha iniziato a mettersi a posto, diciamo a fare le cose come devono essere fatte

BERNARDO IOVENE Come devono essere fatte

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL E quindi

BERNARDO IOVENE Ma i vecchi proprietari ci sono ancora però?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL 11 Sì, ci sono i proprietari però c'è una governance diversa. Noi siamo un'azienda che è governata tra virgolette dai commissari

BERNARDO IOVENE E intanto chissà quante schifezze ci siamo mangiati noi insomma negli anni

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL No, però questa è, voglio dire, non sono proprio così d'accordo. Ci può essere stato in un certo periodo un comportamento anomalo che però è stato punito

BERNARDO IOVENE Ah ho capito però è finito comunque in agricoltura, nelle nostre pance diciamo.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sì, però non diciamo, non diciamo che prima era sempre così.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Speriamo la lezione sia servita anche perché qui, come nel resto della Lombardia, arrivano i fanghi da tutta Italia

BERNARDO IOVENE Questo qua viene dall’acquedotto pugliese?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Sì esatto

BERNARDO IOVENE Addirittura, da Bari viene?

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Viene da Bari perché ovviamente c'è stata una gara e quando c'è una gara noi partecipiamo tenendo presente che avremo dei costi per portarlo il materiale in agricoltura.

BERNARDO IOVENE Questi qua sono i famosi trattori.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL In questo sistema si procede a distribuire i fanghi sui terreni

BERNARDO IOVENE Questi sono la gioia degli abitanti.

MARIO LOCATELLI - PRESIDENTE CDA CENTRO RICERCHE ECOLOGICHE SRL Ovviamente il prof…, l'odore, diciamo quello non può essere, non può essere fermato più di tanto. Nel senso che non esiste una normativa precisa, se non il codice della strada.

ALBERTO CASTIGLIONI - ALAN SRL SOMMO (PV) Qui però l’odore è micidiale eh…

BERNARDO IOVENE Vabbè Ci stiamo attenti

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dal lodigiano ci spostiamo in provincia di Pavia dove sono concentrate molte aziende di trattamento dei fanghi. Questa è la Alan, una delle storiche, poi c’è la Var nella zona tra Belgioioso e Linarolo. Qui l'Arpa dopo numerosissime proteste in seguito a odori nauseabondi ha distribuito un metodo di segnalazione per i cittadini.

BERNARDO IOVENE Presenza altissima. Odore nauseabondo.

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) Qualcuno non credeva nella buona riuscita di questa attività che è stata lunga

BERNARDO IOVENE Tipo immondizia durata almeno un'ora tuttora persistente

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) L'indirizzo di dove veniva rilevata, più gli orari

BERNARDO IOVENE Plastica bruciata. Odore pungente, odore marcio. Odore acre

PAOLO FRASCHINI – SINDACO DI LINAROLO (PV) Diciamo che con questo metodo siamo andati ad indirizzare Arpa verso dei controlli mirati che poi alla fine sono sfociati nell'inchiesta che poi…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'inchiesta si è conclusa il 3 dicembre con l'arresto del sindaco di Barbaniello che ometteva i controlli e consigliava al vigile di mettersi in ferie quando il sindaco di un altro paese, Mezzanino, con cui condividono la polizia municipale, ordinava i controlli sugli sversamenti dei fanghi. BERNARDO IOVENE Cioè, lei si è trovato in mezzo…

ADRIANO PIRAS – SINDACO DI MEZZANINO (PV) 13 Io mi sono trovato in mezzo a un'intercettazione telefonica, nel senso che io chiedo al vigile di venire a fare un sopralluogo, il vigile mi dice no devo andare a dare assistenza al mio papà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tra gli indagati anche i responsabili alcuni dipendenti della Var, la ditta produce fanghi misti a compost che rientrano nella categoria dei gessi. La Var è l'incubo di Linarolo, il paese più vicino che vediamo sullo sfondo, gli odori avevano raggiunto un limite insopportabile.

BERNARDO IOVENE La Var è lì praticamente

FABRIZIO GNOCCHI – CONSIGLIERE COMUNALE DI LINAROLO (PV) La Var è lì. I miasmi sono veramente rilevantissimi

ABITANTE LINAROLO (PV) Quando si sa che dentro ci sono anche cose che non ci dovrebbero essere e che non sono state smaltite correttamente, la cosa diventa preoccupante

ABITANTE LINAROLO (PV) Ed è un problema grave e anche che noi qui coltiviamo riso, mais e abbiamo anche la soia

ABITANTE LINAROLO (PV) A nessuno piace la puzza se poi la puzza diventa anche tossica. Ma qua siamo pieni eh…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO in periodo soprattutto di lockdown le aziende dovevano per legge areare i locali anche più volte durante la giornata

GIANLUCA PALLADINI – PRESIDENTE PALLADINI SRL - LINAROLO (PV) È un odore che fa piangere gli occhi, è un odore che dà fastidio, senti proprio che ti dà fastidio l'interno.

BERNARDO IOVENE Praticamente dovevate aprire qui durante il lockdown.

GIANLUCA PALLADINI – PRESIDENTE PALLADINI SRL - LINAROLO (PV) Aprire le nostre, i nostri vasistas e si apriva e si richiudeva subito perché il miasma, l’odore era insopportabile

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'accusa della procura è inquinamento ambientale. Alla Var non si rispettavano i tempi di maturazione dei fanghi che rimanevano rifiuti. Dai campionamenti fatti dall'Arpa, su vari campi dove sono stati espansi sarebbe emersa una concentrazione di arsenico e di altre sostanze

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Allora l’ammendante compostato da fanghi di per sé non richiede per legge la ricerca di idrocarburi piuttosto che IPA, PCB, e altre cose simpatiche di questo tipo. In questi casi estendiamo le ricerche anche a questi parametri.

BERNARDO IOVENE Sono stati trovati?

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Sì, sì, beh… si ritrovano sempre

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Idrocarburi IPA e PCB si ritrovano sempre, vuol dire che ci sono in tutti i fanghi che vanno in agricoltura ma la legge, sui gessi di defecazione, non prevede la ricerca di questi inquinanti. Si trovano solo in casi di indagini che sono complicatissime perché non sono previste neanche le comunicazioni preventive sulle analisi e nemmeno sulla destinazione finale del campo agricolo.

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Non c’è questo meccanismo di tracciabilità e quindi noi non sappiamo quando vengono sparsi questi gessi

BERNARDO IOVENE E quelli della Var rientravano in questa categoria?

WALTER DI ROCCO – DIRIGENTE ARPA LOMBARDIA DIPARTIMENTO PROVINCIALE DI LODI Esattamente

ABITANTI LOMELLINA Basta fanghi, basta fanghi!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui nella Lomellina si coltiva e si raccoglie riso e le aziende, specie quelle biologiche, cominciano a risentire di questa problematica delle risaie concimate con fanghi e gessi.

BERNARDO IOVENE Che danno avete voi da tutto questo?

ALBERTO FUSAR IMPERATORE – AZIENDA AGRICOLA “IL SOLE” – OTTOBIANO (PV) Ma un danno di immagine ma alla fine anche economico per tutti perché la Lomellina, la provincia di Pavia come singola provincia, è storicamente la provincia più importante in Italia e come qualità di riso nel mondo.

ALDA LA ROSA - FUTURO SOSTENIBILE IN LOMELLINA Trasparenza, io cittadino devo sapere esattamente quale azienda spande. Una cosa che chiediamo che ci sia scritto sull'etichetta liberi da fanghi

ANNA CROTTI - COMITATO “NO AI FANGHI” IN LOMELLINA Nelle dichiarazioni di chi fa i gessi di defecazione si dice che i gessi non dovrebbero avere puzza. Allora perché sono così puzzolenti? vuol dire che non sono stati controllati, non sono maturi, o non sono state fatte le operazioni che avrebbero dovuto essere fatte. Ma sotto alla puzza ci sono tantissime cose che noi non sappiamo.

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quello che sappiamo invece è che nel pavese ci sono 13 ditte che lavorano i fanghi è diventato un centro di raccolta di fanghi provenienti dai depuratori di vari comuni d’Italia e addirittura dell’estero.

ATTILIO BONETTA – CHIMICO Il quantitativo di fanghi lavorati nel nostro territorio che è un milione e 100mila tonnellate l'anno. In provincia di Pavia se ne producono circa 48 mila tonnellate, tutto il resto vengono da fuori provincia. Contengono un sacco di contaminanti, dai metalli, alle microplastiche, agli antibiotici, noni fenolo, polibromo di feniletere che sono di ritardanti di fiamma. Qui i terreni sono argillosi, si coltiva il riso, per cui vanno nelle falde, negli acquiferi superficiali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In mancanza di un coordinamento nazionale la Lombardia è quella che usa in maniera più disinvolta i gessi di defecazione. Insomma, avevano anche provato a limitarne l’uso ma non ci sono riusciti. In quei gessi di defecazione ci sono sia i fanghi di provenienza civile che quelli di lavorazione industriale, 42 lavorazioni industriali diverse. Parliamo di sostanze pesanti perché sono gli scarti della lavorazione delle pelli delle pellicce, della lavorazione della plastica, della gomma, dei detergenti, della farmaceutica. Sostanze ad alto, ad alta tossicità, sostanze chimiche che se ci spruzzi sopra un po' di soda, un po' di acido solforico non è che ottieni un beneficio. Eppure, la legge consente di poterli smaltire sui campi come se fossero un prodotto. E L’altro paradosso è che la legge non impone di cercare queste sostanze chimiche, impone solo di cercare metalli pesanti. Se trovi delle diossine o degli idrocarburi insomma appartiene solo alla buona volontà del controllore. È per questo che su quelle terre, le terre dei fanghi, come sulle terre dei fuochi, sono sorti degli osservatori dei cittadini, delle associazioni che vigilano e denunciano. Grazie proprio a una delle loro denunce è stato arrestato un sindaco che aveva chiuso gli occhi complice quando doveva essere il primo a sorvegliare sulla salute dei propri cittadini. E se invece ci sono dei sindaci che vogliono tutelarli, non possono farlo, questo per un paradosso della legge perché praticamente se smaltisci un fango di provenienza civile è considerato un rifiuto che cosa devi fare? Devi avvisare quindici giorni prima il sindaco 16 della città, l’Arpa e viene monitorato il terreno dove viene smaltito questo fango di origine civile e vedere se e quanto fango tollera. Se invece è un gesso di defecazione è un prodotto e sfugge a tutti in controlli. Possono sversare senza avvisare alcun sindaco anche se dentro ci sono delle sostanze cancerogene. Ora anche se poi su quel campo ci vai a piantare del grano, del mais, dell’erba medica di cui si nutre una bestia o anche semplicemente se ci coltivi del riso. È successo anche in Lomellina dove i produttori bio sono infuriati perché questo fenomeno sta rovinando l’immagine, l’economia, l’ambiente di un intero territorio dove viene coltivato il riso tra i più famosi al mondo. Insomma, prima o poi il bubbone doveva scoppiare nel pavese che è la provincia che ha più impianti di trattamento dei fanghi nel nostro paese. Ecco insomma pensate che nella provincia del pavese vengono prodotti e trattati 48 mila tonnellate di fanghi. Ma, negli stessi impianti di trattamento vengono trattati invece oltre un milione di tonnellate. Questo perché arrivano fanghi da trattare da tutte le parti d’Italia, anche dall’estero. Siccome l’affare c’è poi alla fine non è che sono tutti santi.

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Quello che è grave è che un decreto legislativo di un governo ammetta la presenza di sostanze cancerogene in un materiale che va nel terreno e dal quale possono derivare dei prodotti destinati all'alimentazione anche dei bambini ed è ammesso che arsenico, berillio, cadmio, cromo, nichel siano presenti in queste quantità che sono quantità elevate. Per di più…

BERNARDO IOVENE Che sono i valori limite diciamo…

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA E sono i valori limite

BERNARDO IOVENE Benzene

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Il benzene, ma lo stirene è un probabile benzopirene, il cloruro di vinile, il tricloretilene, cioè questi siamo sicuri che sono cancerogeni e se noi siamo sicuri

BERNARDO IOVENE E sono ammessi nella produzione

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA la loro presenza è ammessa nei fanghi di defecazione che vengono utilizzati in agricoltura.

BERNARDO IOVENE In agricoltura. Praticamente abbiamo la legge che permette di mettere degli inquinanti direttamente sul terreno.

FIORELLA BELPOGGI – DIRETTRICE SCIENTIFICA ISTITUTO RAMAZZINI - BOLOGNA Sul piatto!

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul piatto sono arrivate anche le 150 mila tonnellate di fanghi e gessi tossici della WTE di Brescia. Le indagini, durate due anni, erano partite grazie alla denuncia del sindaco di Monticelli, un comune della provincia pavese. Era stato allertato dai suoi cittadini colpiti da miasmi nauseabondi dopo lo sversamento sui terreni dei gessi dell'azienda bresciana.

ENRICO BERNERI – SINDACO DI MONTICELLI PAVESE (PV) Il gesso non essendo rifiuto non hanno l'obbligo di segnalarlo alla Provincia, nemmeno al Comune. Quindi arrivano direttamente. Ecco lo vede qui il mucchio nero.

BERNARDO IOVENE Questo qua è il mucchio

ENRICO BERNERI – SINDACO DI MONTICELLI PAVESE (PV) Sì, sì. Qui spiegano le caratteristiche del prodotto. La prima che è venuta a spargere i fanghi è la WTE a gennaio del 2018.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le indagini si concludono il 24 maggio quando la procura di Brescia diffonde le intercettazioni dai contenuti scioccanti: gli smaltitori di fanghi tossici ridevano al pensiero di bambini che avrebbero mangiano i frutti di quei terreni che avevano avvelenato.

 PERESONA 1 Antonio non è vero che non avete fatto male a nessuno perché l’ambiente l’avete disintegrato voi.

PERSONA 2 Per conto terzi. Va bene.

PERSONA 1 Si, alla fine qua ci viviamo noi eh

PERSONA 2 Allora io sono stato un delinquente, io ho fatto il delinquente, consapevolmente. E no ma è vero eh Simone, guarda che io ogni tanto ci penso eh… chissà il bambino che mangia la pannocchia di mais cresciuta sui fanghi di Vertelli! E vabbè c…

CESARE NASCÈ - TENENTE COLONNELLO CARABINIERI FORESTALI BRESCIA Queste 150 mila tonnellate di rifiuti sono state sparse su parecchi campi di quattro regioni del Nord Italia. Parliamo di 4 regioni, 12 province e più di 70 comuni, su terreni, parecchi ettari di terreno. Sono più di trentamila Tir

PERSONA 1 Stamattina ti ho trovato un altro clientino in Piemonte

PERSONA 2 Ma dove?

PERSONA 1 Sizzano

PERSONA 2 Sizzano ah…bei posti

PERSONA 1 Sono veramente belli, proprio paesaggisticamente, andiamo proprio a rovinarli con i gessi

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Andavano a rovinare i campi perché nel trattamento, secondo la Procura, utilizzavano un acido di recupero da oli di batterie esauste. La WTE in provincia di Brescia ha tre impianti oggi sotto sequestro, il primo è a Calcinato.

LAURA CORSINI - COMITATO CITTADINI CALCINATO (BS) Quando abbiamo iniziato ad apprendere queste notizie siamo entrati nel dramma perché noi, da 20 anni, sapevamo cosa significava la perdita di gessi di defecazione sulle strade, uscivano fino a 100, 110 tir e trattori carichi al giorno, così come usava l'acido solforico che acquistava da ditte che recuperavano le batterie

ABITANTE DI CALCINATO (BS) Arrivavano queste vampate di odore acre che ti prendeva alla gola, non riuscivi più a trattenere il respiro.

ABITANTE DI CALCINATO (BS) è sempre stato un inferno perché appunto i miasmi, fare una cena o fare un pranzo, vedere la gente che va via perché non sa come fare per dirti oddio dove sono venuta. Alle due o tre di notte ti capitava che invece ti dovevi svegliare perché avevi la gola infiammata gli occhi che ti piangono e i bambini che piangono

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Uno dei tre impianti della WTE è a Quinzano, qui la situazione è peggiore, i trattamenti dei fanghi sono a ridosso del paese, i cittadini per 16 anni raccontano una vita d’inferno fino alla data del sequestro.

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Noi andavamo a letto la sera con la paura di non svegliarci il mattino, ma anche i bambini che facevano la strada in bicicletta spesso correvano a casa con gli occhi gonfi, rossi, la gola che bruciava

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Io ho respirato tutto, non sapevo più cosa dovevo fare io per tappare le finestre. Star male in casa e vomitare

BERNARDO IOVENE Un inferno?

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Un inferno sì. Io 16 anni di inferno ho fatto.

BERNARDO IOVENE Adesso sta un po' meglio?

ABITANTE DI QUINZANO (BS) Sì, sì.

BERNARDO IOVENE E sorrida allora

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Talmente era insopportabile la puzza che lungo il percorso dei camion per andare a sversare i fanghi e gessi nei campi si sono formati spontaneamente dei comitati. Qui siamo a Vighizzolo

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Passavano di qui perché andavano nella bassa bresciana.

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Al passaggio dovevi sempre chiudere la finestra perché per dieci minuti ti rimaneva l’odore

BERNARDO IOVENE Quanto ne passavano al giorno?

BERNARDO IOVENE Tanti, una cinquantina penso

ABITANTE VIGHIZZOLO (BS) Davano veramente tanta puzza. Quando passavano carichi e anche quando tornavano scarichi. Qui c’è il semaforo qua che stavano fermi e lì le case, li facevano aerosol a tutto spiano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo le intercettazioni sono rimasti increduli anche gli agricoltori che hanno accettato gratuitamente di far fertilizzare i terreni con i gessi tossici.

BERNARDO IOVENE Perché erano gratuiti, sono stati sempre gratuiti questi fanghi

AGRICOLTORE Erano a norma, con tutte le carte in regola, l’agronomo ha detto che sono ottimi, anziché usare l’urea chimica che costa

BERNARDO IOVENE Lei su quanti ettari l'ha messa?

AGRICOLTORE Neanche dieci ettari.

BERNARDO IOVENE Dieci ettari

MOGLIE AGRICOLTORE Perché io questo liquame ho sentito che puzza tanto. Ho detto ma, siamo in regola? Perché guardate che mi sembra che puzza… No no signora, per l’amor di Dio, c’abbiamo qua guardi tutto in regola… Dove mi fa fastidio, biologico

BERNARDO IOVENE Materiale biologico

MOGLIE AGRICOLTORE Chi pensa che invece hanno falsificato qualcosa

BERNARDO IOVENE Quanto risparmiava con questi fanghi?

AGRICOLTORE 150 euro…

BERNARDO IOVENE E basta? Questo è tutto quello che risparmiava?

AGRICOLTORE A ettaro

BERNARDO IOVENE Ah, a ettaro. Quindi 2000 euro diciamo?

AGRICOLTORE Sì. Per essere su sul giornale a fare… ma vai…

BERNARDO IOVENE Lei complessivamente quanto ha potuto risparmiare?

AGRICOLTORE Su due volte? 800 euro

BERNARDO IOVENE 800 euro. E quando ha saputo questa storia che ha pensato?

AGRICOLTORE Chi?

BERNARDO IOVENE Lei

AGRICOLTORE Niente che cosa dovevo pensare? Siamo stati dei coglioni, perché l’han fatto… cioè nessuno va ad avvelenare la sua terra! Non siamo così, siamo agricoltori ma non siamo ignoranti perché lavoriamo i campi, non so se mi spiego.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La Coldiretti si considera parte lesa e ostinata a dare battaglia vuole costituirsi nei procedimenti che saranno aperti dall’autorità giudiziaria

STEFANO MASINI - RESPONSABILE AREA AMBIENTE E TERRITORIO COLDIRETTI Ci sono imprese che lavorano onestamente ma è molto facile eludere tutte le prescrizioni che sono previste. Ad esempio noi siamo quelli che dicono per poter utilizzare fanghi, gessi, no? Occorre avere su un trattore un GPS per poter geolocalizzare tutte le operazioni. Bisogna modificare la normativa, anche perché dal punto di vista europeo un regolamento del 2009 dice che non è possibile considerare fertilizzanti quei prodotti che derivano dalla lavorazione del fango e quindi perché ancora noi proseguiamo ad avere una disciplina non conforme?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Che la disciplina sullo smaltimento di fanghi e gessi sia carente lo denuncia da anni il direttore dell'Arpa di Brescia. È uno dei massimi esperti nel settore.

FABIO CAMBIELLI - DIRETTORE ARPA BRESCIA La norma stessa non va a prevedere dei criteri di base che consentono poi di fare i controlli come Dio comanda, prevede come analisi di conformità, per poter portare i gessi nei campi agricoli, solo l'analisi dei metalli ma nei gessi non troviamo solo i metalli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Proprio dalle indagini della procura di Brescia infatti sono emerse tutte le lacune del sistema: oltre alla chimica inorganica, c’è la chimica dei composti organici, perché 22 in quei gessi sono state trovate concentrazioni elevate di idrocarburi pesanti di toluene e di fenoli.

FABIO CAMBIELLI - DIRETTORE ARPA BRESCIA Ad oggi però la norma di legge, a differenza di quella che ad oggi regolamenta l'utilizzo dei fanghi, non prevede l'analisi di questa sostanza. Se ad oggi le analisi sui composti organici non sono previste è bene che queste analisi vengano introdotte

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Carenza nella norma e nei controlli. Se i fanghi vengono controllati i gessi no. I comitati disperati sono vent'anni che invano scrivono a tutti. La prima risposta è arrivata però dal presidente del Consiglio Draghi

IMMA LASCIALFARI - PRESIDENTE AMBIENTE FUTURO LOMBARDIA E lui ci scrive: è senz'altro vero che questo episodio, quello della WTE, pone con rinnovata urgenza il tema di un potenziamento nei controlli. Regione Lombardia fa una norma in mancanza di quella dello Stato ok, in agosto, viene impugnata dal Ministero dell'Ambiente, dall’ ormai non so più che ministero sia a questo punto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Infatti, la Regione Lombardia ha tentato di colmare il vuoto normativo che esiste nella differenza tra fanghi e gessi.

FABIO ROLFI - ASSESSORE ALL’AGRICOLTURA REGIONE LOMBARDIA Il Consiglio regionale ha votato una legge che equipara il tracciamento, i gessi ai fanghi, peraltro approvato a larga maggioranza, il governo poco dopo l’ha impugnata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma di questa situazione emergenziale ormai sono tutti al corrente, compreso il ministro

BERNARDO IOVENE Cioè qua abbiamo da Brescia a Pavia, passando per Lodi e per tutto il Nord Italia, insomma ormai sono anni che vengono sparse in agricoltura questi fanghi inquinati, un problema, cioè è un'emergenza.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Normalmente non dovrebbe nemmeno succedere che all'acqua di depurazione e al fango, dovuta alla depurazione dell'acqua civile, si uniscano fanghi che vengono dalla depurazione di acque di reflui industriali perché lì c'è di tutto…

BERNARDO IOVENE Ma la legge lo prevede però…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA È quello che a quanto pare è avvenuto visto che, dopo il decreto Genova, sono stati innalzati i limiti per poter mettere insieme diciamo componenti diversi. Ora, questo è un problema fondamentale che va stroncato e va fatto assolutamente il tracciamento.

BERNARDO IOVENE Però io le devo dire che la Regione Lombardia ci aveva tentato insomma no di fare questo tracciamento…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Sono al corrente, è stata bloccata perché ci sono delle prerogative, qui è più una cosa legale, alcune alcuni tipi di leggi possono essere fatti dallo Stato centrale altri, altri dalle Regioni.

BERNARDO IOVENE Anche a norma, insomma, noi queste sostanze ce le ritroviamo nei fanghi che ricadono sui terreni. Chi ci deve mettere mano?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Ci dovrà mettere mano per forza la normativa nazionale e il nostro ministero. Noi diciamo, in questi nove mesi da quando siamo a bordo, abbiamo fatto il bando per i nuovi impianti, il bando stiamo facendo per il tracciamento digitale, l'accordo con il nucleo della Forestale operativo ecologico dell'Arma dei Carabinieri e adesso secondo me questo è un ottimo momento per cominciare a lavorare su questo perché oggettivamente visto che viene sfruttato, ovviamente in maniera illegittima, va cambiato.

BERNARDO IOVENE Allora ministro prendiamo un impegno? Cosa…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Io, guardi… adesso noi ci guardiamo tutto quanto, più, più che metterci la faccia e venire a parlare con lei non posso, lo guardiamo senz'altro, va corretto…

BERNARDO IOVENE È un impegno che poi finisce là oppure insomma…

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA No no, qua non finisce niente. Come ovvio ho cercato di studiare tutto quello che c'era quando ci siamo sentiti e dobbiamo intervenire, è fuor di dubbio lo faremo lo faremo prestissimo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Concludiamo con un segnale che già dal 2004 ha dato la regione Emilia-Romagna che ha vietato con una delibera l'utilizzo di fanghi da depuratori industriali che non siano alimentari

IRENE PRIOLO ASSESSORE ALL’AMBIENTE REGIONE EMILIA ROMAGNA 24 È ora, di guardare a quelli che probabilmente oggi la normativa individua come marker possibili tumorali, per cui abbiamo una delibera che ha regolamentato appunto la disciplina per la gestione dei fanghi e una delibera che restringe il campo dell'utilizzo, ovvero del trattamento all'interno degli impianti, non consentendo da questo punto di vista il trattamento delle acque reflue da impianti industriali.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dal 2004 che l'Emilia-Romagna ha vietato lo sversamento di fanghi industriali sui loro campi agricoli però è inutile perché, essendo un prodotto, la merce circola e gli arrivano il 90 per cento dei gessi defecati sui propri campi dalla Lombardia. Ora è ovvio che se non si mette la tracciabilità questo tipo di prodotto, insomma, il caos non si ferma. Lo sa bene il ministro Cingolani che ha preso un impegno e siamo certi che lo porterà a termine prima della fine del suo mandato. Ora proprio il fatto di essere sotto, senza controllo ha consentito di smaltire sui campi il doppio dei fanghi che sarebbe stato consentito se fossero solamente fanghi di provenienza civile perché qui i gessi di defecazione sono stati sversati fino a 70 tonnellate per ogni ettaro di terreno. Ora va anche detto che la colpa, come ha ricordato il ministro Cingolani è anche del decreto Genova che ha sostanzialmente ad un certo punto innalzato la presenza dei limiti degli idrocarburi nei fanghi, limiti che erano stati abbassati invece da una sentenza della Cassazione nel 2017 che aveva dato però la stura a una serie di ricorsi da parte degli enti locali che hanno bloccato di fatto il sistema. Però se tu alzi il limite di una sostanza cancerogena, comunque, ne legittimi la presenza e allora che senso ha però porre un limite se però per legge questa sostanza non la vai a cercare nei fanghi perché per legge cerchi solo i metalli pesanti. Insomma, nelle maglie di questa legge abbiamo visto ci si infila a proprio agio i criminali. Abbiamo ascoltato con le nostre orecchie, per esempio, i manager delle Wte che ridevano mentre i cittadini erano disperati al pensiero che un bambino avesse mangiato una pannocchia che era stata coltivata su quei terreni che avevano contribuito ad avvelenare così come hanno avvelenato quei paesaggi incontaminati della provincia del novarese a Sizzano dove si produce un vino doc. Insomma, ridevano e sversavano 33 mila tir sui campi di 70 comuni del nord Italia. Insomma, bisognerà cessate questo far west, non c’è che augurarsi altro che la giustizia faccia il proprio corso e noi, da parte nostra, ci auguriamo anche che una di quelle pannocchie coltivate sui terreni che hanno avvelenati sia finita anche sulla loro tavola. Insomma, adesso passiamo invece a chi il problema delle deiezioni non se lo pone proprio.

A caval donato. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Max Brod

Perché Polizia e Carabinieri a cavallo lasciano le deiezioni dei loro animali a terra?

Il decoro delle vie cittadine e dei parchi pubblici è tutelato da norme finalizzate a non sporcare con le deiezioni animali questi luoghi, che sono di tutti. Oltre ad essere nocivi per il decoro, gli escrementi rappresentano un fattore di rischio per il virus del tetano e sono un ostacolo per disabili, runner e turisti. Ma allora perché Polizia e Carabinieri a cavallo lasciano le deiezioni dei loro animali a terra durante il pattugliamento? Il problema sembra diffuso nei corpi di polizia di mezzo mondo, anche se c’è chi ha cercato e trovato una soluzione: a Cannes (Francia), la Polizia Municipale ha ideato un sistema per evitare di lasciare sporco dopo il passaggio. Report ha raccolto le lamentele dei cittadini che devono convivere con questo inconveniente ed è andato a interpellare i diretti interessati: i responsabili nazionali dei reparti di Polizia e Carabinieri a cavallo.

“A CAVAL DONATO” di Max Brod immagini Chiara D'Ambros, Cristiano Forti montaggio: Riccardo Zoffoli Grafiche Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora voi direte, ma con tanti problemi che abbiamo perché vi è venuto in mente di trattare proprio questo? Insomma, è difficile darvi torto, però noi abbiamo voluto dare un piccolo contributo, il nostro, con il sorriso, a un piccolo problema. Gli escrementi di cavallo. Un animale che tanto amiamo, sono gli escrementi che vengono lasciati per strada, non certo per colpa del cavallo. Ora è incredibile, ma insomma sono spesso oggetto gli escrementi di diatribe anche molto accese tra gli amministratori locali, i cittadini, gli operatori turistici. E poi non è insomma cosa semplice da trattare per un cittadino, un turista, un disabile il fatto di trovarsi difronte a gestire un escremento di un cavallo. La soluzione eppure ci sarebbe, diamo anche un contributo alle nostre forze dell’ordine a cavallo. Il nostro Max Brod.

MAX BROD FUORI CAMPO Un pieno da 10 chili di alimento secco al giorno che vuol dire 25 chili di deiezioni quotidiane che su una popolazione di 370mila cavalli solo in Italia significa gestire 92mila quintali di deiezioni. Cosa voglia dire lo sanno bene a Montescaglioso: è il paese del cavallo. Eppure, appena arrivati, si trova un divieto: niente equini in centro.

VINCENZO ZITO – SINDACO DI MONTESCAGLIOSO (MT) Il cavallo può entrare se c’è una iniziativa o una manifestazione e comunque dopo specifica richiesta e autorizzazione da parte della struttura comunale.

MAX BROD FUORI CAMPO Con più di cento residenti possessori di un cavallo il sindaco è dovuto correre ai ripari per i troppi escrementi lasciati dopo il loro passaggio.

VINCENZO ZITO – SINDACO DI MONTESCAGLIOSO (MT) Le deiezioni devono essere comunque pulite non possono essere lasciate per strada perché quelle creano dei problemi seri di carattere igienico-sanitario.

MAX BROD FUORI CAMPO Anche a Scarlino, undici chilometri di coste e cale meravigliose frequentate da chi fa trekking e chi va in sella al cavallo, gli attriti sono nati a causa delle deiezioni.

 FRANCESCA TRAVISON – SINDACA DI SCARLINO (GR) Abbiamo fatto un’ordinanza sindacale per cui le deiezioni vengono raccolte altrimenti ci sono delle multe piuttosto salate.

MAX BROD FUORI CAMPO Stimolati dalle multe, gli operatori turistici della zona per mantenere i sentieri puliti, hanno cambiato le loro abitudini.

MARIO PAOLI – OPERATORE TURISTICO Noi ci siamo attrezzati che dietro la nostra carovana con i cavalli abbiamo sempre chi raccoglie quello che sporca il cavallo.

MAX BROD C’è chi potrebbe dire vabbè siamo in un sentiero, natura per natura, non c’è bisogno di pulire.

MARIO PAOLI - OPERATORE TURISTICO Assolutamente. Passa altra gente a piedi, passa gente in bicicletta.

ARIANNA CECCHINI – GUIDA EQUESTRE Dato che siamo appena partiti con il nostro gruppo, i cavalli ovviamente fanno i propri bisogni. Inizio a pulire la strada.

MAX BROD FUORI CAMPO Pulire non è solo una questione estetica o per evitare disagi. Tutela anche da rischi sanitari.

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO Noi leghiamo diciamo la vita del cavallo al rischio del tetano.

MAX BROD È per questo che le deiezioni rappresentano un fattore di rischio?

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO Certamente lo rappresentano, il tetano lo si acquisisce ferendosi e ci si infetta con le spore del Clostridium tetani microbo che è eliminato dalle feci, dalle deiezioni di numerosi animali. I cavalli son quelli meglio studiati.

MAX BROD Chi però ha fatto un vaccino tendenzialmente può stare tranquillo?

GIOVANNI DI PERRI – DIRETTORE MALATTIE INFETTIVE UNIVERSITÀ DI TORINO No, il vaccino ci toglie ogni dubbio.

MAX BROD FUORI CAMPO Cannes, Costa Azzurra. Le forze dell’ordine arrivano sulla spiaggia a cavallo. Passeggiano tra i bagnanti. Tuttavia, non lasciano tracce maleodoranti.

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES Il sindaco ci ha chiesto di studiare un sistema per raccogliere le deiezioni. Ci siamo messi al lavoro con il maniscalco, abbiamo preso le misure e creato dei prototipi. Li abbiamo modificati fino ad arrivare a un risultato soddisfacente. Quando il sacco è attaccato sta dietro al cavallo, queste cinghie tengono il sacco durante la deiezione e questo è il sistema di evacuazione.

MAX BROD FUORI CAMPO Il gesto è semplice: si scende un attimo, si svuota la sacca e si continua il pattugliamento. Quello che appare un provvedimento per la tutela della salute pubblica, in realtà risolve anche una contraddizione.

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES Non possiamo permetterci di lasciare sporco per terra e allo stesso tempo verbalizzare chi lascia per strada le deiezioni canine.

MAX BROD La sacca è d’intralcio se dovete intervenire o essere operativi?

SEBASTIÉN GAUDY - COMANDANTE POLIZIA MUNICIPALE A CAVALLO CANNES No, abbiamo arrestato delle persone con la sacca dietro, siamo partiti al galoppo.

MAX BROD FUORI CAMPO A parte Cannes, nel resto del mondo il problema rimane. In America il video di una ragazza che si è messa a raccogliere le deiezioni lasciate dai poliziotti a cavallo è diventato virale. In Australia, addirittura, c’è chi si è lamentato direttamente con l’ex premier.

CITTADINO AUSTRALIANO Ferma i poliziotti a cavallo qui, lasciano gli escrementi sulla passeggiata, per favore Mike.

MAX BROD FUORI CAMPO In Italia, Polizia e Carabinieri a cavallo pattugliano i nostri parchi. Ma dopo il loro passaggio non mancano le lamentele.

LORENZO GRASSI - OSSERVATORIO SHERWOOD VILLA ADA (RM) Noi abbiamo avuto molte segnalazioni da parte dei frequentatori del parco. Abbiamo biciclette, disabili e anziani che finiscono comunque per calpestare questo tipo di problema.

MAX BROD FUORI CAMPO E infatti a Villa Borghese, tempio di bellezza e natura a due passi dal centro di Roma, ecco cosa succede: il cavallo della Polizia sporca per terra e si allontana senza che nessuno pulisca.

MAX BROD Quando il cavallo lascia la deiezione vostra, siete voi che dovete pulire?

CARABINIERE A CAVALLO No, nel parco non c’è nessuno che pulisce.

POLIZIOTTO A CAVALLO Funziona così, perché questione di un’ora che si sgretola.

MAX BROD FUORI CAMPO Altro che un’ora: una volta a terra, il regalino rimane lì per giorni, e turisti e runner sono costretti allo slalom. Nel centro delle città negozianti e albergatori hanno optato per il fai da te.

PORTIERE Capita, loro la lasciano e se ne vanno.

MAX BROD E che avete fatto? PORTIERE Abbiamo pulito, che dobbiamo fa?

MAX BROD FUORI CAMPO Anche le forze dell’ordine sono consapevoli del problema.

VIGILE URBANO Eh, lo so, la deiezione sui Fori pure per noi infatti è scabrosa, sui Fori e pure su via del Corso.

MAX BROD FUORI CAMPO Eppure, i carabinieri a cavallo conoscono perfettamente il disagio provocato dalle deiezioni, tanto da aver modificato i loro percorsi, senza però trovare una soluzione definitiva.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Non stiamo facendo più le pattuglie nelle aree cittadine proprio per questo motivo, perché ci siamo resi conto di questa sensibilità del cittadino.

MAX BROD Lo stesso cittadino nei parchi vive la stessa cosa.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Il degrado della deiezione sull’asfalto è più lungo rispetto a quello che avviene su un prato, su un’area verde.

MAX BROD Molti viali dei parchi, anche a Roma, sono asfaltati.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Assolutamente.

MAX BROD FUORI CAMPO In tema di deiezioni, però, se a lasciarle sono i cavalli dei vetturini, scatta la multa. Per questo sono stati costretti a trovare una soluzione.

ANGELO SED – PRESIDENTE NUOVA ASSOCIAZIONE VETTURINI ROMANI Ci siamo costruiti una sorta di contenitore dove vanno a finire le deiezioni del cavallo. Poi si toglie la busta, si getta e si cambia proprio per non sporcare.

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Abbiamo sperimentato qui da noi all’interno una sacca posteriore per i cavalli stile quella che utilizzano le botticelle però non l’abbiamo ritenuta percorribile perché durante il servizio di pattuglia la sacca si riempirebbe per le dimensioni che ha e non avrebbe, quindi, il carabiniere modo di cambiarla.

MAX BROD Cosa ci dobbiamo aspettare, che tutto rimanga com’è?

LEONARDO COLASUONNO – COMANDANTE IV REGGIMENTO CARABINIERI A CAVALLO Io spero mi auguro ripeto che anche il cittadino capisca che dovrà schivare una fianda. È vero, la dovrà schivare, però cosa gli permette di fare quella fianda? La presenza, appunto, forze di polizia che vigilano.

MAX BROD FUORI CAMPO Le forze dell’ordine a cavallo svolgono un compito fondamentale di presidio del territorio a cui non possiamo rinunciare, quello che non si capisce è come mai non si siano organizzate per lasciarlo pulito.

ROBERTO GARBARI - SOSTITUTO COMMISSARIO RESPONSABILE SEZIONE IPPICA L’operatore di Polizia a cavallo è tecnicamente impossibilitato a scendere e raccogliere chiaramente l’escremento.

MAX BROD FUORI CAMPO Certamente è impensabile che un poliziotto possa scendere da cavallo per pulire per terra. Tuttavia, ci sarebbero delle soluzioni possibili. Un buon esempio viene dal comune di Firenze, dove la Polizia Municipale a cavallo fa così.

AGENTE Centrale, una segnalazione per la spazzatrice.

SILVIA BENCINI - COMMISSARIA COORDINATRICE VIGILI URBANI A CAVALLO (FI) Noi abbiamo fatto un accordo con una società per la rimozione dei rifiuti: la pattuglia chiama la centrale operativa, di solito in tempi dieci minuti, un quarto d’ora intervengono.

MAX BROD Mi permetto di farle vedere un paio di soluzioni che abbiamo trovato in giro. Queste sono la Polizia a cavallo di Cannes con la sacca e questa è Vigili di Firenze che chiamano e arriva la spazzatrice.

ROBERTO GARBARI - SOSTITUTO COMMISSARIO RESPONSABILE SEZIONE IPPICA Adotteremo qualsiasi misura e ci scusiamo comunque anche con i cittadini di questo disagio. Siamo a disposizione di ogni tipo di suggerimento.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbè ci hanno preso sul serio. Intanto li ringraziamo per la disponibilità. Poi la bella notizia è che di soluzioni insomma ci sono, le hanno trovate i nostri cugini francesi e anche dall’amministrazione comunale di Firenze viene un esempio virtuoso. La seconda cosa importante è che comunque toglie da un imbarazzo una soluzione perché non puoi con una mano sinistra lasciare un territorio sporco di deiezioni e dall’altra pensare di multare chi lascia invece le deiezioni sullo stesso territorio. E poi è importante che i reparti a cavallo della polizia e dei carabinieri ci siano perché garantiscono la nostra sicurezza. Inoltre, anche per il significato che ha il corpo a cavallo perché non attacca, non offende, viene utilizzato in caso di necessità laddove c’è da contenere, perché agisce in base ad un principio della materia: cioè uno spazio occupato da un corpo, non può essere occupato da un altro corpo. Quindi niente violenza. Niente uso della forza.

·        La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

I tribunali “segreti” che consentono ai colossi energetici di denunciare i Governi. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 19 Novembre 2022

Esiste un sistema giudiziario segreto che consente a chi investe in combustibili fossili di citare in giudizio i Governi qualora questi adottino politiche che ne scoraggiano l’utilizzo. Il problema è che, come riferisce il Guardian, tale organizzazione è stata accusata di parzialità istituzionale, problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Tutto questo è possibile per via dell’esistenza del Trattato sulla Carta dell’Energia (ECT), un patto firmato da circa 40 Paesi (molti dei quali però iniziano ad allontanarsene, come la Germania), pensato nello specifico per proteggere gli investimenti nei combustibili fossili grazie ad uno strano e contestato meccanismo. In altre parole: le aziende che ritengono di aver subito un danno dallo Stato per via dalle politiche energetiche e climatiche adottate, possono trascinarlo in tribunale e costringerlo ad un risarcimento miliardario. Tale meccanismo, nato negli anni ’90, fu pensato e istituito per tutelare gli investitori dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Fondamentalmente per proteggere le imprese energetiche che operavano in quei territori dall’espropriazione e dalle nuove regolamentazioni.

A gestire le vicende che ruotano attorno all’ECT ci sono dei “tribunali”, che negli anni e nella maggior parte dei casi hanno dato alle società energetiche la possibilità di chiedere un risarcimento ai Governi. Di fatto le aziende petrolifere, del gas e del carbone di tutto il mondo hanno ricevuto più di 100 miliardi di dollari dai tribunali ECT, probabilmente perché questi ultimi, come riferisce il Guardian e come abbiamo detto a inizio del pezzo, non sono imparziali e hanno problemi di autoregolamentazione e conflitti di interessi.

Il funzionamento dei tribunali dell’ECT si basa su molti sistemi, diversi però da quelli giuridici tradizionali (dove la magistratura dovrebbe essere nominata pubblicamente e in maniera indipendente), e le regole prese come punto di riferimento sono quelle formulate dal Centro internazionale per la risoluzione delle controversie internazionali (ICSID) della Banca mondiale.

Per ogni caso, si legge sul Guardian, si sceglie un collegio di tre ‘arbitri’: “uno nominato dallo Stato, uno dall’investitore e un terzo che funge da presidente ed è selezionato dagli altri due arbitri”. La scelta di uno dei componenti può essere contestata se una parte non è d’accordo, ma non è garantito che alla fine ci sia un cambio. Una volta stabilito il “trio”, si procede in questo modo. Il caso viene presentato e discusso davanti ad un gruppo di avvocati, che rappresentano rispettivamente ognuna delle due parti. Il tutto avviene a porte chiuse, e non c’è obbligo di divulgare al pubblico l’esito della controversia.

L’intoppo però sta proprio nel meccanismo di funzionamento interno: un avvocato, ad esempio, può assumere un certo ruolo in un caso (consulente per un investitore, per citarne uno) ed essere scelto come presidente in un altro. Tuttavia quest’ultima figura dovrebbe essere al contrario in grado di giudicare in maniera indipendente. In base ai casi giudicati fino ad ora dall’ECT, in un numero significativo di questi, “un individuo che aveva precedentemente agito in qualità di arbitro nominato da un investitore, in un altro caso simile è stato nominato per agire come difensore per un’altra parte”. Visto che tali operazioni si svolgono in segretezza, è spesso complicato stabilire che gli arbitri, ad esempio, non abbiano legami con gli avvocati coinvolti nel processo o non siano essi stessi degli avvocati. Anzi, il silenzio che avvolge le vicende può essere sfruttato per indirizzare i processi in una precisa direzione, anche se il regolamento dice che gli arbitri dovrebbero essere “persone di alto carattere morale e riconosciuta competenza nei campi del diritto, del commercio, dell’industria o della finanza, alle quali si può fare affidamento per esercitare un giudizio indipendente”.

Ed ecco l’ennesimo inghippo: le regole sono autogestite dagli arbitri e va a finire che «l’obiettivo principale dell’ECT è promuovere e proteggere gli investimenti in combustibili fossili, che non è affatto l’obiettivo dell’accordo di Parigi», come ha detto Patrice Dreiski, ex dirigente dell’ECT. Infatti negli ultimi anni la maggior parte delle controversie ha coinvolto gli Stati dell’UE per via della loro intenzioni a spendere denaro per incentivare le rinnovabili e ridurre i combustibili fossili. Per fare qualche esempio, nel 2021 le società energetiche tedesche RWE e UNIPER si sono appellate all’ECT ​​per citare in giudizio i Paesi Bassi, chiedendo un risarcimento di diversi miliardi di euro per la politica di eliminazione dell’energia a carbone entro il 2030 messa in atto dal Paese. Un episodio simile è capitato anche ai danni dell’Italia. Nel 2017 la compagnia petrolifera britannica Rockhopper ha citato in giudizio il nostro Governo – che si è ritirato dall’ETC nel 2016 – per aver vietato le trivellazioni petrolifere sulla costa adriatica. Nell’agosto del 2022 il tribunale ha stabilito che l’Italia dovrà pagare, per questo, 190 milioni di euro. Di esempi simili ce ne sono moltissimi, soprattutto perché i Paesi stanno cercando di ridurre le proprie emissioni per rispettare l’accordo di Parigi del 2015 sul clima.

Per questo motivo è giunta da Bruxelles la proposta di eliminare gradualmente l’ECT ​​all’interno dei confini dell’UE: sono gli stessi membri ormai a non mostrare particolare entusiasmo per il meccanismo. Francia e Paesi Bassi, ad esempio, hanno annunciato di volerlo abbandonare a breve perché non più in linea con gli obiettivi climatici. Potrebbero optare per la stessa scelta molti altri Stati, soprattutto perché ad oggi, gli investitori in combustibili hanno vinto il 64% dei casi ECT conclusi. [di Gloria Ferrari]

Francesco Bechis per “il Messaggero” il 21 settembre 2022.

È un cortocircuito verde. Mentre a Bruxelles gli Stati Ue chiedono alla Commissione di allentare il taglio sui consumi di elettricità, in Italia la transizione verso le energie rinnovabili è in stallo. Da una parte i privati che vogliono investire nel settore green crescono a vista d'occhio. Dall'altra, la quasi totalità dei nuovi progetti legati al Pnrr - presentati al Mite con un percorso accelerato introdotto dal governo Draghi - restano in attesa di un via libera.

Si tratta di quasi 20 Gigawatt (18,67). Poco meno di un terzo di quei 70 Gigawatt - circa 8 l'anno - che secondo il governo dovrebbero essere installati nei prossimi 9 anni per centrare i traguardi della Conferenza di Parigi sul Clima. Il sito del ministero guidato da Roberto Cingolani parla chiaro. Sono 508 i progetti di energia rinnovabile in lista d'attesa.

Di questi, solo uno ha ottenuto il semaforo verde. […]

L'iter è un percorso a ostacoli. Accertata la regolarità del progetto la palla passa alla commissione Pniec-Pnrr. Cioè l'organo di 40 commissari entrato in carica nel gennaio scorso con l'obiettivo di creare un canale preferenziale per i progetti delle rinnovabili legati ai fondi europei. La commissione ha messo il turbo ad aprile, quando sono stati nominati tutti i commissari. Ad oggi ha emesso pareri favorevoli per 2,274 Gigawatt complessivi di energia rinnovabile, con una percentuale che sfiora il 100% di sì. Ma non basta. Ottenuto il parere serve infatti il via libera del Mibact insieme al Mite. Ed è qui che si arena una parte dei progetti.

Energia vs paesaggio, difficile uscirne. Non a caso la settimana scorsa Cingolani ha tirato una stoccata alle soprintendenze culturali: «Se vince sempre il paesaggio bisogna dire ai cittadini che rispetto ai costi dell'energia ci sono altre priorità». Quando tra dicasteri non si trova la quadra, il dossier finisce sul tavolo di Palazzo Chigi, con il Cdm a vestire i panni dell'arbitro. E può succedere che qui arrivi la luce verde, come lo scorso 28 luglio per 11 impianti eolici. Ma la questione va risolta a monte.

Certo, il picco di progetti presentati non è facile da gestire. La crisi energetica e i fondi del Pnrr hanno fatto delle rinnovabili un'occasione ghiotta per tanti privati. Fatto sta che lo stop prosegue. E presenta un conto diverso a seconda delle regioni. Al Sud, dove sole e vento sono più generosi e il mercato cresce in fretta, è salatissimo. In testa c'è la Puglia, con 168 impianti in attesa di via libera, segue la Basilicata con 98 progetti fermi. […]

Clima, il pressing della diplomazia italiana per frenare la svolta verde. “Mai vista una cosa simile”. Alla vigilia del voto al Parlamento europeo sul pacchetto ambiente, la Rappresentanza ha tallonato come non mai gli eurodeputati connazionali per spingerli sulle posizioni del governo: incontri, email, lista di emendamenti. La denuncia dell’onorevole Evi (Verdi): “La prima volta che subiamo pressioni del genere. Però alla fine ha vinto il coraggio”. Carlo Tecce su L'Espresso il 21 Giugno 2022.

Come mai successo, la diplomazia italiana a Bruxelles ha tallonato i 76 eurodeputati connazionali alla vigilia del voto il nove giugno al Parlamento Europeo sul pacchetto per l’ambiente denominato «Fit for 55». Soprattutto si è mobilitata per allentare le misure contro l’industria di auto e moto inquinanti.

Nessuno batte i governi europei con le buone intenzioni, quando tocca ai fatti, però, sono molto più titubanti. Il percorso è ancora lungo, ma il passaggio in seduta plenaria era fondamentale.

Al solito la rappresentanza italiana presso l’Unione europea, guidata dall’ambasciatore Pietro Benassi, già consigliere diplomatico di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi, ha inviato agli eurodeputati la posizione del governo sul tema. Fin qui niente di anomalo.

Per esempio, Roma era contraria al blocco totale entro il 2035 della vendita di autoveicoli con motore termico, cioè a diesel, benzina, metano, ibride, molto propensa all’utilizzo dei carburanti sintetici e alla deroga per le auto e moto di lusso (Ferrari, Maserati, Ducati etc) che non superano le 10.000 immatricolazioni all’anno. Tutto ciò la diplomazia italiana l’ha spiegato agli eurodeputati nelle apposite schede col consueto italiano misto inglese: «Sosteniamo soluzioni verso la mobilità a basse e zero emissioni ambiziose ed economicamente sostenibili, che prevedano un impegno credibile a ridurre le emissioni, anche senza prospettare per il 2035 un ‘phasing-out’ dei veicoli con motore termico. Possono, in tal senso, comprendere target inferiori al 100% per quell’anno (come, ad esempio, del 90%)».

In quest’occasione, però, la rappresentanza italiana si è spinta oltre. Ha organizzato un irrituale incontro con gli assistenti dei parlamentari e, soprattutto, ha inviato poi una email con uno spiccio elenco di emendamenti, una serie di numeri, e la semplice distinzioni fra «in linea» e «non in linea». Come quei foglietti lisi che i parlamentari di Camera e Senato si passano di mano in mano a dicembre quando c’è da licenziare la legge di Bilancio. Quantomeno sgradevole. 

La rappresentanza a Bruxelles deve aggiornare gli europarlamentari, ma non può influenzarne le scelte. Deve illustrare le idee del governo, non fare una lista di cose da avallare o respingere. Dice la eurodeputata al secondo mandato Eleonora Evi, portavoce di Europa Verde: «In otto anni non mi era mai capitato che la diplomazia italiana fosse così pressante nell’indicarci la linea del governo. Peraltro questo tipo di forte pressione è stata esercitata per salvare la produzione di auto inquinanti. Non ci sono riusciti perché il Parlamento europeo ha deciso per una svolta coraggiosa, una svolta che il governo ha prima abbracciato con i ministri Cingolani, Giovannini e Giorgetti e infine velocemente abbandonato. Ci vorrà ancora tempo per varare le nuove regole, noi Verdi saremo a vigilare affinché non ci siano trucchi o compromessi al ribasso».

IL NEGAZIONISMO ORGANIZZATO. Inganni, falsi studi, lobbying, così la Camera di Commercio degli Stati Uniti lotta contro l’ambiente. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 25 dicembre 2021.

Negazionismo aggressivo negli anni Novanta, argomentazioni fallaci negli anni Duemila, studi ingannevoli sull’accordo di Parigi.

Cambiando strategia, ma rimanendo fedele ai suoi finanziatori la più vecchia e potente associazione commerciale degli Stati Uniti d’America ha scientificamente rallentato la transizione a un mondo sostenibile.

Ora però una inchiesta del Congresso ricostruisce passo passo tutta la strategia di questo negazionismo ricco e organizzato.

Chevron inganna il pubblico con il greenwashing ma continua a inquinare. STELLA LEVANTESI su Il Domani il 7 Gennaio 2022.

In passato, Chevron ha lavorato per screditare la scienza del clima e diffondere il messaggio negazionista.

Oggi l’industria petrolifera accetta pubblicamente l’esistenza del cambiamento climatico e, in parte, la responsabilità antropica nella crisi climatica ma continua a fare pressione “dietro le quinte” per ostacolare le politiche climatiche e ambientali.

Solo negli ultimi quattro anni, Chevron ha speso oltre 30 milioni di dollari in lobbying, secondo i dati di OpenSecrets.

STELLA LEVANTESI. Giornalista e fotografa. Collabora con testate italiane e internazionali e i suoi lavori sono stati pubblicati, tra l’altro, su The New Republic, il manifesto, Wired, Internazionale, LifeGate e Ossigeno. Le sue principali aree di competenza sono il cambiamento climatico, il negazionismo del cambiamento climatico, la conservazione, la biodiversità e altre questioni ambientali. Ha scritto I bugiardi del clima. Potere, politica, psicologia di chi nega la crisi del secolo (Laterza 2021).

La sfida del greenwashing: quando la sostenibilità è solo di facciata. Francesca Bernasconi il 30 Dicembre 2021 su Il Giornale. ​Che cos’è il greenwashing e come sconfiggerlo? La sfida per un futuro realmente sostenibile. La lotta ai cambiamenti climatici, l’energia rinnovabile e le azioni sostenibili accompagnano ormai la vita di tutti i giorni. Pubblicità, slogan e motti aziendali parlano di progetti green, prodotti a zero impatto ambientale e produzioni con ridotte emissioni di CO2. Ma non è tutto oro ciò che luccica. Alcune aziende, infatti, usano la sostenibilità solamente come facciata, per nascondere le loro reali azioni. È il fenomeno del greenwashing, che rappresenta la nuova sfida del futuro.

Che cos’è il greenwashing?

Il termine deriva dall’unione delle parole inglesi green, verde, e washing, lavare, che richiamano il verbo whitewash, imbiancare. Quest’ultimo, però, assume anche il significato di coprire, quindi nascondere. Il termine venne introdotto dall’ambientalista statunitense Jay Westerveld, che nel 1986 lo utilizzò per descrivere la pratica delle catene alberghiere, che facevano leva su problematiche ambientali per un risparmio economico sul lavaggio degli asciugamani dei clienti. Il greenwashing consiste nella pratica di creare l’impressione falsa che un prodotto o un servizio venga effettuato nel rispetto dell’ambiente e tenendo conto dei principi di sostenibilità, quando in realtà provoca danni ambientali. Secondo gli Orientamenti per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, se le “dichiarazioni ambientali" o "dichiarazioni verdi" sono false, allora si può parlare di greenwashing, “ovvero marketing ambientale fuorviante”. Questo avviene quando le aziende nascondono i loro comportamenti anti-ambientali sotto slogan, dichiarazioni e dati di sostenibilità. Una sostenibilità di facciata, che serve solamente a far credere di mantenere un profilo green, portando avanti attività con un impatto ambientale più dannoso.

Come riconoscere un’azienda che fa greenwashing

Ma come capire se un’azienda che porta avanti il marchio della sostenibilità sia realmente impegnata nella lotta ambientale o se si tratti solo di una messa in scena? Ci sono delle caratteristiche da tenere in considerazione, che possono mostrare l’uso o meno del greenwashing da parte di un’azienda. Solitamente, una sostenibilità di facciata è accompagnata dai seguenti elementi:

Uso di termini vaghi e affermazioni non verificabili;

Uso di segnali visivi fuorvianti, come simboli e colori che evocano la tutela dell’ambiente;

Narrazione e uso di parole e termini green: utilizzare un linguaggio sostenibile induce i clienti a pensare che l’azienda sia in prima linea nella lotta al cambiamento climatico.

In genere, la presenza di queste tre caratteristiche nella comunicazione indica l’utilizzo del greenwashong da parte di un’azienda, che per mascherare i propri consumi si nasconde dietro una facciata di sostenibilità, lotta alle emissioni e al cambiamento climatico.

Greenwashing: una sfida per il futuro

Oggi, la lotta al greenwashing rappresenta una sfida per il futuro. Per contrastare questa pratica, l’Unione Europea ha redatto il Sustainable Finance Disclosure Regulation (SFDR), entrato in vigore nel marzo 2021, con lo scopo di garantire una maggior trasparenza nell’impegno alla sostenibilità. Uno dei principali obiettivi del documento dell'Ue è proprio la lotta al greenwashing, tanto che in alcuni articoli del SFDR viene sottolineata la necessità per le aziende di fornire informazioni sull'integrazione dei rischi per la sostenibilità, sulle considerazioni degli impatti negativi sull'ambiente e sulla promozione di fattori ambientali e di investimenti sostenibili. Anche a detta del segretario generale del Forum Finanza Sostenibile, Francesco Bicciato, contrastare la pratica del greenwashing rientra tra i principali obiettivi futuri: "Con entusiasmo raccogliamo le sfide del futuro: la trasparenza, la ricerca, la divulgazione, il contributo per una transizione giusta e la promozione del dialogo costruttivo con le istituzioni e gli attori economici pubblici e privati", ha affermato durante l’evento conclusivo della Settimana SRI 2021. Fondamentale per il futuro è, infatti, la lotta al greenwashing e la promozione di attività e investimenti sostenibili, per fare in modo che la cura ambientale e la lotta al cambiamento climatico diventino un punto fermo nelle attività aziendali.

Francesca Bernasconi. Nata nel 1991 a Varese, vivo tra il Varesotto e Rozzano. Mi sono laureata in lettere moderne e in scienze della comunicazione. Arrivata al Giornale.it nel 2018, mi occupo soprattutto di cronaca, ma mi interesso di un po' di tutto: da politica e esteri, a tecnologia e scienza. Scrivo ascoltando Vasco Rossi.

·        La Risorsa dei Rifiuti.

«Agire per il clima»: Roberto Saviano spiega l’origine della parola “Terra dei fuochi” (e i reati collegati). Valeria Sforzini su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.

Il termine “Terra dei fuochi” è arrivato al grande pubblico tramite il suo libro «Gomorra». Ma Roberto Saviano non se l’era inventato. Nel 2004, mentre faceva le sue ricerche, è incappato in questo nome scritto su un documento che fino ad allora era passato inosservato. A definire in questo modo la terra tra Caserta e Napoli era stato un dirigente di Legambiente. L’avevano definita in questo modo perché, proprio come i viaggiatori che costeggiavano in barca di notte il territorio di Cile e Argentina, vedendo i fuochi accesi dalle popolazioni indigene, avevano rinominato quelle zone “Terra del fuoco” , allo stesso modo, «Chi proseguiva nell’asse mediano Caserta Napoli di notte vedeva questi roghi accesi» e lo aveva soprannominato “terra dei fuochi”. È da questo nome che Roberto Saviano è partito a raccontare il legame stretto tra criminalità e ambiente, nel suo intervento nel corso della maratona «Agire per il clima», organizzata da Corriere della Sera e Pianeta 2030 in occasione della Giornata Mondiale dell’ambiente.

Il giornalista e scrittore, oggi in libreria con «Solo è il coraggio», è intervenuto all’evento di Corriere e Pianeta 2030, intervistato da Micol Sarfatti: «Dopo tanti anni la a situazione non è cambiata. Tanta attenzione e un incredibile investimento emotivo non hanno mutato molto le cose». Conclusa la diretta streaming della seconda giornata della maratona di talk dedicati al tema «Agire per il clima»

«Sembra strano», ha detto Saviano , intervistato da Micol Sarfatti nel corso del panel “Le parole del clima”, gestito dalla redazione di “Sette”. «ma la situazione non è cambiata. Tanta attenzione e un incredibile investimento emotivo non hanno cambiato molto le cose». Saviano, che oggi è in libreria con “Solo è il coraggio” edito da Bompiani. «C’è stato un punto di confusione», continua. «A un certo punto le persone confondevano terra dei fuochi con l’emergenza della monnezza a Napoli. Ma è stato un cortocircuito virtuoso perché l’ermegenza napoletana ha attirato l’attenzione sulla terra dei fuochi». Solo che nel primo caso, nella terra dei Fuochi, a emettere il fumo sono rifiuti tossici “intombati”, ovvero sotterrati, o rifiuti speciali bruciati. «A Napoli sono rifiuti normali», spiega. «Oggi la situazione non si è risolta. Semplicemente, quella monnezza viene spedita in Olanda». Ma il problema non riguarda solo la Campania e il meridione. «Oggi se ne parla di più e si è capito che non si trattava solo di spazzatura del Sud, ma che lì arriva tutta la spazzatura del Nord Italia, ma anche della Germania, per esempio, e si è distrutta gran parte della eccellenza della campagna casertana attraverso un meccanismo perverso».

Meccanismo malato

Un meccanismo che ha coinvolto, loro malgrado, contadini e agricoltori locali. E a pagarne è stata la ricchezza della terra. «Dovete immaginare che la terra da cui provengo aveva pesche meravigliose, albicocche, noci pesche e mele annurche, mandorle, ciliegie e tutta la filiera della mozzarella», racconta Saviano. «Ora la domanda è: come hanno fatto contadini e proprietari terrieri che amano la loro terra a venderla o affittarla per gli sversamenti di qualsiasi tipo?». Tra alberi da frutto e allevamenti di du bufale, anche toner, vernici, cataste e cataste di materiali di smaltimento di ospedali: «Tutti cumulati, nascosti, “intombati”». Perché vendere la terra ai camorristi ? «La risposta è che loro vendevano per salvare la terra», spiega. «Siccome i supermercati ormai compravano i limoni e e ciliegie andaluse, le mele israeliane, iniziavano a prendere frutta a un prezzo minore. I proprietari terrieri casertani per essere competitivi dovevano abbassare i loro prezzi e allora cosa facevano. Un pezzo lo davano ai rifiuti tossici, il resto lo tenevano e mantenevano l’altra parte dell’attività. Ecco perchè qui è stato lo stato a mancare, che avrebbe dovuto intervenire con grande muscolarità, aiutare l’impresa e proteggere il territorio».

Nuove generazioni

Le nuove generazioni sono quelle che possono darci più speranza? «Le nuove generazioni mi ispirano fiducia perchè attraverso la loro lotta all’ambiente stanno mettendo in discussione il sistema capitalistico attuale», commenta. «Hanno una visione nuova, radicalmente diversa dalla mia generazione, che era ancora molto ancorata al passato. Io facevo le manifestazioni con gli slogan degli anni ‘70». Se dovesse passare un insegnamento ai più giovani, sarebbe quello di “seguire i soldi” e di non pensare che sia sufficiente una soluzione dall’alto per risolvere i problemi. «Non è sufficiente secondo me ottenere una legge», aggiunge Saviano. «Vedere come i governi taglino le emissioni o si approccino al consumo della plastica. Serve anche capire nella declinazione quotidiana se questo avvenga davvero o se – come vedo da decenni – si faccia finta. Guardate i soldi come si stanno muovendo, non fidatevi di chi parla solo di verde, di mondo nuovo. come le economie si stanno muovendo».

Tutti le vogliono. Cosa sono le terre rare, e perché la loro importanza è in crescita? Enrico Pitzianti su L'Inkiesta il 18 Febbraio 2022

Essenziali per la transizione ecologica, oggi se ne parla moltissimo anche per le tecnologie di ultima generazione. Anche se, per la cronaca, a dirla tutta non sono né “terre”, né tantomeno “rare”.  

Di terre rare si parla sempre più spesso. Si dice che sono essenziali per la tecnologia e che le grandi potenze se le contendono, ed entrambe le cose sono vere. Ma c’è da fare molta attenzione agli equivoci: il fatto che oggi se ne parli moltissimo e che servano per le tecnologie di ultima generazione non vuol dire che siano “nuove”. E per di più, anche se si chiamano “terre rare”, non sono né “rare” né tantomeno delle “terre”. 

Partiamo dall’ultimo punto. Le terre rare sono dei metalli, per la precisione sono 17 elementi chimici: lo Scandio, l’Ittrio e altri quindici metalli, tutti e quindici “lantanoidi”. I nomi sono: Lantanio, Cerio, Praseodimio, Neodimio, Promezio, Samario, Europio, Gadolinio, Terbio, Disprosio, Olmio, Erbio, Tulio, Itterbio e Lutezio. 

Veniamo alla rarità. Può sembrarci strano ma le terre rare non sono rare. Come ricorda Stanley Mertzman, professore di geoscienze al Franklin & Marshall College, «anche la terra rara più rara, il Tulio, è 125 volte più comune dell’oro. E la terra rara meno rara, il Cerio, è 15mila volte più abbondante dell’oro». L’ultimo equivoco da evitare è credere che siano “nuove”. La prima terra rara fu scoperta nel lontano 1787 da un tenente dell’esercito svedese, Carl Axel Arrhenius. E anche le restanti sedici le conosciamo da almeno un secolo, con le ultime scoperte tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento.

Tolte di mezzo le definizioni e i possibili equivoci rimane la domanda: perché le terre rare sono così importanti oggi? E davvero la loro importanza è in ascesa? La risposta alla prima domanda è che questi metalli sono essenziali per produrre alcune delle tecnologie più importanti per i settori strategici. E non solo per i settori importanti al giorno d’oggi, ma soprattutto per quelli che lo saranno nel prossimo futuro, come la componentistica per pannelli fotovoltaici, per la tecnologia militare e per quella aerospaziale. Non solo: le terre rare sono indispensabili per produrre le batterie ricaricabili, di conseguenza per produrre gli smartphone, i computer, i tablet, le auto elettriche e ibride, i monopattini elettrici e così via. Servono anche per produrre gli altri dispositivi elettronici, compresi quelli utili in campo medico, gli schermi Lcd, i televisori e anche molta della strumentazione utile negli impianti petrolchimici. 

Altra domanda: perché mai le grandi potenze “si contendono” le terre rare, se non sono davvero rare? Le terre rare sono al centro della competizione economica, e quindi anche politica e militare, tra Stati Uniti e Cina perché oltre l’80% vengono estratte proprio in Cina (e, in misura minore, in Vietnam). Il governo di Pechino, consapevole della loro importanza per l’attuale sviluppo tecnologico, e di conseguenza economico e militare, ne controlla il flusso a proprio vantaggio. Tanto che nel 2012, ormai un decennio fa, l’Unione europea, il Giappone e gli Stati Uniti hanno fatto richiesta di sanzioni contro la Cina, chiedendo l’apertura di un procedimento all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). 

Un altro elemento da tenere in considerazione è che il termine “rare” viene dal fatto che si tratta di metalli dispersi sulla Terra in basse concentrazioni, oltre che difficili da identificare, da estrarre e da trasformare. Da queste difficoltà, insieme alla loro importanza per i settori strategici, viene la corsa tra Paesi per accaparrarsi le risorse disponibili. 

Se possiamo ipotizzare che l’importanza delle terre rare sia in costante ascesa è grazie all’andamento del loro valore sul mercato. Naturalmente, in generale, la forte domanda di questi metalli ha un diretto effetto sui prezzi. Una tonnellata cubica di Europio, per esempio, costa oltre 600mila euro. Ma ciò che conta non sono i prezzi in assoluto, semmai il fatto che il loro prezzo è in costante ascesa sin dalla metà del Novecento.

A questo punto ci si potrebbe domandare se non ci sia un’alternativa alle terre rare, visto che sono così costose, così importanti per lo sviluppo tecnologico e si estraggono quasi solamente in Cina. La risposta è che no, al momento non c’è nessuna alternativa. Le terre rare sono uno di quei nodi delle catene del valore, come i microchip, in cui l’Occidente è in svantaggio e in grande ritardo rispetto all’Oriente. Eppure, come dicevamo all’inizio di questo articolo, le terre rare sono essenziali per la transizione ecologica, per produrre la tecnologia necessaria a produrre le pale eoliche da utilizzare offshore e per la produzione di impianti per l’energia solare.

Parte della transizione ecologica passerà necessariamente per l’elettrificazione di ciò che oggi funziona con i combustibili fossili, come le auto. Ma anche per queste, per i loro motori e l’apparecchiatura di bordo, servono le terre rare.

Paolo Travisi per "Il Messaggero" il 3 gennaio 2021. Nel 2020 in Italia è aumentata la quantità di rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche, i cosiddetti Raee, oltrepassando le 78 mila tonnellate, quasi l'8% in più del 2019. 

Computer, smartphone e lavatrici se non smaltiti correttamente possono rappresentare un rischio per l'ambiente e per l'uomo. Ciò che è meno noto, è che le schede interne ai dispositivi elettronici sono ricche di materiali preziosi, uno su tutti l'oro.

Ma l'Italia, come altri paesi europei, non è in grado di trarre valore da questi rifiuti, motivo per cui l'Enea sta sviluppando il progetto Portent, con l'obiettivo di ricavare risorse dagli scarti. 

Danilo Fontana, lei è il responsabile del progetto Portent, sviluppato nel laboratorio Enea di Tecnologie per il riuso, il riciclo, il recupero e la valorizzazione di rifiuti. Di cosa si occupa il laboratorio?

«Ci occupiamo della valorizzazione delle matrici complesse di origine naturale e antropica, che al loro interno contengono elementi diversi. Nel primo caso può trattarsi di una roccia, da cui estrarre i minerali o le terre rare, chimicamente molto difficili da separare, nel secondo caso di un refluo dell'industria, per esempio tessile, che contiene elementi di colorazione, fibra sintetica, saldature. E ancora il computer, la matrice complessa per eccellenza che comprende gran parte della tavola periodica degli elementi».

Qual è la finalità del vostro laboratorio?

«Valorizzare la matrice giunta a fine vita, introdurla nel sistema di economia circolare, evitando che finisca in discarica; deve essere studiata per individuare la strategia migliore al fine di recuperare la maggior parte del contenuto, con un'attenzione particolare ai reflui che possono essere prodotti durante i processi di trattamento. Se eseguo una procedura per recuperare l'oro di una scheda, produco nello stesso tempo un refluo, per il quale si cerca di minimizzarne l'impatto cercandone un utilizzo alternativo».

Dal 2019 al 2020 la raccolta pro-capite è salita a 6,12 kg, ma spesso i consumatori non sanno dove buttare uno smartphone che non funziona più.

«A causa della pandemia c'è stato un rallentamento degli acquisti ed una tendenza al riuso, si cerca di riparare l'oggetto tecnologico o magari acquistarne uno rigenerato, un fatto molto positivo nell'ottica di economia circolare.  Per quanto riguarda i piccoli device, come il cellulare, può essere buttato nelle isole ecologiche oppure riconsegnato al venditore, mentre nei casi di prodotti più grandi, come la lavatrice, alla consegna del nuovo si ritira il vecchio. Alcuni comuni, invece, con il contributo di Enea hanno realizzato lo smart bin, un contenitore dove si introduce il Raee, che fornisce informazioni ambientali e consegna buoni sconto».

Cosa accade se uno smartphone non è smaltito correttamente?

«Un telefonino abbandonato nell'ambiente, con gli agenti atmosferici si degrada e rilascia gli elementi contenuti, ad esempio nella batteria, metalli pesanti, come cobalto, manganese, litio, molto nocivi per l'ambiente». 

In Italia qual è il ciclo di trattamento per un rifiuto tech?

«Il rifiuto Raee viene smantellato e selezionati i vari materiali che lo compongono. Nel caso della lavatrice, l'oblò finisce nel recupero del vetro, la struttura in quella di plastica e metallo, dal motore è recuperato il rame, dopodiché i materiali separati e triturati vengono commercializzati nelle filiere consolidate nel nostro paese. Per device più complessi, come i computer, vale la stessa procedura, ma la scheda elettronica, cioè la parte più ricca, è lavorata all'estero».

In Europa?

«In Svezia, Belgio, Francia, Paesi dove ci sono grandi impianti che attraverso tecnologie miste, come la pirometallurgia ed idrometallurgia sono in grado di recuperare i materiali preziosi che compongono le schede. In questi Paesi c'è una tradizione di industria pesante, eredità del periodo bellico, quando si costruivano cannoni e carro armati che dopo la guerra hanno riconvertito i loro grandi impianti. Queste industrie comprano i pezzi in tutta Europa riuscendo a valorizzarli».

Cosa manca all'Italia?

«Il boom di questi device tech è avvenuto negli ultimi 20 anni e quei Paesi sono stati più veloci dell'Italia a trasformare e rifiuti in risorsa anziché in un problema». 

Cosa perdiamo mandando all'estero questi rifiuti?

«Grandi quantità di oro, argento, palladio, i tre elementi presenti in maggior quantità in smartphone, computer, server. Poi c'è il rame ed elementi ritenuti critici dall'Ue, in totale sono 27, sia per difficoltà di approvvigionamento che per il valore economico».

Con il progetto Portent, cosa farete?

«Il primo passaggio è l'individuazione delle varie componenti. Nel primo anno di Portent, co-finanziato dalla Regione Lazio tramite fondi europei, ci occuperemo della caratterizzazione merceologica del telefono; abbiamo acquisito un numero importante di cellulari a fine vita, li abbiamo smontati in ogni loro parte, il case, la scheda elettronica, il display, la tastiera, l'antenna e per ognuno stiamo caratterizzando il tipo di materiale.

Dopodiché passeremo alla composizione chimica dei vari telefoni per avere una stima della composizione media della scheda e nel secondo anno svilupperemo un processo di recupero dei materiali».

E dopo ci sarà uno sviluppo industriale?

«In un secondo progetto, è probabile, che le conoscenze acquisite serviranno per le verifiche in scala pilota, cioè per la fase di industrializzazione, in cui sarà testato sul campo il lavoro di Portent, un progetto unico nel suo genere in Italia, con un grande valore a livello ecologico ed ambientale.

Tra i benefici c'è quello di diminuire il ricorso all'estrazione di nuovi minerali e di valorizzare sul territorio quel tipo di rifiuto. Enea, tra l'altro, ha già avviato un impianto pilota, Romeo, che si occupa del recupero di oro nelle schede dei computer».

·        L’Amianto.

(ANSA il 14 luglio 2022) - La chiavetta Usb dove si trova "il 90% degli atti" del processo Eternit bis è inservibile e la Corte d'appello è costretta a un rinvio. Il colpo di scena oggi, era in programma la sentenza. "Siamo mortificate - hanno spiegato i giudici - ma quando siamo andate a cercare un certo passaggio di una consulenza tecnica non abbiamo trovato nulla. È come se la chiavetta fosse vuota o danneggiata". L'imputato è l'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, per il quale il pg Pellicano aveva chiesto la conferma della condanna a 4 anni per la morte di due persone dovuta, secondo l'accusa, all'amianto lavorato nello stabilimento di Cavagnolo.

Processo Eternit bis, la chiavetta Usb è vuota: salta sentenza a Torino. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.

Conteneva «il 90% degli atti». I giudici: «Mortificati». L’imputato è l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, il suo legale: «Se emergesse che i documenti non sono mai stati caricati, procedimenti nulli». 

La chiavetta Usb sulla quale è custodito «il 90% degli atti» del processo Eternit bis è inservibile e la Corte d’Appello di Torino è costretta a un rinvio. Il colpo di scena si è verificato oggi, giovedì 14 luglio, nel giorno in cui era in programma la sentenza. «Siamo mortificate — hanno spiegato i giudici della terza sezione d’Appello, presieduta da Flavia Nasi — ma quando siamo andate a cercare un certo passaggio di una consulenza tecnica non abbiamo trovato nulla. È come se la chiavetta fosse vuota o danneggiata».

L’imputato è l’imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny, per il quale il pg Carlo Maria Pellicano aveva chiesto la conferma della condanna a 4 anni. Il magnate è accusato di omicidio colposo plurimo aggravato dalla previsione dell’evento per aver causato la morte per mesotelioma pleurico e asbestosi di una cittadina di Cavagnolo, in provincia di Torino, e di un lavoratore dello stabilimento Eternit che aveva sede in quel comune. In primo grado il Tribunale aveva anche condannato l’imputato al risarcimento in favore delle famiglie da liquidarsi in separato giudizio civile. Erano state stabilite pure delle somme a titolo di provvisionale in favore degli enti costituiti parte civile, tra cui l’associazione Afeva e le organizzazioni sindacali Cgil, Cisl e Uil.

La Corte ha chiesto al procuratore Pellicano di recuperare il materiale e il magistrato ha spiegato che si rivolgerà al collega che sostenne l’accusa in primo grado, il quale sta utilizzando gran parte degli stessi atti nell’analogo processo in corso a Vercelli e che riguarda le vittime di Casale Monferrato. La causa è stata rinviata alla fine di settembre per quella che tecnicamente è stata definita «ricostruzione di atti mancanti». La Corte concederà poi alle difese un ulteriore «termine» di 15 giorni.

Insomma, se la questione tecnica sembra facilmente risolvibile potrebbe restare in sospeso un aspetto processuale. A sollevare i dubbi è l’avvocato del magnate svizzero, Astolfo Di Amato: «Sono rimasto notevolmente sorpreso. Adesso, però, si tratta di capire se la chiavetta si sia danneggiata o se gli atti non siano mai stati caricati e quindi depositati». Il punto è che i documenti in questione, in gran parte consulenze tecniche, sono quelli alla base della sentenza di primo grado. «Se emergesse che non sono mai stati caricati, entrambi i procedimenti sarebbero nulli — sottolinea il legale —. Valuteremo se chiedere una perizia alla prossima udienza».

Una posizione che stupisce gli avvocati Ezio Bonanni e Andrea Merlino Ferrero, che assistono i familiari di una vittima e l’Osservatorio nazionale amianto. «Per noi è un mero problema tecnico — spiega Ferrero —. Pur rispettando le tesi dei colleghi, penso sia quanto meno strumentale ipotizzare un mancato deposito di atti processuali».

La chiavetta usb è danneggiata, salta la sentenza Eternit all’appello. Ignazio Riccio l'15 Luglio 2022 su Il Giornale.

Rinviata a novembre l’udienza. Il pm ha chiesto la conferma dei quattro anni di reclusione per il magnate svizzero Stephan Schmidheiny.

Quello denominato “Eternit bis” è un processo che dura da diciotto anni, senza che si riesca ad arrivare a una sentenza definitiva. L’ultimo e clamoroso epilogo si è consumato nei giorni scorsi, quando l’udienza della corte d’appello è stata rinviata al prossimo 29 novembre. Il motivo è paradossale: la chiavetta usb che conteneva tutto il materiale processuale era vuota e, quindi, non si è potuto procedere. Non si sa se il dispositivo si è danneggiato o è stato manomesso. Resta il fatto che si dovrà ricominciare daccapo nella raccolta degli atti che accusano di omicidio colposo l'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny. Il proprietario di Eternit nel filone di processo di competenza del tribunale di Torino era stato condannato, in primo grado, nel 2019, a quattro anni di reclusione e al risarcimento economico in favore delle famiglie delle persone decedute.

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L’accusa di omicidio colposo plurimo, come riporta il quotidiano Libero, è caduta sulle spalle di Schmidheiny in seguito al decesso per mesotelioma pleurico e asbestosi, malattie provocate dall’esposizione all’amianto, di un ex dipendente e di una cittadina di Cavagnolo, una cinquantina di chilometri a est del capoluogo piemontese, sulle colline del Monferrato, dove si trovava uno degli stabilimenti Eternit. Il Pm, all’appello, aveva chiesto la conferma dei quattro anni di carcere, ma la pendrive ha fatto saltare tutto. La vicenda Eternit è molto complessa ed è stata divisa in quattro filoni processuali per le centinaia di morti sospette per tumore probabilmente contratti negli stabilimenti dell’azienda svizzera.

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Schmidheiny ha sempre minimizzato, dichiarandosi non colpevole fin dall’inizio. Ma, il 23 maggio 2019, il tribunale di Torino l’aveva condannato a quattro anni di reclusione per omicidio colposo. Poi, il ricorso in appello, con il colpo di scena della chiavetta usb fuori uso. Gli altri filoni processuali, intanto, vanno avanti. A Novara è ancora in corso il dibattimento in primo grado, mentre a Napoli, c’è stata la condanna a tre anni e sei mesi di carcere per il magnate di Eternit. Secondo l’accusa, l’amianto avrebbe provocato la morte di un operaio della sede di Bagnoli. Ci sono poi i casi di Casale Monferrato e di Reggio Emilia, per i decessi avvenuti nella fabbrica di Rubiera.

Amianto, l’inutile processo eterno per migliaia di vittime dell’Eternit. LAURA LOGUERCIO su Il Domani il 25 aprile 2022

Il 6 aprile scorso. Il numero uno della Eternit Stephan Schmidheiny è stato condannato a Napoli a tre anni e sei mesi per omicidio colposo, per  la morte di Antonio Balestrieri, operaio della Eternit di Bagnoli ucciso da un mesotelioma pleurico.

I pm avevano chiesto 23 anni e 11 mesi per l’omicidio volontario di otto persone, ma per sei casi è scattata la prescrizione, e per il settimo, Franco Evangelista,  Schmidheiny è stato assolto perché la vittima abitava nella zona ma non lavorava alla Eternit. 

Il primo processo contro Schmidheiny è iniziato a Torino nel 2009. Accusato per la morte o la malattia di quasi tremila persone, è stato condannato a 18 anni in appello ma nel 2014 la Cassazione ha dichiarato tutto prescritto. Però i processi continuano, in giro per l’Italia. Inutili.

"Noi delusi, è una vergogna". Eternit, c’è la sentenza ma non la giustizia: le lacrime dei familiari, sono 902 le vittime dell’amianto di Bagnoli. Viviana Lanza su Il Riformista il 7 Aprile 2022. 

Il cosiddetto processo Eternit ieri si è concluso dopo un iter lungo e complicato. C’è stata la sentenza ma non la giustizia, come spesso capita quando tra indagini e dibattimento trascorrono decenni. E non c’è stata giustizia per nessuno. Non c’è stata per la memoria delle vittime, non c’è stata per il dolore dei loro familiari, nemmeno per l’imputato. Da qualunque prospettiva lo si voglia osservare, questo è un processo che lascia l’amaro in bocca. Uno di quei processi in cui resta il dubbio che la verità sia diversa da quella che si è accertata in dibattimento. I parenti delle vittime hanno pianto e urlato dopo la lettura in aula del dispositivo. «Vergogna! Vergogna!», hanno gridato. In mattinata davanti al Tribunale avevano organizzato un sit-in.

L’unico imputato, il magnate svizzero ultrasettantenne Ernest Schmidheiny, proprietario degli stabilimenti Eternit in Italia, è stato condannato a 3 anni e sei mesi per omicidio colposo in relazione alla morte di uno solo degli operai dello stabilimento, Antonio Balestrieri (morto il 21 ottobre 2009 per mesotelioma pleurico), mentre per gli altri casi (otto in tutto, cinque operai, due loro mogli e un residente della zona) ci sono state sei prescrizioni e una assoluzione (l’assoluzione ha riguardato il caso di Franco Evangelista, che abitava nei pressi dello stabilimento ma non era un dipendente). Per l’imputato la Procura aveva proposto la condanna a 23 anni e 11 mesi per omicidio volontario plurimo con dolo eventuale, ritenendo che il magnate fosse a conoscenza dei rischi provocati dall’amianto e del fatto che nello stabilimento di Bagnoli si stessero verificando episodi preoccupanti per la salute dei lavoratori adottando interventi ritenuti esigui per tutelare la salute di chi era esposto all’amianto. Eppure sin dagli anni ’40 diversi studi hanno dimostrato la potenza cancerogena dell’amianto, anche detto Eternit, accertando che sbriciolandosi diventava polvere sottile al punto da essere invisibile ma pericolosa al punto da essere letale.

Nelle fabbriche si depositava sulle tute degli operai e nelle case sulle mani delle moglie che lavavano quelle tute. Una volta inalata, si infilava nei tessuti molli del corpo generando una malattia capace di restare per anni nell’ombra e poi manifestarsi con tutti i suoi dolorosi effetti, cancri e malattie respiratorie croniche. In Italia l’amianto è stato messo al bando soltanto con la legge 257 del 1992. Per le morti degli operai di Bagnoli le indagini furono avviate nel 2004 e il processo, inizialmente incardinato a Torino, arrivò a Napoli nel 2019 dopo la pronuncia del giudice torinese dell’udienza preliminare che aveva superato un’eccezione dei legali dell’industriale uscito per prescrizione da un altro processo con un capo di imputazione diverso ma imputato a Novara per morti da amianto e a Torino per disastro ambientale. Nel primo processo torinese si decise di derubricare il reato da omicidio volontario a omicidio colposo. Insorsero i familiari delle vittime, parti civili assieme a una serie di associazioni tra cui l’Osservatorio nazionale amianto (Ona) di Ezio Bonanni rappresentato dall’avvocato Flora Rose Abate e l’associazione Mai più Amianto.

Gli stessi familiari e le stesse associazioni che ieri hanno lasciato il tribunale tra le lacrime e la delusione dopo la sentenza pronunciata dai giudici della seconda sezione della Corte d’assise. «È una sentenza che lascia l’amaro in bocca soprattutto perché non siamo sicuri che la realtà processuale coincida con la realtà storica dato il lungo tempo trascorso», ha commentato l’avvocato Elena Bruno, legale dell’associazione Mai più Amianto. «La vita di mio padre per i giudici vale 3mila e 300 euro, ridicolo», è stato l’amaro commento di Ciro Balestrieri, figlio di Antonio, una delle vittime. Delusione anche nelle parole dell’avvocato Flora Abate: «Come Ona onlus andremo avanti. Aspettiamo di leggere le motivazioni per capire i passaggi che ha fatto la Corte per arrivare a questa decisione di condannare l’imprenditore per colpa cosciente, poi valuteremo come eventualmente impugnare la decisione». Valuterà un ricorso anche l’avvocato Astolfo Di Amato, legale di Schmidheiny: «Impugneremo certamente la decisione – ha commentato – , comunque è motivo di soddisfazione il fatto che sia stato escluso il dolo».

Amianto: Isochimica Avellino, 4 condanne a 10 anni, 22 assolti. Nello stabilimento venivano bonificate carrozze ferroviarie su commesse delle Fs. Sono 33 gli ex operai deceduti per patologie legate alla lunga esposizione al materiale fibroso. La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Quattro condanne a dieci anni di reclusione e ventidue assoluzioni. E' questo il verdetto di primo grado pronunciato dopo cinque ore di camera di consiglio dai giudici del tribunale di Avellino sull'Isochimica, la fabbrica del capoluogo irpino nella quale per quasi dieci anni, a partire dalle fine degli anni Settanta, venivano bonificate dall'amianto le carrozza ferroviarie su commesse delle Ferrovie dello Stato. 

Il collegio giudicante (presidente Sonia Matarazzo, giudici a latere Pier Paolo Calabrese e Gennaro Lezzi) ha condannato a dieci anni di reclusione il responsabile della sicurezza di Isochimica, Vincenzo Izzo, e il suo vice, Pasquale De Luca; Aldo Serio e Giovanni Notarangelo, funzionari di Ferrovie dello Stato. Disposta anche una provvisionale di 50mila euro per ognuna delle famiglie dei 33 ex operai deceduti per patologie correlate alla prolungata esposizione all'amianto. La pena corrisponde alla richiesta fatta dalla pubblica accusa rappresentata dal sostituto procuratore di Avellino, Roberto Patscot, per i reati di disastro doloso, omicidio colposo, lesioni personali e rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro.

Assolti per non aver commesso il fatto gli altri imputati che dovevano rispondere di concorso in disastro colposo per omissione di atti di ufficio. Tra questi l'ex sindaco di Avellino, Giuseppe Galasso e la giunta comunale del tempo, tre dirigenti comunali, i titolari delle imprese che si sono succedute nei lavori di bonifica del sito, il curatore fallimentare dell'Isochimica. L'accusa aveva chiesto condanne da due anni e sei mesi a due anni.

Assolto anche un altro ex sindaco di Avellino, Paolo Foti, rinviato a giudizio con l'accusa di rifiuto in atto di ufficio, e il medico della Asl responsabile dell'unità amianto, per non aver commesso il fatto. Per entrambi era stata chiesta la condanna a sei mesi di reclusione. Il processo, durato quasi sei anni, si è svolto nell'aula bunker del carcere di Poggioreale di Napoli a causa della mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino.

Gli ex operai dell'Isochimica a Borgo Ferrovia, davanti ai cancelli dell'azienda nella quale, a cavallo degli anni Settanta, cominciarono a lavorare giovanissimi inconsapevoli dei gravi pericoli per la salute connessi all'amianto inalato nel processo di scoibentazione delle carrozze ferroviarie.

Presenti anche le vedove e i congiunti degli ex operai deceduti.

"E' stato chiarito definitivamente che il mandante della tragedia vissuta all'Isochimica sono le Ferrovie dello Stato", commenta Carlo Sessa, l'ex operaio che per decenni si è battuto per avere una parola di verità e di giustizia. La sentenza di oggi arriva trentasei anni dopo la prima denuncia presentata dal Wwf che nel 1986 segnalava alla Procura di Avellino lo smaltimento illecito di rifiuti tossici che avveniva all'Isochimica di Elio Graziano, l'imprenditore salernitano deceduto il quattro marzo del 2017 e dunque uscito dal processo incardinato sulla scorta dell'inchiesta condotta dall'ex Procuratore capo di Avellino, Rosario Cantelmo.

Nel 2009 un'altra denuncia, da parte dell'attivista Giovanni Maraia sulla mancata bonifica del sito di Borgo Ferrovia e le malattie contratte dagli ex operai, fa partire l'inchiesta della Procura di Avellino che vedrà impegnati in continuità gli ex procuratori Angelo Di Popolo e il suo successore, Rosario Cantelmo, e che concluderà il percorso con la richiesta di rinvio a giudizio di 26 persone.

Il processo di primo grado, nel quale si sono costituite 270 parti civili, è durato cinque anni e sette mesi. Nel corso delle 127 udienze, celebrate nell'aula bunker del carcere Poggioreale di Napoli per mancanza di spazi adeguati a disposizione del tribunale di Avellino, è stata ricostruita la storia delle responsabilità che hanno portato alla morte per patologie collegate alla prolungata esposizione di amianto di 33 ex operai mentre almeno altri 200 ex operai sono ammalati conclamati di patologie asbesto correlate.

Nelle loro consulenze, prestate a titolo gratuito, i periti della Procura hanno attestato che "tutti gli operai Isochimica sono in pericolo di vita" ma anche sottolineato che nessun lavoratore risultava sottoposto a diagnosi o visita da parte del medico di fabbrica.

Giacomo Nicola per “Il Messaggero” il 21 dicembre 2021. La sentenza non ha precedenti. Lo Stato dovrà rispondere della morte di un'insegnante che si era ammalata per via della presenza di amianto a scuola. E la condanna è pesante, una cifra che sfiora il milione di euro. A pagare dovrà essere il ministero dell'Istruzione al risarcimento di oltre 930 mila euro per la morte di Olga Mariasofia D'Emilio. Alla donna era stato diagnosticato un mesotelioma, provocato dall'esposizione all'amianto nella scuola in cui lavorava. La notizia è stata resa ufficiale ieri dall'Ona, l'Osservatorio nazionale amianto. «Si tratta della prima condanna del Miur per la presenza di amianto negli istituti scolastici», ha sottolineato l'organizzazione. Alla docente il 17 maggio del 2002 era stato diagnosticato il mesotelioma per l'esposizione alla fibra killer durante l'insegnamento nei laboratori di chimica e fisica della scuola media Farini di Bologna. La sua agonia è durata 15 anni ed è terminata con la morte il 21 febbraio 2017. Nel corso della malattia la professoressa ha ottenuto dall'Inail il riconoscimento di malattia professionale e nel 2007 aveva avviato la procedura giudiziaria per il risarcimento dei danni. 

L'EMERGENZA

Una sentenza che crea un precedente non da poco. Il caso della professoressa D'Emilio infatti non è isolato. «L'amianto nelle scuole sta provocando una vera e propria epidemia tra docenti e non docenti - sottolinea Ezio Bonanni, presidente Ona -. A decine, e ben oltre i 91 casi censiti dal VI rapporto mesoteliomi, sono deceduti per questa neoplasia: è la punta dell'iceberg per le malattie da amianto. Per questo, infatti, insistiamo affinché il Ministero della Salute, d'intesa con il Miur, disponga al più presto la bonifica e messa in sicurezza di tutti gli istituti scolastici». La famiglia dell'insegnante si è unita a questa battaglia. «Il mio sogno è quello di far sì che le sofferenze di mia madre, e della mia famiglia, non si ripetano per altri insegnanti e impiegati nella scuola - spiega Silvana Valensin, figlia della docente scomparsa - Quello del mesotelioma è un flagello e dobbiamo vincere la battaglia contro l'amianto. Mi auguro che si giunga quanto prima alla bonifica di tutte le scuole italiane e di tutti i siti contaminati che si trovano in tutte le regioni».

IL CENSIMENTO

In base a quanto riporta l'Ona, nel 9 per cento delle scuole italiane (53.113 sedi, di cui 40.749 statali e 12.564 paritarie), sono stati censiti materiali di amianto. Nel 2021, alla ripresa dell'anno scolastico, risulta che ci sono ancora il 4,3 per cento degli edifici scolastici con presenza della fibra killer, quindi nella misura di 2.292 scuole, con esposizione di 356mila studenti (rispetto alla totalità di 8,3 milioni), ai quali si aggiungono 50mila soggetti tra docenti e personale scolastico. Il rischio negli istituti va oltre l'utilizzo delle onduline con dispersione esterna, perché in molti casi i materiali utilizzati sono interni e provocano la contaminazione dei luoghi in cui si svolge l'attività didattica. Nel 2021 i casi arrivano a 130 e a 500 con i tumori del polmone.

La decisione del Tribunale del lavoro di Bologna. Professoressa muore per l’amianto a scuola, la sentenza storica: Ministero deve risarcire oltre 900mila euro. Fabio Calcagni su Il Riformista il 20 Dicembre 2021. Ben quindici anni di agonia, dal 17 maggio 2002, quando le venne diagnosticato un mesotelioma per l’esposizione all’amianto, fino alla morte avvenuta il 21 febbraio 2017. Cinque anni dopo il decesso il tribunale del lavoro di Bologna ha condannato il ministero dell’Istruzione al pagamento di un risarcimento da 930.258 euro nei confronti degli eredi di Olga Mariasofia D’Emilio, docente di chimica e fisica della scuola media Farini di Bologna.

Una condanna arrivata appunto per la lunga esposizione della docente all’amianto durante l’insegnamento nei laboratori di fisica e chimica della scuola media di Bologna.

Si tratta, come ricorda l’Ona, l’Osservatorio nazionale amianto, della prima condanna del Miur per la presenza di amianto negli istituti scolastici.

La condanna è stata inflitta dal giudice del lavoro del Tribunale di Bologna che ha accolto la richiesta degli avvocati Ezio Bonanni e Massimiliano Fabiani, legali dell’Osservatorio nazionale amianto, associazione a cui si erano rivolti i figli della docente, Andrea e Silvana, per tutelare i diritti della madre.

“L’amianto nelle scuole sta provocando una vera e propria epidemia tra docenti e non docenti”, spiega al Corriere della Sera Ezio Bonanni, presidente Ona. “Ben oltre i 91 casi censiti dal VI rapporto mesoteliomi, sono deceduti per questa neoplasia molto rara, che è la punta dell’iceberg per le malattie da amianto. Per questo, insistiamo affinché il ministero della Salute, d’intesa con quello dell’Istruzione, disponga al più presto la bonifica e la messa in sicurezza di tutti gli istituti scolastici”, sottolinea Bonanni.

Olga Mariasofia D’Emilio aveva ottenuto il riconoscimento della malattia professionale dall’Inail e nel 2007 aveva avviato la procedura giudiziaria per ottenere il risarcimento dei danni.

“Il mio sogno è quello di far sì che le sofferenze di mia madre, e della mia famiglia, non si ripetano per altri insegnanti e impiegati nella scuola”, sono invece le parole di Silvana Valensin, figlia della docente scomparsa. “Quello del mesotelioma è un flagello e dobbiamo vincere la nostra battaglia contro l’amianto. Mi auguro che si giunga quanto prima alla bonifica di tutte le scuole e di tutti i siti contaminati“.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

·        Emergenza energetica ed è austerity.

Emergenza energetica ed è austerity in Italia. Nel ‘73 costa caro l’embargo dei Paesi arabi. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Novembre 2022

È il 26 novembre 1973. In prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare la notizia del colpo di Stato militare in Grecia, con cui il generale Ioannides ha deposto il presidente Papadopoulos, a capo della dittatura dei colonnelli dal 1967. Nelle pagine interne, invece, si affronta il tema dell’«austerity», una parola che gli italiani hanno imparato a pronunciare già da alcuni mesi: il Paese intero, in quei giorni, sta facendo i conti con una eccezionale emergenza energetica. Il 6 ottobre 1973, giorno della festività ebraica del Kippur, Egitto e Siria hanno sferrato un attacco coordinato contro Israele, dando inizio alla quarta guerra arabo-israeliana.

L’offensiva ha determinato l’embargo delle forniture di petrolio da parte dei paesi arabi verso gli stati filo-israeliani. In Italia e in altri paesi occidentali si avverte presto l’onda d’urto di questa complessa situazione geopolitica: vengono imposte pesanti restrizioni, che incidono sulla vita quotidiana, per contenere i consumi energetici. Gli italiani sono costretti a confrontarsi con l’aumento dei costi del carburante, il divieto di circolazione di mezzi nei giorni festivi, modifiche dei limiti di velocità, riduzione dell’illuminazione pubblica e chiusure anticipate delle attività commerciali.

Il 25 novembre è stata l’ultima domenica di circolazione normale prima dell’applicazione dei provvedimenti del Governo: «I baresi - anche loro diligenti allievi della dottrina consumistica – hanno speso alla solita maniera l’ultimo weekend prima che scatti l’austerità. Gran parte dei gitanti s’è riversata a Torre a Mare: atto ultimo di una consuetudine nata decenni fa. Bar, ristoranti, pizzerie hanno fatto affaroni. Lorenzo, cameriere, dice “Una giornata eccezionale, come non ricordo da parecchio tempo”. Ma sarà l’ultima, per lui questa giornata si è conclusa con il licenziamento. Adesso i ristoranti di Torre a Mare forse chiuderanno di domenica. Chi ci verrebbe? I baresi in autobus? Da escludere. “Quest’anno è avvelenato per noi. Prima il colera e adesso l’austerità”..».

Una foto di Luca Turi mostra un calesse sul lungomare barese; così recita la didascalia: «Carrozzelle in anticipo sulle strade: una sensazione nuova, più riposante, tenere fra le mani non più il volante, ma le briglie». Ecco il commento del cronista: «L’automobile scende dall’altare su cui l’hanno innalzata anni e anni di sfrenato consumismo: la spinta pubblicitaria alle cilindrate sempre maggiori, le autostrade. Ci avevamo messo anni per imparare, ora dovremo disimparare tutto in sette giorni». I baresi, però, si abitueranno alle nuove misure, che dureranno fino al marzo dell’anno successivo.

·        Le Correnti del mare.

Il Giappone e la maxi-turbina da 33o tonnellate per produrre energia pulita con le correnti oceaniche. Enrico Maria Corno su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Le centrali a maree esistono da molti anni. A Tokyo provano con un’altra strada: test superati, potenzialità fino a 200 Gigawatt, metà del fabbisogno energetico del Paese. 

Il Giappone è uno dei paesi più sensibili alla sostenibilità, soprattutto dopo la tragedia di Fukushima. La transizione energetica è diventata ancor di più un'esigenza in virtù del fatto che Tokyo è ancora fortemente vincolata dall'importazione di combustibili fossili e ciò pesa enormemente sul debito pubblico, più alto perfino di quello italiano.

Questi sono i presupposti che hanno portato la compagnia privata IHI Corporation, in collaborazione con la New Energy and Industrial Technology Development Organization, a investire sull'innovativo Progetto Kairyu che punta a produrre molta dell'energia necessaria al paese attraverso la forza del mare che - trattandosi di un'isola - ne è ovviamente la risorsa principale.

Finita la fase di test durata 3 anni

La notizia di questi giorni è che il progetto Kairyu abbia terminato con successo il periodo di test durato oltre tre anni nelle profondità al largo delle coste orientali del Giappone, producendo 100 kilowatt in modo autonomo e pulito grazie allo sfruttamento delle correnti sottomarine. 100 kilowatt (peraltro ottenibili con una velocità media di flusso di soli tre nodi, circa 1 metro e mezzo al secondo) al momento sono una inezia, soprattutto se paragonati alle capacità produttiva degli impianti eolici (circa 3,6 megawatt per una turbina offshore di dimensioni medie) ma ciò che interessa è più la modalità peculiare che caratterizza il processo.

Maxi-generatore ancorato al fondale

Posizionato in questa prima fase lungo la dorsale sottomarina dove transita la Corrente Kuroshio, una delle più forti al mondo, Kairyu è un vero e proprio generatore da 330 tonnellate che galleggia sotto la superficie del mare, ancorato al fondale. Una descrizione sommaria lo rappresenterebbe come una struttura composta da tre cilindri lunghi una ventina di metri: la fusoliera centrale ha funzioni di galleggiamento mentre le due laterali contengono altrettante pale da turbina di 11 metri di lunghezza che vengono mosse dall'acqua delle correnti oceaniche. Le due turbine non solo generano energia ma contribuiscono anche a mantenere l'impianto (delle dimensioni di 20 x 20 metri) in una posizione stabile: ogni pala infatti gira nella direzione opposta alla gemella, annullando così le forze che farebbero ruotare la struttura attorno al proprio asse.

Una caratteristica fondamentale di questo impianto sta inoltre nella sua capacità di regolarsi in funzione delle esigenze. L'altezza innanzitutto: la struttura è stata ormeggiata a circa 50 metri di profondità ma può essere portata in superficie per facilitare le operazioni di manutenzione e può essere abbassata fino in profondità per evitare per quanto possibile la forza distruttiva dei tifoni che sono soliti devastare la zona. Allo stesso modo è regolabile anche che l'angolo di inclinazione delle pale dei rotori per meglio seguire la forza della corrente e rendere più efficiente la produzione. Ovviamente, funi e catene che ancorano la struttura al fondo dell'oceano ospitano anche i cavi di trasmissione che raggiungono il cavo principale sommerso che a sua volta si collega con la rete elettrica terrestre.

I tempi per il via

Nonostante i test siano stati superati con successo, ci vorrà ancora un po’ prima di sfruttare l’energia del mare con il sistema Kairyu: sarà attivo per uso commerciale tra una decina di anni ma per allora la capacità produttiva sarà ben superiore ai soli 100 kilowatt generati finora. La IHI Corp. stima che in futuro, con gli adeguati impianti, in quel punto dell'oceano la corrente oceanica Kuroshio potrebbe produrre oltre 200 gigawatt di energia elettrica, circa 25 volte più della più grande centrale nucleare del mondo, quella di Kashiwazaki-Kariwa, per altro ora non attiva, che equivalgono a quasi il 50% del fabbisogno nazionale.

·        L’Eolico.

Frenare le pale eoliche e "il sacco del paesaggio". I principi di diritto aiutino ad arginare la prepotenza concettuale di associazioni come Fai. Vittorio Sgarbi l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In questa difficile emergenza occorre tornare a principi certi del diritto per la tutela del patrimonio artistico e del paesaggio, per i quali i più recenti testi di riferimento dovrebbero fornire gli strumenti per un efficace contrasto delle prepotenze concettuali, sotto forma di provvedimenti legislativi suggeriti da pseudoassociazioni culturali che sostengono le speculazioni economiche con la copertura di una cultura Green, che conduce a queste conclusioni: «È innegabile che la diffusione degli impianti per produrre energia da fonti rinnovabili, in linea con gli obiettivi di de-carbonizzazione, inciderà sui nostri territori, trasformando i paesaggi. La sfida che si pone è quella di non restare osservatori passivi della rivoluzione in atto, ma di governarla e orientarla con la più formidabile dotazione di competenze di cui saremo capaci come sistema-Paese. Coniugare gli obiettivi della transizione energetica con la lungimiranza nella pianificazione paesaggistica e la qualità della progettazione è quindi la sfida cruciale del prossimo futuro».

È la sorprendente posizione di alcune associazioni ambientaliste, tra cui il Fai, secondo cui «impianti eolici e fotovoltaici possono convivere con il Paesaggio italiano».

L'Italia non è solo i suoi monumenti, ma anche il suo paesaggio, è doveroso stare dalla parte dei valorosi Soprintendenti che, in trincea, difendono l'Italia dagli speculatori e dalla mafia responsabili del «sacco del paesaggio» in Sicilia, Puglia, Calabria e Basilicata, garantendo loro i necessari strumenti legislativi.

La situazione è drammatica ed esplicita: intercettato in carcere, e utilmente, Totò Riina, nella stessa occasione in cui minacciò il Pm Di Matteo, che per questo fu immediatamente dotato di super scorta, disse chiaramente che l'affare di Matteo Messina Denaro in Sicilia, cioè del presunto attuale capo della mafia, a Castelvetrano, Mazara del Vallo, Salemi, Alcamo e Marsala, erano «i pali eolici», affermando quel nesso tra la mafia e l'eolico e il fotovoltaico, documentato dal sequestro all'imprenditore di Alcamo Vito Nicastri di 1 miliardo e 600 milioni di euro, per la funzione di «semplificatore» e sviluppatore degli impianti.

Preso atto che il 65 per cento degli edifici costruiti in Italia, e anche intere aree industriali e periferiche, hanno meno di 70 anni non è difficile immaginarli rivestiti di pannelli fotovoltaici, risparmiando i campi agricoli che nessuno protegge, ricercati dagli speculatori per il loro inferiore valore economico.

I nemici del paesaggio vorrebbero mettere campi fotovoltaici in tutte le aree libere, anche a Venezia, ignorando Mestre e Marghera, e anche a Paestum e a Pompei, per «modernizzare il paese», e magari chiudere le fastidiose Soprintendenze.

Gli spazi contaminati sono più che sufficienti per l'energia rinnovabile, lasciando intatti i campi agricoli di quel mondo esaltato da Pasolini di cui si celebra il centenario con innumerevoli iniziative, tradendone però, nei fatti, il pensiero.

Una risposta normativa è in Diritto e gestione del patrimonio culturale di Antonio L. Tarasco, edito da Laterza.

Il volume, che descrive il disegno istituzionale e lo stato attuale della difesa del patrimonio culturale e del paesaggio, arricchisce la letteratura esistente, forte di una specifica esperienza dell'autore maturata nel settore e corredato da un'ampia presentazione sia di dati quantitativi sia di elementi legislativi. Arriva inoltre mentre è in atto il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) con un flusso largo di risorse superiori ai 4 miliardi di euro relativi alla Missione I Componente III destinati ai settori «patrimonio culturale per la prossima generazione», «piccoli siti culturali», «industria culturale e creativa».

Ma non si dimentichino la visione d'assieme e lo sfondo di maggior respiro. Al processo di allocazione finanziaria del Piano fa riscontro il rilancio della funzione di centro di erogazione, di programmazione e di valutazione del Ministero della cultura. D'altronde un'amministrazione orientata all'efficienza corrisponde sia agli impieghi specifici del Pnrr sia alle esigenze generali del sistema economico italiano, così da cooperare pro quota ad elevarne il potenziale di crescita e la capacità competitiva.

In un contesto di numerose tessere da comporre, questo contributo percorre una strada con snodi molto chiari. Supera la separazione tra quadro giuridico e dinamica economico-gestionale dei processi, avvicina tra loro i relativi blocchi disciplinari sottesi di cui concorre a riformulare le tradizionali linee di divisione. Il libro è altresì ricco di dati, senza «cullarsi» in un'elencazione sterile di cifre che rischierebbe solo di verniciare di rigore scientifico l'ordine del discorso. Si sofferma pertanto sulla capacità ordinatoria dei sistemi di regole, sui compiti e le responsabilità dell'alta amministrazione, si àncora all'esperienza concreta con esempi e richiami puntuali agli istituti più avanzati (in particolare il partenariato pubblico-privato), guarda oltre confine e ricostruisce il profilo di quei modelli gestionali (francese, anglosassone) che appaiono di massima evidenza come fattori di modernizzazione del settore.

Sulla base quindi di un approccio che riconosce la complessità del terreno di indagine, il volume evita anche di arenarsi sulle secche della sterile contrapposizione tra valori collettivi (cultura) e il fascio degli interessi economici e materiali in gioco. Un taglio che non sorprende, essendo a tutti gli effetti il patrimonio culturale del Paese una entità da comprendersi all'interno del circuito economico-produttivo nazionale. Certo agli artt. 3 e 6 del Codice vigente, tutela e valorizzazione costituiscono due categorie diversificate, sicché la fruizione rappresenta un elemento teleologico esterno alla tutela. Tuttavia, da un punto di vista sostanziale in precisi ambiti come il restauro o la circolazione internazionale dei beni culturali, tutela e valorizzazione tendono a fondere i loro orizzonti, fermo restando che il nucleo fondamentale della politica dei beni culturali è costituito dalla garanzia dell'integrità del bene. Fin dalla sua nascita infatti l'impianto dell'amministrazione dei beni culturali incorporata presso il Ministero della pubblica istruzione metteva in risalto componenti prevalentemente «di conservazione». Una filosofia progettuale innegabile, un pattern frutto di sedimentazioni di lunghissima durata su cui impegnarsi a fondo e che deve continuare a riverberarsi sul presente ed essere sempre con noi. Non necessariamente cioè occorre aderire ai dubbi, stare nelle incertezze senza essere impazienti di pervenire a fatti e ragioni. Viceversa è possibile contare sulle tracce preesistenti, stare sui sentieri già segnati, anziché essere costretti a decifrare ed esplorare di volta in volta i «materiali del bosco».

Una scelta obbligata infine lo spazio apposito dedicato al paesaggio, per ragioni di ordine sia formale sia sostanziale, a cominciare dalla disciplina che per ragioni «diacroniche» si radica nel Codice Urbani del 2004 e tiene insieme beni culturali e paesaggio. Soprattutto a valle della recente riforma dell'art. 9 della Costituzione, l'ambiente assume formalmente rango primario e pone così un problema di coordinamento con il paesaggio. Ma non determina la tirannia dell'interesse ambientale rispetto alla cura del paesaggio. Semmai scolpisce la tutela delle matrici ambientali in quanto valore già presente nella giurisprudenza costituzionale, amministrativa e ordinaria del Paese, senza con questo operare un braccio di ferro tra un diritto e l'altro o l'imposizione di un diritto sull'altro. Sarebbe contrario allo stesso spirito e alla lettera della Carta costituzionale. Stravolta ora da Legambiente e dal Fai. Combatteremo anche con la collaborazione legislativa di Tarasco.

Sardegna, invasi dalle pale non dai controlli. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

Sono 514 le torri eoliche in mare, in buona parte alte 265 metri, in attesa di essere costruite. Lo denunciano gli ambientalisti del Grig, il Gruppo di intervento giuridico, in prima fila «non» contro le energie alternative ma le «speculazioni energetiche». 

Sapete quante furono le bellissime Torri costruite a difesa dei 1836 chilometri delle coste della Sardegna a partire da 476 d.C. per difendere l’isola dalle incursioni piratesche, soprattutto nel ‘500 e in particolare ai tempi di Khayr al-Din Barbarossa, il celeberrimo condottiero ottomano che dominò il Mediterraneo tra la fine del XV secolo e i primi decenni del XVI? In totale, in circa un millennio e mezzo, 105. Per oltre la metà oggi distrutte o ridotte in condizioni precarie. Quelle medie erano alte 10 metri, quelle più alte arrivavano a quattordici. E il loro fascino, quando non è stato guastato da improvvidi interventi edilizi, è rimasto intatto fino ad oggi.

Bene. Sapete ora quante torri eoliche in mare, in buona parte alte 265 metri cioè diciannove volte più delle torri antiche più alte dell’antica Ichnusa, sono in attesa d’essere costruite in Sardegna? Un’enormità: 514. Dieci volte (dieci volte!) di più della cinquantina di antiche in condizioni decenti o restaurate. Lo denunciano gli ambientalisti del Grig, il Gruppo di intervento giuridico da sempre in prima fila «non» contro le energie alternative ma le «speculazioni energetiche» di chi è interessato solo all’affare, che hanno presentato sabato l’ennesimo «atto di opposizione al rilascio di una nuova concessione demaniale marittima». «Come si trattasse della richiesta di tirar su un chiosco», spiega il portavoce del Grig,Stefano Deliperi: «Il buon senso dovrebbe imporre procedure ovvie: lo Stato, le Regioni, le soprintendenze, dovrebbero essere obbligati a individuare, non alle calende greche ma in tempi rapidi le aree migliori sia per produrre energia eolica col massimo risultato ottenibile sia a tutelare quanto più si può i paesaggi, le flore, le faune, i tesori archeologici per poi mettere questa mappa a disposizione di tutte le imprese. Qui, finora, succede il contrario».

Vale a dire che tutti ma proprio tutti i 514 piloni agganciati in mare davanti a coste bellissime circondate dalla palizzata eolica (308 aerogeneratori solo nelle acque della Gallura, della Maddalena, della Costa Smeralda, di Tavolara e San Teodoro) sono stati progettati da aziende private. Non uno dagli uffici pubblici. Fatto è che «nessuna procedura di V.A.S. (Valutazione ambientale strategica) e nessun procedimento di V.I.A. (Valutazione di impatto ambientale) è stato neppure avviato»...

Dai colli toscani a Taranto, la guida turistica dei parchi eolici italiani. La Repubblica il 15 giugno 2022. Un progetto realizzato da Legambiente e presentato in occasione della giornata mondiale del vento. Un volume e un sito internet raccontano i territori che ospitano questi impianti con cartine interattive e informazioni turistiche

Dalle montagne liguri affacciate sul mare a Matera, seguendo i colli toscani e siciliani, le aree interne e i piccoli paesi abruzzesi, molisani e campani. I parchi eolici della Penisola, integrati nel paesaggio e con il consenso delle comunità, non solo contribuiscono alla transizione ecologica, rifornendo di energia rinnovabile famiglie e imprese, ma favoriscono anche lo sviluppo del territorio, creando valore e occupazione. Nel 2022 sono arrivati a quota 18 da Nord a Sud lungo lo Stivale, mappati in undici regioni italiane e raccontati dalla seconda edizione della "Guida turistica dei parchi eolici italiani": un'iniziativa presentata oggi 15 giugno in occasione della Giornata mondiale del vento, il Global Wind Day, a opera di Legambiente.

Dal primo impianto eolico in mare a Taranto fino al primo parco cooperativo a Gubbio (Perugia), passando per le torri e le installazioni artistiche nell'altopiano dell'Ogliastra (Nuoro), l'innovazione green viene descritta in un volume e sul sito parchidelvento.it con cartine interattive e informazioni turistiche. Un progetto dell'associazione ambientalista, la prima guida al mondo dedicata al turismo eolico. "L'obiettivo è invitare a scoprire territori affascinanti, spesso esclusi dai circuiti turistici più frequentati, osservando da vicino le moderne macchine che producono energia dal vento, indubbiamente tra i laboratori più interessanti della transizione energetica", ha spiegato Legambiente.

"In questo periodo si parla molto di rinnovabili - ha commentato Stefano Ciafani, presidente nazionale dell'associazione - Su queste bisogna puntare per rendere il nostro sistema energetico libero da carbone, petrolio e gas e da qualsiasi dipendenza dall'estero. Si discute molto anche del tema di come integrarle al meglio nel paesaggio, specie in un Paese come l'Italia, ricco di risorse culturali e ambientali. Questa guida racchiude esempi virtuosi che dimostrano che l'eolico può essere fatto bene e integrarsi perfettamente nel paesaggio, con il consenso delle comunità e diventando un valore aggiunto anche in chiave turistica. Per questo è necessario far crescere gli impianti a terra e in mare, con procedure che premino la qualità e la partecipazione dei territori".

Anche le pale eoliche inquinano? Si sperimenta la turbina riciclabile al 100%. Pietro Mecarozzi su La Repubblica il 30 Maggio 2022.

Il ciclo di vita di un aerogeneratore è in media di 20 anni. Nel 2050 si stima che se ne dovranno smaltire 43 milioni di tonnellate. Ma si sperimentano nuovi materiali per il riuso.

Una pala eolica riciclabile al 100%, in grado di rivoluzionare il mondo dell'energia e dell'economia circolare. E quello che sta tentando di fare la GE Renewable Energy, attraverso la sua sussidiaria LM Wind Power, che ha progettato e realizzato la prima pala eolica riciclabile da 62 metri nel suo stabilimento di Ponferrada, in Spagna. 

Il prototipo rientra nel più ampio progetto Zebra (Zero waste blade reseArch), guidato dal centro di ricerca francese Irt Jules Verne. L'iniziativa riunisce aziende industriali e centri tecnici per dimostrare su vasta scala la rilevanza tecnica, economica e ambientale delle pale eoliche dotate di un eco-design che faciliti il riciclaggio. 

Un obiettivo non scontato, in quanto l'industria del vento produce sempre più energia, ma non rispettando in toto i principi dell'economia circolare. Nel 2019 sono state installate 22mila nuove turbine e si stima che la capacità di energia eolica installata aumenterà del 9% fino al 2030 a livello globale. Il ciclo di vita di una pala eolica è mediamente di 20 anni, e al momento non esistono soluzioni circolari per smaltirle. Con un aumento dell'impiego di questa fonte, ci sarà pertanto un aumento dei rifiuti da gestire: secondo uno studio dell'Università di Cambridge nel 2050 si dovranno smaltire 43 milioni di tonnellate di rifiuti derivanti proprio dagli aerogeneratori. 

Con queste premesse, LM Wind Power ha iniziato da poco i test per valutare la durata strutturale e verificare proprietà e prestazioni della pala. Si tratta di un progetto avviato nel 2020, che ha visto coinvolti diversi attori fra aziende e centri di ricerca. Arkema, altro componente del gruppo, ha sviluppato Elium, una resina termoplastica riciclabile per depolimerizzazione o dissoluzione. Tale resina, che sulla pala eolica Zebra è stata rinforzata con fibra di vetro di nuova generazione, è stata presentata nel 2013 da Arkema e successivamente individuata come materiale adatto per una pala eolica riciclabile e quindi inclusa nel progetto. 

La resina costituisce l'intero scheletro della struttura, in quanto presenta esattamente le stesse specifiche di una resina termoindurente: si trasforma alla stessa maniera di una resina epossidica, e può essere stampata facilmente utilizzando tecniche di infusione o flex-molding. Le resine epossidiche sono polimeri con reazione a freddo. Il formulato è, di norma, costituito da una resina base e da un indurente che, miscelati, danno origine a uno strato vetrificato lucido. È utilizzata molto nell'industria elettrica-elettronica in quanto è un materiale isolante. 

Il riciclo di queste enormi pale, di fatto, può avvenire attraverso un processo di riciclo chimico, grazie alla depolimerizzazione della resina, e quindi la sua scissione dalla fibra di rinforzo in vetro. Il prototipo dovrà mostrare se questa resina, utilizzata in questa applicazione insieme a fibre di vetro, è adatta alla produzione industriale di pale eoliche. Sarà poi un altro membro del consorzio, Canoe, a preoccuparsi del processo di riciclaggio, utilizzando un metodo da loro stessi sviluppato che consente il recupero sia del monomero di metacrilato di metile sia della fibra. 

"Con questo progetto stiamo affrontando due sfide cruciali del settore", ha spiegato John Korsgaard, direttore senior per l'eccellenza ingegneristica presso LM Wind Power. "Da un lato, stiamo procedendo verso la nostra visione di pale a rifiuti zero, prevenendo e riciclando i rifiuti di produzione. Dall'altro, stiamo portando la riciclabilità a un nuovo livello: il materiale composito termoplastico delle lame a fine vita ha di per sé un valore elevato e può essere facilmente utilizzato in altri settori come materiali compositi, ma può anche essere depolimerizzato e la resina riutilizzata nella produzione eolica". 

Dopo la produzione, la pala sarà testata nelle strutture della LM Wind Power in Danimarca. Poi verranno verificati e analizzati i metodi di riciclaggio di tutti i materiali a fine vita, con l'obiettivo di lanciare il prodotto sul mercato entro e non oltre il 2023.

Francesco Bechis per “il Messaggero” il 21 settembre 2022.

È un cortocircuito verde. Mentre a Bruxelles gli Stati Ue chiedono alla Commissione di allentare il taglio sui consumi di elettricità, in Italia la transizione verso le energie rinnovabili è in stallo. Da una parte i privati che vogliono investire nel settore green crescono a vista d'occhio. Dall'altra, la quasi totalità dei nuovi progetti legati al Pnrr - presentati al Mite con un percorso accelerato introdotto dal governo Draghi - restano in attesa di un via libera.

Si tratta di quasi 20 Gigawatt (18,67). Poco meno di un terzo di quei 70 Gigawatt - circa 8 l'anno - che secondo il governo dovrebbero essere installati nei prossimi 9 anni per centrare i traguardi della Conferenza di Parigi sul Clima. Il sito del ministero guidato da Roberto Cingolani parla chiaro. Sono 508 i progetti di energia rinnovabile in lista d'attesa.

Di questi, solo uno ha ottenuto il semaforo verde. […]

L'iter è un percorso a ostacoli. Accertata la regolarità del progetto la palla passa alla commissione Pniec-Pnrr. Cioè l'organo di 40 commissari entrato in carica nel gennaio scorso con l'obiettivo di creare un canale preferenziale per i progetti delle rinnovabili legati ai fondi europei. La commissione ha messo il turbo ad aprile, quando sono stati nominati tutti i commissari. Ad oggi ha emesso pareri favorevoli per 2,274 Gigawatt complessivi di energia rinnovabile, con una percentuale che sfiora il 100% di sì. Ma non basta. Ottenuto il parere serve infatti il via libera del Mibact insieme al Mite. Ed è qui che si arena una parte dei progetti.

Energia vs paesaggio, difficile uscirne. Non a caso la settimana scorsa Cingolani ha tirato una stoccata alle soprintendenze culturali: «Se vince sempre il paesaggio bisogna dire ai cittadini che rispetto ai costi dell'energia ci sono altre priorità». Quando tra dicasteri non si trova la quadra, il dossier finisce sul tavolo di Palazzo Chigi, con il Cdm a vestire i panni dell'arbitro. E può succedere che qui arrivi la luce verde, come lo scorso 28 luglio per 11 impianti eolici. Ma la questione va risolta a monte.

Certo, il picco di progetti presentati non è facile da gestire. La crisi energetica e i fondi del Pnrr hanno fatto delle rinnovabili un'occasione ghiotta per tanti privati. Fatto sta che lo stop prosegue. E presenta un conto diverso a seconda delle regioni. Al Sud, dove sole e vento sono più generosi e il mercato cresce in fretta, è salatissimo. In testa c'è la Puglia, con 168 impianti in attesa di via libera, segue la Basilicata con 98 progetti fermi. […]

Ci sono 1400 progetti di solare ed eolico: la burocrazia li blocca. Secondo i dati forniti da Terna, sono tante le domande arrivate nei primi 10 mesi del 2021, per un totale di energia pari a 150GW, ma come dimostra l'ultimo rapporto di Legambiente le autorizzazioni richiedono anni. L'approvazione di anche solo la metà permetterebbe di completare la transizione energetica dell'Italia. Luca Fraioli su La Repubblica il 13 gennaio 2022.  

Se anche solo il 50% delle rinnovabili oggi sulla carta arrivasse al termine del tortuoso iter autorizzativo, se la metà dei progetti presentati diventassero realtà, l'Italia avrebbe di fatto già compiuto la tanto ambita transizione energetica. Il fotovoltaico e l'eolico oggi in lista d'attesa sarebbero più che sufficienti a soddisfare il fabbisogno di energia pulita, abbattendo le emissioni secondo i parametri europei, senza dover tirare in ballo il nucleare o prolungare la vita dei combustibili fossili, a cominciare dal gas naturale. La denuncia arriva dal rapporto di Legambiente "Scacco matto alle fonti rinnovabili", appena pubblicato. Ma ancor più dai dati aggiornati forniti da Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale e che rappresenta un osservatorio privilegiato, visto che chiunque voglia produrre energia deve prima essere autorizzato a distribuirla. 

Il dato di partenza è il seguente: per centrare l'obiettivo della transizione energetica il nostro Paese dovrà installare entro il 2030 80 GW di rinnovabili, con una media di 8 GW l'anno nel decennio a venire (anche se il 2021 ce lo siamo giocato installando appena 1 GW). La cosa straordinaria, come mostrano i numeri di Terna, è che a fine ottobre scorso erano pervenute richieste di autorizzazione per impianti eolici e solari sulla terraferma (on shore) pari a 130GW, cui vanno sommati 22,7 GW di richieste per pale eoliche da mettere in mare (off shore). Dunque un totale di oltre 150 GW richiesti, quando ce ne basterebbero 80. Non solo: Terna ha anche già dato il parere positivo all'allaccio alla rete elettrica per la maggior parte degli impianti proposti. L'85% (pari a circa 110 GW) per l'on shore e il 75% (circa 17 GW) per l'off shore hanno infatti ottenuto il via libera. 

Infine, un dato che sembra smentire quanti ritengono che negli ultimi anni le aziende delle rinnovabili, scoraggiate dalla burocrazia italiana, abbiamo preferito investire all'estero: dal 2018 a oggi le richieste di connessione sono cresciute del 297%. E solo nei primi dieci mesi del 2021 sono pervenute al gestore della rete ben 1439 nuove domande (974 per impianti fotovoltaici, 465 per pale eoliche).

Il problema è che l'ok di Terna rappresenta solo l'inizio di un percorso a ostacoli. Quando infatti una azienda si candida alla realizzazione di un parco eolico o fotovoltaico chiede innanzitutto la possibilità di connettersi alla rete, poi parallelamente avvia il resto dell'iter autorizzativo. Ed è in questa seconda parte del cammino che si nascondono insidie tali da decimare i progetti e rallentare per anni da realizzazione di quelli superstiti.

"A mettere sotto scacco matto le rinnovabili sono normative obsolete, la lentezza nel rilascio delle autorizzazioni, discrezionalità nelle procedure di Valutazione di impatto ambientale, blocchi da parte delle sovrintendenze, norme regionali disomogenee tra loro a cui si aggiungono contenziosi tra istituzioni. E, la poca chiarezza è anche causa delle opposizioni dei territori che devono districarsi tra regole confuse e contraddittorie", si legge nel rapporto di Legambiente. Spesso il risultato, nota l'associazione, è che i tempi medi per ottenere l'autorizzazione alla realizzazione di un impianto eolico si attestino intorno ai 5 anni, contro i 6 mesi previsti dalla normativa. Poi magari ne occorrono altri due per la costruzione vera e propria di una centrale che rischia di essere obsoleta, essendo stata concepita quasi un decennio prima.

Un caso esemplare è quello del parco eolico di San Bartolomeo in Galdo (Benevento). Dopo un lungo iter che ha portato all'approvazione dell'infrastruttura, l'azienda ha proposto di utilizzare aerogeneratori di ultima generazione, più alti e più potenti, riducendone il numero da 16 a 3. Ma la locale Soprintendenza si è opposta: bisognerà valutare come le nuove torri incideranno sul paesaggio. Quindi, paradossalmente, si realizzano le 16 pale approvate e non la soluzione a minor impatto paesaggistico.

Ma il rapporto di Legambiente "Scacco matto alle fonti rinnovabili", da questo punto di vista, è una miniera di storie di ordinaria burocrazia: sono infatti elencate 20 vicende emblematiche di come solare, eolico e biogas si arenino, tra veti incrociati e conflitti istituzionali, in tutta la Penisola, dal Veneto alla Sicilia. 

Che fosse il groviglio di poteri centrali e locali il principale rischio per la transizione ecologica, Roberto Cingolani, titolare dell'omonimo ministero, lo aveva capito fin dall'insediamento, nel febbraio 2021. Allora dichiarò che sarebbe stata necessaria in realtà una "transizione burocratica". A quasi un anno di distanza Cingolani ha rivendicato alcuni risultati: "Il Decreto semplificazioni porterà da 1200 a 300 giorni l'iter autorizzativo per nuovi impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili", ha annunciato a inizio dicembre, spiegando che di fronte a situazioni di stallo d'ora in poi sarà il governo a intervenire sbloccando la situazione. E qualche giorno dopo: "Sono stati autorizzati in queste settimane 400 megawatt proprio grazie a quei poteri". Si tratta di 12 impianti (10 fotovoltaici, per la maggiore parte nel viterbese, e 2 eolici), che però rappresentano ben poca cosa rispetto agli 8.000 megawatt (8GW) di rinnovabili che si sarebbero dovuti installare nel corso del 2021 per rispettare la tabella di marcia europea.

"I progetti sbloccati - avverte il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani - riguardano però grandi impianti fotovoltaici a terra e piccoli impianti eolici, quando invece andrebbero realizzati soprattutto sistemi agrivoltaici, che producono elettricità come integrazione e non sostituzione della coltivazione agricola, e grandi parchi eolici, magari coinvolgendo i territori per ridurre la sindrome Nimby. Oltre a favorire le comunità energetiche che usano localmente l'elettricità prodotta da fonte rinnovabile". 

D'altra parte lo stesso Cingolani aveva ammesso: "Sul tavolo di palazzo Chigi ci sono 40 progetti bloccati per 6 GW". E allora: se sono stati sbloccati 12 progetti da 0,4 GW, che fine hanno fatto i restanti 28 da 5,6 GW? E soprattutto: chi è che li tiene fermi? Dal Mite rispondono in modo sibillino: provate a chiedere al ministero della Cultura. Che però preferisce non replicare. E tuttavia non è un mistero che siano spesso le Soprintendenze a fermare molti progetti, per l'impatto che possono aver sul paesaggio naturale o sui centri storici italiani. 

"La transizione energetica - commenta Ciafani - si farà se finiranno sia il gioco delle parti tra ministeri che la guerra degli enti locali. Il ministro Franceschini deve fissare regole chiare sulla semplificazione delle autorizzazioni del fotovoltaico integrato sui tetti nei centri storici, perché altrimenti le Soprintendenze continueranno a dire sempre no. E ne beneficerà chi vuole fare fotovoltaico a terra oppure nuove centrali a gas".

Per superare l'impasse è stato ora ideato il meccanismo delle "aree non idonee": le Regioni devono comunicare al governo dove non si possono realizzare impianti eolici o fotovoltaici. Il che significa che poi non ci si può più opporre se pannelli o pale vengono collocate su terreni non inclusi nell'elenco delle "aree non idonee". Dunque è in atto una sorta di censimento di zone industriali dismesse, terreni inquinati o comunque non utilizzati a fini agricoli, da destinare alla produzione di energia pulita. Ma molti Comuni non stanno partecipando alla raccolta dei dati e c'è già chi teme che si metteranno di traverso a suon di ricorsi quando scopriranno che sul loro territorio stanno per essere montati pannelli o pale. 

L'ennesima insidia da scongiurare sul cammino delle rinnovabili. In modo che almeno la metà di quei progetti da 150 GW che giacciono nei cassetti da trasformare in realtà. E, con loro, la transizione energetica dell'Italia.

La prima pala nel golfo: sta nascendo il parco eolico di Taranto. Raffaele Capriglia su La Repubblica il 17 febbraio 2022.

La seconda puntata dell'inchiesta sulle rinnovabili in Italia. Il progetto di Renexia è stato avviato nel 2008 e solo ora è stata appena installata la prima turbina delle dieci che sorgeranno a 2 km dalla costa. Beleolico produrrà energia pulita pari a 60mila Mwh per la città.

Taranto punta sulla transizione energetica sfruttando l'energia dal vento. Il primo parco eolico offshore del Mediterraneo sta nascendo nelle acque del golfo ionico, nell'area antistante il molo polisettoriale, a 2 km e mezzo dalla costa. Pochi giorni fa è stata ultimata l'installazione della prima turbina di Beleolico, il progetto che fa capo a Renexia, società del gruppo Toto: sono stati montati i pezzi dell'aerogeneratore. Si va avanti, intanto, con i lavori e tra qualche settimana l'intero parco marino - in tutto 10 turbine - sarà completo.

Beleolico produrrà energia pulita pari a 60mila Mwh per la città di Taranto. Per Renexia, si tratta di "un esempio concreto di transizione energetica", in cui "Taranto diviene il centro di partenza dell'energia del futuro, pulita e sostenibile, grazie al vento e al mare". L'investimento totale è di 80 milioni di euro. L'area di mare interessata è di 131mila metri quadrati. La costruzione del parco eolico rappresenta il primo passo un percorso che il Paese sta intraprendendo in termini di sostenibilità ambientale, verso gli obiettivi del nuovo Piano Nazionale Energetico che prevedono per l'Italia 114Gw di energia da fonti rinnovabili entro il 2030. 

Beleolico sarà composto da dieci turbine per una capacità complessiva di 30 Mw in grado di assicurare una produzione di oltre 58mila MWh, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. In termini ambientali vuol dire che, nell'arco dei 25 anni di vita prevista, consentirà di evitare la produzione di circa 730mila tonnellate di anidride carbonica. L'eolico offshore sfrutta la maggiore forza del vento garantita dal posizionamento in mare delle turbine, rispetto ad un impianto eolico terrestre; ed inoltre, non consuma suolo. Si tratta di "una vera alternativa alle centrali climalteranti, per la produzione di energia pulita e per contribuire alla riduzione delle emissioni in atmosfera di CO2 nel rispetto delle direttive dell'Europa". 

La storia dell'impianto è lunga e articolata. Il progetto inizia nel 2008 e vive fasi alterne, caratterizzate da cambi societari terminati con l'attuale gestione di Renexia e da un braccio di ferro dinanzi alla giustizia amministrativa tra il Comune di Taranto e i proponenti dell'epoca. Dal 2008 ad oggi, quasi 14 anni di complesse vicende autorizzative che hanno ritardato l'avvio dell'impianto; lo stesso ha ricevuto il parere positivo della Commissione Via e Vas nel 2012, respingendo il parere negativo presentato dalla Regione Puglia e il parere della Sovrintendenza per l'impatto visivo generato davanti alla zona industriale di Taranto. Successivamente, l'allora Comune di Taranto, che si era espresso in maniera contraria all'opera, aveva fatto ricorso al Tar di Lecce rimarcando, tra le motivazioni, l'illegittimità del provvedimento. Il ricorso è stato bocciato dal tribunale amministrativo pugliese e la sentenza è stata confermata dal Consiglio di Stato. Nel 2013, l'iniziativa ha ricevuto l'autorizzazione unica.

Nel settembre 2021, si è giunti alla fase finale, con lo sbarco delle componenti e della nave cantiere Mpi Resolution di Van Oord, che sta supportando l'assemblaggio. Oggi i lavori si sono sbloccati, anche se, ad allungare i tempi, nell'ottobre 2021 c'è stato uno stop ad opera appena iniziata, poi superato, a causa di un problema tecnico. Dopo l'infissione parziale nei fondali delle fondazioni monopalo (400 tonnellate di acciaio, lunghe 50 metri, diametro di 4,5 metri), si è svolto l'assemblaggio delle torri suddivise in quattro segmenti. È stata poi montata la prima turbina ed infine, con un sistema di gru, le tre pale, che si muoveranno con la spinta del vento e trasformeranno questa forza naturale in energia. Le turbine, ultime nel montaggio, sono prodotte da MingYang Smart Energy, tra i maggiori produttori cinesi di queste componenti, al loro primo grosso lavoro in Europa. Non lontana dal parco eolico, a tre km, c'è la sottostazione elettrica che, attraverso un sistema di cavi, riverserà l'energia green nella rete Terna e da qui la stessa sarà poi diffusa sul territorio. 

Questa tecnologia "riduce tutti i tradizionali elementi di inquinamento", sottolinea Riccardo Toto, direttore generale Renexia, "e nel periodo della concessione, 25 anni, in cui saremo a Taranto, vogliamo avviare un percorso per diventare parte di questa città che ci sta ospitando, a cui siamo grati e a cui forniremo energia. Ci stiamo impegnando per creare una filiera industriale intorno al parco, per valorizzare le risorse imprenditoriali e professionali già presenti e far nascere una filiera italiana per la realizzazione e gestione di parchi eolici offshore, per far diventare Taranto il punto di riferimento di questo settore".

Il primo eolico offshore che cambia il Mediterraneo. Alessandro Ferro il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A Taranto è nato il primo parco eolico offshore d'Italia e dell'intero Mediterraneo: ecco come è nata l'opera, quali sono i vantaggi e i progetti futuri.

Nelle acque del Golfo di Taranto è stata completata l'installazione della prima turbina di Beleolico, il primo parco eolico marino offshore in Italia e nell'intero Mar Mediterraneo.

L'opera

I tecnici specializzati di Renexia, la società del Gruppo Toto titolare del progetto, hanno ultimato il posizionamento di tutte le componenti del primo aerogeneratore chiamato G07. Le fasi di assemblaggio hanno consentito l'installazione delle torri, suddivise in 4 segmenti, poi è stato il turno della turbina e delle tre pale. Beleolico, come si legge sull'Ansa, sarà composto da dieci turbine per una capacità complessiva di 30 MegaWatt in grado di assicurare una produzione di oltre 58mila MW ogni ora, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. Nell'arco di 25 anni, è stato stimato che si potranno risparmiare circa 730mila tonnellate di Co2. "L'operazione - ha spiegato Renexia in una nota - rappresenta il primo passo del nostro Paese in un articolato percorso di transizione energetica, verso gli sfidanti obiettivi del nuovo Piano Nazionale Energetico (Pniec) che prevedono per l'Italia 114Gw di energia da fonti rinnovabili al 2030. La città di Taranto diviene così il centro di partenza dell'energia del futuro, pulita e sostenibile, grazie al vento e al mare".

I vantaggi dell'eolico offshore

L’eolico in mare è una tecnologia che porta vantaggi nel campo della produzione di energia da fonti rinnovabili, perché sfrutta il vento del mare che ha una forza maggiore. In questo modo, Beleolico sarà in grado di generare più energia rispetto a un impianto eolico sulla terraferma. I vantaggi per l'ambiente sono notevoli: non occupa un suolo fisico, costituisce una vera alternativa per la produzione di energia pulita perché riduce la produzione CO2 ed è un concreto contributo al percorso di transizione ecologica ed energetica che l’Italia ha intrapreso. Finalmente, verranno sfruttati i venti che rendono vantaggiosa la realizzazione di altre centrali eoliche offshore grazie alla nuova tecnologia delle pale che presentano rotori sempre più efficienti e impianti sempre più alti che catturano meglio le correnti d'aria. E poi, per evitare la problematica della profondità dei fondali, molti impianti non saranno più fissati ma "ancorati" come fossero un impianto galleggiante.

L'obiettivo futuro

Ecco perché, tra qualche anno, le centrali eoliche potranno essere costruite a largo a differenza di Taranto con la centrale che si trova a poche decine di metri dal molo. Come si legge su Repubblica, però, Taranto non è che la prima "pietra" di un progetto molto più ambizioso di Renexia che ha l'obiettivo di realizzare il parco galleggiante offshore più grande del mondo nel Canale di Sicilia tra la Tunisia e la zona compresa tra Trapani e Mazara del Vallo ad una profondità compresa tra 100 e 600 metri. "Il progetto - di cui fa parte anche il fondo di investimento Apollo - è nella fase delle autorizzazioni e prevede un investimento da oltre 9 miliardi per un totale di 190 pale distanziate l'una dall'altra da 3,5 chilometri, per una potenza installata complessiva da 2.900 megawatt". Questa potenza, da sola, sarebbe capace di di soddisfare il fabbisogno di energia di tutta la popolazione siciliana, intorno ai 5 milioni di abitanti secondo le ultime stime.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        Il Gas metano.

Estratto dall'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 12 settembre 2022.

Viene da "caos" la parola gas, inventata dall'alchimista fiammingo van Helmont (1557-1644). Gli pareva, ci avverte Savinio (Nuova Enciclopedia, Adelphi), che il "vapore sottile", che sarebbe stato poi chiamato anidride carbonica, somigliasse alla sostanza imponderabile del caos, aria fissa e massa informe, il vuoto di materia che, secondo Platone, diede origine a tutte le cose. 

Duemilacinquecento anni dopo, dunque, il caos della filosofia greca è il gas che racconta il nostro tempo di rigassificatori negati, di rubinetti che si chiudono e bollette che rincarano, del tubo di acciaio che dalla Russia, attraversando la Mongolia, arriverà in Cina.

Gas è il monosillabo che racchiude "un mondo in cui spaventose energie, e non parlo solo degli arsenali nucleari, dormono di un sonno leggero" scrisse Primo Levi, che era un chimico, narratore della tavola degli elementi (Il sistema periodico, Einaudi), amico dell'Idrogeno, che è il più leggero dei gas, e discendente dell'Argon, che è il più nobile dei gas. Ma, ci spiega la filologia, avendo gas e caos la stessa radice dei verbi greci dell'ottimismo, il campo semantico si allarga.

Così, al di là delle apparenze, il caos della matematica è lo stesso delle acque gassate. E l'effervescenza in bottiglia è lo stesso subbuglio delle città: caos e gas di scarico, dare gas e sentirsi gasati nel caos calmo, nel fuoco che produce gas e nel gas che diventa fuoco, anche quello delle passioni tossiche di Gianna Nannini: "Quest' amore è una camera a gas".  […] 

E sullo sfondo del Grande Disordine c'è sempre Pirandello che nacque nella contrada Caos, "il luogo dove avvengono i naufragi". E però, a ricordarci che ben prima dello scellerato Putin, la parola gas rimandava alla guerra e alla morte, c'è ancora Primo Levi che, nel suo memorabile ultimo articolo intitolato "Il buco nero di Auschwitz", scrisse che era stato il "gas prodotto da illustri fabbriche chimiche tedesche" a garantire l'eliminazione fisica di milioni di persone con metodo industriale. E oggi quel gas torna a dare la morte di Stato nelle prigioni della Carolina e persino in Italia dove i detenuti si suicidano sniffando le bombolette che alimentano i fornelli.

"Esplodere o implodere, questo è il problema" si chiedeva Italo Calvino (Cosmicomiche - Einaudi) facendo il verso all'Amleto: "che sia più nobile intento espandere nello spazio la propria energia senza freno, o stritolarla in una densa concentrazione interiore e conservarla ingoiandola". 

Grazie al carobollette ENI aumenta gli utili di 10 miliardi: + 311%.  Valeria Casolaro su L’Indipendente il 29 ottobre 2022.

Volano i guadagni di Eni nel 2022: nei primi nove mesi dell’anno corrente l’azienda ha aumentato del 311% i propri profitti, superando i dieci miliardi di euro di utile netto, escluse le spese straordinarie. Nonostante ciò, il Cane a sei zampe ha deciso di tagliare le forniture di metano ad Acciaierie d’Italia (ex Ilva), la più grande acciaieria della penisola, perché considerata morosa e inadempiente per via di 300 milioni di euro di bollette non pagate. La fabbrica ha ora 90 giorni di tempo per trovare un fornitore che sia disposto a siglare un contratto nonostante la situazione in cui verte.

Eni ha dichiarato di aver dovuto «valutare con la massima prudenza il proprio impegno sulle forniture di gas per l’anno termico 2022/23», per via «della forte incertezza e instabilità che da molti mesi caratterizzano lo scenario dei mercati energetici». Il gruppo ha in effetti precisato di registrare una perdita netta nelle attività italiane di circa un miliardo di euro, soprattutto per via della tassa sugli extra-profitti, il cui importo finale, da saldare il 15 dicembre, ammonterà a 1,4 miliardi (provvedimento contro il quale l’azienda ha comunicato di aver fatto ricorso).

Al via, quindi, lo stop alle forniture di metano ad Acciaierie d’Italia, per via dell’inadempienza nei pagamenti. Al momento a rifornire la fabbrica è Snam, controllata dello Stato tramite la Cassa depositi e prestiti a mezzo del “servizio di default”, disciplinato da una delibera di Arera. L’erogazione del servizio era stata sospesa lo scorso 30 settembre, tuttavia Eni ha comunicato di aver «offerto la possibilità di prolungare la fornitura di gas per il mese di ottobre a tutti i nostri clienti che avessero contratti in scadenza a fine settembre e che non avessero potuto concludere accordi con altri fornitori», compresa Acciaierie d’Italia. [di Valeria Casolaro]

Eni taglia il gas ad Acciaierie d’Italia-ex Ilva che non ha pagato forniture per 300 milioni di euro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Ottobre 2022.

Il dossier ILVA rischia di diventare la prima questione industriale da risolvere per il nuovo governo Meloni. E' partita una corsa contro il tempo per reperire un fornitore di gas per o stabilimento siderurgico di Taranto

Se persino l’ENI, fornitore che storicamente ha sempre fornito metano all’ex ILVA, ora Acciaierie d’Italia, ha smesso di fornire energia alla più grande fabbrica d’Italia, che ha accumulato debiti per circa 300 milioni di fatture non pagate alla società energetica, allora è necessario interrogarsi sulla gestione di Lucia Morselli . Se quella di Taranto non fosse la più grande acciaieria italiana che al momento non è priva di gas alimentando con la sua materia prima prodotta gli impianti del Nord a forno elettrico, non ci sarebbe da preoccuparsi. E’ partita una corsa contro il tempo per reperire un fornitore di gas. 

Per rifornire Acciaierie d’Italia all’ ENI è subentrata la Snam, un’ altra società di Stato controllata tramite Cassa depositi e prestiti, grazie al “servizio di default” che disciplinato da una delibera Arera, l’autorità garante per l’energia, che concede 90 giorni di tempo per trovare un fornitore che faccia un contratto a chi si trova in questa situazione. Il periodo di default vero e proprio quindi partirebbe, il 1° gennaio, considerato che l’ENI, a causa della morosità ed inadempienza dell ’ex Ilva, ha interrotto l’erogazione lo scorso 30 settembre. Peraltro una successiva delibera dell’ Arera emanata lo scorso 12 ottobre, consentirebbe all’ENI di poter firmare contratti mese per mese con pagamento anticipato, con Acciaierie d’Italia, a condizioni molto peggiorative per la società guidata dall’ Ad Lucia Morselli.

Il dossier ILVA rischia di diventare la prima questione industriale da risolvere per il nuovo governo Meloni. CI sono alcuni decreti attuativi, in carico al ministero del Tesoro ora guidato da Giancarlo Giorgetti, che da ministro dello Sviluppo economico riuscì a far riconoscere nel decreto Aiuti-bis di agosto 1 miliardo di euro in carico a Invitalia, frutto dell’accordo con cui Acciaierie d’Italia si è dotata di una governance paritetica pubblico-privato che concede al socio ArcelorMittal il 50% del capitale ancora per poco . Quei soldi che servivano all’aumento del capitale sociale previsto dagli accordi fra lo Stato e la multinazionale franco-indiana, non sono ancora arrivati ma difficilmente potrebbero essere usati per pagare gas ed energia elettrica. In tal caso potrebbero essere ritenuti “aiuti di Stato”. Che sono vietati dalle normative comunitarie europee. Redazione CdG 1947

Le eco trivelle di Cingolani per trovare gas: "Senza autonomia schiavi della Cina". Il consulente del governo sull’energia spiega come trovare altri giacimenti. A Bracciano avviata la ricerca di litio. C’è il rischio che sia bloccata. Annarita Digiorgio il 30 Ottobre 2022 su Il Giornale. 

Durante il suo intervento programmatico il Presidente Meloni ha detto che «abbiamo il dovere di sfruttare i giacimenti di gas nei nostri mari». Una rivoluzione politica rispetto all'egemonia no Triv degli ultimi anni. E poco importa se Meloni o Salvini avessero invitato a votare contro lo «Sblocca Italia» di Renzi nel 2016: quel referendum non raggiunse il quorum, perché a mobilitarsi furono solo i governatori «notriv» del Pd. Ma la moratoria sulle trivelle è arrivata lo stesso, due anni dopo, con l'avvento dei grillini al governo. E nel frattempo è scoppiata una guerra. Durante l'ultima campagna elettorale, sfidando il populismo decrescista, il centrodestra si era unito nella promessa di aumentare la produzione nazionale. Ora che hanno vinto le elezioni, il governo ha confermato quelle intenzioni. Ma tecnicamente cosa farà? Ne abbiamo parlato con Roberto Cingolani, in una chiacchierata informale al rientro dal Lussemburgo. 

La continuità è data dal passaggio di consegne del decreto sull'Energy Release che Cingolani aveva annunciato sullo scadere del governo Draghi, e su cui il governo Meloni ha deciso di metterci la firma. Con quel decreto verranno messi a disposizione delle aziende energivore italiane due miliardi di metri cubi di gas nazionale ad un prezzo particolarmente vantaggioso.

Per ottenere questo gas, che altrimenti gli operatori venderebbero sul mercato, li si autorizza nel frattempo a esplorare altre zone in cui ci sono già dei giacimenti attivi, arrivando a raddoppiare la produzione italiana fino a 5/6 miliardi di metri cubi nei prossimi due anni e mezzo. Per riaprire nuovi giacimenti invece va rivisto completamente il «Pitesai», che era fermo da un sacco di tempo sostituito dalle moratorie del governo Conte, ma comunque frutto di quella stagione. 

Ma conviene oggi aprire nuovi pozzi in Italia, rispetto all'osservazione di avere giacimenti troppo frazionati, con poco gas e quindi poco remunerativi? I dati attuali in realtà sono relativi a ricerche effettuate venti anni fa. Ma ci sono cose che si possono fare abbastanza facilmente come il raddoppio della produzione da quelli già attivi. «Opere chirurgiche e non ciclopiche - dice Cingolani - ma va ricordato che i croati tirano su un sacco di gas da giacimenti che sarebbero anche nostri». 

Cingolani è d'accordo con quanto ci ha raccontato il presidente di Federacciai Antonio Gozzi sulla capacità delle aziende italiane di lavorare alla cattura di co2: «Qualunque sistema di produzione di energia con carbon Capture dimezza la co2, i norvegesi questa cosa la fanno normalmente». In Italia invece i passati governi hanno fermato questa opzione, ma anche questa scelta è frutto solo di una decisione politica. «Tecnicamente si può fare, è utile, e se adesso ci sono linee diverse vanno esplorate». Ma purtroppo anche se finalmente il governo ha una linea politica diversa, trova ancora forti avversità dovute alle ritrosie nimby degli enti locali, come avvenuto su rigassificatore, tap e pale eoliche. 

Ad esempio oggi a Bracciano è stata avviata la ricerca del Litio, che è fondamentale per l'accumulo dell'energia se abbiamo deciso (ciecamente) di elettrificare tutto. Ma anche lì bisogna trivellare, e se gli enti bloccano diventeremo schiavi della Cina. Anche di questo ha parlato il Presidente Meloni nel suo discorso quando ha fatto cenno alla neutralità tecnologica. Cingolani ha più volte ricordato anche durante il governo Draghi che «siamo secondi al mondo nella produzione di carburanti sintetici, gli altri non ce l'hanno e cercano di impedirci di sfruttarla costringendoci all'abbandono totale dei veicoli a combustione, ma noi dobbiamo insistere perché un motore a carburante sintetico decarbonizza più dell'elettrico». 

L'idrogeno infine è un buon vettore, ma «se costa 7 euro al chilo quello verde è lontano da qualunque possibilità di esercizio reale. L'idrogeno grigio può costare molto meno ma devi aprire alla possibilità di carbon capture».

La morte di Mattei geniale artefice del «miracolo italiano».  La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Ottobre 2022.

Sessant’anni fa moriva Enrico Mattei. ​​«La Gazzetta del Mezzogiorno» del 30 ottobre 1962 si occupa del caso: tre giorni prima il fondatore e presidente dell’Eni, Ente nazionale idrocarburi, ha perso la vita in un misterioso incidente aereo. Il bimotore Morane Saulnier di Mattei - partito dall’aeroporto Fontanarossa di Catania e diretto a Milano Linate - è precipitato a Bascapè, in provincia di Pavia. La «Gazzetta» segue l’inchiesta e pubblica in prima pagina la foto dell’on. Aldo Moro mentre esprime le sue condoglianze alla vedova. Nato ad ad Acqualagna, nelle Marche, nel 1906, Enrico Mattei inizia giovanissimo a lavorare come operaio; a meno di trent’anni si mette in proprio fondando l’Industria Chimica Lombarda. Nel 1943 si unisce alla Resistenza e nel maggio 1945 sfila accanto a Ferruccio Parri e Luigi Longo nella Milano appena liberata. Nominato commissario liquidatore dell’Agip, riesce a salvare e rilanciare l’azienda, dando nuovo impulso alle perforazioni petrolifere. Si batte per la creazione dell’Eni, di cui nel 1953 viene eletto presidente: opponendosi strenuamente al cartello delle «sette sorelle», Mattei avvia la costruzione di una rete di gasdotti per lo sfruttamento del metano e gestisce con grandi risultati la politica energetica dell’Italia. Sull’incidente aereo si addensano subito molti dubbi. Si legge sulla «Gazzetta»: «Sono proseguiti oggi gli esami della commissione tecnica presieduta dal generale d’aviazione Savi per cercare di stabilire la vera causa della tragica morte di Enrico Mattei: per ora si è sempre costretti a mantenersi nel campo delle ipotesi». Scartata la possibilità che il pilota, considerata la sua esperienza, abbia commesso un errore, restano da seguire poche altre piste: un malore del comandante o forse un guasto a bordo. «Un atto di sabotaggio?» - si chiede ancora il cronista - «qualcuno dei testimoni dice d’aver sentito, prima del boato a terra, il fragore lontano d’una esplosione..». Prende piede, si legge sulla «Gazzetta», un’ultima ipotesi: il simultaneo blocco dei due reattori dell’aereo. «Occorre tenere presente a questo proposito che soltanto venerdì scorso a Parigi un apparecchio del tutto simile a quello dell’ing. Mattei è precipitato con tre alti ufficiali a bordo in seguito al blocco dei reattori». Solo nel 2003 si stabilirà con sicurezza che l’aereo era stato sabotato la sera precedente con una piccola carica di esplosivo. La dinamica è, quindi, ormai chiara, ma - a causa della sistematica attività di depistaggio e occultamento delle prove emersa nel corso delle indagini - resta ancora il mistero sui reali mandanti dell’attentato in cui ha perso la vita uno degli artefici del «miracolo economico» italiano del dopoguerra.

Enrico Mattei, perché all'Italia manca una figura come la sua. Giancarlo Mazzuca su Libero Quotidiano il 29 ottobre 2022

A sessant' anni dalla tragica scomparsa di Enrico Mattei, la figura del rifondatore dell'Eni è sempre più al centro dell'attenzione generale. In un comunicato, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella l'ha definito ieri un uomo delle istituzioni capace di dare grandi benefici all'Italia e, al tempo stesso, in grado di far crescere anche i Paesi produttori di petrolio e gas.

Il capo dello Stato ha aggiunto che l'azione di Mattei «ha contribuito a porre l'Italia al crocevia dei dialoghi di pace e di cooperazione per lo sviluppo». Non solo: secondo il Quirinale, Enrico appartiene a pieno titolo «alla schiera dei costruttori della Repubblica». È proprio il caso di dire che, con la gravissima crisi energetica che ci sta mettendo alle corde, l'esempio dell'imprenditore marchigiano (era nato nel 1906 ad Acqualagna, una delle capitali del tartufo) è al centro dell'attenzione generale.

Sempre ieri il premier Meloni ha, infatti, definito Mattei «un grande italiano che ha contribuito a fare dell'Italia una potenza economica». Ma già martedì scorso, nel suo intervento alla Camera, il presidente del Consiglio l'aveva considerato uno dei maggiori artefici della ricostruzione post-bellica dell'Italia. La neo-premier aveva anche reso nato un suo progetto: il governo dovrebbe farsi promotore di «un piano Mattei» per l'Africa in grado di frenare l'ondata migratoria verso il Belpaese.

Il padre del cane a sei zampe è stato ricordato molto spesso negli ultimi mesi e tanti, a causa dei prezzi del petrolio e del gas sempre più alti per via della guerra in Ucraina, si sono chiesti come lui avrebbe affrontato, se fosse stato ancora vivo, una simile emergenza. Lui si sarebbe certamente stupito nel constatare come l'Italia fosse caduta così in basso sul piano energetico ma poi avrebbe anche indicato la strada giusta per poterci risollevare. È il caso dei rapporti con l'Algeria che l'Eni aveva molto potenziato a cominciare proprio da quel gasdotto che, partendo dal Sahara, si chiama appunto «Enrico Mattei». Rapporti con Algeri molto stretti che, nel corso degli anni, non vennero poi mantenuti tanto che oggi stiamo bussando con il cappello in mano (vedi la recente visita in Africa dell'ex-premier Draghi) per cercare di ottenere un po' di quel greggio che ci manca. Se ci fosse stato ancora Enrico...

A sessant' anni di distanza, quel tragico schianto del bireattore francese Moraner-Saulnier a Bascapé nel Pavese (a bordo, oltre a Mattei, c'erano il pilota Alessio Bertuzzi ed il giornalista americano William McHale) è diventato un "giallo" sempre più intricato tenendo anche conto che alla «cloche» sedeva un pilota molto esperto. Ormai nessuno parla più di un semplice incidente e lo stesso Mattarella ha detto ieri che, sulla morte di Mattei, «grava l'ombra di un criminale attentato». Tra le ipotesi ancora in piedi, quella più accreditata coinvolge i servizi segreti francesi proprio in considerazione del fatto che l'Eni aveva deciso di investire molto sul petrolio algerino. Altri due possibili scenari tirano invece in ballo le "Sette sorelle", le grandi compagnie petrolifere internazionali, ed anche la mafia soprattutto dopo l'omicidio, nel 1970, del giornalista Mauro De Mauro che era stato incaricato di indagare su quel disastro aereo. Tante ipotesi che forse resteranno tali per sempre. A questo punto, una sola cosa è certa: oggi più che mai in Italia manca una figura come Mattei. Sul fronte petrolifero e non solo. 

Enrico Mattei, l’uomo che sfidò i giganti del petrolio: un mistero che dura da 60 anni. Massimiliano Jattoni Dall’Asèn su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

E’ la sera del 27 ottobre 1962. Mancano tre minuti alle 19. Un bimotore Paris II, decollato alle 16:57 da Catania e diretto a Milano Linate, sta sorvolando le campagne del Pavese, non lontano da Melegnano. Dalla torre di controllo seguono la manovra a pochi minuti dall’atterraggio, quando il velivolo scompare dal radar. L’allarme è immediato, ma nei campi vicino al paesino di Bascapè, in provincia di Pavia, i soccorritori trovano solo i rottami dell’aereo. E i resti, sparsi un po’ ovunque, dei tre uomini che si trovavano a bordo: Enrico Mattei, presidente dell’Eni, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale, della testata Time–Life, incaricato di scrivere un articolo su di lui. Nel giro di 24 ore la notizia fa il giro del mondo. Inizia così uno dei tanti misteri irrisolti d’Italia.

Le origini

A 60 anni esatti dalla morte, il «caso Mattei» è un cold case. Il velivolo precipitò a causa di un malore del pilota? O fu un attentato? Certo è che il biplano Paris II aveva già subito un sabotaggio in passato e Mattei era un uomo molto discusso, che aveva diviso con la sua spregiudicatezza l’opinione pubblica. Nato ad Acqualagna il 29 aprile 1906 in una famiglia di modesta estrazione, Enrico Mattei inizia a lavorare come operaio in una conceria a Roma, ma è cosa di breve durata: nel giro di breve ne diventa direttore. Quando si trasferisce a Milano si reinventa rappresentante di commercio per l’azienda di vernici Max Meyer, ma soli trent’anni avvia una sua attività, l’Industria chimica lombarda. Ma ad animare Mattei non sono solo ambizione e un incredibile fiuto: il figlio del brigadiere Antonio vuole meritarsi quello che ha e in quegli anni torna a studiare per diplomarsi come ragioniere («Mio padre diceva che è brutto essere poveri, perché non si può studiare e senza titolo di studio non si può fare strada», ricorderà molti anni dopo durante il discorso per il conferimento della laurea honoris causa all’Università di Camerino) . Ma i venti di guerra spirano sull’Italia e sui sogni del giovane Mattei. Il conflitto è una parentesi che lo vede comandante del Corpo volontari per la libertà come partigiano “bianco”, per la sua estrazione cattolica. Dopo la liberazione di Milano, sfila in testa al corteo del 6 maggio 1945 a fianco di Luigi Longo, Ferruccio Parri e Raffaele Cadorna. Tre giorni dopo viene nominato commissario liquidatore della Snam e dell’Agip, l’azienda statale per il petrolio fondata da Mussolini nel 1926. 

Il petrolio

Invece di seguire le istruzioni del nuovo Governo repubblicano, intravedendo i possibili sviluppi, Mattei decide di non chiudere «il carrozzone statale» e riprende le trivellazioni abbandonate durante il conflitto. Ed è un successo: a Caviaga, in Val Padana, trova il metano, mentre nel 1949, con un vero e proprio colpo di scena, da un pozzo a Cortemaggiore zampilla improvvisamente l’oro nero. «L’Italia ha il petrolio. Ne ha tanto da bastare a se stessa — è l’annuncio entusiasta sul Corriere della Sera dell’epoca — e forse potrà entrare in concorrenza con le altre Potenze produttrici». Ma la gestione disinvolta delle risorse dello Stato da parte dell’imprenditore e neoeletto nelle fila della Democrazia Cristiana accende un forte dibattito in Parlamento. Nulla che comunque lo fermi. Mentre costruisce l’architettura della sua creatura, spaziando dalle pompe di benzina, ai gasdotti, ai moderni Motel Agip, Mattei non ha tempo di andare per il sottile. Nella costruzione del polo petrolchimico di Ravenna si vanterà lui stesso d’aver violato più di 8mila leggi e ordinanze. E così all’accusa di dare quattrini ai partiti in cambio di favori e di finanziare anche i fascisti del Movimento sociale italiano, Mattei risponde senza nascondersi: «Io uso i partiti come un taxi. Salgo, pago la corsa e scendo».

Gli appoggi (trasversali) della politica

Grazie alla Dc, ma anche a una maggioranza politica trasversale a tutto il Parlamento, Mattei si affaccia sul palcoscenico internazionale: acquista petrolio dall’Urss, stipula un accordo con lo scià di Persia offrendogli il 75% degli utili, cerca petrolio in Libia, Egitto, Giordania, pestando i piedi al cartello anglo-americano delle Sette Sorelle. Mentre in Tunisia, Marocco e Algeria, Mattei arriva a intromettersi negli affari interni attirandosi molte antipatie, e nell’agosto del 1961 gli arriva una lettera minatoria dall’O.A.S., l’associazione terroristica dell’estrema destra francese, contraria all’indipendenza algerina.

L’ostilità francese

Ma Mattei non cerca volutamente nemici. «In qualche momento della presidenza Mattei — racconta il suo successore all’Eni, Eugenio Cefis a Dario Di Vico, in un’intervista pubblicata sul Corriere il 6 dicembre 2002 — forse poteva anche prevalere la logica di “molti nemici, molto onore” e con il senno di poi si può sicuramente dire che c’era della mitologia». «Francamente non penso che qualcuno si potesse illudere che ammazzando Mattei si potesse distruggere l’Eni. Nessuno lo poteva pensare... Se devo ragionare in termini di fantapolitica, allora più che a un sabotaggio americano penserei a un attentato di ostilità francese. Avevano ancora il dente avvelenato per i nostri rapporti con l’Algeria».

La versione di Vincenzo Calia

Trascorrono i decenni e le ipotesi sulla morte di Enrico Mattei si accumulano. Le indagini sulla morte si scontrarono con gravi depistaggi. Sul banco degli imputati ci sono l’Oas, l’organizzazione di estrema destra francese, l’intelligence francese, la Cia, la mafia. Ssi pensa che anche il giornalista Mauro De Mauro sia stato ucciso dalla mafia mentre stava per divulgare quanto aveva scoperto sulla morte di Mattei, mentre per altri Pier Paolo Pasolini sarebbe stato assassinato perché aveva iniziato anche lui ad indagare sulla morte del presidente dell’Eni. Le prime inchieste dell’aeronautica militare e della magistratura chiudono però le indagini come disastro accidentale. Per rimettere tutto in discussione bisognerà attendere il 1994, quando un magistrato di Pavia, Vincenzo Calia, decide di riaprire le indagini colpito dalle rivelazioni del boss Tommaso Buscetta che aveva collegato l’incidente di Bascapè e la morte del giornalista Mauro De Mauro che indagava sull’incidente dell’imprenditore per conto del regista Francesco Rosi, alle prese con il film Il caso Mattei. «Il magistrato Calia — scrive Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 7 marzo 2003 — ha chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ma ha vigorosamente argomentato come, a suo giudizio, Mattei sia stato vittima di un attentato i cui mandanti vanno cercati in Italia...». 

Sessant'anni dal caso. Chi era Enrico Mattei: la storia del Presidente dell’ENI e del più grande mistero della storia d’Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Ottobre 2022 

Enrico Mattei è stato imprenditore, partigiano, editore, dirigente pubblico, fautore di una politica estera alternativa, protagonista del boom economico e vittima di quello che è spesso definito il più grande giallo della storia della Repubblica italiana: il mistero del suo aereo che precipitò a Bascapè, in provincia di Pavia, il 27 ottobre del 1962, dopo l’esplosione di una bomba sul velivolo. A sessant’anni dalla morte il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato per come “mise a disposizione la sua esperienza di dirigente industriale dando impulso alla ricostruzione con una forza e una capacità di leadership che lo hanno reso una personalità simbolo della ripresa produttiva del Paese nel dopoguerra. La sua azione ha contribuito a porre l’Italia al crocevia dei dialoghi di pace e cooperazione per lo sviluppo. Con coraggio ha proseguito nella sua opera, pur conoscendo bene quali poteri e quali interessi gli erano avversi. Il suo esempio e la sua figura appartengono a pieno titolo alla schiera dei costruttori della Repubblica”.

Enrico Mattei era nato ad Acqualagna, oggi provincia di Pesaro e Urbino, il 29 aprile 1906. Primo di cinque fratelli, il padre era sott’ufficiale dei carabinieri, la madre casalinga. A 13 anni cominciò a lavorare come verniciatore, poi come garzone in una conceria a Matelica di cui sarebbe diventato direttore nel giro di poco, a soli vent’anni. Quando nel 1929 si trasferì a Milano fondò una propria azienda nel settore chimico. Era iscritto al partito fascista e nel 1936 sposò la ballerina austriaca Margherita Paulus.

Quando nel 1943 lasciò la guida dell’azienda a due suoi fratelli, si unì alla Resistenza ed entrò a far parte del comando militare del Comitato di Liberazione Nazionale, in rappresentanza della Democrazia Cristiana. Il 29 aprile 1945 sfilò a Milano alla testa delle formazioni partigiane, fu insignito della Medaglia d’oro della Resistenza e della Bronze Star dell’esercito americano. Subito dopo la guerra fu incaricato di liquidare l’Agip, l’Azienda Generale Italiana Petroli, nata durante il fascismo e soprannominata “Associazione gerarchi in pensione” per gli scarsi risultati ottenuti.

Lui decise di rilanciarla, convinto che un’impresa nazionale potesse rappresentare la strada principale per l’indipendenza energetica dell’Italia. Da un’ex dirigente allontanato dall’azienda venne a sapere di un giacimento di petrolio a Caviaga, nel lodigiano. C’era metano, non petrolio, che in compenso cominciò a essere estratto a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza. Le attività di estrazione continuarono veloci e numerose in Pianura Padana, così come vennero realizzati gasdotti che collegarono tutto il Paese. A Ravenna venne fondato uno dei primi poli petrolchimici. Enrico Mattei fondò nel 1953 l’ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, che andò a incorporare la vecchia Agip. Per simbolo venne scelto l’iconico cane a sei zampe che sputa fuoco, “il miglior amico dell’italiano a quattro ruote”.

Le stazioni di servizio con i gabinetti, la pulitura dei vetri gratis, il controllo di olio e pneumatici furono altre trovate di Mattei che intanto finanziava partiti, correnti e giornali. Mattei nel 1956 contribuì alla nascita del quotidiano Il Giorno, che sosteneva le imprese dell’Eni e la linea della sinistra democristiana di Amintore Fanfani. Per sopperire alla penuria di risorse energetiche Mattei uscì dai canali ufficiali, controllati dagli Stati Uniti, per recuperare fonti cominciò a trattare direttamente con Paesi ricchi di petrolio come Libia, Marocco, Iran ed Egitto. Gli accordi con questi Paesi prevedevano la cessione agli stessi del 75% dei profitti, il coinvolgimento di questi nel processo produttivo e la qualificazione della forza lavoro locale. Si parlava all’epoca in Italia di “neoatlantismo”: una politica inserita nel Patto ma aperta a collaborazioni con i Paesi non allineati.

Il successo di Mattei entrò però in conflitto con le grandi compagnie petrolifere, per lo più statunitensi, che definiva ironicamente “le sette sorelle” (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf oil, l’anglo-olandese Royal Dutch Shell e la britannica British Petroleum) che ai Paesi del Medioriente offrivano al massimo i 50% dei profitti. “Gli obiettivi di Mattei in Italia ed all’estero dovrebbero destare preoccupazioni. Mattei rappresenta una minaccia per gli obiettivi della politica che gli Stati Uniti intendono perseguire in Italia”, si leggeva in un rapporto del Dipartimento di Stato americano del settembre 1957.

Questo successo suscitò preoccupazione e contrasti anche nella stessa Italia dove pure ambienti politici e industriali erano sostenuti dai finanziamenti di Washington. Mattei nel 1960 concluse anche un accordo con l’Unione Sovietica che prevedeva il rifornimento di petrolio in cambio di merci italiane. Una specie di linea rossa. Mattei si schierò inoltre per l’indipendenza dell’Algeria (ricca di petrolio) dalla Francia. Dopo questa iniziativa ricevette le minacce dell’Organisation de l’Armée Secrète, un’organizzazione di estrema destra francese. A Mattei è stato intitolato un giardino nel centro di Algeri che porta il suo nome così come il gasdotto che tramite la Tunisia collega l’Algeria in Italia.

Mattei aveva una guardia personale, composta da ex partigiani. Stava concludendo un accordo con l’Algeria quando morì. Erano le 18:40 del 27 ottobre del 1962 quando il bireattore Morane-Saulnier, su cui stava viaggiando da Catania a Milano, precipitò in discesa verso l’aeroporto di Linate. A Bascapè, in provincia di Pavia. A bordo con lui c’erano Irnerio Bertuzzi, ex pilota dell’aeronautica militare, e il giornalista di Life William McHale. La prima inchiesta sullo schianto si concluse nel 1966 con il “non doversi procedere in ordine ai reati rubricati a opera di ignoti perché i fatti relativi non sussistono”.

Si parlò di una manovra mal eseguita e perfino di suicidio da parte del pilota. Una commissione di inchiesta ipotizzò un’avaria. Alcuni testimoni, contadini di Bascapè, avevano però raccontato, nelle ore successive all’incidente, di aver visto l’aereo incendiarsi in volo. La tesi dell’attentato travisato da incidente venne avanzata dal celebre film del 1972 Il caso Mattei diretto dal regista Francesco Rosi e interpretato dall’attore Gian Maria Volontè.

Fanfani nel 1986 parlò del caso Mattei come del primo gesto terroristico in Italia. Il pentito di Mafia Tommaso Buscetta raccontò ai magistrati che “il primo delitto ‘eccellente’ di carattere politico ordinato dalla Commissione di Cosa Nostra, costituita subito dopo il 1957, fu quello del presidente dell’Eni Enrico Mattei. In effetti fu Cosa Nostra a deliberare la morte di Mattei, secondo quanto mi riferirono alcuni dei miei amici che componevano quella Commissione”. Una richiesta secondo il collaboratore di giustizia arrivata dalla mafia americana. L’inchiesta aperta nel 1996 a Pavia e chiusa sette anni dopo, con dodici perizie e 612 testimonianze, portarono alla conclusione: sull’aereo era esplosa una bomba.

I mandanti dell’attentato non furono mai individuati: le ipotesi più accreditate rimandano proprio a mafiosi italiani su mandato della mafia italoamericana. Al caso di Mattei è collegata la scomparsa del giornalista de L’Ora di Palermo Mauro De Mauro: il cronista era stato incaricato dal regista Rosi di raccogliere elementi per il suo film. De Mauro scomparve nel nulla, e non fu mai più ritrovato, il 16 settembre del 1970. Il processo per la sparizione si è concluso nel 2011. La Corte di Assise di Palermo confermò che la Mafia voleva coprire i mandanti dell’attentato di Bascapè. I giudici aggiunsero nella sentenza che la morte di Mattei fu un attentato eseguito “su input di una parte del mondo politico”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 26 ottobre 2022.

La parabola di Enrico Mattei (1906-1962) si è conclusa nei cieli sopra Bascapè quando il Morane-Saulnier MS.760, con cui stava tornando a Milano da Catania, precipitò nelle campagne pavesi, dopo essere esploso in volo, mentre era in fase di avvicinamento all'aeroporto di Linate. Si chiudeva così, con la morte del suo inventore, un tentativo di indipendenza energetica che nel mondo non aveva eguali e aveva fatto del cane a sei zampe un simbolo.

Quanto potesse essere pericoloso muoversi nell'ambito della guerra energetica che caratterizzava quegli anni può illustrarlo un altro episodio mai completamente risolto e, guarda caso, legato ad un incidente aereo. Nel 1961, l'anno precedente alla morte di Mattei, Dag Hammarskjöld, il secondo Segretario generale delle Nazioni Unite moriva a bordo di un Douglas DC-6 dell'Onu. 

Si era in piena crisi del Congo, uno dei principali fornitori mondiali di uranio. Il clima mondiale era quello, una guerra fredda dell'energia e del petrolio e, forse, vedendo le attuali guerre dell'energia e del gas, non è cambiato, anzi.

Non stupisce quindi che il caso Mattei su cui si è giunti ad una tardiva verità giudiziaria, che però non porta verso colpevoli certi, abbia attirato l'attenzione sia di storici e giornalisti che di romanzieri. È di oggi l'uscita, per i tipi di Feltrinelli, di L'Italia nel Petrolio (pagg. 544, euro 25) a firma di Riccardo Antoniani (ricercatore alla Sorbone Nouvelle) e di Giuseppe Oddo (giornalista d'inchiesta). 

Il volume prende in considerazione un gran numero di documenti e nella parte iniziale si dedica ad evidenziare un dato fattuale: la differenza di visione strategica tra Enrico Mattei e il suo numero due Eugenio Cefis (1921 - 2004). Negli ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando a un'intesa triangolare fra Italia, Francia e Algeria per la posa di un metanodotto transmediterraneo che avrebbe dovuto far affluire in Europa il gas estratto nel Sahara.

A differenza di Cefis, che operò per riequilibrare i rapporti fra l'Eni e le sette sorelle e per ricondurre la politica petrolifera italiana nel perimetro, angusto ma sicuro, degli interessi economici e militari dell'Alleanza atlantica, Mattei si impegnò fino alla fine per attuare il suo progetto di indipendenza energetica che avrebbe potuto accelerare il processo di unificazione dell'Europa e trasformare l'Italia in una potenza industriale avanzata. 

Dopo la morte di Mattei le cose presero un'altra piega. Un percorso ricostruito anche da Paolo Morando in Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (Laterza 2021) che invece smonta molti dei pezzi della leggenda nera su Cefis. Soprattutto per quanto riguarda la sua ricchezza. In questa intricata vicenda non esistono pistole fumanti...

Forse anche per questo dal punto di vista letterario quello di Mattei in Italia è diventato il giallo dei gialli. 

A partire dal citatissimo romanzo, mai ultimato, di Pasolini: Petrolio (la nuova edizione curata da Walter Siti è uscita nell'aprile del 2022). Nella primavera-estate del 1972, si fece strada in Pasolini l'idea di scrivere il romanzo: divenne poi il progetto più importante sulla scrivania fino all'assassinio del 2 novembre 1975. 

In Petrolio, Pasolini voleva fare i nomi, o almeno provarci, del nuovo Potere, solo all'apparenza senza volto, che stava provocando un profondissimo cambiamento antropologico (noi ora lo chiameremmo globalizzazione e turbo capitalismo). Pasolini intuì che il potere si sarebbe fatto globale e sarebbe uscito dai parlamenti per entrare nei board di un nuovo tipo di Stato: l'azienda multinazionale. L'opera è un non finito, composto di capitoli mobili, che Pasolini chiamava «Appunti».

Al di là delle difficoltà enormi per i critici che si sono avventurati in questo infinito/non finito, dal materiale dai suoi lampi sull'Eni - veri, presunti, mancanti - escono fondamentalmente due ipotesi. La prima. Mattei sarebbe stato eliminato dalla mafia su commissione di americani e francesi, infastiditi, come dicevamo, dall'attivismo di Mattei in Africa e in Medio Oriente.

La seconda. Il colpevole sarebbe Eugenio Cefis, manager legato alla corrente democristiana di Amintore Fanfani e con precise idee politiche. 

Il teorema pasoliniano ha influenzato giornalisti e scrittori. Giusto per citare l'ultimo romanzo, in ordine di tempo: Ho ucciso Enrico Mattei di Federico Mosso, pubblicato per i tipi di Gog nel 2021, mescola con abilità realtà e finzione.

Nelle pagine ci sono Mattei e Cefis ma anche spie senza nome, che muovono segretamente le ruote della Storia. E un agente è dunque il protagonista del libro, l'uomo che ha manomesso l'aereo sul quale viaggia Mattei. La morte del giornalista Mauro De Mauro e del poeta Pier Paolo Pasolini sono legate a quel primo omicidio, Mattei, del quale forse avevano scoperto troppo? Ho ucciso Enrico Mattei prova a immaginare una risposta.

L'ultima intervista a Francesco Forte: "Mattei? Attentato premeditato". Francesco Forte (Busto Arsizio, 11 febbraio 1929 - Torino, 1º gennaio 2022) è stato uno dei più importanti studiosi, accademici e politici italiani. La sua lunga vita, è scomparso all’età di 93 anni, incrocia i passaggi più delicati e difficili della Prima Repubblica. Federico Bini il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Esclusiva

Nel luglio del 2021 avevo iniziato a scrivere un libro sui tanti incontri che ho avuto con i grandi personaggi del '900 italiano. E dopo una bella collaborazione, con una preziosa introduzione al mio libro Un passo dietro Craxi (Edizioni We), chiesi al professore e senatore Francesco Forte di potergli fare alcune domande su un uomo che aveva conosciuto da vicino e che ancora oggi continua a lasciare non solo un grande mistero sulla sua morte ma anche una grande eredità economica e politica. Il riferimento è ovviamente a Enrico Mattei, fondatore dell’Eni, citato anche nel discorso di insediamento dal presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Il professor Forte, con la gentilezza che lo contraddistingueva, non esitò a rispondere alle mie domande. Alla sua improvvisa scomparsa, avevo deciso di lasciare questa inedita intervista nel cassetto in attesa della futura pubblicazione. Ma il ritrovato interesse su una figura chiave della nostra nazione, mi ha convinto ad anticiparla, e a farla uscire oggi 27 ottobre 2022 a sessant’anni esatti dal tragico “incidente” aereo di Bascapè. Mi sia pertanto concesso di mandare un pensiero affettuoso a Francesco Forte, una mente lucida e brillante che manca all’Italia.

Professor Forte, come si diventa Enrico Mattei?

“Serve capacità imprenditoriale, che Mattei si è creato partendo da una piccola impresa marchigiana, e molta tenacia”.

È stato talmente spregiudicato nel suo modo di condurre gli affari tanto da portarlo non vicino ma direttamente alla morte?

“Mattei è stato vittima di un attentato premeditato, attuato dall’OAS, servizio segreto deviato franco-algerino, allo scopo di impedire all’Eni di operare in Algeria, con un accordo globale, riguardante il gas algerino”.

L’Italia del dopoguerra aveva intuito la sua lungimiranza?

“La lungimiranza di Mattei e la modernità dell’Eni - di cui io sono stato consulente economico dalla fondazione in poi, Gino Giugni era l’esperto per la formazione del personale - era ben nota e gli ha creato molti avversari politici e molte denigrazioni, mentre era stata capita dalle grandi multinazionali americane, che avevano deciso di allearsi con l’Eni. Sull’aereo in cui perì, vi era solo un giornalista americano, che lo intervistava in relazione agli accordi che Mattei avrebbe fatto con le sette sorelle del petrolio. Nessun dirigente dell’Eni era su quell’aereo, perché tutti sapevamo che partendo dalla Sicilia la mafia avrebbe potuto sabotarlo. Così tutti quelli che vi erano saliti all’andata, da San Donato Mianese, per l’inaugurazione della nuova e moderna raffineria Eni nel porto siculo, rimasero con un pretesto o l’altro in Sicilia e poi tornarono con aerei di linea”.

Quali erano i rapporti tra De Gasperi e Mattei? E come rimase legato politicamente alla Dc dopo la scomparsa dello statista trentino?

“Mattei aveva un rapporto particolare con Ezio Vanoni, che, a sua volta, De Gasperi aveva scelto come suo ministro per le Finanze e l’Economia, avendolo conosciuto nel 1943, quando fu fatto il Codice di Camaldoli. Io fui assunto come esperto economico, nonostante i miei 25 anni, sia perché avevo scritto saggi sulla tassazione della benzina, del gasolio, dei lubrificanti, del bollo auto come prezzo ombra per l’uso delle strade e sui pedaggi per l’uso delle autostrade, sia perché allievo e supplente di Vanoni alla sua cattedra di Scienza delle Finanze all’Università di Milano. Mattei era stato capo dei partigiani democristiani in Val d’Ossola ed era il rappresentante della Dc, nei cinque capi partigiani, che sfilarono a Milano il 25 aprile, con Pertini per i socialisti, Longo per i comunisti, il generale Cadorna per l’esercito del Regno di Italia, il cui governo provvisorio era allora a Bari”.

Montanelli lo definì come “colui che aveva legalizzato la tangente”.

“Il termine è esatto, ma con un gioco di parole, fa supporre che si tratti della illegalità diventata costume politico. Invece l’Eni faceva regolari contratti con i rappresentanti legali dei paesi petroliferi per l’uso dei loro pozzi e l’esplorazione del territorio. Solitamente costavano il 3% ed erano denunciati all’Ufficio Italiano Cambi per consentire l’esportazione legale dei capitali. Per il gas russo negli anni ‘70, l’Eni pagò una % maggiore, perché una quota andava al Pci e ci fu un condono che ne sanò l’irregolarità”.

Dalla liquidazione dell’Agip inventò l’Eni e si mise a fare concorrenza ai grandi del settore.

“L’Agip, quando Mattei la prese, aveva le piantine con i risultati delle esplorazioni petrolifere, che aveva fatto, in Libia (senza successo), in Croazia e dintorni con successo limitato, ma foriero di sviluppo, e nelle montagne di Edolo ove si era trovata la cosiddetta carbonella, che è catrame secco, indizio di petrolio, che faceva supporre che ci fosse petrolio nel Nord Italia. Gli esperti del petrolio ne erano a conoscenza e Mattei aveva chiesto di fare il capo dell’Agip perché lo sapeva, mentre gli altri pensavano che lo avesse fatto perché aveva la rete di distribuzione di benzina e gasolio. Le trivellazioni portarono alla luce poco petrolio, a Cortemaggiore e una enorme riserva di gas in Val Padana e petrolio nell’area di Novara, sotto le Alpi".

Tra le celebri battute di Mattei ce n’era una straordinaria: “Non mi entusiasma entrare in una bottega per tirare giù la saracinesca”.

“Che significava che lui era un manager innovatore, come i tanti che allora sorsero in Italia. Mattei si era iscritto all’Università Cattolica, Facoltà di Economia, con preside Marcello Boldrini, illustre statistico, nato come Mattei a Matelica, nelle Marche. E Mattei, che aveva il culto dei professori di materie economiche mise a capo dell’Agip il professor Boldrini”.

In che modo la grande finanza, dagli Agnelli, Falck a Pirelli guardavano Mattei?

“Gianni Agnelli, che io ho conosciuto personalmente lo ammirava e lo considerava un alleato per il made in Italy dell’auto. In genere invece i capi delle imprese elettriche e di quelle chimiche, che erano importanti nella finanza lo osteggiavano, come pericoloso rivale”.

L’ostilità della politica italiana, così come lo fu con tanti grandi del capitalismo lo portò a prendersi un “pezzo” di Dc e a fondare un giornale, Il Giorno, guidato da Baldacci.

“Poiché tutte le grandi imprese private avevano un giornale, Mattei fece altrettanto, per difendersi, e scelse Gaetano Baldacci, giornalista innovatore”.

Quale ritratto fa di Gaetano Baldacci? E in che modo Il Giorno dal 21 aprile 1956 rivoluzionò il giornalismo?

“Baldacci aveva un oscuro passato politico, ma poteva fare giornali di ogni indirizzo. Grazie a una équipe di eccezione, che era selezionata dall’amministratore delegato. Lanciò il primo giornale di stile americano, mettendo insieme un gruppo di giornalisti innovatori, a partire da Gianni Brera per lo Sport a Giancarlo Fusco per l’umorismo a Umberto Segre per gli Esteri. Il Giorno aveva anche la 'pagina economica' novità assoluta per l’Italia. Non trovarono nessun giornalista economico. Una settimana prima di uscire in edicola presero me, come supplente part-time, in quanto scrivevo sul settimanale Il Mercurio, articoli con la rubrica Alice nel paese dei bilanci. Segre che faceva la rubrica Esteri mi chiese di dare una mano provvisoriamente e anche l’ENI me lo chiese, riducendomi gli altri impegni. Il Giorno era di centro sinistra, io ero socialdemocratico già da studente universitario. Dopo tre mesi, non trovando un giornalista economico adeguato mi chiesero di restare. Nel frattempo Massimo Fabbri, giornalista professionista che faceva le rubriche di Borsa, aveva imparato a fare la pagina a economica e ne divenne direttore, io facevo solo il fondo. Baldacci pare facesse affari pubblicando articoli di gruppi di interesse, in cambio di soldi e fu sostituito da Italo Pietra, giornalista professionista che diede lui l’indirizzo alla parte economica”.

Come mai nei progetti industriali di Mattei molta resistenza più che all’estero la trovò in Sicilia? La politica locale e l’ombra di Cosa Nostra si misero di traverso ai suoi piani di espansione?

“A mio parere e negli ambienti dei vari settori Eni con cui avevo contatto, si aveva l’impressione che ci fosse un intreccio fra i politici locali, la mafia e interessi di ambienti francesi. Non necessariamente controllati dal governo francese, che condizionavano i nostri referenti in Sicilia nella politica e nei giornali locali e di cui si capiva solo che l’Eni era osteggiato da Cosa Nostra, ma con legami con interessi sconosciuti, non certo le multinazionali americane, con cui l’Eni aveva ormai un compromesso”.

L’intuizione di Mattei per il nucleare?

“Dopo la morte di Mattei, l’Eni si era reso conto che il nucleare non avrebbe sostituito il petrolio e la petrolchimica e che vi erano energie alternative. Per cui l’economicità del nucleare appariva sempre più dubbia mentre si ingigantiva il problema delle scorie radioattive e l’Eni divenne contrario al nucleare mentre l’Enel e gli altri lo sostenevano dicendo che esso era ostacolato dall’Eni, in cui io ormai studiavo tutte le energie alternative, compresi gli scisti bituminosi, da cui ora gli Usa ricavano gran parte del gas”.

Quali erano i legami tra l’Eni e i paesi del Medio Oriente?

“Con i paesi del Medio Oriente vi erano rapporti alterni, dipendenti dal gruppo che era al potere e dal fatto che Iran e Iraq erano rivali e che l’Eni aveva trovato petrolio in Egitto e in una zona contesa da Israele. In genere l’Eni aveva ottimi rapporti con i paesi petroliferi piccoli, come il Kuwait. La formula Eni fifty-fifty in cui la metà è di una società petrolifera Eni insieme a una società petrolifera locale in minoranza, agevolava la persistenza dei rapporti di collaborazione”.

In che modo la CIA guardava all’attivismo di Mattei?

“Per quel che ne so io, alla CIA Mattei era gradito in Africa e in Medio Oriente e in particolare in Libia e in Tunisia. Non era gradito in Russia dato che ciò creava una dipendenza dall’Urss e finanziava il Pci. Ma sulla Russia la CIA, dall’epoca del comunismo asiatico faceva il doppio gioco”.

Lei ha conosciuto privatamente e istituzionalmente figure del calibro di Craxi, Andreotti, Fanfani ecc… come definirebbe Mattei?

“Un imprenditore innovatore che amava l’Italia, ma anche i paesi poveri del terzo mondo, e concepiva l’impresa pubblica come un’impresa di mercato”.

Quel “Piano Mattei” per tornare grandi nel Mediterraneo. Emanuele Beluffi su CULTURAIDENTITA’ il 27 Ottobre 2022

Nel suo discorso programmatico per la fiducia al Governo alla Camera dei Deputati il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha voluto citare Enrico Mattei, di cui ricorre oggi il sessantesimo anniversario della morte: lo ha fatto per confermare l’obiettivo di far tornare grande l’Italia nel Mediterraneo, per ragioni geografiche, economiche e politiche – anche di politica internazionale, essendo il nostro Paese il fronte sud della NATO.

Queste le parole con cui la premier ha menzionato il fondatore dell’Eni: ” […] Un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica, capace di stringere accordi di reciproca convenienza con nazioni di tutto il mondo […] Credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per Africa, un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Unione Europea e nazioni africane, anche per contrastare il preoccupante dilagare del radicalismo islamista, soprattutto nell’area sub sahariana. Ci piacerebbe così recuperare il nostro ruolo strategico nel Mediterraneo”.

Mattei infatti voleva sviluppare il potenziale africano invitando i paesi del Mediterraneo e del Medio Oriente a ribellarsi alla povertà e a quello che potremmo definire l’aiuto non richiesto per farsi spiegare come sfruttare il loro potenziale di crescita economica. Tu chiamalo sovranismo se vuoi: economico ma anche energetico. Sappiamo come è andata a finire: oggi 27 ottobre scorso sono passati 60 anni dalla sua misteriosissima morte.

Messi alle strette dalle sanzioni energetiche alla Russia siamo alla ricerca di canali di approvvigionamento alternativi a quelli che fino a ieri ci forniva l’Orso bianco. Adesso Eni diversifica le importazioni, in Algeria, Congo e Nigeria, trattando anche con Gerusalemme per il gas (soluzione ideale: il gasdotto Eastmed che da Israele arriva in Puglia passando per Cipro e Grecia).

Però, però: 73 anni fa veniva scoperto a Cortemaggiore in Emilia il primo giacimento di metano e petrolio in Europa. A Cortemaggiore, vicino a Piacenza, in una perforazione di quell’ENI allora presieduta da Enrico Mattei, si scoprì il primo giacimento profondo di metano contenente petrolio dell’Europa. Grazie all’abilità di quel manager, la scoperta ebbe un grande impatto mediatico e Cortemaggiore si ritrovò sotto l’attenzione di tutti i giornali, mentre il petrolio estratto venne utilizzato per produrre una benzina chiamata appunto Supercortemaggiore. 

La scoperta del “petrolio made in Italy” (per sostenere la sua politica imprenditoriale finanziò l’apertura di un quotidiano allora assolutamente innovativo, Il Giorno) spinse Mattei a lavorare per un grande obiettivo politico ed economico, che oggi a distanza di settant’anni suona drammaticamente attualissimo: l’autonomia energetica dell’Italia.

Ma le “sette sorelle”, come Mattei chiamò quelle compagnie petrolifere mondiali (Exxon, Mobil, Texaco, Standard oil of California, Gulf, Shell e British petroleum) che avrebbero dominato per fatturato la produzione petrolifera mondiale almeno fino alla crisi del 1973, non presero affatto bene questo modo di autonomia energetica dell’Italia.

Ma una notte la storia ebbe fine, quando l’aereo privato di Mattei esplose nel cielo sopra Bescapé in provincia di Pavia. Il velivolo del manager era partito da Catania con Mattei, il pilota Imerio Bertuzzi e il giornalista americano William McHale per arrivare a Milano, ma prossimo a Linate precipitò: i testimoni parlarono di “una fiammata improvvisa”.

Parve fin da subito evidente che quell’incidente non fosse un incidente ma un attentato, che tra l’altro impedì a Mattei di chiudere un accordo di produzione con l’Algeria contrastante con gli interessi delle “sette sorelle”.

Qual è la verità del caso Mattei? Pasolini, forse, nella finzione narrativa del suo romanzo incompiuto “Petrolio”, ce ne lasciò una indicando… “casa nostra”, mentre oggi il collaboratore di giustizia Maurizio Avola avrebbe svelato che a mettere la bomba sull’aereo di Mattei sarebbe stata Cosa Nostra (americana).

Di certo, con la sua politica autonoma nell’ENI Enrico Mattei aveva dato fastidio alle suddette “sette sorelle” e pure all’OAS (Organisation de l’Armée Secrète) per il sostegno all’indipendenza algerina (e ora sappiamo perché). Leggete il romanzo di Frederick Forsyth “Il giorno dello sciacallo”, pubblicato nel 1971 e da cui due anni dopo Fred Zinnemann trasse un bellissimo film.

E a proposito di film, una possibile verità, fra le tante verità, ce la diede Francesco Rosi con “Il caso Mattei” del 1972. Mentre due anni fa Federico Mosso (GOG) ci diede un suo contributo con il libro “Ho ucciso Enrico Mattei”.

Sia come sia, il padre dell’ENI ci aveva giusto. Idem per il progetto di sviluppo del continente africano, quel “Piano Mattei” citato dal Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con cui ha voluto auspicare un progetto di crescita per l’Africa con effetti economici anche per l’Italia (leggi: stabilizzazione dei flussi migratori ed energetici).

Un risultato che poteva essere raggiunto anche quando il Cav siglò col raìs Gheddafi sotto la tenda del Colonnello a Bengasi il trattato di «amicizia, partenariato e cooperazione» tra Italia e Libia per ridurre il numero dei clandestini che giungevano sulle nostre coste e disporre anche di «maggiori quantità di gas e di petrolio libico, che è della migliore qualità». Poi sappiamo come andò a finire. Ma oggi il Cav ha ripreso un discorso interrotto 10 anni fa rivendicando gli accordi di Pratica di Mare con cui mise allo stesso tavolo USA e Russia, Bush e Putin. Anche questa sembra attualità.

Un'Italia del futuro fra libertà, giustizia e progresso grazie all'energia: il sogno di Enrico Mattei è tutt'altro che realtà. A sessant'anni dalla morte dell'imprenditore, il 27 ottobre del '62, il progetto di Eni e di rendere il nostro Paese indipendente sul fronte delle risorse è sempre più attuale. Francesco Giubilei il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Se Enrico Mattei fosse ancora in vita, non crederebbe ai propri occhi osservando la situazione energetica in cui si trova l'Italia tra caro bollette, rischio di razionamenti e assenza di una propria autonomia. Soprattutto il fondatore di Eni, scomparso il 27 ottobre 1962 a causa della caduta del suo aereo in seguito a un sabotaggio, rimarrebbe attonito per la mancanza di una prospettiva a medio lungo termine per il nostro Paese su un tema cruciale per l'interesse e la sicurezza nazionale come l'energia.

A distanza di sessant'anni dalla morte, colpiscono l'attualità della sua visione e la capacità di dar vita, in un momento storico molto complesso dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, a un colosso come l'Eni, determinante per rendere l'Italia una potenza industriale e portare la nostra nazione tra i grandi del pianeta. Secondo Alessandro Aresu, Mattei «non accettava l'idea che un popolo sconfitto dalla guerra fosse destinato a un ruolo subordinato, incapace di scelte politiche ed economiche autonome. Non sopportava che all'Italia fosse preclusa la grande organizzazione industriale che genera potere».

Non a caso lo stesso Mattei scriveva: «noi italiani dobbiamo toglierci di dosso questo complesso di inferiorità che ci avevano insegnato, che gli italiani sono bravi letterati, bravi poeti, bravi cantanti, bravi suonatori di chitarra, brava gente, ma non hanno le capacità della grande organizzazione industriale. Ricordatevi, amici di altri Paesi: sono cose che hanno fatto credere a noi e che ora insegnano anche a voi. Tutto ciò è falso e noi ne siamo un esempio. Dovete avere fiducia in voi stessi, nelle vostre possibilità, nel vostro domani; dovete formarvelo da soli questo domani».

Tutta la sua attività è stata portata avanti promuovendo l'interesse nazionale italiano come scrive Nico Perrone, autore della biografia Enrico Mattei edita da Il Mulino: «Aveva a cuore soprattutto gli interessi del suo Paese è il riconoscimento che venne al presidente dell'Ente nazionale idrocarburi da un suo avversario, William R. Stott, vicepresidente esecutivo della Standard Oil Company of New Jersey, la maggiore società petrolifera del mondo».

Per raggiungere l'obiettivo di un'Italia forte sul piano economico e industriale, comprese la necessità di realizzare un'autonomia energetica sin dal '45-'46 intuendo che per l'Italia il motore della ricostruzione sarebbe derivato dalla possibilità di avere energia in abbondanza e a costi competitivi. Occorreva perciò ottenere quanti più fornitori possibile e, pur mantenendo il posizionamento atlantico, riuscì a stringere accordi con paesi africani, mediorientali, con la Russia e la Cina. Proprio questa capacità di muoversi al di fuori delle alleanze occidentali e oltre la cortina di ferro, lo portò a numerosi attriti con gli Stati Uniti. Per mitigare gli effetti delle sue aperture terzomondiste e mantenere un legame con l'alleato americano, venne così coniata la nuova visione del neoatlantismo in cui l'Italia assunse il ruolo di «intermediario internazionale non richiesto».

Facendo sponda con la Democrazia cristiana, Mattei riuscì non solo a impedire la messa in liquidazione dell'Agip nel primo dopoguerra ma a realizzare una strategia per la produzione di petrolio italiano attraverso le perforazioni a cominciare dalla Val Padana. L'unico modo affinché l'Italia si affermasse come potenza industriale, poteva derivare a suo giudizio dalla realizzazione di una sovranità energetica. La scoperta di un giacimento di petrolio a Cortemaggiore in Emilia, il primo in Europa, ebbe un grande impatto anche da un punto di vista mediatico e contribuì a rendere più solido il ruolo dell'Eni nell'immaginario degli italiani, complice la celebre benzina Supercortemaggiore.

Un attivismo che non poteva essere giudicato positivamente dalle «Sette sorelle», le compagnie petrolifere americane, inglesi e anglo-olandesi unite in un cartello che controllava oltre il 90% delle riserve petrolifere al di fuori degli Stati Uniti da cui Mattei cercò di affrancarsi concependo l'Ente nazionale idrocarburi non come una semplice azienda ma come parte di un insieme più ampio sinergico al sistema paese.

Per lui l'Eni doveva essere un tassello fondamentale nella politica estera italiana: «noi crediamo nell'avvenire del nostro Paese; abbiamo fede nelle sue possibilità di miglioramento, nelle sue capacità di sviluppo e di progresso; sentiamo il dovere di lavorare, in tutta la misura delle nostre forze, per costruire giorno per giorno l'edificio della libertà e della giustizia in cui vogliamo vivere in pace e che soprattutto vogliamo preparare per le nuove generazioni».

Mattei immaginò l'Eni come una grande realtà energetica a sostegno dell'interesse nazionale italiano; per raggiungere questo obiettivo creò l'Agi, agenzia stampa di proprietà dell'azienda e fondò il quotidiano Il Giorno, due strumenti a servizio della rete internazionale che aveva saputo tessere. Tutta la sua attività è stata animata dalla volontà di superare quel «complesso di inferiorità nazionale» che troppo spesso ha rappresentato un tratto antropologico degli italiani precludendo al nostro Paese, specie in politica estera, spazi poi occupati da altri.

Secondo Francesco Cossiga «Mattei è l'ultimo italiano che tenta la sfida di rifare gli italiani», mentre Leonardo Giordano nel libro Enrico Mattei. Costruire la sovranità energetica: dal gattino impaurito al cane a sei zampe ricorda come Mattei si sia «inventato qualcosa che in Italia non abbiamo, la politica energetica». Una politica energetica che si è interrotta quel tragico 27 ottobre 1962 a Bascapè ma che oggi dobbiamo riscoprire e di cui non possiamo più fare a meno non solo ricordando ma attualizzando la lezione del padre dell'Eni. Al contrario, negli ultimi anni ci si è allontanati dai suoi insegnamenti illudendosi di poter dipendere solo dall'estero per la produzione di energia, dismettendo l'estrazione nazionale di gas e affidandoci eccessivamente a un unico fornitore, un errore che Mattei non avrebbe mai compiuto.

Oltre che un visionario, Mattei è stato un patriota e l'emblema di una storia italiana di successo; nato ad Acqualagna, un piccolo paese marchigiano, pur avendo raggiunto i vertici dello Stato, non ha mai dimenticato le sue origini come ebbe a dire poco prima della sua morte: «sono semplicemente un uomo che, di fronte alle necessità in cui si è venuta a trovare l'Italia, ha fatto tutto quello che era possibile per raggiungere gli attuali traguardi». La sua è stata prima di tutto una grande storia italiana.

Enrico Mattei, il sovranista energetico che sfidò il mondo e per questo morì. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 26 ottobre 2022

Nel 60° anniversario dell'attentato che pose fine alla vita e alla parabola imprenditoriale di Enrico Mattei, esce per le edizioni Byoblu il libro di Gianfranco Peroncini "Veni Vidi Eni" (volume 2) dedicato alla biografia dell'uomo e al suo sovranismo energetico. Il sottotitolo precisa l'oggetto dello studio: "L'attentato di Bascapè. Sette mandanti per sette sorelle: un delitto abissale...". Mattei morì insieme al pilota Irnerio Bertuzzi e al giornalista americano William McHale il 27 ottobre 1962 nei cieli di Linate, quando il suo aereo esplose in volo sopra il Comune di Bascapè. Spiega l'autore: «Già il fatto che un tenace magistrato (Vincenzo Calia) sia riuscito ad accertare a decenni di distanza, nell'arco di un'inchiesta durata dal 1994 al 2003, che la morte di Mattei è da attribuire ad un congegno esplosivo collocato sul suo aereo, dev' essere considerato un successo formidabile. Oltre queste colonne d'Ercole, ovvero individuare esecutori e mandanti non è possibile avventurarsi. Fondamentale, però, inquadrare l'attentato di Bescapè nella sua cornice storico-politica».

Lei scrive che nell'immediata vigilia dell'attentato, contro il fondatore dell'Eni si fossero addensate le condizioni di una "tempesta perfetta".

«Guerra Fredda, tensioni mediorientali, forniture di greggio sovietico, futuro europeo della formula pilota italiana del centrosinistra, pervicace inserimento dell'Italia in zone nevralgiche ed esplosive dello scacchiere internazionale. Non ultimo la sintonia con la nuova amministrazione Usa di J.F.

Kennedy. Un filo rosso che accomuna i due personaggi è l'ostilità della Cia, soprattutto dei suoi handler di massimo livello, ambienti che non possono vedere Mattei e che non amano, per così dire, il primo presidente cattolico degli Stati Uniti. 

La guerra tra Mattei e le compagnie petrolifere americane ha il suo culmine alla fine degli anni '50 ma parte da lontano...

«Nel 1946 Mattei viene indicato come liquidatore di Agip, azienda di Stato fondata nel 1926 allo scopo di garantire le necessarie forniture di petrolio all'Italia. Anziché smobilitare, Mattei continua invece le ricerche finché, nel marzo 1946, trova il metano nello storico pozzo di Caviaga 2 nel Lodigiano. È l'oro bianco che sarà il motore del "miracolo economico" italiano.

Mattei si comportò in maniera diametralmente opposta a Romano Prodi, al quale decenni dopo fu affidato il compito di liquidare l'Iri, compito che gestirà con impegno alacre sino ad arrivare alla presidenza del Consiglio a Roma e a quella della Commissione europea a Bruxelles. Mattei, invece, fu l'uomo che osò sfidare il mondo in nome dello strategico sovranismo energetico nazionale. Ne avrebbe pagato il prezzo». 

È questa la chiave dell'attentato di Bascapè?

«Mattei ripeteva sempre che non esiste indipendenza politica senza indipendenza economica, avendo compreso che un'ampia disponibilità di energia a prezzi accessibili era condizione necessaria perla ricostruzione del Paese distrutto dalla guerra. Tra il 1954 e il 1955 l'Eni comincia la sua crociata mediorientale fuori dal controllo dei grandi gruppi petroliferi. In Egitto, in Persia in Libia... A Teheran firma un accordo rivoluzionario (75% del ricavato al produttore e 25% all'estrattore contro la tradizionale formula angloamericana del fifty/fifty). Sino al capolavoro in odore di "eresia atlantica": dall'Unione Sovietica, in piena Guerra Fredda, ottiene forniture di greggio in cambio di merci prodotte in Italia, sgravando così la bilancia dei pagamenti nazionale. Poi punta sull'Algeria, appena indipendente, per replicare il modello persiano».

È paradossale che il "petroliere senza petrolio" muoia proprio mentre sembra sul punto di siglare una pace con Washington grazie all'amministrazione Kennedy.

«Mattei muore poco prima di firmare con l'Algeria e la Francia un accordo straordinario per il rifornimento di metano e petrolio e prima del viaggio negli Stati Uniti che avrebbe sancito il suo trionfo definitivo, benedetto dalla Casa Bianca. Sul suo assassinio non ci sono certezze ma con ogni evidenza, date le ripercussioni a cascata prodotte dalla sua scomparsa, non poteva che essere deciso molto in alto. Da "profondità abissali", per così dire, e con il concorso locale dei comprimari necessari. Con ogni probabilità gli stessi mandanti che avrebbero replicato lo stesso copione a Dallas, il 22 novembre 1963. Un anno dopo Bascapè».  

Dall’omicidio Mattei a Eugenio Cefis: così l’Italia ha perso la corsa al gas e petrolio. L’attentato che ha ucciso il fondatore dell’Eni, l’ascesa del suo ex vice, la scalata alla Montedison. I fondi neri ai partiti. Il romanzo-choc di Pasolini rimasto incompiuto. Un libro-inchiesta documenta come e perché è finito il sogno tricolore dell’indipendenza energetica. Paolo Biondani su L'Espresso il 24 Ottobre 2022.

Un'Italia che conquista l'indipendenza energetica: si libera dal giogo delle multinazionali, esplora e sfrutta al meglio le proprie risorse, stringe accordi privilegiati con le nazioni emergenti che hanno bisogno di tecnici e strutture per produrre gas e petrolio, dall'Egitto all'Iran, dalla Libia al Marocco. Una strategia che stava cambiando l'economia e la politica internazionale del nostro Paese, ma è stata fermata con una bomba: l'attentato che 60 anni fa, la sera del 27 ottobre 1962, ha ucciso il fondatore dell'Eni, Enrico Mattei, con altre due vittime, sull'aereo aziendale partito nel pomeriggio dalla Sicilia, esploso in volo mentre il pilota iniziava la manovra per atterrare a Milano Linate.

Una strage rimasta impunita. Che mai come oggi, nei mesi della crisi del gas scatenata dalla guerra russa in Ucraina, rivela la sua portata storica di svolta violenta, di passaggio traumatico per la democrazia in Italia. Dopo l'omicidio di Mattei, che fu negato per decenni, facendolo passare per incidente aereo, al vertice dell'Eni è asceso il suo ex direttore generale, Eugenio Cefis. Che in pochi mesi ha rovesciato la politica energetica dell'azienda nazionale. Ha ridotto gli acquisti e limitato gli accordi societari con le nazioni emergenti. E ha ripristinato e aumentato la dipendenza italiana da multinazionali anglo-americane del calibro di Esso e Shell. Dopo aver normalizzato l'Eni, Cefis ha poi scalato segretamente la Montedison, con fondi dell'azienda statale, diventando negli anni Settanta il numero uno del primo gruppo chimico privato, che era stato il suo principale concorrente. E che già allora, come l'Eni, distribuiva fiumi di tangenti ai partiti di governo.

A quegli anni cruciali, che hanno inciso la matrice della struttura produttiva italiana, è dedicato un libro-inchiesta, «L’Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell’indipendenza energetica», frutto di anni di ricerche di Giuseppe Oddo, giornalista economico che scrive anche per L'Espresso, e Riccardo Antoniani, professore di letteratura italiana a Parigi. Il saggio viene pubblicato da Feltrinelli nei giorni dell'anniversario della morte di Mattei e nel centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini, che fu ucciso nel novembre 1975 mentre stava lavorando a un romanzo clamoroso su Cefis, intitolato Petrolio, rimasto incompiuto.

La prima parte del volume, quella economica firmata da Oddo, è la cronistoria di una sorta di golpe applicato all'industria: si parte dall'Eni di Mattei e si arriva alla Montedison di Cefis. Grazie un imponente documentazione recuperata negli archivi storici e a molte carte e testimonianze inedite, il saggio dimostra che Mattei, come rivendicò egli stesso in discorsi pubblici, aveva rivoluzionato il mercato mondiale dell'energia, stipulando accordi alla pari con i Paesi emergenti. 

Nelle ex colonie francesi e inglesi che conquistavano l'indipendenza, l'Eni entrava in società con le aziende petrolifere nazionali, che per la prima volta potevano sfruttare e rivendere il proprio gas e petrolio, insieme agli italiani. La rottura del monopolio delle multinazionali, unita ai primi accordi tra l'Eni e l'Unione sovietica per le importazioni di greggio, provocò reazioni allarmatissime nel blocco occidentale. Nel saggio c'è una lettera inedita di Raffaele Matteoli a Nelson Rockefeller: il banchiere italiano chiedeva al miliardario statunitense, già nel 1957, di favorire un incontro pacificatorio tra Mattei e i capi dei colossi petroliferi americani. Ma ci sono anche verbali della Nato, del Dipartimento di Stato e delle multinazionali più ostili a Mattei, che fu contrastato anche da politici e soprattutto da aziende francesi e inglesi. Il fondatore dell'Eni fu accusato di fare da emissario commerciale dei comunisti sovietici in Europa e di sostenere il processo di decolonizzazione in Paesi come l'Algeria, mettendo in discussione il vecchio ordine petrolifero mondiale, fondato su un accordo monopolistico di “cartello” tra le maggiori compagnie anglo-americane, le cosiddette “sette sorelle”.

Nei suoi ultimi mesi di vita, Mattei stava lavorando al maxi-progetto Eurafrigas: un accordo dell'Eni con Algeria e Francia, per estrarre gas nel Sahara e trasportarlo con un colossale metanodotto da Gibilterra alla Spagna fino in Italia e Belgio. Le carte documentano che, dopo la sua morte, Cefis fece fallire le trattative.

L'omicidio di Mattei viene ricostruito dal magistrato Vincenzo Calia: furono le sue indagini a dimostrare che l'aereo Morane-Saulnier 760 fu fatto esplodere in volo con una carica di esplosivo nascosta nel vano anteriore del velivolo e collegata al carrello di atterraggio. Una bomba ad effetto limitato, per simulare un incidente. L'ex procuratore di Pavia, nell'intervista, rivela un dato finora trascurato: l’avvocato Vito Guarrasi, eminenza grigia della Dc siciliana, ha testimoniato sotto giuramento al processo Andreotti, nel 1998, che aveva incontrato Cefis a Palermo il giorno prima della morte di Mattei. Finora si ignorava che nei due giorni in cui veniva preparato l'attentato contro il fondatore dell'Eni, il suo successore potesse essere in Sicilia. Che Mattei sia stato ucciso, ormai lo conferma anche la sentenza sul sequestro e omicidio del giornalista Mauro De Mauro, che stava ricostruendo per il regista Francesco Rosi il suo fatale viaggio in Sicilia. E prima di scomparire, nel settembre 1970, parlò di uno scoop, che non riuscì a pubblicare.

Tutta questa catena di delitti è rimasta senza colpevoli. Anche grazie a continui depistaggi. E alla sistematica distruzione di prove. Come i resti dell’aereo di Mattei, fatti fondere da Cefis dopo la prima archiviazione del caso come incidente. L'indagine dell'ex procuratore Calia, condotta molti anni dopo, non è riuscita a identificare gli autori dell'attentato. E lo stesso magistrato chiarisce che «non sono emersi indizi a carico di Cefis», che è morto nel 2004 in Svizzera, dopo aver rilasciato l'unica intervista della sua vita, proprio per negare qualsiasi responsabilità nella morte del fondatore dell'Eni.

Pasolini, nelle bozze di Petrolio, denuncia che Mattei fu assassinato. Lo scrittore si spinge ad accusare Aldo Troya, il personaggio ispirato a Cefis, di essere il mandante e il beneficiario dell'attentato. Il testo di Pasolini viene analizzato nella seconda parte del saggio, curata dal professor Antoniani, che ne identifica le fonti. Tra quelle scritte spiccano interi paragrafi di un pamphlet, «Questo è Cefis», che la Montedison fece sparire dal mercato: ne risulta autore, sotto pseudonimo, un giornalista lombardo con un passato all'Eni, Luigi Castoldi, reclutato dal politico Gaetano Verzotto, che fu tra gli organizzatori del viaggio di Mattei in Sicilia. Pasolini lavorava su Mattei e Cefis fin dal 1972. E per la sua inchiesta ha incontrato molte persone: manager come Mario Reali, ex Montedison passato all'Eni, e politici come Giulio Andreotti, che aveva sempre negato di aver visto lo scrittore, ma è smentito da un suo stesso appunto. Pasolini collega Cefis anche alla strategia della tensione, facendone una sorta di precursore dell'ancora sconosciuta loggia P2.

Cefis, riservatissimo, ha parlato di soldi ai politici solo nel 1993, al culmine di Mani Pulite, in un interrogatorio pubblicato integralmente da L'Espresso. Davanti ai magistrati, l'ex presidente ammette che l'Eni finanziava i partiti di governo, dalla Dc al Psi, e singoli politici. Ma minimizza il proprio ruolo: sostiene di aver ereditato «un sistema creato da Mattei»; e giura di non sapere i nomi dei beneficiari delle tangenti, dichiarando che era il banchiere Arcaini dell'Italcasse a gestire la distribuzione dei fondi neri. Sulla Montedison, non dice nulla. Anche se proprio quel colosso chimico, nell'era successiva Gardini-Ferruzzi, è stato al centro del processo Enimont, che fece emergere la cosiddetta «madre di tutte le tangenti».

Nel saggio c'è un paragrafo, intitolato con ironia «le nonne di tutte le tangenti», con un verbale del sindacato azionario che controllava la Montedison ai tempi di Cefis. È l'unico con la dicitura «riservatissimo» in caratteri rossi. Alla riunione partecipa il gotha del capitalismo italiano: Agnelli, Pirelli, Cuccia e altri, insieme a Cefis. Gli azionisti pubblici e privati votano per limitare le «erogazioni a fini sovventori»: fondi neri della Montedison, in precedenza distribuiti senza limiti dall’allora presidente Giorgio Valerio. Quindi basta soldi ai politici? Ma no: dall'anno successivo, si legge nel verbale, il capo della Montedison dovrà farsi autorizzare le «erogazioni» e rispettare «un budget massimo».

A Milano, nell'interrogatorio sulle tangenti anonime, Cefis si era descritto come un manager aziendalista che «disprezzava» la classe politica. Nel libro-inchiesta vengono però pubblicate carte che comprovano un rapporto strettissimo con diversi capicorrente della Dc. In particolare i diari di Ettore Bernabei, che fu consigliere politico di Amintore Fanfani oltre che direttore generale della Rai e presidente dell'Italstat del gruppo Iri, documentano che Cefis era alla costante ricerca di finanziamenti statali e coperture politiche. Pressioni e manovre culminate, dopo la sconfitta di Fanfani al referendum sul divorzio, nel tentativo fallito di ottenere l'appoggio dell'ex nemico Andreotti, che però aveva già altri gruppi chimici da favorire, come la Sir di Nino Rovelli.

Una parabola economica che si riassume in un dato finale: nel 1977, quando Cefis ha lasciato l'Italia e si è ritirato in Svizzera («per paura», secondo una laconica nota dei servizi segreti), la sua Montedison era ridotta «in stato prefallimentare», come documenta il saggio, con «un indebitamento finanziario pari a sedici volte il capitale netto».

Il libro è ricchissimo di documenti. Un carteggio riservato, ritrovato nell'archivio storico dell'Eni, offusca anche il mito di Indro Montanelli, il più importante giornalista italiano, che firmò due famose sequenze di articoli, la prima contro Mattei, la seconda a favore di Cefis. Nel 2001 Montanelli smentì di aver mai ottenuto finanziamenti da Cefis, quando lasciò il Corriere, nel 1974 (accusando l’allora direttore Piero Ottone di appoggiare la sinistra), per fondare il Giornale nuovo, poi acquistato dalla famiglia Berlusconi. «Non avevamo un finanziatore», ha scritto Montanelli, «né una banca, né un'azienda pubblicitaria, finché non ce ne venne in soccorso una svizzera, la Spi, che poi fu comprata dalla Montedison, la quale si affrettò a rescindere il contratto».

In realtà la Spi era fin dall'origine una controllata svizzera del gruppo di Cefis. E finanziò la nascita del Giornale anticipando due anni di «minimo garantito»: incassi futuri della pubblicità, coperti proprio dalla Montedison. Il libro ora rivela anche come nacque quel rapporto tra il giornalista e il manager petrolchimico. A documentarlo è una lettera dello stesso Montanelli, che chiede un incontro privato a Cefis per preparare una serie di articoli sull'Eni. Il giornalista ricorda i suoi precedenti attacchi a Mattei. E prende due «impegni» con Cefis: «primo: a non sollecitare altre fonti d’informazione se lei mi apre le sue»; «secondo: a sottoporre alla sua approvazione e revisione i miei articoli prima che siano pubblicati». I tre servizi per il Corriere escono nell'aprile 1965, firmati da Montanelli, che non dichiara la sua unica fonte e non attribuisce neppure un virgolettato a Cefis.

La disinformazione sulle cause dei prezzi del gas copre la speculazione delle aziende. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 22 agosto 2022.

L’inflazione all’interno dell’Unione europea ha raggiunto a luglio il livello record del 9,8%, mentre il gas ha superato nelle scorse ore la soglia dei 290 euro al megawattora (MWh) sul mercato di Amsterdam. I due fenomeni sono correlati, dal momento in cui un aumento del prezzo dei beni energetici provoca di riflesso costi maggiori per i produttori e, quindi, beni e servizi immessi sul mercato a un prezzo più elevato rispetto al periodo precedente. La narrativa dominante degli ultimi mesi semplifica – disorientando i lettori – le cause di questi incrementi a un unico evento: la guerra in Ucraina, dimenticando diverse variabili esplicative, una su tutte la speculazione delle imprese. A questa, si aggiungono uno squilibrio (nato prima del conflitto Kiev-Mosca) tra domanda e offerta del gas – la prima in crescita dopo la fase acuta della pandemia e l’altra stabile, in uno scenario che provoca l’aumento dei prezzi – e un rendimento dell’eolico inferiore alle attese, che si ricollega alle conseguenze del cambiamento climatico.

Affrontando il tema dell’aumento dei prezzi a luglio, avevamo aperto all’ipotesi di star vivendo all’interno di una bolla speculativa, dove (semplificando al massimo) i prezzi di vendita sono più alti di quelli reali, gonfiati dalla volontà di maggiori guadagni o contratti più vantaggiosi. In finanza, la speculazione ingloba tutti i tentativi di ottenere un guadagno da fluttuazioni del mercato in tempi brevi attraverso operazioni rischiose. Nella speculazione al rialzo – più famosa di quella al ribasso – gli individui acquistano dei titoli, prevedendo un aumento delle loro quotazioni (un aumento di “valore”), con l’obiettivo di rivenderli al maggior prezzo possibile. Oltre ai titoli, anche i beni possono essere al centro dell’attività speculativa. In particolare, i beni alimentari e quelli energetici hanno subito negli ultimi mesi ingenti incrementi, dettati non solo dal mancato incontro tra domanda e offerta ma anche dalla volontà dei paesi produttori e degli agenti economici di guadagnare di più dagli accordi esistenti. In tanti, e in particolare le multinazionali, stanno sfruttando la paura della scarsità dei beni agricoli ed energetici per vendere a un prezzo maggiorato o per stipulare contratti più vantaggiosi. Che l’inflazione abbia avuto un impatto sui costi per le attività è innegabile, ma che il prezzo finale attuale di un bene o di un servizio scaturisca esclusivamente dal fenomeno inflazionistico e sia esente da logiche speculative è tutto da vedere.

Alla luce di tali considerazioni può essere spiegato l’attuale prezzo del gas, gonfiato dal gioco speculativo e dagli interessi delle multinazionali energetiche, che negli ultimi mesi hanno segnato profitti da record. L’utile di Eni relativo alla prima metà dell’anno è stato di 7,39 miliardi di euro, in aumento del 600% rispetto ai primi sei mesi del 2021, quando la multinazionale del gas e del petrolio ha chiuso con 1,1 miliardi di guadagno. L’utile di Eni «o meglio extraprofitto deriva dalla speculazione sui prezzi dell’energia che sta mandando al fallimento le imprese e portando alla disperazione milioni di famiglie» ha commentato il co-portavoce nazionale di Europa Verde, Angelo Bonelli, che ha poi aggiunto: «Gli extraprofitti devono essere restituiti al 100% a famiglie e imprese». Un tentativo in tale direzione, seppur minimo, era contenuto nel nuovo Decreto Bollette approvato dal governo Draghi a luglio. Peccato che l’articolo 10 della norma, relativo all’introduzione di una tassa sugli extraprofitti delle compagnie energetiche, sia scomparso dalla stesura finale, rafforzando di fatto i rapporti lungo l’asse esecutivo-De Scalzi, l’amministratore delegato di Eni che negli ultimi mesi ha accompagnato il ministro degli Esteri Luigi di Maio nelle spedizioni alla ricerca di gas e petrolio tra Africa e Medio Oriente. [di Salvatore Toscano]

Schiavitù volontaria. Così l’Europa si era venduta al Cremlino per avere forniture di gas. Alberto Clo Linkiesta su il 14 Settembre 2022.

Rileggendo gli episodi del passato recente alla luce della situazione attuale, Alberto Clò mette in risalto nel suo libro (Il Sole 24 Ore) l’incredibile leggerezza con cui paesi come la Germania (ma anche l’Italia) abbiano chiuso gli occhi di fronte alle violenze della Russia in nome dell’energia

È davvero sconcertante osservare che nonostante i fatti della Georgia e i numerosi moniti che si levarono verso l’Europa perché allentasse le sue importazioni del gas russo, queste dopo il 2008 sono addirittura aumentate di oltre il 50% passando da livelli intorno ai 100 miliardi di metri cubi nel 2010 ai 155 miliardi registrati nel 2021. La Russia è diventata così di gran lunga il primo fornitore di energia dell’Europa: col 40% delle sue complessive importazioni di metano, il 25% di quelle di petrolio, il 55% di quelle di carbone, il 20% di quelle di uranio.

Percentuali che Putin aveva saputo guadagnare in un lungo arco di tempo, da quando operava come agente del KGB in Germania, di cui parlava la lingua; stringendo stretti rapporti personali soprattutto col cancelliere Gerhard Schröder. L’8 settembre 2005, una settimana prima delle elezioni che avrebbero portato al lungo cancellierato di Angela Merkel, Schröder firmò con Vladimir Putin il grande accordo per la costruzione del Nord Stream 1 – finalizzato ad aggirare l’Ucraina e indebolire i Paesi dell’Europa dell’Est – suscitando la rabbiosa reazione della Polonia che lo definiva come il «Molotov-Ribbentrop Pipeline» richiamando l’accordo russo-tedesco del 1939 che mirava a spartirsi la Polonia. Varsavia, per anni, per ritorsione, avrebbe votato contro ogni deliberazione europea che richiedesse l’unanimità dei voti dei Paesi membri.

Alcuni mesi dopo Putin nominò l’ex-cancelliere presidente del consorzio che avrebbe costruito il gasdotto suscitando forti reazioni nell’intera Europea. «Il Cancelliere uscente ha venduto la Germania ai voleri del Cremlino» chiosò André Glucksmann mentre Schröder definiva l’amico Vladimir un «impeccabile democratico». Non meno rilevante è stata la sua nomina anche nel board di Rosneft pochi giorni prima dell’invasione della Ucraina. Putin cercò di arruolare anche Romano Prodi per presiedere la società che avrebbe dovuto costruire il South Stream ma l’ex premier rifiutò nonostante i buoni rapporti personali.

Dal punto di vista dei rapporti russo-tedeschi non vi sarà alcuna discontinuità tra i cancellierati di Angela Merkel e Gerhard Schröder. Anzi. Dal 2005 l’interdipendenza sarebbe infatti enormemente cresciuta, non solo ampliando la quota delle importazioni di energia da Mosca su quelle complessive – col 60% per il gas, 34% per il petrolio, 53% per il carbone.

Di grande importanza fu la scelta strategica di Gazprom già alla fine degli anni Ottanta di volersi integrare a valle nella filiera metanifera, distribuendo il gas al consumatore finale anziché cederlo al confine. Quel che gli avrebbe consentito di raddoppiare i margini di profitto. Quando Ruhrgas, il principale operatore metanifero tedesco (poi fusasi con E.ON) rifiutò di farla entrare, Gazprom si accordò con Wintershall, controllata dall’impresa chimica BASF, creando Wingas nella distribuzione finale. Come si è visto, tentò di farlo senza successo anche in Italia, nonostante il rapporto tra Berlusconi e Putin.

Il massimo di apertura di credito della Germania a Gazprom fu comunque l’incondizionato affidamento di un quinto della capacità di stoccaggio del gas del Paese, primo strumento per la sicurezza energetica, Dovendo poi amaramente pentirsene quando nel 2021 iniziò la manovra di Putin di pressione sull’Europa e il colosso russo non provvide ad alimentare i siti di stoccaggio.

Lo status di “maggior favore” riconosciuto dalla Germania al gas di Putin ha reso ancor più evidente, nei tragici giorni d’oggi, i gravi errori compiuti da Berlino nello scorso mezzo secolo. I convincimenti, in particolare, che la Russia fosse un fornitore e partner affidabile; che il gas non sarebbe mai diventato un’arma di pressione politica; che politica e business potessero rimanere scissi. Errori perpetrati nei tempi più recenti con l’affrettata decisione per ragioni squisitamente elettorali di Angela Merkel nel 2011 di uscire dal nucleare (delle 17 centrali nucleari solo 3 sono ancora in esercizio) seguita da quella del 2018 di uscire dal carbone. Decisioni, l’una e l’altra, che si sarebbero riverberate sulla domanda di gas naturale, stante anche l’insufficiente progredire della transizione energetica verso le rinnovabili, di cui il gas avrebbe dovuto costituire la fonte energetica “ponte”.

Che la prima economia industrializzata d’Europa si sia venuta a trovare in totale balia delle decisioni della Russia, mal si concilia col sentimento di superiorità che specie nei lunghi anni di Angela Merkel la Germania ha avuto verso il resto d’Europa. Della partnership con Mosca tuttavia ne paga oggi maggiormente le conseguenze. Putin va infatti riservando un particolare accanimento all’ex-alleato, col progressivo taglio delle forniture di gas sino ad azzerarle attraverso il gasdotto Nord Stream 1, motivato per necessità di manutenzione. Il ministro dell’Economia Robert Habeck ha definito le decisioni di Mosca come un «attacco economico» annunciando un aumento del livello di allarme per i rischi di interruzione delle forniture russe.

Per circa mezzo secolo il maggior esportatore di gas nel mondo ha rifornito la maggior economia europea destinandole un quinto delle sue complessive esportazioni. In Germania, come in Italia, le relazioni energetiche con la Russia risalivano a un tempo lontano. Da quando nel 1955 il cancelliere Konrad Adenauer avviò i rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica cui fece seguito nei primi anni del 1960 un’intesa per la fornitura da parte della Germania di tubature per l’oleodotto Druzhba (“Friendship Pipeline”), suscitando la preoccupata reazione dell’amministrazione Kennedy intenzionata a decretare un embargo, via NATO, a quelle forniture.

Ne seguì invece nel 1970 la storica intesa “pipe for gas” con la Germania che forniva in cambio di forniture di gas delle tubature per veicolarlo dalla Repubblica Ceca alla Baviera, favorita dalla Ostpolitik avviata dalla Germania del cancelliere Willy Brandt con l’Unione Sovietica, che sottintendeva lo scambio tra gas, petrolio, carbone e normalizzazione dei rapporti con la Repubblica Federale Tedesca e gli altri Paesi del blocco orientale. Da allora, la Russia allargava progressivamente la sua sfera di influenza, da un lato, sui Paesi confinanti un tempo satelliti e, dall’altro, sui Paesi europei, come «membro della “famiglia europea” nello spirito, storia e cultura» come ebbe a scrivere Putin, preferendo la via degli “accordi bilaterali”, nella più classica tradizione del divide et impera, a quella di un’intesa globale con l’Unione Europea, forte dell’assenza di una sua coerente politica di sicurezza energetica.

Privi di una qualsiasi parvenza di politica europea, i singoli Stati – specie quelli che acquistavano da lungo tempo gas russo – avrebbero deciso individualmente le loro politiche di approvvigionamento, forti della sovranità riconosciuta dalle normative comunitarie, magari correndo a Mosca «per negoziare da soli il prezzo della propria debolezza».

La difficoltà a forgiare una comune politica energetica interna avrebbe impedito il simmetrico formarsi di una comune politica energetica estera, per l’incapacità dell’Unione, a dire di Jacques Delors, «di esercitare pienamente il suo peso economico, commerciale, politico nelle relazioni con i Paesi produttori e di transito». La conclusione è che gli Stati europei non hanno mai ritenuto che la costruzione di un mercato unico consentisse di rafforzare la loro sicurezza energetica che, oggi come un tempo, reputano di massimizzare agendo individualmente.

In buona sostanza, e questo è il punto dirimente, la sicurezza energetica non è stata mai considerata dagli Stati come un «comune interesse» che richiederebbe uno spirito di solidarietà estraneo alla loro volontà. Con l’amara conclusione che la sfida all’insicurezza energetica deve, dovrebbe, conseguirsi all’interno dei confini europei ancora prima che al loro esterno.

La conclusione che ci sembra di poter trarre è che la dipendenza europea dal gas russo se è riconducibile a ragioni di convenienza economica e di prossimità geografica, lo è anche per ragioni squisitamente politiche. Quel che è confermato, a mio avviso, dal convincimento della Commissione e da tutti i Paesi europei di potersi liberare dalla nefasta dipendenza dal gas russo in tempi relativamente brevi. Che lo si sia capito solo a seguito della guerra a cui stiamo assistendo rende la cosa ancor più incredibile.

Rileggendo il dipanarsi delle vicende russe in campo energetico, specie dopo la salita al potere di Vladimir Putin, non può che sorprendere il fatto che al moltiplicarsi delle sue aggressioni, minacce, ritorsioni – dalle interruzioni delle forniture all’Ucraina nel 2006 e 2009 alla breve ma cruenta guerra in Georgia del 2008 – i Paesi europei non abbiano minimamente cercato di arginare la loro dipendenza energetica, ma che, al contrario, l’abbiano ogni volta innalzata. Una politica che ha finito per accrescere e rafforzare il potere di Putin forte della loro debolezza e accondiscendenza.

da “Il ricatto del gas russo. Ragioni e responsabilità”, di Alberto Clô, Il Sole 24 Ore, 112 pagine, 16 euro

Bollette, la burocrazia ci lascia senza luce: lo scandaloso cavillo italiano. Libero Quotidiano l'01 settembre 2022

Potrebbero aiutarci a ridurre il consumo di gas ma la burocrazia le confina in un limbo. Sono le "comunità energetiche rinnovabili", gruppi di cittadini, enti locali, ma anche piccole e medie imprese, che si uniscono per produrre l'energia pulita - soprattutto con il fotovoltaico - di cui hanno bisogno. Con diversi benefici.  L'energia, innanzitutto, è a costo zero. Ogni partecipante, poi, riceve un incentivo per ogni kilowattora condiviso con gli altri membri. Infine, se la comunità decide di non immagazzinare il surplus prodotto, può venderlo ai prezzi correnti di mercato. Che negli ultimi mesi sono esplosi. Ieri, sulla Borsa elettrica il Pun (prezzo unico nazionale) è arrivato a 637 euro al megawattora. A gennaio 2021 era a 60. Ma se i vantaggi sono numerosi, i problemi non mancano. L'inerzia della politica e della burocrazia, infatti, ha intralciato la strada alle comunità energetiche: la direttiva europea "Red II" del 2019 che le prevedeva non è stata ancora pienamente applicata. Con la conseguenza che, a oggi, i limiti di potenza e di distanza fisica tra i membri sono rilevanti. Due elementi che impediscono di fatto alle imprese, perlomeno a quelle di una certa dimensione, di costituire una comunità energetica. Del resto, come ha scritto ieri il direttore di Libero, Alessandro Sallusti, gli imprenditori che producono energia da fonti green in eccesso non possono cederla al proprio vicino ma, per contratto, sono obbligati a darla al gestore che la vende sul mercato agli attuali prezzi stellari. 

FERMI DAL 2019 - Eppure, per facilitare la vita alle imprese basterebbe poco: dare attuazione alla direttiva Ue e alle leggi nazionali nel frattempo emanate. Alla fine del 2019, l'Italia ha recepito la parte della norma comunitaria che prevedeva l'istituzione delle comunità energetiche (con le restrizioni di potenza e distanza ancora oggi in vigore). Poi, nel novembre del 2021, si è deciso di adottare la direttiva per intero. Peccato che, da allora, non siano stati emanati i decreti attuativi, con i quali ampliare i limiti previsti nel 2019, e non siano state approvate le tabelle degli incentivi. Con le regole definitive (che dovevano vedere la luce a fine giugno), la potenza complessiva potrà raggiungere un megawatt (contro i 200 kilowatt attuali). Inoltre, mentre adesso i membri della comunità devono essere collegati alla stessa "cabina secondaria" dell'elettricità, quindi a poche centinaia di metri tra loro, con le nuove regole potranno connettersi alla rete elettrica attraverso una "cabina primaria", che può comprendere anche tre o quattro comuni diversi (oppure due o tre quartieri di una grande città). Insomma, sarebbe un bel passo in avanti.  Anche perché, oltre a diminuire il ricorso alle fonti fossili, inquinanti e soprattutto importate dall'estero, tra i vantaggi c'è pure quello di ridurre gli sprechi: con una diffusione capillare sul territorio, non ci sarebbero le dispersioni causate dal trasporto di energia su lunghe tratte. Al momento le comunità sono poche, appena 35 secondo il Gse (gestore dei servizi energetici). E tutte (o quasi) di piccole dimensioni, come quella del comune di Ferla, in provincia di Siracusa, che conta quattro aderenti.

IL NODO DI GORDIO - «Mai come in questo momento storico» sottolinea Daniele Lazzeri, presidente del think tank internazionale Il Nodo di Gordio, «si sente la necessità di far nascere il maggior numero possibile di comunità energetiche rinnovabili». Soprattutto vista la crisi in atto. «L'insostenibile incremento dei prezzi di gas ed energia elettrica, con le drammatiche ricadute sui costi per famiglie e imprese, impone agli organismi tecnici e al legislatore di accelerare i tempi per varare i regolamenti attuativi di questo prezioso strumento di condivisione dei consumi di cui possono beneficiare i privati cittadini con i loro impianti fotovoltaici, ma anche imprese e amministrazione pubbliche». Questo percorso per dare pieno respiro alle comunità energetiche, però, potrebbe venire ostacolato dalla burocrazia. Certo, dal Ministero della transizione ecologica assicurano che le lacune normative saranno colmate entro dicembre. Ma, con un ritardo di oltre tre anni e un cambio di governo alle porte, è lecito dubitarne.

Così le lobby del gas stanno cercando di convincerci che il metano è sostenibile. STEFANO DITELLA su Il Domani il 24 maggio 2022

Un elenco delle attività economiche ecosostenibili: in questo consiste la Tassonomia verde, che nelle ultime settimane sta facendo discutere dentro e fuori dalle stanze delle istituzioni europee.

In questo quadro l’Italia avrebbe fatto pressioni per l’inserimento del gas sotto l’influenza delle lobby del fossile, Eni e Snam per prime. Ma la notizia più inquietante è che anche Gazprom, Rosatom e Lukoil (le principali multinazionali fossili russe) secondo un report di Greenpeace avrebbero organizzato una campagna per far sì che il gas e il nucleare ottenessero l’etichetta di sostenibilità

Il gas, seppur presente nella tassonomia con certi criteri non sarà che una scusa per poter continuare finanziare ed utilizzare i combustibili fossili.

Un elenco delle attività economiche ecosostenibili: in questo consiste la Tassonomia verde, che nelle ultime settimane sta facendo discutere dentro e fuori dalle stanze delle istituzioni europee. Si tratta di quello strumento dell’Unione Europea che avrebbe il compito di orientare gli investimenti privati nel processo di transizione ecologica. L’obiettivo è dare sicurezza agli investitori, proteggere gli investimenti privati dal greenwashing e indirizzarli dove sono più necessari per combattere la crisi climatica.

IL PRESSING DI FRANCIA E GERMANIA

Inizialmente la tassonomia prevedeva solamente le fonti rinnovabili, ma dopo il pressing della Francia per il nucleare da una parte e quello della Germania per il gas dall’altra, il compromesso è stato l’aggiunta di entrambi in tassonomia, attraverso il terzo atto delegato proposto dalla Commissione a febbraio 2022, con un pacchetto unico inscindibile.

In questo quadro l’Italia dietro ai riflettori ha spinto per l’inserimento del metano, come rivelato dal vicepresidente della Commissione Ambiente dell’Europarlamento Bas Eickhout, relatore della legge sulla Tassonomia, in un’intervista rilasciata alla trasmissione Report. Il governo Draghi avrebbe infatti fatto pressioni per l’inserimento del gas sotto l’influenza delle lobby del fossile, Eni e Snam per prime.

Ma la notizia più inquietante arriva dal fronte di guerra: Gazprom, Rosatom e Lukoil (le principali multinazionali fossili russe) secondo un report di Greenpeace avrebbero organizzato una campagna per far sì che il gas e il nucleare ottenessero l’etichetta di sostenibilità dell’UE, rafforzando il potere geopolitico di  Putin e rendendo l’Europa ancora più dipendente dall’energia russa per i decenni a venire, con buona pace delle tanto acclamate sanzioni nei confronti di Mosca.

Il voto appare purtroppo abbastanza prevedibile, anche se è di questi giorni la notizia che la Germania voterà contro questa nuova tassonomia, essendo contraria alla presenza del nucleare. Ma per bloccare la proposta servono almeno 353 voti contrari nel parlamento europeo, cosa tutt’altro che facile, considerando che il voto avverrà già i primi di luglio. Eppure c’è ancora margine di influenzare la votazione, per evitare soprattutto che il metano venga etichettato come green.

Il grande elefante nella stanza di questa tassonomia è infatti il gas fossile: questo, seppur non causi l’emissione rilevante di inquinanti, emette comunque una grande quantità di CO2 durante la combustione. Inoltre, il metano, essendo estremamente leggero e volatile, tende a sfuggire e disperdersi in atmosfera, con un effetto 80 volte più climalterante rispetto alla CO2. Tanto più che le perdite durante le fasi di estrazione, trasporto e stoccaggio del gas sono smisurate, tant’è che l’International Energy Agency sottolinea come le emissioni globali di metano dal settore energetico siano quasi il 70 per cento in più rispetto a quanto riportato ufficialmente dai governi nazionali.

Il gas, seppur presente nella tassonomia con certi criteri (sostituzione di impianti a carbone, approvazione entro il 2030, emissioni massime di 270 gCO2/kWh, passaggio a combustibili rinnovabili entro il 2035 e riduzione delle emissioni di almeno il 55 per cento per kWh rispetto al vecchio impianto) non sarà che una scusa per poter continuare finanziare ed utilizzare i combustibili fossili. Oltretutto, non sono neanche previsti, al momento, né sembrano possibili, dei meccanismi di verifica credibili e di applicazione delle condizionalità.

Inoltre, includendo progetti fino al 2030, le centrali interessate continueranno a inquinare ben oltre quella data, dunque imporre limiti di emissioni non basta, quando l’obiettivo dovrebbe essere quello di azzerarle. La tassonomia verde presentata va quindi bocciata, perché gli investimenti privati vadano realmente nella giusta direzione e non in tecnologie già vecchie, causa di cambiamenti climatici e che dovranno essere abbandonate tra pochi anni. Anche perché questa proposta indebolirebbe la leadership europea nel campo delle politiche contro la crisi climatica, influenzando negativamente gli obiettivi climatici di altri paesi.

Per questo, sabato 21 maggio, Fridays For Future Europa è sceso in piazza di fronte alle sedi delle istituzioni europee assieme a tante altre realtà della galassia ecologista per chiedere di votare contro questa tassonomia. In Italia le mobilitazioni si sono svolte a Milano, di fronte al Palazzo delle Stelline e a Roma, dove dal Colosseo è partito un bike strike. Cari politici europei, votate contro la nuova tassonomia, votate per il futuro delle giovani generazioni.

STEFANO DITELLA. Studente di Scienze Geologiche all’Università di Torino e attivista di Fridays For Future Italia

In Italia l'energia più cara d'Europa perché per il 46% è prodotta col metano. Francesco Giubilei su Il Giornale il 30 agosto 2022.

C'è una classifica europea in cui l'Italia si trova da mesi saldamente tra i primi posti: potrebbe sembrare una buona notizia se non fosse che si riferisce al prezzo dell'energia elettrica. Solo pochi giorni fa il costo dell'elettricità nel nostro Paese ha toccato il picco di 870 euro a megawattora, mentre nella giornata di ieri si è attestato a 740 euro al MWh. Si tratta di una cifra che continua a crescere in modo esponenziale, basti pensare che sabato scorso il costo medio era stato fissato a 713,69 euro. 

Il motivo di questa impennata è presto detto: il prezzo dell'elettricità è legato a quello del gas naturale. Così, al boom del metano, è coinciso quello elettrico. Ed essendo l'Italia la nazione europea che brucia più gas per generare energia elettrica, l'impatto sulle tasche degli italiani è ingente. Si stima che circa il 46% della nostra elettricità sia prodotta da centrali a metano, l'opposto di nazioni come la Svezia e la Norvegia, in cui il prezzo è spesso determinato dall'idroelettrico. Secondo i dati della «BP Statistical Review of World energy», il gas contribuisce al 46% nella produzione di elettricità in Italia (la media globale è al 23%), mentre il carbone solo al 5% e le rinnovabili a circa il 16%. Tale squilibrio a favore del gas determina la situazione in cui ci troviamo. Da qui le richieste sempre più frequenti da parte della politica di slegare il prezzo del gas da quello dell'elettricità.

Le cose non vanno meglio in Germania, dove il prezzo dell'energia elettrica sfonda per la prima volta i 1000 euro al megawattora al punto che il governo ha sottolineato la necessità di intervenire «con la massima urgenza». Anche in Francia la situazione è complessa al punto che sul mercato francese un megawattora viene scambiato a 730 euro, 14 volte in più il valore di un anno fa. Nonostante la presenza del nucleare, il Paese transalpino si trova a fronteggiare una diminuzione della capacità di produzione delle proprie centrali atomiche che assicurano solo il 50% del fabbisogno nazionale (contro il 70% di mesi fa). Oltre ai guasti e alla necessità di investimenti in ammodernamenti, si è aggiunta la siccità, che ha rallentato i reattori vista l'ingente quantità di acqua necessaria al raffreddamento. Per correre ai ripari, il governo sta pensando a una tassa sugli extra profitti e interventi per calmierare i costi tra cui la probabile richiesta alle aziende di ridurre il loro consumo energetico del 10% nelle prossime settimane.

Intanto i governi europei sono accomunati dalla corsa agli aiuti che, secondo un'analisi del think tank Bruegel, sono già costati oltre 280 miliardi di euro. A guidare la classifica è la Germania con 60,2 miliardi di euro spesi (pari al 1,7% del Pil), seguita dall'Italia con 49,5 miliardi (2,8% del Pil) e dalla Francia con 44,7 miliardi (1,8% del Pil). In percentuale sul Pil solo Grecia (3,7%) e Lituania (3,6%) hanno stanziato più aiuti di noi. Il problema è che, a fronte dei miliardi di euro spesi, la situazione continua a peggiorare e le bollette per cittadini e imprese italiane sono le più care d'Europa.

Portare avanti misure-tampone senza un intervento strutturale è un palliativo e non aiuta a risolvere la situazione in una prospettiva a medio-lungo termine. Così, la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha aperto alla possibilità di una riforma del mercato dell'elettricità: non solo «porre fine alla dipendenza dai combustibili fossili russi», ma anche «una riforma emergenziale e strutturale del mercato dell'elettricità, che è stato sviluppato per circostanze diverse».

Il tempo degli annunci è però finito e, se non si interviene subito, potrebbe essere troppo tardi per la nostra economia. L'argomento è sul tavolo della prossima riunione di emergenza sull'energia dell'Ue, si spera che i tempi e le misure siano all'altezza della situazione.

Gas, ecco la verità che nessuno ha mai detto: il segreto di Pd e M5S. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 30 agosto 2022

Fuori dal campo di battaglia, il conflitto in Ucraina si è trasformato in una guerra energetica all'Europa, con la Russia di Putin che, come ha detto Mario Draghi, «usa il gas come arma geopolitica». I ripetuti tagli delle forniture russe, passate da oltre 2 miliardi di metri cubi alla settimana a 860 milioni ad agosto, rendono sempre più concreto il rischio che in inverno il metano venga a mancare. I prezzi, nel frattempo, sono esplosi, superando i livelli già elevatissimi dei mesi scorsi. Venerdì, il gas al Ttf di Amsterdam, il mercato di riferimento europeo, ha toccato i 340 euro al megawattora, ai massimi da marzo e in aumento del 40% rispetto a lunedì. Ad agosto dell'anno scorso, il prezzo sonnecchiava attorno ai 27 euro. In tutto questo, l'Italia, a causa della sua dipendenza dal gas russo, si è trovata a essere tra i Paesi più colpiti. E a dover fare i conti con le scelte miopi degli ultimi decenni. Dopo l'abbandono del nucleare, in seguito al referendum del 1987, si è fatto di tutto per ridurre la produzione nazionale di gas. Anzi, per impedirla.

Così, da un picco di quasi 20 miliardi di metri cubi raggiunto sul finire degli anni '90, si è scesi a 3,3 miliardi nel 2021. Il colpo di grazia venne dato dal primo governo Conte, che nel 2018 varò una moratoria sull'estrazione di gas e petrolio, in attesa di stilare una mappa che chiarisse dove è possibile coltivare idrocarburi, il famigerato Pitesai. Emanato dal ministero della transizione ecologica a febbraio, il piano in realtà rende quasi impossibile rilasciare nuove licenze e mette in forse anche le concessioni già attive.

DIVIETI A 5 STELLE - Con vincoli simili, l'obiettivo che si è dato il governo di aumentare per quest'anno la produzione nazionale di 2,2 miliardi di metri cubi sembra fuori portata. Eppure, di gas, in Italia, ce n'è. Alcuni studi si spingono addirittura a stimare che nel sottosuolo ci siano 350 miliardi di metri cubi di metano, quasi cinque volte i 76 miliardi di consumo annuo del nostro Paese. Insomma, le risorse sono abbondanti, il problema è che non vengono sfruttate. Sulla carta, infatti, i giacimenti attivi sono 1.298 ma quelli che vengono realmente utilizzati sono soltanto 514. Mala costruzione di quella «sovranità energetica» evocata da Draghi, passa anche per una strategia di diversificazione dei fornitori, che permetta di affrancarsi completamente dal gas russo (29 miliardi di metri cubi nel 2021). Stando a quanto dichiarato dal premier, la dipendenza da Mosca è scesa dal 40% del 2021 al 18%.

Tra gennaio e giugno, i flussi in arrivo a Tarvisio sono diminuiti del 36% rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, passando da 14,6 miliardi di metri cubi a 9,3. Il perno del programma di diversificazione di Palazzo Chigi è l'Algeria, dopo la Russia, il secondo fornitore del nostro Paese (21 miliardi di metri cubi l'anno scorso). L'accordo siglato l'11 aprile tra Eni e la società algerina Sonatrach, che prevede per quest' anno di incrementare di 2 miliardi di metri cubi i volumi che transitano attraverso il gasdotto Transmed, è stato poi rafforzato a luglio. L'Algeria si è impegnata ad aumentare i flussi di 6 miliardi di metri cubi nel 2022, per arrivare poi a 9 miliardi aggiuntivi nel 2023-2024. Tuttavia, al momento è stata consegnata solo una piccola parte del gas promesso. Da gennaio a giugno, infatti, i volumi in entrata a Mazara del Vallo, dove approda il gasdotto Transmed, sono rimasti in linea con lo stesso periodo dell'anno scorso: 11,5 miliardi contro 11,2 (appena 300 milioni in più). C'è stata però una piccola accelerazione negli ultimi due mesi. Secondo i dati Entsog, sono arrivati 1,6 miliardi di metri cubi (erano 1,5 un anno prima) a luglio e 1,5 miliardi (1 miliardo nel 2021) fino al 25 agosto. Oltre all'Algeria, il governo punta sul gas azero, consegnato in Italia dal gasdotto Tap, che arriva a Melendugno, in Puglia. Da questa rotta dovrebbero arrivare altri 2,5 miliardi di metri cubi. Già nel primo semestre di quest' anno, l'Azerbaigian ha esportato in Italia 5 miliardi di metri cubi, l'87% in più rispetto ai 2,7 miliardi del 2021.

L'ultimo tassello del puzzle riguarda il gas naturale liquefatto (Gnl). Gli accordi di Eni con Egitto e Qatar dovrebbero consentire di importare altri 1,5 miliardi di metri cubi. In attesa che le due navi rigassificatrici acquistate da Snam su mandato del governo entrino in funzione (una a Piombino, l'altra a Ravenna), gli impianti necessari a riportare allo stato gassoso il metano liquido (Panigaglia, Rovigo e Livorno) lavorano quasi a pieno regime. Fino a giugno, gli approvvigionamenti di Gnl sono stati pari a 6,8 miliardi di metri cubi, 1,2 miliardi in più rispetto al 2021. In totale, le risorse aggiuntive su cui potrà contare l'Italia saranno di circa 10 miliardi: 6 miliardi dall'Algeria, 2,5 dall'Azerbaigian e 1,5 da Qatar ed Egitto. Si tratta però di volumi insufficienti a rimpiazzare i 29 miliardi di metri cubi di gas russo. Non a caso, a metà luglio l'Fmi ha avvertito che un taglio completo delle forniture da Mosca provocherebbe una contrazione del Pil del 5%. L'unico modo per evitare uno scenario di questo tipo, almeno secondo il governo, è riempire gli stoccaggi in vista dell'inverno, quando la domanda tocca il suo apice.

STOCCAGGI QUASI AL MASSIMO - Al momento l'Italia ha già raggiunto l'obiettivo previsto da Bruxelles per ottobre: i serbatoi sono pieni all'80,77% (la media Ue è del 78,67%). Ma l'idea è di arrivare al 90%, e forse anche qualcosa in più. All'appello mancano quindi circa 1,5 miliardi di metri cubi. Tuttavia, gli stoccaggi, che vengono riempiti e svuotati ogni anno e servono a far fronte i picchi di domanda, non consentono di fare a meno delle forniture russe. Come ha spiegato su il Foglio il fondatore di Nomisma Energia, Davide Tabarelli, rispetto a consumi che in inverno possono raggiungere punte di 400 milioni di metri cubi al giorno, le scorte riescono a coprire circa 200 milioni. Il resto deve essere importato, anche perché ci sono dei limiti tecnici alle quantità che possono essere ritirate dai serbatoi. Negli scorsi anni, ogni giorno potevamo contare su 92 milioni di metri cubi di gas russo. Ora, chissà.

Fabio Dragoni per “La Verità” il 29 agosto 2022.

Mi sa che voi esperti di energia rimarrete di moda parecchio a lungo, con i tempi che corrono

«Almeno finché non scoppia la pace!». Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, la Russia invade l'Ucraina. Gli esperti si dividono subito in due partiti. Gli ottimisti, quelli che «si può fare a meno della Russia e avanti con le sanzioni». 

I pessimisti come lei. Le secca avere ragione?

«Contento fra virgolette. Sì, sono vanitoso, però mi dispiace non aver urlato più forte e mi intristisce ancor più avere interlocutori fuori dalla realtà. Quelli che "risolviamo tutto con le rinnovabili". Era una crisi imprevedibile. Ci abbiamo messo del nostro. L'ansia del cambiamento climatico è la madre di tutto. Dispiace non essermi spiegato bene. Dire "l'avevo detto" è sciocco». 

Sintesi del «Tabarelli pensiero»: l'ansia del cambiamento climatico ha indotto i produttori di gas e petrolio a ridurre gli investimenti sulla capacità produttiva. Il risultato è la scarsità dell'offerta e i prezzi salgono. Giusto?

«Esatto. Poi si è aggiunta la questione Russia. Le radici sono lontane, però. L'ambientalismo antindustriale a sinistra ha avuto il sopravvento sulla critica al sistema capitalistico in senso stretto tipica del vecchio partito comunista. Io ho avuto una piacevole discussione con un esponente dei Verdi pochi giorni fa. Vivono nel loro mondo. 

Enrico Letta è stato ministro dell'Industria nei primi anni Duemila. Ha firmato le prime direttive gas. Ma dopo 22 anni lo vedo poco attento alle questioni industriali. Da qui nasce anche la "distrazione europea" espressa dalla von der Leyen e da Timmermans. Per non parlare degli ambientalisti al governo in Germania». 

Hanno anche un alleato in più. La grande finanza!

«Che si è innamorata di questa bolla alimentata dalla "certezza" che fra pochi mesi avremo l'acqua sopra il Colosseo a causa del cambiamento climatico. Ma se fosse vero ciò che dicono, noi dovremmo smettere. Da ieri». 

La narrazione è che tutto il mondo scientifico è d'accordo su questi temi. Ma non è vero. «Mi trovo a disagio se provo ad argomentare sulla complessità del problema. Sono tacciato di essere "di destra" e negazionista». 

La Germania sta peggio dell'Italia quanto a energia?

«Usa più gas in valore assoluto; su 90 miliardi di metri cubi di fabbisogno, 55 arrivano dalla Russia. La sua industria chimica usa tantissimo gas: penso al polo industriale Basf sul Reno. Solo lì hanno bisogno di 1 miliardo di metri cubi. 

Ma attenzione. Il peso del gas sul loro bilancio energetico è più basso del nostro. Da loro arriva al 18%. Noi siamo al 35%. Da noi l'energia elettrica si fa soprattutto con il gas. 

Questo è il nostro grande elemento di debolezza. In Germania si usa in proporzione molto più carbone nella generazione elettrica. E stanno ripensando al nucleare. L'elettricità, che è il sistema nervoso di un Paese, in Germania non dipende così tanto dal gas come da noi». 

Poi c'è la Francia, variabile impazzita che da esportatore di energia elettrica è diventato importatore.

«La Francia era lo zoccolo duro del sistema elettrico europeo: 56 centrali nucleari che ovviamente stanno invecchiando con normative sulla sicurezza sempre più stringenti ma talvolta sclerotiche e che impongono manutenzioni a man bassa. È terribile per l'Europa ma soprattutto per l'Italia. E qui dopo la dipendenza dal gas arriva la nostra seconda debolezza. Importiamo strutturalmente energia elettrica. Quasi tutta dalla Francia. Questo 10%-15% di energia importata che viene meno diventa tutta domanda addizionale di gas.

E il gas non c'è». 

Vi sono praticamente due gasdotti fermi: il Nordstream 1 e il 2

«Lo scontro iniziale fra Russia e Ucraina viene da lontano. Fin dai primi anni Duemila, con quest' ultima accusata di "rubare" il gas in transito dalla Russia verso l'Europa. Da lì arriva il gas in Italia. Nordstream 2 parte anche da qui. Dall'insicurezza del sistema di trasporto che attraversa l'Ucraina. 

Investendo un decimo di quanto speso per Nordstream2, avremmo oggi un'infrastruttura da 400 miliardi di metri cubi. Avremmo prezzi del gas che sarebbero più bassi di quelli americani».

Investimenti impossibili da fare se si litiga. Lei ne ha scritto e parlato. Si parla tanto di globalizzazione. Ma in Usa il gas costa dieci volte meno che in Europa.

«Dobbiamo tenerne conto. L'energia è un fattore critico. Incide sulla capacità di lavorare dell'industria. Sulla sua competitività. 

Corriamo dietro il cambiamento climatico. Lavoriamo di più. Spendiamo di più. Il tutto a parità di prodotto finito. Mentre il resto del mondo va da tutta un'altra parte». 

Un'importante azienda veneta produce libri di pregio - industria «gasivora» per definizione - e sta delocalizzando a Chicago. Non in Vietnam.

«Basf ha già delocalizzato in America parte della produzione nel 2017».

Perché - quanto a energia - Spagna e Portogallo stanno meglio?

«Perché sono isolate e hanno interconnessioni limitate con il resto del continente. Le distanze dal centro della penisola iberica sono enormi. Portare gasdotti lì sarebbe stato costoso. 

La Francia si è sempre opposta. Hanno rigassificatori stabili e a terra con tantissima capacità. Hanno una forte capacità politica che consente di regolamentare il prezzo da un punto di vista amministrativo intervenendo anche, se necessario, a coprire con fondi statali perdite di fatturato. Contano su un atteggiamento più morbido della Commissione Ue in materia di aiuti di stato». 

Facciamo un gioco. Il prossimo premier chiama Davide Tabarelli a Palazzo Chigi a gestire l'emergenza. Cosa proporrebbe come misura immediata per i primi sei mesi?

«Si fa subito un esercizio. Il piano di razionamento per i mesi di gennaio e febbraio nel caso in cui i picchi di domanda superino i 400 milioni di metri cubi di gas al giorno. È in quei mesi che fa più freddo. 

È allora che le scorte cominciano a calare. Se non hai pressione sulle scorte perché le hai utilizzate prima, devi tagliare la domanda. Serve un elenco accurato e dettagliato di tutti gli stabilimenti con capacità di consumo e possibilità di interruzione dei relativi cicli produttivi. Se sì, per quanto tempo. Da qui si individuano le aree da tagliare.

Ovviamente ipotizzando indennizzi adeguati per i danni delle eventuali interruzioni. Il compito varia a seconda di quanti milioni di metri cubi al giorno devono essere recuperati. Bisogna essere preparati a tutto. Magari siamo fortunati. Il gas dalla Russia arriva e non farà freddissimo. Magari arriva la recessione e i consumi diminuiscono». 

Eh già. Il prezzo stratosfericamente alto concorre già di per sé a razionare l'utilizzo del gas.

«Esatto. Bisogna anche agire sul carbone. Aprire subito La Spezia. Vi sono unità chiuse a Fusina e Brindisi. Nei giorni in cui fa più freddo possono dare una mano». 

Subito dopo i primi sei mesi?

«Bisognerà avere in linea le due navi galleggianti. Riscrivere il piano di trivellazione. Riaprire le autorizzazioni per tutta l'attività di ricerca e produzione in Italia ferma al 2018. La Snam deve espandere la capacità di trasporto nel centro Italia». 

Lei ha scritto che il gas estratto in Italia costerebbe 10 euro a megawattora. Lo stiamo pagando oltre 300.

«Ho sbagliato. In realtà gli euro sarebbero 5. Sia chiaro; non è che producendo 4 miliardi di metri cubi in più in Italia il prezzo crolla. Ma farebbero comunque Pil e alimenterebbero le entrate fiscali».

Ma in Italia abbiamo veramente così tanto gas?

«Siamo ricchi di gas. Ancora di più di petrolio. Ma non è quello il tema. Siamo ricchi di capacità di andare a trovare giacimenti e di imbastire produzioni a regola d'arte nel rispetto dell'ambiente. E quindi portarlo al consumatore in tempi ragionevolmente brevi. Eni ha trovato giacimenti importanti a Cipro. 

Abbiamo un tessuto economico e di ricerca che ci consentirebbe di valorizzare al meglio 100 miliardi di metri cubi di riserve. Una professionalità quasi unica al mondo. L'Eni è al mondo quella che trova più gas e che in meno tempo lo porta sul mercato. Questo conta più delle riserve». 

Voliamo più in alto. Un piano strategico a cinque-dieci anni.

«Sia chiaro, facciamo le rinnovabili là dove possono essere realizzate. E finiamola con l'alibi di mettere in croce le soprintendenze. Questi impianti sono "invasivi". Il paesaggio, soprattutto in Italia, ha un valore economico. Si ritorna sempre lì. 

Al tema della densità energetica. Quello che tu fai su 500 ettari con un impianto fotovoltaico lo fai in una normale centrale convenzionale che occupa mezzo ettaro». 

Nucleare sì o no?

«Sì, se non altro nel rispetto di Enrico Fermi. Ma occorre che ci inventiamo qualcosa di nuovo. Le difficoltà sono enormi. Le democrazie non sono in grado di risolvere il problema oggi dell'opposizione della popolazione». 

Il mercato Ttf ad Amsterdam dove si stabilisce il prezzo delle rinnovabili ha un senso?

«Nessun mercato ha senso quando si raggiungono questi livelli di prezzo. Trovare alternative è difficile. Ma è stato complicato anche abbandonare vecchi contratti che dominavano fino al 2010. Il mercato Ttf è privo di spessore. Inventato dai regolatori drogati dall'entusiasmo della competizione. Ma un sistema del genere non può reggere quando i tuoi fornitori sono Paesi come Algeria, Libia, Qatar e Russia. Paesi che decidono di fare guerre mettendo in crisi un sistema congegnato per tempi di pace».

Blowing in the wind. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Giorgio Mottola

Collaborazione di Norma Ferrara 

Da settimane i ministri del governo Draghi girano il mondo a caccia di nuovi fornitori di gas che possano rimpiazzare la Russia.

Finora sono stati portati a casa accordi con Paesi a democrazia limitata o con vere e proprie dittature. Accordi di cui non conosciamo i dettagli: non sappiamo quanto pagheremo il metano e nemmeno quali società lo esporteranno in Italia. Eppure, c’è una soluzione a chilometro zero molto più sostenibile dal punto di vista economico e democratico: gli imprenditori italiani e stranieri sono disposti a investire nel nostro Paese 80 miliardi di euro per costruire nuovi impianti di rinnovabili che consentirebbero in poco tempo di rimpiazzare metà del gas russo. Ma dal governo non è arrivata nessuna risposta. Report mostrerà in esclusiva con documenti inediti, come, sull’esecutivo guidato da Draghi, le lobby dell’industria fossile sembrano aver esercitato finora una forte pressione.

BLOWING IN THE WIND di Giorgio Mottola Collaborazione Norma Ferrara Immagini Tommaso Javidi e Andrea Lilli Montaggio e grafiche Giorgio Vallati

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da settimane i ministri del governo italiano girano il mondo a caccia di nuovi fornitori di gas che possano sostituire Gazprom. Qatar, Algeria, Egitto, Angola e Congo sono gli accordi portati a casa finora. Tutti paesi governati da dittatori o da autocrati o da fragili democrazie. Un dettaglio considerato in questo momento irrilevante alla luce del fine indicato come prioritario: non dipendere più dal gas russo ma dal gas di altri Paesi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il rischio è che rimanendo sul gas si finisca col sostituire uno spacciatore ad un altro. Bisognerebbe invece cominciare a guarire dalla dipendenza. La cura c’è e anche a chilometri zero, molto più conveniente di quanto paghiamo invece il gas egiziano, algerino o quello del Congo. Un gruppo di imprenditori offre decine e decine di Gigawatt a costo zero, senza che lo Stato metta un euro però insomma basterebbe che qualcuno del governo gli rispondesse. Il nostro Giorgio Mottola.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di maggiori investimenti sulle fonti rinnovabili per far fronte alla crisi energetica ha parlato più volte anche il presidente Draghi, da dopo l’inizio della guerra.

MARIO DRAGHI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO QUESTION TIME 9/03/2022 Noi siamo impegnate per diversificare le forniture, aumentare il contributo delle fonti rinnovabili che ripeto, e continuo a ripeterlo, resta l’unica strategia fondamentale nel lungo periodo. Tutto quello noi sperimentiamo ora è transizione.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la strategia per ora si è concentrata sulla ricerca di altro gas a migliaia di chilometri di distanza. Eppure, potrebbe esserci una soluzione a chilometro zero molto più economica e sostenibile, anche dal punto di vista democratico: costruire nuovi impianti di energia rinnovabile. Come chiedono di poter fare dall’inizio della crisi ucraina gli imprenditori del settore.

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ELETTRICITÀ FUTURA - CONFINDUSTRIA Noi chiediamo di poter fare 60 gigawatt di nuovi impianti. In questo modo noi potremmo dimezzare le importazioni del gas russo.

GIORGIO MOTTOLA Quindi mi faccia capire, al momento ci sono 60 gigawatt di energia verde che potrebbero partire subito, da qui ai prossimi tre anni?

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ELETTRICITÀ FUTURA - CONFINDUSTRIA Esatto. Se avessimo i permessi in tre anni costruiremmo 60 gigawatt.

GIORGIO MOTTOLA Oggi in Italia sono installati in tutto circa 58 gigawatt di rinnovabili. Se il governo autorizzasse gli impianti pronti a partire, si potrebbe dunque in breve tempo raddoppiare la quota di energia verde prodotta in Italia e dimezzare le importazioni di gas. Ma quanto ci costerebbe?

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ELETTRICITÀ FUTURA - CONFINDUSTRIA Non chiediamo soldi. Anzi siamo pronti a investirne molti. 80 miliardi, vorremmo investirli, nei prossimi tre anni.

GIORGIO MOTTOLA Dall’inizio della guerra è passato più di un mese, è stato fatto un atto formale verso lo sblocco di questi 60 giga?

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ELETTRICITÀ FUTURA - CONFINDUSTRIA No.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lo Stato non ci metterebbe un euro e, anzi, i contribuenti guadagnerebbero. Elettricità futura calcola che, una volta fatti gli impianti, la bolletta si ridurrebbe dell’80 per cento, visto che l’energia rinnovabile costa 160 euro al megawattora meno del gas. Ma dal governo finora non è arrivata nessuna risposta.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Sulla carta possiamo fare anche 60 gigawatt in tre anni, che vuol dire installare le cose. Però poi non abbiamo la capacità di gestirla e accumularla. Perché checché se ne dica non abbiamo accumuli di questa capacità. La rete elettrica non è progettata per essere prevalentemente non programmabile, cioè se noi adesso magicamente mettessimo improvvisamente rinnovabili da tutte le parti, la nostra rete non sarebbe sufficientemente intelligente da gestire flussi che non sono 24 ore su 24 disponibili quindi siamo i primi ad accelerare, però bisogna essere realisti nell’obiettivo. Macron ha fatto un piano da 100 gigawatt in dieci anni, noi abbiamo fatto un piano da 70 gigawatt in nove anni. Ora, ci sbagliam tutti?

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi secondo il ministro, a causa della mancanza di accumuli, vale a dire batterie per immagazzinare energia e di smart grid, le reti intelligenti che dovrebbero gestire il flusso elettrico sul territorio italiano, 60 gigawatt di energia rinnovabile non solo sarebbero irrealizzabili ma potrebbero causare un collasso della rete. Per capire se il progetto è davvero realizzabile siamo andati a chiederlo al principale distributore di elettricità del Paese: Enel.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se domani fossero disponibili 60 gigawatt da rinnovabili, si potrebbero immettere immediatamente nella rete?

NICOLA LANZETTA - DIRETTORE GENERALE ENEL ITALIA Tecnicamente è possibile, sì, sì.

GIORGIO MOTTOLA Ma non c’è un problema, ad esempio, di accumuli di smart grid?

NICOLA LANZETTA - DIRETTORE GENERALE ENEL ITALIA Noi in Italia abbiamo una rete sia di alta tensione, pensiamo a Terna, sia una rete di distribuzione che è le più avanzate al mondo. Nei prossimi tre anni contiamo di investire sulle reti ben 10 miliardi. Questi investimenti accoppiato con uno stato della rete ad oggi più che adeguato ci consentono di dire, ben vengano i 60 gigawatt di cui lei parlava.

GIORGIO MOTTOLA Anche subito?

NICOLA LANZETTA - DIRETTORE GENERALE ENEL ITALIA Anche subito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi l’ostacolo insormontabile per le rinnovabili è l’iter autorizzativo. Lo sa bene Alessandro Migliorini, country manager di European Energy, un’azienda danese di energia rinnovabile che sta investendo, senza incentivi pubblici, 1 miliardo di euro in Italia e 300 milioni di euro solo qui in Sardegna.

GIORGIO MOTTOLA Su questi terreni da quanto tempo state attendendo l’autorizzazione?

ALESSANDRO MIGLIORINI - DIRETTORE GENERALE EUROPEAN ENERGY ITALIA L’attività progettuale è stata iniziata alla fine del 2019. Abbiamo depositato i progetti nel maggio del 2020 chiedendo in maniera preliminare un’esclusione della valutazione di impatto ambientale. Procedura che richiede 90 giorni per ottenere una risposta, positiva o negativa. Invece dopo circa 9 mesi abbiamo dovuto adire il Tar, per ottenere questa risposta.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Su questo terreno in provincia di Cagliari, che sorge lontano dal mare e da centri abitati, dovrebbero essere installati pannelli soprelevati a 3 metri da terra, così da consentire pastorizia e agricoltura e limitare il consumo del suolo. L’azienda danese ha atteso finora tre anni dalle istituzioni italiane la risposta necessaria solo per poter avviare l’iter autorizzativo.

ALESSANDRO MIGLIORINI - DIRETTORE GENERALE EUROPEAN ENERGY ITALIA Questa prima risposta è arrivata fuori termine ed è stata una risposta negativa.

GIORGIO MOTTOLA Quindi come al monopoli siete tornati alla casella di partenza, praticamente.

ALESSANDRO MIGLIORINI - DIRETTORE GENERALE EUROPEAN ENERGY ITALIA Praticamente questo è stato il risultato.

GIORGIO MOTTOLA Quando ai suoi capi in Danimarca parla delle tempistiche autorizzative qui in Italia, che cosa le rispondono?

ALESSANDRO MIGLIORINI - DIRETTORE GENERALE EUROPEAN ENERGY ITALIA Non so se sono commenti molto televisivi, hanno difficoltà a capire questo atteggiamento perché in Danimarca c’è la tendenza a facilitare, a velocizzare, a cercare di… questa transizione energetica farla davvero.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Secondo i dati di Elettricità Futura, nonostante il decreto semplificazioni varato alla fine dello scorso anno dal governo, in Italia i tempi di attesa per l’autorizzazione di un impianto di energia rinnovabile è di sette anni, mentre la direttiva europea ci pone un tetto massimo di due anni.

GIORGIO MOTTOLA Le associazioni di categoria sostengono che gli iter autorizzativi siano ancora estremamente stringenti.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Gli iter autorizzativi sicuramente fino alla fine del 2021 avevano una durata dell’ordine di 1000-1200 giorni. Adesso siamo scesi a poche centinaia di giorni, 200-300. In alcuni casi ci sono stati dei record mai raggiunti prima. Abbiamo quaranta persone a tempo pieno che fanno questo, bene.

GIORGIO MOTTOLA Più di questo non si può fare?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, si può fare di più, però diciamo per cortesia numeri alla mano. Io adesso devo dire che c’è un’accelerazione poderosa rispetto a pochi mesi fa.

GIORGIO MOTTOLA Negli ultimi mesi ha visto un sostanziale snellimento degli iter autorizzativi?

ALESSANDRO MIGLIORINI - DIRETTORE GENERALE EUROPEAN ENERGY ITALIA No. C’è stata un’accelerazione, di 47 richieste presentate di via ministeriali, 46 hanno ricevuto un parere negativo da parte delle sovrintendenze.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ad avviso delle associazioni di categoria gli interventi del governo risultano inadeguati, la maggior parte delle domande risulta infatti impantanata nella burocrazia autorizzativa. Per questa ragione chiedono misure di emergenza.

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ELETTRICITÀ FUTURA - CONFINDUSTRIA Quello che noi però abbiamo chiesto e pensiamo sia importante avere è la nomina di un commissario perché solo così, come per il ponte di Genova o per il contrasto al Covid, è possibile, in tempi così ristretti, arrivare a raggiungere l’obiettivo.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Per fare queste cose non serve un commissario. Per fare queste cose serve che lo Stato funzioni con le autorizzazioni veloci e gli imprenditori facciano i loro investimenti. Il commissario si fa in caso di emergenza.

GIORGIO MOTTOLA Questa non è un’emergenza, con la crisi ucraina?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, no scusatemi. I produttori di rinnovabili che vengono a chiedere un commissario per installare le rinnovabili non è un’emergenza. Cioè, per cortesia, ruoli separati! Ci sono anche… ci sono... io sono lo Stato, il mio interlocutore è uno che produce energia rinnovabile, giustamente ne vuole produrre il più possibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO C’è rimasto male il ministro quando è stato proposto il commissario. Legittimamente dice: il ruolo dello Stato e quello degli imprenditori deve rimanere separato, però non sempre gli riesce. Mette le distanze dagli imprenditori che propongono 60 Gigawatt da energia verde, non gli riesce o gli riesce un po’ meno quando si tratta di andare a stipulare i contratti per il gas con Algeria, Congo, Qatar e Angola, con il ministro Di Maio c’è sempre l’amministratore delegato dell’Eni, Descalzi. Eni è partecipata al 30 percento dallo Stato italiano, ma il 70 percento delle azioni sono nel portafoglio dei grandi fondi americani, come Blackrock e Vanguard, e anche quelli italiani come Mediolanum. E alla fine, incassano, questi fondi, dei dividendi straordinari. Ora, ieri come oggi, però è rimasto segreto il prezzo con cui Eni acquista il gas, anche per capire qual è la differenza da quello con cui poi ce lo rivede, il gas. Resterebbe anche da capire quanto pesa Eni sulle decisioni del governo. Per esempio, quando si è trattato di approvare la “tassonomia verde”, che cosa è successo? La tassonomia verde è l’elenco ufficiale di quelle fonti verdi sui quali il nostro Paese, insomma i paesi, devono investire. Gli irriducibili immaginano che siano il sole, il vento, il geotermico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Se con le imprese del settore rinnovabile il governo si dimostra duro e rigoroso lo stesso comportamento non sembra essere stato adottato nei confronti dell’industria dell’energia fossile quando a livello europeo si è trattato di discutere del ruolo del gas all’interno della tassonomia verde. Vale a dire l’elenco ufficiale degli investimenti che l’Europa considera verdi e quindi davvero sostenibili.

BAS EICKOUT - VICE PRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE EUROPARLAMENTO Lo scopo della tassonomia era indicare quali investimenti possono davvero ridurre la nostra dipendenza dai combustibili fossili.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il comitato tecnico di esperti incaricato dalla Commissione europea aveva inserito nell’elenco degli investimenti verdi esclusivamente il solare, l’eolico e le fonti di energia non fossili. Ma a sorpresa i commissari europei hanno fatto comparire nella tassonomia verde anche il gas e il nucleare.

GIORGIO MOTTOLA il gas è un’energia che si può considerare verde?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMICO DELLE SCIENZE Il metano è un gas effetto serra molto peggiore della co2, quindi non è sicuramente una soluzione verde.

GIORGIO MOTTOLA Aver inserito il gas e il nucleare nella tassonomia verde che cosa significa?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMICO DELLE SCIENZE Ha significato che purtroppo l’Europa ha perso un po’ questo ruolo di leadership mondiale sulle rinnovabili.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il retroscena di come abbiano fatto miracolosamente la loro comparsa gas e nucleare in un elenco di investimenti che doveva essere limitato alle sole energie verdi, ce lo racconta in esclusiva davanti alle telecamere di Report, il vicepresidente europeo della Commissione Ambiente, relatore della legge sulla tassonomia.

BAS EICKOUT - VICE PRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE EUROPARLAMENTO Il ruolo da protagonista assoluto lo ha avuto la Francia, che fin dall’inizio ha dichiarato di volere il nucleare dentro alla tassonomia. Ma visto che era complicato, lo ha legato al gas. Perché mettendo insieme nucleare e gas poteva creare una coalizione di Paesi più larga.

GIORGIO MOTTOLA E qual è stato il comportamento del governo italiano?

BAS EICKOUT - VICE PRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE EUROPARLAMENTO L’Italia non ha preso posizione pubblica, ma io posso rivelarvi che, dietro le quinte, Draghi ha fatto pressioni per il gas. D’altronde, il ministro italiano dell’ambiente è un sostenitore del nucleare e Draghi del gas. Quindi, questa tassonomia metteva tutti d’accordo.

GIORGIO MOTTOLA Quindi lei ha spinto per far inserire il gas nella tassonomia verde?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, noi non abbiamo spinto, a noi è stato chiesto un parere da tecnico.

GIORGIO MOTTOLA Quindi il vostro parere è stato: inserite il gas nella tassonomia.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Il nostro parere è che non potevamo fare altro che fare…fare… accettare questo perché non c’è in questo momento un altro vettore di transizione.

GIORGIO MOTTOLA Non è un po’ paradossale che una tassonomia verde ci sia anche il gas, visto che in una tassonomia dovrebbe servire a indirizzare gli investimenti verso le energie veramente verdi, il gas non lo è. ROBERTO

CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, non lo è. e questo è l’errore fondamentale che fanno quelli che guardano solamente alla parola verde. Siccome il grosso dell’Europa va avanti a carbone, qual è il modo migliore di accelerare l’uscita dal carbone? Passarlo a gas.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia però c’è un illustre esempio che contraddice l’affermazione del ministro. Si trova in Sardegna nel Sulcis nel comune di Portoscuso dove Enel ha deciso di chiudere dopo 50 anni la propria centrale a carbone che sorge a meno di un chilometro dal centro abitato. Ma invece di riconvertirla in una centrale a gas ha deciso di trasformarla in un mega impianto di accumulo alimentato esclusivamente con energia rinnovabile.

NICOLA LANZETTA - DIRETTORE GENERALE ENEL ITALIA Si bypassa il gas e si va direttamente sul vettore elettrico. Il cittadino sardo avrà la possibilità di utilizzare energia generata da sole e vento e avrà la possibilità di accumulare questa energia tramite batteria.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO È la prima volta in Italia che una centrale a carbone non viene riconvertita in centrale a gas passa direttamente alle rinnovabili. La scelta di Enel ha creato un grande interesse in Europa che dopo l’annuncio ha iniziato a guardare a Portoscuso come a un laboratorio innovativo.

GIORGIO ALIMONDA - SINDACO PORTO SCUSO Come tutti i cittadini vogliamo contribuire al miglioramento climatico del pianeta e della nostra regione, in particolare.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma l’entusiasmo non è durato a lungo. Pochi mesi dopo l’annuncio di Enel prima il governo Conte e poi il governo Draghi hanno deciso di costruire davanti alla centrale a carbone che sta per diventare un polo di energia pulita, un megarigassicatore.

GIORGIO MOTTOLA In questo che potrebbe essere un modello europeo vi piazzano un rigassificatore nel centro del porto.

GIORGIO ALIMONDA - SINDACO PORTO SCUSO È una scelta che ci è calata dall’alto, che assolutamente non condividiamo. Non certo siamo d’accordo per una ubicazione di questo megarigassificatore a 800 metri dalle case.

GIORGIO MOTTOLA Qual è l’azienda che vi porta questo rigassificatore del centro del porto?

GIORGIO ALIMONDA - SINDACO PORTO SCUSO È la Snam.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Snam è il colosso italiano che gestisce la rete nazionale dei gasdotti. Insieme ad Eni, è l’azienda che guadagna di più con i combustibili fossili. Ma nonostante questo il governo ha deciso di inserire le due aziende nella Commissione del ministero delle finanze che ha come obiettivo quello di coordinare gli investimenti e i progetti per il Recovery plan, vale a dire il piano di finanziamento che dovrebbe farci abbandonare per sempre proprio i combustibili fossili.

ALESSANDRO RUNCI - RICERCATORE RECOMMON E all’interno di questa commissione si prevede un ruolo proprio per le partecipate italiane. Chi sono le partecipate italiane? Sono Eni, Snam e Leonardo. Quindi soggetti che allo stesso tempo beneficiano di risorse pubbliche attraverso il Recovery Plan e allo stesso tempo gli viene affidato un ruolo di controllo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ancora non è possibile dire con precisione quale sarà la fetta del Pnrr che finirà a Eni e Snam, ciò che è certo è che le due aziende sembrano aver avuto finora un ruolo centrale nella scrittura del Piano.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono state le lobby che hanno fatto più pressioni sul Pnrr?

ALESSANDRO RUNCI - RICERCATORE RECOMMON Abbiamo trovato 102 incontri tra l’industria fossile e i ministeri chiave dello Stato. 102 incontri da luglio 2020 fino a maggio 2021. Di fatto Cingolani gli ha spalancato le porte del suo ministero. Quello che doveva essere il ministero della transizione ecologica si è poi rivelato essere il ministero dell’industria fossile.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dai dati raccolti in esclusiva dall’osservatorio di Recommon risulta che nelle settimane precedenti alla presentazione del Recovery plan il ministero che ha spalancato più spesso le porte a Eni e Snam è stato quello della transizione ecologica. In meno di due mesi, le due aziende hanno incontrato 10 volte Cingolani e il suo staff a fronte di 4 incontri avvenuti nell’arco di 5 mesi durante il mandato del precedente ministro dell’Ambiente.

GIORGIO MOTTOLA C’è stata una forte pressione e ci sono state porte molto aperte per Eni e Snam sul Pnrr?

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Avendo un’agenda trasparente, credo di avrò fatto 250 incontri, incontrando tutti. Veramente non credo che questo sia un indicatore che abbia senso. Contano i fatti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma stando ai fatti, si scopre facilmente che con l’intensificargli degli incontri di Eni e Snam con il ministero della transizione ecologica e dello sviluppo economico sono proporzionalmente aumentati gli stanziamenti per l’idrogeno, che è al centro dei piani industriali delle due aziende. Nella bozza del Pnrr di agosto del 2020 per l’idrogeno era stanziato solo 1 miliardo: gli incontri con Eni e Snam erano stati 4. Nei mesi successivi, gli incontri passano a 10, e nella bozza di gennaio 2021 i finanziamenti si raddoppiano a 2 miliardi. Arriva il governo Draghi ed Eni e Snam vengono ricevuti 17 volte. Nella bozza finale i soldi per l’idrogeno schizzano a 4 miliardi.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Questo tipo di critica la trovo abbastanza, strumentale.

GIORGIO MOTTOLA Con il suo arrivo si quadruplica il finanziamento sull’idrogeno, passa da 1 miliardo a 4 miliardi.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Beh, avevamo fatto quello che avevamo promesso nell’ambito del pacchetto europeo. Fare di più sarebbe stato un po’ velleitario perché le infrastrutture mancano, fare di meno sarebbe stato sottocritico.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’idrogeno è diventata una delle voci più importanti tra le misure energetiche del Recovery plan con quasi 4 miliardi di euro stanziati. Nel progetto del governo dovrebbe rimpiazzare i combustibili fossili usati per le industrie energivore e per i trasporti. Ma per realizzare l’idrogeno serve moltissima elettricità. Per produrre un kg di idrogeno, infatti, che equivale a 33 kilowatt di energia servono infatti 55 chilowatt di elettricità. Un limite enorme che però non ha scoraggiato il governo Draghi che deciso di puntare i soldi dell’Europa sul cosiddetto idrogeno verde, vale a dire idrogeno prodotto con fonti rinnovabili.

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMICO DELLE SCIENZE Finché noi non avremo un enorme disponibilità di produzione elettrica rinnovabile, noi l’idrogeno non ce lo potremo permettere su una scala che abbia un senso tecnico ed economico.

GIORGIO MOTTOLA Oggi quanto dell’idrogeno è verde?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMICO DELLE SCIENZE Meno del cinque per cento a livello mondiale.

GIORGIO MOTTOLA E allora perché l’idrogeno verde è uno dei capisaldi del nostro Pnrr?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMICO DELLE SCIENZE Oggi l’idrogeno viene visto come una scappatoia per poter continuare a utilizzare un’infrastruttura importante che è la rete del gas.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E infatti l’idrogeno è uno dei cavalli di battaglia di Eni e Snam che nei loro piani industriali annunciano di voler investire tutto per il futuro sull’idrogeno verde e sull’idrogeno blu, l’idrogeno generato per lo più con il gas in cui la co2 prodotta viene catturata e stoccata in fondo al mare.

GIORGIO MOTTOLA La parte sulla politica energetica sembra molto simile ai piani industriali di Eni e Snam. Si punta tantissimo sull’idrogeno.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, veramente…dunque, questo è molto particolare come commento. Io ho imposto l’idrogeno verde che non è quello che volevano fare le Petrol company, perché loro volevano fare il cosiddetto idrogeno blu.

GIORGIO MOTTOLA In realtà ce lo ha imposto l’Europa perché ha bocciato inizialmente il piano che era stato presentato.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Non il mio, io sono partito…

GIORGIO MOTTOLA Quello ad aprile, è stato bocciato dalla Commissione Europea.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Io ho fatto un piano con idrogeno verde.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma la versione del ministro è contraddetta dalla sua sottosegretaria Vannia Gava, che alla fine di marzo 2021, quando si stava per ultimare la bozza del Pnrr, diceva in pubblico l’esatto opposto di Cingolani.

VANNIA GAVA – SOTTOSEGRETARIA MINISTERO TRANSIZIONE ENERGETICA C'è anche una nuova fase che ci sta portando verso l'idrogeno, ovviamente non può che essere, per quanto riguarda il nostro paese, idrogeno blu.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In Italia l’idrogeno non può che esser blu, dice la sottosegretaria. Questa sembra all’epoca la posizione ufficiale del governo. Infatti, la Commissione Europea specifica di aver bocciato la prima bozza inviata dall’Italia e di aver dato il via libera al Recovery Plan italiano solo dopo aver ricevuto garanzie dal governo Draghi che nel Pnrr ci sarebbero stati finanziamenti esclusivamente per l’idrogeno verde e non anche in favore di idrogeno blu o di gas.

GIORGIO MOTTOLA Come mai la Commissione Europea ha inizialmente bocciato il piano?

BAS EICKOUT – VICE PRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE EUROPARLAMENTO Perché il Recovery Plan è stato pensato per favorire la transizione verde, per favorire gli investimenti verdi. Ma sull’idrogeno si sono buttate le lobby del gas dal momento che oggi l’idrogeno si produce quasi esclusivamente con il gas.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma c’è un mistero, scorrendo la bozza inviata al Parlamento italiano, non si fa alcuna menzione dell’idrogeno blu. Che tuttavia, compare qualche giorno dopo negli allegati tecnici spediti a Bruxelles.

GIORGIO MOTTOLA Draghi in Parlamento presenta un piano in cui non si parla di idrogeno blu, mentre invece nel piano inviato alla Commissione europea negli allegati tecnici spunta l’idrogeno blu, infatti lo boccia la Commissione europea.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTERO TRANSIZIONE ECOLOGICA Io… i bandi… li curo io. Non c’è idrogeno blu di nessun tipo.

GIORGIO MOTTOLA Quello però presentato alla Commissione europea aveva tanto idrogeno blu tanto è vero che poi nelle motivazioni la Commissione europea dice no all’idrogeno blu e no al finanziamento al gas.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTERO TRANSIZIONE ECOLOGICA No, veramente il piano l’ho scritto io. C’è sempre stato idrogeno verde.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Questa è la bozza del Pnrr che Draghi ha inviato alla Commissione Europea, negli allegati tecnici c’è la parola “low carbon” che significa idrogeno blu. Chi l’ha scritto? E non c’è nemmeno un problema di confusione perché poco più avanti c’è scritto che il Paese deve investire sull’idrogeno verde. Cosa significa questo che il parlamento ha discusso un piano che è diverso da quello che poi è sbarcato in Europa. E’ stato un favore che qualcuno ha voluto fare ad Eni e Snam? Però poi l’Europa ha bloccato tutto e ha detto investite solo sull’idrogeno verde. Però per produrre idrogeno verde ci vuole tanta energia da fonti rinnovabili, noi gli impianti li abbiamo bloccati per via della burocrazia. In merito alle pressioni, presunte, sul governo esercitate da Eni e Snam, Eni ci scrive «Come altre aziende, Eni ha presentato le sue proposte al Ministero della transizione ecologica con la massima trasparenza». E Snam poi dice «di aver proposto agli interlocutori istituzionali l’adozione di misure sull’idrogeno verde per favorire la transizione ecologica». La somma di queste pressioni o misure sono finite all’interno del Pnrr. Sono state valutate da una think tank molto accreditate in termini di transizione energetica, il think tank Ecco, che ha valutato che l’80 percento delle misure del nostro Recovery Plan sono giudicate sostanzialmente non efficaci o di dubbia efficacia. Significa che su 235 miliardi, 48 sono destinati a misure che sono giudicate positive o molto positive nel processo di decarbonizzazione. Tutto questo mentre noi abbiamo invece dall’altra parte degli imprenditori che sono disponibili a investire 80 miliardi di euro in tre anni per garantire 60 gigawatt di energia verde da impianti di energia rinnovabili. Basterebbe che qualcuno gli rispondesse. Basterebbe anche coprire solo una parte, un terzo circa dei 9mila km quadrati di superficie dei capannoni industriali abbandonati con dei pannelli solari. Questo ci renderebbe indipendenti, al 100 percento anche verdi perché sarebbe sufficiente a coprire il fabbisogno del nostro Paese. Eviteremmo così di andare a piatire con il cappello in mano gas dagli altri Paesi. Ci renderemmo indipendenti anche da Putin.

Gas, dipendenza dalla Russia: i veri errori dell’Italia. Milena Gabanelli e Simona Ravizza su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2022.

Dal 24 febbraio 2022 con l’invasione della Russia in Ucraina, rimbalza l’accusa: «L’Italia è troppo dipendente dal gas di Putin, negli ultimi 50 anni le forniture non sono state abbastanza diversificate». Vediamo.

I sette contratti con Mosca

Siamo alla fine degli anni ’60. Il mercato chiede gas e in Russia ce n’è tanto e a buon mercato. L’accordo, il primo del genere al mondo, è del 10 dicembre 1969 firmato a Roma dal presidente dell’Eni Eugenio Cefis e dal viceministro del commercio estero dell’Urss Nikolay Osipov (qui il documento). Durata 20 anni, fornitura di gas naturale per 6 miliardi di metri cubi l’anno. I vantaggi sono due: è a buon mercato e in più l’Eni fornisce mezzi e tecnologia. Il primo gasdotto è operativo da maggio 1974: un’infrastruttura lunga 4.450 km che parte dalla Siberia, passa per l’Ucraina, la Slovacchia, l’Austria e approda all’impianto di Tarvisio. Da allora in poi i contratti sono altri sei con un aumento costante di volumi; l’ultimo è stato firmato nel 2006 con durata fino al 2035. La clausola prevede una quantità minima e una massima che l’Italia si impegna ogni anno a ritirare. La fornitura nel 2021 è stata di oltre 28 miliardi di metri cubi. 

Il gasdotto dal Mare del Nord

Negli stessi anni si tratta con l’Olanda, e successivamente con la Norvegia, per importare gas dai giacimenti del Mare del Nord. Il primo gasdotto che attraversa la Germania e la Svizzera arriva a Passo Gries, dove si trova il punto di interconnessione con la rete nazionale (qui e qui i documenti), entra in esercizio nel 1974. Per far fronte alla crescente domanda italiana il gasdotto viene ampliato nel ’94 e raddoppiato nel 1997. Nell’ultimo decennio però dal grande giacimento di Groningen, per ragioni sismiche, si pompa sempre meno, e oggi in Italia da quei tubi arriva solo il gas norvegese.

Da Algeria e Libia

Ad agosto del 1983 inizia l’importazione dall’Algeria attraverso il Transmed che approda in Sicilia, a Mazara del Vallo (qui il documento). Una seconda linea viene aperta nel 1997, raddoppiando la capacità di trasporto: 24 miliardi di metri cubi l’anno (qui il documento). A ottobre 2004 Silvio Berlusconi e Mu’ammar Gheddafi inaugurano il GreenStream, la linea sottomarina che collega la Libia all’Italia con sbocco a Gela (qui il documento).

Tredici anni per il Tap

A dicembre 2007 Italia e Azerbaijan firmano un memorandum di intesa per possibili forniture future di gas (qui il documento). Il 28 giugno 2013 il consorzio azero Shah Deniz annuncia che il Tap è il progetto prescelto per trasportare il suo gas in Ue attraverso la Puglia. Il metanodotto (sul quale partiti e comitati si sono scannati per anni) vede la luce il 31 dicembre 2020, quando il primo gas dal Mar Caspio arriva a Melendugno.

Tirando le fila: in 50 anni ci siamo portati in casa 5 fornitori diversi. Certo dalla Russia abbiamo importato via via sempre di più perché di gas ce n’è di più, e perché rispetto ai Paesi africani era più stabile e affidabile. Dove invece non siamo stati lungimiranti? 

Niente gas liquefatto

L’Eni estrae gas in Nigeria, dove dal 2000 viene liquefatto e portato con le navi metaniere negli Stati Uniti, in Asia e in Spagna. Il colosso italiano ha giacimenti e impianti di liquefazione anche in Egitto, ma dal 2005 il gas lo porta in Spagna. In Italia non arriva nulla perché non si sa dove metterlo. Fino al 2009 c’è un solo rigassificatore (Panigaglia in provincia di La Spezia), quando a Porto Viro, al largo del delta del Po, apre il secondo. Il terzo, sul mare di Livorno, entra in funzione a ottobre 2013. L’utilizzo della loro capacità è sempre stato sotto il 60%. Nel 2021 sonò stati importati 9,7 miliardi di m3 principalmente da Qatar, Algeria e Usa. A partire dal 2005 sono stati presentati da società italiane ed estere una dozzina di progetti: tutti bloccati. Quelli di Porto Empedocle (qui il documento) e Gioia Tauro (qui il documento) sono in ballo rispettivamente da 18 anni e 17 anni. 

Produzione nazionale bloccata

Dalla metà degli anni ’90 abbiamo iniziato a bloccare l’attività di estrazione e ricerca in Adriatico, e la produzione nazionale è passata dai 20,6 miliardi di metri cubi nel 1994 ai 4,4 del 2020 (mentre i consumi sono saliti di quasi il 30%). 

Del resto fino a pochi mesi fa il ragionamento diffuso era questo: perché impattare sull’ambiente quando il gas lo importiamo da Nord e da Sud? Tra l’altro in quegli anni si iniziava ad investire sulle rinnovabili per produrre elettricità, e l’Italia era partita bene. E qui si pone il terzo problema. 

Le rinnovabili non decollano

Circa il 30% del gas importato viene utilizzato per produrre elettricità (25,9 miliardi di metri cubi nel 2021, dato Arera). L’idroelettrico in Italia è molto sviluppato, ma lo sfruttamento di corsi d’acqua con turbine e alternatori negli ultimi decenni viene trascurato, e si passa dai 50 mila GWh del 2000 ai 49 mila del 2020. Il fotovoltaico, dopo un impulso iniziale, da 10 anni non cresce più in modo significativo. L’eolico è praticamente fermo da 5 anni. Troppa burocrazia e ostacoli da parte degli enti locali. Cresce poco anche il geotermico, in grado di sfruttare l’energia che viene dal sottosuolo, e l’utilizzo del biogas. 

Import: da un regime all’altro

Quindi adesso le forniture russe verranno sostituite aumentando l’import dagli altri fornitori storici. Ma sarà possibile a partire dal 2023 perché ogni Paese deve rispettare i contratti in essere con altri Stati. L’Algeria è pronta ad assicurare fino a 9 miliardi di metri cubi annui in più (visita di Draghi 11 aprile). Va ricordato che è un Paese autoritario e sempre sull’orlo di tensioni sociali con elevato tasso di disoccupazione, repressione delle proteste, restrizioni legali alla libertà dei media e corruzione dilagante (qui il documento): il Democracy Index 2021 lo mette al 113° posto (la Russia è al 124°). È tra i 35 Paesi che si sono astenuti al voto dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite contro l’invasione della Russia in Ucraina. Dall’Azerbaijan entro fine anno arriveranno 2,5 miliardi di metri cubi addizionali via Tap. Uno Stato comandato dalla famiglia Aliyev da 30 anni, con il potere che si tramanda di padre in figlio fra contestazioni e moti di protesta (qui il documento).

Gli accordi africani

Per quel che riguarda i rifornimenti di gas liquefatto via navi metaniere abbiamo trattato con il Congo e l’Angola (visitati il 20-21 aprile) che possono aumentare i rifornimenti di 6 miliardi di metri cubi. In Congo, da 25 anni al potere c’è il militare Denis Sassou Nguesso: il suo governo usa regolarmente le forze armate e di polizia per intimidire i cittadini (qui il documento), mentre la sua famiglia fa shopping di lusso con i proventi del petrolio. In Angola, dove si è trascinata fino al 2002 un’incessante guerra civile tra il movimento filosovietico al potere e quello filooccidentale, ancora si lotta per l’indipendenza nella Regione del Cabinda (qui il documento). Dal Qatar, che non ha mai chiarito i rapporti con il terrorismo islamico, prenderemo 5 miliardi di gnl in più (5-6 marzo). Dall’Egitto già dal 2022 arriveranno verso Ue e Italia 3 miliardi di metri cubi. L’Egitto è il Paese dove è stato torturato e ucciso il ricercatore Giulio Regeni, ma le autorità non hanno mai collaborato per trovare i colpevoli. Rimane irrisolto il problema dei rigassificatori: li riempiremo invece di sfruttarli a metà, ma per costruirne di nuovi ci vuole tempo. 

Che sia la volta buona?

Possiamo sperare invece che Enti locali e sovrintendenze la smettano di mettersi di traverso su parchi eolici e fotovoltaici anche quando i progetti hanno tutte le carte in regola? È il caso di ricordare la crisi petrolifera del 1973 scatenata dalla guerra del Kippur che coinvolse Israele, Egitto e Siria. I Paesi arabi produttori di petrolio fecero esplodere i prezzi e applicarono l’embargo nei confronti dei Paesi filoisraeliani, portando in Europa il crollo dell’economia e austerità fino alla fine degli anni ’70. Ma da quella crisi si cominciò a parlare di «ecologia» e «risparmio energetico», simboli di un cambiamento di mentalità sociale e della vita di tutti i giorni. La guerra di oggi ci costringerà ad accelerare questo processo.

Gas non olet. Report Rai PUNTATA DEL 11/04/2022 di Giorgio Fornoni

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Gas. Un mercato impossibile da spiegare.

Un affare sotterraneo, dove la parola trasparenza non ha senso. E quindi faremo quel che si può. Una storia sulla quale gli inviati di Report avevano provato a vederci chiaro, andando fino in Siberia già nel 2007. Tuttavia, erano emerse delle grandi anomalie.

LA MEMORIA STORICA DI REPORT: GAS NON OLET di Giorgio Fornoni

SIGRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, stavamo parlando di come Putin ha reso poi dipendente l’Occidente al suo gas. Ecco, per capire le complicità che nascono all’ombra del gas bisogna andare in Kazakistan, nel giacimento di Karachaganak dove da decenni inglesi, americani, russi e italiani vanno a braccetto, estraggono gas e poi lo ricondividono. Testimonianza che, in nome del sacro gas, scontri di civilità, ideologie, guerre, insomma, lasciano tutto tempo che trovano. Una storia che per prima Report ha raccontato con il nostro Giorgio Fornoni.

VOCE FUORI CAMPO Sotto la tundra siberiana è nascosta la riserva di combustibili più grande del mondo. Un terzo della ricchezza della Gazprom arriva dai giacimenti naturali di gas della zona di Urengoy. Attraverso la Gazprom, controllata direttamente da Putin, il Cremlino ha cercato di restituire alla Russia un ruolo da superpotenza mondiale.

UOMO Vivo qui dall’81, ora sono in pensione, lavoravo per Gazprom.

VOCE FUORI CAMPO Fino agli anni ’70 queste pianure erano abitate da nomadi, gli allevatori di renne. Poi, nel territorio, i pozzi, i tubi e i camini di sfogo dei gas. Ad Urengoy sopravvive la vecchia Russia della nomenclatura confusa con la oligarchia dei nuovi ricchi. Appena arrivati in città, la polizia ci ha sequestrato il passaporto e in città siamo entrati solo con l’intervento di funzionari della Gazprom.

UOMO 2 Sono qui da 23 anni, ho lavorato sempre. Ci siamo fermati solo quando la temperatura scende sotto i meno 45 gradi. Adesso sono in pensione ma non ho guadagnato abbastanza da potermi comprare un appartamento.

VOCE FUORI CAMPO A queste latitudini il termometro può scendere fino a 62 gradi sottozero. Attraversiamo la linea immaginaria del Circolo Polare e, dopo cinque ore sotto una bufera di neve, arriviamo sull’impianto per l’estrazione di gas più grande del mondo. Le condutture penetrano nel terreno gelato, fino a 3.000 metri di profondità.

TECNICO GAZPROM Ci troviamo sul pozzo numero 16008. Per farlo funzionare prima bisogna scaldarlo e in questa fase molto gas esce in atmosfera. Dobbiamo bruciarlo per evitare che diventi pericoloso.

VOCE FUORI CAMPO I tubi devono essere spurgati dalle impurità. Per questo il gas viene ogni tanto liberato, sprigionando enormi fiammate. I tubi portano il gas nell’impianto dove viene filtrato e depurato per renderlo idoneo alla distribuzione.

TECNICO GAZPROM Il gas ripulito viene mandato attraverso questa conduttura in un collettore intermedio, a un chilometro e mezzo nella tundra. Poi passa alle tubature principali, che sono interrate, e da lì viaggia verso l’Europa, spinto dalla sua pressione naturale, che arriva dal profondo della Terra a più di 40 chilometri all’ora.

VOCE FUORI CAMPO Da questi impianti inizia il lungo viaggio del gas russo verso l’Europa, un viaggio di migliaia di chilometri, ostaggio di giochi politici, economici e conflitti. Come quello in Ucraina. Già nell’inverno del 2005 c’era stata un’importante crisi delle forniture in Italia, scaturita dal braccio di ferro tra Ucraina e Russia per il prezzo da pagare per i diritti di passaggio del gas. Nel novembre del 2006, l’allora amministratore delegato di Eni, Paolo Scaroni, e Aleksej Miller, viceministro dell’energia e presidente di Gazprom, hanno firmato un accordo per la proroga delle forniture di gas all’Italia fino al 2035. In cambio, tra le altre cose, Gazprom ottiene l’accesso a vendere direttamente gas sul mercato italiano. L’ex responsabile Eni in Russia, Mario Reali, non aveva condiviso le condizioni di quell’accordo.

MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 I giornali hanno scritto “più gas all’Italia”: è tutta una balla perché nessuno dice che esiste una legge, in Russia, che dà il monopolio assoluto alla Gazprom nelle esportazioni di gas. Cosa significa questo? Che qualsiasi quantitativo di gas che possa essere trovato nello sviluppo di giacimenti dovrà essere ceduto, bocca-pozzo, alla Gazprom. Quindi, poi sarà la Gazprom a fare, che lo vuole, se lo vuol vendere in Cina o se lo vuol vendere in Europa o se lo vuol vendere in Italia. Scaroni ha definito l’accordo storico. Io sono stato due volte a Mosca e i russi, ridendo, hanno detto: Scaroni ha detto il vero, ma è storico perché per la prima volta nella storia la Russia varca le Alpi, con il gas, come le varcò con il grande generale Suvorov. In questo caso è storico.

VOCE FUORI CAMPO Il prezzo concordato tra Eni e Gazprom per l’acquisto di gas fino al territorio italiano “è un segreto politico”. La sede di Gazprom è in questo grattacielo alla periferia di Mosca. Questa compagnia era stata privatizzata da Eltsin ma con Putin il governo è tornato a controllarla grazie a un patto tra politica, economia e servizi segreti. E il portavoce di Gazprom è pronto a giurare sull’eternità della compagnia che incarna il potere della Russia di Putin.

SERGEI KUPRIYANOV – PORTAVOCE GAZPROM Le nostre scorte di gas non possono esaurirsi. Stiamo facendo ricerche e ci sono altri giacimenti da scoprire. Quando sarà disponibile la tecnologia, potremo sfruttare anche quelli in cui il gas si trova sotto forma di gas idrati, sono giacimenti immensi. Direi che il gas in Russia non finirà.

VOCE FUORI CAMPO Il mistero che avvolge i prezzi determina anche la mancanza di trasparenza sul mercato del gas. Come poco trasparente è una serie di passaggi di mano da società a società che fanno lievitare i prezzi. Per capire di più bisogna andare in Kazakistan, dove c’è una delle più grandi riserve energetiche planetarie. Il campo di Karachaganak si estende per 30 chilometri, ed è largo 15. È uno dei più grandi giacimenti al mondo. L’Eni è presente in un consorzio internazionale insieme all’inglese British Gas, all’americana Chevron e alla russa Lukoil.

NARCISO PIFFARI – EX PRODUCTION MANAGER CONSORZIO KPO - GEOLOGO Quei tre camini che vediamo in alto sono i tre compressori nuovo Pignone che sono stati installati per la prima volta nel mondo. VOCE FUORI CAMPO Qui l’Eni estrae gas. Però non lo importa direttamente in Italia: il gas, inquinato di acido solfidrico, viene mandato ad un impianto che dista 120 chilometri, in territorio russo, per essere purificato.

NARCISO PIFFARI – EX PRODUCTION MANAGER CONSORZIO KPO - GEOLOGO La quantità massima di gas che legalmente dobbiamo reiniettare come accordo con lo stato almeno il 40% del totale del gas prodotto dal field.

VOCE FUORI CAMPO Cioè, Eni estrae ma cede il gas a una società kazaka, che a sua volta lo cederà alla Gazprom, che poi lo rivenderà in Europa. Ma perché l’Eni non porta il gas direttamente in Italia? È un paradosso perché il giacimento di Karachaganak da solo sarebbe in grado di coprire il 15% degli attuali consumi italiani. Per trovare una risposta bisogna andare ad Astanà, una fantascientifica città nata per desiderio dell’ex presidente Nazarbaev. Viali lastricati di marmo e grattacieli in acciaio e vetro con facciate laminate di rame e d’oro, disegnati dai più famosi architetti. Ma da dove è nata la fortuna di Nazarbaev?

UOMO ANONIMO Molti soci delle società che commercializzano idrocarburi vengono costituite all’estero e tra i soci figurano amici e parenti del presidente Nazarbaev. Su alcuni conti svizzeri erano stati trovati 700 milioni di dollari ai quali lui aveva accesso diretto. Questi soldi poi sono rientrati.

SERIKBAI ALIBAEV – EX PARLAMENTARE RUSSO – ATTIVISTA POLITICO Nazarbaev ha sempre avuto i giudici schierati con lui. Tutto il settore energetico è in mano al marito di sua figlia. È a capo di una corporation che tratta sia gas che petrolio, pertanto il guadagno rimane in famiglia.

VOCE FUORI CAMPO La corporation si chiama KazMunayGas e con la joint venture con Gazprom danno origine alla società KazRosGaz. È la stessa a cui vende il consorzio di cui fa parte l’Eni. Gli uffici della KazMunayGas si trovano in un grande anfiteatro, sormontato da due torri e da un gigantesco arco. Qui avevamo incontrato il portavoce del clan dell’ex presidente, Nazarbaev.

 NURLAN P. KAZINBET - PORTAVOCE KAZMUNAYGAS Quella casa bianca laggiù, in fondo, è la casa del presidente. Là c’è l’amministrazione del paese.

VOCE FUORI CAMPO Perché il consorzio vende a voi il gas di Karachaganak a un prezzo così basso?

NURLAN P. KAZINBET – EX PORTAVOCE KAZMUNAYGAS Direi che non è vero. Comunque queste sono informazioni riservate.

VOCE FUORI CAMPO Secondo il responsabile Eni in Russia, l’Eni il gas lo svendeva a Gazprom.

MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 Perché già nel 2005-2006 questo gas si è continuato a venderlo a 25 dollari per 1000 metri cubi. Anche se è un gas sporco, raw ecc… almeno il suo valore sul mercato è almeno quattro volte tanto. Dovrebbe essere almeno cento

VOCE FUORI CAMPO In realtà dalle informazioni che eravamo riusciti a strappare sono ben meno di 25 dollari ogni mille metri cubi. Il portavoce della società Kazmunaygas, che acquista dal consorzio per venderlo a Gazprom, in un momento di distrazione si era sbilanciato.

NURLAN P. KAZINBET – EX PORTAVOCE KAZMUNAYGAS È di 14 dollari

VOCE FUORI CAMPO Anche se è un gas sporco, il prezzo corrisponde ad un ventesimo di quello che viene praticato da Gazprom sul mercato europeo. Per non sottostare ai ricatti di Gazprom, bisognerebbe investire per far arrivare il gas a Baku, dove può essere inserito nei gasdotti diretti in Europa, senza passare dalla Russia.

MARIO REALI – RESPONSABILE ENI IN RUSSIA FINO AL 2005 Perché nella trattativa di cui si è già parlato di questo accordo che Scaroni definisce storico non è stato inserito questo punto? È stato risposto che i russi non ce lo permetto, benissimo. Ma anche se così fosse, se c’è, se ci fosse un ostacolo di trasportarlo verso l’occidente, perché viene svenduto? E nessuno mi ha dato la risposta, anzi, sono stato trattato in malo modo e io me ne sono andato dall’Eni.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Mario Reali purtroppo non è riuscito a dipanare il mistero, è scomparso poco dopo aver rilasciato questa intervista, e il presso del gas è rimasto un segreto politico. Il gas e il petrolio appartengono a un mondo che è sporco per loro natura e all’ombra del gas è facile fare degli affari poco trasparenti. Abbiamo anche capito che Gazprom è la vera arma a disposizione di Putin e dispone di più proiettili di quello che pensiamo, dispone di più gas di quanto ne produce. Lo acquista dal Turkmenistan, dall’Uzbekistan, proviene dal mare del Nord e proverrà anche dall’Artico. Abbiamo sentito dire il portavoce di Gazprom che le scorte sono inesauribili. Ecco, il gas Putin l’ha utilizzato per condizionare le province dell’ex Unione Sovietica. Nel 2006 la Georgia aveva chiesto di aderire alla Nato e alla Russia non era piaciuto. Poi la Georgia aveva anche chiesto anche di, aveva appoggiato la Cecenia, e questo alla Russia non era piaciuto. E mentre Gazprom offriva alle province amiche, Bielorussia e Moldavia, il gas a metà del prezzo, alla Georgia lo offriva a più del doppio, questo per indebolirla economicamente, e poi nell’agosto del 2008 sono entrati in Georgia i carri armati di Putin. Stesse dinamiche che ha utilizzato con l’Ucraina. Dice, vabbè, lui l’ha fatto per contrastare l’espansione della Nato, salvo poi che con gli stessi paesi della Nato fa affari, si tappa il naso. L’esempio vivente è il giacimento di Karachaganak, dove convivono inglesi, americani, russi e italiani, proprio in questo momento, mentre vi stiamo parlando estraggono gas, lo svendono ai russi e poi ci sono una serie di passaggi societari non molto chiari. Insomma, non sappiamo il perché, gli esperti ci dicono che funziona così, resta ovvio che se invece di svenderlo ai russi quel gas venisse importato nel nostro Paese al prezzo con cui lo tirano su, insomma, sarebbe un grande vantaggio per tutti noi.

Gas, una storia d'amore e di guerra. Report Rai PUNTATA DEL 11/04/2022 di Giorgio Mottola

Riceviamo e pubblichiamo le risposte di Eni alle domande di Report - 11/04/2022

Collaborazione di Norma Ferrara e Greta Orsi 

Consulenza di Andrea Palladino 

La storia d’amore dell’Italia e dell’Europa con il gas inizia molti anni fa, quando c’era ancora l’Unione Sovietica e vennero costruiti i primi gasdotti. 

È una storia d’amore che si è rinfocolata una decina di anni fa nel momento in cui, dovendo ridurre drasticamente le emissioni di CO2, le lobby del petrolio hanno iniziato a fare pressione sulla Commissione Europea per trasformare l’Europa nel continente del gas. E così la relazione è diventata così stretta e soffocante che nonostante l'esplosione della guerra in Ucraina, le forniture di gas russo all’Europa non si sono mai interrotte, ma risultano persino aumentate. È la conseguenza di un’interdipendenza difficile da risolvere nel breve e nel medio termine: l’Europa dipende dal gas russo, ma anche Putin ha bisogno delle entrate garantite dal Vecchio Continente per finanziare il conflitto. «In queste settimane i russi non hanno mai smesso di pagarci le royalties per il passaggio del metano», rivela in un’intervista esclusiva a Report Yuriy Vitrenko, capo di Naftogaz, la società di stato ucraina che gestisce la rete dei gasdotti sul territorio del Paese. L’Italia e gli altri Paesi europei stanno provando a rimpiazzare la Russia con altri fornitori, tuttavia le alternative sono altrettanto rischiose da un punto di vista geopolitico e soprattutto si profilano molto più costose. Report racconterà chi ci ha davvero guadagnato con l’ascesa vertiginosa dei prezzi del gas e il ruolo avuto dalle grandi multinazionali delle commodities e dai fondi d’investimento americani.

Riceviamo e pubblichiamo le risposte di Eni alle domande di Report - 11/04/2022

Da: ateni.com> Inviato: giovedì 7 aprile 2022 14:40 A: [CGJ Redazione Report Oggetto: R: [EXTERNAL]

Richiesta informazioni -Report, Rai3

La presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI. Si raccomanda di trattare con attenzione Iink e allegati in essa eventualmente contenuti. Gentile Dottor Mottola, di seguito le risposte alle domande poste. Cordialmente. Roberto Albini Nel corso del 2021 a che prezzo ha comprato gas dalla Russia? E nell’ultima settimana quanto sta pagando le forniture di gas? Come noto, i prezzi di fornitura sono una informazione sensibile dal punto di vista commerciale e coperti da confidenzialità verso le controparti. I prezzi sono in ogni caso indicizzati rispetto a quotazioni di mercato. A quanto ammontano gli extraprofitti di Eni nel 2021 legati alla vendita di gas? Eni opera insieme ad altri soggetti su un mercato fortemente concorrenziale, non vi sono profitti “extra” rispetto alle condizioni di mercato. Inoltre Eni, come ogni prudente operatore, tipicamente attiva strumenti di copertura e de risking per stabilizzare i margini. Se la domanda si riferisce invece alla tassazione recentemente annunciata dalle nostre istituzioni come provvedimento di compensazione del caro energia, Eni ha stimato un impatto al netto delle suddette coperture di alcune centinaia di milioni di euro. Nel suo report annuale, Eni dichiara che nel settore Gas ed L.ng i profitti sono aumentati del 631 per cento, a quanto ammontano gli utili? La suddetta variazione mette a confronto il risultato dell’ultimo trimestre 2021 con quello analogo del 2020, che era negativo per oltre 100 milioni di euro. Se si confronta il 2021 con il 2020, la variazione è del 78% ed è dovuta principalmente ai maggiori volumi di gas venduti nei mercati europei, alle maggiori vendite di GNL, e alle attività di gestione del portafoglio gas e di rinegoziazione dei contratti. L’utile netto, grandezza da voi richiesta, in realtà anziché aumentare diminuisce, anno su anno, da 211 a 169 milioni di euro. Quanto guadagneranno il gruppo Blackrock, il gruppo Vanguard, il gruppo Massachusetts Financial Services e il gruppo Mediolanum dalla distribuzione dei dividendi decisa quest’anno? Il gruppo Blackrock, il gruppo Vanguard, il gruppo Massachusetts Financial Services e il gruppo Mediolanum, se azionisti di Eni, guadagneranno, in termini di dividendo, 0,88 centesimi per ogni azione detenuta. Perché quest’anno Eni ha lanciato un programma di share buyback? Lo share buyback rappresenta una modalità di remunerazione degli azionisti ampiamente utilizzata nel settore oil&gas, essendo uno strumento flessibile che quindi risponde alla volatilità dei prezzi delle commodity energetiche. Attraverso il buyback, il management intende condividere con gli azionisti una parte della generazione di cassa derivante dal rafforzamento dello scenario dei prezzi dell’energia. Inoltre, con il buyback si riduce l’ammontare di azioni in circolazione e quindi l’esborso in termini assoluti relativo ai dividendi futuri: è quindi uno strumento anticiclico che rafforza la società durante la fase di riduzione dei prezzi. Allo scenario corrente, il buyback ammonta a €1,1 miliardi. In caso di variazioni positive dello scenario, così come specificato nella presentazione strategica di marzo scorso, sono previsti incrementi del buy back allocando risorse addizionali pari al 30% della variazione della generazione di cassa. Roberto Albini Head of MeUi Relatians Eni SpA (eni con

GAS: UNA STORIA D’AMORE E DI GUERRA di Giorgio Mottola Consulenza Andrea Palladino Collaborazione Norma Ferrara – Greta Orsi Ricerca immagini Eva Georganopoulou Immagini Tommaso Javidi Grafica Gabriele Di Giulio Montaggio GiorgioVallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Se sul territorio ucraini e russi si sparano, sotto però fanno affari. Si tratta di un affare sotterraneo, sporco, quello del gas, e intorno al quale la parola trasparenza non ha un gran senso, per questo faremo quello che si può. Insomma, il materiale che abbiamo raccolto è sufficiente per evidenziare un paradosso: Putin paralizza e minaccia l’Europa con il gas, l’ha sedotta, gli è venuta anche facile la cosa perché ha trovato terreno fertile, ha creato una dipendenza talmente evidente che quando poi si tratta di votare l’unanimità i 27 ministeri degli Esteri dei Paesi membri, anche di fronte a uno scenario orrendo come quello della guerra in Ucraina non riescono a trovare l’unanimità, il voto per vietare l’uso del gas russo. Ecco, e lo strumento di seduzione di Putin è stato Gazprom, che è la società che gestisce gas e petrolio per lo stato russo, era stata privatizzata da Eltsin poi Putin con un colpo di mano, un patto tra servizi segreti, imprenditori e politici, è riuscito a ricondurla nelle mani del governo. Gazprom ha una sua banca, GazpromBank, nella quale versiamo anche i 700 milioni di euro ogni giorno per pagare le forniture del suo gas, insomma, alimentando anche un paradosso: finanziamo la guerra in Russia, questo da una parte, dall’altra finanziamo riarmando la resistenza ucraina. Però insomma è un gioco di dipendenze dalle quali non è esclusa neppure l’Ucraina perché una parte di questi soldi che noi versiamo alla Russia finisce poi nelle casse dello Stato ucraino perché Putin paga le royalties per i tubi nei quali scorre il gas che fluisce verso l’Europa. Paga anche puntuale, ce lo dice in un’intervista esclusiva il manager che gestisce la rete del gas ucraino dal bunker nel quale si trova nascosto. Il nostro Giorgio Mottola.

 GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Da quando la guerra è iniziata, l’Ucraina sta vivendo un assurdo paradosso. Sopra alla terra cadono le bombe russe e sparano i carrarmati. I vivi non hanno nemmeno il tempo di seppellire i morti. Ma pochi metri di terra sotto ai cingolati dei carrarmati, la guerra non è mai iniziata. Nel sottosuolo, continua a scorrere placido il grande fiume azzurro, il gas russo che indifferente alle bombe e alle raffiche dei mitra non ha mai smesso di fluire.

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ In questo ultimo mese il flusso di gas verso l’Europa non si è interrotto nemmeno un giorno. I russi hanno distrutto buona parte delle nostre infrastrutture energetiche strategiche per fare pressioni sul governo ucraino ma al momento le loro bombe non hanno nemmeno sfiorato le infrastrutture del gas che sono dirette in Europa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Yuri Vitrenko è l’amministratore delegato di Naftogaz, la compagnia statale ucraina che gestisce la rete del gas. Ci parla da un luogo segreto dove dall’inizio della guerra si nasconde per sfuggire a un eventuale sequestro da parte dell’esercito russo.

GIORGIO MOTTOLA È vero che lei è sulla lista dei più ricercati dell’esercito russo?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Preferisco non pensarci. Ovviamente è un momento molto difficile anche perché prima d’ora non avevo mai gestito un’azienda durante una guerra. Posso dire che fino ad ora siamo riusciti a garantire il funzionamento di tutta la rete.

GIORGIO MOTTOLA Le risulta che dall’inizio della guerra i russi abbiano addirittura aumentato il flusso di gas?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Si, hanno iniziato ad aumentare i volumi di gas verso l’Europa due giorni prima che iniziasse la guerra.

GIORGIO MOTTOLA Ed è normale?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Può sembrare strano ma lo è, nonostante la guerra stanno rispettando alla lettera i contratti sui flussi di gas che avevano sottoscritto anni fa.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Vari metanodotti attraversano l’Ucraina da est a ovest. Il più importante è lungo 2750 chilometri e ha un nome che oggi può suonare paradossale: Bratstvo che in russo significa Fratellanza. Fu costruito nel 1967, quando c’era ancora l’Unione sovietica, rendendo l’Ucraina per anni la principale porta d’ingresso del gas russo in Europa e soprattutto in Italia. Per il transito dei gasdotti la Russia versa all’Ucraina circa un miliardo e mezzo di dollari all’anno, una cifra che corrisponde all’un per cento del pil nazionale ucraino.

GIORGIO MOTTOLA Da dopo l’inizio della guerra i russi hanno continuato a pagarvi le royalties per il passaggio dei gasdotti in Ucraina?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Sì, ci stanno pagando, stanno continuando ad arrivare i loro soldi.

GIORGIO MOTTOLA Quindi da un lato vi bombardano e dall’altro vi pagano per il passaggio gas?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Sì. Lo so che può sembrare assurdo ma è così. D’altronde con l’aumento dei prezzi stanno guadagnando tantissimo dall’esportazione di gas e petrolio. GIORGIO MOTTOLA E in che moneta vi pagano?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ In euro e dollari.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Dall’inizio della guerra Gazprom e Vladimir Putin hanno assicurato più volte che garantiranno in ogni caso le forniture di gas all’Europa. È una rassicurazione che Putin ripete da mesi, da molto prima dell’invasione.

VLADIMIR PUTIN – PRESIDENTE DELLA FEDERAZIONE RUSSIA La Russia onorerà in modo impeccabile i propri obblighi contrattuali verso i nostri partners europei. Garantiamo di mantenere costanti le nostre forniture di gas. Stiamo lavorando per garantire la sicurezza e la stabilità energetica dell’intero continente europeo e abbiamo ragione di credere che entra la fine dell’anno raggiungeremo dei livelli record di forniture di gas. GIORGIO MOTTOLA Il gas segue percorsi che sono diversi da quelli della guerra.

MASSIMO NICOLAZZI – SENIOR ADVISOR SICUREZZA ENERGETICA ISPI Per quanto possibile sì. Stiamo parlando di paesi in cui buona parte del budget statale è determinato dall’esportazione di idrocarburi. Nel caso della Russia ai prezzi vecchi eravamo al 40 per cento.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Per l’acquisto del gas oggi l’Europa sta versando alla Russia circa 700 milioni di euro al giorno. Dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina sono stati pagati in tutto 36 miliardi di euro. Considerando che secondo le stime, a Putin la guerra finora è costata circa 20 miliardi di euro, le spese militari risultano ampiamente coperte dal denaro europeo.

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ I soldi del gas vengono usati da Putin per comprare armi e uccidere civili. Per questo stiamo provando a convincere in ogni modo l’Europa a rinunciare al gas russo. Noi siamo pronti a bloccare subito il transito.

GIORGIO MOTTOLA Però se l’Europa smettesse di comprare il gas russo, anche l’Ucraina avrebbe un enorme danno economico

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ L’orrore di questa guerra è così grande che non puoi paragonarlo a nessuna somma di denaro.

GIORGIO MOTTOLA E allora perché non bloccate direttamente voi il transito del gas russo?

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ È una decisione politica che non spetta a noi ucraini, ma all’Europa. Che però finora sta continuando a dirci che non può rinunciare al gas russo.

URSULA VON DER LEYEN – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA Siamo troppo dipendenti dal gas russo. La Russia e Gazprom hanno dimostrato di non essere fornitori affidabili. Dobbiamo diventare completamente indipendenti dal gas russo, ma nel medio e lungo termine.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Russia è in assoluto il principale fornitore dell’Europa. Negli ultimi anni, il 49 per cento del gas consumato nel vecchio continente è stato garantito da navi gasiere o metanodotti russi.

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMIA NAZIONALE DELLE SCIENZE Il motivo è molto semplice: è quello che costa meno. E ha anche un’ottima qualità tra l’altro il gas russo. L’infrastruttura del gas russo è stata posata più di cinquant’anni fa ed è un’infrastruttura che è stata ampiamente ammortizzata. E quindi è più conveniente.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO I prezzi bassi e una rete capillare di gasdotti costruiti in Europa ai tempi dell’Unione sovietica hanno consentito a Vladimir Putin di conquistare una preminenza assoluta sul mercato europeo e un ruolo di primo piano sulla scena politica. Oggi, dopo l’invasione dell’Ucraina, i leader dell’Occidente hanno assunto posizioni estremamente dure verso il presidente russo.

BORIS JOHNSON – PRIMO MINISTRO DEL REGNO UNITO Negli ultimi anni Vladimir Putin si è comportato come uno spacciatore di droga che ha alimentato l’assuefazione dell’Europa al gas russo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma fino a poco tempo fa la musica era completamente diversa. Nel 2003 ad accogliere Putin in Inghilterra c’era la regina Elisabetta in persona. E per anni Stati Uniti ed Europa hanno fatto a gara a spalancare le porte al presidente russo e alle sue aziende di Stato.

GEORGE W. BUSH – PRESIDENTE STATI UNITI (2001-2009) Mi fido di Putin? Certo che mi fido di lui. Condivido tutto quello che dice? No. E sospetto che anche a lui non piaccia tutto quello che dico io. Ma siamo in grado di dirci le cose con grande rispetto reciproco.

GIORNALISTA Chi è più pericoloso per la stabilità dell’Europa, Donald Trump o Vladimir Putin?

JEAN-CLAUDE JUNCKER – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (2014- 2019) Io!

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Persino dopo l’invasione della Georgia e della Crimea, e l’arrivo delle prime sanzioni, i rapporti con la maggior parte dei leader politici europei sono rimasti estremamente saldi.

SILVIO BERLUSCONI – EX PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Io sono stato con Putin 8 giorni in Crimea subito queste decisioni. Putin è stato circondato dalla gente. Ho visto signore piangergli addosso. Il traduttore mi diceva: dicono grazie Vladimir ci hai riportati a casa, meno male finalmente.

GIORGIO MOTTOLA Il gas è stata l’arma più potente di Putin per determinare alleanze e condizionare la politica occidentale?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Sì di gran lunga però intendiamoci di altre armi ne ha perché si chiamano petrolio, carbone… però il gas ha la caratteristica di avere i tubi e cioè anche, quando uno ha un tubo ha anche il rubinetto per aprirlo e per chiuderlo. Il gas è simbolicamente e fisicamente la grande forza di Putin.

GIORGIO MOTTOLA Fino a poco tempo fa c’era una gara ad accreditarsi con Putin.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Beh, è cambiato tutto. Io stesso feci delle riunioni quando ero al primo governo, Nato Russia si chiamavano e tutta la Nato parlava con la Russia tant’è vero che all’ultima conferenza stampa un giornalista chiese a Putin e a me “quando la Russia entrerà nell’Unione europea”? Io ho risposto “non ne vedo alcuna possibilità” perché è troppo grande, no? Ma la risposta del buon senso. Non si prevedeva la catastrofe successiva.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ed evidentemente non si prevedeva nemmeno il conflitto di interesse visto che negli anni molti politici europei di primo piano hanno accettato di andare a lavorare per Gazprom. Nel 2008 una proposta allettante è arrivata anche a Romano Prodi. Putin gli offrì la presidenza del Sud Stream, la società che avrebbe dovuto costruire il nuovo gasdotto russo verso l’Italia.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Io ho detto di no con una ragione molto semplice. Dico ma insomma io da presidente del Consiglio ho contribuito per fare una politica, non me la sento di… e le assicuro che era ben remunerato…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ah, sì? Quanto le offriva Miller di Gazprom?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Non glielo dico ma tanto…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma fece molte pressioni per farle accettare questo incarico di presidente?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) No, gli ho detto di no.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Non ci ha pensato neanche un attimo?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Ci ho pensato….

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Però ha ritenuto inopportuno?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Perché anche la coscienza ha bisogno di tempo…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Parole sante, però la coscienza non ti impedisce di commetterlo un peccato, semmai ti impedisce di godertelo fino in fondo. Qual è il peccato che ha commesso l’Europa all’ombra del gas? Quella di essersi resa talmente dipendente dal gas russo da essere costretta a pagare 700 milioni di euro al giorno di forniture e finanziare di fatto una guerra che è avversa, poi una piccola parte di questi soldi la Russia li gira all’Ucraina sempre in nome del gas per pagare le royalties, e di conseguenza pagare anche in qualche modo la resistenza che l’Ucraina fa verso la sua invasione. Insomma, è un serpente che si morde la coda, siamo arrivati ad uno stallo, un po’ come se fossimo nel western, in Messico, a un certo punto, dove l’Europa minaccia la Russia di staccarsi dal suo gas, la Russia minaccia l’Europa ma non smette di erogare gas, Zelensky che potrebbe in maniera autonoma chiudere i rubinetti dei tubi che passano sul suo territorio e dunque impedire l’erogazione del gas e il finanziamento alla Russia alla fine non lo fa e chiede all’Europa di rinunciare al gas russo. Poi c’è la Russia che bombarda tutto il bombardabile però non ha colpito neppure per sbaglio una tubatura dove passa il gas, segno evidente - se ne deduce – che anche le bombe russe quando vogliono possono essere intelligenti se c’è da salvaguardare un interesse. Ma anche l’Europa ha usato bombe intelligenti, se ci passate il termine. Le sanzioni: ha tolto dal circuito finanziario, dal circuito bancario, dallo Swift, tutte le banche russe tranne alcune eccezioni, tra queste c’è GazpromBank, cioè la banca dove viene versato, vengono versati, 700 milioni di euro ogni giorno per le forniture di gas, ma GazpromBank non è solamente gas. In Europa ha un alleato importante, Banca Intesa, insieme hanno istituito un fondo, il Mir, che significa “amicizia”, con il quale hanno anche investito pesantemente in Italia, hanno acquistato cosmetica di lusso, hanno acquistato catene di saloni di bellezza, di parrucchieri, hanno acquistato e investito anche nella ristorazione comprando catene di fast food, pizzerie, gelaterie, tavole calde. Insomma, Banca Intesa è esposta nei confronti della Russia per circa per circa 5 miliardi di euro, 7,5 invece sono i miliardi per cui è esposta Unicredit. Ma non sono le uniche aziende e imprese ad essere ad essere legate al doppio filo con la Russia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quasi tutto il gas russo importato dall’Italia passa dal gasdotto ucraino Fratellanza e arriva qui a Tarvisio, sul confine friulano con l’Austria. Attraversa questa galleria lunga 2640 metri, che ospita i tre metanodotti vitali per la sussistenza energetica del nostro Paese.

OPERAIO SNAM Tutto il gas che viene importato dalla Russia transita mediante questi 3 metanodotti da Tarvisio verso l’Italia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi senza il gas russo l’Italia si fermerebbe: si bloccherebbero di colpo l’elettricità, il riscaldamento e il funzionamento delle industrie. Nel 2021 la Russia ci ha fornito infatti il 40 per cento del gas che abbiamo importato. Ma ora, dopo l’invasione dell’Ucraina, per l’Unione Europea e il governo italiano, la supremazia commerciale del metano russo non è più considerata accettabile.

MARIO DRAGHI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO L’Italia è al lavoro per ridurre in tempi rapidi la dipendenza dal gas russo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Oggi la parola d’ordine è diversificare. Ed è così partita la ricerca spasmodica di fornitori con cui sostituire i russi. Il primo nome sulla lista del governo è l’Algeria. Da cui lo scorso anno abbiamo importato il 31 per cento del gas.

LUIGI DI MAIO – MINISTRO DEGLI ESTERI Il governo italiano è impegnato ad aumentare le forniture energetiche, in particolare di gas, da vari partner internazionali. Tra questi, come ho indicato alle autorità algerine, l’Algeria, da sempre fornitore affidabile, ha un ruolo fondamentale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Attraverso Transmed, il gasdotto che collega l’Algeria all’Italia, secondo gli annunci, potrebbero arrivare tra i 2 e 10 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno che potrebbero dunque rimpiazzare tra il 10 e il 30 per cento del gas russo. Ma puntare sull’Algeria presenta grossi rischi.

MARCO GIULI – CONSIGLIERE SCIENTIFICO ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI Anche lì parliamo di una forte integrazione fra priorità politiche e commerciali. Quindi un ambiente difficile sugli investimenti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A questo si aggiunga che l’Algeria ha relazioni storiche con la Russia da cui riceve armi e formazione per i propri servizi segreti. Al punto che quando all’Onu si è votata la condanna dell’invasione ucraina, gli algerini hanno deciso di astenersi. E non c’è da star troppo allegri nemmeno con gli altri potenziali fornitori. Il governo punta infatti anche sulla Libia, dove la riesplosione di una guerra civile è sempre imminente, e poi soprattutto sul Tap, il gasdotto che collega l’Azerbaijan all’Italia.

 NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMIA NAZIONALE DELLE SCIENZE Il Tap è questo gasdotto che viene dall’Azerbaijan. Quindi attraversa l’Adriatico va in Grecia e poi attraversa tutta l’Anatolia, quindi la Turchia. Vuol dire che serve la servitù di passaggio della Turchia. Ora, io non so lei, io mi ricordo che fino a due mesi fa, tre mesi fa, il presidente turco era il più cattivo del mondo. Adesso ce ne siamo dimenticati. Forse la nostra idea di cattivi cambia un po’ troppo in fretta.

STEFANO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Ovviamente nessuno di questi paesi è noto per una grande stabilità. C’è da dire che si tratta di paesi comunque molto più piccoli della Russia. Quindi il rapporto con un paese grande e avanzato come l’Italia probabilmente è più gestibile rispetto al rapporto Italia-Russia. GIORGIO MOTTOLA I rapporti di forza sarebbero a nostro vantaggio?

STEFANO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Quanto meno di forza economica senz’altro. E poi vorrei ricordare a tutti che noi stiamo parlando di una transizione. Cioè tutte queste operazioni che stiamo facendo, sulla scala della Storia durano un decennio.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel frattempo, però l’obiettivo politico dell’Unione Europea è diventato sostituire il gas russo. Ma per farlo ogni paese si sta muovendo in competizione con gli altri. E visto che i fornitori alternativi sono sempre gli stessi i conti rischiano di non tornare

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Se lei prende la lista dei viaggi dei nostri ministri degli esteri europei, vanno tutti dove c’è il gas. In Qatar, in Algeria e ogni paese europeo ci va per conto suo e secondo me, dai conti che ho fatto, ognuno pensa di avere il gas in più che produce quel paese. Invece noi europei poi alla fine ne avremo una quantità addizionale molto limitata. Questi sono i discorsi fumosi che si fanno in questi giorni capisce…

GIORGIO MOTOLA FUORI CAMPO E per questo l’Europa ha deciso di puntare molto anche su un altro grande fornitore, gli Stati Uniti i quali promettono di inondare il continente europeo con il loro gas naturale liquefatto. Il gas estratto in America e trasportato in forma liquida sulle enormi navi metaniere che solcano gli oceani.

JOESEPH BIDEN – PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI Lavoreremo per assicurare all’Europa 15 miliardi di metri cubi di gas liquefatto quest’anno. E per aiutare a ridurre la dipendenza dalla Russia, gli Stati Uniti assicureranno 50 miliardi di metri cubi all’anno.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO A causa della storica supremazia russa, la fetta di mercato del gas liquefatto in Europa finora è sempre stata minoritaria, attorno al 20 per cento all’anno. Ma dopo la recente scoperta dei giacimenti di shale gas in America, gli Stati Uniti stanno vivendo da più di un decennio un vero e proprio rinascimento energetico. Lo shale gas americano viene estratto in terreni argillosi attraverso il fracking, la fratturazione delle rocce nel sottosuolo basata sull’iniezione di acqua e agenti chimici. Si tratta di una pratica che ha un impatto ambientale elevatissimo e secondo molti studi può causare terremoti. Per questa ragione è stata vietata in molti paesi europei. E sebbene estrarlo presenti enormi rischi per l’ambiente, risulti complicato da liquefare, nonché estremamente costoso da trasportare, grazie allo shale gas gli Stati Uniti sono riusciti a conquistare importanti fette di mercato.

LUIGI BIDOIA – ANALISTA FINANZIARIO PRICEPEDIA Se prima del 2018 non importavamo gas liquefatto dagli Stati Uniti, adesso siamo sul trenta per cento delle importazioni di gas liquefatto totali d’Europa proviene dagli Stati Uniti. Tanto è vero che gli Stati Uniti è diventato nel 2021 il primo esportatore di gas liquefatto in Europa, ha superato il Qatar.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E ora dovendo rinunciare al metano russo, il gas liquefatto è destinato a conquistare settori di mercato sempre più ampi in Europa.

GIORGIO MOTTOLA Quali sono i rischi nel puntare sul gas naturale liquefatto?

MARCO GIULI – CONSIGLIERE SCIENTIFICO ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI Possiamo importare più gas naturale liquefatto però ce lo dobbiamo litigare con altri compratori a colpi di prezzi.

GIORGIO MOTTOLA Nell’immediato è complicato ottenere entrambe le cose: prezzi bassi e indipendenza dalla Russia?

 MARCO GIULI – CONSIGLIERE SCIENTIFICO ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI Non ci si può fare illusioni, questo è un gas che costerà molto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Lo scorso anno è accaduto sovente che le navi gasiere provenienti dagli Stati Uniti e dirette in Europa abbiano invertito all’improvviso la rotta, dirigendosi dove il prezzo del gas liquefatto era molto più alto, vale a dire in Cina, che all’inizio del 2021 pagava il gas liquefatto oltre il doppio rispetto agli europei.

MARCO GIULI – CONSIGLIERE SCIENTIFICO ISTITUTO AFFARI INTERNAZIONALI Gli esportatori statunitensi esportano il gas semplicemente dove i prezzi gli dicono di esportare. Sono motivati unicamente dalla ricerca del profitto.

GIORGIO MOTTOLA Non è un po’ paradossale che gli Stati Uniti per anni ci abbiano chiesto di non comprare il gas dalla Russia e invece loro hanno continuato e continuano a venderlo alla Cina, a prezzo molto alto.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999 – 2004) Sì, è un paradosso. È il paradosso e del mercato e della politica. Guardi che se lei vuole trovare razionalità completa nel sistema su cui stiamo discutendo, è tempo perduto eh.

GIORGIO MOTTOLA A che prezzo avremo questo gas?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999 – 2004) Prezzo americano. La frase che ha guidato tutto è quella di Clinton: “è l’economia bellezza!”

GIORGIO MOTTOLA Il prezzo del gas in Europa è salito vertiginosamente per tutto il 2021. È partito da gennaio a 19 euro al megawattora ed è schizzato il 21 dicembre al record storico di 180 euro, un aumento dell’847 per cento.

GIORGIO MOTTOLA Questo aumento dei prezzi è dipeso dalla crisi ucraina?

MASSIMO NICOLAZZI – SENIOR ADVISOR SICUREZZA ENERGETICA ISPI Per una volta non le do una risposta dubitativa e rispondo assolutamente no. Nel 2021 è successo che in Brasile quasi non piovesse e loro hanno una percentuale di idroelettrico altissima nel loro paniere, hanno dovuto compensare comprando di più gnl. Il Mare del Nord le pale eoliche giravano poco anche a soffiarci contro. Il cinese si è rimesso a fare il cinese peggio di prima del covid dal punto di vista dell’aumento della domanda e del prodotto interno lordo. E quindi è aumentato Brasile, Mare del Nord, Cina: c’è stata un’impennata della domanda a cui non ha fatto seguito un aumento della disponibilità dell’offerta nei tempi necessari.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il prezzo del gas ha cominciato a salire molto prima che scoppiasse la guerra in Ucraina. E sebbene anche la Russia abbia in parte contribuito agli aumenti con una marginale riduzione delle sue forniture nell’ultima parte del 2021, oggi che il conflitto è in corso, il prezzo del gas è 102 euro al megawattora, che significa comunque 80 euro in meno rispetto al picco raggiunto a dicembre.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA In realtà la carenza di gas non c’è mai stata: il gas è quello. C’era una carenza di erogazione per cui i paesi produttori, tra cui anche la Russia ma c’è la Norvegia e ce ne sono altri, possono decidere di metterne in vendita, a disposizione un po’ di meno per cui se io ho scarsità di materiale il prezzo in qualche modo ne risente e aumenta. Però questa è una manovra di mercato che ci può anche stare entro certi limiti.

GIORGIO MOTTOLA Qui però parliamo di aumenti del 500 per cento.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Ecco, esattamente, la risposta è esattamente questa. Quando ci si ritrova a pagare 5 o 6 – 7 volte tanto, vuol dire che si sta arricchendo troppo qualcuno e diciamo i cittadini, le imprese perdono competitività.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il ministro sottolinea che una vera carenza di gas non c’è mai stata. Quindi, perché i prezzi sono saliti così tanto? Da qualche anno, l’Europa ha deciso di deregolamentare il settore ed è così nato il mercato spot, in cui il prezzo del gas viene deter

minato da un indice finanziario, il TTF, che dipende da una borsa virtuale che ha sede ad Amsterdam.

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Si passò quindi da una contrattazione del gas attraverso contratti di lungo periodo a prezzi tutto sommato stabili, invece a una contrattazione basata su prezzi che cambiano alla fine ogni secondo e cambiano in base alle forze di mercato, alle aspettative dei mercati, ai rumors, quindi alle voci sui mercati.

GIORGIO MOTTOLA Quindi affidandoci al mercato spot sostanzialmente ci siamo messi alla mercé anche della speculazione finanziaria in quel settore?

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Esattamente, la speculazione agisce in questi mercati dove il prezzo chiaramente cambia di secondo in secondo.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Per giustificare i numeri e gli incrementi di costo di cui abbiamo parlato, certamente ci deve essere stata un po’ di speculazione.

GIORGIO MOTTOLA Chi sono i responsabili di questo aumento del prezzo del gas così esponenziale?

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Non è che ci sia un responsabile con un nome e un cognome, è proprio un sistema di mercato, in questo caso energetico, che andrebbe rivisto a livello internazionale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO In realtà qualche idea sui nomi e i cognomi di chi ci ha guadagnato di più può venire cercando nell’elenco degli operatori finanziari della borsa virtuale di Amsterdam.

GIORGIO MOTTOLA Da questa impennata dei prezzi del gas, chi ci ha guadagnato di più finora?

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Non abbiamo dei dati certi su questi, però sappiamo chi sono gli operatori che scambiano il gas su questi mercati. Sono i trader di gas come per esempio Vitol, Trafigura, Glencore, ma anche le grandi società finanziarie di Wall Street come Morgan Stanley, Goldman Sachs. Quindi se c’è qualcuno che ci ha guadagnato, che ci sta guadagnando, deve essere cercato a mio parere in questo ambito.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Tra i primi a festeggiare per l’aumento del prezzo del gas ci sono dunque le tre più grandi intermediarie di materie prime: Vitol, colosso olandese che passa da 140 miliardi di dollari di fatturato nel 2020 a 279 miliardi nel 2021, con un incremento del 99 percento. Trafigura, multinazionale basata a Singapore che passa da 147 miliardi di dollari a 231 miliardi lo scorso anno, più 57 percento e poi Glencore, da 142 miliardi di fatturato passa a 207 miliardi, più 42 percento. Ma anche in Italia, c’è chi è riuscito a portare a casa affari d’oro.

GIORGIO MOTTOLA Da questo aumento dei prezzi, quanto ci ha guadagnato Eni negli ultimi mesi?

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Se pensiamo che nel 2020, l’anno del covid però dove tutti hanno sofferto, ha chiuso il bilancio con una perdita di oltre 750 milioni di euro. Quest’anno Eni chiuderà invece con un profitto di 4,7 miliardi di euro che è il migliore risultato dal 2012. Eni nell’ultimo trimestre del 2021 ha aumentato i suoi profitti di oltre il 600 per cento rispetto all’ultimo trimestre del 2020.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ultimo trimestre del 2021 durante il quale Eni ha aumentato i profitti del 600 per cento è esattamente il periodo in cui i prezzi del gas sono schizzati alle stelle. In soli 3 mesi Eni ha guadagno 2,1 miliardi di euro. Come ha fatto? La multinazionale italiana non paga il gas al prezzo della borsa di Amsterdam ma a costi molto più bassi grazie a contratti a lungo termine che una decina di anni fa ha stipulato con la Russia l’allora amministratore di Eni Paolo Scaroni, che con Putin aveva stretto ottimi rapporti.

PAOLO SCARONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ENI (2005-2014) La cosa che mi colpisce di più di Vladimir Putin è che lui di energia sa tutto. Sa tutto! Ha una competenza specifica nel mondo del gas, nel mondo del petrolio, nel mondo delle pipelines che io non ho mai visto da parte di un uomo politico.

ENRICO CISNETTO – GIORNALISTA Ma quando vedi Putin con quella faccia un po' lì da Kgb non ti fa un po’ paura o no?

PAOLO SCARONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ENI (2005-2014) A te ti fan paura i tuoi sponsor?

ENRICO CISNETTO – GIORNALISTA No, dai non puoi rispondere sempre così.

PAOLO SCARONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ENI (2005-2014) E no, io rispondo sempre così.

ENRICO CISNETTO – GIORNALISTA Ma nessuno c’ha la faccia da Kgb.

PAOLO SCARONI – AMMINISTRATORE DELEGATO ENI (2005-2014) Ma quegli sponsor lì hanno delle brutte facce... salvo l’Eni, gli altri…

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi Eni vende agli italiani il gas a un prezzo certamente più alto rispetto a quello di acquisto. Ciò che non sappiamo è in che misura questo prezzo sia più alto. Infatti, sebbene sia una società partecipata dallo Stato, i contratti firmati con Gazprom sono riservatissimi.

GIORGIO MOTTOLA Ma lei li conosce questi contratti?

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Assolutamente no.

GIORGIO MOTTOLA Neanche lei può avere accesso a questi contratti?

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Assolutamente no, io non ho accesso. Dovete pensare che sono aziende internazionale quotate sulle borse internazionali, quindi, non è che la politica, un ministro o il ministero può entrare su una contrattazione privata internazionale di una quotata in borsa. È chiaro che c’è un livello di collaborazione importante perché queste comunque sono aziende che in qualche modo sono anche partecipate dallo Stato, quindi se c’è un’emergenza energetica dello Stato queste aziende danno una mano affinché questa venga mitigata.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Finora però la mano Eni sembra averla data soprattutto ai propri azionisti. Dopo gli extraprofitti incassati nel periodo in cui il prezzo del gas e del petrolio sono considerevolmente aumentati, il direttore finanziario di Eni Francesco Gattei ha fatto questo annuncio.

FRANCESCO GATTEI – DIRETTORE FINANZIARIO ENI Come conseguenza della continua buona riuscita del nostro percorso strategico, di un bilancio più forte e di migliori prospettive per le materie prime. Distribuiremo un dividendo totale annuale di 0,88 euro per azione.

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Una parte di questi extraprofitti che sono creati grazie all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas vengono distribuiti agli azionisti. GIORGIO MOTTOLA Quindi se lo spartiscono gli azionisti insomma.

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Sì, da una parte con i dividendi. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sia chiaro, con i dividendi ci guadagna anche lo Stato che è azionista al 30 per cento. Ma il restante 70 per cento di Eni è in mano ai privati e sono loro che si spartiranno il grosso dei dividendi. Al primo posto ci sono 3 potenti fondi d’investimento americani: Blackrock che si porta a casa 116 milioni di euro di dividendi, Vanguard 108 milioni, e la Massachusetts Financial Services 53. Tra gli italiani ad incassare c’è Mediolanum della famiglia Berlusconi con 19 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA Lei pensa di intervenire sugli extraprofitti delle aziende?

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Noi abbiamo già fatto un provvedimento in cui c’è una stima potenziale degli extraprofitti.

GIORGIO MOTTOLA Qual è la vostra stima sugli extraprofitti?

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Ma la stima io non ce l’ho perché la fa il Mef. Comunque, insomma, gli extraprofitti sono grandi. GIORGIO MOTTOLA Sì, perché per esempio Eni ha fatto 4 miliardi e due di utili e 2 miliardi soltanto nell’ultimo trimestre sostanzialmente.

ROBERTO CINGOLANI – MINISTRO TRANSIZIONE ECOLOGICA Ma sì, ho visto i numeri di Eni, ho visto i numeri di Enel che ha dichiarato 23 miliardi su 60 nell’ultimo anno. Da questo punto di vista non puoi fare una colpa a un’azienda quotata che essendo sul mercato e competendo, in momento in cui l’energia diventa oro fa molto profitto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma i benefici per gli azionisti di Eni non finiscono qui. Il cane a 6 zampe ha trovato un altro modo per dirottare sui propri soci i proventi degli extraprofitti.

FRANCESCO GATTEI – DIRETTORE FINANZIARIO ENI In aggiunta Eni lancerà un programma da 1,1 miliardi di euro per riacquistare proprie azioni, dopo l’approvazione degli azionisti a maggio. Inoltre, per condividere ulteriormente i vantaggi derivanti dall’aumento dei prezzi delle materie prime oltre le nostre previsioni, il consiglio ha deciso di far partire anche un secondo riacquisto di azioni nel 2022.

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA Eni lancia un programma di riacquisto di azioni proprie per 1,1 miliardi di euro. È un modo se vogliamo più indiretto di beneficiare gli azionisti perché con il riacquisto di azioni proprie Eni va sul mercato compra le azioni per 1,1 miliardi di euro e comprandole fa salire il prezzo. A quel punto l’azionista, una volta che è salito il prezzo, può decidere di vendere le azioni di Eni intascando il differenziale.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi oltre un miliardo di extraprofitti viene reinvestito da Eni in riacquisto delle proprie azioni, un’operazione di speculazione finanziaria da cui però ci guadagnano solo gli azionisti privati, che nell’ultimo anno hanno già visto già raddoppiarsi il valore delle proprie azioni visto che il titolo di Eni è passato da 6 a 12 euro ad azione.

MAURO MEGGIOLARO – ANALISTA FINANZIARIO FONDAZIONE FINANZA ETICA E lo Stato è un azionista di lungo periodo di Eni, non è che queste azioni poi quando aumentano di valore perché Eni acquista le azioni proprie sul mercato per 1,1 miliardi di euro, lo Stato le vende e ci guadagna, lo Stato se le tiene.

GIORGIO MOTTOLA Però forse però nel momento in cui un’azienda di Stato decide, ad esempio, di reinvestire quei profitti in dividendi e in riacquisto di azioni, quindi per far aumentare il valore delle azioni, ecco forse è un problema che bisogna porsi.

ROBERTO CINGOLANI - MINISTRO DELLA TRANSIZIONE ECOLOGICA Si, però, allora io lo capisco. Allora il problema però è che queste sono aziende quotate, c’hanno un board a cui devono rispondere di gente che ci ha messo dei soldi e ci sta rischiando, no. E quindi in qualche maniera bisogna, bisogna trovare la giusta misura tra l’idea dell’azienda partecipata da un lato e l’idea, comunque, dell’azienda che essendo quotata in borsa deve combattere sul mercato mondiale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Poi c’è anche chi combatte per la sopravvivenza quotidiana. Le super bollette stanno stritolando i cittadini, hanno messo in ginocchio le imprese italiane. Se n’è accorta anche la Commissione europea che ha valutato in circa 200 miliardi di euro i profitti delle aziende del settore e ha consigliato ai Paesi membri: ma perché non tassate gli extraprofitti e utilizzate i fondi per mitigare le bollette? Ecco, insomma, ci fosse un Paese membro che l’ha ascoltata e ha preso iniziativa. Ora è chiaro da quello che abbiamo raccontato che i prezzi del gas non sono aumentati per via della guerra. Hanno cominciato la salita, la scalata già a partire da gennaio 2021 per arrivare a toccare un aumento record a dicembre dell’847 per cento, e non per una carenza del gas, l’abbiamo sentito, ma perché l’Europa da tempo sta puntando in sostituzione della contrattazione a lungo termine sul gas, a quello che è il cosiddetto mercato SPOT, cioè il prezzo viene fatto alla borsa di Amsterdam, che è la borsa finanziaria del gas, e lì il prezzo viene fatto in base alle trattazioni, ai rumors e è ovviamente soggetto questo meccanismo alle speculazioni finanziarie. Chi si è arricchito intanto? I traders del gas e delle materie prime. A dettare le danze sono state sicuramente gli olandesi di Vitol che hanno incassato nel 2021, hanno, sono passati da un fatturato del 2020 di 140 miliardi a 279 miliardi nel 2021, cioè un aumento del 99 per cento. Poi ci sono gli svizzeri di nascita ma con base a Singapore di Trafigura che è passata da 147 a 231 miliardi, un aumento del 57 per cento. Poi c’è Glencore, la multinazionale anglo-svizzera con sede Svizzera ma uffici nell’isola di Jersey, che è passata da 143 miliardi a 203, un aumento del 41 per cento. Insomma, comunque con il mercato Spot del gas insomma influisce anche un’altra anomalia a fissare il prezzo sulle bollette elettriche, ed è il cosiddetto modello marginale. Un modello matematico che è stato inventato, risale agli anni 80, quasi un residuo bellico, ancora sopravvive, però insomma è in base a questo modello che il costo dell’energia in bolletta viene calcolato non in base ad una media dei meccanismi di produzione dell’energia, dove finirebbero anche dentro le rinnovabili, che hanno un costo bassissimo, ma il prezzo viene fissato sul produttore più costoso, in questo caso il gas, anche se nel, per l’energia in Italia impatta solo per il 65 per cento. Ecco, noi paghiamo come se venisse prodotto esclusivamente dal gas, per questo sorridono Enel, A2A e Edison. Sorride soprattutto Eni, che ha staccato in questo anno, nell’ ultimo anno dei dividendi pazzeschi. Ne hanno beneficiato soprattutto i tre fondi di investimento americano BlackRock, 116 milioni di euro di dividendi, Vanguard, 108, la Massachussetts Financial Services, 53 milioni. Ora, tra gli italiani quello che ha goduto di più, insomma, come azionista è Mediolanum, 19 milioni, è partecipata come sappiamo dalla famiglia Berlusconi. E non solo, perché poi ci sarà da dividere anche altro perché Eni ha annunciato un programma di riacquisto delle azioni, anzi, due programmi di riacquisto delle azioni del valore di oltre un miliardo di euro l’uno. Eni ci scrive: è tutto legittimo, però proprio di questo noi ci lamentiamo, che bisognerebbe cambiare in realtà la legge. Finché non lo faranno, beati gli azionisti. Però, insomma, noi invece il governo in materia di risparmio del gas e di abbattimento delle bollette quali provvedimenti ha preso? Ne ha preso uno, riguarda l’energia consumata negli uffici pubblici, cioè chiede sostanzialmente di alzare di un grado i condizionatori per consumare di meno, e di abbassare di un grado i termosifoni. Insomma, però questi problemi di dipendenza dal gas russo non ce li abbiamo solo noi. C’è la verde Germania che per, a causa di un peccato originale di bulimia, ha problemi ben più grossi. GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il conflitto sul gas tra Russia e Ucraina viene da lontano. Per anni Putin ha provato a forzare la mano per pagare a prezzi molto più convenienti il passaggio del metano verso l’Europa, e per fronteggiare i ricatti russi il governo ucraino ha adottato le proprie contromisure, a volte ai limiti delle regole.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Comportamento antico dei governi ucraini non era fatto certamente senza peccato. Io dovetti andare a Kiev, quando ero presidente della Commissione europea, due volte a parlare con i ministri perché spillavano il gas. No?

GIORGIO MOTTOLA Lo spillavano? Lo rubacchiavano?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Lo rubacch… partiva cento dal confine russo e ne arrivava ottanta. E io mi trovai a dire insomma ma per favore non fatelo più, l’Unione europea vi aiuta, cioè, riuscii in qualche modo a calmare… Però si trattava del 2003-2004, si trattava di anni molto passati.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma mentre la Commissione Europea provava a mediare tra Russia e Ucraina, è spuntato fuori il terzo incomodo: la Germania, che ha approfittato della situazione.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) C’erano mille, mille modi per costruire premesse di pace ma non si volevano. Appunto la Germania voleva assolutamente essere lei il quasi monopolista del gas che arrivava dalla Russia. La Russia voleva saltare l’Ucraina.

GIORGIO MOTTOLA E l’Europa il solito vaso di coccio?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Se ci fosse stata un’Unione forte nella politica estera e nell’energia, questa guerra non veniva, sa, questa guerra non veniva. Questa guerra è frutto della nostra debolezza.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La Germania ha avuto e ha tuttora un ruolo determinante nella crisi Ucraina. Oggi è uno dei paesi europei maggiormente dipendenti dal gas russo con quasi il 49 per cento di importazioni da Mosca. E per questo il cancelliere socialdemocratico Olaf Sholz si è battuto strenuamente per evitare che le sanzioni europee contro la Russia comprendessero anche il settore del gas.

 OLAF SCHOLZ – CANCELLIERE FEDERALE DELLA GERMANIA La Germania vuole ridurre la condizione di dipendenza dal gas russo, ma farlo da un giorno all’altro significa, per il nostro Paese e tutta l’Europa, precipitare in una recessione. Centinaia di migliaia di posti di lavoro sarebbero in pericolo. Tutta l’industria sarebbe sul baratro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quella della Germania è molto più di una dipendenza. Da dieci anni con Gazprom è stata avviata una collaborazione commerciale strategica. In questa piccola città tedesca, Lubmin, affacciata sul mar Baltico arriva il Nord stream, il primo gasdotto della storia che per via subacquea collega direttamente i giacimenti russi all’Europa centrale. L’opera costruita da Gazprom in associazione con altre aziende europee, tra cui l’italiana Snam, ha avuto in Germania molti critici e oppositori come la professoressa Claudia Kemfert, consulente del governo federale sulle politiche energetiche.

CLAUDIA KEMFERT – CONSULENTE POLITICHE ENERGETICHE GOVERNO FEDERALE TEDESCO Io avevo sconsigliato al governo federale di avviare la costruzione del Nord Stream, raccomandando piuttosto la costruzione di nuovi rigassificatori e non di nuovi gasdotti perché il Nord Stream ci avrebbe portato a essere ancora più dipendenti dalla Russia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il progetto del Nord Stream è partito nel 2001, quando il cancelliere era il socialdemocratico Gerard Schroeder, ed è stato poi inaugurato nel 2011 da Angela Merkel alla presenza del primo ministro francese, Francois Fillon, il premier olandese, Mark Rutte, e l’allora presidente russo, Dimitri Medvedev. Tutti soddisfatti e sorridenti.

SASCHA MÜLLER-KRAENNER – DIRETTORE ESECUTIVO ASSOCIAZIONE DEUTSCHE UMWELTHILFE Nel 2011 La Germania non aveva bisogno del Nord Stream. I gasdotti già esistenti che arrivavano in Germania attraversando la Polonia, la Bielorussia e l’Ucraina erano più che sufficienti per i nostri consumi di gas, che tra l’altro sono in progressiva discesa da anni. Ma lo scopo del Nord Stream era innanzitutto politico: la Russia voleva ridurre il pagamento di royalties al governo ucraino per esercitare una pressione politica ed economica.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Fino al 2008, l’80 per cento del gas russo che arrivava in Europa passava per l’Ucraina. Dopo l’apertura del Nord Stream, nel 2011, la percentuale è iniziata a calare fino a raggiungere il 23 per cento del 2020. Oggi quasi un terzo del gas russo, il 31 per cento, arriva in Europa attraverso il Nord Stream.

YURIY VITRENKO – AMMINISTRATORE DELEGATO NAFTOGAZ Con il Nord Stream 1 l’Ucraina è stata fortemente indebolita e, visto che passava molto meno gas, abbiamo perso tantissimi soldi. Ma poi è successa una cosa ancora più incredibile: poco dopo che Putin aveva invaso la Crimea e il Donbass, nel 2014, quindi dopo una occupazione militare illegale, la Germania ha deciso comunque di costruire insieme alla Russia un secondo gasdotto.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Nel 2015, appena un anno dopo l’annessione russa della Crimea e l’inizio della guerra civile in Donbass, parte il progetto per costruire un secondo gasdotto sottomarino che raddoppia la via del gas tra Russia e Germania, il Nord Stream 2. CLAUDIA KEMFERT – CONSULENTE POLITICHE ENERGETICHE GOVERNO FEDERALE TEDESCO Nord Stream è costato finora oltre 17 miliardi di euro, una cifra pazzesca. Questo significa che saremo costretti a dipendere ancora a lungo dal gas per ripagare l’investimento. Ma la verità è che la domanda di gas sta crollando e si ridurrà sempre di più. GIORGIO MOTTOLA Ma allora perché la Germania ha deciso di fare il Nord Stream2?

CLAUDIA KEMFERT – CONSULENTE POLITICHE ENERGETICHE GOVERNO FEDERALE TEDESCO Di mezzo c’erano gli interessi di Gazprom, che ha pagato gran parte del gasdotto, ma anche i profitti delle aziende tedesche europee, che hanno spinto molto sul governo tedesco in favore del Nord Stream 2.

GIORGIO MOTTOLA In Germania c’è una lobby del gas molto forte?

CLAUDIA KEMFERT – CONSULENTE POLITICHE ENERGETICHE GOVERNO FEDERALE TEDESCO La lobby del gas è fortissima in Germania. Per il Nord Stream hanno arruolato l’ex cancelliere Gerard Schroeder.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’ex leader della Spd, Gerard Schroeder, termina il suo mandato da cancelliere il 22 novembre del 2005. E appena due settimane dopo viene assunto da Gazprom, che lo nomina presidente del Nord Stream, il consorzio che ha il compito di costruire il gasdotto approvato da Schroeder quando era cancelliere.

SASCHA MÜLLER-KRAENNER – DIRETTORE ESECUTIVO ASSOCIAZIONE DEUTSCHE UMWELTHILFE Gerard Schoreder è solo il caso più famoso. Ci sono molti altri politici tedeschi sia del Spd che della Cdu che sono stati assunti e pagati profumatamente da aziende del gas russe o da aziende tedesche che negli ultimi anni hanno avviato joint venture in Russia.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’elenco dei politici passati a lavorare con Gazprom e altre aziende tedesche del gas è davvero molto lungo. C’è l’ex ministro degli Esteri e leader dei Verdi Joschka Fisher, che è stato consulente del gasdotto Nabucco, l’ex segretario di stato del ministero dell’energia, il cristiano democratico Thomas Bareiss che ha fatto parte del cda della potente lobby tedesca Zukunft Gas, e l’ex capo gabinetto del ministero dell’Energia Marion Scheller che oggi è il capo dei lobbisti in Gazprom.

GIORGIO MOTTOLA Qual è la strategia lobbistica di Gazprom in Germania?

SASCHA MÜLLER-KRAENNER – DIRETTORE ESECUTIVO ASSOCIAZIONE DEUTSCHE UMWELTHILFE Ci sono due livelli. Uno è quello commerciale: molti investimenti e partenariati con aziende tedesche. Il secondo è quello delle sponsorizzazioni. L’esempio più famoso è lo Shalke 04, la squadra di calcio in cui i russi stanno investendo da una decina d’anni. Ma ci sono poi una miriade di finanziamenti a iniziative culturali e ad associazioni locali. Soprattutto nello stato tedesco del Mecklenburg-Vorpommern che è il collegio elettorale di Angela Merkel. Qui Gazprom si è creata un’ottima reputazione e i suoi soldi sono stati sempre molto ben accolti dai politici locali.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il Land di Mecklenburg-Vorpommern, nel nord della Germania, per anni è stato il collegio elettorale in cui si è fatta eleggere Angela Merkel. È in questo Land, storicamente guidato dall’Spd, che approda il Nord Stream1 e nella parte settentrionale a Sassnitz, è stato installato il cantiere operativo per la costruzione del Nord Stream2. Quelli che vedete sono i tubi del gasdotto russo che vengono posati in fondo al mare. Lo scorso settembre il Nord Stream2 è stato completato, ma con l’inizio della guerra il governo federale ha deciso di sospendere gli iter autorizzativi. E qui a Sassnitz non tutti l’hanno presa bene.

ABITANTE SASSNITZ Ci hanno speso così tanti soldi che devono per forza autorizzarlo. Prima o poi la Russia e l’Europa torneranno a stare dalla stessa parte, per questo bisogna farlo partire.

ABITANTE SASSNITZ Il Nord Stream è pronto a partire, praticamente basta soltanto spingere un bottone e potrebbe essere subito operativo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il Land di Mecklenburg - Vorpommern, a guida Spd, è tra i principali sponsor del Nord Stream, da sempre molto criticato dagli ambientalisti. Nonostante ciò, lo scorso anno la presidente del governo locale, Manuela Schwesig, ha annunciato al parlamento locale la costituzione di una fondazione per la protezione dell’ambiente e del clima.

MANUELA SCHWESIG – PRESIDENTE MECKLENBURG VORPOMMERN La protezione del clima è sempre stata una priorità del mio governo ed è diventata una priorità mondiale. Sono felice che molti giovani abbiano iniziato a prendere a cuore il problema. La fondazione servirà a sostenere le loro associazioni e le loro attività.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Sul sito della fondazione fanno bella mostra iniziative per la protezione della fauna marittima, corsi di formazione e bandi per la difesa dell’ambiente. Ma leggendo con attenzione lo statuto, si scorge tra gli scopi anche un riferimento al completamento del Nord Stream2.

CAREL MOHN – VICEPRESIDENTE TRANSPARENCY INTERNATIONAL GERMANIA Lo scopo ufficiale era promuovere politiche in favore dell’ambiente, ma il vero obiettivo della fondazione era completare il gasdotto. E se ci pensi è stata un’idea geniale, perché una fondazione tedesca, oltretutto statale, non può essere sottoposta a sanzioni.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La fondazione viene creata dopo l’inasprimento delle restrizioni commerciali deciso dagli Stati Uniti in risposta all’invasione della Crimea da parte della Russia. Le sanzioni rischiavano di rallentare il completamento del Nord Stream 2, danneggiando Gazprom e le aziende tedesche impegnate nei lavori. E così il governo di Mecklenburg Vorpommern ha trovato questa brillante scappatoia.

CAREL MOHN – VICEPRESIDENTE TRANSPARENCY INTERNATIONAL GERMANIA Le sanzioni colpivano tutte le aziende, tedesche ed europee, che lavoravano al Nord Stream. E così il governo ha pensato a un modo per aggirarle costituendo una fondazione no profit che si procurasse l’attrezzatura necessaria a completare il gasdotto.

GIORGIO MOTTOLA Ma chi ci ha messo i soldi in questa fondazione?

CAREL MOHN – VICEPRESIDENTE TRANSPARENCY INTERNATIONAL GERMANIA Lo Stato ci ha messo circa 200mila euro ma la maggior parte dei soldi proveniva dalla Russia, Gazprom che ci ha messo 20 milioni di euro.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Quindi la fondazione è finanziata per l’un per cento dal Land tedesco e per il 99 da Gazprom. Nel 2021 la no profit ambientalista ha acquistato una nave cargo, la Blue Ship. Report ha scoperto che a vendergliela è stata una cooperativa italiana, la Stone di Venezia per 11 milioni di euro. Il compito ufficiale è effettuare ricognizioni in mare aperto per la difesa della fauna ittica ma le sue attività sembrano piuttosto connesse al completamento del Nord Stream 2.

CAREL MOHN – VICEPRESIDENTE TRANSPARENCY INTERNATIONAL GERMANIA Posiziona i tubi del gasdotto in fondo al mare.

GIORGIO MOTTOLA Ma è pazzesco!

CAREL MOHN – VICEPRESIDENTE TRANSPARENCY INTERNATIONAL GERMANIA Certo che lo è. È come uno schema di riciclaggio. I politici tedeschi dicono di voler combattere la cleptocrazia ma in realtà hanno costituito questa fondazione solo per aggirare la legge.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, a queste anomalie vanno aggiunte altre, cioè il fatto che i depositi di stoccaggio del gas, un quinto di quelli tedeschi, è direttamente gestito dai russi di Gazprom. È inquietante perché si tratta di depositi strategici per la sicurezza energetica di un Paese che per peso politico, peso economico industriale, è il Paese più strategico della Comunità europea. Ora, come si è arrivati a questo punto? Il peccato originale è la bulimia da gas alla quale ha contribuito sicuramente la commistione tra affari e politica, un peccato originale dal quale gli stessi tedeschi oggi fanno fatica a uscirne. Ma come siamo arrivati a questo punto? Siamo arrivati con il progetto del 2001 del Nord Stream, il gasdotto. Viene presentato nel 2001, all’epoca cancelliere era Gerhard Schröder. Poi nel 2005, a fine mandato, due settimane subito dopo viene assunto da Gazprom che lo nomina addirittura presidente del consorzio Nord Stream, che verrà completato nel 2011, cancelliera all’epoca Angela Merkel. Il Nord Stream è il primo gasdotto della storia che collega direttamente i giacimenti russi con l’Europa centrale e sbarca in quel Land che corrisponde al collegio elettorale di Angela Merkel, anche se poi era a guida Spd. E che cosa accade? Che la Russia aveva deciso di costruire quel gasdotto per indebolire economicamente l’Ucraina e pagare meno royalties e a questo gioco la Germania si presta, anche per interessi ovviamente strategici del Paese. Poi accade che nel 2014, quando la Russia invade la Crimea e Donbass, scattano le sanzioni europee, la Germania nonostante tutto questo, decide di continuare a costruire il secondo gasdotto con Putin, il Nord Stream 2, che viene coinvolto lo stesso Land, quello che coincide appunto con il collegio elettorale della Merkel, guida sempre del partito dell’ex cancelliere Schröder, e però per aggirare le sanzioni il governo del Land si inventa una furbata: si inventa una fondazione no profit, apparentemente ambientalista, ma nello statuto ci infila poi quel meccanismo burocratico che gli consentirà di portare a termine l’opera del gasdotto. È una no profit che è finanziata dall’1 percento, per l’1 percento dal governo del Land, circa 200mila euro, e per il 99 percento, 20 milioni, direttamente da Gazprom. Questo gli ha consentito di aggirare le sanzioni e non mettere in crisi la realizzazione del gasdotto Nord Stream 2, infatti è stato realizzato ma non è ancora partito e funzionante perché è scoppiato il conflitto in Ucraina e rischia di non entrare mai in funzione. Tutto questo per una bulimia da gas. Secondo Prodi, Romano Prodi, la Germania puntava a gestire il monopolio del gas russo. Comunque l’espediente della fondazione ambientalista è stato replicato in grande scala anche dalla Commissione europea, il Green Deal, cioè quando è stato deciso che l’energia di transizione per arrivare a emissioni zero è il gas, quindi consumeremo più gas, anche se sappiamo che non è assolutamente ecologico perché impatta dal punto di vista climalterante ben più della CO2. Però insomma su questa scelta quanto hanno inciso le pressioni delle lobby del gas? Quanto ha inciso la Entsog? La conoscete la Entsog?

URSULA VON DER LEYEN - PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA Sono convinta che il nostro vecchio modello di crescita basato sui combustibili fossili e sull’inquinamento è ormai fuori tempo massimo. Per questo lanciamo il Green Deal europeo, un progetto paragonabile allo sbarco dell’uomo sulla luna.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO La storia dall’amore tra l’Europa e il gas si consolida con le politiche per l’emergenza climatica, che portano il vecchio continente ad annunciare la rinuncia al petrolio e al carbone e a puntare tutto sul gas, che viene definito infatti dalla Commissione Europea energia di transizione per arrivare all’obiettivo delle zero emissioni di co2 entro il 2050.

GIORGIO MOTTOLA Aver definito il gas un’energia di transizione che conseguenze ha comportato?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMIA NAZIONALE DELLE SCIENZE Che noi non cambiamo nulla rispetto alla nostra situazione. Oggettivamente rispetto al carbone si può considerare un’opzione migliore però sia chiaro: il gas, il metano non è per niente amico del clima.

GIORGIO MOTTOLA Quanto incidono le emissioni di metano sui cambiamenti climatici?

NICOLA ARMAROLI – MEMBRO ACCADEMIA NAZIONALE DELLE SCIENZE Il metano in quanto tale è un gas serra decine di volte più potente della co2 e le emissioni di metano sono cresciute molto più delle emissioni di co2 proprio perché noi abbiamo fatto un uso enorme di questa infrastruttura.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Il gas produce il 40 per cento in meno di anidride carbonica rispetto al carbone e il 20 per cento in meno rispetto al petrolio. Ma se da un lato la quantità di co2 prodotta è inferiore, dall’altra le emissioni di metano sono infatti responsabili tra il 30 e il 50 per cento di quello che sta accadendo al clima. Ciò nonostante, la Commissione Europea ha reso il gas centrale nella politica di decarbonizzazione. Scelta che non ha colto per niente impreparata l’industria del petrolio che da anni sta investendo miliardi nell’estrazione di gas naturale.

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE La lobby del gas è potentissima a Bruxelles anche perché la filiera industriale è enorme. Poco tempo fa abbiamo calcolato che tutte insieme arrivano a spendere in attività lobbistica a Bruxelles oltre 100 milioni di euro all’anno e dispongono di un esercito di mille lobbisti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Le grandi aziende del petrolio come Exxon, Shell, British Petroleum, Total ed Eni nel corso degli ultimi cinque anni hanno speso oltre 90 milioni di euro in attività lobbistiche per fare pressione sulla Commissione Europea e sull’Europarlamento allo scopo di avere politiche favorevoli al gas.

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE Ci sono le aziende produttrici di gas come Exxon, Eni e Gazprom che già da sole sono potentissime. Poi ci sono le società che lo trasportano, quelle che costruiscono i gasdotti o i rigassificatori come la vostra Snam. E, infine, ci sono le aziende che lo vendono ai consumatori e quelle che se ne servono per i propri processi industriali, come l’industria chimica o dei fertilizzanti.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E la pressione dell’industria del gas sulle istituzioni europee si fa sentire tutti i giorni. Lo scorso anno il suo esercito di lobbisti è riuscito a organizzare più di 150 incontri, praticamente un giorno sì e uno no, con commissari europei, alti dirigenti della commissione e funzionari degli organismi europei. Ma questa non è che la punta dell’iceberg.

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE Per esempio, Eni qui a Bruxelles ha i suoi uffici e spende un milione e mezzo di euro per influenzare le istituzioni europee. Ma dai registri risulta che Eni paga anche altri 17 gruppi lobbying che fanno pressione per conto di Eni, associazioni di categoria, think tank e società di consulenza.

GIORGIO MOTTOLA Invece Gazprom in che modo fa lobbying a Bruxelles?

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE Gazprom ha un profilo molto basso. Dichiara una spesa inferiore a 700 mila euro in lobbying all’anno, ha solo nove dipendenti. Gazprom non fa molta pressione in prima persona, ma usa i suoi partners per farla. Shell, Total, Eni vanno a bussare alle porte della Commissione Europea al posto suo.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Ma a Bruxelles le lobby del gas non devono nemmeno sforzarsi troppo per andare a bussare alla porta della Commissione europea. In molti casi è la Commissione europea ad andare da loro.

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Quando la Commissione Europea deve fare valutazioni sui futuri scenari energetici, quasi sempre chiede consiglio alle aziende del settore del gas. Le quali cosa potranno dirti? Che serve sempre più gas.

GIORGIO MOTTOLA Quindi le industrie del gas sono trattate dalla Commissione come un consulente tecnico?

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Non direttamente. Esistono organizzazioni che hanno acronimi stranissimi dentro cui si nascondono le industrie del gas.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO L’organizzazione che più di tutte è riuscita a condizionare in modo determinante le scelte sulla politica energetica europea si trova a 500 metri esatti dal palazzo della Commissione Europea, in questo edificio. Qui ha sede la Entsog, acronimo di Network Europeo degli operatori del sistema di trasmissione del gas.

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Entsog è l’organismo europeo che gestisce le reti del gas e fornisce alla Commissione Europea le previsioni sugli scenari energetici e sui futuri consumi di gas.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Perciò quando la Commissione vuole sapere quanto gas verrà usato in Europa nei prossimi anni, viene qui a chiederlo a Entsog. La linea rossa che vedete rappresenta le previsioni che Entsog ha fornito all’Europa e quella azzurra documenta gli effettivi consumi di gas che poi si sono verificati negli stessi anni. Come si può notare ogni singolo anno Entsog ha sovrastimato i consumi europei di metano in percentuali che vanno dal 7 al 21 per cento. Una incongruenza che forse non si spiega solo con la scelta di un modello matematico sbagliato.

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Entsog si presenta formalmente come un organismo tecnico neutrale al servizio della Commissione Europea ma in realtà è formato da soggetti che hanno interessi economici diretti nel settore del gas.

GIORGIO MOTTOLA Ma è un bel paradosso?

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Beh, io la chiamerei truffa.

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE È come se entrassi in un pub e chiedessi al barista: senti amico, secondo te quanta birra dovrei bere stasera? È ovvio che lui ti risponda: fidati di me, un sacco! GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO Di Entsog fanno parte le compagnie private e statali che gestiscono gasdotti e rigassificatori in Europa. Tra queste c’è anche la nostra Snam, che siede nel comitato esecutivo dell’organizzazione. Nonostante l’evidente conflitto d’interesse, proprio a partire dalle previsioni di Entsog, la Commissione Europea ha assunto negli ultimi anni le sue decisioni cruciali sulla politica energetica.

BAS EICKHOUT – VICEPRESIDENTE COMMISSIONE AMBIENTE PARLAMENTO EUROPEO Sulla base delle analisi e delle previsioni sui consumi forniti da Entsog, la Commissione Europea decide se investire o meno in nuovi gasdotti e infrastrutture. Questi investimenti, pagati dai contribuenti, vengono stanziati in base ai consigli che l’Europa riceve da quelle stesse aziende del gas che poi gestiranno le nuove infrastrutture.

GIORGIO MOTTOLA FUORI CAMPO E così, in base alle previsioni di Entsog, negli ultimi anni le aziende del gas sono riuscite a far finanziare dall’Europa progetti di nuovi gasdotti per oltre quattro miliardi di euro. Di questi, 1,5 miliardi è arrivato in Italia, la fetta più grande alla Snam, 900 milioni per il Tap mentre invece 500 milioni sono andate per il gasdotto tra Italia e Svizzera. Tutte queste opere che sono state costruite nella fase storica in cui i consumi di gas sono in netto calo ormai da anni.

PASCOE SABIDO – RICERCATORE CORPORATE EUROPE La conseguenza di queste previsioni sovrastimate di Entsog è che abbiamo nuovi gasdotti completamente inutili pagati con i soldi dei cittadini e che potranno dare profitto solo se l’Europa continuerà a dipendere dal gas.

GIORGIO MOTTOLA Ha mai sentito parlare di Entsog?

ROMANO PRODI – PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) La mia ignoranza in materia è enciclopedica.

GIORGIO MOTTOLA Entsog è l’organismo tecnico a cui la Commissione europea chiede delle previsioni sui consumi di gas, che però negli ultimi dieci anni sono sempre state molto sovrastimate del 20 percento.

ROMANO PRODI – PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE EUROPEA (1999-2004) Se fa il discorso delle previsioni, tutti quelli che volevano fare i gasdotti nuovi prevedevano tutti un aumento del gas, se no non lo giustificavano. No, se lei mi fa questa domanda, anche senza le sigle… le rispondo a buon senso.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo anche capito perché stentiamo così tanto a virare con decisione sull’energia da rinnovabili. Insomma, Putin ha sedotto e resi dipendenti come un abile pusher i politici dell’Occidente al suo gas. Non ha faticato neppure tanto perché è bastato allettare con il miraggio di fatturati miliardari le loro compagnie e partecipate che trattano di energia e queste compagnie si sono trasformate improvvisamente nel migliore sponsor di Putin presso l’Occidente. Hanno pensato loro stesse, con le loro attività di lobbying a fare pressione sulla Commissione europea affinché venisse scelto il gas come energia di transizione per il passaggio appunto a emissioni zero nel 2050. Ecco, e su queste pressioni sicuramente ha avuto un ruolo importante anche Entsog che è questo organismo a cui si rivolge la Commissione europea, quasi se fosse un organismo tecnico e indipendente, in realtà dietro l’acronimo si nascondono le più importanti aziende del settore. Insomma, un’abile strategia quella di Putin che ha costretto i Paesi dell’Europa, e in questo caso non è importante se appartengano alla Nato o meno, a finanziare la sua guerra. In questo caso, gas non olet.

La grande fuga. Report Rai. PUNTATA DEL 04/04/2022 di Manuele Bonaccorsi

Collaborazione di Giulia Sabella 

Perché le emissioni continuano? Perché non esiste alcuna normativa che le impedisca.

Le telecamere di Report hanno seguito il viaggio per l’Italia di James Turitto, della ong americana Clean Air Task Force, che con una termocamera professionale ha indagato la presenza di emissioni di metano negli impianti di produzione, trattamento e stoccaggio di idrocarburi. Turitto ha visitato 46 impianti nel nostro Paese e di questi ben 35 rilasciavano metano in atmosfera. Tra questi i siti di trattamento gestiti da Eni (Pineto, Casalborsetti) e quelli di rigassificazione (Panigaglia) e di stoccaggio (Minerbio, Fiume Treste, Cortemaggiore, Brugherio, Bordolano), controllati da Snam. Spesso a rilasciare metano erano i camini di emergenza e i serbatoi, ma a volte le emissioni provenivano da viti o tubazioni in scadente stato di manutenzione. Report mostrerà in esclusiva le immagini riprese da Turitto. Secondo l’International Energy Agency, nel mondo vengono rilasciate in atmosfera 135 milioni di tonnellate di metano derivate da emissioni fuggitive del settore energetico, pari a circa 2,5 volte l’intero consumo annuo italiano. Limitarle solo di un terzo avrebbe lo stesso effetto sugli obiettivi della Cop 21 dell’elettrificazione dell’intero settore dei trasporti contribuendo a contenere l’aumento della temperatura di 0,3 gradi. Perché allora le emissioni continuano? Perché non esiste alcuna normativa che le impedisca. Lo spreco delle emissioni appare oggi non solo ambientalmente pericoloso, ma anche economicamente incomprensibile.

LA GRANDE FUGA Di Manuele Bonaccorsi

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO James Turitto, della ong Clean Air Task Force, possiede una telecamera a infrarossi, progettata proprio per l’industria degli idrocarburi.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Funziona con un sensore a bassa temperatura, a meno 200 gradi, che può visualizzare il metano.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo all’impianto di rigassificazione di Panigaglia, a due passi da La Spezia. Questo stabilimento scarica il gas liquefatto proveniente via nave dall’Algeria, in questi immensi serbatoi. E poi lo riporta allo stato gassoso, per immetterlo nella rete. Per ridurre la dipendenza dal gas russo, impianti di questo tipo sono destinati a lavorare a pieno regime.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Ecco, vedo delle emissioni di gas.

MANUELE BONACCORSI Dove sono?

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Proprio davanti a noi, nei due camini centrali. Quando ci sono malfunzionamenti, le perdite vengano convogliate nei camini.

MANUELE BONACCORSI Sta continuando l'emissione?

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Sono passati 30 minuti e l’emissione continua. Bisognerebbe chiedere alle autorità: siete informati delle fughe? Con quale frequenza avvengono?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le emissioni vengono autocertificate, una volta l’anno. Non c’è nessun controllo esterno, nessuna sanzione obbligatoria. Buonasera, insomma il 40 percento del gas utilizzato dall’Europa viene dalla Russia. Questo significa che paghiamo circa un miliardo di euro al giorno. Putin vorrebbe che le pagassimo a Gazprombank, che è la banca esente dalle sanzioni, questo significa che finanzieremo direttamente la guerra in Ucraina. Anche per questo ci hanno di risparmiare un po’ sull’energia, ci hanno chiesto di abbassare di un grado la temperatura delle caldaie. Ora, però in tema di risparmio, grazie alle telecamere speciali di James Turitto, abbiamo scoperto di avere notevoli margini di miglioramento. Per esempio, da quanto durano le emissioni di metano nell’atmosfera nell’impianto di Panigaglia? James Turitto c’era già stato e ha mostrato i video al nostro Manuele Bonaccorsi.

MANUELE BONACCORSI Sono problemi che l'azienda potrebbe risolvere?

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Se l’azienda avesse una termocamera come la mia potrebbe rintracciare l’origine della fuga. Alcune magari sarebbero difficili da riparare, ma per altre potrebbe bastare una chiave inglese

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO L’autorizzazione ambientale prevede limiti di emissioni solo per gli ossidi di azoto. I due camini autorizzati a rilasciare metano dovrebbero farlo solo in emergenza o per sicurezza, non in maniera continua. La Snam ha dichiarato che le emissioni di metano in atmosfera di questo impianto sono state nel 2020 786 tonnellate, pari al consumo annuo di circa 1200 famiglie. Cortemaggiore è un paese di cinquemila abitanti, divenuto famoso all’inizio degli anni ’50 per la scoperta di un giacimento di petrolio. Da qui partì l’Eni di Enrico Mattei. Oggi il giacimento è esaurito ed è diventato un impianto di stoccaggio del metano, operato da Stogit, azienda del gruppo Snam.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Oh, ci siamo, proprio davanti a noi, alla nostra altezza, vedo tre nuove fughe di metano. Se ti avvicini al mirino puoi vedere anche tu. Sono emissioni continue. Qui possiamo vedere una emissione importante dal camino di emergenza. Guarda.

MANUELE BONACCORSI Oh. Non mi pare l’impianto sia in emergenza.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Direi di no.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO La scena si ripete a Bordolano, a pochi chilometri da Crema. Anche qui il camino centrale emette gas.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Certo, sarebbe meglio se dal camino uscisse una fiamma, se bruciassero il metano.

MANUELE BONACCORSI Perché?

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Perché se bruci il metano invece di rilasciarlo in atmosfera produci Co2, che è meno inquinante del metano. È meno grave.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Siamo Casalborsetti, tra i campi coltivati a grano della splendida costa ravennate. Qui c’è un impianto Eni, dove viene trattato e immesso in rete il metano che viene estratto nelle piattaforme offshore nell’Adriatico.

AGRICOLTORE Quel fumo dal camino?

MANUELE BONACCORSI È metano.

AGRICOLTORE Magari non si vede così ad occhio nudo, ma si sente. È sempre stato così; io sono qui dall’80, c’è sempre stata puzza.

MANUELE BONACCORSI Sempre la stessa puzza.

AGRICOLTORE Magari anche di più.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Nella pianura padana, tra Modena e Bologna, c’è l’importante impianto di stoccaggio di Minerbio.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Questo è il camino centrale, c’è una linea di metano nel cielo, vedi? Nell’ora e mezzo che abbiamo passato qui, ho trovato nove fonti di emissioni. In questo punto puoi anche udire il rumore, senti? Vediamo da dove viene. Ecco, c’è il bullone usurato, puoi vedere il gas che esce dal bullone.

MANUELE BONACCORSI Dove? JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Esattamente nella tubazione davanti a noi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Torniamo sull’impianto nel corso della notte, per verificare se le perdite continuano.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Con la telecamera a infrarossi posso riprendere anche di notte. Come temevo, l’emissione dal camino centrale continua. Posso dirvi che è una delle emissioni più importanti che abbia mai visto.

MANUELE BONACCORSI Possiamo riprovare domattina.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Sì, torneremo alle 8.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO E in effetti il giorno dopo…

MANUELE BONACCORSI Continua?

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Sì, certo. È la prova che si tratta di una emissione continua, dovuta a un malfunzionamento. Se vogliamo prevenire il riscaldamento globale non possiamo continuare così. Oh, attenzione. C’è qualcuno che lavora lì. Andiamo a vedere più da vicino. Voglio che tu veda quello che sto vedendo io. Ci sono due punti di emissione proprio dove ci sono gli operai. Staranno inalando molto gas

MANUELE BONACCORSI È molto pericoloso per loro, immagino.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Dobbiamo avvertirli.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Chiamiamo uno degli operai che si avvicina al cancello

MANUELE BONACCORSI Voi là sopra stavate lavorando dentro una nuvola di metano, ve lo possiamo anche far vedere.

OPERAIO DUE No, ma ci credo!

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Pochi minuti dopo ci raggiunge un funzionario della Stogit, l’azienda del gruppo Snam che gestisce l’impianto.

MANUELE BONACCORSI C’è una emissione un metro sotto loro, lo vediamo chiaramente dalla camera.

FUNZIONARIO STOGIT Ok, va bene. Voi siete autorizzati da qualcuno?

MANUELE BONACCORSI Siamo in suolo pubblico. Minimo qui rischiano di esplodere.

FUNZIONARIO STOGIT No, direi di no. Però va bene.

MANUELE BONACCORSI Beh, col metano sì.

FUNZIONARIO STOGIT Siamo in zona sicurezza lì.

MANUELE BONACCORSI Eh beh, però se stanno in una nuvola di metano la sicurezza dove sta?

FUNZIONARIO STOGIT Se non c’è la provocazione di scintille…

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Abbiamo avvertito Snam della perdita. Ci ha detto che gli operai stavano lavorando a una manutenzione e che il gas ripreso dalla termocamera è in realtà glicole, una sostanza tossica usata nell’industria del metano, proveniente non dalle immediate vicinanze dei lavoratori. Per l’impianto di Minerbio l’azienda comunica tutte le emissioni di metano all’Arpa. Nell’ultimo report pubblicato, quello dell’anno 2020, gli sfiati di metano riportati sono sporadici e molto brevi, non superano mai le tre ore.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ci dirigiamo verso sud, in Abruzzo. A Pineto c’è un altro importante impianto dell’Eni, di trattamento del gas. Ad aprile 2021, qui James aveva trovato un buco in un serbatoio. Eni aveva promesso di aggiustare tutto.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Siamo tornati per capire se il problema c’è ancora. Il buco è stato tappato, si vede, stava nella parte che è stata ridipinta. Ma l’emissione c’è ancora. Esce metano dalla valvola in cima al serbatoio.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Mentre svolgiamo le nostre riprese un’auto ci segue. Dall’interno del veicolo un uomo con una tuta dell’Eni ci riprende in volto con un telefonino.

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Penso sia il direttore dello stabilimento. L’avevo già incontrato ad aprile. Quando gli avevo detto della perdita, aveva negato l’evidenza.

FUNZIONARIO ENI Stanno arrivando chiamando i carabinieri, aspettate due minuti.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poi, dallo stabilimento escono due uomini, probabilmente della sicurezza, in borghese. Anche loro cominciano a filmarci. La volante dei carabinieri arriva. Alla fine dei controlli di rito, i militari ci augurano buon lavoro.

CARABINIERE Non vi preoccupate, magari se ci richiamano sappiamo già chi è.

MANUELE BONACCORSI Arrivederci, grazie

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Poco più a sud, sempre in Abruzzo, sulle rive del fiume Treste c’è il più grande centro di stoccaggio del metano d’Italia, operato da Snam. Lo stabilimento sorge a pochi passi dalle case del paesino di Cupello. Anche qui la termocamera fa centro. James scopre tre importanti emissioni da un serbatoio

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) Probabilmente la perdita più ampia che abbia mai visto finora.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Allora andiamo ad avvertire il vicesindaco, Fernando Travaglini.

MANUELE BONACCORSI Abbiamo visto che c’è una emissione di metano grossa, importante e volevamo avvertirvi.

FERNANDO TRAVAGLINI – VICESINDACO DI CUPELLO (CH) Dalla parte di dietro?

MANUELE BONACCORSI Nella parte di dietro. Se vuole venire con noi gliela facciamo vedere.

FERNANDO TRAVAGLINI – VICESINDACO DI CUPELLO (CH) Madonna, ma è parecchio.

MANUELE BONACCORSI È parecchio ed è tutto metano.

FERNANDO TRAVAGLINI – VICESINDACO DI CUPELLO (CH) Quello è esagerato. Questo a occhio nudo non si vede niente.

MANUELE BONACCORSI Esatto.

FERNANDO TRAVAGLINI – VICESINDACO DI CUPELLO (CH) Vi ringrazio che avete fatto questa osservazione, per noi così è difficile. Mo’ ci attiviamo e vediamo.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A questo punto è il vicesindaco a portarci in giro per verificare eventuali nuove perdite. Le troviamo al camino centrale. E anche nei pozzi in cui avviene la reiniezione

JAMES TURITTO – CLEAN AIR TASK FORCE (CATF) La terza tubazione da sinistra.

FERNANDO TRAVAGLINI – VICESINDACO DI CUPELLO (CH) Sì, sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’Ong Clean Air Task Force ha visitato 250 impianti in Europa e ha rilevato che ben 180 hanno emissioni di metano. 35 in Italia invece impianti su 46. Ecco invece l’agenzia per l’energia dell’OCSE ha stimato che in tutto il mondo viene rilasciato metano dal settore che produce energia corrispondente a due volte e mezzo il fabbisogno in Italia. Mentre Snam ci dice che le emissioni lei le ha denunciate tutte e che rispetto al 2015 le ha ridotte del 29 percento. Eni dice addirittura di averle ridotte del 90 percento e che dal 2021 monitora le perdite con una telecamera simile a quella di Turitto. E poi dice che gli impianti di Pineto e Casalborsetti sono conformi. In tema di controlli invece La Commissione Europea ha proposto una direttiva, che vieterebbe assolutamente le emissioni di metano in atmosfera, questo anche perché è più impattante dal punto di vista climatico, ben 80 volte di più rispetto della CO2, cioè al metano bruciato. Ma questo comporterebbe anche un ferreo controllo da parte dei paesi membri. La proposta è ferma invece da dicembre tra Parlamento e Consiglio Europeo.

Dalle miniere della Polonia le più alte emissioni di metano viste da satellite. Matteo Marini La Repubblica il 28 Marzo 2022.  

La sonda spaziale Sentinel-5P dell'Esa ha misurato grandi quantità del gas proveniente dal bacino carbonifero dell'Alta Slesia, a ovest di Cracovia. Questo tipo di emissioni è stato sottostimato negli anni passati. Misurarle ora servirà a contrastare il riscaldamento globale.

Sulla mappa il colore è rosso intenso, che si fa più scuro a ovest di Cracovia, dove ci sono alcune tra le più grandi miniere di carbone in Europa. È come un "punto caldo", lì sta succedendo qualcosa: grandi emissioni di metano, gas 25 volte più potente, come effetto serra, dell'anidride carbonica. A trovare e misurare questa "fuga" è stato un satellite, il Sentinel-5P della Costellazione europea Copernicus, dando prova dell'utilità dei sensori che, dallo spazio, possono aiutarci a valutare quanto, come e soprattutto dove le emissioni si originano. Non solo quelle umane. E agire dove serve per contrastare il riscaldamento globale.

Fuga di gas dalle miniere

Come il metano dagli allevamenti o dall'agricoltura intensiva, quello disperso dalle miniere di carbone è una specie di "sottoprodotto", non legato allo sfruttamento del metano come combustibile, ma dovuto a motivi di sicurezza, soprattutto per le miniere sotterranee. Per evitare esplosioni e crolli, i pozzi di ventilazione devono risucchiare il gas dal sottosuolo per liberarlo in atmosfera.

Secondo uno studio internazionale pubblicato nel 2020, nel decennio 2008-2017, il 33% delle emissioni di metano legato ai combustibili fossili ha origine proprio dalle estrazioni carbonifere. Le miniere sotterranee producono dieci volte la quantità di metano dispersa da quelle a cielo aperto. Non solo carbone per produrre energia 'sporca' dunque (in Polonia l'elettricità si ottiene principalmente con combustibili fossili) ma ad aggravare il bilancio c'è anche il rilascio di metano. 

Gli scienziati della University of Leicester hanno analizzato i dati forniti dall'Università di Brema, per stabilire se il sensore Tropomi del satellite sperimentale dell'Esa fosse in grado di misurare la quantità di metano dispersa in atmosfera su diverse regioni d'Europa. Tropomi è uno spettrometro di costruzione olandese in grado di capire, analizzando la luce che rimbalza da Terra, quali gas compongono la parte più bassa dell'atmosfera, quella in cui viviamo, fino a una quota di dieci chilometri. Sentinel-5P (P sta per precursore) è un prototipo che ha già dato prova di grandi performance nel monitoraggio del Pianeta, è in grado di "fiutare" la presenza di gas dannosi per la salute e per l'ambiente come azoto, ozono, formaldeide, diossido di zolfo, metano, monossido di carbonio e gli aerosol.

Ridurre le emissioni di metano, ecco perché è urgente farlo al più presto

Non sarà stata una sorpresa rilevare che la macchia più scura, quella che indica la maggior concentrazione di metano nell'aria, fosse in corrispondenza delle miniere polacche nella regione dell'Alta Slesia. Lì si trova un gruppo di grandi miniere di carbone sotterranee: "Poiché alcune di queste miniere sono molto vicine l'una all'altra, i singoli pennacchi sono difficili da osservare. Tuttavia, siamo stati in grado di rilevare aumenti medi di metano su larga scala, circa 20 parti per miliardo al di sopra delle concentrazioni di fondo" spiega Harjinder Sembhi, scienziato dell'Osservazione della Terra dell'Università di Leicester. Secondo l'ultimo rapporto dell'Agenzia europea per l'ambiente, le dieci più grandi miniere responsabili dell'emissione di metano in Europa sono polacche, e complessivamente, nel 2020, ne hanno liberato 282.300 tonnellate.

Misurare il cambiamento

Il metano, nelle varie forme, anche naturali, in cui viene disperso in atmosfera, conta per oltre il 20% delle emissioni globali. Può scaturire da paludi e acquitrini, ma anche dallo scioglimento del permafrost nelle zone artiche. Tuttavia secondo l'Agenzia per la protezione ambientale degli Usa, oltre la metà delle emissioni di questo gas è prodotta dalle attività umane. Estrazione di combustibili fossili, agricoltura e allevamenti sono tra le principali. L'altro fattore da tenere in considerazione sono le misure: il conteggio delle emissioni viene svolto, ogni anno, usando i dati dichiarati dai singoli Paesi e le ultime indagini hanno trovato che i valori, negli scorsi anni, sono stati fortemente sottostimati. In poche parole: bisogna fidarsi. 

Una misura indipendente, al di sopra di tutto, anche fisicamente, sarebbe preziosa per monitorare i progressi delle misure proposte per il contenimento del riscaldamento globale e, come in questo caso, individuare le zone dalle quali arrivano i problemi maggiori. Questo potenziale aumenterà, secondo il programma dell'Esa, con i nuovi satelliti come Sentinel-5 e il Copernicus Carbon Dioxide Monitoring che saranno lanciati nei prossimi anni. Per inchiodare, con misurazioni oggettive, gli Stati e i governi alle loro responsabilità nel difficile compito di neutralizzare la crisi climatica.

·        Il Fotovoltaico.

Buongiorno controtuttelemafie.it, Sono Veronica Colombo, e faccio parte del team di Prontobolletta

Vi contatto in quanto avrei il piacere di presentarvi il nostro ultimo articolo che prende in analisi gli ultimi Bonus emessi dal governo ponendo maggiore attenzione al Bonus Fotovoltaico.

Al fine di dimostrare la disponibilità alla piena collaborazione da parte del governo rispetto alle esigenze degli enti locali, il 30 Novembre si è aperto il bando da 320 milioni di euro che eroga contributi a fondo perduto ai Comuni per rendere più efficienti, dal punto di vista energetico, gli edifici pubblici di loro proprietà.

Spero che il testo sia di vostro gradimento e sentitevi liberi di inserire questo articolo originale nel vostro sito web così com'è o modificarlo a seconda delle vostre esigenze editoriali.

Se interessati, abbiamo a disposizione anche immagini di corredo.

Vi chiedo solamente l'accortezza di esplicitare la fonte per evitare di incorrere in problemi di copyright con Google.

Ringrazio per il tempo dedicatomi, Cordiali Saluti

Veronica Colombo Redattrice papernest.it

Fonte: prontobolletta.it/news/bonus-fotovoltaico

Bonus fotovoltaico: scopri di cosa si tratta, le scadenze e come richiederlo. Giada Ravalli l’1 Dicembre 2022

Si tratta di un fondo da 320 milioni di euro per finanziare la transizione energetica negli edifici pubblici. Lo mette a disposizione il Ministero della Transizione ecologica (MiTE) con l’avviso pubblico "Comuni per la Sostenibilità e l’Efficienza energetica - C.S.E. 2022" firmato il 3 ottobre dal Direttore Generale della Direzione Incentivi Energia.

L’avviso prevede il finanziamento di progetti di efficienza energetica che includano anche iniziative per la produzione di energie rinnovabili negli edifici delle Amministrazioni comunali, dell’intero territorio nazionale, attraverso l’acquisto e l’approvvigionamento di beni e servizi tramite il Mercato Elettronico della Pubblica Amministrazione (MePA).

La misura interviene a sostegno degli investimenti dei comuni favorendo la transizione verde e contrastando gli effetti negativi dell’aumento dei prezzi delle forniture energetiche, attraverso il finanziamento di:

impianti fotovoltaici

impianti solari termici

impianti a pompa di calore per la climatizzazione

sistemi di relamping

chiusure trasparenti con infissi e sistemi di schermatura solare

generatori di calore

Una quota pari al 50% delle risorse è riservata agli interventi di efficientamento energetico e di produzione di energia da fonti rinnovabili su edifici situati nei territori delle Regioni del Mezzogiorno (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia).

Il finanziamento sarà concesso nella forma del contributo a fondo perduto fino al 100% dei costi ammissibili secondo una procedura a sportello che prevede la semplificazione degli adempimenti burocratici sia per la procedura di acquisto sia per concessione ed erogazione del finanziamento.

Dubbi e chiarimenti sul per installare pannelli solari

Sui bonus spesso sorgono dubbi interpretativi su cui fa chiarezza l’Agenzia delle Entrate con una serie di provvedimenti e risposte. Il più noto tra i bonus che permettono di installare impianti fotovoltaici è senz’altro il superbonus 110.

Per accedere al 110%, infatti, occorre innanzitutto prevedere interventi di efficienza energetica come l’isolamento termico o la sostituzione delle caldaie. Sono i cosiddetti lavori trainanti, senza cui non si accede al bonus.

Chiaramente ci sono delle regole da rispettare: il superbonus si può utilizzare per il fotovoltaico solo:

sui condomini, sulle parti comuni dell’edificio;

sulle singole unità immobiliari che fanno parte del condominio stesso;

sugli edifici unifamiliari e sulle unità immobiliari indipendenti.

E c’è anche un’altra condizione da rispettare: è necessario cedere al Gestore dei servizi energetici (GSE) l’energia non autoconsumata in sito o l’energia non condivisa per l’autoconsumo.

Superbonus per il fotovoltaico solo dopo l’accatastamento.  Con la risposta n. 488 del 20 luglio 2021 il Fisco ha preso in esame il caso della possibilità di usare il superbonus per l'installazione di un impianto fotovoltaico su edifici di nuova costruzione. L’accesso all’incentivo maggiorato, infatti, di norma è consentito per le opere realizzate su edifici già esistenti. Nel caso in questione - chiarisce invece il Fisco - l'installazione dell'impianto può beneficiare del super bonus, a condizione però che sia eseguita congiuntamente agli interventi "trainanti" ammessi all'agevolazione, prima dell'accatastamento dell'edificio e a condizione che le date delle spese sostenute per l'intervento trainato siano ricomprese nell'intervallo di tempo individuato dalla data di inizio e dalla data di fine dei lavori per la realizzazione degli interventi trainanti.

Limiti di spesa                                                                    

Un chiarimento sui tetti di spesa è arrivato a maggio di quest'anno con la risposta n. 287-2022. Qui il Fisco conferma che, per l’installazione di pannelli solari, insieme a un ascensore per disabili, il limite di spesa è ridotto a 1.600 euro per kW.

Cosa succede se un'abitazione è divisa tra due comproprietari e uno di questi paga gli interventi mentre l'altro è titolare dell'utenza e della convenzione con il Gse?Nel chiarimento contenuto nella risposta n. 545 del 4 novembre 2022 l’Agenzia delle entrate fa luce su un caso specifico: quello in cui il comproprietario di un immobile è anche il committente dei lavori, intestatario delle fatture e colui che ha effettuato i pagamenti, mentre l'utenza elettrica e il contratto con il GSE per l'energia non autoconsumata sono intestati all'altro comproprietario dell’unità, che è anche l’unico residente nell’abitazione. In questo caso, chiarisce il Fisco, è possibile accedere al bonus 110%.

I chiarimenti del Fisco sul superbonus. 

Il 110 non è il solo incentivo in caso di installazione di sistemi di accumulo integrati negli impianti solari fotovoltaici agevolati con il superbonus. Dal 2022, infatti, è possibile utilizzare, ai fini IRPEF, un tax credit per le spese relative all'installazione di sistemi di accumulo integrati in impianti di produzione elettrica alimentati da fonti rinnovabili. Spetta alle persone fisiche e riguarda le spese sostenute nel 2022, dal 1° gennaio al 31 dicembre.

L'istanza di accesso al tax credit va presentata a marzo 2023, per la precisione la finestra temporale si apre dal 1° marzo al 30 marzo 2023.

Vincoli e burocrazia: l’odissea per installare i pannelli solari. Elena Dusi su La Repubblica il 9 ottobre 2022.  

Mancano materiali e installatori: i tempi di attesa arrivano fino a primavera prossima. In ritardo anche le comunità energetiche: ancora si aspetta per decreti e tabelle degli incentivi. Intanto prende piede la geotermia per climatizzare la casa

Germano Zanini ha una ditta che installa pannelli solari a Verona. “Sono nel settore da vent’anni, ma a casa mia non sono riuscito a montarli. Mi ha fermato la soprintendenza anche se vivo distante dal centro storico. Avrei avuto anche una tettoia da sfruttare. Ma si trova a 24,6 metri dalla strada, e il regolamento comunale prevede che siano almeno 25”. Arturo Lorenzoni insegna Economia dell’energia all’università di Padova ed è capogruppo dell’opposizione nel Consiglio Regionale veneto. “Il tetto del condominio in cui abito non è esposto bene. Avrei potuto installare i pannelli su una parete che è ben illuminata, ma mi sarebbe servito il permesso degli altri condòmini. Ho ripiegato su un piccolo pannello detto da balcone, che si attacca banalmente con una spina. La produzione però è minima”.

Se ne parla a primavera

L’Italia è il paese del sole, ma gli italiani, per sfruttarlo, devono superare un percorso a ostacoli. Il caso di Giorgio Parisi, che ha vinto il premio Nobel per la fisica, ma ha raccontato di non essere riuscito a montare i pannelli sul tetto del suo condominio, è comune a molti italiani. Vincoli paesaggistici e storici, regolamenti comunali e norme condominiali, carenza di installatori e tempi di attesa per i materiali, per finire – quando il traguardo è ormai in vista - con le lungaggini per la sostituzione del contatore: prima che il primo raggio aiuti a lenire la bolletta dell’elettricità, occorre attendere mesi. “Ai miei clienti parlo indicativamente di tarda primavera” dice Zanini. Ma solo nel caso in cui tutti i permessi siano a posto.

L’alea condominiale

“Alcuni Comuni stanno aprendo degli sportelli per aiutare i cittadini a orientarsi, ma si tratta di iniziative sporadiche. Le ditte da parte loro cominciano a munirsi di facilitatori condominiali da mandare nelle assemblee per rispondere alle domande” spiega Michele De Carli, professore di Ingegneria all’università di Padova. Diffidenza di fronte a una novità, dissapori fra vicini, mancanza di soldi da spendere nell’immediato e, nel caso dei più anziani, poca voglia di imbarcarsi in un investimento che richiede alcuni anni per dare il suo ritorno sono i motivi più frequenti del voto contrario in un condominio. Teoricamente un condòmino potrebbe installare i pannelli sulla sua quota di tetto, ma dovrebbe comunque ottenere il consenso dell’assemblea e dimostrare di non arrecare pregiudizio agli altri. 

Il verdetto del soprintendente

Poi ci sono i vincoli storici o naturalistici. Anche se la scorsa primavera il governo Draghi ha classificato i pannelli solari per uso familiare come “edilizia libera”, semplificando l’iter burocratico in Comune, gli impianti devono comunque essere “compatibili dal punto di vista paesaggistico”. “I sovrintendenti hanno grande autonomia nell’interpretare questa norma” commenta Lorenzoni. Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale che insegna all’università dell’Insubria, racconta di aver visto “progetti analoghi che in una città sono stati bocciati senza appello e dall’altra approvati senza difficoltà”. Cita poi l’esempio della Sala Nervi: 5mila metri quadri all’ombra della cupola di San Pietro che il Vaticano ha voluto 15 anni fa. In Italia, di fronte a un no, resta l’opzione – assai impervia – del ricorso. L’ultima speranza viene dai pannelli color mattone. “Costano di più e rendono di meno, ma magari possono far cambiare idea a una soprintendenza” suggerisce De Carli.

Cina: rubinetti chiusi

Le difficoltà, a questo punto, si spostano sul fronte dei materiali. “Ora il mercato è drogato dal superbonus 110%” spiega Zanini. “La produzione europea è praticamente inesistente. Nove pannelli su dieci vengono dalla Cina. Quando il lockdown ha bloccato il porto di Shanghai, da noi non è arrivato più nulla”. La strozzatura riguarda i moduli fotovoltaici, ma anche gli inverter, che sono strumenti elettronici e soffrono della carenza di chip in tutto il mondo. “Se ordino un impianto oggi, i materiali mi arriveranno ad aprile-maggio”. Anche dopo aver completato la maratona, quando l’impianto è ormai realizzato, resta sempre l’ultimo miglio: “Occorre che il distributore locale allacci l’impianto e cambi il contatore. L’operazione può richiedere anche tre mesi” racconta Zanini.

Costi e ricavi

I costi, sempre per effetto del superbonus, sono lievitati per la speculazione, ma il fotovoltaico con i prezzi attuali dell’energia è considerato sempre un buon affare. “Il costo degli impianti si è abbattuto col tempo” spiega Ruggieri. “Una quindicina di anni fa installare un kilowatt costava circa 6mila euro, e a una famiglia ne servono in media 3. Un anno fa eravamo arrivati a 1.500. Ora siamo risaliti a 2.000, ma senza calcolare la detrazione del 50%. Ai prezzi attuali, un kilowatt installato fa risparmiare 300 euro all’anno di energia, oltre a tasse e oneri vari. In 6 anni l’investimento può dirsi abbondantemente ripagato”.

Un aiuto dal sottosuolo

Rimboccandosi le maniche, ci sono altre strade per aiutare l’ambiente e sgonfiare le bollette. La più evidente è l’isolamento della casa. “Ridurre il consumo energetico resta il passo più importante” conferma De Carli. “Anche qui il superbonus ha innescato una speculazione sui prezzi”. Chi è rimasto fuori da questo incentivo può beneficiare di altri bonus edilizi, ma trovare una ditta inoperosa oggi è missione impossibile. “C’è poi un’altra fonte rinnovabile che è meno conosciuta e non è spinta da incentivi, ma ha buone potenzialità: è la geotermia” spiega Eloisa Di Sipio, professoressa di geologia all’università di Padova. L’esempio che lei fa è quello della grotta, fresca d’estate e tiepida d’inverno. “Se scendiamo una decina di metri sotto al suolo, la temperatura non risente delle oscillazioni stagionali. Resta costante intorno ai 14 gradi, con qualche variazione tra Nord e Sud”.

In inverno il suolo è più caldo dell’aria. Prelevare il suo calore ci aiuta portare la casa attorno ai 14 gradi: un buon punto di partenza per termosifoni o pompe di calore, cui è affidato il compito di arrivare ai 20-25 gradi che ci danno comfort. D’estate avviene esattamente l’opposto. Il suolo è più fresco dell’aria e allevia il lavoro dei condizionatori. “La difficoltà tecnica consiste nel prelevare il calore o il fresco del sottosuolo” spiega Di Sipio. “Ma la geotermia è una strategia applicabile pressoché ovunque, anche nei condomini delle città, purché abbiano almeno un piccolo giardino”. 

Le strade della geotermia sono due. O si solleva direttamente l’acqua del sottosuolo, o si manda giù acqua dalla casa. “Nel primo caso si ha un impianto a circuito aperto. L’efficienza è più alta, ma esistono legislazioni molto vincolanti, sia a livello nazionale che locale. Nel secondo caso si parla di circuito chiuso. Si perde un po’ di efficienza, ma ottenere l’autorizzazione è molto più semplice” spiega Di Sipio. “In alcuni paesi del Nord Europa la geotermia è diffusissima. Da noi sono soprattutto i costruttori di nuove case che pensano ad installarla. Un po’ perché realizzare un impianto su una casa nuova è più semplice. Un po’ perché aiuta molto a far ricadere l’abitazione in una classe energetica alta”.

Fare comunità

Quando poi tutti gli ostacoli si rivelano insormontabili, c’è un’ultima speranza: la comunità energetica. Previste nel 2019 da una direttiva europea, in Italia le comunità ancora aspettano un decreto attuativo con le tabelle degli incentivi. Nonostante questo, non manca chi si avventura su questa strada. La cooperativa "ènostra" (Ruggieri è fra i fondatori) ha avviato i lavori per un impianto eolico da 999 kilowatt (1.300 famiglie) a Gubbio, su un terreno incolto. Si può sottoscrivere una quota e usufruire dell’elettricità a prezzo calmierato. “E’ la soluzione che offro anch’io ai clienti che non riescono a installare i pannelli a casa” aggiunge Zanini. “Ho realizzato un impianto fotovoltaico sulle montagne attorno a Verona. Produce abbastanza elettricità per alimentare 1.200 case”. La comunità energetica è per molti l’ultima chance. “Ma in realtà è una soluzione ottima” commenta Lorenzoni. “C’è interesse, la richiesta è alta. E’ davvero ora che le norme vengano completate”.

Stasera Italia, Vittorio Feltri svela la verità sull'energia rinnovabile: "Ecco come ci boicottano". Il Tempo il 12 settembre 2022

Vittorio Feltri spara a zero sull'energia e sul caro bollette. Durante la puntata di Stasera Italia, il fondatore del quotidiano Libero, ha spiegato gli errori commessi dai governi precedenti sulle politiche energetiche. Feltri non risparmia neanche gli italiani, colpevoli di essersi opposti al referendum sul nucleare. 

"Nell'Adriatico abbiamo una quantità di gas simile a quella della Norvegia e non abbiamo mai avuto la voglia di andarlo a prendere. Anche il nucleare lo abbiamo sempre snobbato. Ricordo che gli italiani stessi, abbastanza cretini anche loro, per due volte consecutive hanno votato un referendum contro le centrali atomiche e questa mi sembra una scemenza senza limiti. Poi c'è la questione delle energie rinnovabili che dovrebbero essere ritenute interessanti visto che il nostro paese è pieno di sole e invece viene boicottata" spiega Feltri durante la puntata.

Il direttore di Libero racconta poi la sua esperienza personale: "Sul tetto della mia casa ho fatto mettere un impianto fotovoltaico che è stato fatto molto in fretta poi per avere l'allaccio con l'ente che eroga l'energia ho dovuto aspettare due mesi e non si capisce perché. E questo significa solo boicottare coloro i quali con buona volontà vorrebbero rendersi autonomi familiarmente anche sull'energia. Io adesso finalmente l'energia ce l'ho e personalmente me ne infischio" sottolinea Feltri che spiega di aver fatto questa scelta soprattutto perché non voleva essere "dipendente da Putin" e per avere un'autonomia energetica.

A Torino ci vogliono più di 6 mesi per far partire i pannelli fotovoltaici nelle fabbriche. Christian Benna su Il Corriere della Sera il 12 Settembre 2022

Tempi lunghi per allacciarsi alla transizione ecologica. Tante imprese hanno investito ma ancora attendono l’ok per produrre. 

Da febbraio 2022 Giuseppe Pero è incollato al telefono. «Chiamo almeno una volta a settimana il gestore che ha realizzato il mio impianto fotovoltaico. I pannelli sono stati montati e splendono sul tetto della fabbrica: manca solo l’autorizzazione per accendere la luce, ma non ho ancora ricevuto risposte». Otto mesi fa Vladimir Putin non aveva ancora dato l’ordine di invadere l’Ucraina, il gas valeva 80 euro al MWh, non 180/200 euro come oscillava ieri sui mercati; e in questo lasso di tempo la fabbrica di zucchero di Nizza Monferrato avrebbe potuto alleggerire di un bel po’ la bolletta.

E invece alla Pinin Pero manca l’ultimo timbro dell’Agenzia delle Dogane per fare partire 185 KWh di pannelli solari. In attesa di un timbro, nonostante il governo stia provando a snellire con una legge l’iter burocratico, c’è anche Alberto Dal Poz, titolare di Comec ed ex presidente di Federmeccanica. «Gli impianti — spiega Dal Poz — potrebbero coprire un terzo del mio fabbisogno di energia, ad oggi attendo ancora l’autorizzazione». Non è andata meglio ad Alberto Bertone, patron di acqua Sant’Anna, alle prese con una bolletta monstre di 25 milioni di euro di bolletta luce e gas (15 milioni in più rispetto al 2021) che ha presentato progetti per realizzare un parco fotovoltaico a Vinadio. «Tutti progetti respinti dal Comune con la scusa che deturperebbero il paesaggio. L’unico rischio che vedo è un freno all’occupazione e sviluppo — chiarisce Bertone — Così non si va avanti».

Le cronache del Paese che vorrebbe slacciarsi dalle fonti fossili, in particolare dal gas russo, sono più ricche di ombre che di luci. Con una transizione ecologica che assomiglia una maratona a ostacoli burocratici: in Italia ci vogliono fino a 6 anni per avviare un a una centrale che produce e scambia energia da fonti rinnovabili ma i tempi sono lunghi anche per il solare destinato al semplice consumo di aziende e condomini. Tanto che Alberto Cirio, governatore del Piemonte, ha scritto al governo per sollecitare risposte concrete contro il caro bollette (stock di energia a prezzo calmierato e riduzione dell’Iva sul teleriscaldamento) sottolineando la necessità di agevolare e snellire almeno le pratiche per l’autoconsumo. 

Sulla base delle stime di Terna, l’Italia incrementerà di 5,1 Gw entro dicembre la capacità rinnovabili, quasi tre volte quanto installato negli ultimi due anni. Tanti impianti spuntano sui palazzi, molti altri nelle fabbriche, la domanda è altissima. Peccato che la potenza installata non corrisponda alla produzione. Perché il via libera tarda mesi, a volte anni. Non a caso in Piemonte il fotovoltaico arriva a stento al 6% del totale della produzione di fonti rinnovabili. Prendiamo il caso della Mas Pack di San Marzano Oliveto, in provincia di Asti, un’azienda di packaging del vino che va talmente bene da avere ordini fino al 2024 e che per gestire tutte queste commesse sta costruendo un nuovo capannone, da ricoprire di pannelli. Racconta il fondatore Dario Scaglione, 80 anni, da compiere giovedì 15 settembre: «Speravo di poter festeggiare accendendo non le candeline ma i pannelli solari. Invece siamo ancora in alto mare. Eppure ho investito molto, più di 120 mila euro. Il progetto è stato rivisto più volte, ho dovuto persino costruire una cabina elettrica, ma alla fine il via libera all’allaccio non c’è».

PANNELLI SOLARI. Fotovoltaico, arriva il modello semplificato: quanto costano e come funzionano gli impianti. Diana Cavalcoli su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Fotovoltaico, gli impianti di oggi

Fotovoltaico più semplice. Per l’installazione di impianti fino a 200 kW si potrà utilizzare il modello unico semplificato. La procedura semplificata, precedentemente in vigore per gli impianti fino a 50 kW, è stata estesa da un decreto, firmato dal ministero della Transizione Ecologica (Mite), che dà attuazione al Decreto Energia. Una buona notizia in tempo di crisi del gas e corsa alle rinnovabili: gli impianti fotovoltaici consentono infatti di produrre energia elettrica sfruttando la luce del sole. Una soluzione che può essere utilizzata, almeno in parte, per ridurre i consumi delle famiglie italiane. Ma come funziona la nuova procedura? Cosa cambia esattamente e quanto conveniente installare dei moduli sul tetto? Ecco cosa sapere.

Iter burocratico, il nuovo modello del fotovoltaico

Il modello unico semplificato agevola ulteriormente l’iter burocratico per il fotovoltaico. Nel dettaglio, il nuovo decreto «definisce le condizioni e le modalità per l’applicazione del modello unico semplificato agli impianti solari fotovoltaici su edifici o su strutture e manufatti fuori terra diversi dagli edifici, nonché nelle relative pertinenze, di potenza nominale complessiva fino a 200 kW». Il modello deve essere utilizzato per la realizzazione, la modifica, il potenziamento, la connessione e l’esercizio degli impianti con le seguenti caratteristiche:

- situati presso clienti finali già dotati di punti di prelievo;

- per i quali siano necessari lavori semplici;

- per i quali sia richiesto il ritiro dell’energia al Gse, il Gestore dei servizi energetici. Società interamente partecipata dal Ministero dell’economia. Incluso il ritiro dedicato, ovvero la cessione a mercato dell’energia elettrica mediante sottoscrizione di un contratto di dispacciamento con una controparte diversa dal Gse.

I vantaggi risiedono nei tempi. Il nuovo modulo, non utilizzabile sugli immobili sottoposti a vincolo fatte alcune eccezioni, dovrà essere trasmesso dal richiedente al suo gestore di rete, che effettuerà le verifiche e, in caso di esito positivo, avvierà automaticamente l’iter di connessione alla rete.

Cos’è un impianto fotovoltaico

Ma cosa bisogna sapere prima di decidere se installare i pannelli? Da definizione un impianto fotovoltaico è un impianto elettrico capace di produrre energia da una fonte rinnovabile e inesauribile come, ad esempio, quella solare. Semplificando un impianto è in grado di catturare l’energia irraggiata dal sole grazie all’utilizzo dei “moduli fotovoltaici”, costituiti da un materiale , il silicio, in grado di produrre energia elettrica se investito dalla luce solare. Come si legge sul sito di EnelX ad oggi esistono due categorie di impianti fotovoltaici:

- Impianti connessi alla rete elettrica locale (in inglese “grid connected”), ossia che lavorano in parallelo con la rete elettrica che alimenta la casa. Per quanto riguarda il funzionamento impianto fotovoltaico di questo tipo, la produzione si integra con quella proveniente dalla rete, limitando così la richiesta. La parte eccedente viene venduta alla rete. Per far sì che venga massimizzato l’autoconsumo, è spesso previsto un energy storage che ha il compito di accumulare energia di giorno.

- Impianti isolati dalla rete (in inglese “stand alone”), sono indipendenti dalla rete elettrica e assicurano l’alimentazione di carichi specifici. Spesso sono provvisti di un sistema di batterie (energy storage) in grado di garantire la “continuità di servizio”.

Quanto costa un impianto solare?

A partire dal 2017 i costi dei pannelli fotovoltaici si sono ridotti. Secondo i dati di Sorgenia, il costo del fotovoltaico varia dai 2500 ai 3500 euro per kWp ( chilowatt di picco) di potenza. «Le case — spiegano — necessitano di un impianto di almeno 3 kWh, quindi risulta possibile calcolare con facilità quanto costa un impianto fotovoltaico mediamente. La differenza tra i prezzi è determinata dalla qualità dei materiali utilizzati, dalla provenienza degli elementi e dalla tecnologia, ma anche ovviamente dalla taglia dell’impianto di cui si ha bisogno e dall’azienda che procede ai lavori. Pannelli fotovoltaici in silicio monocristallino costano poco più di quelli in silicio policristallino».

Anche il costo di installazione impatta sul prezzo finale e, in sintesi, un impianto da 3 kWp ha un costo medio che va dai 5mila ai 7mila euro considerando lo sconto applicato in fattura. Si tenga poi presente che per un impianto di produzione da 1kW elettrico da fotovoltaico occorrono 5-7 metri quadri per i moduli.

Fotovoltaico, quali sono i tempi di installazione?

Dipende molto dal singolo caso. L’installazione in loco di un impianto fotovoltaico richiede poco tempo. Tra i vari operatori che offrono il servizio si parla di pochi giorni di lavoro ma dalla richiesta i tempi possono estendersi fino a 2 mesi per le installazioni semplici fino a 5 per i lavori complessi. Le tempistiche dipendono anche dall’immobile ovvero dal fatto che si tratti di una villetta indipendente o di un condominio per cui serve l’accordo tra i condomini. Oppure dal fatto che si tratti di un immobile soggetto a vincoli paesaggistici.

Impianto fotovoltaico, cosa sapere della manutenzione

La manutenzione di un impianto fotovoltaico è pressoché nulla. I moduli hanno una durata di vita di circa 25 anni, con una diminuzione delle prestazioni energetiche inferiori al 20% al termine di questo periodo. Risulta però utile la pulizia periodica dei moduli per rendere le loro prestazioni ottimali soprattutto in giornate di pieno sole.

Impianti solari, il risparmio sul lungo periodo

Installare un impianto fotovoltaico consente di abbattere il consumo di energia prelevata dalla rete e, di conseguenza, i costi in bolletta. Secondo Altroconsumo è possibile risparmiare fino al 55% del prelievo dalla rete mentre alcuni operatori fanno riferimento al 70%. Per recuperare i costi dell’investimento iniziale si stima, ad ogni modo, una media di 7-8 anni.

Bonus casa al 50%, ecco le detrazioni per il fotovoltaico

Vale la pena ricordare, come segnala anche Altroconsumo, che chi vuole installare un impianto fotovoltaico può beneficiare di alcune agevolazioni. Ad esempio del bonus casa al 50%. È poi possibile beneficiare del superbonus 110% ma solo in caso di lavoro “trainato” da altri interventi strutturali come il cappotto.

Fotovoltaico, dove sono gli impianti in Italia?

In Italia nel primo semestre del 2022 sono stati installati 1.012 nuovi Megawatt, più del doppio rispetto allo stesso periodo del 2021 portando la potenza cumulata complessiva a 23.577 Mw e un numero di impianti pari a 1.087.190. A dirlo i dati dell’associazione Italia Solare che mette in fila l’evoluzione del fotovoltaico nel Bel Paese. «Siamo ancora molto lontani dal 2011 quando in 12 mesi erano stati installati 9.461 Mw», ricorda l’associazione indicando che in Italia, il settore residenziale ha installato 5.486 Mw, il settore commerciale e industriale 12.921 Mw rappresentando così la maggior potenza installata, mentre il comparto utility scale conta su 5.170 Mw. Le regioni del Nord spiccano numero di impianti installati: in testa la Lombardia con 174.120 installazioni, secondo il Veneto (158.577) e terza l’Emilia-Romagna (113.160) seguita dal Piemonte (76.216).

·        L’Agrivoltaico.

Agrivoltaico: il sistema fotovoltaico in agricoltura!

Matteo Bono, Redattore Energia, su Energia-Luce.it l'8 Giugno, 2022

Sommario: L’Agrivoltaico è un sistema per produrre energia elettrica occupando la stessa superficie delle coltivazioni! Questo sistema serve a sfruttare al meglio lo spazio delle campagne, senza impattare il corretto sviluppo delle colture.

L’Italia per conformazione geografica è un paese che non può vantare distese pressochè illimitate che possono essere adibite a sistemi fotovoltaici, limitando la possibilità di produzione possibile. Questo sistema potrebbe essere un sistema per rendere più efficiente la superficie disponibile!

Questo sistema ha grandi vantaggi, ma esperti nutrono ancora dei dubbi a riguardo, come il ministro dell’agricoltura Patuanelli.

Cos’è l’Agrivoltaico?

L’agrivoltaico è un sistema di pannelli solari che possono essere installati al di sopra di campi coltivati in modo da garantire la corretta crescita delle colture, ma permettendo allo stesso tempo di sfruttare queste superfici per generare energia rinnovabile e green.

Semplificando, si può riassumere questo sistema a delle strutture, spesso automatizzate, dotate di pannelli fotovoltaici che si collocano al di sopra dei campi coltivati. Il pannello produce ovviamente energia elettrica e, essendo spesso automatizzato può anche muoversi garantendo l’inclinazione dei raggi solari.

Il PNRR del 2021, il piano ambizioso di Ripresa e Resilienza include all’interno fondi e piani per l’installazione di questi sistemi sul suolo italiano. Saranno installati pannelli agrivoltaici per 1,5 GW entro l’anno 2030.

Quali sono i vantaggi?

I vantaggi sono multipli, anche per le colture stesse infatti questi pannelli, che fungono anche come coperture per i raggi solari possono:

Ridurre la richiesta idrica: generando ombra questi pannelli possono abbassare la temperatura al suolo e ridurre l’evaporazione delle acque nel terreno

Funzione di sostegno delle piante: I tralicci della strutture possono anche essere le strutture a cui le piante possono aggrapparsi e fornire un sostegno ad esse. Alcune coltivazioni infatti necessitano di sostegni per migliorarne la produzione.

Regimentazione delle acque piovane: infatti possono regolamentare l’acqua piovana, garantendo livelli più costanti e meno picchi.

Protezione dalla grandine: infine queste strutture proteggono le colture dalla grandine, responsabile della distruzione di molti raccolti.

Oltre a ciò va ovviamente aggiunto il fatto che questa struttura garantisce la generazione di energia:

Green 

Rinnovabile 

Da territori che altrimenti non sarebbero in grado di generare energia

Perchè l’agrivoltaico in Italia?

L’Italia è decisamente un territorio in cui l’Agrivoltaico potrebbe essere più efficace in quanto per la conformazione geografica non si dispone di ampi territori adatti a sistemi fotovoltaici. Il 41,8% della superficie territoriale italiana è occupata da colture.

La posizione della nostra nazione ci garantisce l’intensità solare più alta d’Europa, dopo la Spagna.

Rendimento Impianti fotovoltaici in Italia (in kWh/1kWp)

Nord 1000/1200

Centro 1200/1300

Sud e Isole 1400/1500

Tale intensità renderebbe possibile raggiungere il 50% degli obiettivi del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima se solo si dotasse lo 0,32% dei terreni agricoli italiano di un sistema Agrivoltaico.

Quali sono le opinioni?

Nonostante i benefici ci sono ancora opinioni contrastanti a rigurdo, anche all’interno dello stesso governo. Infatti il Ministro dell’Agricoltura Patuanelli si è espresso cautamente in più di una occasioni, sottolineando che i pannelli fotovoltaici potrebbero essere installati in primis sugli edifici, non andando ad impattare sulle colture italiani, che potrebbero risentire di una diminuzione della produzione secondo alcuni. Questo porterebbe a un ulteriore aumento del prezzo delle materie prime, già altissime per il conflitto in Ucraina.

Sarebbe quindi meglio preferire gli edifici per l’installazione di impianti fotovoltaici sugli edifici che garantiscono molte meno contro-indicazioni.

Il Ministro della Transazione Economica Cingolani si è invece espresso molto favorevole a questi impianti, che potrebbero rendere le aziende agricole più indipendenti a livello energetico.

Le resistenze dell’Agrivoltaico in Calabria

Un’altra resistenza si riscontra dalla Regione Calabria che ha proposto una modifica della legge del 16 Aprile del 2022, nell’articolo 51 che vuole introdure un tetto del 10% della superficie agricola per l’installazione di impianti fotovoltaici. Questo andrebbe a limitare di molto la possibilità di attuazione questo sistema. Questa proposta viene proprio da una regione con l’intensità solare più alta d’Europa e che potrebbe garantire un grande impatto.

Matteo Bono, Redattore Energia, su Energia-Luce.it l'8 Giugno, 2022

·        I Termovalorizzatori.

Termovalorizzatore: come funziona, quanto produce (e quanto inquina). Fausta Chiesa su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

In Italia ce ne sono 37 e forniscono energia che equivale al 2% del gas russo. Le 130 discariche impattano otto volte tanto.

Scarico e controllo dei rifiuti. I rifiuti arrivano nell’impianto di termovalorizzazione, sono scaricati nella vasca di raccolta, controllati e poi convogliati nella camera di combustione.

Combustione dei rifiuti. Nella camera di combustione i rifiuti sono bruciati a una temperatura che, per legge, deve essere superiore a 850 gradi centigradi perché bisogna garantire che la combustione sia completa.

Produzione di energia. La combustione genera vapore ad alta pressione, che viene immesso in un turbogeneratore per la produzione di energia che può essere sfruttata per ottenere elettricità o teleriscaldamento.

Trattamento dei fumi. I fumi derivanti dalla combustione sono trattati attraverso il reattore di assorbimento per abbattere i composti acidi e i microinquinanti (metalli e diossine), i filtri a tessuto che trattengono le polveri come il PM 10 e un catalizzatore che ha lo scopo di abbattere gli ossidi di azoto (NOX). Nei filtri resta il 3-4 per cento circa di ceneri leggere: si tratta di rifiuti pericolosi che vengono smaltiti in sicurezza.

Espulsione dei fumi. Dopo essere stati trattati, i fumi sono espulsi in atmosfera attraverso i camini.

Controllo delle emissioni. La direttiva Ue 2010/75 fissa i limiti delle emissioni industriali. Gli inquinanti emessi in Italia dai termovalorizzatori hanno valori molto inferiori ai massimi consentiti.

Gestione dei residui. Al termine della combustione rimane un residuo solido (pari al 15-20 per cento della massa iniziale) che per la maggior parte è costituito da materiale inerte, come se fosse ghiaia e sabbia, che si usa come additivo per produrre il cemento, mentre un 10 per cento circa sono metalli anche preziosi (oro e argento) che sono recuperati e riciclati.

Discariche battono termovalorizzatori 130 a 37. Volendo metterla sui numeri – e tenendo conto che il primo valore non prende in considerazione quelle abusive – in Italia lo smaltimento dei rifiuti urbani che non si possono riciclare avviene prevalentemente con lo stoccaggio.

Eppure — e lo ha ricordato di recente lo stesso ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani — la normativa europea nella gerarchia della gestione sostenibile del ciclo dei rifiuti prevede esattamente l’opposto e cioè prima la termovalorizzazione, perché permette di recuperare l’energia prodotta attraverso la combustione, e poi come ultima soluzione la discarica.

«Le discariche — spiega Filippo Brandolini, vicepresidente di Utilitalia (la Federazione delle imprese di acqua, energia e ambiente) — hanno impatti ambientali molto più alti, occupano spazio per secoli, producono percolati che vanno avviati a depurazione ed emettono gas metano che deriva dalla fermentazione della componente organica del rifiuto che è un gas molto più climalterante della CO2 prodotta dalla combustione (25 volte più impattante). Secondo studi scientifici sotto il profilo del climate change la discarica ha un impatto otto volte superiore a quello di un termovalorizzatore».

In base alla mappa realizzata da Utilitalia su dati Ispra (l’istituto per la protezione e la ricerca ambientale che fa capo al ministero della Transizione ecologica), i 37 termovalorizzatori si trovano quasi tutti al Nord e al Centro. L’ultimo nato è quello di Iren Torino, inaugurato nel 2013. Sono passati quasi dieci anni senza che non se sia costruito nessuno. Non solo non se ne fanno più, ma ce ne sono undici in meno rispetto al 2013, perché alcuni impianti sono stati chiusi.

L’Unione Europea ha fissato al 2035 gli obiettivi del riciclaggio effettivo pari al 65% e della riduzione del ricorso alla discarica al di sotto del 10 per cento. A che punto siamo?Fonte:direttiva del Parlamento Europeo recepita in Italia con il Decreto Legislativo n. 116/2020

Italia, 29 milioni di tonnellate di rifiuti

In Italia vengono prodotti oltre 488 chilogrammi di rifiuti urbani a testa (fonte Ispra, anno 2020), per un totale di quasi 29 milioni di tonnellate. Di queste, il 63 per cento è raccolta in modo differenziato e il 20 per cento va in discarica. La parte restante è divisa tra combustione nei termovalorizzatori (6 milioni di tonnellate all’anno) oppure esportata.Fonte: Ispra - Rapporto Rifiuti Urbani ed. 2021

Secondo un’analisi di Utilitalia per avviare a trattamento la spazzatura lontano dai luoghi dove è prodotta vengono percorsi 62 milioni km pari a 108 mila viaggi di Tir, pari a 40 mila tonnellate di CO2 l’anno e 75 milioni di euro in più sulla Tari, che è pagata dai cittadini: il 90% a carico delle regioni del Centro-Sud.

«Ma attenzione — avverte —Brandolini — la raccolta differenziata ha un 10-20 per cento di scarti e quindi per arrivare all’obiettivo europeo di riciclo al 65% deve salire all’80-82 per cento. Secondo i nostri studi per raggiungere gli obiettivi del 2035 bisogna avviare nei termovalorizzatori altri 2,7 milioni di tonnellate a livello nazionale, ma la necessità è soprattutto nelle regioni del Centro-Sud, dove andrebbero realizzati almeno cinque impianti medio-grandi da 500 mila tonnellate». Nelle scorse settimane il sindaco di Roma Roberto Gualtieri e il presidente della Regione Siciliana Nello Musumeci hanno dichiarato l’intenzione di voler costruire gli impianti (uno per la capitale e due nell’isola), mentre il presidente della Regione Toscana ha detto di non volerne costruire di nuovi.

Francia, 126 impianti

Il confronto con il testo d’Europa ci coglie in ritardo. La Germania ha 96 termovalorizzatori, la Francia 126. Ma li utilizzano anche Paesi «famosi» per l’attenzione all’ambiente come la Svezia e la Danimarca. A Copenaghen l’impianto ha sul tetto una pista da sci lunga 400 metri con neve sintetica realizzata dall’azienda di Bergamo Neveplast.Fonte: Ispra - Rapporto Rifiuti Urbani ed. 2021

La carenza e la cattiva dislocazione degli impianti (26 impianti su 37 sono al Nord, la Lombardia ne ha 13 e Emilia-Romagna sette, ndr)è la prima causa dei viaggi dei rifiuti lungo la Penisola, con costi in termini economici e ambientali. In base a dati Utilitalia, per trasportare i 2,8 milioni di tonnellate di rifiuti trattati in regioni diverse da quelle di produzione, nel 2019 sono stati necessari 108 mila viaggi di camion, pari a 62 milioni di chilometri percorsi: ciò ha comportato l’emissione aggiuntiva di 40.000 tonnellate di CO2 e 75 milioni di euro in più sulla Tari (il 90% dei quali a carico degli abitanti del Centro-Sud).

La produzione di energia pari al 2% di gas russo

Oltre a smaltire i rifiuti che non sono riciclati o riciclabili, i termovalorizzatori attraverso la combustione producono energia che può essere destinata a fornire elettricità oppure teleriscaldamento. Nel 2019, si legge nel «Libro bianco sull’incenerimento dei rifiuti urbani» realizzato dai Politecnici di Milano e di Torino e dalle Università di Trento e di Roma Tor Vergata, al loro interno sono state trattate 5,5 milioni di tonnellate di rifiuti urbani producendo 4,6 milioni di Megawattora di energia elettrica e 2,2 milioni di MWh di energia termica. Complessivamente i 37 impianti generano 616 milioni di metri cubi di gas equivalenti all’anno che corrispondono a circa il 2% del gas che importiamo dalla Russia.

Ma la combustione, oltre a generare energia, produce emissioni. «A parte la CO2, che non inquina ma è climalterante per quanto riguarda la componente fossile — spiega Mario Grosso, docente di Gestione e trattamento dei rifiuti solidi al Politecnico di Milano— si formano altri inquinanti e per questo si mettono sistemi per abbatterli. Tra questi, ci sono il reattore di assorbimento dei gas acidi che funziona con reagenti in polvere quali la calce o il bicarbonato di sodio insieme con carbone attivo (il quale cattura le diossine e i metalli pesanti come il mercurio). Poi filtri che trattengono le polveri (sia quelle che si sono formate nel reattore, sia le polveri inquinanti derivanti dalla combustione come il PM 10). I filtri hanno avuto una grande evoluzione tecnologica e sono molto efficaci: trattengono anche le particelle più piccole. Sono ripuliti in modo automatico e molto di frequente, praticamente in continuo. Dopo i filtri entra in azione un catalizzatore che ha lo scopo di abbattere gli ossidi di azoto (NOX), che si formano in qualsiasi processo di combustione».

Emissioni, i limiti di legge

Alla fine del processo il gas residuale dal camino deve rispettare i limiti fissati dall’Unione Europea previsti dalla direttiva 2010/75 sulle emissioni industriali. Ogni Stato membro può imporre limiti più stringenti e così è per l’Italia. «Il settore dell’incenerimento — spiega Grosso — ha i limiti più bassi rispetto a tutti gli altri settori e a parità di inquinante possono essere anche 3-4 volte inferiori».

Relativamente ai PM 10, il Libro Bianco evidenzia che il contributo degli inceneritori è pari solo allo 0,03% contro il 53,8% delle combustioni commerciali e residenziali, per gli idrocarburi policiclici aromatici (Ipa) è pari allo 0,007% (contro il 78,1% delle combustioni residenziali e commerciali) e per le diossine e i furani si attesta allo 0,2% (contro il 37,5% delle combustioni residenziali e commerciali). Oltre alle emissioni, dalla combustione dei rifiuti resta anche altro materiale che non brucia, come pietra, porcellana, vetro e metalli. L’85% delle ceneri pesanti prodotte dalla combustione è avviato a processi di riciclaggio, con ulteriori miglioramenti degli impatti ambientali rispetto all’utilizzo delle materie vergini in attività quali la produzione di cemento e la realizzazione di sottofondi stradali.

Attività. Incenerimento rifiuti urbani-riferimento Europeo

Il recupero del materiale che non brucia: oro e argento

Oltre alle emissioni, dalla combustione dei rifiuti resta anche altro materiale che non brucia, come pietra, porcellana, vetro e metalli. «Su 100 kg di rifiuti trattati — spiega Grosso — rimane come materiale solido tra il 15 e il 20 per cento del peso. Questo materiale che prima finiva in discarica adesso viene avviato a recupero. In media il 10% di questi 15-20 kg sono metalli anche preziosi contenuti nei rifiuti elettrici o elettronici, come argento o oro in quantità interessanti da estrarre. Il resto è materiale inerte, come se fosse ghiaia, che si usa nella produzione di cemento e calcestruzzo. Nei filtri resta il 3-4 per cento circa di ceneri leggere. Sono rifiuti pericolosi che sono smaltiti, ma si stanno mettendo a punto processi per riciclarle». 

Soluzione necessaria. Le qualità incomprese dei termovalorizzatori. Fabrizio Fasanella su L'Inkiesta il 4 Maggio 2022.

Il loro impatto ambientale è minimo, riducono la dipendenza dalle discariche e soddisfano il fabbisogno energetico di centinaia di migliaia di famiglie, ma vengono (ancora) demonizzati. Specialmente dopo l’annuncio di Gualtieri a Roma.

Il progetto del nuovo termovalorizzatore di Roma, ispirato al ben riuscito modello danese di Copenaghen, sta dividendo maggioranza di governo e sindacati. L’impianto tratterà fino a 600.000 tonnellate di rifiuti indifferenziati all’anno e – secondo il sindaco Roberto Gualtieri – ridurrà del 90% il fabbisogno di discariche della capitale.  

Il primo cittadino romano, in un’intervista al Corriere della Sera, ha parlato di una scelta «nel segno della sostenibilità e dell’ambiente», in grado di abbattere le emissioni inquinanti «del 45%» e di produrre «energia per 150.000 famiglie».

Il piano ha ottenuto il via libera il 2 maggio grazie al cosiddetto decreto aiuti, non votato dai ministri del Movimento 5 Stelle in segno di protesta contro il termovalorizzatore romano. E Giuseppe Conte, intervistato dalla Stampa, ha parlato di un passo indietro dal punto di vista ambientale. I malumori e le proteste fanno pensare a un progetto inedito, senza precedenti (si tratterà, di fatto, di uno degli impianti più grandi d’Italia), quando in realtà quella del termovalorizzatore è una soluzione adottata in tutto il mondo e che si è spesso rivelata necessaria. Ovviamente da affiancare a politiche concrete ed efficaci di economia circolare e di riduzione degli sprechi. 

L’Italia ha pochi termovalorizzatori 

Stando all’ultimo report dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) – pubblicato nel 2021 e riferito al 2020 – in Italia sono operativi 37 termovalorizzatori (26 nel nord italia, di cui 20 tra Lombardia ed Emilia-Romagna), ossia inceneritori di seconda generazione che convertono il calore ottenuto dalla combustione dei rifiuti non riciclabili in energia elettrica e termica. Gli impianti italiani, secondo Utilitalia, sono in grado di soddisfare il fabbisogno energetico di 2,8 milioni di famiglie. 

In Germania e in Francia i termovalorizzatori sono rispettivamente 96 e 126. I tedeschi, dal 2010 e il 2018, hanno raddoppiato le tonnellate di rifiuti bruciati nei termovalorizzatori, e anche il trend generale dell’Unione europea è in ascesa. Tuttavia, puntare troppo sui termovalorizzatori può portare a una produzione eccessiva di rifiuti, e infatti alcuni Paesi del nord Europa stanno smantellando alcuni impianti (molto “popolari” anche a causa delle basse temperature). L’ideale sarebbe bilanciare la termovalorizzazione e il riciclo: due soluzioni diverse, sostenibili e che devono andare a braccetto.

Ma in Italia, al netto di qualche caso virtuoso, c’è ancora qualche problema. A causa di una grave carenza impiantistica, il nostro Paese è dipendente dalle discariche (specialmente al centro-sud) e lontano dal raggiungimento degli obiettivi dell’Unione europea sulla gestione dei rifiuti. In Italia, il ricorso alle discariche si attesta attorno al 20%, e secondo gli obiettivi comunitari questa percentuale dovrà scendere sotto il 10% entro il 2035: per farcela, servirebbero oltre 30 nuovi impianti.

La mancanza di termovalorizzatori sta inoltre costringendo l’Italia a “impoverirsi” trasportando i rifiuti fuori dai propri confini: secondo l’Ispra, nel 2019 abbiamo esportato 515.000 tonnellate di rifiuti provenienti dal circuito urbano (+10,8% rispetto al 2018), spendendo 200 euro per ogni tonnellata. 

Il ridotto impatto ambientale dei termovalorizzatori

Nell’immaginario collettivo, un grosso impianto che brucia rifiuti non riciclabili è associato a un denso fumo nero che rende l’aria irrespirabile e contribuisce sensibilmente al cambiamento climatico. Le principali ricerche sui termovalorizzatori, però, invitano alla calma e all’ottimismo.

Uno studio dei Politecnici di Torino e Milano e delle Università di Trento e Roma 3 Tor Vergata – realizzato per Utilitalia – ha mostrato che l’impatto ambientale dei termovalorizzatori è inferiore di otto volte rispetto alle classiche discariche. «Dalle informazioni che è stato possibile raccogliere si è portati a credere che gli impianti per il trattamento termico dei rifiuti, grazie all’azione combinata di diverse tecnologie per la depolverazione dei fumi, emettano una quantità di particolato inferiore al limite stabilito dalla normativa vigente», scrive la dottoressa Anna Bott in un paper pubblicato sul sito dell’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale.

L’Ispra sottolinea che dal 1990 al 2019 – nonostante un incremento dei rifiuti bruciati – le emissioni derivanti dall’incenerimento sono calate grazie a impianti sempre più moderni e in linea con le normative comunitarie. Ad esempio, le diossine e i metalli pesanti sono di fatto spariti dai “fumi”.

«Considerato il forte incremento dei quantitativi di rifiuti inceneriti, questo vuol dire un forte calo delle emissioni per la singola tonnellata incenerita», dice Francesco Di Maria, esperto di riciclaggio e professore di ingegneria all’università di Perugia, in un’intervista al magazine EconomiaCircolare. Sempre secondo l’Ispra, le emissioni inquinanti attribuibili all’incenerimento dei rifiuti sono meno dell’1% sul totale. 

Bilanciare termovalorizzazione e riciclo

I termovalorizzatori non vanno demonizzati e non vanno confusi con i vecchi inceneritori, che bruciano i rifiuti e basta (senza produrre energia). È vero che l’impatto zero non esiste – anche i termovalorizzatori producono CO2 e scarti come ceneri e fumi – ma in questo momento i loro benefici supererebbero i rischi, almeno in Italia. Entro il 2035, per rispettare i limiti dell’Unione europea, il nostro Paese dovrà riciclare il 65% dei rifiuti e meno del 10% potrà essere lasciato in discarica.

Per la quota rimanente ben venga il riciclaggio, ma puntare su una soluzione univoca è utopia: un termovalorizzatore, affiancato a politiche di economia circolare sempre più consolidate e concrete, può essere efficace per risolvere il problema dei rifiuti minimizzando l’impatto sull’ambiente (e generando elettricità destinata ad altri scopi). Non è un caso che l’84% dei romani, secondo un sondaggio di Izi, sia favorevole al progetto del termovalorizzatore, che potrebbe nascere nel giro di 4 o 5 anni. 

Emanuele Buzzi per corriere.it il 6 maggio 2022.

«È insensata la scelta di affidare poteri commissariali indistinti al sindaco Gualtieri non per applicare oggi le migliori pratiche disponibili e realizzare impianti utili, ma per installare tra chissà quanti anni, almeno 6 o 7, un impianto costoso e pericoloso che brucia rifiuti e opportunità di crescita economica»: Beppe Grillo va all’attacco diretto del governo e del sindaco di Roma, il dem Gualtieri.

Il garante Cinque Stelle sferra l’affondo sul suo blog con un post in cui afferma: «Bruciare i rifiuti è la negazione dell’economia circolare, a maggior ragione se si pensa che quest’impianto avrà bisogno comunque di una discarica al suo servizio per smaltire le ceneri prodotte dalla combustione, equivalenti a un terzo dei rifiuti che entrano nel forno».

Per Grillo la battaglia sui rifiuti è uno dei capisaldi su cui il Movimento non può fare un passo indietro. «Con i bandi emanati dal Ministero della Transizione ecologica con i fondi del Pnrr, saranno a breve assegnati 2 miliardi di euro per realizzare impianti legati all’economia circolare. I progetti arrivati e al vaglio del Ministero ammontano a una somma di 12 miliardi, a riprova dell’attenzione del Paese per l’impiantistica orientata a potenziare la raccolta differenziata e gli impianti per il riciclo», scrive il garante.

E argomenta: «Contrariamente a quanto accade nella Capitale con l’avallo di parte del Governo, nel Paese c’è consapevolezza delle grandi opportunità, anche occupazionali, legate a un ciclo virtuoso dei rifiuti e al recupero di materiali da immettere nuovamente nel ciclo produttivo in chiave circolare. Mentre non a caso l’Unione europea considera l’incenerimento una tecnologia che fa danni significativi all’ambiente e proprio in applicazione del cosiddetto principio DNSH, ‘Do not significant harm’, impedisce di finanziare con fondi europei questa opzione tecnologica, che è in fondo alla gerarchia europea dei rifiuti insieme alle discariche, fortemente disincentivata e considerata al più residuale».

Termovalorizzatore, interviene Grillo a spalleggiare Conte e rimproverare Gualtieri. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 06 maggio 2022

In un post sul suo blog, Grillo dà manforte alla linea dura di Conte sul termovalorizzatore che Gualtieri vuole per Roma. Un sostegno esplicito a Conte come non lo si vedeva da mesi che non allenterà la tensione nel campo giallorosso, già diviso sulla questione

Sul dibattito intorno all’inceneritore da costruire a Roma, annunciato due settimane fa da Roberto Gualtieri e avallato dalla decisione del governo di assegnare al sindaco della Capitale poteri speciali in virtù del Giubileo del 2025 interviene Beppe Grillo.

Il fondatore del Movimento 5 stelle ha pubblicato stamani un post sul suo blog in cui si scaglia contro l’iniziativa di Gualtieri e sostiene così la linea di Giuseppe Conte. Il presidente del M5s ha già annunciato battaglia sulla norma, inserita nel dl Aiuti che i ministri Cinque stelle non hanno votato neanche in Consiglio dei ministri. Nella conferenza stampa di mercoledì, Conte aveva minacciato il governo di non chiedere la fiducia sul provvedimento che contiene la norma. 

Oggi, secondo indiscrezioni, i parlamentari sarebbero pronti a sostenere il parlamento solo di fronte all’esclusione, nella lista degli impianti, dei termovalorizzatori.

LE PAROLE DEL FONDATORE

Grillo intitola il post «bruciare rifiuti è la negazione dell’economia circolare» e spinge perché il governo si impegni di più in strategie alternative di smaltimento dei rifiuti. «Contrariamente a quanto accade nella Capitale con l’avallo di parte del Governo, nel Paese c’è consapevolezza delle grandi opportunità, anche occupazionali, legate a un ciclo virtuoso dei rifiuti e al recupero di materiali da immettere nuovamente nel ciclo produttivo in chiave circolare».

Il fondatore, che da poco ha sottoscritto un contratto di consulenza da 300mila euro con il Movimento a guida Conte, spalleggia il presidente come non si era più abituati a vedere da qualche tempo. Nell’ultimo anno, infatti, Grillo si era ritirato molto dalle scene, preoccupato anche per le sorti della vicenda giudiziaria del figlio Ciro, accusato di violenza sessuale.  

«È insensata la scelta di affidare poteri commissariali indistinti al sindaco Gualtieri non per applicare oggi le migliori pratiche disponibili e realizzare impianti utili, ma per installare tra chissà quanti anni, almeno 6 o 7, un impianto costoso e pericoloso che brucia rifiuti e opportunità di crescita economica» scrive Grillo.

Se i grillini dovessero aprire un fronte sul termovalorizzatore la vita del governo sarebbe ulteriormente complicata in una situazione già tesa.

Dopo aver appena ripianato il contrasto sul catasto con il centrodestra che oggi canta vittoria, si sta per aprire un nuovo fronte sull’invio di nuove armi all’Ucraina, su cui sono scettici sia i leghisti che i Cinque stelle. 

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Beppe Grillo contro l'inceneritore a Roma, Roberto Gualtieri lo inchioda: "È lui ad averci lasciato così". Il Tempo il 06 maggio 2022.

«È incredibile che chi per anni non ha risolto il problema dei rifiuti a Roma ci voglia impedire di dotare la Capitale degli impianti che ci sono in tutte le altre Capitali europee come Londra, Berlino, Parigi, Stoccolma e Copenaghen, che consentono di evitare di mandare i rifiuti nelle discariche che sono costose e inquinanti». Lo ha detto il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, a margine di un’iniziativa in XI Municipio, in merito alle parole di Beppe Grillo che aveva definito «insensata» la realizzazione di un termovalorizzatore per chiudere il ciclo dei rifiuti nella Capitale.

«Negli ultimi anni la Giunta Raggi ha mandato un milione e mezzo di tonnellate nei termovalorizzatori delle altre città, inquinando con i tir che li hanno portati lì e togliendo risorse per pulire la città- ha sottolineato Gualtieri- Noi abbiamo un piano "green" che porta finalmente Roma a chiudere il ciclo dei rifiuti come ci chiede l’Unione europea».

·        Quelli che…Il Litio.

Estratto dell’articolo di Azzurra Giorgi per “la Repubblica” l’8 dicembre 2022.

Potrebbe esserci un tesoro sotto i piedi degli italiani. Nelle rocce e nelle acque in profondità, dove le temperature arrivano fino a 300 gradi. E potrebbe giocare un ruolo cruciale per il futuro. Si tratta del litio, metallo di cui l'Italia, secondo uno studio pubblicato nei mesi scorsi da quattro ricercatori del Cnr, è potenzialmente ricca. Servirebbe per la farmaceutica, ma soprattutto per le batterie di veicoli elettrici, per l'energia rinnovabile. E si potrebbe estrarlo grazie ai fluidi geotermici. 

Le zone più promettenti sono Toscana, Lazio, Campania, la fascia al di là della catena appenninica (da Alessandria a Pescara, lungo la direttiva termale Salsomaggiore-Tolentino), e non è escluso ve ne siano altre perché «ci sono zone inesplorate, come Sardegna e Calabria, anche del crinale oltre l'Appennino, fino all'Adriatico dove ci sono i giacimenti di idrocarburi, si sa poco» spiega Andrea Dini, ricercatore dell'istituto di Geoscienze e georisorse del Cnr di Pisa, che con Pierfranco Lattanzi, Giovanni Ruggieri ed Eugenio Trumpy ha condotto lo studio, basato sull'analisi di dati disponibili e nuovi campioni di roccia. [...]

Per scoprirlo servono esplorazioni, che richiedono ricerca e investimenti a lungo termine, e non tutte le zone, poi, sono uguali. In Lazio e Campania, ad esempio, i fluidi ricchi di litio sono più caldi di quelli sul versante adriatico, mentre in Toscana il metallo è nelle rocce. L'isola d'Elba, ad esempio, ne è piena, e Dini, che si occupa del tema da trent' anni, dice che possono contenere anche «3.000 mg/kg di litio».

Per dare un'idea: se lì venisse aperta una cava di 500 metri per 500 e profonda 50, potrebbero essere prodotte circa 50mila tonnellate di carbonato di litio. Che ai prezzi attuali (ora sopra gli 80 dollari al chilo, dopo essere schizzato in alto negli ultimi due anni) significa un valore di circa 4 miliardi. «Ma è impensabile. Sono nell'Arcipelago toscano, una zona bellissima, protetta, dove l'economia si basa sulla valorizzazione turistica del territorio» dice Dini.

Ma altrove, dunque, come potrebbe avvenire l'estrazione? Non con le cave, ma grazie ai fluidi geotermici. «Dovremmo intercettarli e portarli in superficie con una tubazione, che passerebbe attraverso un impianto che estrae il litio in maniera diretta. Il fluido resterebbe caldo, ci si potrebbe produrre energia elettrica e teleriscaldamento, poi verrebbe reiniettato a tremila metri di profondità. Non andrebbe mai a contatto con l'ambiente esterno. Nel caso della Toscana che, come a Larderello, ha rocce in profondità in contatto con le acque geotermiche, bisognerà capire se possiamo "aiutare" il fluido a prendere il litio dalle rocce, senza toccarle, così poi da estrarlo in maniera diretta». […]

Litio in Italia, dove si nasconde la materia prima della mobilità elettrica del futuro. Carlo Terzano su startmag.it il 10 Dicembre 2022

Il contesto geologico del nostro Paese non è dei più favorevoli per i giacimenti di litio convenzionali (pegmatiti e salars), ma secondo un nuovo studio alcune situazioni in Sardegna, Calabria e nell’arco alpino meriterebbero un approfondimento e c’è già chi scava in Italia alla ricerca dei minerali essenziali per le auto elettriche

L’Europa, è ben noto a tutti, intesa come aggregazione politica, è povera di materie prime, siano esse minerali preziosi o fonti energetiche. Non ha giacimenti di oro, d’argento, di petrolio, di gas e la nostra dipendenza da Paesi extracomunitari si è trasformata in un problema proprio quest’anno, quando la guerra in Ucraina ha reso necessaria l’emancipazione dalle condutture di Vladimir Putin. Ma con la transizione in atto e la nostra attenzione rivolta a nuovi tipi di beni che richiedono per essere sviluppati altre risorse, forse qualcosa potrebbe cambiare, a iniziare dalla possibile presenza, in Italia, del litio, metallo cruciale per il processo di transizione energetica che ci condurrà alla carbon neutrality nel 2050.

Uno studio recente, portato avanti da un team di ricercatori dell’Istituto di geoscienze e georisorse (Igg) del Cnr definisce il potenziale per il ritrovamento di giacimenti di litio nel territorio italiano. Il contesto geologico italiano non è dei più favorevoli per i giacimenti di litio convenzionali (pegmatiti e salars), anche se alcune situazioni in Sardegna, Calabria e nell’arco alpino, si legge, meriterebbero un approfondimento. È peraltro presente un alto potenziale per risorse litinifere non convenzionali in fluidi profondi utilizzabili in modo sostenibile e con basso impatto ambientale.

LITIO IN ITALIA: DOVE CERCARE?

Un’accurata revisione dei dati geologici, mineralogici e geochimici disponibili sul territorio nazionale ha permesso di individuare due aree principali ad alto potenziale: la fascia vulcanico-geotermica peritirrenica (Toscana-Lazio-Campania) dove in passato sono stati intercettati fluidi geotermici con concentrazioni di litio fino a 480 mg/l e la fascia al fronte della catena appeninica (da Alessandria fino a Pescara) dove sono presenti manifestazioni termali, con contenuti in litio fino a 370 mg/l, associati spazialmente a giacimenti di idrocarburi. Questi valori sono tra i più alti riscontrati nei fluidi profondi del pianeta e permetterebbero l’estrazione del metallo con la tecnica conosciuta come Direct Lithium Extraction.

Resta da capire l’origine del litio e da definire – si legge sempre nello studio – un modello concettuale geologico-petrologico-geochimico che permetta di indirizzare l’esplorazione industriale di questa nuova risorsa non convenzionale. Altri paesi come Francia, Germania, Regno Unito e USA stanno già valutando georisorse simili nell’ambito delle rispettive strategie nazionali per la transizione energetica. È auspicabile che anche in Italia si inneschi una sinergia tra enti di ricerca, università e industria per conoscere questa georisorsa, per valutarne il potenziale industriale e per affinare le tecniche di estrazione del metallo dal fluido.

CHI SCAVA IN ITALIA ALLA RICERCA DI LITIO (E DOVE)

Sono numerose le compagnie che hanno iniziato a sondare il nostro sottosuolo. Di Vulcan Energy, con sede a Perth, in Australia, Start Magazine ne aveva già parlato. La compagnia ha ottenuto un permesso di ricerca per esplorare, nel Lazio, un pozzo scoperto da Enel nel 1974 a circa 1.390 metri di profondità. Certo è che si tratta di una regione di 11,5 chilometri quadrati a Cesano, a 20 chilometri da Roma, geologicamente molto promettente per via dell’attività del sottosuolo, visto che risiede all’interno della regione vulcanica dei Monti Sabatini, proprio al confine meridionale della caldera di Baccano.

Negli ultimi mesi si è aggiunta anche Altamin che, scrive Il Sole 24 Ore, ha chiesto due licenze esplorative in Italia per estrarre il litio da salamoie geotermiche. “La concessione Campagnano, 1.200 ettari attorno alla frazione Baccano, comprende un pozzo di prova e confina con la concessione Cesano già data alla Vulcan. Un’altra concessione vicina, chiamata Galeria, circa 2.040 ettari, si estende a sud di Cesano e comprende un pozzo geotermico e due di prova”, si legge sul quotidiano di Confindustria. Altamin è già presente in Italia nelle antiche miniere bergamasche di Gorno, zinco e piombo.

COME MAI TANTO INTERESSE PER QUELL’AREA?

Da quanto si apprende, le analisi preliminari hanno individuato nel 1975 campioni di “salamoia calda” con un elevato contenuto di litio, stimato tra 350 e 380 milligrammi per litro. Una vera e propria miniera d’oro nel sottosuolo laziale, dato che per produrre le auto del futuro serviranno immense quantità di litio.

La stessa Vulcan, dopo aver esaminato i risultati storici, sostiene che potremmo trovarci per le mani (o meglio, sotto i piedi), uno dei gradi di litio più elevati a livello mondiale mai registrati in un ambiente geotermico con falda acquifera confinata. E sarebbe stata proprio l’attività geotermica nel sottosuolo di Cesano a permettere una produzione in grande quantità di litio, proprio alle porte di Roma. Tant’è che Vulcan parla già di risultati “molto incoraggianti” anche per le condizioni favorevoli del luogo che permetterebbero il recupero del minerale “senza alcun trattamento preventivo” e a “velocità di recupero molto elevate”.

QUANTE MINIERE SERVONO PER LE AUTO ELETTRICHE NEL MONDO?

Del resto, se vogliamo continuare a percorrere la strada di conversione dei motori endotermici a quelli elettrici, per azzerare le emissioni del traffico, è meglio sapere che serviranno quasi 400 nuove miniere, che non potranno nemmeno essere spalmate su tutta la superficie terrestre, dato che dovranno concentrarsi solo nei siti più ricchi. Non è naturalmente il solo effetto collaterale della transizione ecologica dei mezzi, ma il rischio di trasformare il pianeta in una groviera è presente.

Lo sostiene l’ultimo studio della società di ricerche londinese Benchmark Mineral Intelligence, nota anche come Benchmark Minerals, fondata da Simon Moores nel 2014. Si tratta un’agenzia di reportistica sui prezzi regolamentata IOSCO che effettua studi sulla filiera delle batterie agli ioni di litio per la catena di fornitura dei veicoli elettrici. Secondo il report, per soddisfare una domanda crescente di batterie per veicoli EV, sospinta dalle norme che potrebbero essere varate in Europa e negli USA per bandire le motorizzazioni endotermiche, serviranno quasi 400 nuovi siti minerari.

LA CORSA USA PER RENDERSI INDIPENDENTE

Proseguendo col report, viene stimato che serviranno 74 nuove miniere di litio da 45 mila tonnellate ciascuna, ma con l’aumento del riciclo ne potrebbero bastare 59. Per il nickel, invece, sono stimati altri 72 nuovi scavi da 42.500 tonnellate. Il riciclo avrà, infine, il maggior impatto sull’estrazione di cobalto: una estremità della forbice parla di 62 nuovi siti da 5 mila tonnellate ciascuna, l’altra di 38.

Il recupero di materiali rari e finiti giocherà insomma un ruolo fondamentale nell’industria automobilistica di domani. Soprattutto per tamponare l’emergenza ambientale. Basti pensare a quanto accaduto nel sud della California, nella Mojave National Preserve, dove ha sede una delle principali miniere di terre rare degli Stati Uniti d’America. Lì l’attività mineraria ha sversato circa 2.300 litri di acque reflue radioattive e altri rifiuti pericolosi nel suolo desertico della regione, comportando una contaminazione da torio, elemento radioattivo che viene rilasciato durante l’estrazione e che può avere effetti molto dannosi sull’ambiente circostante. Nonostante sia stata comminata una multa da 1.3 milioni di dollari, l’azienda nel 2019 ha comunque ottenuto, tra le proteste degli ambientalisti, un’altra concessione trentennale.

Del resto, circa l’80% delle terre rare usate nell’industria hi-tech e auto degli USA è importata dalla Cina, che vanta una produzione di 120mila tonnellate (dati 2018), una delle più elevate al mondo davanti ad Australia (20mila tonnellate) e Stati Uniti, appunto (15mila tonnellate). L’amministrazione Biden intende però rendersi sempre più indipendente dal Dragone, anche perché l’attuale scenario geopolitico sembra portare a scenari in cui Cina e USA saranno su fronti contrapposti, forse non solo a livello commerciale. Ma a quale prezzo per l’ambiente? E quale sarà l’apporto europeo e, in particolar modo italiano, nel venturo mercato dei metalli per la mobilità elettrica?

·        Quelli che…il Carbone.

Dopo 30 anni il Regno Unito torna ad aprire le centrali a carbone.  Salvatore Toscano su L'Indipendente il 9 dicembre 2022.

Il governo britannico ha approvato il progetto di una nuova miniera di carbone a Whitehaven, nel nord est dell’Inghilterra, a trent’anni dall’ultima apertura registratasi nel Paese. L’impianto sarà costruito dalla West Cumbria Mining e servirà a estrarre coke per la produzione di ferro e acciaio nel Paese nonché per l’export verso il resto d’Europa. Si tratta di un’inversione di marcia totale rispetto agli impegni presi sulla lotta al cambiamento climatico, tra cui quelli della COP26 di Glasgow, il cui obiettivo era “consegnare il carbone alla storia”. Nell’agosto 2019, il governo britannico stabilì la data del 2025 per la scadenza ufficiale dell’era coke, iniziata nel XVIII Secolo con la Rivoluzione Industriale.

La costruzione della nuova miniera avrà un costo di 165 milioni di sterline e richiederà due anni di lavori, al termine dei quali sarà in grado di produrre circa 2,8 milioni di tonnellate di carbon coke ogni 12 mesi. Il 20% del totale sarà destinato alla produzione interna di acciaio e ferro, mentre l’80% finirà sul mercato dell’Europa continentale. Durante il processo di lavorazione del combustibile fossile vengono generate elevate quantità di anidride carbonica, il principale gas serra, a cui si aggiungono l’anidride solforosa, catalizzatore di piogge acide e malattie respiratorie, e l’ossido di azoto. Secondo le stime, la nuova miniera britannica produrrà circa 400mila tonnellate di emissioni di gas serra ogni anno. Una previsione che ha già scatenato la reazione delle associazioni ambientaliste, pronte a citare in giudizio lo Stato per violazione dei suoi obblighi internazionali in materia di contrasto al cambiamento climatico. Nel corso degli ultimi anni, il Regno Unito ha approvato diverse leggi che impongono l’azzeramento delle emissioni di gas serra entro il 2050 e per questo motivo la miniera dovrà chiudere entro il 2049.

Il governo si è difeso dalle accuse affermando che il nuovo impianto creerà oltre 500 posti di lavoro e che in sua assenza il Regno Unito sarebbe costretto a importare coke dall’estero per alimentare la produzione di ferro e acciaio. Al riguardo, diversi esperti economici hanno sollevato dubbi sulla convenienza del progetto, dal momento in cui la domanda di carbone nella produzione di acciaio sta diminuendo, con l’industria orientata verso l’utilizzo dell’idrogeno come fonte. [di Salvatore Toscano]

L’Italia e il mondo tornano al carbone. E per il clima è un disastro. Per sostituire il gas russo aumenta in Europa il ricorso al combustibile più inquinante. Che in Cina e in India è ancora di gran lunga la fonte energetica principale. Così crescono le emissioni di CO2 e la transizione green si allontana. Vittorio Malagutti su L’Espresso il 6 dicembre 2022.

Non è il gas, e neppure il petrolio, la minaccia più grave per il clima. Se il mondo vuole mettere un freno alle emissioni di CO2, e quindi anche al riscaldamento globale, deve liberarsi in fretta del carbone, la fonte di energia di gran lunga più dannosa per l’ambiente. È questo l’obiettivo da anni al centro delle discussioni di scienziati e politici, ma come dimostra l’esito deludente dell’ultima conferenza dell’Onu sul clima, la Cop 27 chiusa due settimane fa a Sharm el-Sheikh, il traguardo appare ancora molto lontano.

Tempo di bilanci.  Il 2022 è stato l’anno delle fonti fossili, ma il futuro non è tutto grigio. Marco Dell’Aguzzo su L’Inkiesta il 10 Dicembre 2022

A fine anno l’utilizzo di petrolio, carbone e gas avrà generato 37,5 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica: è il valore più alto mai registrato dal Global carbon project. Ma le rinnovabili, nel frattempo, continuano a crescere, e i veri risultati potrebbero arrivare nei prossimi cinque anni. Anche se il tempo stringe

Il 7 dicembre il Regno Unito ha autorizzato l’apertura della prima miniera di carbone in oltre trent’anni. Pur trattandosi non di carbone termico, la tipologia utilizzata per generare energia, ma di carbone coke, necessario alla produzione dell’acciaio, la notizia è comunque rappresentativa di una situazione generale: non soltanto le economie in via di sviluppo, ma anche quelle avanzate – proprio i britannici, alla COP26 di Glasgow, promettevano di «consegnare il carbone alla storia» –, fanno fatica a distaccarsi dai combustibili fossili.

L’invasione russa dell’Ucraina ha infatti scatenato una corsa frenetica all’accaparramento di gas naturale. Le difficoltà nel reperirlo hanno indotto i governi a ripiegare sul carbone, l’idrocarburo più “sporco”, che sta infatti vivendo una fase di rinascimento, soprattutto in Germania. Le emissioni di gas serra generate dalla sua combustione, sia nelle centrali termoelettriche che negli stabilimenti industriali, sono le principali responsabili del riscaldamento globale.

Stando a un recente studio del Global carbon project, nel 2022 l’utilizzo di combustibili fossili – soprattutto petrolio e carbone – genererà 37,5 miliardi di tonnellate di emissioni di anidride carbonica: si tratta del valore più alto mai registrato dall’organizzazione, che renderà ancora più complicato il raggiungimento dell’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura media della Terra entro gli 1,5 °C. 

Il dato stimato dal Global carbon project, dell’un per cento superiore ai livelli del 2021, sembra segnalare un’inversione netta rispetto al 2020, quando i lockdown imposti dalla pandemia provocarono un calo delle emissioni di oltre il cinque per cento. Due anni fa, la speranza era che le emissioni mondiali avessero ormai raggiunto il loro picco, con una conseguente diminuzione negli anni successivi. Ma già nel 2021 l’allentamento delle restrizioni e la conseguente ripresa di spostamenti e produzioni avevano riportato la situazione emissiva al 2019. E il 2022, con il ritorno alla “vita normale”, l’ha spinta addirittura oltre.

Come fa notare il Washington Post, la storia dell’ultimo secolo traccia una corrispondenza tra crisi economiche e calo delle emissioni. I livelli di CO2 diminuirono infatti nel 1973 e nel 1979, anni di shock petroliferi, e ancora nel 2008 e nel 2009, “grazie” alla Grande recessione. Se si accetta questa interpretazione, allora la crisi del coronavirus non ha segnato un punto di svolta, ma piuttosto ha confermato una tendenza.

I piani di recupero dalla pandemia stilati dalle economie avanzate, però, dedicano un’attenzione mai vista alle fonti di energia “pulita” e alla riduzione dell’impronta carbonica. Il loro obiettivo di fondo è spezzare il nesso tra calo del Pil e calo delle emissioni, dimostrando così che è possibile crescere economicamente anche riducendo il consumo di idrocarburi.

Ma nelle Nazioni in via di sviluppo – specialmente in quelle asiatiche – il carbone è ancora una fonte imprescindibile, in quanto stabile ed economico, per generare l’elettricità. Senza l’assistenza dei Paesi ricchi, le economie emergenti non sono in grado di sostenere i costi di costruzione degli impianti eolici e solari, più le spese di installazione delle batterie per lo stoccaggio energetico e quelle per l’adeguamento delle reti. In India, ad esempio, nonostante i piani di transizione ecologica, quest’anno l’uso del carbone aumenterà del cinque per cento.

Nell’ultimo anno, tra centrali elettriche o a carbone e terminali per l’esportazione del gas, nel mondo sono ripartiti circa ottanta progetti dedicati ai combustibili fossili. Secondo le previsioni di Rystad energy, nel 2024 gli investimenti in nuove infrastrutture per il gas toccheranno quota quarantadue miliardi: un incremento del cinquanta per cento rispetto al 2022.

Quello del 2022, tuttavia, non è un racconto del trionfo assoluto dei combustibili fossili. Nell’ultimo rapporto annuale dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), dedicato allo stato delle rinnovabili, si legge infatti che la crescita della capacità energetica globale dalle fonti pulite è destinata a raddoppiare entro il 2027: aumenterà di quasi 2.400 gigawatt, per arrivare a 5.640 gigawatt.

Rispetto alle stime pubblicate dall’organizzazione a fine 2021, l’accelerazione è del trenta per cento. A contribuirvi maggiormente, peraltro, non sono solo l’Unione europea e gli Stati Uniti, ma anche due potenze del carbone come la Cina e l’India.

Il direttore esecutivo dell’Iea, Fatih Birol, ha detto che «nei prossimi cinque anni il mondo è destinato ad aggiungere tanta energia rinnovabile quanta ne ha introdotta nei vent’anni precedenti». Prese insieme, le rinnovabili supereranno il carbone come fonte principale per l’elettricità a livello globale nel 2025. Nel 2027 il solare fotovoltaico reclamerà per sé il primo posto assoluto.

«Le rinnovabili si stavano già espandendo velocemente», negli anni precedenti, ha spiegato Birol, «ma la crisi energetica globale», aggravata dall’invasione russa dell’Ucraina, «le ha spinte in una nuova e straordinaria fase di crescita ancora più rapida, perché i Paesi stanno cercando di capitalizzare i vantaggi della sicurezza energetica”.

L'età del carbone. Report Rai PUNTATA DEL 28/11/2022 di Luca Chianca. Collaborazione di Alessia Marzi

RWE è il secondo maggior produttore di elettricità tedesco, una delle società più inquinanti d’Europa.

Secondo le stime dell’ufficio federale di statistica, la Germania, dove le centrali a carbone coprono un terzo del fabbisogno energetico, nei primi sei mesi del 2022 ha generato 82,6 miliardi di kWh di elettricità dal carbone, il 17% in più rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Questo anche a causa della decisione di rimettere in servizio alcune vecchie centrali per fronteggiare la crisi energetica. A farla da padrona è la RWE, il secondo maggior produttore di elettricità tedesco, una delle società più inquinanti d’Europa: il 23% dei ricavi di RWE deriva ancora oggi dal settore carbonifero. Report vi mostrerà quello che resta del villaggio di Lützerath, nella Germania occidentale. Sarà raso al suolo tra fine settembre e inizio ottobre per l’espansione della miniera di Garzweiler di proprietà di RWE. Ma perché ci interessa? Le attività del colosso elettrico parlano anche italiano: tra i suoi finanziatori ci sono le nostre due principali banche: Intesa Sanpaolo e Unicredit.

Le risposte integrali di Banca Intesa

Spett.le Redazione Report RAI3, Intesa Sanpaolo non può fornire informazioni su eventuali rapporti in essere con clienti e parti terze. Intesa Sanpaolo tiene conto dei rischi sociali, ambientali e di governance associati alle attività delle imprese clienti e delle realtà economiche in cui investe e dedica particolare attenzione alla sostenibilità connessa a settori considerati sensibili, fra cui il carbone, oggetto di apposita regolamentazione creditizia. Tale policy, resa appositamente più stringente prevede, oltre a varie esclusioni e limitazioni all’operatività, l’azzeramento delle esposizioni relative all’estrazione del carbone entro il 2025 e definisce le limitazioni e i criteri di esclusione per l’operatività creditizia del Gruppo in merito alle centrali termiche a carbone. Contestualmente punta a sostenere i clienti della Banca nel percorso di riduzione dell’uso del carbone per la produzione di energia, incoraggiando la transizione verso fonti alternative a bassa intensità di carbonio come le rinnovabili. Lo scorso febbraio, nel Piano di Impresa 2022-2025, sono stati fissati gli obiettivi al 2030 per 4 settori ad alta emissione (Oil & Gas, Power Generation, Automotive e Coal Mining, che rappresentano oltre il 60% delle emissioni finanziate del portafoglio delle aziende non finanziarie nei settori identificati dalla Net Zero Banking Alliance). La Banca, infine, anticipando le scadenze fissate dalla stessa NZBA che indicava l’azzeramento delle emissioni nette al 2050, ha stabilito di anticipare tale scadenza al 2030 per le proprie emissioni nette. Distinti saluti, Intesa Sanpaolo Media & Associations Relations Milano, 18 novembre 2022

Le risposte integrali di Unicredit

I due bond in questione sono classificati come “green bond” secondo la tassonomia UE ed emessi con lo scopo di supportare il processo di transizione della società e aumentare la quota di produzione di energia da fonti rinnovabili entro il 2030. UniCredit ha agito come uno dei bookrunner incaricati del collocamento, in pieno rispetto della propria policy che vieta il finanziamento di qualsiasi nuovo progetto o attività nel settore del carbone, mentre consente finanziamenti finalizzati a supportare e accellerare una transizione energetica equa e giusta in tutti i settori. Da: [CG] Redazione Report Inviato: mercoledì 16 novembre 2022 17:55 A: @unicredit.eu Cc: Luca Chianca Oggetto: R: Richiesta intervista_ Report, Rai 3 Gentilissimi, con la presente inoltriamo i quesiti in forma scritta. Per ragioni di produzione avremmo esigenza di ricevere riscontro entro le 10am della giornata di sabato 19 novembre per poter avere il tempo di inserirle all’interno della puntata. - Quanto è stato investito dal 2019 ad oggi in settori riconducibili a quello carbonifero? - Corrisponde al vero il dato per cui Unicredit nel 2021 avrebbe aumentato i finanziamenti in ambiti riconducibili al settore carbonifero rispetto all’anno precedente (+28%)? - Che tipo di modalità di finanziamento sono state attivate a favore della compagnia elettrica tedesca RWE la più inquinante d’Europa e con un phase‐out del carbone oltre il 2030? Che tipo di modalità di finanziamento sono state attivate a favore della compagnia elettrica RWE e per quale volume economico? - Come tali investimenti si rendono coerenti con le politiche di decarbonizzazione a cui anche Unicredit aderisce? Luca Chianca, è sempre a disposizione al per ulteriori informazioni. In attesa di riscontro, Vi ringraziamo anticipatamente per la disponibilità. Alessia Marzi Redazione Report

Da: [CG] Redazione Report Inviato: venerdì 21 ottobre 2022 11:46 A: @unicredit.eu

Oggetto: Richiesta intervista_ Report, Rai 3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma

Spett.le UNICREDIT Media Relations Piazza Gae Aulenti 3 - Tower A - 20154 Milano Roma, 21 ottobre 2022 Gentilissimi, Per una delle prossime puntate di Report stiamo preparando un servizio sull’attuale crisi energetica, con un particolare focus sulle scelte, che al livello nazionale, hanno portati vari Stati dell’area Euro a prolungare la vita di alcune porzioni del settore carbonifero. In tale contesto, saremmo interessati a raccogliere il contributo di Unicredit, con una video intervista a un rappresentante dell’istituto da Voi indicato, rispetto al ruolo degli istituti di credito nei finanziamenti alla filiera fossile. Siamo certi che il Vostro punto di vista, possa offrire ai nostri telespettatori un quadro completo e un’informazione corretta. Il giornalista che sta realizzando il servizio, Luca Chianca, è sempre a disposizione al per ulteriori informazioni. In attesa di riscontro, Vi ringraziamo anticipatamente per la disponibilità. Alessia Marzi Redazione Report

Le risposte integrali di Enel

INTERNAL Buonasera, di seguito le risposte alle domande ricevute. Grazie -- • Quale è lo stato attuale della produzione delle centrali a carbone di vostra proprietà in Italia. Le centrali a carbone Enel ancora disponibili all’esercizio in Italia stanno producendo in base ai piani di produzione concordati con il gestore della rete nazionale. • Quali centrali sono in funzione e qual è la produzione totale di energia rispetto allo scorso anno. Le unità attive sono: • Brindisi: 3 unità (l’unità #2 è stata definitivamente dismessa a dicembre 2020) • Fusina: 2 unità (le unità #1 e #2 sono state definitivamente dismesse a dicembre 2021) • Sulcis: 2 unità • Civitavecchia : 3 unità Nei primi 9 mesi del 2022 le unità hanno prodotto circa 12,7 TWh rispetto ai 6,9 TWh dello stesso periodo del 2021  • In particolare avremmo necessità di verificare l’informazione per cui la centrale di Civitavecchia già a fine marzo 2022 avrebbe utilizzato lo stesso quantitativo di carbone che impiega solitamente in un anno. Il carbone utilizzato nella centrale di Civitavecchia a marzo 2022 è stato di 0,7 Milioni di tonnellate a fronte del totale 2021 che è stato di 1,7 Mt • Per riguardo la centrale di Civitavecchia, vorremmo conoscere qual è stato l’incremento nella produzione di energia tra il 2021 e il 2022 Nei primi 9 mesi del 2022 dell’impianto di Torrevaldaliga Nord ha prodotto circa 4,6 TWh rispetto ai 3 TWh dello stesso periodo 2021. Si tratta di un valore notevolmente al di sotto della massima produzione raggiunta dall’impianto di oltre 12 TWh nel 2012. --- Rispetto alla frase della vostra mail “Considerato il fatto che anche l’Italia ha optato per il prolungamento dell’attività di alcune centrali a carbone”, segnaliamo che ad oggi non è stato disposto nessun prolungamento di attività di tali centrali. È stato invece richiesto un momentaneo maggiore utilizzo degli impianti disponibili connesso alla situazione internazionale e alla necessità di razionalizzare il consumo di gas naturale. –

------- Messaggio originale -------- Da: "[CG] Redazione Report" Data: 23/11/22 08:53 (GMT+01:00) A: "UFFICIO STAMPA ENEL (CORPORATE)

Oggetto: Richiesta informazioni_Report, Rai 3 Report Ufficio Stampa Enel Italia Viale Regina Margherita, 137 00198 Roma (IT) Roma, 23 novembre 2022 Gentilissimi, Per una delle prossime puntate di Report stiamo preparando un servizio sull’attuale crisi energetica, con un particolare focus sulle scelte, che al livello nazionale, hanno portato vari Stati dell’area Euro a prolungare la vita di alcune porzioni del settore carbonifero. Considerato il fatto che anche l’Italia ha optato per il prolungamento dell’attività di alcune centrali a carbone, saremmo interessati a raccogliere alcune informazioni per poter offrire ai nostri telespettatori un quadro completo e un’informazione corretta. • Quale è lo stato attuale della produzione delle centrali a carbone di vostra proprietà in Italia. • Quali centrali sono in funzione e qual è la produzione totale di energia rispetto allo scorso anno. In particolare avremmo necessità di verificare l’informazione per cui la centrale di Civitavecchia già a fine marzo 2022 avrebbe utilizzato lo stesso quantitativo di carbone che impiega solitamente in un anno. • Per riguardo la centrale di Civitavecchia, vorremmo conoscere qual è stato l’incremento nella produzione di energia tra il 2021 e il 2022 Per ragioni di produzione avremmo esigenza di ricevere riscontro entro le 17.00 della giornata di venerdì 25 novembre per poter avere il tempo di inserire il contributo all’interno della puntata. Il giornalista che sta realizzando il servizio, Luca Chianca, è sempre a disposizione al per ulteriori informazioni. In attesa di riscontro, Vi ringraziamo anticipatamente per la disponibilità. Redazione Report

Le risposte integrali del Mite

Dichiarazione del Ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto. "Solo al fine di risparmiare il gas negli stoccaggi in vista del prossimo inverno, in cui non sarà ancora operativo il rigassificatore di Piombino, si è stabilito di massimizzare la produzione di quelle centrali a carbone rimaste in attività. Una misura temporanea, che non prevede il rilancio di vecchi impianti chiusi e che è connessa solo al superamento dell’emergenza a seguito del recente conflitto bellico tra Russia e Ucraina. L'obiettivo del Governo è quello della decarbonizzazione e di una forte crescita delle energie rinnovabili, per ridurre la dipendenza dalle fonti fossili. L’Italia, a differenza di altri Paesi, utilizza marginalmente il carbone per produrre energia elettrica. Nel Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) del 2019, ci siamo posti l’obiettivo di cessarne l’uso nel settore elettrico entro il 2025, compensando la produzione mancante con un forte aumento delle energie rinnovabili : si pensi soltanto che lo scorso anno in Italia avevamo espresso pareri favorevoli per 1,5 GW di nuovi impianti mentre per la fine di quest’anno possiamo arrivare a 7 o anche a 10. Il processo di riduzione delle centrali a carbone è quindi già iniziato. Non c’è spazio nel nostro disegno energetico per il carbone, se non per questa eccezionale situazione di emergenza che si è determinata e che mi auguro proprio non debba prolungarsi. Se dovessi firmare l’atto di indirizzo per l’acquisto del carbone nel 2023 sarebbe una coltellata, per me e per tutto il sistema Paese”. Cordiali saluti, Ufficio Stampa e Comunicazione Dott.ssa Rossella Pavia Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica

Le risposte integrali di RWE

Dear Ms Marzi, thank you very much for your query and your invitation to be interviewed by a highly renowned media chain like RAI. However, this time we would not like to take that offer. In the current energy crisis, coal does not see a renaissance in Germany. It is true that we make three power plant units available again so that they might help the Government to grant security of supply with electricity. But this is no change to our commitment to implement the German coal phase-out. The so-called expansion of Garzweiler Mine is none. The Mine remains in the limits once approved by the authorities. Please understand that by your audience we would not like to be perceived as a company that works on coal only. RWE meanwhile is a major player and investor on the global renewables markets, and devoted to accelerate the use of wind and solar power. Coal has no longer been a core business of RWE for a couple of years. Thanks for your comprehension, Kind regards, Mit freundlichen Grüßen Guido Steffen Pressesprecher RWE Power AG Group Communications & Public Affairs RWE Platz 3, 45141 Essen, Germany Website: rwe.com

“L’ETÀ DEL CARBONE” di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi Immagini di Alfredo Farina Montaggio di Emanuele Redondi

ECKARDT HEUKAMP – RESIDENTE LÜTZERATH La mia famiglia ha vissuto qui per 50 anni, questa azienda ha visto crescere quattro generazioni. Le case accanto sono state già smantellate, adesso toccherà anche alla nostra fattoria.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eckardt è l'ultimo abitante di Lützerath, questo piccolo villaggio di agricoltori della Renania tra Düsseldorf e Colonia. Accanto c'è una delle più grandi miniere di carbone d'Europa, un enorme cratere di 35 chilometri quadrati. Negli anni l’hanno allargato al punto di arrivare quasi a inghiottire la sua proprietà.

LUCA CHIANCA Tutto quello che noi vediamo qui non ci sarà più.

ECKARDT HEUKAMP – RESIDENTE LÜTZERATH Dovrò andar via perché hanno deciso di buttarmi fuori. Avevo avviato un'azione legale contro l'esproprio ma anche i tribunali mi hanno dato torto perché la politica tedesca ha deciso di investire nel carbone. I politici non hanno il coraggio di cambiare direzione, anche di fronte ai problemi legati al cambiamento climatico.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A distanza di pochi chilometri troviamo la seconda più grande miniera di carbone d’Europa, quella di Hambach, con i suoi 45 chilometri quadrati. Negli ultimi 60 anni, per estrarre carbone, hanno espropriato e cancellato dalla cartina geografica 50 villaggi e ben 50mila persone sono state costrette a trasferirsi altrove. Ma la miniera di Hambach potrebbe perdere il secondo posto a favore di quella di Garzweiler, dove il governo federale ha appena approvato l’allargamento della miniera per altri 48 chilometri quadrati con il completo sbancamento e demolizione dell’intero villaggio.

LUCA CHIANCA Qui siamo sul crinale della miniera, no?

DANIELA FINAMORE - RICERCATRICE RECOMMON Sì. LUCA CHIANCA Tutta questa zona dove siamo adesso verrà spazzata via.

DANIELA FINAMORE - RICERCATRICE RECOMMON Perché rientra nel piano di espansione di RWE per la miniera di Garzweiler, quindi non ci sarà più questa parte, nemmeno il villaggio qui che si trova anche alla nostra destra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Miniere che divorano interi villaggi per estrarre carbone. Buonasera. Insomma, la pandemia prima, la guerra poi, ci hanno rigettato indietro di 50 anni per quello che riguarda le tutele all’ambiente e se volete anche alle precarietà. Ora l’Europa è la zona, l’aria del mondo che ha fatto più ricorso a questa fase emergenziale al carbone. Stiamo parlando della risorsa fossile più inquinante al mondo. I dieci impianti più importanti d’Europa che bruciano carbone, si stima che siano responsabili ogni anno di 7.600 morti premature, di 3.320 nuovi casi di bronchite cronica e di 5.820 ricoveri ospedalieri. E anche responsabili di due milioni di giornate lavorative perse. Ora, i paesi che hanno annunciato il ricorso al carbone in questa fase emergenziale sono oltre la Germania, anche la Grecia, l’Ungheria, l’Austria, la Francia, la Danimarca, l’Olanda e anche noi abbiamo rispolverato le nostre vecchie centrali. Il ministro per l'ambiente e per la sicurezza energetica ci ha scritto: Non c’è spazio nel nostro disegno energetico per il carbone, è solamente una questione eccezionale, legata esclusivamente a questo periodo di emergenza che speriamo duri poco. La sensazione invece è che non durerà così poco, visto che a investire, a contribuire alle aziende che bruciano ed estraggono carbone sono intervenute addirittura le banche. Il nostro Luca Chianca.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La società che ha chiesto l’estensione della miniera è la RWE, secondo produttore tedesco di elettricità. Oltre a gestire tutte queste miniere a cielo aperto, è proprietaria di due delle centrali a carbone più inquinanti d’Europa: quella di Neurath, che rilascia 18,7 milioni di tonnellate di anidride carbonica, e quella di Niederhausen con 11,9 milioni di tonnellate.

LUCA CHIANCA Quello che stupisce è la Germania, no, la locomotiva d’Europa che è così in ritardo sulla transizione ecologica.

HANS JOSEF DEDERICHS - ESPONENTE VERDI CONSIGLIO COMUNALE ERKELENZ Fino al 2005 la Germania era la pioniera nelle energie rinnovabili ma poi è arrivato il governo di Angela Merkel che ha fermato tutto per 16 anni perché produrre energia elettrica dal carbone costava meno, ed è per questo che la nostra industria e le nostre famiglie oggi dipendono ancora molto dal carbone.

LUCA CHIANCA Intorno alla miniera è pieno di pale eoliche eppure son tutte, tutte ferme.

HANS JOSEF DEDERICHS - ESPONENTE VERDI CONSIGLIO COMUNALE ERKELENZ Le reti elettriche sono già caricate a sufficienza grazie alle centrali a carbone quindi,in questo momento, l'energia delle pale eoliche non serve.

LUCA CHIANCA Quindi al danno anche la beffa.

HANS JOSEF DEDERICHS - ESPONENTE VERDI CONSIGLIO COMUNALE ERKELENZ Purtroppo, sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In Germania, solo nell'ultimo anno, l'uso del carbone per produrre energia elettrica è aumentato del 17 per cento, in un paese dove queste centrali coprono già un terzo del fabbisogno energetico nazionale. La moglie dell'esponente dei verdi locali è di origine italiana ma è nata qui, in questa zona.

RESIDENTE Anche se parlo con i parenti miei in Italia, dicono… non lo possono capire. Purtroppo è così però, se non tolgono qui il carbone lo devono togliere da qualche altra parte e allora è meglio, tra virgolette, toglierlo qui così il lago…

LUCA CHIANCA Perché poi qua vorrebbero riempirlo con acqua?

RESIDENTE Sì.

LUCA CHIANCA E dove la trovano l'acqua che non c'è neanche più l'acqua al mondo?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’idea, infatti, una volta dismessa l’area, è quella di riempire questo enorme cratere con milioni di litri d’acqua, convogliando quella del fiume Reno. Un progetto faraonico che dovrebbe durare anni.

HENRY RISSE - INGEGNERE E RICERCATORE UNIVERSITÀ DI AACHEN Ci vorranno almeno 40-50 anni prima che l'acqua raggiunga il livello del terreno che c'era prima dello scavo, anche perché negli anni hanno estratto molta acqua per mantenere il carbone asciutto e per proteggere le pareti dalla caduta dei massi, andando ad intaccare direttamente la falda acquifera che è scesa di quasi 50 metri sotto questo livello.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Christian Döring è un pediatra. Vive a Colonia, non lontano dalle centrali e da anni segue l'impatto del carbone sulla popolazione.

CHRISTIAN DÖRING – PEDIATRA Le faccio un esempio: un giovane di 25 anni morto per un incidente in macchina. Quando lo hanno portato in ospedale per fare l'autopsia aveva i polmoni neri, questo significa un alto rischio di cancro. Statisticamente in Germania ogni anno muoiono circa 2.000 persone a causa delle emissioni delle centrali a carbone, ma poi ci sono le malattie croniche al cuore, l'ipertensione, cervello danneggiato.

LUCA CHIANCA Qual è l'impatto che hanno queste centrali e queste miniere sui bambini della regione?

CHRISTIAN DÖRING – PEDIATRA Quello che rileviamo in questa regione è che ci sono sempre più bambini che nascono prematuri e sottopeso a causa dell'inquinamento.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Pur avendo una quota significativa di rinnovabili, ad oggi il carbone rappresenta ancora il 30 per cento della produzione di energia elettrica di RWE. L’accordo concluso da poco con il governo federale consentirà di tenere attive per altri due anni alcune unità della centrale di Neurath, e consente l’attività di estrazione del carbone fino al 2030. Christian Loose è consigliere federale dell’estrema destra tedesca.

CHRISTIAN LOOSE – DEPUTATO AFD - ASSEMBLEA LEGISLATIVA RENANIA SETTENTRIONALE-VESTFALIA È una buona decisione rimandare la chiusura delle due centrali elettriche di media dimensioni. Porta un po' di stabilità in questo momento. Ma è una cattiva decisione fermare l'estrazione mineraria a cielo aperto tra 7 anni perché così perdiamo molta energia.

LUCA CHIANCA Però la miniera e le centrali sono tra le più inquinanti di tutta l’Europa.

CHRISTIAN LOOSE – DEPUTATO AFD - ASSEMBLEA LEGISLATIVA RENANIA SETTENTRIONALE-VESTFALIA Se chiudiamo queste centrali in Germania non aiuteremo l'umanità perché abbiamo un tasso di efficienza davvero buono rispetto a quelle polacche o di altri paesi che inquinano molto di più.

LUCA CHIANCA Però perché il tema ambientale non è così sentito no?

CHRISTIAN LOOSE – DEPUTATO AFD - ASSEMBLEA LEGISLATIVA RENANIA SETTENTRIONALE-VESTFALIA Le emissioni di anidride carbonica risparmiate in Germania nei prossimi anni, in Cina le emettono in 9 giorni. Vogliamo salvare il nostro ambiente ma non intendiamo guarire il mondo dal cambiamento climatico.

DANIELA FINAMORE - RICERCATRICE RECOMMON La compagnia energetica RWE quindi, continuando a espandere il settore del carbone, più di facilitare la transizione energetica in realtà sta costituendo un importante ostacolo per la transizione energetica tedesca e un ostacolo appunto anche al fatto che finalmente la Germania possa anche liberarsi dal predominio del carbone nell’ambito della sua industria.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A sostenere la politica energetica di RWE ci son anche le banche italiane: Unicredit, che sta collocando obbligazioni, e Intesa San Paolo, primo investitore italiano del colosso energetico tedesco.

DANIELA FINAMORE - RICERCATRICE RECOMMON Intesa San Paolo tra il 2020 e il 2021 ha aumentato gli investimenti nel settore del carbone del 73 per cento e ha sestuplicato le sottoscrizioni di obbligazioni nel settore del carbone. In queste sottoscrizioni rientrano anche 226 milioni di dollari per RWE.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'Italia con la Germania, rispetto ad altri paesi, ha in comune anche la dipendenza dal gas russo e così, a poche ore dall'attacco all'Ucraina, l'ex premier Draghi in Parlamento annuncia gli interventi necessari per diversificare l'offerta di gas che fino ad oggi arrivava dalla Russia.

CAMERA DEI DEPUTATI 25/02/2022 MARIO DRAGHI - PRESIDENTE DEL CONSIGLIO 2021 -2022 Potrebbe essere anche necessaria la riapertura delle centrali a carbone per colmare eventuali mancanze nell'immediato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Applausi dai banchi del centrodestra. Il governo in primavera ha varato provvedimenti che allungano la vita alle centrali a carbone alzando anche i limiti di inquinamento, in barba agli impegni assunti in Europa di bloccare il carbone entro il 2025.

LUCA CHIANCA In questo momento di crisi sta avvenendo il contrario, cioè si dice alle centrali ancora aperte producete al massimo, no? MICHELE GOVERNATORI - RESPONSABILE PROGRAMMA ENERGIA ECCO THINK TANK Sì, se una centrale brucia carbone e non gas ha un effetto competitivo enorme perché i prezzi dell'energia sono alle stelle ma lei non paga il prezzo alto del gas, e quindi guadagna tantissimo: stanno guadagnando circa 300 euro al megawattora che è una cosa che non si era mai vista. E, oltre a questo, è stato ridotto il limite antinquinamento che queste centrali devono osservare, speriamo temporaneamente.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La più grande centrale d'Italia la troviamo a Civitavecchia, crocevia marittimo nel bel mezzo del Tirreno, dove arrivano navi piene di carbone.

GIOVANNI GHIRGA – PEDIATRA Arrivano le carboniere che attraccano, il fondale è profondo proprio per permettere l'attracco a quel tipo di navi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Giovanni Ghirga è un pediatra molto noto a Civitavecchia, da anni segue da vicino l'impatto della centrale di carbone sulla salute dei bambini.

GIOVANNI GHIRGA – PEDIATRA La mia preoccupazione è l'impatto che hanno gli inquinanti emessi dalle centrali a carbone come mercurio, come arsenico, come piombo, sul sistema nervoso dei bambini tant'è vero che vicino ai grandi impianti che emettono queste sostanze aumenta il rischio di essere affetti da disturbi dello sviluppo neurologico dei bambini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche il sindaco monitora costantemente i dati dell'Asl in una città come quella di Civitavecchia in cui, oltre alla centrale a carbone, c'è anche il porto.

ERNESTO TEDESCO – SINDACO DI CIVITAVECCHIA L'Asl sicuramente segnala un certo incremento di malattie respiratorie, anche malattie sicuramente più gravi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Qual è l'impatto dell'uso dei fossili su ciascun paese in termini di costi per ambiente e salute lo ha approfondito la Commissione Europea: in Germania si arriva a 47,5 miliardi di euro tra il 2016 e il 2018. LUCA CHIANCA In Italia come siamo messi?

GIOVANNI GHIRGA – PEDIATRA In Italia la spesa esterna, quindi viene pagata dai cittadini, è di circa 16 miliardi di euro l'anno per effetti collaterali causati dalla combustione di combustibili fossili nella produzione di energia, come gas, carbone e olio combustibile.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Con il carbone abbiamo compiuto un piccolo capolavoro: abbiamo rispolverato le nostre centrali, abbiamo importato il carbone, abbiamo alzato i limiti per inquinare, abbiamo consentito che le aziende bruciassero carbone e realizzassero degli extra profitti mostruosi, anche perché bruciare carbone costa meno che bruciare il gas, ecco, contemporaneamente che cosa abbiamo fatto? Abbiamo venduto il nostro gas a paesi stranieri. Questo perché il nostro gas costa di meno. Ecco, fantastico. Un altro paradosso è che la Germania, laddove ci sono le pale eoliche sono ferme, non girano. Gira invece il carbone. RWE ci scrive che: non vorrebbero essere percepiti come un'azienda che lavora esclusivamente sul carbone perché da due anni non è più il suo core business dell’azienda. Tuttavia, negli ultimi mesi ha voluto il supporto di alcune banche, tra cui Intesa San Paolo e Unicredit. Unicredit ci scrive: che non ha fornito risorse finanziarie per i bond per l’azienda tedesca, ma agito come collocatore insieme ad altre banche. Mentre banca Intesa San Paolo ci dice che non ci dà informazioni sui clienti privati. Sottolinea il fatto che cerca di spingere, di investire sull’energia rinnovabile, pulita. Ora, questo ovviamente ci fa piacere. Tuttavia, è un fatto che dal 2016, cioè quando sono stati siglati gli accordi di Parigi, intesi ad abbattere le emissioni di gas serra nell’atmosfera, le banche hanno investito su società e aziende che bruciano carbone la bellezza, parliamo di tutte le banche nel mondo, 4.600 miliardi di dollari. Tra queste ci sono anche UniCredit e Intesa Sanpaolo, che avrebbe anche intensione di finanziare in Bosnia-Erzegovina la centrale al carbone di Tuzla che è una delle più grandi, una che ha un impatto devastante sull’ambiente. Questo almeno secondo la Ong Re Common. 

Il focus. Centrali a carbone in Italia, dove sono gli impianti che Draghi potrebbe riaprire per affrontare la crisi energetica. Carmine Di Niro su Il Rifromista il 25 Febbraio 2022.  

Che fare contro il probabile nuovo aumento dei prezzi del gas in Italia, conseguenza della guerra in atto in Ucraina tra il governo di Kiev e quello di Vladimir Putin, che da dalla notte di giovedì 24 febbraio ha iniziato l’invasione oltrepassando il Donbass?

È la ‘domanda delle domande’ per Mario Draghi, il presidente del Consiglio che di fronte a rincari che rischiano di compromettere la ripresa economica ha chiarito oggi, parlando alla Camera nella sua informativa sulla crisi in Ucraina, che di fronte alla crisi energetica il Paese deve lavorare per “aumentare le forniture alternative” da quella russa, col gas di Mosca che equivale al 43% di quello importato.

Ma la crisi in atto secondo Draghi “dimostra l’imprudenza di non aver diversificato maggiormente le nostre fonti di energia e i nostri fornitori negli ultimi decenni”. Per questo il premier nel suo discorso ha aperto ad un possibile ritorno al carbone: “Potrebbe essere necessaria la riapertura delle centrali a carbone, per colmare eventuali mancanze nell’immediato”, ha spiegato in Aula Draghi.

Lo stato del carbone in Italia

Attualmente nel Paese vi sono ancora sette centrali a carbone in funzione: si stratta della centrale “Eugenio Montale” di Vallegrande (La Spezia), la centrale “Andrea Palladio” di Fusina (Venezia), la centrale di Torrevaldaliga Nord a Civitavecchia, la centrale “Federico II” di Brindisi e la centrale “Grazia Deledda” di Portoscuso (Sud Sardegna), la centrale di di Monfalcone (Gorizia) e quella di Fiume Santo (Sassari). Le prime cinque appartengono all’Enel, quella di Monfalcone alla A2A e l’ultima, quella di Fiume Santo, al gruppo energetico ceco EPH.

Ad oggi i sette impianti producono poco più del sei per cento dell’elettricità usata in Italia e secondo il Piano nazionale integrato per l’energia e il clima firmato nel 2019, andavano dismesse entro il 2025 o riconvertirle in centrali a gas naturale.

La riattivazione

In realtà già lo scorso dicembre, di fronte all’impennata dei prezzi del gas, in misura straordinaria l’Enel aveva riacceso le unità a carbone della centrale Eugenio Montale” di Vallegrande, in provincia di La Spezia. Stessa sorte era toccata a quella della A2A a Monfalcone, anch’essa accesa per pochi giorni prima di venire nuovamente ‘spenta’ dai tecnici.

Le polemiche

La decisione prospettata da Draghi rischia di scatenare forti polemiche politiche. L’Italia alla conferenza sul clima di Glasgow dell’anno scorso si era impegna ad accantonare una tecnologia fortemente inquinante.

Ma una eventuale mossa del governo di ritornare, anche se per un periodo limitato, allo sfruttamento del carbone nei sette impianti presenti sul territorio rischia di provocare le proteste delle comunità. Cittadini che sono già inferociti contro la prospettata trasformazione delle centrali dal carbone al gas: amministrazioni locali e ambientalisti vorrebbero infatti che gli impianti venissero ‘semplicemente’ dismessi perché anche il gas continuerebbe a causare emissioni di gas serra, anche se in misura minore.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

·        Quelli che…l’Idrogeno.

Dal gas all'idrogeno: cosa può cambiare. Alessandro Ferro il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'idrogeno verde si appresta a soppiantare il gas naturale nel giro di pochi anni: ecco l'idea dell'Olanda che potrebbe essere seguita anche dal mercato internazionale.

Addio al gas naturale, benvenuto idrogeno: si può parafrasare in questo modo la decisione dell'Olanda di voler convertire 15 mila chilometri di tubazioni che attualmente trasportano la prima tipologia di gas alla transizione ecologica verso l'idrogeno, non tossico, invisibile, inodore e anche più leggero dell'aria una volta che viene prodotto.

I perché della scelta

Dopo decenni in cui esplorazioni e pompaggi hanno causato terremoti e per contenere la CO2 nell'atmosfera, l'Olanda vuole diventare ancora più green. "I Paesi Bassi avranno bisogno di idrogeno. Dovrà abbandonare il gas naturale, non c'è altro modo", ha affermato l'amministratore delegato di Gasunie, Han Fennema, durante un'intervista con la stampa locale. L'impresa, però, non è mica semplice perché l'80% del fabbisogno energetico attuale viene prodotto dai combustibili fossili. Le sue quotazioni, comunque, sembrano in ascesa tant'é che nel 2030 la produzione di H2 diventerà più competitiva anche nei mercati internazionali.

Il valore dell'idrogeno

L'idrogeno cosiddetto "verde", nel 2050 potrebbe soddisfare ben un quarto della domanda mondiale energetica con vendite annuali fino a 630 miliardi di euro secondo le stime della Commissione Europa. Come riporta Repubblica, l'Europa ha intenzione di realizzare impianti da 40 gigawatt di capacità prima del 2030 che equivalgono al doppio rispetto alla diga cinese delle "Tre Gole", il più grande impianto energetico del mondo. In questo modo, l'idrogeno potrebbe essere il punto di riferimento per l'industria pesante e i trasporti che non possono contare soltanto sull'elettrico. Ecco perché i Paesi Bassi sono in pole position per utilizzare questo tipo di energia rinnovabile. "È un'opportunità per il Paese di tornare alla posizione che ha sempre avuto nei mercati del gas naturale", ha affermato Catrinus Jepma, professore di energia e sostenibilità all'Università di Groningen. "Siamo stati i primi a gestire il trasporto di gas in passato".

Quali sono le problematiche

Per adesso, comunque, il traguardo è lontano sia per le strutture, sia per i costi: l'idrogeno verde vale quattro volte di più del gas naturale in termini di costi, motivo per il quale le ristrutturazioni degli oleodotti potrebbero rimanere fermi per anni. In ogni caso, i Paesi Bassi provano ad anticipare la concorrenza stanziando 1,5 miliardi di euro per i primi 1.200 chilometri destinati soltanto all'idrogeno e averlo entro il 2027: metà verrà finanziata dal governo orange, l'altra metà dalla società di costruzione. "Molti Paesi europei hanno progetti per vaste reti di idrogeno, ma i piani dei Paesi Bassi sembrano più avanzati", ha spiegato a Repubblica Adithya Bhashyam, analista di BloombergNEF. Subito dietro l'Olanda, il Regno Unito potrebbe riutilizzare il 25% dei suoi gasdotti per creare una rete di duemila chilometri per l'idrogeno. E poi, la Germania propone l'utilizzo di un gasdotto esistente per convogliarlo verso i Paesi dell'est.

È chiaro che avviare una "macchina" del genere non sarà facile per motivi economici, industriali e tecnici. Alcuni studi, tra l'altro, dimostrerebbero che l'idrogeno che fuoriesce dai tubi possa prolungare la durata del metano nell'atmosfera creando un effetto riscaldamento globale e annullando i benefici iniziali. Insomma, la strada verso questa tipologia di transizione ecologica, purtroppo, sembra ancora lontana.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

La soluzione italiana per l'idrogeno pulito dal metano. Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.

Il Politecnico di Milano sta sperimentando la scissione per pirolisi del gas, ottenendo carbonio solido e idrogeno. "Ma se si vuole raggiungere la neutralità carbonica in tempo utile, bisogna pensare a stoccaggio e sequestro della CO2 dall'atmosfera.  

È l'idrogeno del futuro, quello nato dai gas naturali scomposti in maniera che il loro impatto sull'ambiente sia nullo. Privo di emissioni, creato partendo da metano che viene reso così del tutto innocuo. Ci sta lavorando all'estero il gruppo di ricerca guidato dal premio Nobel Carlo Rubbia in Germania, ad esempio, e ci stanno lavorando anche qui in Italia al Politecnico di Milano. "La tecnica di pirolisi e ha già dimostrato di funzionare", racconta Carlo Mapelli, professore del Dipartimento di Meccanica dell'ateneo lombardo, dove insegna Siderurgia ed impianti siderurgici e Metallurgia e materiali non metallici. "Permette di scindere il carbonio e l'idrogeno che sono contenuti nei gas naturali senza produrre l'emissione monossido di carbonio". 

Avete già degli impianti in funzione?  

"Abbiamo macchine di prova costruite internamente. Il processo è noto che funziona, nella pirolisi quindi non c'è nulla di innovativo. Il problema sta nel fatto che è un processo estremamente lento e quindi bisogna lavorare sull'incremento della cinetica nella scissione del carbonio e dell'idrogeno". 

Cosa vuol dire "lento"?  

"Perché possa avvenire ad una efficienza circa del 55 o 60% è necessario attivare termicamente il processo fino a 1.200 gradi. Quindi c'è un problema legato al consumo energetico se si vogliono ottenere produttività compatibili con l'industria per fornirle idrogeno in quantità sufficiente".  

Ecco. Restiamo sul tema dell'energia necessaria.  

"Per quanto riguarda i dati termodinamici è inferiore di almeno 7 o 8 volte rispetto a quella necessaria per scindere l'idrogeno dall'ossigeno con gli elettrolizzatori ad acqua. Quindi per la produzione, dal punto di vista del consumo energetico, è sicuramente una strada percorribile. Il problema, come dicevo prima, è di produttività del processo e di gestione di questo gas. A differenza di un liquido, scindere le molecole del gas naturale è di per sé più complicato industrialmente". 

Quanto siete distanti da una reale applicazione pratica?  

"Difficile fare una previsione esatta. Oggi il processo è consolidato in laboratorio. Secondo la classificazione della Nasa, ovvero il Technology readiness level (Trl), che si può tradurre con Livello di maturità tecnologica, siamo fra il livello 4 e 5 sui 9 totali dove l'ultimo riguarda sistemi completi che sono in opera. In questo caso quindi parliamo di tecnologie che dai laboratori stanno per essere convalidate anche in ambiente industriale". 

Siete i soli che ci stanno lavorando?  

"Su questo processo nello specifico ci sono già diverse esperienze tecnologiche. C'è una tecnica che è sviluppata in Germania dal gruppo di ricerca del professor Rubbia legata al gorgogliamento del gas all'interno del metallo liquido. Esiste poi un altro filone portato avanti da Basf a Leverkusen che usa come catalizzatore il carbone. Infine c'è una sperimentazione in Australia che sfrutta il ferro. Si tratta di esperienze che sono allo stesso livello di maturità per formare da un lato carbonio solido e dall'altro idrogeno senza emissioni".  

In quale misura queste tecnologie potranno contribuire ad arrestare il riscaldamento globale? 

"Malgrado questi sforzi tecnologici, non si potrà fare a meno di puntare anche e soprattutto al sequestro e allo stoccaggio in profondità dell'anidride carbonica. Aldilà dell'idrogeno verde, se in tempi brevi si vuole arrivare alla neutralità carbonica, non è possibile non pensare al sequestro e stoccaggio della CO2 nei depositi esausti del gas naturale. Per ragioni legate all'assenza di maturità tecnologica di certe nuove soluzioni o di carattere economico. In pratica, tutte le alternative presenti rispetto allo stoccaggio non sono competitive e alcune hanno comunque un impatto ambientale. Va quindi creato un quadro legislativo che oggi è assente riguardo lo stoccaggio. È un passo essenziale perché il sequestro unito all'uso di bio-metano e bio-carbone potrebbe portare a un bilancio in negativo e non più solo alla neutralità. Insomma, oltre ad annullare le emissioni bisogna di ripulire l'atmosfera. Ma per ora le biomasse non sono sufficienti per una conversione industriale, non abbiamo abbastanza materia prima per farlo. E allora, se si prosegue con i combustibili fossili, bisogna intanto puntare al sequestro e migrare dal carbone al gas naturale che è il 60% meno impattante".

Gli impianti per il sequestro e stoccaggio della CO2 hanno però costi elevati. 

"Dipende da come è organizzata la filiera logistica. Quanto sono distanti ad esempio i depositi dai siti di raccolta della CO2. Noi in Italia, come in Inghilterra, abbiamo la fortuna di avere diversi depositi esausti marini che possono essere raggiunti facilmente, specie quelli nell'alto adriatico. Ma come dicevo manca il quadro legislativo per farlo". 

·        Quelli che…Il Nucleare.

(ANSA il 12 dicembre 2022) - Il dipartimento statunitense dell'Energia annuncerà domani, in una conferenza stampa, che gli scienziati sono stati in grado, per la prima volta nella storia, di produrre una reazione di fusione nucleare che genera più energia di quella necessaria per innescarla. 

Lo scrive il Washington Post parlando di "una pietra miliare nella decennale e costosa ricerca per sviluppare una tecnologia che fornisca energia illimitata, pulita ed economica". Per il quotidiano Usa, si tratta del "Santo Graal" dell'energia senza emissioni di carbonio che gli scienziati hanno inseguito sin dagli anni '50.

La scoperta sarebbe avvenuta presso la National Ignition Facility ospitata nei Lawrence Livermore National Laboratory, in California. Alcuni ricercatori, interpellati dal Washington Post hanno confermato le anticipazioni ma dietro anonimato. 

Lo scopo della ricerca sulla fusione è replicare la reazione nucleare attraverso la quale si crea l'energia sul Sole. Finora gli esperimenti avevano deluso le aspettative degli studiosi, che erano sì riusciti a innescare la fusione, ma impiegando, per ottenerla, molta più energia di quanto poi ne rilasciasse la reazione stessa.

Fusione nucleare, la prima stella 'accesa' 10 mesi fa. (ANSA il 12 dicembre 2022) - Si è accesa dieci mesi fa la prima stella artificiale generata in laboratorio da un esperimento di fusione nucleare. A ottenere quella scintilla era stato il reattore sperimentale europeo Jet (Joint European Torus), in Gran Bretagna, che aveva prodotto una quantità di energia pari a 59 megajoule per cinque secondi, l'equivalente di 11 megawatt. 

Era stato un risultato straordinario, considerando che fino a quel momento la produzione di energia da fusione nucleare era durata appena poche frazioni di secondo. Quel risultato aveva acceso l'ottimismo in tutto il mondo perché riuscire a mantenere la fusione per cinque secondi significava poterla mantenere per tempi più lunghi: "Per cinque minuti e poi per cinque ore", aveva dichiarato entusiasta Tony Donnè, responsabile del programma europeo sulla fusione nucleare Eurofusion, del quale fa parte anche il reattore Jet.

L'energia ottenuta da Jet nel febbraio 2022 è stata doppia rispetto a quella che era stata ottenuta dallo stesso reattore 25 anni prima. Da allora quella macchina pionieristica è stata modificata in modo da renderla più simile al reattore sperimentale Iter, frutto di un gigantesco sforzo internazionale e in via di costruzione nel Sud della Francia, a Cadarache. 

Per questo la piccola stella accesa con Jet può essere considerata una sorta di prova generale di quanto potrà accadere con Iter. Per esempio, fra il 2009 e il 2011 il vecchio rivestimento in carbonio della 'ciambella' nella quale deve scorrere il plasma era stato sostituito con lo stesso materiale utilizzato in Iter, ossia una miscela di berillio e tungsteno molto resistente alle altissime temperature che vengono raggiunte dal plasma. 

Fusione nucleare: esperto, esperimento Usa basato su laser. (ANSA il 12 dicembre 2022) - L'energia da fusione nucleare prodotta negli Usa è stata ottenuta nella National Ignition Facility, che studia la fusione a confinamento inerziale utilizzando i laser. Sono stati generati circa 25 megajoule di energia utilizzando un impulso laser di poco più di 20 megajoule. 

Lo ha detto all'ANSA l'esperto di fusione nucleare Stefano Atzeni, dell'Università Sapienza di Roma. "Si tratta - ha aggiunto - di un esperimento di fusione controllata diverso da quelli a confinamento magnetico. Il risultato è importante perché per la prima volta è stata generata una quantità di energia superiore a quella usata per ottenere la reazione". 

Ue, continuare a investire nella fusione nucleare ++ (ANSA il 12 dicembre 2022) - "Questa svolta" negli Stati Uniti "dimostra che la necessità di continuare ad investire nella fusione nucleare è forte". Lo ha detto la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, rispondendo a una domanda sulle notizie circa l'annuncio in arrivo da Washington sulla fusione nucleare.

"Abbiamo bisogno di vari approcci per garantire questa energia pulita in futuro, ma questo dimostra che vale la pena intensificare il lavoro e la ricerca", ha evidenziato.

Fusione nucleare, gli Stati Uniti verso la svolta: domani l'annuncio. Luca Fraioli La Repubblica il 12 Dicembre 2022.

Secondo il Washington Post, per la prima volta nella storia di questi esperimenti una reazione di fusione avrebbe prodotto più energia di quella usata per innescarla

"Svolta nella fusione nucleare". È quella che sta per annunciare in una attesissima conferenza stampa prevista per domani, martedì 13 gennaio, il Dipartimento dell'Energia statunitense. Ma le indiscrezioni e le ricostruzioni giornalistiche già si moltiplicano. Il primo a darne notizia è stato il Financial Times. E la fusione nucleare come possibile soluzione alle crisi energetica e climatica è presto diventata l'apertura di molti giornali online, a cominciare dal Washington Post, vicinissimo alla Casa Bianca.

Difficile però, nonostante gli sforzi dei reporter, andare oltre due punti fermi: per la prima volta nella storia di questi esperimenti una reazione di fusione avrebbe prodotto più energia di quella usata per innescarla. Il secondo elemento certo è che la scoperta è avvenuta presso la National Ignition Facility ospitata nei Lawrence Livermore National Laboratory, in California.

Alcuni ricercatori interpellati dal Washington Post hanno confermato le anticipazioni ma dietro anonimato. La consegna del silenzio è infatti rigorosa, in attesa che domani la Segretaria all'Energia Jennifer Granholm sveli al monto "una grande svolta scientifica".

La fusione nucleare (quella che alimenta il Sole e che produce energia dalla fusione di due atomi di idrogeno, generandone uno di idrogeno) è il sogno degli scienziati da oltre 50 anni. Al contrario della fissione, non crea radioattività o scorie, non ha bisogno di combustibili rari e utilizzabili per costruire ordigni atomici (l'idrogeno si ricava facilmente dall'acqua).

Tuttavia, finora gli esperimenti avevano frustrato le aspettative degli studiosi, che erano sì riusciti a innescare la fusione, ma impiegando, per ottenerla, molta più energia di quanto poi ne rilasciasse la reazione stessa.

Per raggiungere l'obiettivo sono stati allora progettati giganteschi reattori (uno, Iter, è in costruzione nel Sud della Francia) dalla complessità inaudita. Solo un esempio: per produrre i potentissimi campi magnetici che confinano e strizzano gli atomi fino a farli fondere uno con l'altro, occorrono temperature vicine allo zero assoluto (-273 gradi), ma a pochi centimetri di distanza la fusione può scaldare il reattore fino a centinaia di milioni di gradi: insomma è come dover ricreare in una stessa stanza contemporaneamente il luogo più caldo e quello più freddo dell'Universo. Comprensibile che tali difficoltà tecniche abbiano spostato sempre un po' più avanti un traguardo che sulla carta sembrava alla portata.

Ora però dai Lawrence Livermore National Laboratory potrebbe arrivare la notizia di una vera svolta: la fusione c'è stata e ha prodotto energia extra, anziché consumarla. Dovremo attendere la conferenza stampa di domani per conoscere i dettagli e capire se si tratta dell'ennesimo piccolo passo verso l'energia pulita del futuro. O se invece è davvero, da subito, l'inizio di una nuova era.

Prima e dopo. Le conseguenze sul clima dell’esperimento Usa sulla fusione nucleare. Marco Dell’Aguzzo su L’Inkiesta il 13 Dicembre 2022

Il risultato del Lawrence Livermore National Laboratory è un punto di svolta, ma non cambierà il futuro prossimo dell’energia. Nel lungo periodo (dal 2050 in poi), però, potrebbe rivelarsi la chiave della decarbonizzazione profonda della civiltà umana

«Un’importante scoperta scientifica» verrà annunciata oggi, martedì 12 dicembre, dalla segretaria dell’Energia degli Stati Uniti, Jennifer Granholm. Le fonti ufficiali non hanno detto nient’altro, ma il contenuto dell’annuncio è già stato anticipato da diversi giornali: per la prima volta, un esperimento di fusione nucleare ha prodotto più energia di quella che è stata consumata durante il processo.

Quello ottenuto dal Lawrence Livermore National Laboratory, un laboratorio del governo americano in California, è un risultato storico senza mezzi termini, che avvicina l’umanità – anche se rimangono ostacoli enormi – a una tecnologia che promette elettricità abbondante, stabile, priva di anidride carbonica e anche povera di scorie radioattive. Gli scienziati la inseguono dagli anni Cinquanta, tra più insuccessi che festeggiamenti.

La fusione nucleare è la reazione che alimenta il Sole e le altre stelle. Rispetto alla fissione, il processo che si svolge nei reattori delle centrali in funzione nel mondo, funziona all’opposto: anziché spezzare i nuclei di atomi pesanti, genera energia unendo nuclei leggeri. Gli scarti della fusione, inoltre, hanno una bassa radioattività e decadono più rapidamente dei rifiuti tradizionali.

Sulla carta, insomma, la fusione nucleare è praticamente perfetta: non emette CO2 come il carbone e il gas, non dipende dal meteo come il solare e l’eolico e non produce tante scorie come la fissione. Stando ai celebratori più entusiasti, avrà un impatto rivoluzionario e permetterà di tirare fuori dalla povertà energetica milioni di persone nel mondo: un “piccolo sole” basterà a soddisfare il fabbisogno di una Nazione intera.

Nella realtà, però, le cose stanno diversamente. La fusione è innanzitutto complicata da mantenere stabile per lunghi periodi, date le altissime temperature (milioni di gradi Celsius) richieste dal processo di unione dei nuclei. Ed è poi difficile ottenere un “guadagno energetico netto”, cioè una quantità di energia superiore a quella consumata dai macchinari che innescano la reazione. Prima del Lawrence Livermore National Laboratory, nessuno c’era riuscito. La struttura invece ha ricavato 2,5 megajoule di energia contro i 2,1 megajoule spesi, dicono i dati provvisori riportati dal Financial Times, il centoventi per cento in più.

Nonostante lo straordinario traguardo raggiunto negli Stati Uniti, favorito da corposi investimenti pubblici e privati, la fusione nucleare è ancora lontana dall’utilizzo commerciale. E difficilmente si affermerà prima di qualche decennio almeno. Pur essendo stato superato lo scoglio del “net energy gain”, infatti, rimangono tante altre sfide ingegneristiche ed economiche: la scoperta scientifica da sola non basta; il procedimento va portato fuori dalla fase sperimentale e reso più efficiente, meno costoso e replicabile.

Come scrive il Washington Post, per ricreare su vasta scala le condizioni dell’esperimento riuscito – durante il quale è stato utilizzato uno dei laser più grandi al mondo per “bombardare” gli isotopi di idrogeno – serviranno risorse enormi. Bisognerà poi costruire apparecchiature migliori, capaci di resistere agli stress indotti dalla reazione senza rompersi. E sarà necessario realizzare dei macchinari in grado di convertire l’energia della fusione in elettricità adatta all’immissione in rete.

Insomma, prima di potersi affermare come un processo stabile per la generazione dell’energia elettrica, la fusione nucleare avrà bisogno di tutta una serie di tecnologie da perfezionare o ancora da inventare. È molto improbabile, dunque, che possa contribuire all’agenda climatica da oggi ai prossimi trent’anni. Del resto, le tecnologie utili alla riduzione immediata delle emissioni – le rinnovabili, le batterie, i combustibili sintetici, la cattura del carbonio, la fissione nucleare – sono già disponibili e provate, oppure si trovano a un livello di sviluppo più avanzato.

Il risultato del Lawrence Livermore National Laboratory è importantissimo, ma non cambierà il futuro prossimo dell’energia. La ricerca sulla fusione nucleare non deve fermarsi, però. Perché nel lungo periodo, dal 2050 in poi, quando tanti Paesi dovrebbero essere già arrivati alla neutralità carbonica, la fusione potrà essere un’alleata fondamentale per la decarbonizzazione profonda della civiltà umana.

La svolta sulla fusione nucleare e l'energia pulita tra annunci e realtà. Sergio Barlocchetti su Panorama il 12 Dicembre 2022.

 Negli Usa si riparla di fusione fredda ed energia pulita sempre più vicine. Ma la soluzione a tutti i mali del mondo è ancora distante

Parlare di energia pulita, illimitata e a basso costo di questi tempi è come sventolare l’idea di aver risolto due dei tre problemi che affliggono l’umanità, ovvero fame e inquinamento, riducendo i problemi alla sola sovra-popolazione. Ma un passo avanti verso la realtà della fusione nucleare pare sia stato fatto veramente. Per la prima volta l’esperimento della reazione da fusione è stato eseguito ottenendo un guadagno netto di energia. Vuol dire che calcolando tutta quella necessaria per realizzare la prova, ovvero innescare la reazione simile a quella che avviene nel sole, è stata inferiore di quella prodotta dall’esperimento stesso. L’ultima volta, meno di un anno fa, ci erano andati vicini ma il “sistema” aveva comunque lavorato in perdita. Da qui ad avere abbastanza energia per alimentare città e automobili ci vorrà ancora parecchio tempo, tuttavia, il dipartimento dell'Energia degli Stati Uniti ha dichiarato che domani il segretario all'energia Jennifer Granholm e il sottosegretario per la sicurezza nucleare Jill Hruby annunceranno i dettagli della "importante svolta scientifica" avvenuta al Lawrence Livermore National Laboratory (Llnl), in California. Il portavoce del laboratorio americano precisa che la loro analisi è ancora in corso, ma che nel pomeriggio della giornata del 13 dicembre, ora italiana, saranno condivise tutte le informazioni che consentiranno di comprendere la reale dimensione di quanto ottenuto. Di certo si sa che il processo di fusione detto “a confinamento inerziale” , prevede il bombardamento di una minuscola massa di plasma di idrogeno, tenuta ferma mediante potentissimi campi magnetici, con il laser più grande del mondo, ottenendo aveva ottenuto un guadagno netto di energia. Il potenziale della tecnologia è indiscutibile, stante che con una quantità di materiale radioattivo grande quanto una mela si potrebbe alimentare un appartamento con riscaldamento, acqua calda ed energia elettrica per due secoli, per questo l'amministrazione Biden sta investendo quasi 370 miliardi di dollari in nuovi sussidi energetici a basse emissioni di carbonio attraverso l'Inflation Reduction Act, provvedimento preso nel tentativo di ridurre le emissioni nocive e vincere una corsa globale per la tecnologia pulita di prossima generazione. L’importanza di quanto accaduto si può comprendere meglio ricordando che è dagli anni Cinquanta che gli scienziati tentano di sfruttare sulla Terra il fenomeno che alimenta il Sole, ma nessun gruppo di lavoro fino a ieri era stato in grado di produrre più energia dalla reazione di quanta ne avesse consumata per produrla.

Ma questa tecnica ha bisogno di tanta energia per innescarsi, al punto che l’impianto Llnl che è riuscito nell’impresa comprende un sistema di duecento fasci laser racchiusi in stabilimenti grandi tre campi da football. Soltanto così si riesce a fondere un nucleo di materia con un altro, ovvero il contrario di quanto avviene con la fissione che permette oggi la produzione di energia. In attesa dell'annuncio ufficiale a darne notizia al mondo sono stati per primi il Financial Times e il Washington Post, ripresi poi da tutta la stampa mondiale. Secondo le due testate in California sarebbero stati prodotti 2,5 megajoule di energia contro 2,1 utilizzati per far funzionare i laser. Il risultato più vicino al «guadagno netto» fu registrato lo scorso anno nello stesso laboratorio, ma si fermò al 70% dell’energia utilizzata. Per gli amanti delle cifre, un Joule corrisponde a un Watt per un secondo, quindi 2,5 megajoule corrispondono circa a 0,69 kilowattora, quanto consuma un comune aspirapolvere. O, se preferite, al costo di oggi l’equivalente di 30 centesimi in bolletta

Fusione nucleare: arriva l'energia pulita e illimitata (ma solo tra decenni). L'ipotesi di poter soddisfare il fabbisogno energetico di otto miliardi di persone parte proprio da esperimenti come questo: ottenere energia imitando quel che avviene da cinque miliardi di anni nel nostro Sole. Gianluca Grossi il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'ipotesi di poter soddisfare il fabbisogno energetico di otto miliardi di persone parte proprio da esperimenti come questo: ottenere energia imitando quel che avviene da cinque miliardi di anni nel nostro Sole. Riferimento alla fusione nucleare, fenomeno fisico basato sulla possibilità di trasformare atomi leggeri di idrogeno in elio, leggermente più pesante, producendo calore.

L'annuncio USA, ufficialmente previsto per oggi, è stato anticipato dal quotidiano americano Washington Post, che ha definito la scoperta «il Santo Graal dell'energia». Ed è allettante, si parla di un sistema innovativo per ricavare energia: il laser. Il cosiddetto «sconfinamento inerziale» riguarda 192 raggi laser indirizzati su componenti di materia destinati a fondersi fra loro producendo energia. Vuol dire predisporre un piano per creare megajoule (unità di misura dell'energia) in modo illimitato, senza interferire gravemente con l'ambiente. Quando? Difficile fare una previsione certa, dipende da molti aspetti, ottimisticamente in una trentina d'anni. Il primo dato utile è già stato confermato. E fa riferimento a un test che ha fornito più energia di quella impiegata per produrla, evitando emissioni di carbonio: 2,1 megajoule consumati, a fronte dei 2,4 - 3 megajoule guadagnati. Il risultato è frutto del lungo lavoro effettuato dalla National Ignition Facility presso il Lawarence Livermore National Laboratory, in California.

Perché è meglio della fissione nucleare? Per vari motivi. Innanzitutto la materia prima. Nella fissione si utilizzano elementi pesanti come l'uranio, difficili da reperire. Nella fusione si parla di isotopi di idrogeno, l'elemento più abbondante dell'universo, come il deuterio e il trizio; si differenziano solo per il numero di neutroni (uno per il deuterio, due per il trizio) e sono entrambi molto più facili da impiegare in campo industriale. Altro punto a favore della fusione, le scorie. In quest'ultimo processo fisico quelle prodotte sono inferiori a quelle derivanti dalle radiazioni della fissione, e possono essere gestite con maggiore efficacia. Di fatto, il problema centrale oggi, riferito alla fissione nucleare, è l'oggettiva impossibilità di stoccare i detriti in modo davvero redditizio. I depositi geologici prevedono l'accumulo di scorie radioattive a grandi profondità, all'interno di strati litologici composti da argille e salgemma, ma sono palliativi.

In termini ambientali significa comunque interferire negativamente con il pianeta, senza contare il dinamismo terrestre figlio della tettonica a zolle, che in un futuro lontano potrebbe risputare tutto in superficie. L'uomo si sarà già estinto, ma potrebbero esserci ancora specie ben felici di fare a meno della quotidiana dose di plutonio. Promesse per il futuro? Dalla conferenza stampa di oggi dovremmo saperne di più, ma la fusione nucleare potrebbe rappresentare l'unica soluzione in grado di andare incontro a una specie in continuo sviluppo, crescita demografica e richieste assillanti di energia. Stiamo lavorando su più fronti e non è solo il laser a promettere la fusione nucleare.

Recentemente sono stati ottenuti importanti risultati al Joint European Torus (JET), il più grande reattore al mondo per questo tipo di test, perso fra le campagne che circondano le strade fra Londra e Bristol. Basa la sua azione su un marchingegno altamente sofisticato appannaggio degli studi di fisica più avanzati testati proprio al JET: il tokamak. Potenti magneti superconduttori in grado di confinare e controllare reazioni chimiche ad altissima potenza, e con temperature superiori a quelle registrate nel nucleo stellare. Gioco forza fra temperature di milioni di gradi e lo zero assoluto. Anche per questo motivo, il risultato ottenuto al Lawarence Livermore National Laboratory, potrebbe offrire qualche garanzia in più.

La scoperta può stravolgere la geopolitica mondiale. E gli Usa si garantirebbero l'egemonia planetaria. La fusione nucleare consentirebbe agli Stati Uniti di chiudere la partita con Cina e Russia conquistando una definitiva ed assoluta supremazia planetaria. Gian Micalessin il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

È il Santo Graal della tecnologia. Ma al pari di quella leggenda anche la fusione nucleare può illudere o scatenare rivalità senza fine. Se quest`oggi il Dipartimento dell`Energia degli Stati Uniti smentirà le indiscrezioni di Washington Post e Financial Times ridimensionando i passi avanti compiuti nei laboratori federali di Lawrence Livermore in California l`umanità dovrà rimandare un sogno. Se invece l`America fosse vicina a penetrarne i segreti da domani si scatenerebbero le lotte per sottrarle l`arcano e condividerne gli infiniti vantaggi. Realizzare la fusione nucleare significa non solo ricostruire il sole in laboratorio, ma anche garantirsi l`egemonia mondiale. I suoi segreti tecnologici rappresentano il passaggio obbligato per risolvere due dei più pressanti incubi planetari. Il primo è quello di un`irreversibile crisi energetica. Su quel fronte deuterio e trizio, gli isotopi dell`idrogeno carburante base della fusione nucleare, garantiscono riserve praticamente illimitate.

Una pallina di un centimetro di deuterio e trizio basterebbe da sola a produrre l`energia sviluppata da un barile di petrolio. E un chilogrammo di combustibile impiegato per innescare la fusione nucleare ci regalerebbe l`equivalente dell`energia fornita da 10 tonnellate di combustibile fossile. Ma il secondo grande orizzonte aperto dalla fusione nucleare è la cancellazione del riscaldamento globale prodotto dai combustibili fossili e dall`effetto serra. Conquistare il Santo Graal del nucleare significa produrre energia finalmente pulita evitando sia l`inquinamento industriale, sia la produzione di scorie radioattive. Dunque i soli in miniatura realizzati nei nuovi laboratori nucleari ci salverebbero anche dall`obbligata decrescita industriale pretesa da quegli accordi di Parigi che impongono un dimezzamento delle emissioni entro il 2030 per contenere di un grado e mezzo il riscaldamento globale. Scoprire come ottenere più energia di quella impiegata per attivare la fusione nucleare equivale, insomma, ad innescare un`autentica rivoluzione planetaria.

Una rivoluzione paragonabile a quella che alla fine del 18mo secolo permise a Londra, complice la macchina a vapore, di far decollare l`industria, moltiplicare la velocità dei trasporti e trasformare i commerci regalando all`Impero di Sua Maestà un`incontrastata potenza industriale, militare e finanziaria. In questa prospettiva la fusione nucleare consentirebbe agli Stati Uniti di chiudere la partita con Cina e Russia conquistando una definitiva ed assoluta supremazia planetaria. Con il sole artificiale nelle mani di Washington le altre nazioni non avrebbero altra scelta che guardare all`America per il proprio futuro. La competizione con la Russia e gli altri produttori di carbone, gas e petrolio perderebbe senso. E quella per l`uranio indispensabile ad alimentare i reattori nucleari si trasformerebbe in una battaglia di retroguardia. Nello stesso tempo gli sforzi della Cina per garantirsi i componenti essenziali di batterie sempre più performanti, e le tecnologie indispensabile a produrle, si rivelerebbero un monopolio anacronistico. Ma anche il controllo delle cosiddette «terre rare» indispensabile per le più avanzate tecnologie belliche risulterebbe superfluo.

Sconfiggere chi possiede il segreto dell`energia pulita equivarrebbe, infatti, ad un suicidio planetario. Ma anche l`incubo di Casa Bianca e Pentagono preoccupati dalla prospettiva di una Russia messa in ginocchio dal conflitto in Ucraina e trasformata in un vassallo energetico di Pechino si rivelerebbe alla fine poco preoccupante. E così il gigante Usa dato per ridimensionato e piegato dagli scontri politici interni del dopo Trump si ritroverebbe a custodire i segreti di un nuovo ordine mondiale. Dettandone, ancora una volta, destini e regole.

Estratto dell’articolo di Alberto Simoni per “la Stampa” il 13 dicembre 2022.

[…] Sarebbe la prima volta che i ricercatori riescono a produrre più energia in una reazione di fusione - come quella che alimenta il Sole - di quanta ne consumino nel processo. E' un passo decisivo nella produzione di energia senza ricorrere al carbonio.

[…] Secondo quanto hanno riferito alcune fonti al Washington Post, invece nel laboratorio californiano, alcune apparecchiature del macchinario per l'esperimento sarebbero state danneggiate proprio a causa dell'eccesso di energia prodotta dalla reazione chimica.

Ci vorrà un decennio, probabilmente decenni, prima che la tecnologia per produrre energia dalla fusione nucleare possa avere un impiego commerciale. Tuttavia, quanto fatto dagli scienziati in California è un punto a favore della strategia americana - e perseguita in modo deciso dall'Amministrazione Biden - di moltiplicare gli investimenti, tramite incentivi, sgravi fiscali e prestiti a fondo perduto, nel campo dell'energia verde e delle nuove tecnologie.

Da lastampa.it il 13 dicembre 2022.

La segretaria al dipartimento americano per l'Energia Jennifer Granholm ha annunciato la svolta Usa sulla fusione nucleare, dopo la produzione per la prima volta nella storia in un laboratorio della California di una reazione che genera più energia di quella necessaria per innescarla. «Questo è un risultato storico per i ricercatori e lo staff della National Ignition Facility che hanno dedicato le loro carriere a vedere l'innesco per fusione diventare realtà, e questo punto di svolta sprigionerà altre scoperte», ha detto. 

Il test realizzato la settimana scorsa «ha prodotto più energia con la fusione di quella dei laser utilizzati» per provocare la reazione stessa, ha spiegato in un tweet il laboratorio nazionale Lawrence Livermore, che dipende dal dipartimento Usa dell'energia.

La «svolta», una vera e propria «pietra miliare» nella ricerca di fonti di energia pulita c'è stata il 5 dicembre, poco più di una settimana fa, quando 192 laser giganti della National Ignition Facility del laboratorio californiano hanno bombardato un piccolo cilindro delle dimensioni di metà di una palla da basket, contenente un nocciolo di idrogeno congelato. Si è trattato di uno «straordinario esempio di cosa si può ottenere con la perseveranza», ha detto la dottoressa Arati Prabhakar, direttrice dell'ufficio per la politica scientifica e tecnologica della Casa Bianca, dopo avere ricordato che ci sono voluti «decenni» e «generazioni» di scienziati per ottenere questo risultato. Si è trattato, ha aggiunto, di un «incredibile esempio del potere della ricerca e dell'impresa americani». 

L’esperimento in dettaglio

Marv Adams, vice amministratore per i programmi di difesa della 'National Nuclear Security Administration', ha fornito una descrizione dell'esperimento che ha segnato la svolta sulla fusione nucleare. Tenendo in mano un cilindro, il dirigente ha spiegato che dentro c'era una piccola capsula sferica con un diametro pari a metà di quello di una palla da basket e che 192 raggi di altrettanti laser sono entrati dalle due estremità del cilindro colpendone la parete interna e depositando energia.

Questo, ha sottolineato, è accaduto in meno tempo di quello impiegato dai raggi ad avanzare di 10 piedi (304 cm), quindi in modo super veloce. I raggi X dalla parete hanno colpito la capsula sferica e il carburante da fusione nella capsula è stato iniettato, quindi la reazione di fusione è iniziata. Tutto questo, ha precisato, era già successo, 100 volte prima. 

Ma la scorsa settimana, per la prima volta, questo esperimento è stato progettato in modo tale che il combustibile di fusione rimanesse abbastanza caldo, abbastanza denso e abbastanza in circolazione da accendersi, producendo più energia di quella che i laser avevano depositato, circa due mega joule in circa tre mega joule in uscita, un guadagno di 1,5. La produzione di energia ha richiesto meno tempo di quanto ne occorra per percorrere un pollice (2,54 cm). 

Usa, "Decenni per l'uso commerciale della fusione nucleare”

Ci vorranno decenni per arrivare all'uso commerciale dell'energia pulita da fusione nucleare dopo l'esperimento in California. Lo ha detto Kim Budil, direttrice del Lawrence Livermore National Laboratory, dove è stato condotto il test. «Ci sono ostacoli molti significativi, non solo a livello scientifico ma tecnologico», ha premesso. «Questa è stata l'accensione, una volta, di una capsula ma per ottenere l'energia commerciale da fusione c'è bisogno di molte cose. Bisogna essere in grado di produrre molti eventi di accensione per fusione per minuto e bisogna avere un robusto sistema di elementi di trasmissione per realizzarli». La ricercatrice prevede che «con sforzi e investimenti concertati, e alcuni decenni di ricerca sulle tecnologie necessarie, saremo nella posizione di costruire una centrale elettrica».

Ci vorrà almeno una trentina d'anni affinché la fusione nucleare passi dall'essere una tecnologia sperimentale a una realtà, con reattori in grado di alimentare le nostre città a emissioni zero: tante le sfide tecnologiche che devono ancora essere superate, sia per la fusione a contenimento inerziale con i laser (quella che ha portato al risultato ottenuto al Lawrence Livermore National Laboratory negli Usa) sia per la fusione a confinamento magnetico (la tecnica del reattore Iter in costruzione nel sud della Francia). 

Lo spiega l'esperto di fusione nucleare Stefano Atzeni, dell'Università La Sapienza di Roma. «Fare previsioni è davvero difficile, perché siamo appena alla soglia della dimostrazione che fisicamente lo schema inerziale funziona, mentre per quello magnetico la prova l'avremo da Iter fra una quindicina di anni», afferma Atzeni. «I tempi saranno sicuramente molto lunghi, almeno una trentina di anni per entrambe le vie, perché restano ancora diverse sfide da superare».

Nel caso del confinamento inerziale serviranno laser più efficienti che possano fare non uno sparo al giorno ma tre o quattro al secondo, con energie di 100-150 megajoule ciascuno contro i 2,5 dell'attuale. Nel caso del confinamento magnetico «bisognerà sviluppare magneti superconduttori sempre più affidabili nel lungo periodo e lavorare sull'estrema complessità del tokamak, la 'caldaia nucleare' a forma di ciambella», aggiunge l'esperto.

Gli scienziati, la fusione e le «bufale». Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 14 dicembre 2022. 

Occorre fare attenzione alla non fare confusione. E soprattutto occorre prudenza: la scienza dà speranze, ma richiede in cambio molta pazienza (anche nel caso della fusione nucleare «calda»)

Il dubbio può nascere, anche solo per assonanza: cosa c’entra la fusione nucleare che imita il meccanismo di funzionamento delle stelle con la fusione fredda? Nulla è la risposta più adatta, anche se di mezzo inciampiamo sempre sugli isotopi dell’idrogeno.

La fusione fredda fu quella che possiamo definire una «bufala» scientifica visto che non è stata replicata e non è stata dimostrata: il 23 marzo del 1989 l’Università dello Utah annunciò i risultati di un esperimento di Martin Fleischmann e Stanley Pons che raccontarono di aver ottenuto reazioni di fusione nucleare con energia pulita e a bassa temperatura (un bel risparmio rispetto all’esperimento di fusione nucleare californiano in cui per produrre circa un kWh il calore è stato di cento milioni di gradi centigradi, superiore alla temperatura dello stesso Sole). Quella teoria è rimasta viva sotto la cenere, tanto che esiste un ramo di ricerca nelle «reazioni nucleari di bassa energia».

È giusto ricordare che nella scienza le bufale sono sempre dietro l’angolo. Talvolta gli stessi scienziati ne sono le vittime in buona fede, ma non sempre. Isaac Asimov si divertiva a scrivere studi verosimili dal punto di vista scientifico, tanto che comprese che la letteratura sarebbe stata la sua strada. Negli anni Ottanta nei prestigiosi Bell Labs emerse la notizia di nuovi super-materiali plastici conduttori. Si scoprì poi, come ricorda il fisico Vittorio Pellegrini che lì lavorava, come i risultati degli esperimenti di Jan Hendrik Schön fossero falsi e costruiti ad arte. Ma senza andare così lontano pochi anni fa la bufala degli esami del sangue con una sola goccia aveva convinto la Silicon Valley. La parabola di Elizabeth Holmes si è conclusa in prigione.

Qual è dunque la lezione? Prudenza: la scienza dà speranze, ma richiede in cambio molta pazienza anche quando, come nel caso della fusione nucleare «calda», non si tratta per niente di una bufala perché, come direbbe Karl Popper, è falsificabile, ma non falsa.

Cosa significa che la fusione nucleare ha prodotto più energia di quella utilizzata? Gloria Ferrari su L'Indipendente il 14 dicembre 2022. 

La notizia ha fatto rapidamente il giro dei giornali: un gruppo di ricercatori statunitensi del Livermore National Laboratory, in California, è riuscito per la prima volta ad ottenere da una reazione di fusione nucleare – il processo che porta due nuclei atomici leggeri a combinarsi tra loro per formarne uno più pesante – più energia di quanta ne avessero impiegata inizialmente per innescarla. È un obiettivo per cui migliaia di scienziati sono a lavoro da decenni, anzi, «da oltre 60 anni», come ha detto la segretaria americana all’Energia, Jennifer Granholm, in conferenza stampa. Un risultato che schiude le porte a quello che, con un certo gusto per il paragone ad effetto, è stato ribattezzato il “santo Graal dell’energia”. Ma che necessità di essere ben spiegato e divulgato nella sua complessità.

Anche se negli ultimi anni in materia sono stati raggiunti risultati soddisfacenti grazie a esperimenti ben riusciti, nessuno era mai arrivato così lontano come il team del Lawrence. Chiariamo subito un punto, fondamentale per evitare sensazionalismi: questo risultato non cambierà le nostre vite, almeno non al momento. È ancora troppo presto per pensare di costruire centrali a fusione nucleare che producano energia pulita in abbondanza. Alcuni studiosi, anzi, ritengono che così in alto non ci arriveremo mai. I più ottimisti, al contrario, credono che tale modo di generare energia non sia impossibile da riprodurre su larga scala e con una certa continuità. Anche in questo caso, però, ci vorranno almeno venti, o trent’anni ancora per ottenere risultati più concreti. Un tempo troppo lungo che ad oggi non possiamo permetterci di prendere nel caso in cui si vogliano rispettare i limiti alle emissioni di CO2 sottoscritti a livello internazionale.

Detto questo: l’obiettivo centrato dagli statunitensi è comunque – giustamente – considerato un passo notevole, che merita di essere raccontato e chiarito. Prima di tutto distinguendo la fissione nucleare – a cui siamo già abituati – dalla fusione, quella innescata dai ricercatori americani. Ad oggi, le attuali centrali nucleari sparse in tutta Europa – e non solo – e di cui si è tornati a discutere dopo la crisi energetica causata dalla guerra in Ucraina, creano energia elettrica attraverso la fissione nucleare. Si tratta di un processo che induce i nuclei di alcuni atomi pesanti (tra cui gli isotopi plutonio 239 e uranio 235) a spezzarsi. Da tale “frattura” si generano nuclei più piccoli, cioè con numero atomico inferiore (dato dal numero di protoni nel nucleo). Questo processo libera una grande quantità di energia termica, che le centrali sfruttano, dopo una serie di processi di trasformazione, per muovere le turbine e produrre energia elettrica.

È un procedimento che ha i suoi vantaggi: genera energia a basso costo e ha un impatto ambientale minore rispetto ai processi che utilizzano combustibili fossili. Tuttavia ci sono almeno un paio di “contro”, punti a cui le persone contrarie alle centrali si appellano spesso: la pericolosità della reazione, che deve essere seguita in ogni sua fase per evitare che se ne inneschi una non voluta, con gravi conseguenze, e la produzione di scorie radioattive, gli “scarti” del processo che hanno bisogno di specifici trattamenti e luoghi in cui essere conservati.

Motivi per cui da decenni i ricercatori tentano in sostituzione la strada della fusione, un processo che imita ciò che accade all’interno del Sole, ma che è difficile replicare sulla Terra. Se nella fissione, come abbiamo detto, i nuclei degli atomi più pesanti vengono spezzati, nel caso della fusione avviene esattamente l’opposto: i nuclei leggeri (è il caso dell’idrogeno, ad esempio) si uniscono a formarne di più pesanti. Tale passaggio rilascia enormi quantità di energia, senza emettere anidride carbonica. Per questo motivo, se si riuscisse ad utilizzare la fusione nei processi quotidiani, avremmo energia pulita, immetteremmo decisamente minore quantità di gas serra nell’ambiente, non ci troveremmo a dover gestire le scorie radioattive della fissione (la fusione produce rifiuti trascurabili), e ridurremmo al minimo i rischi di disastri nucleari. Inoltre i reagenti utilizzati nella reazione sono facilmente reperibili e impiegandone pochi grammi è possibile produrre l’energia di cui ha bisogno una persona in un paese sviluppato in sessant’anni.

In generale l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (iaea) dice che «la fusione potrebbe generare quattro volte più energia per chilogrammo di combustibile rispetto alla fissione (utilizzata nelle centrali nucleari) e quasi quattro milioni di volte più energia rispetto alla combustione di petrolio o carbone».

Tuttavia, come accennato, è un processo che, seppur appaia piuttosto “semplice”, in realtà è molto complicato da replicare, principalmente per il comportamento degli atomi. Questi, per loro natura, tendono a respingersi tra di loro. Per questo motivo, “convincerli” a fondersi implica l’utilizzo di temperature al di fuori della nostra immaginazione, quelle per intenderci raggiunte all’interno del Sole – o nelle altre stelle. Qui si toccano i dieci milioni di gradi Celsius, temperatura che fornisce ai nuclei la forza necessaria per superare la loro reciproca repulsione elettrica, permettendogli di unirsi. Si intuisce che replicare un processo simile sulla Terra implica un dispendio di energia enorme, superiore a quanta poi se ne ricava: è sempre stato così, tranne che per l’episodio californiano.

Non sappiamo quando e se tale evento possa ricapitare. Fare previsioni è impossibile, ma gli investimenti continuano ad arrivare. Ad oggi si sta cercando di raggiungere un punto di fusione con soluzioni alternative, tra cui quella dei Tokamak, enormi macchine in grado di produrre al proprio interno il vuoto e un campo magnetico, elementi che obbligano i nuclei degli atomi ad avvicinarsi ed unirsi, oppure con l’utilizzo di potenti laser. D’altronde la posta in gioco è effettivamente molto alta, e se si riuscisse per davvero a generare energia in maniera differente da come facciamo oggi, ci si troverebbe di fronte ad una vera rivoluzione energetica. [di Gloria Ferrari]

Entusiasmo o scetticismo. La fusione nucleare non va trattata come una distrazione. Fabrizio Fasanella su L’Inkiesta il 16 Dicembre 2022.

Per l’utilizzo commerciale dovremo attendere decenni, ma guardare oltre può anche aiutarci a comprendere meglio le necessità attuali di un pianeta spremuto e deturpato. In ottica futura, questa tecnologia può comportare un minor utilizzo (e una distribuzione più equa) delle risorse naturali. Ne parliamo con Fabrizio Consoli dell’Enea

Tra toni (eccessivamente) trionfalistici e scetticismi talvolta pretestuosi, sui media l’annuncio degli Usa sulla fusione nucleare sta creando più divisioni che dibattiti costruttivi. Da una parte, la scienza ha toccato con mano una fonte di energia che potrebbe garantire elettricità abbondante, stabile, a zero emissioni e senza scorie radioattive. Dall’altra, gli esperti hanno davanti una creatura in fase embrionale che avrà bisogno di decenni per raggiungere gli obiettivi di uso commerciale (e per avere effetti concreti sulle nostre vite). 

Dunque, prima di approfondire il rapporto tra la fusione nucleare e le varie tematiche ambientali, è necessaria una premessa che dovrebbe essere scontata: il risultato del Lawrence Livermore National Laboratory è (e sarà) totalmente irrilevante nella lotta alla crisi climatica. Un’emergenza attualissima, caratterizzata da sfide e target incompatibili con lo sviluppo su larga scala della fusione nucleare, che, rispetto alla già consolidata fissione, genera energia unendo nuclei leggeri al posto di spezzare i nuclei di atomi pesanti. 

Parlare di rivoluzione energetica, di elettricità accessibile a tutti e di un mondo non inquinato, più democratico e giusto è fuorviante e affrettato. La neutralità carbonica al 2050 e i vari obiettivi climatici intermedi verranno raggiunti solo grazie all’abbandono delle fonti fossili, allo sviluppo delle rinnovabili e a un ripensamento radicale del sistema produttivo che domina all’interno della nostra società.

L’esperimento statunitense non va però trattato come una distrazione da ciò che dobbiamo fare oggi a livello di mitigazione e adattamento alla crisi climatica. È una novità di enorme importanza, e guardare oltre può aiutarci anche a comprendere meglio le necessità attuali di un pianeta costantemente sotto pressione. La potenziale diffusione delle centrali a fusione, infatti, potrebbe comportare un minor utilizzo (e una distribuzione più equa) delle risorse naturali e un azzeramento delle emissioni per produrre energia. Ne abbiamo parlato con Fabrizio Consoli, capo della task force INER (Research and Technologies for Inertial Fusion) presso l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile (Enea), che vanta l’unico impianto laser italiano (laser ABC) da utilizzare per studi sulla fusione nucleare a confinamento inerziale. 

L’esperimento annunciato questa settimana non risolverà la crisi climatica e la povertà energetica, ma rimane un passo avanti degno di nota: perché? 

«Non era scontato arrivare a questo punto. Il laser Nif (National ignition facility), costruito più di quindici anni fa, sembrava avesse fallito. Esserci riusciti significa che è possibile avere un guadagno maggiore di uno. Cosa significa? Irradiare una sfera con dei laser e produrre più energia da fusione rispetto a quella dei laser che l’hanno irraggiata. C’è ancora tantissimo da fare: il bilancio energetico non è sufficiente. Il guadagno ora è di 1,5, e deve essere almeno cento volte più ampio. Bisogna produrre almeno cento volte l’energia che si ottiene adesso. Nel 2015, però, l’energia tirata fuori era cento volte meno rispetto a ora: questa è la notizia importante. C’è stato un incremento di guadagno di un fattore cento. Adesso serve un altro cento: non è così facile e non si può dire che in sette anni lo faremo, perché più si cresce più bisogna migliorare la tecnologia dei laser». 

In che modo, nel lungo periodo, la fusione nucleare avrà ripercussioni positive sul clima e l’ambiente?

«Aiuterà sicuramente a livello di decarbonizzazione perché non produce anidride carbonica, ma farà anche molto altro: è questo il bello. Il problema non sono solo la CO2, l’effetto serra, la fusione dei ghiacciai, eccetera. Le difficoltà attuali sono anche dovute a una distribuzione diseguale delle risorse naturali. E poi l’energia elettrica costa tantissimo. Il reattore a fusione sarà il Santo Graal per il seguente motivo: il combustibile si ottiene dall’acqua, l’acqua è ovunque. E non parliamo necessariamente di acqua potabile. La quantità di energia in un litro di acqua è enormemente più alta della quantità di energia in un litro di benzina. Grazie alla fusione si utilizzeranno meno risorse, e queste risorse saranno distribuite in modo più equo nel mondo».

Poi c’è anche il tema della sicurezza.

«Nelle centrali a fusione non ci saranno le scorie come nelle centrali a fissione. Le prime sono più sicure. La fusione ha bisogno di tanta energia per essere innescata: se noi togliamo quella quantità di energia, semplicemente non accade niente. È il motivo per cui una centrale a fissione ha bisogno di materiali che servono ad assorbire neutroni e ad evitare reazioni a catena, ma nella fusione non è così. Non siamo ancora arrivati all’obiettivo finale perché, per ora, ci vuole troppa energia per farlo, ma in futuro se ne produrrà molta di più». 

Quali sono le prossime sfide?

«Il laser utilizzato negli Usa è di quindici anni fa e può “sparare” più o meno due volte al giorno. Per ottenere una centrale a fusione è necessario avere laser che sparano in maniera continua, che abbiano una maggior frequenza di ripetizioni. Dalla dimostrazione bisogna poi arrivare al resto, a un apparato che sia commercialmente adeguato. Adesso costa tutto tanto perché sono tutti prototipi. In futuro andremo a ottenere qualcosa di ottimizzato, di meno costoso e di riproducibile in scala. Oltre ai laser, va specificato, servono anche bersagli più efficienti e ottimizzati. I bersagli possono essere migliorati nella struttura, nella forma e nei materiali, in modo tale che ci sia più energia che venga trasferita al bersaglio dal laser». 

Come sarà una centrale a fusione?

«Sarà come una centrale a fissione: cambia semplicemente la reazione e tutto ciò che serve per innescarla. Alla fine si produrrà sempre energia termica che riscalderà l’acqua, farà partire la ventola e la turbina. E infine si creerà energia elettrica. Cambiano il combustibile e il metodo per accenderlo». 

Quanto tempo ci vorrà per arrivare a questo punto? 

«Ci sono delle motivazioni tecnologiche che portano a dire che passerà un po’ di tempo: non meno di qualche decina d’anni come minimo, ma non stiamo sicuramente parlando di un secolo. I numeri a una cifra che si leggono in giro non sono pensabili». 

Serve uno sforzo globale per arrivarci. 

«Il risultato degli americani è stato conseguito perché loro investono seicento milioni di dollari l’anno e hanno un macchinario da tre miliardi e mezzo di dollari. Noi non abbiamo fondi da nulla, se non da un finanziamento – fornito da Eurofusion – da cinquecento milioni di euro totali, divisi per sette, otto o dieci gruppi. Gli Usa da soli non possono farcela: hanno bisogno del nostro aiuto, che già stiamo dando perché pubblichiamo risultati importanti sulle principali riviste scientifiche. Servono strutture laser più potenti che consentano il salto, e ovviamente più personale». 

L'illusione della fusione fredda e dell'energia pulita. Linda Di Benedetto il 16 Dicembre 2022 su Panorama

Dietro gli annunci arrivati dagli Usa alla dura verità: per creare energia ad uso civile ci vorranno decenni. Se mai si riuscirà a farlo

Negli Stati Uniti per la prima volta si è dimostrato su base scientifica l’efficacia del confinamento inerziale per ottenere la fusione nucleare, il primo passo verso l'energia pulita. Nella struttura sperimentale del Lawrence Livermore National Laboratory l'esperimento di fusione nucleare ha prodotto infatti più energia di quella necessaria per innescarla. L’esperimento, ha dichiarato la segretaria all’Energia Jennifer Granholm, ha ricreato «alcune condizioni che si trovano solo nelle stelle e nel sole. Questa pietra miliare ci avvicina di un passo significativo alla possibilità di avere un’energia a emissioni zero di carbonio che alimenti la nostra società». Ma nella conferenza stampa si è sopratutto sottolineato sin dalle prime battute l’aspetto legato ai test nucleari e non all’uso civile dove è stato ribadito che la fusione nucleare inerziale è stata studiata per mantenere: “la deterrenza nucleare sicura, protetta, efficace e affidabile senza test nucleari sotterranei perché la fusione inerziale è un processo chiave per le armi termonucleari”. Certamente una svolta storica dal punto di vista scientifico ma poco praticabile per la produzione di energia. «L’esperimento definito svolta storica non servirà a produrre energia per uso civile. È certamente un primo passo ma siamo molto lontani  dalla svolta storica e dal punto di vista energetico non ha nessuno significato» commenta il fisico Emanuele Negro Cosa può dirci sull’esperimento di Washington? «Ho ascoltato la conferenza stampa del DOE americano e c'è una forte enfasi sull'aspetto militare dell'esperimento per il cosiddetto programma nuclear stockpile stewardship, ovvero il mantenimento in efficienza dell'arsenale nucleare che poco ha a che fare con la produzione di energia per uso civile. Perché in questo tipo di fusione inerziale l’energia prodotta dura un miliardesimo di secondo. Quindi è impossibile usare questo esperimento come modello per un reattore nucleare perché non potrà mai produrre energia in modo continuo. È interessante dal punto di vista della ricerca fondamentale ma non bisogna confondere questo con una ricerca finalizzata ad una dimensione industriale, sennò si gioca sull’equivoco. Al momento la fusione nucleare è una fonte energetica che non esiste». Qual è la differenza con il progetto Iter? «Sono due modalità completamente diverse. Questa si basa sulla 'compressione' di una pallina di deuterio e trizio ad opera di laser fino ad ottenere la fusione dei nuclei. È un processo altamente impulsato e non ci sono ipotesi su come raccogliere l'energia prodotta dalla fusione. Mentre Iter ha invece le componenti attorno al tokamak previste per recuperare l'energia di fusione per un successivo utilizzo per la produzione di elettricità, in vista di un futuro reattore commerciale. Iter e Ignitor sono dei reattori di tipo tokamak, il principale filone di ricerca degli ultimi 50 anni che nasce da un progetto russo consistente nel confinare grazie a dei campi magnetici il plasma che scaldato porta alla fusione dei nuclei di deuterio e tritio cercando di far durare il processo il più a lungo possibile per ottenere una produzione di energia semi-continua. L'esperimento di fusione inerziale recentemente realizzato nel laboratorio americano Lawrence Livermore invece non è concepito per raccogliere energia ma per capire la fisica dei processi di fusione di una miscela di deuterio-tritio in seguito ad una forte compressione ad opera di laser, un processo molto simile a quello che permette ad una bomba H di esplodere». Si arriverà mai a produrre energia con la fusione nucleare? «È impossibile stabilire quando ci saranno dei progressi che portino alla produzione di energia con la fusione nucleare. Anni fa ho realizzato per conto del Parlamento Europeo uno studio sulla fattibilità della fusione. In quell'occasione avevo intervistato i direttori dei principali centri europei di ricerca sulla fusione. In modo molto chiaro, alle volte esplicitato apertamente, altre confidenziale, erano tutti concordi sul fatto che si trattasse di un'avventura scientifica straordinaria, ma che ben difficilmente avrebbero visto nel corso della loro vita un reattore commerciale. Per darle un'idea dei tempi necessari, quando lavoravo al progetto Jet negli anni 80 si stava progettando la macchina che si chiamava Next e che poi è divenuta Iter e che oggi dopo 30 anni non è ancora in funzione. Ecco penso che questa questione dei tempi e delle risorse dovrebbe essere molto chiara. La transizione energetica richiede risposte rapide ed è fattibile con risorse tecnologiche attuali; pensare che la risposta possa venire dalla fusione è del tutto fuorviante perché una possibile sua realizzazione non è compatibile coi tempi imposti dall'uscita dalle fonti fossili

Nucleare nel futuro dell'Italia? Rubbia e Di Tizio a confronto. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 24 Ottobre 2022.

Il nucleare nel futuro dell’Italia, Quotidiano del Sud incontra il premio Nobel Carlo Rubbia e il presidente Wwf Italia Luciano Di Tizio

Lo sfruttamento dell’energia nucleare in Italia è avvenuto tra il 1963 e il 1990. Le cinque centrali che avevamo sono state chiuse per raggiunti limiti d’età, ma soprattutto dopo l’esito dei referendum del 1987. Il dibattito sulla sua eventuale reintroduzione si svolse dal 2005 al 2008, ma poi evaporò dopo il referendum del 2011 con cui vennero abrogate alcune disposizioni concepite per agevolare l’insediamento delle centrali. Il nucleare ha fatto capolino nei programmi elettorali del Centrodestra e di Azione e Italia Viva nei capitoli dedicati all’energia, di cui abbiamo dato conto su queste colonne.

Il Quotidiano del Sud ha intervistato Carlo Rubbia, Premio Nobel per la fisica nel 1984, ex direttore del Cern e dell’Enea, accademico e senatore a vita e Luciano Di Tizio, giornalista professionista e Presidente del WWF Italia.

IL FUTURO DEL NUCLEARE IN ITALIA SECONDO RUBBIA E DI TIZIO

Nel futuro dell’Italia c’è posto per l’energia nucleare?

Rubbia: “Chi può dirlo? E’ una scelta politica. Gli studi di cui disponiamo adesso concludono che, con il suo 27% della produzione totale d’elettricità, l’uso dell’energia nucleare aumenterà di due volte e mezzo entro il 2030 e si quadruplicherà nel 2050. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA), l’avverarsi di uno dei vari futuri previsti per l’energia nucleare dipende da un certo numero di fattori”.

Di Tizio: “Assolutamente no, salvo non ci sia davvero un’innovazione tecnologica che oggi appare a dir poco lontanissima. Il nucleare è stato sottoposto a consultazione referendaria due volte e in entrambi i casi sonoramente bocciato dalla maggioranza. Quindi non c’è spazio per un ritorno indietro”.

Three Mile Island, Chernobyl e Fukushima. Gli spettri degli incidenti fanno paura.

Rubbia: “Non esiste un nucleare sicuro o a bassa produzione di scorie. Esiste un calcolo delle probabilità, per cui ogni cento anni un incidente nucleare è possibile: e questo evidentemente aumenta con il numero delle centrali. Si può parlare, semmai, di un nucleare innovativo. L’energia da fissione nucleare è basata principalmente sull’uso dell’uranio, con la produzione per milioni di anni di grandissime quantità di scorie altamente radioattive e per le quali manca ancora una soluzione accettabile”. 

Di Tizio: “In primo luogo dobbiamo dire che la fonte nucleare copre in questo momento nel mondo soltanto l’1,6% dei consumi primari di energia. Davvero molto poco, rispetto alle altre fonti energetiche, sia di fonte fossile, sia rinnovabili, come eolico e fotoelettrico. Inoltre lo spettro degli incidenti è sempre in agguato e nel nucleare gli incidenti possono essere disastrosi e irreparabili”.

RUBBIA DI TIZIO E I DUBBI SULLA VOGLIA DI NUCLEARE

Nonostante tutto, c’è ancora voglia di nucleare.

Rubbia. “Sa quand’è stato costruito l’ultimo reattore negli Stati Uniti? Nel 1979, trent’anni fa! E sa quanto conta il nucleare nella produzione energetica francese? Circa il 20%. Ma i costi altissimi dei loro 59 reattori sono stati sostenuti dallo Stato per mantenere l’arsenale atomico. Ricordiamoci che per costruire una centrale occorrono 8-10 anni di lavoro, che la tecnologia proposta si basa su un combustibile, l’uranio appunto, di durata limitata. Poi resta, in tutto il mondo, il problema delle scorie”.

Di Tizio. “Una voglia basata su scarsa conoscenza, da parte dei politici, di quello di cui parlano. Basterebbe riflettere sul fatto che il nucleare non è appetito assolutamente dagli investitori privati. In tutto il mondo infatti non è mai stato costruito un reattore in cui gli investitori abbiamo assunto il rischio connesso all’energia nucleare. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire semplicemente che il libero mercato, almeno nei Paesi occidentali, non è affatto interessato ad una fonte estremamente costosa, poco redditizia e altamente pericolosa. Chi lo fa sono gli Stati. Infatti la gran parte del ncleare è sostenuto dagli Stati o da Paesi in cui la libera iniziativa economica privata non ha spazio”.

CONTROINDICAZIONI NUCLEARE, RUBBIA E DI TIZIO AGLI ANTIPODI

A parte la sicurezza, ci sono altre controindicazioni?

Rubbia: “Non ce ne sono, né dal punto di vista teorico, né da quello scientifico, o delle tecnologie. I limiti, se mai, derivano dal fatto che l’uranio, come altre risorse, è limitato. Se il gap tra l’estrazione corrente e il consumo è oggi intorno alle 20mila tonnellate, entro meno di dieci anni, l’uranio si esaurirà. Anche se ulteriori esplorazioni sono necessarie per confermare questo dato, si stima che l’uranio contenuto nelle rocce di fosfato porterebbe le riserve a 22 milioni di tonnellate”.

Di Tizio: “Le controindicazioni sono tante. Tanto per cominciare gli incidenti del passato confermano che la sicurezza con il nucleare non esiste. In più i costi sono elevatissimi e non è facile sostenerli, anche se questo venisse fatto esclusivamente dagli Stati. Inoltre c’è il problema, rilevantissimo, delle scorie nucleari e in ogni caso il nucleare non ridurrebbe in Italia la dipendenza energetica, perché di uranio e torio non ne abbiamo e dovremmo acquistarli dall’estero ”.

NUCLEARE DI NUOVA GENERAZIONE, SOGNO O REALTÀ?

Le centrali di nuova generazione sono effettivamente più sicure e producono meno scorie come si sostiene?

Rubbia: “L’alternativa alla fissione attuale è rappresentata dall’uso del torio (un elemento chimico radioattivo – ndr) al posto dell’uranio. Il reattore all’uranio può essere sostituito in maniera relativamente semplice con un reattore al torio. Anche se la radiazione prodotta inizialmente e quella dovuta ai prodotti di fissione sono confrontabili ed estremamente elevate, la vita media delle scorie è molto più breve e permette ad esempio di ritornare alla radioattività iniziale del torio (prima dell’uso) dopo un tempo di meno di mille anni invece di centinaia di migliaia come nel caso dell’uranio”. 

Di Tizio: “Quella delle centrali di quarta generazione è solo una speranza degli scienziati non una realtà. In più c’è il problema, mai risolto, delle scorie. Noi abbiamo tutt’ora in Italia, come ce li hanno altri Paesi del mondo, scorie radioattive delle centrali dismesse e non c’è una soluzione. Quando si dice che si metteranno in un posto sicuro dove dovranno restare per centinaia di anni si dice una cosa non vera: anzitutto dovranno restare stoccate non per centinaia, ma per centinaia di migliaia di anni, e per di più esse rappresentano un pericolo per la salute della popolazione. C’è inoltre un dibattito scientifico importante che non va dimenticato secondo il quale è possibile che aumentino i casi di leucemia infantile e di altre patologie nelle popolazioni che abitano vicino alle centrali nucleari. Sfruttare una fonte di energia che all’attuale stato delle conoscenze è pericolosa, non è particolarmente redditizia, e produce rifiuti pericolosi non ha senso. Sarebbe una follia. Molto meglio, invece, puntare e investire sulle rinnovabili”.

LE NECESSARIE RIFORME NORMATIVE

L’Aie pone come condizione dello sviluppo del nucleare una modifica del quadro normativo.

Rubbia: “Quello che dobbiamo sapere è una cosa sola: il petrolio e gli altri combustibili fossili sono in via di esaurimento, ma anche l’uranio è destinato a scarseggiare entro 35-40 anni, lo stesso vale per l’oro, il platino o il rame. Non possiamo continuare a elaborare piani energetici sulla base di previsioni sbagliate che rischiano di portarci fuori strada. Dobbiamo soppesare i pro e i contro. Ma non bisogna avere pregiudizi. Se il nucleare in futuro rendesse possibile sfruttare questa fonte energetica perché non farvi ricorso?”

Di Tizio: “Il quadro normativo può cambiare finché vogliamo ma le difficoltà e le obiezioni di cui ho parlato restano tutte. Gli svantaggi del nucleare sono maggiori, rispetto a quelli di altre fonti energetiche. La scelta nucleare è politica, ma deve tener conto, da una parte, delle esigenze energetiche, dall’altra dei rischi. Una energia nucleare esente da rischi non esiste. E gli incidenti ricordati in una delle sue domande all’inizio dell’intervista lo dimostrano ampiamente. La guerra in Ucraina lo conferma: abbiamo tenuto il fiato sospeso quando apprendevamo le notizie di bombardamenti nei pressi della centrale nucleare di Zaporhizhia dal 4 marzo scorso occupata dalle forze armate russe, durante la battaglia di Enerhodar”.

La corsa al nucleare. Nucleare, il sondaggio che gli eco-talebani non vi fanno vedere. Quasi un italiano su due è favorevole alla costruzione di nuove centrali nucleari. E c’è la sorpresa degli elettori di centrosinistra. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it. il 15 Ottobre 2022

Italiani contrari al nucleare? Se nel referendum del 1987 ed in quello abrogativo del 2011, la popolazione aveva dato un chiaro segnale, un secco no, all’energia nucleare del nostro Paese; a partire dall’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina, gli animi sono totalmente cambiati, anche se lo scacchiere politico di centrosinistra, Movimento 5 Stelle su tutti, esprime da sempre la sua contrarietà.

Il pezzo di questa mattina a firma di Giuseppe De Lorenzo, sulle colonne de IlGiornale.it, ha rivelato un clamoroso sondaggio, compiuto da IZI spa, società specializzata in rilevazioni demoscopiche: “Il 49,7 per cento degli intervistati si dice favorevole alla costruzione in Italia di centrali nucleari”, a cui si affianca un 33 per cento contrario, insieme ad un minoritario 18 per cento di indecisi. Percentuali pazzesche, se consideriamo che, solo trent’anni fa, l’ottanta per cento degli italiani chiamati al referendum avevano espresso la loro netta contrarietà.

Ma l’analisi non finisce qui. De Lorenzo spiega come “tra le ragioni del sì spicca la necessità di garantire all’Italia indipendenza energetica (46,9 per cento)”, quindi richiamandosi alla crisi del gas e dell’energia, dovuta alla guerra in Ucraina. Un altro 41 per cento degli intervistati ritiene che le centrali siano “moderne e sicure”. E ancora: il 36,3 le considera un “passo necessario” verso nuove fonti pulite.

Sul lato opposto, invece, quasi il 45 per cento dei detrattori è convinto di danneggiare la transizione ecologica (anche se è stata pure Greta Thunberg ad aprire al nucleare, intesa come fonte non impattante sull’ambiente); per poi passare al “rischio incidente”, “la paura per i rifiuti radioattivi” e il “terrore che fenomeni naturali catastrofici o conflitti armati possano danneggiare gli impianti”.

Diversamente spaccato è però lo scenario elettorale: i sostenitori della coalizione di centrodestra tendono ad essere favorevoli alla costruzione di centrali nucleari, con Lega e FdI che contano percentuali pari al 57,8 e 63,2 per cento; per arrivare alla punta dei votanti del Terzo Polo, dove i pro-nucleare raggiungono il picco dell’82 per cento degli intervistati.

Sorprendente è lo scenario del centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle, infatti, tra i maggiori partiti anti-nucleare, consta di un bel 43,7 per cento di favorevoli; percentuale che si abbassa per Verdi e Sinistra Italiana, ma che rimane considerevolmente alta: 40,3 per cento. La ragioni, secondo Giacomo Spaini, amministratore delegato di IZI spa, sono chiare: “Molte persone lo percepiscono come una necessità per ragioni innanzitutto economiche; perché le fonti di energia sostenibile sono viste come difficilmente realizzabili su larga scala”. E sgancia la bomba finale: “Se oggi in Italia fosse fatto un nuovo referendum sul nucleare, non credo sarebbe assicurata una vittoria del no”.

Matteo Milanesi, 15 ottobre 2022

Paolo Russo per “la Stampa” il 13 ottobre 2022.  

Mentre ci si accapiglia sul ritorno al nucleare, caldeggiato ora anche da Greta Thunberg, l'Italia è ancora li a sfogliare la margherita su dove mettere in sicurezza quelle circa 100 mila tonnellate di rifiuti radioattivi, oggi stipati in depositi di fortuna o dentro le stesse vecchie centrali nucleari. Da alcuni giorni circolano cartine apocrife delle aree idonee. La mappa Cnai che ridurrebbe per ora da 67 a 58 i siti tra i quali scegliere quello idoneo ad ospitare quell'araba fenice che dopo oltre vent' anni è diventato il deposito unico nazionale delle scorie radioattive.

Qualcosa come 50 mila tonnellate di rifiuti considerati di basso e medio livello di radioattività, provenienti principalmente dalle quattro centrali nucleari dismesse. Ai quali si aggiungono 28 mila metri cubi prodotti dal settore medico e industriale, più altri 17 mila prodotti da altre attività, come quelle di ricerca. 

Dalla originaria mappa messa a punto da Sogin, la società di Stato incaricata del decommissioning, ossia dello smaltimento dei rifiuti nucleari, sarebbero state depennate le aree della provincia di Torino - Rondissone e Carmagnola - che pure nella prima mappatura rientravano tra quelle giudicate altamente idonee.

Confermati sarebbero invece i siti dell'alessandrino, tra i quali quelli di Castelletto-Quargnento e l'area Bosco Marengo-Novi, le uniche ad aver conseguito votazione piena con lode per ospitare un deposito che però nessuno vuole, ma dal quale dipende la messa in sicurezza di questa montagna di scorie radioattive che rischiano di diventare da subito un'altra patata bollente per il nuovo governo. 

 Dal ministero della Transizione ecologica smentiscono qualsiasi depennamento, «perché l'istruttoria è tutt' ora in corso». E non si concluderà nemmeno così presto, visto che come comunicato proprio dal Titolare del dicastero, Roberto Cingolani, la scelta finale non avverrà prima del dicembre 2023, mentre il deposito dovrebbe diventare operativo nel 2029. Ma l'altra data da cerchiare in rosso è il 2025, perché se non ci si darà una mossa avviando per allora i lavori, l'Italia incapperà nel procedimento d'infrazione che la Commissione Ue è pronta ad aprire se continueremo ad accumulare ritardi.

«Andiamo a rilento perché la gestione dei rifiuti radioattivi è sempre andata avanti con la logica del "tanto ci pensa il prossimo governo"», lamenta il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani. «Intanto enormi quantità di rifiuti radioattivi si trovano sparpagliati in decine di siti provvisori, alcuni inidonei allo scopo, altri decisamente pericolosi. Comer quello della Cemerad a Statte, in provincia di Taranto, dove nel capannone arrugginito di un'azienda oramai fallita sono stipati migliaia di fusti contenenti materiali radioattivi», denuncia sempre il presidente di Legambiente. 

Per il quale «Sogin è colpevole di gravissimi ritardi nell'opera di smantellamento delle centrali, mentre il governo dovrebbe coinvolgere con più trasparenza i territori». Facile a dirsi, meno a farsi, perché fin dalla pubblicazione della prima mappa dei siti candidati ad ospitare il deposito nazionale è stata tutta una sollevazione di scudi da parte delle Regioni e dei Comuni interessati.

«Netta contrarierà» l'ha espressa il consiglio regionale della Toscana, mentre quello pugliese ha approvato all'unanimità una mozione che impegna la giunta regionale a far desistere il Governo, anche facendo fronte comune con le regioni confinanti, come la Basilicata, anch' essa tra le aree candidate a quello che nessuno giudica un premio. La Sicilia a sua volta ha messo le mani avanti appellandosi «alle caratteristiche sismiche, ambientali» e persino "culturali" del suo territorio.

Un no deciso lo hanno espresso anche i comuni sardi segnati in rosso dalla mappa di Sogin, mentre in Piemonte affianco ai sindaci dei comuni interessati sono scesi in campo i parlamentari locali, la regione e la Città metropolitana di Torino. Nessuna area idonea ha invece individuato la regione Lazio, favorevole al deposito unico, ma ovviamente altrove. 

 Storie già viste con termovalorizzatori e gassificatori, anche se il deposito nazionale, nei progetti di Sogin, diventerebbe anche un centro di eccellenza per la ricerca scientifica, con la possibilità di riutilizzare in ambito medico parte delle scorie. Progetti che non sembrano intaccare il fronte del no con il quale spetterà ora al governo Meloni fare i conti.

Atomo o carbone? E Greta scoprì la Realpolitic del male minore. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 30 Ottobre 2022.

La giovane attivista svedese, che sta lanciando il suo libro, ha agitato il mondo ambientalista per una presunta apertura al nucleare. Vediamo che cosa ha detto (e a chi) 

Greta Thunberg è ancora fra noi. Alla vigilia dell’uscita del suo terzo libro, scoppia tempestiva la polemica per le ultime esternazioni della teenager svedese, poi annacquate dall’entourage. La fondatrice del movimento FridaysForFuture non ha “sdoganato” le centrali nucleari, assicurano. Nessuna folgorazione sulla via dell’atomo per l’ex Pippi Calzelunghe dell’ambientalismo, che ormai centellina le uscite pubbliche e sui social in favore delle apparizioni tv per presentare The Climate Book. Alla Bbc ha ribadito di non voler entrare in politica - «troppo tossica» - ma le sue parole agitano ancora leader e partiti. Interpellata dalla Tv tedesca Ard sulla chiusura delle centrali nucleari in Germania, ha detto: «Dato che ci sono, sarebbe un errore chiuderle e passare al carbone».

Effetti collaterali

Tanto è bastato per scatenare il finimondo tra i Verdi tedeschi, il cui presidente Robert Habeck è pure ministro dell’Economia e della Protezione climatica, e per rafforzare i toni tra i sostenitori del Nuclear Power, in Germania come in Italia. Dopo il disastro di Fukushima, il governo Merkel decise la chiusura di tutte le centrali nucleari entro fine 2022. Per far fronte all’attuale crisi energetica, il premier socialdemocratico Olaf Scholz ha annunciato la riapertura di dieci centrali a carbone mentre le ultime tre centrali nucleari in funzione (che utilizzano uranio russo) dovrebbero chiudere fra dicembre e aprile. La frase di Thunberg ha riacceso il dibattito. Se l’estrema destra di Alternativa per la Germania plaude a «una Greta diventata grande», i liberali al governo con Spd e Verdi ribadiscono l’importanza dell’atomo «per ragioni fisiche, economiche e climatiche».

Il male minore

Greta ha smussato, via Twitter: «È importante fare attenzione a coloro che ascoltano la scomoda verità solo quando si adatta alla loro agenda... Alimenta solo guerre culturali». Ormai però il polverone si era alzato, forse non troppo involontariamente. L’attivista con sindrome di Asperger ha imparato l’arte della Realpolitik, e fra quelli che considera due mali - il carbone e il nucleare - ha scelto il minore: se in Germania chiudere le centrali nucleari significa riaprire quelle a carbone, meglio lo status quo. Non dà però il via libera a nuove centrali, che - ha detto in più occasioni - sono costose, richiedono molto tempo per la costruzione e presentano gravi rischi associati. Anche gli scienziati dell’Ipcc, il forum Onu sul cambiamento climatico, d’altronde sostengono che il nucleare può contribuire a un mix energetico senza carbone, in particolare nei Paesi dove è impossibile usare le rinnovabili su larga scala (non è il caso italiano), pur sottolineando gli alti costi e i rischi di questa scelta.

Il valore del contesto

«La dichiarazione di Greta va inserita nel contesto della Germania, che installerà 20 gigawatt all’anno di rinnovabili entro il 2030 contro i miseri 1,2 gigawatt dell’Italia. I tedeschi puntano ad ottenere l’80% dell’energia da fonti rinnovabili entro fine decennio» commenta Elena Grandi della direzione nazionale di Europa Verde. «In Italia il contesto è molto diverso, noi non abbiamo centrali nucleari in funzione, ci metteremmo dieci anni a costruirne una e con costi folli, denaro che potrebbe essere investito nello sviluppo delle rinnovabili».

La “realista” Greta intanto dà una bella spinta all’uscita del suo libro (il 2 novembre in Italia per Mondadori), cui hanno contribuito un centinaio di scienziati, intellettuali e attivisti, tra cui gli scrittori Margaret Atwood e Amitav Ghosh, e l’economista francese Thomas Piketty, che propone di tassare “equamente” i ricchi: «Per decarbonizzare trasporti, energia e produzione servono miliardi di euro, che rappresentano ogni anno il 2% del PIL globale». The Climate Book è un manuale sulle crisi climatico-ambientali, ma anche sull’ecologismo di facciata oggi molto di moda. Ne scrive Greta - per «imparare, dimostrare e scoprire il greenwashing in tutto il mondo» - e anche l’attivista canadese Naomi Campbell in un breve pamphlet intitolato Togliamo i soldi dalla politica.

Greta Thunberg 'ammazza' i Verdi: "Meglio il nucleare". Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 ottobre 2022.

Parafrasando un celebre motto di Ronald Reagan si potrebbe dire che chi da ragazzo non è ambientalista è senza cuore, chi lo resta da adulto è senza testa. Ecco, forse con il passare degli anni è possibile che persino a Greta Thunberg stia venendo un po' di sale in zucca. La fase del cuore la conosciamo fin troppo bene. La ragazzina svedese nell'agosto del 2018 ha smesso di andare a scuola e si è piazzata davanti al Parlamento, in vista delle elezioni, per protestare contro l'inerzia della politica sul cambiamento climatico. Poi si è limitata a marinare la scuola solo il venerdì.

Ma a quel punto era già diventata una star. Alla testa del movimento ecologista mondiale Fridays for future, oltre a manifestare in piazza si è recata in ogni angolo del mondo (sempre muovendosi con mezzi sostenibili) per insultare, su richiesta, i più autorevoli esponenti istituzionali del mondo occidentale, dai vertici dell'Ue a quelli delle Nazioni unite, accusati di blaterare sull'ambiente senza muovere un dito per difenderlo davvero. Il sogno di Greta è esattamente l'incubo che stiamo vivendo in Europa in questi giorni: un mondo senza combustibili fossili, senza fornelli a gas e senza caldaie.

GIOVANE SVEDESE - La giovane svedese è stata finora poco interessata alla realtà: bisogna ridurre in fretta le emissioni di Co2, costi quel che costi. Di fronte agli effetti collaterali della crisi energetica, che sta ovviamente provocando una brusca frenata sugli ambiziosi (e inarrivabili) obiettivi della lotta al cambiamento climatico, però, la più famosa attivista dell'ambiente sembra aver deciso di dare una cocente delusione ai suoi seguaci. Sarà difficile per i militanti di Fridays for future credere alle sue parole, ma Greta ha invitato la Germania ad avere più coraggio sulle centrali nucleari e a lasciarle aperte ben oltre la proroga che il governo rosso-verde di Scholz, non senza critiche, ha fissato all'aprile del 2023. Possibile? Sentite qua.

«Se ancora sono in funzione credo che sarebbe un errore spegnerle e passare al carbone», ha affermato, intervenendo al talkshow di Sandra Maischberger, in onda stasera sul canale ARD, secondo una anticipazione della Dpa. «È una cattiva idea» puntare sul carbone se «l'altro» è ancora in funzione, ha insistito.

Ora, direte voi, che c'è di strano nel pensare che l'energia dell'atomo, praticamente a zero emissioni, sia preferibile a quella prodotta da una puzzolente e superinquinante centrale a carbone? Beh, andatelo a raccontare agli attivisti di Extinction Rebellion, che lo scorso febbraio hanno preso d'assalto la sede del ministero della Transizione ecologica perché Roberto Cingolani si era permesso in qualche intervista di dirsi favorevole alla ricerca sul nucleare di quarta generazione. Oppure parlatene con gli ambientalisti di mezza Europa, che a luglio sono insorti contro la decisione del Parlamento europeo di inserire il gas e il nucleare nella tassonomia delle fonti considerate "lecite" durante la transizione ecologica. Tra loro, fra l'altro, c'era pure Greta, che liquidò la mossa come «una falsa soluzione». 

Quanto al nucleare, la Thunberg nel 2019, pur riconoscendo che l'Onu lo considera «una piccola parte di una nuova soluzione energetica a zero emissioni di carbonio», si era detta «personalmente contraria» a questo tipo di energia, che è «estremamente pericolosa, costosa e richiede tempo».

RIVELAZIONI - Insomma, l'improvvisa conversione all'atomo appare come il più classico dei "contrordine compagni". In realtà, che la "testa" dentro la Thunberg stesse crescendo si poteva capire anche da alcune rivelazioni, opportunamente silenziate dal mondo ambientalista, fatte nel novembre del 2021 da Francesco Giavazzi, l'ormai ex consigliere economico di Draghi. «Quando abbiamo incontrato Greta», spiegò, «ha dovuto convenire con noi sul fatto che per portare a termine la transizione con il massimo della velocità ci vorrebbero comunque vent' anni. E durante questa transizione cosa facciamo, usiamo il carbone? Risposta: "No, l'energia nucleare"». La speranza è che ora Greta, accanto agli anatemi contro le cannucce di plastica, spieghi anche ai suoi accoliti i pregi dell'atomo. Poi resterà il lavoro più difficile: spiegare in Italia a Verdi, Pd e Cinquestelle che il nucleare non è uno strumento del diavolo, ma il modo migliore e più sano di produrre energia in attesa che le lavatrici vengano fatte girare dalle pale a vento. 

Il dibattito in Germania e in Italia. Greta Thunberg nucleare, l’apertura dell’attivista sulle centrali: “È un errore chiuderle per passare al carbone”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Ottobre 2022 

“Se ancora sono in funzione credo che sarebbe un errore spegnerle e passare al carbone”. Greta Thunberg entra nel dibattito sulle centrali nucleari in corso in tutta Europa, e in particolare in Germania, e la sua opinione fa discutere. L’attivista svedese che con le sue proteste ha dato vita al movimento ambientalista dei Fridays for Future è intervenuta al talkshow di Sandra Maischberger sul canale ARD. Le anticipazioni dell’intervista sono state date dall’agenzia Dpa.

Per Greta Thunberg “è una cattiva idea puntare sul carbone” se “l’altro” è ancora in funzione. La priorità, ha aggiunto, dovrebbe essere data sempre alle fonti rinnovabili invece che continuare a investire sull’energia fossile. In Germania si dibatte sulla decisione di Robert Habeck di lasciare in riserva due delle tre centrali nucleari ancora in funzione, solo fino ad aprile 2023. Il carbone resta il combustibile che causa le maggiori emissioni di anidride carbonica, il principale gas al quale si deve il cambiamento climatico.

La Germania negli ultimi dieci anni ha messo in atto un piano per rendersi indipendente dall’energia nucleare. Il dibattito nel Paese si era aperto dopo il disastro nella centrale di Fukushima in Giappone del 2011 e aveva portato alla formulazione del programma. Prima in Germania c’erano 17 reattori nucleari dai quali Berlino ricavava un quarto della sua energia elettrica. Le ultime tre centrali ancora attive avrebbero dovuto chiudere entro la fine del 2022.

Il governo tedesco a inizio settembre ha annunciato che due di queste sarebbero rimaste attive per garantire un’ulteriore riserva di energia, vista la crisi energetica scatenata dai tagli alle forniture di gas dalla Russia dopo che Mosca ha invaso l’Ucraina. Berlino aveva anche deciso di aprire alcune centrali elettriche a carbone che erano state dismesse. Le centrali dovrebbero smettere di essere operative nell’aprile del 2023. Berlino, nel suo piano sugli obiettivi climatici, punta a eliminare entro il 2030 l’utilizzo del carbone.

Le parole di Greta Thunberg sono state riprese in tutto il mondo: soprattutto dopo l’invasione di Vladimir Putin il tema energetico e tornato centrale, e quindi anche la fonte nucleare. Il Parlamento Europeo lo scorso luglio, con una maggioranza di 328 voti nell’Aula plenaria di Strasburgo, aveva incluso il nucleare tra le fonti di energia sostenibili. Il tema è centrale anche in Italia, dove dopo le elezioni politiche dello scorso 25 settembre si dovrebbe presumibilmente formare un governo di destra: un esecutivo per la prima volta completamente pro nucleare nella storia della Repubblica.

“Occorre investire nella ricerca sul nucleare di ultima generazione”, si legge nel programma di Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni leader della coalizione. Stessa linea da parte di Lega e Forza Italia. A favore del nucleare anche parte dell’opposizione con il cosiddetto Terzo Polo (Azione più Italia Viva) di Carlo Calenda e Matteo Renzi.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Sandra Maischberger per la tv tedesca “Ard” – pubblicato da “La Stampa” il 13 ottobre 2022.

Se le centrali nucleari «sono già in funzione, credo che sarebbe un errore chiuderle e focalizzarsi sul carbone» ma rispetto al futuro «dipende da cosa succederà». A parlare è Greta Thunberg, intervistata a Stoccolma sui grandi temi della crisi energetica in combinazione con la crisi climatica da una delle star del giornalismo tedesco della tv pubblica, Sandra Maischberger, in onda ieri sera su Ard. 

In questo momento l'Europa parla di guerra. È preoccupata che la questione del clima passi in secondo piano, anche se le emissioni stanno salendo alle stelle a causa della guerra? Quale sarà l'impatto del conflitto?

«Ogni guerra è un disastro a vari livelli. Ma dobbiamo essere in grado di affrontare diverse cose allo stesso tempo. Anche per creare correlazioni tra loro. È qui che abbiamo fallito in passato. Dopo la pandemia, molti hanno pensato: ora la questione del clima verrà alla ribalta. Ma non è successo. E questo dimostra che non siamo in grado di concentrarci su più di una cosa. Molti ora sembrano già aver dimenticato la guerra e guardano alla crisi energetica».

Siamo in crisi energetica perché siamo molto dipendenti dal gas e dal petrolio russo. Il governo tedesco ha deciso di mantenere in funzione le centrali a carbone per abbassare i prezzi dell'energia. Cosa ne pensa?

«Questo è inevitabile che accada quando si dipende da combustibili fossili di regimi autoritari. Ma ci son altre strade da percorrere, con le energie rinnovabili, per esempio.

Se continuiamo a investire nell'energia fossile, le nostre società dovranno fare i conti in futuro con temperature troppo elevate perché le società possano adattarsi o con gravi perdite di beni». 

Al momento la gente guarda alle bollette. Il governo sta cercando di proteggere i suoi cittadini. Comprende la necessità di queste misure?

«Certo. In casi come questo le persone badano a se stesse e cercano di tirare avanti giorno per giorno. Ma è solo un altro sintomo della crisi. Ci siamo resi dipendenti e abbiamo creato una società in cui non siamo in grado di guardare al futuro per più di un anno. Non è sostenibile».

Attualmente in Germania stiamo discutendo se sia meglio tenere in funzione più a lungo le centrali nucleari invece di quelle a carbone. Cosa ne pensa?

«Personalmente, penso che sia una cattiva idea affidarsi al carbone finché le altre sono ancora in piedi. Ma naturalmente si tratta di un dibattito molto acceso». 

Ma per il clima: le centrali nucleari sarebbero la scelta migliore, almeno per ora?

«Dipende! Se sono già in funzione, credo che sarebbe un errore spegnerle e focalizzarsi sul carbone».

E dopo? Chiuderle o meno?

«Dipende da cosa succederà». 

Una volta finita questa guerra, potrebbe essere l'occasione perché la gente capisca che il risparmio energetico è importante e che investire nelle energie rinnovabili è molto più che una semplice questione climatica?

«Sicuramente. La mancanza di energia rinnovabile è considerevole e ci fa sentire quanto siamo vulnerabili e quanto dipendiamo dalle energie fossili e dagli idrocarburi russi. So che in Germania si parla di risparmio energetico. Ma qui in Svezia è assolutamente proibito parlarne. Perché la gente dice cose tipo: "Oh no, questo è comunismo!". È assurdo. In Svezia non c'è un solo politico che dica che dovremmo consumare meno energia. Anche se gli studi dimostrano che con il consumo diminuirebbe anche il prezzo». 

Hanno accusato la Germania di essere uno dei grandi cattivi del clima. Quando i Verdi sono arrivati al potere nel Paese, pensava che sarebbe cambiato qualcosa?

«Onestamente, non proprio!». (Ride) Perché?

«In Svezia i verdi hanno fatto parte del governo per molto tempo. E siamo ancora uno dei campioni mondiali di green-washing. Naturalmente alcuni partiti sono meno cattivi di altri. E naturalmente è bene che molte persone sostengano questi partiti. 

Ma più ci illudiamo di poter risolvere l'emergenza climatica all'interno del sistema esistente senza trattarla come una vera e propria crisi, più tempo perderemo. Senza pressioni dall'esterno, non ci saranno cambiamenti significativi».

Negli ultimi quattro anni ha cercato di sensibilizzare le persone sul cambiamento climatico, ma le emissioni continuano a crescere. Anche quest' anno abbiamo assistito a siccità e inondazioni estreme. Un terzo del Pakistan è stato inondato. Le capita di pensare che non abbia più senso dare l'allarme?

«No, assolutamente no. La crisi climatica ci costringe a cambiare il nostro comportamento. Abbiamo bisogno di un cambiamento culturale e questo non avviene da un giorno all'altro, né in un anno o in quattro anni. Purtroppo non abbiamo il tempo di fare tutto passo dopo passo. 

Ma dobbiamo farlo! È troppo facile dire che il movimento per il clima ha fallito. La verità è che qualcosa sta accadendo. Dalla nostra parte ci sono sempre più persone, la scienza, le verità e la moralità . È solo che non accade abbastanza velocemente».

Lei ha parlato con i politici di tutto il mondo. Ne ha incontrato uno che le abbia dato la sensazione: questa è una persona che capisce di cosa sto parlando ed è pronta ad agire di conseguenza?

«I politici possono dire di comprendere il problema, e a volte può essere vero. Ma non ne ho ancora incontrato uno che parli e agisca davvero in base a un bisogno. Mi rendo conto che come individuo è molto difficile cambiare le cose dall'interno ed è per questo che può essere più efficace alzarsi dall'esterno e dire: "Così non funziona, non voglio farne parte". Questo attira più attenzione, crea un movimento d'opinione e consapevolezza». 

Ha lanciato l'allarme, ma il suo ultimo libro parla anche di soluzioni. Cosa devono fare gli Stati quando riconoscono la crisi climatica come tale?

«Molte cose. Naturalmente, non esiste una panacea che risolva tutto in una volta. Il libro contiene proposte concrete. Ma la prima cosa che dobbiamo fare è riconoscere che siamo in una situazione difficile. Perché questo è il prerequisito per analizzare correttamente la situazione e trovare una soluzione. Dobbiamo renderci conto che siamo in una situazione di emergenza. Tutto il resto è inutile. E non ci siamo ancora arrivati».

Perché i governanti non sono in grado di cambiare la situazione? Il suo libro parla di politici che pensano solo alle prossime elezioni.

«In molti casi pensano solo alle notizie della sera o ai titoli dei giornali del giorno dopo. Dopo tutto, non è più solo un'opinione che non possiamo risolvere la crisi climatica con il nostro sistema attuale. 

Secondo il rapporto delle Nazioni Unite sul divario di emissioni, entro il 2030 utilizzeremo il doppio dell'energia fossile che sarebbe compatibile con l'obiettivo di 1,5 gradi. Ciò significa che se vogliamo rimanere al di sotto di questo valore - e siamo già a 1,2 gradi e la gente sta morendo - dobbiamo sospendere i progetti economici e annullare gli accordi esistenti.

E questo oggi non è possibile né politicamente né economicamente». 

Ci sono anche altri interessi: l'economia deve funzionare, la gente ha bisogno di lavoro. Per raggiungere gli obiettivi da lei descritti, gli Stati dovrebbero ridurre la produttività.

«Nel nostro sistema, sarebbe catastrofico». 

E la soluzione?

«Bella domanda! Vorrei che qualcuno la avesse».

La pandemia di Covid-19 ha dimostrato che è possibile adottare misure che limitano le libertà individuali. E la gente le ha accettate, nonostante alcune proteste. Perché questo funziona per la salute e non per il clima?

«Il problema del clima è anche un problema di salute. Dobbiamo solo guardare all'intero quadro. Molte persone mi hanno chiesto: "Non ti ha frustrato il fatto che ci sia stata una reazione al covid e che nessuno sembra essere interessato al clima?". Certo che no! Dimostra che siamo in grado di trattare un'emergenza come tale. Ma la crisi climatica non è mai stata trattata come una vera emergenza. Direi che sono stati i media a decidere di trattare il covid come una crisi immanente e poi la gente ha reagito». 

Sicura che non siano stati i politici a decidere di dover reagire perché le persone morivano?

«Se i governanti non avessero avuto il sostegno dei media, cioè se i media avessero reagito come hanno fatto con la crisi climatica, loro non si sarebbero comportati come hanno fatto. Alle persone è stato detto come cambiare il loro comportamento. È stato riportato 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Conferenze stampa quotidiane per comunicare un'emergenza acuta. Senza questo resoconto costante, molte cose non sarebbero state possibili». 

Parlando di comportamenti, fa differenza se ad esempio smetto di mangiare carne, di volare e di guidare un suv? Ogni persona deve cambiare?

«Fa la differenza perché segnala alle persone intorno a noi che esiste una crisi. E in questo caso, il comportamento cambia. E poi, naturalmente, riduce l'impronta ecologica. Ma è soprattutto una forma di attivismo».

Dovremmo tutti diventare attivisti?

«Sì! Abbiamo bisogno di miliardi di attivisti per il clima!». 

Lei è pessimista o ottimista sul risultato?

«Sono realista. Se facciamo le cose necessarie, possiamo evitare una catastrofe. In caso contrario, ne subiremo le conseguenze. Sta a noi».

(a cura di Uski Audino)

«L’Italia è l’unico Paese del G7 a non utilizzare il nucleare». Pagella Politica.it il 23 agosto 2022.

Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone hanno centrali nucleari operative, con differenze sui piani di sviluppo futuri. 

Il 23 agosto il leader di Azione Carlo Calenda ha rilanciato sui social la proposta di reintrodurre in Italia l’uso dell’energia nucleare, scrivendo che l’Italia è l’unico Paese del G7, che raggruppa le sette maggiori potenze economiche a livello mondiale, a non utilizzarla.  

Sul piano di Azione per riportare il nucleare in Italia abbiamo scritto più nel dettaglio in passato, qui. Ma è vero che il nostro Paese è l’unico del G7 senza nucleare? Abbiamo verificato e Calenda ha ragione.

Il G7 e il nucleare

I Paesi membri del G7 sono: Italia, Stati Uniti, Canada, Giappone, Francia, Germania e Regno Unito. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia atomica, una delle principali organizzazioni che si occupa dell’uso pacifico del nucleare nel mondo, fatta eccezione per l’Italia, tutti i Paesi del G7 hanno centrali nucleari. 

Nel 2021 gli Stati Uniti hanno prodotto quasi il 20 per cento della loro energia elettrica con il nucleare; il Canada poco più del 14 per cento; il Regno Unito quasi il 15 per cento; la Germania circa il 12 per cento (qui il governo è indeciso se fermare entro la fine dell’anno le ultime centrali operative); la Francia il 69 per cento; il Giappone il 7 per cento. A oggi, negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Giappone e in Francia sono in costruzione nuovi reattori nucleari (in alcuni casi con aumenti dei costi e dei tempi di costruzione rispetto ai tempi preventivati), mentre in Canada e Germania no. 

Tra i membri del G20, l’altra organizzazione che raggruppa i 20 Paesi più industrializzati al mondo, le nazioni che non fanno ricorso all’energia nucleare sono al momento cinque, compresa l’Italia. A questa si aggiungono Australia, Arabia Saudita, Indonesia e Turchia (dove però è in costruzione una centrale). Tra i 27 Paesi dell’Unione europea, quelli senza centrali nucleari sono 14.

Il verdetto

Secondo Carlo Calenda, l’Italia è l’unico Paese del G7 a non utilizzare l’energia nucleare. L’affermazione del leader di Azione è corretta: Stati Uniti, Canada, Francia, Germania, Regno Unito e Giappone hanno centrali nucleari operative, con differenze sui piani di sviluppo futuri.

Domande da porsi. Quali sono le zone migliori (e peggiori) d’Italia per la costruzione di centrali nucleari. Fabrizio Fasanella su L'inkiesta il 15 Settembre 2022

Dalla distanza dai centri abitati alla vicinanza alle coste o ai grandi fiumi: sono tanti gli indicatori da considerare. La “mappa” di Bonelli (che non era nulla di inedito) ha riaperto un tema che i politici pro-nucleare dovrebbero affrontare pubblicamente per dare maggior concretezza al dibattito

Complici la crisi energetica e il caro bollette, quello del nucleare è diventato uno dei terreni su cui i partiti si stanno dando battaglia in vista del voto del 25 settembre. L’Unione europea, nel mese di luglio, ha inserito il gas e il nucleare nella lista degli investimenti «utili alla transizione» presenti nella tassonomia comunitaria, e da quel momento il dibattito (già aperto da diversi mesi) si è arricchito di dichiarazioni e proposte più o meno realistiche. 

L’Italia è l’unico membro del G7 a non utilizzare l’energia nucleare, che nel nostro Paese è stata sfruttata dal 1967 al 1990. Senza contare quelle in costruzione e non terminate, in Italia le centrali attive si trovavano a Latina, Sessa Aurunca (Caserta), Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso (Piacenza). I partiti favorevoli al ritorno dell’energia nucleare sono tutti quelli del centrodestra e il Terzo Polo di Matteo Renzi e Carlo Calenda; a opporsi sono il Partito democratico, il Movimento 5 Stelle, l’alleanza Verdi-Sinistra Italiana e Unione popolare. +Europa, invece, vuole genericamente «rafforzare la ricerca e la cooperazione scientifica italiana per lo sviluppo di reattori a fusione nucleare», mentre non è ben chiara la posizione di Impegno Civico (anche se Luigi Di Maio, in passato, si era detto contrario). 

Gli indicatori da considerare per la costruzione di una centrale nucleare

L’ultimo capitolo delle discussioni da campagna elettorale sul nucleare è stato scritto il 31 agosto da Angelo Bonelli. Su Twitter, il co-portavoce di Europa verde ha pubblicato una mappa delle 14 centrali nucleari che centrodestra e Terzo Polo «realizzeranno con molta probabilità» in caso di vittoria il 25 settembre. L’ex presidente della Federazione dei verdi ha definito quel tweet una «operazione verità» per svelare un piano nucleare che costerà agli italiani oltre 280 miliardi di euro. Che quella mappa non fosse né inedita né segreta si è ormai abbondantemente capito. Basti pensare che, nel 2010, lo stesso Bonelli aveva mostrato una cartina identica durante una manifestazione contro il nucleare. In più, fonti dal centrodestra e dal Terzo Polo hanno parlato di fake news. 

«Cosa ho pensato quando ho visto quella mappa? Che è sempre la stessa. È sempre lo stesso balletto. È una mappa grossolana. In ogni pezzettino in cui si è individuata l’idoneità andrebbero fatti degli studi particolarizzati. Si tratta di preludio ad esami molto più dettagliati», spiega a Linkiesta il dottor Flavio Parozzi, che lavora da più di 30 anni nel campo dell’energia nucleare. Leading scientist di Ricerca sul sistema energetico (Rse), presidente di Cise2007 e consulente dell’Unione europea, è specializzato in sicurezza dei reattori nucleari ed è uno dei massimi esperti a livello internazionale sull’argomento.   

La mappa pubblicata da Bonelli è il “riassunto” di uno studio – che abbiamo visionato – pubblicato nel 1979 dall’allora Comitato nazionale per l’energia nucleare (Cnen), che nel 1982 è diventato Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile). Si tratta di una sintesi di cinque cartine (molto più dettagliate, come potete vedere nell’esempio qui sotto) che indicavano le “zone di esclusione” per la costruzione di una centrale nucleare di grande potenza, sulla base di diversi indicatori: la vicinanza ai centri abitati, la sismicità e il rischio eruzioni vulcaniche, la presenza di grandi fiumi o di coste, la pendenza inferiore o superiore al 10%. 

14 centrali nucleari in Italia? Un numero non realistico

La pubblicazione sui social media di quella mappa ha avuto un effetto positivo. Indipendentemente dalla fattibilità o meno del ritorno all’energia atomica dopo più di trent’anni, abbiamo cominciato a parlare delle ipotetiche aree deputate alla costruzione di nuove centrali. Un tema finora (quasi) omesso dai leader politici pro-nucleare, che non hanno mai indicato le località precise in cui vorrebbero costruire nuovi impianti. E, no, Matteo Salvini che vorrebbe la prima centrale nella periferia di Milano non vale. 

Innanzitutto bisogna soffermarsi sul numero di centrali (14) presente nella grafica diffusa da Bonelli: «In Italia, al massimo, ne potrebbero costruire tre o quattro. Anche all’estero se ne fanno due o tre raggruppate. Non vale la pena farne così tante sparse qua e là. Non sono come gli impianti fotovoltaici ed eolici: costruire una centrale nucleare vuol dire mobilitare una zona molto vasta», dice Parozzi, che nel 2021 ha scritto un libro intitolato “Gli anni dell’atomo.

La distanza dai centri abitati

La vera domanda da porsi, ci spiega l’esperto laureato al Politecnico di Milano, non è «dove non si possono costruire le centrali nucleari in Italia», bensì «dove si possono costruire». Uno dei criteri da tenere in considerazione, come anticipato in precedenza, è la vicinanza dell’impianto ai centri abitati. Per legge non esiste una distanza minima perché «è una scelta politica, non tecnica, per evitare che cittadini e amministrazioni insorgano per la paura di incidenti».

Ecco perché nella famosa mappa sopracitata non figurava nemmeno una centrale nucleare nelle zone centrali della Pianura Padana, che ha una densità demografica quasi doppia rispetto alla media nazionale. Poi ci sono Caorso (dove c’era già un impianto in esercizio dal 1981 al 1986) e Trino Vercellese (anche qui c’era un impianto in esercizio fino al 1987), che però si collocano verso le estremità della pianura. 

In realtà, aggiunge Parozzi, «gli impianti ipotizzati nei primi Anni 2000 erano di tipo francese o americano, che non prevedono un’area di evacuazione lontana dai centri abitati». Le centrali più recenti costruite in Europa – per esempio in Francia o in Finlandia – non hanno infatti zone di evacuazione perché sono progettate per far sì che, qualora si verificasse un incidente, non fuoriesca una quantità pericolosa di materiale radioattivo. 

Le centrali, l’acqua e la crisi idrica

Le grandi centrali nucleari hanno prima di tutto bisogno di acqua di raffreddamento: si può estrarre dai grossi fiumi nelle vicinanze o dal mare. In alternativa, è possibile immagazzinarla nelle torri di raffreddamento (quelle che emettono vapore, per intenderci): «Queste torri sono tipiche degli impianti lontani da importanti fonti di acqua, ma in Italia non ce n’è bisogno perché abbiamo chilometri e chilometri di costa. Se ci pensi, le centrali italiane per la produzione di energia sono tutte costruite lungo le coste per questioni di raffreddamento: è quello il luogo più conveniente dove costruirle», dice Parozzi, secondo cui gli unici due fiumi italiani adatti potrebbero essere il Po e qualche zona lungo il Ticino.

L’acqua è quindi cruciale per una centrale nucleare, e in un periodo di crisi idrica e caldo anomalo (effetti della crisi climatica causata dall’uomo) non possiamo permetterci di sottovalutare questo aspetto. Non è solo una questione di quantità, ma anche di qualità. E qualità, nel caso del nucleare, significa un’acqua caratterizzata da una temperatura sufficientemente bassa da riuscire a raffreddare i reattori. Solitamente, l’acqua di raffreddamento viene reimmessa nei fiumi, ma solo dopo essere stata raffreddata nuovamente o riportata a temperatura idonea. L’acqua calda riversata nei corsi d’acqua, infatti, rischia di danneggiare il fiume e tutta la flora e la fauna locali. 

Quest’estate, per via della siccità e dell’acqua fluviale troppo calda, diverse centrali svizzere e francesi non sono riuscite a funzionare a pieno regime. Secondo l’Électricité de France, la produzione nucleare francese del 2022 è destinata a essere la più bassa negli ultimi decenni. 

La sismicità, la vicinanza ai punti di consumo e le vecchie centrali

Passando oltre, c’è la questione della sismicità: «L’Italia è quasi tutta sismica, quindi da quel punto di vista la location ideale sarebbe la Sardegna. Tuttavia l’isola non è ben collegata con la rete elettrica del resto d’Italia», afferma il dottor Parozzi, che con questa frase ha involontariamente introdotto un altro tema cruciale. Gli impianti, infatti, andrebbero costruiti vicino ai punti di consumo, altrimenti c’è rischio di dispersione di energia elettrica. Alla luce di ciò, secondo l’esperto, converrebbe realizzare eventuali nuove centrali «lungo la dorsale appenninica o nei pressi dei punti di consumo delle grandi industrie, ad esempio al sud».

Parozzi, però, è scettico in merito alla fattibilità di un’imminente ripresa del nucleare: «Anche se domani mattina, per qualche motivo imperscrutabile, tutti dovessero essere d’accordo sulla realizzazione di nuove centrali, per riuscire a connettere il primo impianto alla rete elettrica ci vorrebbero 10 o 15 anni. Sarebbe un investimento sulla rete elettrica del futuro». Il problema è che la crisi energetica è adesso: c’è l’urgenza di diversificare il fabbisogno energetico nel breve periodo. 

Intervenire sulle vecchie centrali nucleari italiane (dismesse ma ancora presenti) aiuterebbe a ridurre i tempi? La risposta è negativa, perché ora è come se fossero dei monumenti storici in stato di abbandono. «Al limite – sostiene Parozzi – si può usare lo stesso sito per costruirne una lì nei pressi, ma quelle erano centrali con tecnologie degli Anni ‘50 o ‘60. 20-25 anni fa si era ipotizzato di riattivare quelle di Caorso e Trino perché erano ancora in buono stato, ma non è successo nulla. Ora ormai è troppo tardi. Ipoteticamente, si farebbe prima a costruirne una nuova, con tecnologie più sicure e con una lunga vita davanti». 

Nucleare in cambio di gas: torna l’asse Parigi-Berlino. Francesca Pierantozzi Martedì 6 Settembre 2022 su Il Messaggero / Il Mattino

La sovranità europea, il gas, l’elettricità, il price cap, perfino il nucleare: sono in perfetta sintonia Emmanuel Macron e Olaf Scholz e l’asse tra Berlino e Parigi non è mai parso tanto solido come ieri, al termine della videoconferenza tra il presidente francese e il cancelliere tedesco. Assente l’Italia, che pure dall’inizio della crisi è sempre stata in prima linea grazie al presidente del Consiglio Mario Draghi. Ma le geometrie nell’Europa della guerra e della crisi energetica appaiono sempre più variabili, e ieri sono state la «solidarietà del gas» e la «solidarietà elettrica» a fare da collante tra le due capitali europee. Già giovedì scorso Macron aveva tenuto a salutare pubblicamente il discorso sull’Europa pronunciato a Praga dal collega tedesco. Scholz si è detto a favore dell’allargamento della Ue fino a «30 e anche 36 membri», ma ha anche lanciato un appello a favore della fine del diritto di veto per evitare le cicliche paralisi istituzionali. «Saluto il discorso di Scholz – ha detto Macron davanti ai suoi ambasciatori riuniti all’Eliseo – sono parole che vanno nello stesso senso della strategia francese per un’Europa più forte e più potente». La sintonia franco-tedesca è stata confermata ieri in un colloquio a distanza sull’energia e la strategia per superare i rigori invernali e l’annunciato taglio ai rifornimenti di gas russo. 

Parigi e Berlino si sono messe d’accordo su uno scambio bilaterale gas-elettricità: «Aiuteremo con il nostro gas e in cambio beneficeremo dell’elettricità dalla Germania» ha sintetizzato Macron in una conferenza stampa all’Eliseo. La Francia si è impegnata a esportare più gas in Germania, che in cambio fornirà più energie elettrica alla Francia, in difficoltà con la produzione nazionale a causa di una diminuzione di produzione nelle centrali nucleari, molte delle quali ferme per manutenzione. «Abbiamo bisogno di solidarietà – ha ripetuto più volte Macron – questa solidarietà franco-tedesca si iscrive più ampiamente in una solidarietà europea. Contribuiremo alla solidarietà europea in materia di gas e beneficeremo della solidarietà europea in materia di elettricità - ha sottolineato il presidente francese - nelle prossime settimane e mesi questo si tradurrà dal punto di vista franco-tedesco in modo molto concreto. Finalizzeremo i necessari collegamenti per poter fornire gas alla Germania ogni volta che ce ne sarà bisogno». «Allo stesso modo - ha continuato Macron - la Germania si è impegnata ad una solidarietà elettrica nei confronti della Francia e si metterà nella condizione di avere più elettricità da fornirci, soprattutto nelle situazioni di picco. Questa solidarietà franco-tedesca è l’impegno che abbiamo preso con il cancelliere Scholz». Macron ha anche ribadito la sua posizione a favore di «pratiche di acquisto comune di gas in Europa», per mantenere i prezzi «più bassi».  Altra arma cui Parigi intende ricorrere per contrastare l’aumento dei costi dell’energia: «Un meccanismo di sovvenzioni europee ai paesi che ne hanno più bisogno, ricavato da un contributo richiesto agli operatori energetici, i cui costi di produzione sono ora molto inferiori ai costi dell’energia a causa di un funzionamento distorto del mercato». Macron ha parlato di una convergenza franco-tedesca anche nella difesa di «questo meccanismo di contributo europeo»: se non si riuscirà ad avere un approccio comune a livello dell’Europa, ha precisato il presidente dall’Eliseo, «allora lo faremo a livello nazionale». 

In compenso il presidente francese non vede di buon occhio il progetto Midcat, che prevede la costruzione di un nuovo gasdotto tra Francia e Spagna, progetto invece sostenuto da Madrid e Berlino: «In Europa ci servono più interconnessioni elettriche ma non son convinto che ce ne servano altre per quanto riguarda il gas, il cui impatto sull’ambiente e l’ecosistema sono importanti – ha detto Macron - nessuno studio ci dimostra che ci sia questa necessità». Infine, ai francesi Macron ha chiesto di diminuire del 10 per cento i loro consumi. È la “sobrietà volontaria” che consentirebbe al paese di affrontare l’inverno con tranquillità. Se i francesi non riusciranno a essere virtuosi spontaneamente, lo stato dovrà intervenire con misure coercitive che potrebbero arrivare fino al razionamento. «La soluzione è nelle nostre mani – ha detto il presidente – tocca a noi». In Germania, Scholz ha deciso di correre ai ripari temporeggiando sulla annunciata fine del nucleare. Per far fronte a eventuali penuria di energia, il cancelliere ha deciso di tenere per il momento «in stato di veglia» fino alla primavera del 2023 due delle ultime tre centrali nucleari ancora in funzione e che avrebbero dovuto essere definitivamente chiuse entro la fine dell’anno. 

Centrali nucleari, la denuncia dei Verdi: «Quelle proposte da Salvini e Calenda costerebbero fino a 400 miliardi». Europa verde e Sinistra italiana hanno calcolato l’investimento delle proposte fatte da Azione e dal centrodestra e localizzato dove si dovrebbero realizzare i siti: «Una follia, ci opporremo in tutti i modi». Antonio Fraschilla su L'Espresso il 31 agosto 2022.

È un tema chiave della campagna elettorale: l’indipendenza energetica. Il leader di Azione Italia Viva Calenda, e quelli del centrodestra Matteo Salvini, Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni hanno proposto nel loro programma elettorale il ritorno al nucleare. In particolare Calenda ha proposto la costruzione di 7 centrali nucleari da 40 GW totali. Ma quanto costerebbero e dove si dovrebbero realizzare? Europa Verde, Alleanza Verde e Sinistra italiana hanno fatto i conti.

Scrivono in uno studio Verdi e Sinistra italiana: «Come riportato da uno studio della danese Aarhus University sui rischi di progetto delle varie tecnologie per la produzione elettrica, il nucleare è un vero disastro in quanto a costi che lievitano e a ritardi. Dei 180 impianti nucleari censiti dallo studio, per 117,6 GW di potenza, a fronte di investimenti iniziali per 459 miliardi di dollari si sono avuti sforamenti per 231 miliardi e per 9 centrali su 10 si è speso più di quanto preventivato. La centrale nucleare di Flamanville, in Francia, con reattore terza generazione plus da 1,6 Gw, in costruzione dal 2007 e i cui lavori non sono ancora terminati, i costi sono passati da 3,7 miliardi di euro a 19 miliardi di euro. Nella centrale nucleare di Olkiluoto 3 da 1,6 Gw, in Finlandia, il costo è passato da 3 miliardi di euro a 11 miliardi di euro e non tiene conto degli oneri finanziari. La società Areva è fallita a causa delle perdite economiche del cantiere di OL3 ed è stata riorganizzata con due newco.

A Hinkley Point, Inghilterra, sono in costruzione due reattori da 1,6 Gw l’uno , i lavori non sono terminati, ma i costi sono arrivati a 26 miliardi di sterline ovvero 30 miliardi di euro con un aumento del 50% rispetto alle previsioni. Il costo medio a consuntivo per 1 Gw di energia nucleare, prendendo a riferimento il costo più basso, è di 7 miliardi di euro. Pertanto il costo a consuntivo per il programma nucleare di Calenda di 40 Gw va da un minimo di 275 miliardi di euro a 400 miliardi. Chi pagherà? in Francia il nucleare è totalmente a carico dello Stato».

Dice Bonelli: «Edf il colosso dell'energia francese che gestisce le centrali nucleari dopo una capitalizzazione in borsa pari a 3,1 miliardi di euro e la nazionalizzazione del restante 16 per cento di azioni pari a 9 miliardi di euro, ha subito nel primo semestre 2022 una delle perdite più pesanti della sua storia: 5,3 miliardi di euro. In Francia su 58 reattori nucleari una buona parte sono ferme a causa della corrosione e della siccità ( un reattore da 1 Gw necessità di 1.800.000 litri di acqua al minuto per il raffreddamento). Calenda e Salvini non dicono agli italiani dove prenderanno i soldi per realizzare le loro centrali nucleari. Chi pagherà la gestione delle scorie nucleari e dove realizzeranno le centrali, nonché il deposito di scorie?».

L’altro tema che rimane sullo sfondo è quello sulla localizzazione dei siti idonei a ospitare questi impianti. Anche qui, in base alla situazione attuale italiana e di alcuni siti già individuati per ospitare scorie, l’elenco prevede una ventina di aree idonee. Eccole: Palma di Montechiaro in Sicilia, Scansano Jonico in Basilicata, Garigliano, Borgo Sabotino e Montalto di Castro nel Lazio, Brindisi in Puglia, Termoli in Molise, Oristano in Sardegna, Scarlino in Toscana, Chioggia e Monfalcone in Veneto, Caorso in Emilia Romagna e Trino Vercellese in Piemonte. 

Occidente e Oriente puntano sull'atomo, ma l'Italia smantella le vecchie centrali. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 30 agosto 2022.

GLI STATI Uniti, la Francia e altri Paesi occidentali, ma anche dell’Asia (Giappone, Cina e India) stanno pianificando di mantenere in funzione dozzine di reattori decenni dopo la scadenza delle loro licenze operative originali e stanno prevedendo di realizzarne di nuove.  I rischi geo-politici (l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, la rivendicazione di Taiwan da parte della Cina, la crisi in Medio Oriente), la limitatezza delle risorse fossili e il loro costo elevato a causa dei conflitti bellici, e l’adozione improcrastinabile delle misure per contrastare i cambiamenti climatici e raggiungere entro il 2030 emissioni nette zero, sta portando le autorità politiche a rivalutare il nucleare come fonte energetica alternativa e affidabile.

Il Belgio si sta muovendo per consentire a due reattori che avrebbero dovuto chiudere nel 2025 di funzionare fino al 2036 per aiutare l’Europa a ridurre la dipendenza dal gas russo. La Germania, che doveva chiudere tutti i suoi reattori entro la fine di quest’anno, sta ora discutendo se mantenere aperti gli ultimi tre anche nel 2023 per aiutare a risparmiare gas durante l’inverno. Alcuni politici tedeschi chiedono che i reattori rimangano aperti ancora più a lungo. Il Primo ministro giapponese, Fumio Kishida, questa settimana ha chiesto al Paese di riavviare 17 reattori nucleari entro l’estate 2023. Il

L’obiettivo principale del Governo è  costruire centrali nucleari con reattori ad acqua leggera di nuova generazione dal 2030. Il  Giappone ha riattivato ad oggi cinque dei 54 reattori  nucleari di cui dispone e che sono stati arrestati a  seguito del disastro nucleare di Fukushima del 2011. Nove  reattori attivi consentirebbero al Paese di attingere al  nucleare per circa il 10%  della sua domanda di  energia elettrica, e di arginare almeno in parte i rischi  legati all’approvvigionamento durante la prossima stagione  invernale. In seguito al  referendum del 1987, l’Italia ha fermato l’esercizio delle centrali nucleari di  Latina,  Trino  (Vercelli) e  Caorso  (Piacenza), che venivano messe di fatto nella condizione di “safe store” (custodia protettiva passiva), già prevista per la centrale del Garigliano, chiusa nel 1982.

Stesso destino è toccato agli impianti del ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), Casaccia (Roma) e Rotondella (Matera) e all’impianto di fabbricazione del combustibile nucleare di Bosco Marengo (Alessandria). Sono stati, inoltre, interrotti i lavori di costruzione delle centrali di Montalto di Castro e di Trino 2, entrambe pertanto mai entrate in funzione. Spegnere le centrali non è esattamente come staccare una spina: fermarle e metterle in sicure non può bastare. L’attività più complessa e difficile e non esente da rischi riguarda l’eliminazione dei contenitori del combustibile radioattivo curato dalla Sogin, la società interamente partecipata dal ministero dell’Economia e delle Finanze, responsabile dello smantellamento  (decommissioning) di un impianto nucleare, ovvero l’ultima fase del suo ciclo di vita dopo la costruzione e l’esercizio, nonché della  gestione dei rifiuti radioattivi, compresi quelli prodotti dalle attività industriali, di ricerca e di medicina nucleare. 

Lo smantellamento comprende l’allontanamento del combustibile e la  caratterizzazione radiologica  degli impianti, la  decontaminazione  delle strutture, la demolizione degli edifici e, infine, la caratterizzazione radiologica del sito. Tutte queste operazioni vengono svolte mantenendo sempre in sicurezza gli impianti nei quali si lavora.  L’Italia, con la scelta di fermare la produzione di energia da fonte nucleare nel 1987, è stata tra i primi Paesi al mondo a confrontarsi con il decommissioning nucleare. Però, avere rinunciato al nucleare all’Italia costerà complessivamente 7,2 miliardi di euro, di cui 3,6 già spesi dal 2001 al 2017 (ma circa la metà è servita per la sicurezza e il mantenimento dei depositi temporanei).

Dopo la crisi energetica degli anni Settanta, il Paese ne sta vivendo un’altra non meno drammatica, a causa della guerra in Ucraina e delle ritorsioni di Mosca nei confronti dei Paesi, tra cui l’Italia, che l’hanno sanzionata per l’aggressione militare contro Kiev. Il nucleare di cui si sta tornando a parlare anche da noi essendo stato contemplato nei programmi del Centrodestra e di Azione, è un’opzione affatto possibile: le tecnologie ci sono, i capitali non mancano, e perfino l’Unione Europea ha inserito il nucleare tra le fonti energetiche rinnovabili. Però, non bastano, ci vuole un altro “ingrediente” decisivo per la sua fattibilità: la volontà e la serietà. Il Ponte sullo Stretto insegna: senza volontà e serietà non si va da nessuna parte e si sprecano solo i soldi dei contribuenti.  

La maggior parte delle centrali nucleari attualmente esistenti sono impianti di terza generazione che utilizzano principalmente reattori ad acqua pressurizzata, i quali sono relativamente inefficienti nell’utilizzo dell’energia immagazzinata nelle materie prime, poiché di norma sfruttano solo il 5-8% dell’energia disponibile, generando di conseguenza una grande quantità di rifiuti.

I reattori nucleari di quarta generazione, invece, sono costituiti da un gruppo di tecnologie diverse, come i reattori avanzati ad acqua pesante e i reattori a sali fusi, e possono utilizzare il 95-98% dell’energia disponibile nel carburante, anche se sono ancora alquanto lontani dalla commercializzazione. I mini reattori “Small modular reactors” che occupano meno spazio rispetto agli impianti convenzionali e possono essere costruiti più rapidamente e in modo standardizzato, potrebbero diventare una realtà nel prossimo futuro.

Il nucleare è la fonte energetica più rinnovabile che ci sia. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 29 agosto 2022. 

L’energia nucleare è una questione divisiva. Sarebbe meglio non evocarla,  ma se proprio non se ne può fare a meno, bisognerebbe almeno farlo con cognizione di causa. Sia il Centrodestra, sia Azione (guidato dal leader Carlo Calenda) nei loro programmi elettorali propongono il ricorso alla produzione energetica attraverso il nucleare “senza veti preconcetti”. Dal punto di vista teorico, progettuale e delle tecnologie è possibile, dal punto di vista pratico, gli ostacoli non mancano. E non sono solo di natura ideologica.

Il Parlamento europeo nel luglio scorso ha respinto con 328 voti, contro 278 e 33 astensioni, l’obiezione alla proposta della Commissione per l’inclusione di gas e nucleare nella Tassonomia verde (la classificazione europea delle attività utili a perseguire l’obiettivo dell’Ue di emissioni zero entro il 2050) che così potrà entrare in vigore il 1° gennaio 2023. La decisione, fortemente osteggiata, ha diviso il Parlamento, gli Stati membri, e le società, a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, di quanto questo argomento sia non solo attuale, ma sempre in grado di suscitare polemiche e contrapposizioni.

L’energia nucleare copre il 27% della produzione elettrica in Europa, che sale al 72% in Francia. Ma mentre Europa e Cina progettano i reattori nucleari di quarta generazione, l’Italia è ferma al referendum del 1987.   Nessuno dei quesiti di quella consultazione referendario aveva direttamente come oggetto l’abbandono del nucleare. Uno riguardò l’abrogazione della facoltà del Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica di deliberare sulla localizzazione delle centrali qualora gli enti locali interessati non avessero raggiunto un accordo a riguardo. Un altro chiese l’abrogazione dei contributi agli enti locali che ospitassero sul proprio territorio centrali nucleari o a carbone. Il terzo quesito, infine, riguardò l’esclusione dell’Enel, all’epoca ancora ente pubblico, dalla partecipazione alla costruzione di centrali nucleari all’estero. I sì vinsero con il 71,86%. Votarono complessivamente circa 29,9 milioni di elettori. Il quorum fu raggiunto con un’affluenza alle urne del 65,1% sui circa 45,8 milioni di aventi diritto al voto.

Il giorno dei referendum si contavano quattro centrali elettronucleari: la centrale di Latina, da 210 MWe con reattore Magnox, attiva commercialmente dal 1964; la centrale Garigliano di Sessa Aurunca (Caserta), da 160 MWe con reattore nucleare ad acqua bollente (BWR). Attiva commercialmente dal 1964, è l’unica che fu spenta prima del referendum: fermata per manutenzione nel 1978, si optò per la disattivazione nel 1982; la centrale Enrico Fermi di Trino (Vercelli), da 270 MWe con reattore nucleare ad acqua pressurizzata (PWR), attiva commercialmente dal 1965; la centrale di Caorso (Piacenza), da 860 MWe con reattore BWR, attiva commercialmente dal 1981, l’unica delle quattro ad essere di seconda generazione.  Dopo averle fermate, si è proceduto al loro smantellamento con costi assai elevati. Il programma di eliminazione dei contenitori del combustibile radioattivo (decommissioning) curato dalla Sogin, costerà all’Italia complessivamente 7,2 miliardi di euro, di cui 3,6 già spesi dal 2001 al 2017 (ma circa la metà è servita per la sicurezza e il mantenimento dei depositi temporanei).

Un forte impulso verso il nucleare si era avuto all’inizio degli anni ’70 a causa del repentino aumento dei prezzi di importazione dei prodotti petroliferi dovuti alla crisi in Medio Oriente. Per questo motivo il Piano Energetico Nazionale  del 1975 “prevedeva la realizzazione di ulteriori otto unità nucleari su quattro nuovi siti”. Insomma, ieri come oggi, il nostro Paese ha vissuto periodiche crisi energetiche. Dopo il referendum il nucleare è diventato un tabù. Guai a parlarne. Risultato? Il Paese punta all’autonomia energetica che è ancora di là da venire, combinando l’energia da fonte fossile (idrocarburi) con quella da fonti rinnovabili (idroelettrico, eolico, fotovoltaico, geotermico e così via). E il nucleare? E’ rinnovabile. Anzi, a dirla tutta, è la fonte energetica più rinnovabile che ci sia.

L’energia nucleare offre una serie di vantaggi rispetto ad altre tecnologie per l’energia pulita: fornisce un carico di base (il livello minimo di domanda su una rete elettrica in un intervallo di tempo) pulito e affidabile, che le fonti rinnovabili meno affidabili possono faticare ad offrire; è in grado di fornire energia in modo affidabile in qualsiasi momento della giornata e indipendentemente dalle condizioni meteorologiche e richiede meno materiali rispetto ad altre tecnologie di transizione. Queste qualità sono fondamentali per poter trasformare completamente i nostri sistemi affinché producano energia a zero emissioni di carbonio. 

La maggior parte delle centrali nucleari attualmente esistenti sono impianti di terza generazione che utilizzano principalmente reattori ad acqua pressurizzata, i quali sono relativamente inefficienti nell’utilizzo dell’energia immagazzinata nelle materie prime, poiché di norma sfruttano solo il 5-8% dell’energia disponibile, generando di conseguenza una grande quantità di rifiuti. I reattori nucleari di quarta generazione, invece, sono costituiti da un gruppo di tecnologie diverse, come i reattori avanzati ad acqua pesante e i reattori a sali fusi, e possono utilizzare il 95-98% dell’energia disponibile nel carburante, anche se sono ancora alquanto lontani dalla commercializzazione. I mini reattori “Small modular reactors” che occupano meno spazio rispetto agli impianti convenzionali e possono essere costruiti più rapidamente e in modo standardizzato, potrebbero diventare una realtà nel prossimo futuro. La Corea del Sud e la Cina sono riusciti a ridurre il costo del nucleare, soprattutto grazie alle prassi in materia di costruzione. Entrambi i Paesi riproducono, di volta in volta, lo stesso impianto, piuttosto che concepire ciascun progetto da zero come accade altrove. Ciò riduce notevolmente i costi e i ritardi.

Un’altra differenza è che, a causa della regolarità dei progetti, la forza lavoro dispone delle competenze necessarie. La sicurezza rappresenta una preoccupazione comune per le tecnologie nucleari, a causa principalmente di incidenti storici come quelli di Fukushima e Chernobyl. Tuttavia, entrambi questi esempi sono in qualche modo specifici a ciascun sito ed è difficile che si verificheranno in altri impianti nucleari. Infine, bisogna considerare anche la fusione nucleare. Tutte le tecnologie citate utilizzano la fissione nucleare, che comporta la divisione di atomi di grandi dimensioni (solitamente di uranio). La fusione nucleare, invece, si concentra sulla fusione di elementi leggeri (come l’idrogeno).

Ci sarà il nucleare nel futuro dell’Italia? Lo vedremo. Eppure eravamo gli antesignani: era italiano Enrico Fermi, Premio Nobel per la fisica nel 1938, lo scienziato che progettò e realizzò il primo reattore a fissione, ma è da 35 anni che non si fa più nulla, eccetto la ricerca di base. Ricominciare, se mai si farà, sarà dura!

Salvini apre sul nucleare. E il leader verde lo insulta. Il leghista: «Centrali pulite pronte in sette anni» Bonelli: «Come Cetto Laqualunque, non capisce». Pasquale Napolitano l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Si infiamma la campagna elettorale con il botta e risposta a distanza tra Matteo Salvini e Angelo Bonelli. Gli alleati di Enrico Letta bocciano il modello francese sul nucleare e sognano un'Italia al buio. Quel «modello macroniano» che tanto piace al leader del Pd su altri temi. Stavolta il bersaglio della fronda ambientalista di sinistra non è Carlo Calenda ma l'ex ministro dell'Interno. Il Pd va a rimorchio e sposa la linea radicale di matrice grillina. Il capo del Carroccio rilancia la proposta, tema centrale per l'agenda leghista, sulla produzione dell'energia nucleare. Snodo cruciale per ridurre l'indipendenza energetica dell'Italia e colpire i costi elevati delle bollette. «Stiamo lavorando per mettere in dettaglio due temi, secondo me centrali in questo programma, che riguardano l'energia e le infrastrutture. Ma scripta manent quindi bisogna scrivere i dettagli, cosa come e quando. Il primo è aggiungere alle fonti energetiche rinnovabili, pulite e sicure, il nucleare. L'ha fatto l'Europa ed è la forma più sicura. E l'altro è sulle infrastrutture dare il via libera a quelle bloccate da tempo e faccio un esempio il ponte sullo stretto di Messina, che sarebbe fin da provati e porterebbe l'ingegneria e la sapienza italiana agli occhi del mondo» - annuncia Salvini in collegamento con Radio Libertà.

Il piano energetico della Lega è la costruzione a regime in sette anni delle centrali nucleari. Si guarda al modello francese. Più nucleare, meno costi per l'energia. Apriti cielo. Proposta che non giù a Verdi. Il leader Angelo Bonelli, dalla conferenza stampa convocata alla Camera dei Deputati per presentare i candidati della federazione Sinistra Italiana-Verdi Europa, attacca l'idea salviniana: «La proposta che la destra estrema sta facendo è una sfida all'umanità che sta chiedendo di fare qualcosa per il clima. Quando cettolaqualunque, cioè Salvini, propone il nucleare in sette anni, significa che non ha capito nulla. Cettolaqualunque vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani, perché il nucleare è una tecnologia molto costosa, lo dicono i dati». Ecco l'ambientalismo del no ritorna a sventolare nel campo del centro-sinistra. Si rievocano i tempi di Pecoraro Scanio. Gli eredi dell'ex ministro dei governi Prodi dettano l'agenda anche al Pd: «Salvini continua con le promesse elettorali un tanto al chilo e prende in giro gli italiani. Come sul nucleare. Non è affatto vero che tutti i paesi del mondo hanno il nucleare» scrive su Facebook il senatore Andrea Ferrazzi, capogruppo dem in Commissione Ambiente. Sono ormai lontani i tempi dell'ambientalismo veltroniano che guardava senza barriere ideologiche al nucleare. Velenosa la controreplica arrivata dal fronte leghista: «Sul nucleare il Pd e i suoi cespugli, sono evidentemente ossessionati da Matteo Salvini. Basta mentire agli italiani: solo in Francia i reattori sono oltre 50, più della somma dei voti di Bonelli e Fratoianni. Al Paese serve una prospettiva che includa anche il nucleare, non le chiacchiere o i ricatti», ribatte il senatore della Lega Paolo Arrigoni, responsabile del dipartimento Energia della Lega. L'avvio di un progetto per la produzione dell'energia nucleare pulita sarà un punto centrale nel programma del centrodestra. Idea su cui c'è il via libera di Forza Italia. Programma ormai pronto che avrà quindici priorità.

Come al solito: sull'energia atomica polemiche e bugie fuorvianti. Redazione l'11 Agosto 2022 su Il Giornale.

Le dichiarazioni di Angelo Bonelli e Eleonora Evi, ordinario di Fisica tecnica Industriale, università di Perugia, e coordinatore del dottorato di ricerca in Energia e Sviluppo Sostenibile, sull'Energia nucleare che sarebbe dannosa e costosa rappresentano una visione parziale della realtà e sono fuorvianti, non oggettive, per almeno 6 ragioni.

1.L'Energia Nucleare Contribuisce alla Mitigazione dei Cambiamenti Climatici. Con la pubblicazione del regolamento 1214/2022 della Ue l'energia nucleare è da considerarsi attività economica che contribuisce alla mitigazione dei cambiamenti climatici. In particolare dal 1° gennaio 2023 tra le attività considerate sostenibili per la tassonomia europea, rientreranno anche: la produzione di energia elettrica attraverso l'utilizzo di impianti che sfruttano i processi nucleari

2. I reattori nucleari di quarta generazione, che producono poche scorie ovvero i cosiddetti «small modular reactors», piccoli reattori più semplici ed economici da costruire rispetto alle centrali tradizionali, che possono essere assemblati direttamente sul luogo di utilizzo, possono assicurare continuità e sicurezza alla generazione di energia elettrica compensando la produzione intermittente da fotovoltaico e dell'eolico.

3. Il rapporto dell'agenzia internazionale dell'energia (IEA) pubblicato a maggio 2021, delinea una vera e propria roadmap. In questa tabella di marcia, il traguardo fissato al 2050 prevede che le rinnovabili costituiscano il 90% della generazione di energia elettrica a livello globale. Il resto della generazione elettrica verrebbe coperto in buona parte dall'energia nucleare, alla quale viene affidata una percentuale intorno al 10% con un raddoppio dell'attuale potenza generativa.

4. La recente crisi energetica, acuita dalla guerra in Ucraina, ha messo in evidenza quanto sia strategica la sicurezza e la flessibilità dell'approvvigionamento energetico. Una base di produzione continua può essere assicurata dal Nucleare. Del resto l'Italia ne fa già uso. L'Italia importa circa il 15% dell'energia elettrica da fonte nucleare situata in Francia, Svizzera e Slovenia.

5. L'Italia è stata tra i pionieri nella ricerca e nella formazione universitaria nel campo del nucleare. Tutt'ora l'Italia collabora, insieme ad altri partner europei, alla costruzione del reattore dimostrativo «ALFRED», in Romania, che dovrebbe essere operativo entro il 2028. Ma l'opzione nucleare va mantenuta viva anche per la ricerca sulla fusione, considerata una delle opzioni utili per garantire una fonte di energia su larga scala, continua, sicura, rispettosa dell'ambiente e praticamente inesauribile.

6. In merito ai costi, occorre tener conto dei costi diretti e indiretti che la mancanza di una base continua di erogazione di energia, come quella che è invece in grado di assicurare l'energia nucleare, comporta. Se dobbiamo sostituire le fonti fossili, occorre avere una base sicura di produzione intorno almeno al 10% che garantisca la sicurezza energetica in qualunque situazione geopolitica.

Ma veniamo al costo a MWh. Secondo le rilevazioni di ARERA le piccole e medie imprese italiane pagano delle fatture più care per elettricità in media di quasi il 28% rispetto alle altre aziende europee. Infatti, in Italia l'elettricità presenta un costo (IVA esclusa) di circa 155,6 euro ogni 1 MWh utilizzato, (importo relativo alle utenze aziendali con un consumo annuo medio da 500 a 2.000 MWh).

Secondo Statista, il sito tedesco di analisi e statistiche, in Francia il prezzo all'ingrosso dell'elettricità a Maggio 2022 ha toccato i 197 euro per megawattora, in Germania i prezzi iniziano a scendere rispetto al picco a 251 euro di marzo; con 230,05 euro al megawattora nel mese di maggio 2022 l'Italia è stato il Paese europeo col picco più alto, quello che ha pagato di più.

Questi dati dimostrano come il mix energetico della Francia con il 70% di nucleare (più altri 6 reattori annunciati quest'anno da Macron) è di fondamentale importanza per avere un sistema energetico resiliente, con un contenimento dei costi di produzione dell'energia elettrica anche difronte alle crisi come quella Ucraina.

Demo, al via la progettazione della prima centrale elettrica a fusione nucleare europea. È il seguito dell'esperimento Iter: iniziata la progettazione della prima centrale elettrica a fusione nucleare europea che potrà soddisfare il fabbisogno medio annuale di circa 1,5 milioni di famiglie. L’Italia avrà un ruolo importante. Romualdo Gianoli su Il Corriere della Sera il 13 Luglio 2022.

Demo, una speranza per la nostra «fame» di energia

Si chiama Demo (Demonstration Fusion Power Reactor) e sarà la prima centrale elettrica a fusione realmente operativa, benché ancora dimostrativa: si prevede che intorno al 2050 possa produrre in maniera sicura e sostenibile tra 300 e 500 MW di energia elettrica, vale a dire il consumo medio annuale di circa un milione e mezzo di famiglie. In tempi in cui la possibilità di avere energia in abbondanza, a costi contenuti e prodotta in maniera «green» sta diventando la questione delle questioni, raggiungere un risultato come quello che si prefigge Demo sarebbe il primo concreto passo verso un cambiamento di paradigma di portata storica. Con tutto quanto di positivo ne verrebbe in termini di abbattimento di costi, emissioni e benefici per l’ambiente. Tuttavia la sfida è enorme, sia in termini tecnologici, sia in termini di impegno finanziario. Vediamo perché.

Fusione e Fissione, le due facceFusione e Fissione, le due facce della stessa medaglia

La fusione nucleare è considerata il Santo Graal per la produzione di energia su larga scala, sicura, sostenibile per l’ambiente e praticamente inesauribile. Basti pensare che, in termini di resa e a parità di quantità, la fusione genererà circa 4 milioni di volte più energia rispetto a quella prodotta bruciando carbone, petrolio o gas. Dal punto di vista fisico è, in un certo senso, l’opposto della fissione nucleare, il principio di funzionamento delle centrali atomiche tradizionali. 

Nella fissione vengono «bombardati» con neutroni (particelle subatomiche prive di carica elettrica) i nuclei degli atomi di elementi pesanti come l’Uranio o il Torio che si rompono liberando energia sotto forma di calore e producendo scorie radioattive. Con la fissione di 1 grammo di uranio si produce una quantità di energia pari a quella ottenibile dalla combustione di circa 2800 kg di carbone. 

Nella fusione nucleare, invece, comprimendo fra loro con grande forza nuclei di elementi leggeri come l’idrogeno (presente in quantità praticamente illimitata), se ne ottiene la loro aggregazione o, appunto, «fusione», con rilascio di energia, produzione di elementi più pesanti come l’elio e pochissima radioattività. Qui trovate un grafico animato che può aiutarvi a capire.

In pratica è il processo con cui il Sole e le altre stelle producono energia. Il problema, però, è che nella fusione occorre raggiungere temperature e pressioni paragonabili a quelle del Sole ma…sulla Terra. Dunque è un problema essenzialmente tecnologico. Ed ecco perché Demo è un passaggio così importante.

Perché Demo è così importante

Quella posta dalla fusione nucleare è una sfida tecnologica che sta mettendo alla prova da decenni fisici e ingegneri in tutto il mondo per trovare soluzioni che permettano di ottenere più energia di quanta ne occorra per innescare la reazione di fusione e tenere sotto controllo la grande quantità di calore che si produce. Demo, dunque, è un anello molto importante nella catena dell’innovazione nella produzione energetica perché farà passare la ricerca sulla fusione dall’ambito sperimentale alla possibile commercializzazione. Dovranno essere adottare le più avanzate tecnologie per controllare il plasma (il particolare stato della materia in cui si trovano gli atomi compressi e caldi), così da generare elettricità in modo sicuro e continuo, operando con un ciclo del combustibile chiuso. Per questo scopo, al Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare dell’ENEA è in fase di realizzazione presso il Centro Ricerche di Frascati il super laboratorio Divertor Tokamak Test (Dtt). Qui saranno testati nuovi materiali e diverse configurazioni per il divertore, il dispositivo che dovrà smaltire il calore residuo all’interno dei reattori a fusione, con flussi di potenza superiori a 10 milioni di Watt per metro quadrato, paragonabili a quelli della superficie del Sole. Se Demo segnerà una pietra miliare verso la realizzazione pratica della fusione nucleare sarà, però, grazie a tutto il percorso compiuto finora e agli ultimi straordinari successi tecnologici ottenuti.

Prima di Demo un lungo…ITER tecnologico

Demo sarà il successore dell’impianto sperimentale Iter attualmente in costruzione nel sud della Francia, a Cadarache, frutto di una collaborazione internazionale tra Europa, Giappone, USA, Russia, Cina, Corea del Sud e India. Una volta realizzato, Iter produrrà 500 MW di potenza di fusione per 400 secondi con un guadagno di potenza di un fattore 10. La sua costruzione, avviata nel 2007, rappresenta un punto di riferimento nello sviluppo dell’energia da fusione e di fatto è il precursore di Demo, anche se non l’unico. L’annuncio di Demo, infatti, arriva dopo il risultato record ottenuto dal consorzio Eurofusion nell’impianto europeo Jet (Joint European Torus) a Culham nel Regno Unito, che ha già prodotto 59 megajoule (circa 16,4 kWh) di energia totale da fusione, utilizzando lo stesso mix di isotopi dell’idrogeno (plasma di Deuterio e Trizio) che sarà impiegato in Iter, in Demo e nelle future centrali elettriche a fusione. Il record è stato possibile creando e sostenendo plasmi stabili in grado di generare elevati valori di potenza di fusione, circa 11 MW per 5 secondi, a fronte di circa 33 MW di potenza di riscaldamento immessa dall’esterno.

Perché 5 secondi sono un record? 

La risposta sta nella fisica del problema e nella sua realizzazione tecnologica. Il carburante ideale per la fusione nucleare è una miscela di Deuterio e Trizio cioè gli isotopi (varianti) dell’idrogeno: il primo con un neutrone in più nel nucleo e il secondo con due. Questo mix è quello che in condizioni concretamente realizzabili, può produrre un surplus di energia rispetto a quella necessaria per innescare e contenere la reazione di fusione e inoltre, fra tutti i possibili combustibili, è quello più facile da gestire e che fonde alla temperatura più bassa: «solo» 150 milioni di gradi Celsius! L’unico modo per tenere sotto controllo un plasma a queste temperature è di confinarlo in apposite strutture a forma di ciambella, ricorrendo a fortissimi campi magnetici che, per essere generati, richiedono a loro volta enormi quantità di energia e speciali apparecchiature molto complesse. Ecco, allora, che riuscire a mantenere una reazione di fusione per un tempo sufficientemente lungo e tale che produca in uscita più energia di quanta ne consumi è un’impresa complicatissima. E questo spiega perché i 5 secondi di JET sono considerati un record. Si tratta, infatti, di un tempo pari a dieci volte la durata dei processi rilevanti ai fini energetici nel plasma, il che rende quei 5 secondi un «funzionamento prolungato». Gli scienziati ritengono che sarà relativamente semplice estendere questa durata nelle macchine future utilizzando magneti superconduttori in grado di mantenere il campo magnetico più a lungo. Ci sono poi anche altre possibili tecnologie da valutare, come la fusione «a proiettile» attualmente in corso di studio a Oxford.

L’Italia e la roadmap europea verso la fusione nucleare 

Per sviluppare Demo, l’Europa ha stabilito una roadmap che costituisce il piano di ricerca e sviluppo sulla fusione nucleare più dettagliato e completo al mondo e che comprende tutta la ricerca e lo sviluppo tecnologico necessari a portare questa tecnologia fuori dai laboratori, fino all’applicazione industriale. A coordinare le attività di ricerca europee è il Consorzio Eurofusion, una rete che comprende circa 4.800 scienziati provenienti da istituzioni di 29 Stati (26 dell’Ue più Svizzera, Regno Unito e Ucraina). Di Eurofusion fanno parte ben 21 organizzazioni italiane coordinate da Enea, tra cui l’Istituto per la scienza e tecnologia dei plasmi del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Istp) e il Consorzio RFX i cui soci sono Cnr, Enea, Infn, Università degli Studi di Padova e Acciaierie Venete. Eurofusion sarà finanziato con oltre 1 miliardo di euro per gli anni 2021-2025, comprensivi di un contributo Euratom di oltre 550 milioni di euro. L’Italia, che è il secondo partner più importante del Consorzio dopo la Germania, riceverà il 16% del contributo europeo, pari a circa 90 milioni di euro.

Nucleare? Fondamentale nel mix energetico per velocizzare la transizione verso la Carbon Neutrality. Gianluca Pomo, Esperto di politiche energetiche e sviluppo commerciale, su Il Riformista il 2 Luglio 2022 

Si parla oggi moltissimo di crisi energetica solo per un motivo: se ne è parlato troppo poco – e male – negli ultimi 40 anni. Dai tempi del referendum sul nucleare del 1987, ma ancor prima con la creazione delle lobby antinucleariste, l’ondata populista (sì, fu un esempio evidente dei danni che il populismo avrebbe potuto portare al paese) si abbatté sulle politiche energetiche dell’Italia, condizionando le scelte dei governanti e di fatto trasformandoci nell’unica grande nazione al mondo ad aver abbandonato del tutto l’energia nucleare. Ma se l’attuale crisi energetica, senza controllo né soluzione di continuità nel breve periodo, ci permette di riaprire porte che solo scelte miopi e mancata conoscenza avevano chiuso, ben venga, ma facciamoci trovare pronti tecnicamente, comunicativamente e politicamente.

Ora, nel periodo storico in cui stiamo finalmente abbattendo il muro del populismo, con la sparizione di quei partiti che hanno contribuito ad alimentare l’antimeritocrazia, l’anticompetenza, la cultura dai social e l’uno vale uno per svariati lustri, è ora che il Paese torni a ragionare di progresso e riforme strutturali che eviteranno in futuro di subire in maniera così deflagrante una nuova crisi energetica nazionale e internazionale. Inserire il nucleare nel mix energetico italiano significa in contemporanea rendersi meno dipendenti dai mercati esteri, favorire in maniera decisa la transizione energetica e la sostenibilità ambientale senza le intermittenze del rinnovabile e permettere di efficientare i grandi siti industriali italiani con positivo impatto diretto su ambiente, cittadini, imprese e lavoratori. Tutti i temi sbandierati ed edulcorati dalla retorica populista sono stati di volta in volta sconfessati dalla scienza stessa. La scienza non è democratica e sul nucleare ha dato il meglio di sé.

E ma le scorie? Intanto sarebbe più accurato chiamarli rifiuti. Si tratta di rifiuti esausti di una centrale elettrica, come ve ne sono enormi volumi in una qualsiasi centrale termoelettrica. La radioattività che porta con sé una centrale nucleare può essere pericolosa solo se immessa senza controllo nell’ambiente. Già nelle centrali di seconda generazione, implementate all’ennesima potenza con la terza generazione, vengono fortemente ridotti nei volumi e successivamente incapsulati in un sistema a cipolla che non permette alcuna fuoriuscita delle stesse, sia all’interno dell’area di centrale, sia nei depositi sotterranei creati per l’occasione. In tutta Europa gli Stati che oggi lavorano, e tanto, attraverso l’energia nucleare, stoccano i loro rifiuti nei depositi nazionali. L’Italia è soggetta a una sanzione, da anni, per non aver mai realizzato un deposito nazionale dei rifiuti nucleari. Sanzione che tra le altre cose, paghiamo attraverso le nostre tasse.

Sicurezza? Non esiste una centrale elettrica nel 2022 più sicura per l’uomo e per l’ambiente rispetto ad una centrale nucleare. Gli standard di sicurezza ingegneristicamente pensati per la stessa, sono di grado estremamente più elevato rispetto ad una qualsiasi centrale termoelettrica presente sul territorio nazionale. I pochi gravi incidenti nella storia del nucleare sono dovuti a mancanze ingegneristiche irripetibili. Basti pensare che a Chernobyl non era stato costruito il mantello protettivo del nucleo del reattore. Una centrale come quella, nonostante si trattasse di prima generazione, non sarebbe mai stata autorizzata, già ai tempi, in Europa. Oggi abbiamo la terza generazione e ci avviamo verso la quarta, con tutele e gradi di sicurezza tali per cui un qualsiasi missile – perdonatemi la licenza in un periodo così drammatico dovuto al conflitto in Ucraina – dovesse colpire una centrale nucleare, non provocherebbe alcuna fuoriuscita massiva di radiazioni, di fatto non superiori rispetto a quelle già presenti nell’aria che respiriamo quotidianamente, in dosi ovviamente non pericolose.

Ricordiamo inoltre che abbiamo almeno 5 centrali nucleari tra i 100 e i 300 chilometri in linea d’aria da Milano, ma in territorio straniero. Che paradosso! Durata dei lavori e autorizzazioni? Oggi in Italia potrebbero volerci 9/10 anni, soprattutto per meri fini burocratici e autorizzativi. Ma secondo voi, per realizzare e farsi autorizzare un impianto fotovoltaico da 50 MW, in Italia, di grazia, quanto tempo ci metteremmo? Con la sostanziale differenza che una centrale nucleare non deturpa la stessa superficie di terreno agricolo o industriale del paese ed ha una efficienza (rendimento energetico, energia prodotta rispetto a quella necessaria per produrla) enormemente superiore rispetto a quella di un qualsiasi impianto fotovoltaico. Inutile segnalare inoltre che una centrale nucleare non funzionerebbe in maniera intermittente e pertanto potrebbe produrre energia ogni qualvolta la rete nazionale ne avesse bisogno, evitando sprechi o immissioni in rete non necessarie. Infine la transizione energetica verso le emissioni zero durerà probabilmente dai 40 ai 50 anni e oltre. Tempo ne abbiamo per alimentare il nostro mix energetico, ma prima partiamo, meglio è.

Sono grosse centrali, costose e difficilmente realizzabili? Per nulla. Al netto del fatto che la tecnologia nucleare per fissione è oggetto di studio e continua ricerca (in Europa non hanno mai smesso e la Francia ha appena autorizzato la realizzazione di nuove centrali nucleari di grande taglia), pertanto si tratta di tecnologie molto consolidate e di realizzazione ingegneristica usuale per grandi realtà del settore (l’Italia fu una grande potenza nucleare prima dell’incredibile affossamento), oggi sono in fase avanzata di affinamento tecnologico – in particolar modo per quanto riguarda il valore di efficienza e la quantità di rifiuti prodotti – gli SMR (Small Modular Reactors), ovvero reattori nucleari pronti per l’energia distribuita (anche taglie da 1 a 10 MW). Si tratta di reattori di ultimissima generazione perfetti per alimentare l’autoconsumo delle grandi industrie italiane.

Di rapida produzione e facile installazione, avrebbero impatto immediato sulle bollette dei grandi energivori italiani, ma soprattutto sulla riduzione totale dei loro consumi di gas e pertanto delle relative emissioni climalteranti (il nucleare è energia a Zero emissioni di CO2). È l’epoca in cui si possono e si devono abbattere le porte e i muri alzati dal populismo. Il governo Draghi ci ha portato nuovamente a guardare al futuro con autorevolezza, capacità di analisi, raziocinio e potere alla scienza. Sfruttiamo questo nuovo Rinascimento italiano per reinserire l’energia nucleare nel mix che, insieme all’ampliamento delle fonti rinnovabili ed al maggior uso delle soluzioni di efficientamento energetico, ci accompagnerà per i prossimi 40 o 50 anni di transizione energetica. In attesa che la fusione completi il tutto…

Soluzione atomica. Perché bisogna inserire il nucleare (e il gas) nella tassonomia Ue. Valerio Federico su L'Inkiesta il 4 Luglio 2022.

Il Parlamento europeo dovrebbe votare a favore della possibilità di destinare fondi europei per sfruttare e gestire meglio la fonte di energia con emissioni più basse di anidride carbonica.

Nucleare e gas vanno inseriti nella Tassonomia UE della finanza sostenibile, come proposto dalla Commissione europea, per il bene del pianeta, per il contrasto ai cambiamenti climatici e alle crisi dei prezzi del gas, per essere più autonomi dal Criminale di guerra.

Il Parlamento europeo discuterà e voterà sul punto nella sessione plenaria prevista a partire da oggi.

Il ricorso al gas, che pure porta emissioni inquinanti, è necessario in fase di transizione verso la prevista decarbonizzazione, le altre fonti, come possiamo verificare in questi mesi, non sono ancora sufficienti a farne a meno. L’inserimento in tassonomia permette la destinazione di fondi Ue per sfruttare, gestire, più e meglio questa fonte.

Il nucleare è in Europa oggi la fonte di energia con emissioni più basse di CO2 che, come noto, in quantità eccessiva surriscalda il pianeta con effetti potenzialmente devastanti.

Germania e Austria, che si oppongono al nucleare in Tassonomia, hanno potenziato il loro programma di sfruttamento del CARBONE, la fonte largamente più inquinante e con le più alte emissioni di anidride carbonica. In Germania è prevista una crescita del 25%.

La partita che si gioca da oggi è quella tra Macron e Scholz, tra nucleare e carbone, una partita che le squadre in campo hanno l’interesse a che sia amichevole, una partita della quale è meglio si parli poco in una fase nella quale l’Unione ha interesse a mostrarsi unita. L’Italia di Draghi, dopo che il Ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani si dichiarò favorevole agli small modular reactors, reattori nucleari di dimensioni più contenute, e al nucleare in Tassonomia, non si è più espressa, lo farà in questi giorni acuendo le tensioni in maggioranza?

La Francia oggi – il 70% dell’energia elettrica viene dai suoi impianti nucleari – è il paese della Ue con le più basse emissioni di CO2, ha subito meno aumenti nelle bollette ed è sostanzialmente indipendente da Putin. Nelle recenti tornate elettorali tutti i candidati (tranne Melenchon), di destra, di centro, e persino a sinistra la socialista Hidalgo e il comunista Roussel, si sono dichiarati a favore della conferma della strada nucleare.

Nel nostro continente, come riporta l’UNECE, la Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite, non sarà possibile raggiungere la decarbonizzazione completa entro il 2050 senza ricorrere al nucleare (di terza generazione avanzata), in primis perchè le tecnologie di stoccaggio di energia non sono ancora mature e serve integrare le fonti rinnovabili, evidentemente intermittenti. Un recente rapporto della IEA International Energy Agency documenta la necessità di raddoppiare la potenza installata nel mondo di nucleare entro il 2050 per rispettare gli obiettivi climatici.

Il nucleare è inoltre, come ci ricorda il JRC della Commissione europea, ecosostenibile come o più delle tecnologie già incluse nella tassonomia quali le fonti rinnovabili, e particolarmente sicuro (meno sicuri si sono dimostrate dighe, centrali elettriche fossili, impianti chimici).

È utile ricordare che l’Italia prevede già un ricorso ancor maggiore all’importazione di energia elettrica, con una probabile crescita delle importazioni di quella generata dagli impianti nucleari francesi (l’Italia importa energia elettrica da nucleare anche da Slovenia e Svizzera).

Naturalmente l’eventuale decisione del PE di inserire il nucleare tra le fonti finanziabili non avrebbe alcun impatto sui piani italiani di transizione energetica, per i quali sarebbe utile però si aprisse un confronto, senza preclusioni e senza salti in avanti, rispetto a una soluzione di mix energetico che non escluda alcuna fonte pulita e consideri vantaggi e svantaggi di ognuna di queste. Perfino la discussa Greta si espresse a favore del nucleare suscitando la reazione dell’ideologismo preconcetto che l’aveva resa simbolo indiscusso.

È chiaro che le fonti di energia rinnovabile, senza tralasciare il promettente eolico offshore, vanno sfruttate al massimo pur ricordando, per amor di verità, che il 70% del mercato delle rinnovabili passa dalla Cina così come quasi tutto il fotovoltaico, con implicazioni geopolitiche evidenti. Queste fonti portano inoltre un consistente consumo di suolo, a differenza del nucleare, che pure porta con sé problematiche, quale quella della conservazione delle scorie, comunque, come insegna la Francia, virtuosamente affrontabili.

L’indispensabile velocizzazione delle procedure autorizzative non risolverà i limiti delle rinnovabili a partire dalla disponibilità di materie prime e dalla loro naturale intermittenza. Infine va ricordato che in Danimarca, che si nutre essenzialmente di rinnovabili, le bollette sono ben più salate di quelle francesi.

Infine per chi in chiave anti nucleare di oggi richiama gli impianti a fusione, che non produrranno scorie, va ricordato che l’allaccio alla rete elettrica del primo impianto è prevista tra il 2040 e il 2050 mentre un reattore oggi, di terza generazione avanzata, ha mediamente bisogno di 7 anni per essere realizzato.

Anton Dolin. «L’energia nucleare non è la soluzione ai problemi italiani: sole e vento devono essere le nostre fonti». di Stefano Ciafani (Legambiente) su L'Espresso l'11 aprile 2022.  

Costi ancora altissimi, tempi lunghi per la costruzione dei reattori, problemi con lo smaltimento delle scorie, dipendenza dall’estero per le materie prime. L’atomo non risolverebbe i guai energetici del nostro Paese. L’intervento del Presidente di Legambiente

Da qualche mese in Italia è ripartito il dibattito sulla riapertura della stagione nucleare per fronteggiare i rincari in bolletta e la dipendenza dal gas russo. È cambiato qualcosa dal 2011, quando un referendum fermò la costruzione di nuove centrali nucleari decisa dall’allora governo Berlusconi? La risposta è no.

La produzione elettrica dall’atomo con la tecnologia moderna, la cosiddetta terza avanzata, è rischiosa. Continua a utilizzare la fissione e produce scorie radioattive, anche per decine di migliaia di anni, il cui smaltimento è un problema irrisolto (l’Italia non ha ancora realizzato un deposito per i rifiuti a 35 anni dal referendum del 1987 che chiuse l’avventura atomica). In queste scorie è presente materiale radioattivo utile per produrre gli ordigni nucleari. Le centrali, poi, continuano ad avere problemi di sicurezza anche nei paesi più tecnologicamente avanzati (come ha dimostrato il disastro giapponese di Fukushima 11 anni fa) e restano un obiettivo militare sensibile (quelle in Ucraina ci hanno fatto stare col fiato sospeso nelle scorse settimane).

Ai rischi evidenti si affiancano i tempi lunghissimi. I reattori di quarta generazione - se le ricerche iniziate 20 anni fa andranno a buon fine - vedranno la luce a ridosso del 2050, anno in cui il Pianeta dovrà aver già azzerato le sue emissioni climalteranti, se vuole fermare gli effetti della crisi climatica evidenti anche in Italia (si pensi al Po in secca, ai ghiacciai delle Alpi in ritirata o agli uragani che minacciano la Sicilia). 

Come ricordano i Fridays for Future, non c’è più tempo da perdere ma il nucleare è campione di ritardi. Il nuovo reattore Epr di Olkiluoto in Finlandia è entrato in esercizio 12 anni dopo rispetto alle previsioni iniziali. Lo stesso reattore che la Francia sta realizzando a Flamanville ha già 10 anni di ritardi e non è ancora nota la data di consegna definitiva.

Ai clamorosi ritardi si aggiungono i costi esorbitanti. Paghiamo bollette salate ma non è il nucleare a risolvere il problema. Il costo del reattore finlandese da 3 miliardi di euro è arrivato a 11. Quello francese è passato dai 3,3 miliardi di euro a 13, cifra destinata a ulteriori aumenti. Chi ha centrali attive sta cercando di allungare la loro vita (negli Usa almeno fino a 60 anni) per rimandare le onerosissime attività di smantellamento, bonifica dell’area e smaltimento dei rifiuti. È stato proprio il libero mercato a fermare il nucleare che negli ultimi anni, a causa dei costi, è stato surclassato dagli investimenti sulle rinnovabili.

Il nostro Paese ha bisogno di liberarsi dalla dipendenza dall’estero (che il nucleare alimenta), deve rendere distribuito il sistema elettrico (i produttori saranno milioni e non poche aziende) e per farlo deve puntare su semplificazioni, investimenti su efficienza, accumuli, pompaggi, reti, impianti a fonti rinnovabili da installare con velocità venti volte superiore. Abbiamo un potenziale straordinario da sfruttare, soprattutto sole e vento, che non dobbiamo comprare da nessuno. È forse questo il problema? 

Stefano Ciafani è il Presidente nazionale di Legambiente

«È ora di smontare le imprecisioni e le falsità sul nucleare». Quattro ricercatori del Politecnico di Milano hanno scritto all’Espresso per replicare alle affermazioni del presidente di Legambiente circa l’energia atomica. Continua il nostro dibattito pro e contro il nucleare. Alessandro Maffini, Matteo Passoni, Elena Tonello, Davide Vavassori - Politecnico di Milano, su La Repubblica il 28 Aprile 2022.  

Sulle pagine dell'Espresso nelle scorse settimane abbiamo raccontato i due fronti dell'Italia pro e contro l'energia nucleare, invitando i lettori a partecipare al dibattito su un tema che, tra emergenza climatica e guerra in Ucraina con conseguente rincaro dei costi energetici, è oggi di stringente attualità. L'articolo di Marco Grieco ha raccontato i giovani e i ricercatori che, anche attraverso un'intensa attività sui social, difendono le potenzialità dell'energia nucleare. Mentre, sull'altro fronte, abbiamo ospitato l'opinione scettica di Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, che ritiene essere ancora troppi i rischi.

Proprio in merito all’opinione di Ciafani, quattro ricercatori del Politecnico di Milano hanno inviato all’Espresso questo Fact-checking che pubblichiamo. Invitando ancora una volta chiunque voglia partecipare a questo scambio a contattarci.

ndr: In neretto le frasi tratte dall’articolo di Ciafani. Nel font normale, le controdeduzioni dei ricercatori

«È cambiato qualcosa dal 2011, quando un referendum fermò la costruzione di nuove centrali nucleari decisa dall’allora governo Berlusconi? La risposta è no».

La risposta corretta è “parecchio”:

Si sono effettuati "stress test” su tutte le centrali per verificare che un evento simile a Fukushima non potesse accadere in EU e, dove si è riscontrata la necessità, sono stati apportati miglioramenti ai sistemi di sicurezza.

Attualmente 54 reattori sono in costruzione in 19 nazioni tra cui Cina, India, Russia, Emirati Arabi Uniti, Corea del Sud, Turchia. Inoltre, in tempi molto recenti, anche diverse nazioni europee (Francia, Regno Unito, Olanda, Slovenia) hanno dimostrato interesse verso la costruzione di nuove centrali nucleari.

Vi è un grande interesse verso i reattori modulari di piccola taglia (Small Modular Reactors o SMRs). Ad oggi sono in costruzione ed avvio i primi reattori di questo tipo e, su scala globale, ci sono oltre 70 progetti.

Sono presenti diverse start-up nel campo delle tecnologie nucleari che attraggono investimenti di venture capitalist (cosa mai successa nel passato). Queste start-up sono attive sia nel campo della fissione nucleare (ad esempio l’italiana newcleo) sia nel campo della fusione (General Fusion, Tokamak Energy, Commonwealth Fusion).

Il primo prototipo di reattore nucleare per una base spaziale (NASA) è in fase di realizzazione.

Ad Onkalo, in Finlandia, si sono avviati dei test di prova per il primo deposito definitivo geologico profondo, per lo smaltimento dei rifiuti nucleari più pericolosi. Questo deposito, che sarà operativo a partire dal 2025, verrà poi replicato anche in altri paesi (Francia, Svezia, Canada).

Per quanto riguarda il Deposito Nazionale italiano, nel Gennaio 2021, dopo quasi 5 anni di attesa, è stata pubblicata la CNAPI (Carta delle Aree Potenzialmente Idonee). Questa identifica 67 aree in Italia che rispettano i criteri di Sicurezza definiti da ISPRA e che dunque sono potenzialmente idonee ad ospitare il sito del Deposito. Quest’ultimo è fondamentale non solo per lo smaltimento definitivo dei rifiuti a bassa attività e lo stoccaggio temporaneo di quelli ad alta attività derivanti dallo smantellamento delle ex-centrali nucleari italiani, ma anche per lo smaltimento definitivo di rifiuti a bassa attività provenienti da ospedali, industrie ed enti di ricerca.

«La produzione elettrica dall’atomo con la tecnologia moderna, la cosiddetta terza avanzata, è rischiosa».

Per rispondere a questa domanda è doveroso fare una fondamentale premessa: ogni attività umana è rischiosa. Ad esempio, in Europa gli incidenti domestici uccidono il doppio di quelli stradali e dieci volte di più degli incidenti sul posto di lavoro (le statistiche di EuroSafe e Istat indicano per l’Italia circa 5 milioni di incidenti domestici l’anno, di cui 8000 mortali). Nell’ambito delle tecnologie per la produzione di energia, l’energia nucleare è statisticamente una delle fonti energetiche più sicure, come diversi dati dimostrano.

«Continua a utilizzare la fissione e produce scorie radioattive, anche per decine di migliaia di anni, il cui smaltimento è un problema irrisolto»

Il settore nucleare è l’unica tecnologia per la produzione di energia elettrica su larga scala che si prende piena responsabilità di gestione e smaltimento di tutti i propri rifiuti e in cui il costo di questa gestione è computato all’interno del costo finale del prodotto. La quantità di rifiuti prodotti, che si dividono in basso, medio ed alto livello a seconda della loro attività, è tra le più basse a parità di energia generata. La quasi totalità della radioattività risiede nel combustibile e per questo il combustibile esausto rappresenta la principale fonte di rifiuto radioattivo di alto livello di una centrale nucleare. La quantità complessiva di combustibile nucleare esausto nel mondo dopo quasi 60 anni di utilizzo dell’energia nucleare, se fosse stoccata in un unico luogo, occuperebbe un volume con una superficie pari circa a quella di un campo da calcio per un’altezza di 3 metri.

La gestione dei rifiuti radioattivi è un argomento ampiamente affrontato, studiato e per il quale sono disponibili diverse soluzioni tecnologiche, già implementate a livello industriale. Per lo smaltimento di rifiuti a medio e basso livello esistono in Europa e nel mondo decine di depositi di superficie o in prossimità della superficie. Per lo smaltimento definitivo dei rifiuti di alto livello, la soluzione con il maggior consenso a livello internazionale è quella dei depositi geologici, in forma di tunnel sotterranei ad una profondità compresa tra i 250 e i 1000 m come quello già citato di Onkalo, in Finlandia. La disponibilità di queste infrastrutture sarà un dato di fatto per i prossimi decenni, perché si dovrà dare soluzione al problema del funzionamento di oltre 440 reattori nei 50 anni trascorsi. Esse saranno sufficienti per ospitare i rifiuti che verranno prodotti dal funzionamento dei reattori, esistenti e nuovi, per i prossimi decenni. Con i reattori di IV Generazione tale soluzione sarà facilitata, perché sarà possibile riciclare tali rifiuti, riducendone il tempo di pericolosità da 100mila a 300 anni, quindi come per i rifiuti a bassa radioattività. Infine, non si capisce per quale motivo, se si è in grado di gestire rifiuti tossici derivanti da attività industriali varie, non si dovrebbe essere in grado di gestire quelli radioattivi.

«L’Italia non ha ancora realizzato un deposito per i rifiuti a 35 anni dal referendum del 1987 che chiuse l’avventura atomica».

Come dimostrano le decine di depositi analoghi già esistenti ed in operazione in diversi paesi europei, la responsabilità non è tecnologica. Questa è da ricercarsi nel decisore politico, che per comprensibili ma non giustificabili motivi di convenienza, non ha provveduto a risolvere il tema per tempo, anzi portando l’Italia in infrazione verso l’Europa. In tutto ciò, sono corresponsabili le organizzazioni di varia natura che hanno alimentato e alimentano i "no-X” ideologici e ingiustificati alla realizzazione di infrastrutture fondamentali per il Paese. 

«In queste scorie è presente materiale radioattivo utile per produrre gli ordigni nucleari»

Il materiale strategico (tipicamente plutonio) si divide in "weapon grade”, di qualità idonea all’utilizzo militare, e in "reactor grade”, quello prodotto e consumato nelle centrali nucleari civili: quest’ultimo non è idoneo all’utilizzo militare. Inoltre, i rifiuti vetrificati che dovranno rientrare temporaneamente in Italia non contengono plutonio.

«Le centrali, poi, continuano ad avere problemi di sicurezza anche nei paesi più tecnologicamente avanzati (come ha dimostrato il disastro giapponese di Fukushima 11 anni fa)»

Per quanto riguarda la sicurezza si rimanda alla prima pagina di questo documento. Nello specifico, riguardo a Fukushima a fronte di oltre 25mila tra morti, feriti e dispersi causati dal quarto sisma più forte misurato dall'uomo e dallo tsunami, nessun decesso è stato registrato per cause legate alla radioattività rilasciata dall’incidente secondo gli organismi internazionali (un decesso è stato attribuito dal governo all'esposizione alle radiazioni, nell'ambito delle compensazioni economiche alla popolazione). Molte aree prima evacuate ora sono tornate disponibili. L’assenza di rischi a breve e lungo termine per la salute è stato confermato anche dal recente report UNSCEAR 2021.

«E restano un obiettivo militare sensibile (quelle in Ucraina ci hanno fatto stare col fiato sospeso nelle scorse settimane)».

La drammatica esperienza Ucraina sta dimostrando il contrario: molte infrastrutture sono state colpite ma nessuna centrale nucleare è stata oggetto di attacchi al fine di danneggiarla. Anche colpi accidentali non hanno generato alcun serio problema alla sicurezza. In generale, per la struttura degli edifici (ad es. diversi metri di spessore di muri in cemento armato, dal contenitore esterno alle strutture interne), non è semplice danneggiare un reattore nucleare dall’esterno.

«Ai rischi evidenti si affiancano i tempi lunghissimi. I reattori di quarta generazione – se le ricerche iniziate 20 anni fa andranno a buon fine - vedranno la luce a ridosso del 2050».

Fortunatamente non occorrono tempi lunghissimi al fine di avere un supporto anche dall’energia nucleare per affrontate i problemi dei cambiamenti climatici. Il contributo derivante dall’energia nucleare non richiede infatti di attendere la disponibilità della IV generazione. Dal 1970 ad oggi l’energia nucleare ha già evitato l’emissione di più di 70 miliardi di tonnellate di CO2, grazie al contributo attuale basato quasi esclusivamente sui reattori di II generazione e oggi rappresenta circa il 10% della produzione mondiale di energia elettrica. Questo dato continuerà a crescere anche grazie all’estensione del funzionamento di molti attuali impianti per ulteriori 20-40 anni (vedi dopo) e ai reattori di III generazione, che sono già entrati in funzione in diversi paesi del mondo e forniranno un contributo sempre maggiore. Infine, i primi progetti di reattori di IV Generazione sono previsti entrare in funzione nel 2035. Un esempio in questa direzione è il progetto russo PRORYV, già in costruzione e il cui completamento è previsto per il 2028-30. Per questa data è prevista la realizzazione di 3 impianti (reattore, impianto di rifabbricazione combustibile, impianto di riprocessamento) con l’obiettivo di dimostrare il riciclo dei rifiuti radioattivi.

«2050 anno in cui il Pianeta dovrà aver già azzerato le sue emissioni climalteranti, se vuole fermare gli effetti della crisi climatica»

L’unico modo per sperare di arrivare al 2050 con l’azzeramento delle emissioni climalteranti è di includere nel computo una certa quantità di energia nucleare, come riportato da tutti gli scenari energetici elaborati dalle principali organizzazioni internazionali. In tutti i casi, la quantità di energia nucleare prevista al 2050 è superiore a quella attuale, anche in modo significativo. Nello scenario IPCC, in cui il nucleare ha il peso minore, ad esempio, sono previsti il doppio dei reattori nucleari rispetto a quelli attuali. Occorrerebbe quindi mettersi nelle condizioni di poter effettivamente disporre dell’energia nucleare prevista come necessaria, a supporto di un mix energetico dominato dalle fonti rinnovabili, che si spera di riuscire a raggiungere a livello globale, di un mix energetico dominato dalle fonti rinnovabili.

Già oggi si corre il rischio che il 2050 non sia un obiettivo realistico. Infatti, alcuni importanti paesi (Cina, India e Russia, tra i principali emettitori di CO2 del pianeta) hanno già dichiarato che il loro obiettivo è il 2060. In questo contesto, il contributo della Comunità Europea, certamente importante dal punto di vista culturale, purtroppo avrà un effetto limitato sul riscaldamento globale, emettendo l’EU meno dell’8% della CO2 del pianeta.

«Come ricordano i Fridays for Future, non c’è più tempo da perdere ma il nucleare è campione di ritardi. Il nuovo reattore Epr di Olkiluoto in Finlandia è entrato in esercizio 12 anni dopo rispetto alle previsioni iniziali. Lo stesso reattore che la Francia sta realizzando a Flamanville ha già 10 anni di ritardi e non è ancora nota la data di consegna definitiva. Ai clamorosi ritardi si aggiungono i costi esorbitanti».

La realizzazione degli EPR europei di Flamanville e Olkiluoto ha indubbiamente subito ritardi e aumento dei costi. Tuttavia, le stesse identiche nuove tecnologie, i cosiddetti reattori di generazione III+ (EPR, AP1000 oppure simili nuove soluzioni tecnologiche russe, coreane e cinesi), vengono costruite senza drammatici ritardi ed extra-costi in Cina, Corea del Sud, Emirati Arabi Uniti. Due EPR, identici a quelli di Flamanville e Olkiluoto, sono in funzione in Cina dal 2019. Questi fatti dimostrano inequivocabilmente che il problema dei ritardi e dell’aumento dei costi rispetto alle previsioni non sono quindi da ricercare nella tecnologia ma nella “mancanza di allenamento” a costruire impianti e infrastrutture complesse del mondo occidentale. Al netto dei ritardi e degli extra-costi, il reattore Olkiluoto-3 è stato connesso alla rete elettrica lo scorso marzo e produrrà, da solo, il 14% del fabbisogno elettrico finlandese senza emettere CO2.

«Chi ha centrali attive sta cercando di allungare la loro vita (negli Usa almeno fino a 60 anni) per rimandare le onerosissime attività di smantellamento, bonifica dell’area e smaltimento dei rifiuti».

In realtà, chi ha centrali attive ha tutto l’interesse economico ad estendere la vita degli impianti verso i 60 anni e oltre, ma questo non tanto per evitare i costi di smantellamento che, infatti, pesano non oltre il 5-6% sul costo di produzione dell’energia elettrica. Il vero costo del nucleare è il grande investimento capitale iniziale e questo è già stato ripagato al momento in cui si richiede l’estensione. Il funzionamento di una centrale nucleare oltre i 40 anni inizialmente previsti consente, dunque, di produrre elettricità a costi bassissimi, essendo rimasti solo quelli di gestione e del combustibile: in totale, meno del 40% del costo originario di produzione dell’elettricità. Questa scelta è indubbiamente molto più conveniente, dal punto di vista economico-finanziario, rispetto alla costruzione di una nuova centrale nucleare.

Quanto detto spiega anche il motivo per il quale il numero di nuove centrali in costruzione nel mondo, sebbene significativo, sia inferiore rispetto all’effettiva necessità di centrali nucleari per i prossimi decenni.

«È stato proprio il libero mercato a fermare il nucleare che negli ultimi anni, a causa dei costi, è stato surclassato dagli investimenti sulle rinnovabili».

Per quanto riguarda alcuni cenni sull'economia dell’energia nucleare, vedi sopra. Il libero mercato, insieme alle scelte politiche, ha portato soprattutto al prolungamento di ulteriori 20-40 anni delle centrali nucleari esistenti e alla costruzione di 54 nuove centrali. Questo mostra chiaramente che il mercato nucleare non è fermo. Nel mondo occidentale c’è stato sicuramente un forte rallentamento rispetto ai decenni precedenti. Ciò ha causato anche l’incapacità emersa di rispettare tempi e costi di realizzazione di nuove centrali nucleari, come indicato in precedenza. Ma anche qui si osservano tangibili segnali di ripresa, come ad esempio mostrato dai programmi francesi e UK di realizzazione di nuove centrali nucleari, recentemente annunciati [3, 4]. Tutto questo avviene in una situazione di sostanziale assenza di sussidi.

Il mercato delle fonti rinnovabili non può essere ricondotto alle sole regole del libero mercato (come è anche giusto che sia, dal momento che la politica energetica richiede anche scelte politiche e corrispondenti meccanismi di incentivazione). Esse sono ampiamente sussidiate, a differenza dell’installazione di nuovi impianti nucleari. Ciò nonostante, oggi è installata una potenza nucleare di 393 GW elettrici, superiore a quella presente nel mondo prima di Fukushima (2010: 375 GW elettrici).

La presunta competizione tra fonti rinnovabili e fonte nucleare rappresenta in realtà uno dei principali ostacoli al raggiungimento degli obiettivi di decarbonizzazione, come spiegato in precedenza.

«Il nostro Paese ha bisogno di liberarsi dalla dipendenza dall’estero (che il nucleare alimenta)»

È indubbio il fatto che l’Italia abbia necessità di ridurre fortemente la dipendenza dall’estero in materia energetica. Ma per quanto riguarda il fatto che il nucleare possa alimentare tale dipendenza, è vero il contrario: l’Italia produce gran parte della propria energia elettrica con il gas, per il quale dipendiamo fortemente dall’estero. Le grandi necessità di gas derivano anche dalla scelta di aver abbandonato la produzione di energia nucleare: la dimostrazione più evidente di questo proviene dalla Francia, paese assolutamente simile all’Italia per necessità energetica, popolazione, risorse di fonti fossili. Per i prezzi convenienti, l’Italia importa il 10-14% del proprio fabbisogno dall’estero, soprattutto dalla Francia ma anche dalla Svizzera e dalla Slovenia; gran parte di questa energia elettrica è prodotta dal nucleare (e non solo in Francia); se ci fossero più linee elettriche di connessione con l’Europa, molto probabilmente l’Italia importerebbe un quantitativo ancora maggiore di elettricità. Anche per quanto riguarda il caso delle fonti rinnovabili, la dipendenza di alcuni materiali e componenti fondamentali è drammatica: la Cina, in particolare, controlla il mercato dei solar wafer (96% della produzione mondiale), delle terre rare e del magnesio (93% e 89% della produzione mondiale rispettivamente). Questa forte e inevitabile dipendenza dall’estero non è esente da preoccupazione da parte della Comunità Europea.

La tecnologia nucleare potrebbe essere interamente europea, come europei sarebbero i componenti, i sistemi nonché l’arricchimento e la fabbricazione del combustibile. L’uranio grezzo, necessario in quantità enormemente inferiori rispetto ai combustibili fossili, arriva principalmente da paesi “amici” come Canada e Australia, ma in ogni caso giacimenti di uranio sono presenti anche in Europa e in Italia.

Alessandro Maffini, Ricercatore

Matteo Passoni, Presidente del Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Nucleare

Elena Tonello, Dottoranda

Davide Vavassori, Dottorando

Dipartimento di Energia, Politecnico di Milano 

LA CRONOLOGIA. L’Italia e il nucleare, dal primo impianto ai referendum: storia di un rapporto complicato. Emanuele Coen La Repubblica l'11 Aprile 2022.   

Un momento della raccolta di firme per i referendum sul nucleare che si sono svolti l'8 novembre 1987. ANSA

Le cinque centrali, il movimento antinuclearista, l’abrogazione dopo Chernobyl nel 1987, e dopo Fukushima nel 2011. Cronologia dell’atomo nel nostro Paese

C’è stata un’epoca, il lontano 1966, in cui l’Italia era il terzo produttore al mondo di energia elettronucleare, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna. Un record difficile da mettere a fuoco con le lenti di oggi, dopo i due referendum che nel 1987, all’indomani del disastro di Chernobyl (1986), e poi nel 2011, dopo quello di Fukushima, hanno messo la parola fine al nucleare nel nostro Paese, che oggi impiega combustibili fossili per oltre la metà del proprio fabbisogno e importa dalle nazioni confinanti quote importanti di energia, prodotta anche con impianti nucleari. 

Per ricostruire la complessa e travagliata vicenda dell’energia dell’atomo occorre tornare agli anni Cinquanta, quando l’Italia, non avendo le risorse energetiche sufficienti per sostenere uno sviluppo industriale autonomo, è uno dei primi Paesi a intraprendere la costruzione di centrali nucleari per produrre energia elettrica. La ricerca italiana è all’avanguardia: nel 1959 viene costruito il primo reattore di ricerca a Ispra (Varese), mentre la prima centrale viene realizzata a Latina (Borgo Sabotino) nel 1963, la seconda otto mesi più tardi a Sessa Aurunca, vicino a Caserta (Garigliano), e dopo meno di un anno l’impianto di Trino, in provincia di Vercelli, al momento della sua entrata in funzione il più potente al mondo. Per la quarta centrale, quella di Caorso (Piacenza) bisognerà aspettare il 1978, quando viene collegata per la prima volta in parallelo con la rete di distribuzione dell’energia elettrica. Nel 1982, infine, viene messo in cantiere l’impianto di Montalto di Castro (Viterbo), mai entrato in funzione. 

Anni di crescita tumultuosa, gli anni Sessanta del boom economico, in cui lo sviluppo del nucleare di Stato coincide con la nascita dell’Ente nazionale per l’energia elettrica (Enel), che diventa oggetto di scontro politico, pro o contro la nazionalizzazione del settore. «Una faida tra i politici che spianerà la strada all’importazione massiccia di idrocarburi e costituirà un forte freno allo sviluppo dell’industria nucleare di Stato e ai relativi programmi di ricerca italiani», sottolinea Flavio Parozzi nel libro “Gli anni dell’atomo – Storia dell’industria elettronucleare in Italia “(Biblion edizioni). In particolare, Parozzi ricostruisce la vicenda giudiziaria che vede al centro Felice Ippolito, segretario generale del Cnen (Comitato nazionale energia nucleare), avversato dai produttori privati di energia elettrica, contrari alla nazionalizzazione del settore, caldeggiata invece da Ippolito, che viene nominato tra i consiglieri dell’Enel.

Nel 1963 una commissione di indagine avviata da quattro senatori democristiani mette nel mirino la gestione le attività del Cnen sotto Ippolito, che viene arrestato il 3 febbraio 1964 per presunte irregolarità amministrative e accusato di aver utilizzato ingenti somme di denaro pubblico senza previa autorizzazione parlamentare. Ippolito verrà condannato in primo grado a 11 anni di reclusione per peculato, pena ridotta a 5 anni e 3 mesi in Appello, e poi graziato dal presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Con l’inaugurazione della quarta centrale italiana, a Caorso, nel 1981, si conclude il ciclo espansivo del nucleare. Nello stesso anno viene approvato dal Parlamento il Piano energetico nazionale (Pen), inizialmente pensato per la realizzazione di 20 reattori, piano poi ridimensionato a sei.

Nel frattempo, a partire dal 1977 prende piede il movimento antinucleare: a Montalto di Castro si organizza la Festa della vita contro la costruzione della centrale, alla quale parteciperanno gruppi da ogni parte d’Italia. Appaiono gli stemmi con il sole che ride e la scritta “Nucleare? No grazie”. Tra gli animatori dell’evento centinaia di uomini e donne che daranno vita, qualche anno dopo, a Legambiente. In seguito all’incidente di Three Miles Island, in Pennsylvania, dove il 28 marzo 1979 si verifica il più grave disastro di un reattore occidentale, scendono in piazza a Roma 40mila persone e qualche anno più tardi, dopo l’esplosione del reattore numero 4 della centrale di Chernobyl (all’epoca in Unione Sovietica, oggi in Ucraina), il 26 aprile 1986, la più grave catastrofe nella storia del nucleare civile, Legambiente promuove a Roma la manifestazione “Stop al nucleare”, il 10 maggio, a cui partecipano oltre 200mila persone.

I rischi connessi all’installazione di centrali nucleari scuotono l’opinione pubblica. Sull’onda di Chernobyl, con il referendum dell’8 novembre 1987 la maggioranza degli italiani vota Sì abrogando una serie di norme e orientando le successive scelte dell’Italia in campo energetico. Di fatto, con l’80 per cento dei voti (il 65 per cento degli aventi diritto alle urne) il referendum sancisce l’abbandono del nucleare come forma di approvvigionamento energetico.

Ventidue anni dopo, nel 2009, il governo italiano propone il rilancio delle attività propedeutiche alla produzione elettronucleare – vengono siglati anche due accordi internazionali per la costruzione complessiva di otto reattori - ma due anni più tardi (11 marzo 2011), dopo il disastro nucleare di Fukushima, in Giappone, un nuovo referendum pone ancora una volta fine all’energia nucleare in Italia. Fino al dibattito che si è riacceso nelle ultime settimane sulla dipendenza del nostro Paese dalle fonti energetiche fossili e l’opportunità di trovare fonti alternative.

Chi sono gli avvocati dell’atomo italiani. Dalla pagina di successo sui social al ministro per la Transizione che si dice possibilista sull’energia nucleare, fino al numero in crescita di iscritti ai corsi dedicati. La narrazione su reattori e fusione sta cambiando. Marco Grieco su La Repubblica l'11 Aprile 2022.

«Il navigatore italiano è atterrato nel nuovo mondo». Era il 2 dicembre 1942 quando il fisico Arthur Compton, telefonando a James Conant, allora presidente del Comitato per la ricerca sulla difesa statunitense, salutò la prima reazione nucleare a catena. Il navigatore italiano era Enrico Fermi che, fuggito qualche anno prima dall’Italia stretta dalle leggi razziali, aveva costruito negli androni di uno stadio dismesso a Chicago il primo reattore nucleare al mondo, generando una reazione a catena di 28 minuti.

Fusione nucleare: come funziona e perché piace ai big, da Bezos a Gates. Stefano Agnoli su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Anche l’italiana Eni è in campo per sperimentare la nuova tecnologia che permette di riprodurre sulla Terra ciò che accade nelle stelle e nel nostro Sole.

Dopo l’immissione nel reattore, i nuclei di deuterio e di trizio (due isotopi dell’idrogeno) vengono accelerati e riscaldati con impulsi radio e fasci di particelle ad alta energia fino a formare un gas ionizzato, il plasma.

Il plasma ad alta temperatura viene confinato con potenti campi magnetici all’interno del reattore di forma toroidale (simile a una ciambella) per non farlo avvicinare alle pareti, che verrebbero danneggiate dall’intenso calore.

Alla temperatura di 100 milioni di gradi avviene la fusione dei nuclei di idrogeno che genera una grande quantità di energia oltre a un nucleo di elio, che rimane intrappolato nei campi magnetici e tiene caldo il plasma, e un neutrone che invece esce dalla ciambella e va a riscaldare un «mantello» intorno.

Il calore del mantello viene quindi trasferito a un generatore di vapore, con cui si alimenta una turbina che trascina un generatore elettrico, come in tutte le centrali termoelettriche

A uguale qualità di massa del combustibile la fusione nucleare produce quattro volte più energia.

I prodotti della fissione sono tutti radioattivi, un problema che non c’è nella fusione.

Il neutrone prodotto rende radioattivi i metalli che attraversa ma la radioattività decade in un centinaio di anni, come accade a una macchina ospedaliera che produce radiofarmaci.

«Un game changer? Sì, la fusione magnetica ha tutte le carte in regola per esserlo». Francesca Ferrazza, laurea in fisica, una carriera nelle energie rinnovabili e oggi a capo delle attività dell’Eni sulla fusione nucleare, non nasconde la complessità del compito che sta affrontando - riprodurre sulla Terra ciò che accade nelle stellee nel nostro Sole - e neppure la sua fiducia in un esito positivo. I concetti dell’energia «classica» potrebbero uscirne infranti: finora, si legge nei manuali universitari, vige una sorta di teorema di impossibilità secondo il quale avere energia abbondante, economica, sicura e rispettosa dell’ambiente è un’impresa che potrebbe andare oltre i limiti umani. Con la fusione le regole della partita dell’energia potrebbero invece cambiare radicalmente. Un «game changer», appunto.

Si parla di «fusione magnetica» con un pudore forse eccessivo e per evitare le contestazioni che si devono allo scarso appeal di cui gode l’atomo tra le opinioni pubbliche mondiali, ma proprio di energia nucleare a tutti gli effetti si tratta. Nulla a che fare però con la «fissione» che sta alla base della tecnologia delle centrali di oggi: lì i nuclei pesanti dell’uranio vengono bombardati con neutroni, si dividono, e in questo processo emettono energia. Un grammo di uranio produce la stessa energia di 2.800 chilogrammi di carbone. Nel processo non ci sono emissioni di gas serra, ma i materiali che rimangono alla fine, le scorie, sono altamente radioattivi e devono essere smaltiti e seppelliti per centinaia d’anni. La fusione invece è la reazione che avviene nelle stelle. Ai livelli di calore e pressione che si formano all’interno dei corpi stellari (nel Sole fino a 14 milioni di gradi) i nuclei di idrogeno si scontrano e si fondono in atomi di elio più pesanti, rilasciando grandi quantità di energia, quattro volte in più rispetto alla fissione. Come riprodurre in laboratorio questo processo? Servono altissime temperature, fino a 100 milioni di gradi per fondere gli isotopi di idrogeno - deuterio e trizio - perché cambino natura e diventino un «plasma», ovvero un gas ionizzato considerato come il quarto stato della materia, distinto cioè dallo stato solido, liquido ed aeriforme. Questa condizione, poi, va mantenuta per un periodo di tempo sufficientemente lungo perché il bilancio finale di tutto il processo sia positivo, ovvero perché la quantità di energia ricavata superi quella immessa. 

Ma non servono solo temperature mai sperimentate prima. Il plasma deve anche rimanere confinato in uno spazio limitato, senza venire a contatto con altre strutture. Per ottenere il risultato che nelle stelle si deve alla forza di gravità vengono utilizzati potenti campi magnetici, che costringono le particelle a seguire traiettorie a spirale intorno alle linee di forza del campo. La macchina a forma di ciambella dove ciò avviene ha un nome russo: «Tokamak», che è l’acronimo per «camera toroidale con spire magnetiche». I primi studi sulla fusione a confinamento magnetico si devono alla fisica sovietica dei tempi di Stalin e di Andrei Sacharov, il coautore della bomba a idrogeno dell’Urss, poi dissidente e premio Nobel per la pace 1975. L’energia da fusione non produce scorie radioattive, con una minima eccezione: i neutroni che si liberano rendono radioattivi i metalli che attraversano, ma lo stesso accade, ad esempio, a un ciclotrone ospedaliero che produce radiofarmaci. La reazione è intrinsecamente sicura, visto che si spegne in pochi secondi se non si iniettano i gas di deuterio e trizio che la alimentano. Impossibile, in teoria, che possa essere causa di tensioni geopolitiche, visto che nell’acqua di mare si trova sufficiente deuterio e il trizio viene prodotto nel futuro impianto a partire dal litio. La domanda di litio si moltiplicherà nei prossimi decenni ma le sue riserve, e quelle di deuterio, sarebbero comunque in grado di soddisfare i consumi energetici mondiali per alcuni miliardi di anni. Fin qui la teoria. La «pratica», ovvero la volontà di realizzare un progetto reale di fusione nucleare, nasce nel 1985, all’insegna della cooperazione internazionale. Si tratta del progetto «Iter», la strada, al quale partecipano Cina, Giappone, India, Corea del Sud, Russia, Stati Uniti, Regno Unito e Unione Europea. A Cadarache, nel Sud della Francia, l’obiettivo è arrivare a costruire in dimensioni reali, e non nella scala ridotta dei progetti di ricerca, un impianto che dimostri la fattibilità tecnica della fusione. Il suo cuore, il Tokamak, sarà installato in un cilindro alto trenta metri e di trenta metri di diametro. Il valore dell’investimento è coerente con lo sforzo, ed è pari a una ventina di miliardi di dollari. La timeline prevede la produzione del primo plasma entro il 2025 e l’avvio delle prime operazioni con deuterio e trizio a partire dal 2035. A succedere a Iter sarà poi «Demo», il cui compito sarà quello di passare dalla dimostrazione della fattibilità della fusione alla produzione di energia elettrica, con previsione 2040. Demo dovrebbe consentire a sua volta l’approdo al primo prototipo industriale, il cosiddetto «first of a kind», dopo la metà del secolo.

Ma se fino a pochi anni fa l’iniziativa sul fronte della fusione nucleare è stata appannaggio degli Stati e delle organizzazioni internazionali, ora lo scenario è cambiato. Investitori istituzionali, fondi, grandi major dell’energia, grandi imprenditori, da Jeff Bezos a Bill Gates, stanno puntando le loro carte sul potenziale balzo in avanti, con ambizioni che sfidano i tempi di un «normale» sviluppo tecnologico. E tra i più promettenti c’è anche quello patrocinato dall’Eni, che nel 2018 tramite la sua società di venture capital Eni Next ha investito 50 milioni di dollari rilevando la maggioranza relativa in uno spin-out del Massachusetts Institute of Technology, la Commonwealth Fusion Systems, rinnovando poi l’appoggio nel secondo round di richiesta fondi del 2021 che ha raccolto 1,8 miliardi di dollari (tra gli altri soci ci sono anche la norvegese Equinor, Google, Temasek). Se l’idea di base è sempre la stessa, il concetto realizzativo cambia: Cfs lavora su dimensioni più ridotte e più compatte della macchina che dovrà ospitare la fusione. E questo grazie all’utilizzo di superconduttori ad alta temperatura (temperature sotto zero ma più alte di quelle consuete) e di materiali che permettono di raggiungere livelli di campo magnetico più elevati. Ma la differenza più rilevante, trattandosi di interventi «privati», riguarda le ambizioni dichiarate sui tempi di realizzazione. Entro il 2025 Cfs intende costruire Sparc, la prima macchina sperimentale che avrà come obiettivo un bilancio energetico netto positivo. Ma poi, anticipando di 15 anni la milestone di Iter, Cfs intende addirittura arrivare a una centrale «first of a kind» prima del 2035: un impianto di dimensioni più grandi di Sparc e di capacità di qualche centinaio di Megawatt. Insomma, una specie di «Sole portatile». Il «game changer» arriverà così velocemente? Tutto suona sorprendente, come anche le stime sui suoi costi. Servirebbe la sfera di cristallo, ma secondo le proiezioni dell’americana Eia il costo dell’elettricità da fusione (in termini di «levelized cost of electricity») potrebbe variare nel 2040 negli Usa tra i 6 e gli 11 centesimi al kilowattora. Competitivo con i costi di un sistema elettrico basato solo su fonti intermittenti come solare ed eolico.

La cavalcata dell’atomo. A che punto è il nucleare nel mondo. Elena Pelloni su L'Inkiesta il 26 Marzo 2022.

Gli Usa sono ancora il primo Paese per energia atomica prodotta, ma la Cina non sta a guardare. E in Europa la crisi energetica potrebbe cambiare presto lo scenario attuale.

150 nuovi reattori nucleari in 15 anni. È questo il piano messo in piedi dalla Cina per avvicinare l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050. La nuova tranche di reattori si andrà ad aggiungere ai 50 già attivi, che già da soli permettono al Dragone di classificarsi come il secondo maggiore produttore al mondo di energia nucleare. Un obiettivo ambizioso di chi ai dubbi riguardo la sicurezza di questa fonte energetica risponde con decisione, investendo oltre 440 miliardi di dollari. Un costo «relativamente basso», come l’ha definito Bloomberg commentando la manovra, che consentirà alla Cina di raggiungere la quota più alta al mondo di energia nucleare prodotta.

Ad oggi, però, sono ancora gli Stati Uniti la prima nazione per energia nucleare prodotta, con una quota del 30 per cento sul totale di quella generata a livello globale. Nel proprio mix energetico, gli Usa attingono ai loro 96 reattori nucleari – il numero attualmente più alto al mondo per singola nazione – per coprire poco meno del 20 per cento del totale dell’energia elettrica utilizzata. Se invece si guarda all’energia pulita attualmente utilizzata oltremare, il nucleare rappresenta una quota pari circa al 52%. 

Ma non tutti sono concordi nel definire il nucleare una fonte di energia rinnovabile utile alla transizione ecologica. In questo senso, l’Europa ne ha approvato l’utilizzo soltanto qualche mese fa, dopo una dura diatriba interna, aggiungendo l’energia ottenuta dal nucleare all’interno della tassonomia verde. Assieme al gas è stata infatti inserita nella lista delle fonti energetiche che l’Unione considera verdi, cioè sostenibili nell’ottica della transizione ecologica. In questo contesto, è bene ricordare che si sta parlando di un territorio, quello dei 27, in cui convivono Paesi assolutamente convinti della vantaggiosità dell’energia dell’atomo, come la Francia e altri assolutamente contrari, come la Germania o l’Italia.

La Francia possiede 58 reattori nucleari che le permettono di partecipare per il 13 per cento alla quota energetica nucleare generata nell’intero pianeta. Questo la rende la terza potenza energetica nucleare a livello globale e rappresenta il primo Paese al mondo a fare il più largo utilizzo di nucleare nel proprio mix energetico: ben il 70 per cento della sua energia elettrica proviene infatti dai suoi 58 reattori. Reattori che verranno implementati di altri sei, grazie a un investimento da 50 miliardi attraverso i quali saranno installati piccoli reattori modulari e altri innovativi, capaci di garantire un minore impatto in termini di rifiuti. Il nuovo piano di Parigi, annunciato a febbraio dal presidente Macron, prevede inoltre lo studio di altri 8 reattori nucleari e l’estensione a oltre 50 anni di vita di quelli già attivi. Macron ha infatti parlato di «rinascita dell’industria nucleare», una scommessa che la Francia vuole vincere per tagliare il traguardo delle zero emissioni di gas entro il 2050 e risolvere il problema della crisi energetica che sta facendo barcollare l’Europa. 

Ed è proprio la Germania, assieme all’Italia, a essere uno dei Paesi che sta soffrendo maggiormente l’attuale crisi energetica, resa ancora più acuta dallo scontro tra Russia e Ucraina. Scontro che non solo ha fatto schizzare i prezzi del gas a svantaggio degli acquirenti ma che ha inoltre ulteriormente rallentato l’attivazione del gasdotto Nord Stream 2, un tubo di oltre 1200 chilometri che trasporterebbe gas russo in Europa attraverso il Mar Baltico.

Proprio per questo, qualche mese fa, Berlino aveva spinto per inserire nella tassonomia verde europea proprio il gas, appoggiata dal gruppo di Visegrad. Nonostante la Germania avesse precedentemente investito nel nucleare, installando sul suo territorio 6 centrali, si trova ora nella penultima fase di un lungo processo di denuclearizzazione totale. A seguito del disastro di Fukushima avvenuto nel 2008, la cancelleria ha optato per invertire il processo di potenziamento del nucleare, puntando a eliminarlo completamente entro dicembre 2022. Nel 2038, invece, verrà chiusa anche l’ultima centrale a carbone, come stabilito dal piano avviato nel 2019. Parallelamente, la Germania ha investito tanto sulle rinnovabili, prime tra tutte l’eolico e il solare. Una manovra che sta subendo un’ulteriore accelerazione a fronte dell’attuale crisi del gas. Berlino dovrebbe arrivare alla neutralità carbonica entro il 2035. 

A produrre un’elevata quota dell’energia nucleare utilizzata a livello globale contribuisce la Russia per quasi l’8 per cento. Ma di ciò che esce dai suoi 39 impianti, l’Orso utilizza soltanto un 20% (circa 40 mila GWh) all’interno del suo mix energetico. 

Dopo la Francia, sono Slovacchia, Ucraina e Ungheria a fare affidamento sul nucleare, utilizzandolo per una quota pari a circa la metà del totale dei consumi elettrici. Ma tra queste nazioni, la più autonoma è l’Ucraina, settimo Paese al mondo per energia nucleare prodotta grazie ai suoi 15 reattori. Un numero che sta facendo tremare l’Europa a causa dell’incessante pioggia di bombardamenti che hanno già sfiorato diverse centrali ucraine, destando profonda preoccupazione. 

È interessante notare come l’inasprimento dei costi energetici degli ultimi tempi stia convincendo alcuni Stati a rivalutare l’energia nucleare dopo che questa ha subito nel corso degli anni, soprattutto a causa dei disastrosi incidenti di Chernobyl (1986) e Fukushima (2011), graduali eliminazioni. È di questi giorni, infatti, la notizia arrivata da Bruxelles, dove anche i partiti ecologisti belgi stanno valutando di rimandare il piano di uscita del nucleare, promulgato tramite legge nel 2003. Il Belgio avrebbe infatti dovuto chiudere le sue sette centrali entro il 2025 ma a seguito dei rincari conseguenti alla crisi ucraina il governo potrebbe votare per il mantenimento del nucleare fino al 2035.  

Trentasei anni dopo. La memoria di Chornobyl’ e la nuova minaccia nucleare. Yaryna Grusha Possamai su L'Inkiesta il 26 Aprile 2022.

Mosca gestì l’esplosione del quarto reattore della centrale ucraina nel peggior modo possibile. Gli ucraini ricordano bene cosa è successo quella notte e per questo non avrebbero mai scavato nella Foresta Rossa, come invece hanno fatto i soldati russi durante l’invasione.  

Quello che per il mondo in questi giorni è una minaccia nucleare, nei territori ucraini e bielorussi si è sperimentato in prima persona nel 1986. Oggi sono passati 36 anni dalla notte in cui il quarto reattore nucleare della Centrale di Chornobyl’ (la variante ucraina di Chernobyl’) è esploso, provocando la più grande catastrofe nucleare nella storia del pianeta. Forse oggi nessuno se lo ricorderà perché in questi giorni stiamo vivendo una minaccia nucleare nuova.  

L’Europa cerca di evitare il conflitto nucleare, la Russia usa la minaccia come l’arma più potente nelle sue mani per raggiungere i suoi fini, l’Ucraina e la Bielorussia sanno per esperienza quali sono le conseguenze di un’esplosione nucleare. 

Lo storico Serhii Plokhy nel suo libro dedicato a Chornobyl’, da poco uscito anche nella traduzione italiana, evidenzia i fattori che hanno portato alla tragedia, menzionando l’approccio superficiale sovietico nell’organizzare il lavoro, il fattore personale nella catena di commando chiamato not deliver bad news ai propri superiori e la totale assenza di trasparenza tra l’apparato e il popolo nel gestire l’emergenza.

La storia, dopo decenni di ricerche sulla catastrofe, ha saputo dare alcune risposte su cosa è successo quella notte e le settimane seguenti della primavera 1986. Ma ciò che rimane nelle memorie degli ucraini e dei bielorussi sono le immagini ancora vive degli abitanti di quelle zone morti per le radiazioni, senza sapere in quel momento per come e perché, magari tenuti anche per mano fino all’ultimo sospiro, le file lunghe degli autobus diversi giorni dopo l’esplosione con gli sfollati che non hanno mai più rivisto la loro casa, le malattie che presto hanno consumato i passeggeri di quegli autobus, gli abitanti rimasti nelle zone adiacenti e i liquidatori e i costruttori del sarcofago sopra il reattore numero quattro. 

Le memorie rimangono vive nonostante i paesi inghiottiti dalla natura vivace e rimasti presenti sulle mappe solo con le insegne, alcuni forni nelle case che sbucano fuori dal verde, alcuni monumenti ai caduti nella seconda guerra mondiale nei posti che una volta erano il centro del paese. Queste memorie si sono spostate e allargate assieme alla gente sfollata nell’immediato, ma anche con chi lasciava le zone attorno a Chornobyl’, divise in quattro territori rispetto al livello di contagio.

Quella gente ha ricominciato la vita daccapo in città come Sumy, Perejaslav, Kiev, Poltava. Alcuni di loro con l’invasione russa sono stati costretti a rivivere l’esperienza dello sfollamento.  

Per via di queste memorie gli ucraini e i bielorussi non sarebbero mai andati a scavare nella Foresta Rossa né si sarebbero accampati nei paesi abbandonati come Polis’ke, dove hanno trovato in uno scantinato cinque corpi torturati di giovani maschi locali. Sono le memorie che dividono il popolo ucraino, bielorusso e russo e se anche nell’Ucraina indipendente la gestione delle zone di reclusione non possiamo definirla ideale, la memoria dei sopravvissuti, tramandata da generazioni, rimane comunque il documento ideale per capire meglio di qualunque altro, che cos’è la minaccia nucleare sia a livello locale sia su scala mondiale. 

Sono le ennesime lezioni dal passato che non abbiamo imparato fino alla fine, le lezioni che riemergono in questi giorni bui con la sensazione che questa storia l’abbiamo già vissuta, ma il fatto di riviverla conferma che non si è imparato niente o non si è voluto imparare. E dopo la tragedia senza fine di Chornobyl’, la Russia spudoratamente minaccia il mondo, confermando che nella tragedia di Chornobyl’ la sua memoria è diversa da quella degli ucraini. La memoria russa è quella di chi centralmente a Mosca ha gestito la tragedia del reattore nucleare nel peggior modo possibile. Ma è anche quella di chi in tanti altri casi, compreso in quello di questi giorni, non ha mai voluto ammettere le sue responsabilità. 

Dove si trova la più potente centrale nucleare d'Europa. Alessandro Ferro il 14 Marzo 2022 su Il Giornale.

La Finlandia ha inaugurato la centrale nucleare più potente d'Europa: dopo 12 anni di lavori, ecco cosa sorge sul Mar Baltico e come potrà cambiare la mentalità europea nei prossimi anni.

Coincidenze particolari: proprio nel bel mezzo di un conflitto in cui si è parlato del rischio che ha corso la centrale nucleare di Chernobyl quando è mancata la corrente elettrica e del rischio che corrono le centrali nucleari ucraine che "rientrano tra le infrastrutture strategiche ad alto rischio" con "rischi dalle conseguenze devastanti" come abbiamo visto sul Giornale.it con l'intervista a Marianna Vintiadis, la Finlandia inaugura e apre la più grande centrale nucleare d'Europa in località Olkiluoto, sul Mar Baltico, dove sabato 12 marzo il reattore nucleare ha iniziato i test di produzione. Si tratta della prima nuova centrale nucleare finlandese in oltre quattro decenni e la prima in Europa in quasi 15 anni.

Come funziona

L'infrastruttura fornirà energia alla rete nazionale finlandese, riducendo nel tempo la necessità di importazioni di elettricità e portando a prezzi più bassi. Il reattore da 1,6 gigawatt che doveva originariamente essere aperto nel 2009, ha iniziato la produzione di prova a poco più di 0,1 gigawatt, soltanto una piccola frazione della sua capacità, con un aumento della produzione di elettricità completa e regolare previsto entro la fine di luglio. "OL3 migliora significativamente l'autosufficienza elettrica della Finlandia e aiuta a raggiungere gli obiettivi di neutralità del carbonio", ha affermato l'operatore Teollisuuden Voima (Tvo) in una nota. In questo modo, Helsinki potrà ridurre l'importazione di energia dalla Russia così come da altri paesi quali Svezia e Norvegia.

Costi e smaltimenti

Per smaltire il combustibile esausto, la centrale avrà anche una specie di "pozzo" dove verrà conservato per almeno 100mila anni senza il pericolo di fuoriuscite grazie alla particolare geologia del territorio. Come scrive Repubblica, 12 anni di lavori sono costati fino a 3-4 volte in più la cifra iniziale preventivata di 11 miliardi di euro. Come detto, è il più potente d'Europa ancor più della centrale di Zaporizhzhia, in Ucraina, "soltanto" la più grande in quanto a superficie perché possiede sei reattori da quasi mille Mw ciascuno. Purtroppo, però, per il nucleare di quarta generazione più sicuro e con meno scorie, sono necessari almeno altri 20 anni di ricerca.

Il delicato tema del nucleare

Prima che scoppiasse il folle sconfitto voluto da Putin che ha fatto tornare la paura per il nucleare tant'é che l'Italia ha addirittura aggiornato il proprio Piano in caso di emergenza, è inevitabile che in un mondo che va verso la transizione energetica si debba pensare al nucleare. Come abbiamo scritto sul Giornale.it, Silvio Berlusconi ha rilanciato la ricerca sul nucleare di ultima generazione, riconosciuto dall'Unione europea come una fonte di energia pulita in modo tale che sia risolto una volta per tutte "il problema della dipendenza energetica e della eccessiva fluttuazione dei prezzi a livello nazionale ed europeo" sul caro bollette.

Se la Gran Bretagna prevedere l'accensione del reattore di Hinkley Point, nel sud-ovest dell'Inghilterra e molto simile a quello di Olkiluoto, nel 2026, in Francia il progetto di Flamanville ha già accumulato un ritardo di 11 anni rispetto ai tempi previsti con costi ben più alti dei 12,7 miliardi previsti inizialmente. E l'Italia? È molto indietro: si sta ancora cercando di capire quale potrà essere la località più adatta a depositare le scorie nucleari.

Alex Saragosa per “il Venerdì - la Repubblica” il 10 marzo 2022.

Undici anni fa, nel pomeriggio dell'11 marzo 2011, un terremoto di intensità 9 scosse la costa orientale del Giappone. Lo tsunami che ne seguì colpì una centrale nucleare con onde di quasi 14 metri e non successe nulla. Parliamo di Onagawa, impianto 90 chilometri a nord di Fukushima, e che, in un certo senso, è il protagonista del nuovo saggio dello scozzese Andrew Leatherbarrow, grafico 35enne, e autore di inchieste: dopo Chernobyl 01:23:40, da cui la serie tv, arriva ora Fukushima (Salani, pp. 516, euro 19,80), dove esamina le cause del secondo più grave incidente nucleare della storia. 

«Il disastro di Fukushima viene narrato come una fatalità, ma Onagawa ci dice che non è così: colpita dallo stesso tsunami, restò indenne, dimostrando che dietro alla distruzione dell'altro impianto, in cui esplosero tre dei sei reattori perché l'acqua di mare ne bloccò il raffreddamento, ci fu una grossa responsabilità umana». A fare la differenza fu il fatto che Onagawa era proprietà della Tohoku Electric, il cui presidente, sapendo che l'area era colpita da rari, devastanti tsunami, pretese un muro di protezione sul mare alto 13 metri.

Fukushima era invece proprietà della Tepco, meno sensibile all'argomento. «Fukushima fu protetta da un muro di soli cinque metri. Nel 2006 un rapporto avvertì che con un grande tsunami la centrale sarebbe finita sott' acqua: ai dirigenti l'evenienza sembrò troppo remota per spenderci soldi». Insomma Fukushima fu una tragedia annunciata, in un Paese che fra vulcani, terremoti e tsunami dovrebbe essere il più attento al mondo alla sicurezza nucleare.

 «Ma imprenditori, politici, agenzie di sicurezza e giornalisti, erano tutti uniti per non disturbare l'unica fonte che poteva garantire l'autonomia energetica. Così lasciarono che fosse l'industria a scrivere le norme di sicurezza, non controllarono l'applicazione, negarono le critiche e tentarono di coprire altri incidenti. Ora che il nucleare sta tornando in Giappone, in funzione climatica, si spera che il tema sia preso sul serio». 

Intanto, la centrale di Fukushima, con i tre reattori fusi che nessuno sa come smontare, un conto che fra danni e smantellamento potrebbe arrivare a 728 miliardi di dollari e con 1,4 milioni di tonnellate di acqua di raffreddamento contaminata da trizio, che si è ormai deciso di buttare in mare, facendo infuriare coreani e cinesi, resta come un monumento alla difficoltà di controllare una tecnologia energetica prodigiosa, ma troppo complessa e rischiosa per le imperfette società umane.

Dall'autore del fortunato Chernobyl 01:23:40, un'altra inchiesta "nucleare". l'incidente di undici anni fa fu il frutto di negligenza. lo prova la centrale di Onagawa: stesso tsunami, ma restò intatta.

Boom delle radiazioni a Chernobyl: cosa può succedere ora? Andrea Muratore su Inside Over il 25 febbraio 2022.

Le radiazioni a Chernobyl sono improvvisamente aumentate dopo l’occupazione del sito nucleare dismesso da parte delle forze armate russe nella giornata di ieri. Lo hanno denunciato nella mattinata di venerdì 25 febbraio gli esponenti dell’Ispettorato Regolatorio di Stato per il Nucleare (Snri) d’Ucraina, sottolineando che i livelli di controllo delle radiazioni gamma nella Zona d’Esclusione sono stati sorpassati dopo i combattimenti di ieri.

Le forze armate russe hanno ammesso di aver preso il controllo del sito e inizialmente hanno dichiarato un livello di radiazioni sotto controllo e ordinario, ma in seguito l’agenzia russa Interfax ha sottolineato un aumento dello stesso. In un’area, ricorda TgCom24, “dove ancora si stima ci siano ancora oltre 200 tonnellate di scorie radioattive (tra corium, uranio e plutonio), sepolte dentro il sarcofago” della centrale esplosa nel 1986 questo significa per Russia e Ucraina un ulteriore fattore di rischio nella guerra che le vede contrapposte.

Gli esperti in loco sottolineano che l’aumento delle radiazioni è direttamente correlato alle operazioni militari avvenute nelle scorse ore. In sostanza, sarebbe stato l’ampio movimento di mezzi militari, truppe e macchinari dotati di impulsi radio e l’aumento dell’inquinamento e delle particelle in atmosfera in grado di catturare le radiazioni stesse a favorire questo meccanismo.

In una prima ora si era temuto che l’aumento delle radiazioni potesse essere legato a un danneggiamento della struttura del reattore o del sarcofago di cemento che ricopre l’area più critica di Chernobyl, ma a cavallo tra giovedì 24 e venerdì 25 febbraio questa ipotesi è stata fugata. Almeno per ora.

Non a caso, uno degli scenari più rilevanti che si possono costruire sul piano militare riguardo l’individuazione di Chernobyl e del suo reattore come obiettivi primari riguarda proprio il fatto che Mosca volesse mettere al sicuro la bomba atomica potenziale del sito teatro dell’omonimo disastro per evitare che potesse trasformarsi in un campo di battaglia e, soprattutto, che potesse essere utilizzato come perno di una strategia asimmetrica per fermare l’invasione. Meglio uno sforzo-lampo per occupare un sito non così prioritario sotto altri piani strategici, questo sarebbe il ragionamento, che ritrovarsi di fronte a brutte sorprese in un secondo momento.

Questo però, chiaramente, ha avuto come contropartita l’aumento delle radiazioni. Come ha scritto il portale di informazione “L’Avvocato dell’Atomo”, è bene sottolineare che “i livelli di radioattività segnalati al momento non risultano pericolosi per la salute in caso di esposizione temporanea. Si potrebbero avere rischi in caso di esposizione di durata superiore ad un mese, ma, allo stato attuale delle cose, riteniamo estremamente improbabile che la radioattività resti a questi livelli così a lungo”.

Non è la prima volta che negli ultimi anni Chernobyl torna pericolosamente al centro delle cronache. A maggio dell’anno scorso i team di ricerca che monitoravano il Reattore 4 dell’impianto ucraino, teatro negli Anni Ottanta del più scioccante disastro nucleare della storia insieme a quello di Fukushima, hanno rilevato anomalie sospette nelle emissioni e nelle attività del sito. La questione ha destato preoccupazione soprattutto per il monitoraggio dell’attività del corium, il materiale prodotto dalla fusione del nocciolo, ma l’allarme è rientrato. Nell’aprile 2020, mentre l’Europa faceva i conti con l’esplosione della bomba Covid, una serie di incendi dolosi minacciò a pochi chilometri di distanza l’area della centrale, come Pierpaolo Mittica ha avuto modo di raccontare.

Oggi Chernobyl appare già alle spalle della linea del fronte, ma in caso di proseguimento della guerra russo-ucraina non è da escludere il rischio di una minaccia sistemica al reattore. Un attacco missilistico o la trasformazione futura dell’area di Chernobyl in un poligono di combattimento, ad esempio, metterebbero nei guai la sicurezza della centrale.

E secondo l’economista Mario Seminerio, che cita Bloomberg, sarebbero addirittura quindici i reattori in zona di combattimento tra Russia e Ucraina. Vere e proprie “bombe atomiche” potenziali da disinnescare per evitare che tra le ricadute della guerra ci sia anche il rischio di un fallout.

Da ansa.it il 9 febbraio 2022. È più vicina la fusione nucleare, l'energia pulita del futuro che imita quanto avviene nel cuore delle stelle: il reattore sperimentale europeo Jet (Joint European Torus) ha generato energia pari a 59 megajoule a intervalli di 5 secondi, equivalente a 11 megawatt.

È il doppio di quella ottenuta 25 anni fa dalla stessa macchina. Lo rende noto la stessa collaborazione Jet, con l'Istituto tedesco Max Planck per la fisica del plasma. Il risultato è stato ottenuto modificando il reattore per renderlo più simile alle future condizioni di Iter, il reattore sperimentale che dovrà dare la risposta sulla fattibilità della fusione. 

L’atomo della discordia. A che punto è il nucleare in Europa? Andrea Walton su L'Inkiesta il 26 Febbraio 2022.

L’energia atomica è costosa e pericolosa oppure ha dei vantaggi insuperabili? In Europa ognuno va per la sua strada: abbiamo messo insieme un recap della situazione attuale.

L’energia nucleare è un tema che, nel bene e nel male, non lascia indifferenti. Gli esecutivi nazionali, le opinioni pubbliche e le associazioni ambientaliste dibattono, si scontrano e talvolta concordano in merito al suo utilizzo e alle sue potenzialità. Il disastro nucleare di Chernobyl, avvenuto oltre trent’anni fa e i suoi effetti sulla salute pubblica continuano a turbare un certo numero di individui. Sullo sfondo, poi, c’è anche la questione delle scorie nucleari, potenzialmente pericolose per migliaia di anni e del loro smaltimento.

I sostenitori del nucleare affermano, invece, che questo tipo di energia può essere considerata pulita perchè riduce la dipendenza dai combustibili fossili, altamente inquinanti. Bruxelles vuole ridurre a zero il proprio impatto ambientale e per centrare questo obiettivo ha varato nuovi piani che prevedono che il gas naturale e il nucleare verranno considerati “sostenibili” se rispetteranno alcuni criteri. Tra questi ci sono un basso livello di emissioni e la presenza di fondi e piani per lo smaltimento dei rifiuti. Il bollino di sostenibilità consentirà agli investitori di puntare su queste risorse ma ha aperto un fronte di scontro nell’Unione. Austria e Lussemburgo hanno promesso azioni legali, la Germania e i Verdi hanno espresso critiche. Le nazioni che usano il nucleare, come la Francia, sono con la Commissione. I Paesi che dispongono di reattori operativi sono 13: Belgio, Bulgaria, Repubblica Ceca, Germania, Finlandia, Francia, Paesi Bassi, Romania, Slovenia, Spagna, Slovacchia, Svezia e Ungheria.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha promesso una forte espansione del programma nucleare nazionale con la costruzione di una serie di impianti e di 14 reattori di ultima generazione. L’annuncio ha colto di sorpresa gli osservatori dato che il Capo di Stato si era impegnato, in precedenza, a ridurre la dipendenza della Francia dall’atomo. Parigi intende rafforzare la propria posizione di principale produttore di energia atomica in Europa e rendere l’azienda statale Électricité de France più competitiva sui mercati internazionali. Il cambiamento climatico e il ruolo potenziale dell’industria nucleare sono diventati argomenti centrali nel dibattito elettorale in vista delle elezioni presidenziali e tutti i partiti politici, con l’eccezione dei Verdi, hanno chiarito come l’energia nucleare sia necessaria per raggiungere gli obiettivi climatici. 

Sei dei dieci Paesi dell’Europa Occidentale che hanno sperimentato un’evoluzione del nucleare hanno annunciato politiche di phase-out (abbandono) ma solo alcuni, come la Germania, le hanno portate a termine prima della fine della vita degli impianti. Svezia, Svizzera, Finlandia e Paesi Bassi prevedono di tenere accessi i propri reattori fino al compimento dei 60 anni mentre Belgio e Spagna intendono limitarsi a 50 anni.

La Germania ha deciso di accelerare l’abbandono del nucleare in seguito a tragico incidente avvenuto nel 2011 a Fukushima. In quell’occasione sono stati spenti, in via permanente, otto impianti e in seguito il Parlamento federale ha deciso di limitare l’operatività dei restanti nove, destinati ad andare progressivamente in pensione. Gli ultimi tre cesseranno le proprie attività nel dicembre 2022. L’artefice formale della dismissione fu l’ex cancelliera Angela Merkel ma anche l’opinione pubblica, con una serie di proteste massicce, contribuì in maniera determinante a questa decisione. Il governo tedesco sta investendo da tempo sulle rinnovabili e in questo senso la strada sembra ormai tracciata ma bisognerà comunque affrontare il problema dello smantellamento dei reattori, un’attività laboriosa che richiederà almeno fino al 2040. 

In Europa orientale tutti e sette i Paesi nucleari prevedono che i propri reattori supereranno i 60 anni di vita e alcuni hanno annunciato il lancio di nuovi progetti che dovrebbero essere completati entro il 2030. La Bulgaria ha approvato la realizzazione di una settima unità presso la centrale di Kozloduy, l’unica della nazione, utilizzando apparecchiature fornite dai russi. L’Ungheria costruirà un nuovo reattore presso il suo impianto di Paks mentre in Slovacchia due nuovi reattori, il 3 e il 4, andranno ad arricchire il sito Mochovce. Il nuovo governo della Repubblica Ceca, dove sono già presenti sei reattori, ha riferito di voler abbandonare il carbone in favore del nucleare, grazie alla finalizzazione di un piano per la costruzione di un nuovo reattore e delle risorse rinnovabili. Bucarest ha adottato una nuova strategia energetica che prevede il raddoppio della capacità nucleare della Romania con la costruzione di due nuove unità presso la centrale di Cernavoda. I due reattori presenti erano entrati in funzione nel 1996 e nel 2007 ma i progetti espansivi erano stati bloccati per molti anni. Le cose sembrano essersi sbloccate e dovrebbero mutare entro il biennio 2030-2031.

In Estonia il primo ministro Katja Kallas e il ministro dell’Economia Taavi Aas si sono dimostrati favorevoli alla costruzione, in un prossimo futuro, del primo impianto atomico del Paese. L’obiettivo è quello di proteggere l’economia nazionale dalle ricadute della crisi energetica e proprio a questo scopo, sin dall’estate del 2020, è stato creato un gruppo di lavoro sull’energia nucleare per esplorare le potenzialità di questa soluzione. La posizione assunta da Tallinn è molto diversa da quella di Lettonia e Lituania, gli altri due Stati Baltici che hanno deciso di rinunciare da tempo al nucleare. Vilnius si è impegnata a chiudere i reattori nucleari della centrale di Ignalina nel 2004 per poter accedere all’Unione Europea e lo smantellamento della prima unità è iniziato nel 2010 per completarsi nel 2016. Il reattore lettone di Salaspils, entrato in funzione nel 1961, non è più attivo dal 1998 e Riga ha cercato, per anni, i finanziamenti necessari per il suo smantellamento.

Tra le nazioni più contrarie all’energia nucleare c’è sicuramente l’Austria che, in seguito al risultato di un referendum svoltosi il 5 novembre del 1978, decise di rinunciare all’atomo e di chiudere una centrale appena costruita e mai entrata in funzione. Il referendum passò per il rotto della cuffia, con appena il 50.5 per cento dei voti in favore e costrinse il Parlamento a esprimersi contro l’edificazione di nuove centrali nucleari e la messa in funzione di quella già costruita. Nel 1999 una legge costituzionale, votata all’unanimità dagli organismi legislativi, ha proclamato definitivamente l’Austria «Paese libero dal nucleare».

In Italia il sentimento popolare antinucleare, alimentato dalla paura dopo il gravissimo incidente di Chernobyl, trovò sfogo in alcuni referendum abrogativi che vennero votati nel novembre del 1987. I quesiti, pur non avendo come oggetto diretto l’abbandono del nucleare quanto un suo ridimensionamento, videro una netta vittoria del Sì. Ciò spinse i principali partiti politici ad aderire alle posizioni antinucleari e le quattro centrali esistenti divennero ben presto un lontano ricordo. Nel 2011 il 94 per cento dei votanti si è espresso contro il ritorno al nucleare nell’ambito del referendum svoltosi in quell’anno. E la percentuale bulgara emersa dalle urne sembra aver chiuso, almeno per il momento, l’apertura di nuove discussioni in materia.

Fusione nucleare, Jet di Eurofusion: mai così vicini all’energia pulita che imita il Sole. Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.  

Riuscito l’esperimento del Joint European Torus. Ma la roadmap è lunga: «Pensare a una centrale a fusione nucleare che possa produrre energia elettrica a scopo industriale ci vorrà ancora molto tempo: dopo il 2050» dice la fisica italiana Paola Batistoni. 

Campagne dell’Oxfordshire. Nebbia, deuterio-trizio e speranze di una Terra sostenibile. Siamo nel Jet, il Joint European Torus del Culham Center, in sostanza il maggiore impianto di fusione nucleare per fini sperimentali del mondo. Per capire il sofferto ed entusiasmante record mondiale (anche italiano) sulla via che ci porterà con molta pazienza all’energia pulita del sole ottenuto ieri - 59 megajoule di energia totale prodotta dall’impianto e tenuta per 5 secondi, come una nuova stella, un’eternità (come vedremo) dal punto di vista tecnologico - bisogna fare un veloce salto indietro alla fine della Guerra Fredda e risalire all’accordo stretto nel 1985 tra il presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan, e l’ultimo leader dell’Unione Sovietica, Mikhail Gorbaciov, che pose uno dei mattoni per sperimentare la fusione nucleare.

L’uso pacifico del nucleare, anche se dimenticato, ha difatti avuto un ruolo nel disgelo tra i due blocchi, tanto che fin dagli anni 50 gli scienziati russi e anglosassoni iniziarono a condividere le ricerche con una specie di diplomazia della scienza. Ancora oggi, anche nel centro dell’Oxfordshire, la tecnologia usata è di derivazione russa e dei primi anni Cinquanta (il tokamak). La fusione nucleare (da non confondere con la fissione, cioè la rottura dell’atomo a cui colleghiamo il premio Nobel per la fisica, Enrico Fermi) non è solo un desiderio degli scienziati ma, a questo punto, è anche una necessità per la sostenibilità ambientale.

«Con l’esperimento del Jet abbiamo dimostrato - spiega Paola Batistoni, responsabile della divisione fusione nucleare dell’Enea - che possiamo controllare una produzione di energia sicura, con basso impatto di CO2 e stabile. I 5 secondi sono tantissimi, perché a differenza della fissione nucleare la fusione si spegne, se non alimentata, in pochi attimi di secondo. Ed è proprio questo che la rende sicura. Inoltre anche il tema delle scorie radioattive, anche se non del tutto azzerato, è molto ridotto con questo tipo di tecnologia».

Il risultato è stato comunicato ieri dal consorzio Eurofusion, ma ha visto la partecipazione diretta, oltre che dell’Enea, anche del Cnr, e di molte altre istituzioni. Ed è solo un trampolino di lancio: la roadmap europea prevede già le prossime tappe, anche se, avverte Batistoni, per «pensare a una centrale a fusione nucleare che possa produrre energia elettrica a scopo industriale ci vorrà ancora molto tempo: dopo il 2050». Così è come funziona la scienza. Il Cnr, già negli anni Venti, aveva iniziato a pensare all’energia eolica. Ci vuole visione, pazienza (e finanziamenti).

Il livello di energia ottenuto ha raddoppiato e superato il precedente record di 21,7 megajoule stabilito nel 1997 sempre nello stesso impianto. Il record e i dati scientifici ottenuti durante questa cruciale campagna sperimentale sono una conferma per il successo di Iter, la versione più grande e avanzata di Jet: si tratta di un progetto di ricerca sulla fusione in corso di realizzazione a Cadarache, nel sud della Francia, sostenuto da sette partner (Cina, Unione Europea, India, Giappone, Corea del Sud, Russia e Stati Uniti d’America), che mira a dimostrare la fattibilità tecnica e scientifica dell’energia da fusione.

Il salto sarà quantico perché i 5 secondi sono l’attuale limite ingegneristico dell’impianto attuale che andrà verso la rottamazione una volta partito quello nuovo in Francia. L’Europa ha appena stanziato 550 milioni di euro per procedere sulla ricerca scientifica in questo campo e l’Italia, con 90 milioni, è il secondo Paese per finanziamenti, dopo la Germania. «Con Iter - conclude Batistoni - puntiamo a produrre 500 megawatt di potenza per decine di minuti, potenzialmente». Un piccolo passo per l’impianto, un grande passo per l’umanità.

Fusione nucleare, Batistoni dell'Enea: “Nel 2050 illumineremo una città”. Matteo Marini su La Repubblica il 9 febbraio 2022.

La responsabile della sezione sviluppo e promozione della fusione commenta il record di produzione di energia elettrica segnato dall’impianto europeo Jet in Inghilterra.

Paola Batistoni è responsabile della sezione sviluppo e promozione della fusione di Enea. "L'esperimento Jet - spiega - ha fatto grandi progressi, è una sorta di prova generale di ciò che faremo con il reattore Iter, in via di completamento in Francia. La camera di fusione è stata cambiata per usare gli stessi materiali e il combustibile che useremo in Iter.

Un altro passo verso la fusione nucleare. Nuovo record di energia dall’esperimento europeo. Matteo Marini su La Repubblica il 9 febbraio 2022.  

All’impianto sperimentale Jet, in Inghilterra, gli scienziati del consorzio EuroFusion hanno prodotto una quantità di potenza mai ottenuta da 25 anni. Risultati che fanno sperare per la produzione di energia pulita con il reattore francese in costruzione in Francia. Dialuce (Enea): “Orgoglio della ricerca italiana”. 

È un nuovo importante passo in avanti verso la fusione nucleare, la produzione di energia “pulita” che, se realizzata, potrebbe risolvere molti problemi legati anche al riscaldamento globale. Arriva dall’Inghilterra, dove al Jet (Joint European Torus) di Oxford, l’esperimento europeo di fusione termonucleare, attualmente più grande al mondo, si è ottenuto un nuovo record: 59 megajoule di energia di fusione prodotta. L’ultimo tentativo risale a 25 anni fa, sempre nel tokamak (la “ciambella” all’interno della quale vengono create le condizioni per la fusione nucleare) del Jet, quando si erano stati prodotti 22 megajoule.

Non abbiamo ancora davanti agli occhi il salto tecnologico di un reattore a fusione, perché l’energia immessa è stata maggiore di quella ottenuta, quindi il sistema non è ancora vantaggioso. Ma secondo gli scienziati del team di ricerca europeo, tra cui diversi italiani, è in qualche modo un passaggio obbligato. Al Jet, infatti, sono state ricreate, più in piccolo, le condizioni e la tecnologia che saranno utilizzate per l’Iter reattore sperimentale (International thermonuclear experimental reactor), in costruzione a Cadarache, vicino a Marsiglia.

“Per produrre energia netta, ovvero per rilasciare più energia di quella fornita dai sistemi di riscaldamento, l'impianto sperimentale è troppo piccolo. E questo non sarà possibile fino a quando l'esperimento Iter su larga scala nel sud della Francia non sarà in rete” spiegano gli scienziati nella nota che accompagna l’annuncio. 

Nel cuore di una stella

Per ottenere le condizioni per la fusione nucleare, è necessario riscaldare il combustibile dentro la camera di fusione, il tokamak, un ambiente a forma di “ciambella”. Serve raggiungere qualcosa come 100 milioni di gradi di temperatura, molto più alta di quella dentro al cuore di una stella, affinché il plasma (lo stato della materia in cui gli elettroni e nuclei degli atomi vagano liberi, sciolti dai rispettivi legami) abbia le condizioni giuste per favorire la fusione dei nuclei e, così facendo, liberare immense quantità di calore. Il combustibile usato è quello composto da deuterio e trizio, due isotopi dell’idrogeno. Lo stesso che verrà usato in Iter e nelle future centrali nucleari e che fu usato anche nel 1997 ma con prestazioni molto inferiori. Il vantaggio è quello di poter produrre energia in quantità elevatissime, da trasformare in elettricità, con pochissimo carburante. 

Una volta riscaldato, il plasma è però instabile, e va “guidato” attraverso enormi elettromagneti affinché la fusione nucleare continui. Quelli del Jet (un impianto che lavora da quasi 40 anni hanno lavorato per cinque secondi, consentendo di sviluppare 11 megawatt. Quelli di Iter, secondo gli scienziati, che contano su un sistema di raffreddamento criogenico, saranno in grado di mantenere il campo magnetico richiesto indefinitamente. In più, una volta stabilizzato il plasma, in determinate condizioni, la fusione non avrebbe più bisogno di riscaldamento dall’esterno, con un vantaggio in termini di costi e anche di produzione di CO2. 

Il Jet è operato dal consorzio europeo per lo sviluppo della fusione nucleare, Eurofusion, di cui l’Italia è il secondo partner più importante dopo la Germania.

“Il nuovo record stabilito a Oxford ha permesso di sviluppare una migliore conoscenza dei plasmi in regimi avanzati e nuove diagnostiche all’avanguardia che consentono di comprendere il comportamento della fusione del plasma in condizioni reattoristiche a un livello di dettaglio non possibile con gli esperimenti precedenti e in regimi stazionari per tempi lunghi - spiega Alessandro Dodaro, Direttore del Dipartimento Fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare di Enea e Program manager del gruppo di ricerca italiano in ambito EuroFusion - si tratta di un’importante conferma per le operazioni in Iter che dovrà produrre fino a 500 megawatt di potenza di fusione, con un guadagno di potenza fino a 10, per durate da decine di minuti fino alle ore”. 

L’Europa ha una roadmap, un percorso a tappe che dovrà portare, nei prossimi anni, alla creazione di una centrale elettrica dimostrativa (Demo) per immettere energia in rete.

“Per l’attuazione della Roadmap europea, EuroFusion ha ottenuto un finanziamento di circa 550 milioni di euro dalla Commissione europea per gli anni 2021-2025, di cui 90 milioni per le attività del gruppo di ricerca italiano coordinato da Enea - scrive l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie in un comunicato stampa - che vede la partecipazione di ventuno partner, tra università, enti di ricerca e industrie. Uno dei principali contributi dell’Italia sarà il nuovo esperimento Dtt (Divertor tokamak test), in costruzione presso il centro Enea di Frascati nell’ambito di un consorzio tra Enea, Eni, Infn, Create, Cnr e alcune università italiane, finalizzato allo studio delle soluzioni tecnologiche per lo smaltimento della potenza di fusione per Demo”. 

“Orgoglio italiano per risultato importante”

“Il risultato ottenuto dal Jet conferma e rafforza il nostro impegno per il progetto Iter e per lo sviluppo dell’energia da fusione nell’ambito dello sforzo comune europeo - ha detto Gilberto Dialuce, Presidente dell’Enea - e siamo particolarmente orgogliosi dei nostri ricercatori che hanno lavorato alla preparazione e all’esecuzione degli esperimenti e all’analisi dei dati coordinando anche il team europeo che ha studiato gli aspetti tecnologici delle operazioni in deuterio-trizio, fondamentali in vista del progetto Iter, in via di realizzazione in Francia. Questo contributo si colloca nel solco di una lunga tradizione che ha visto Enea tra i maggiori e più qualificati contributori di Jet sin dall’inizio, con propri scienziati che hanno ricoperto ruoli di leadership scientifica e di direzione dell’intero progetto”. 

“I risultati che oggi vengono annunciati attestano il raggiungimento di un obiettivo estremamente importante, la conferma sperimentale su Jet che in una configurazione tokamak è possibile ottenere elettricità da fusione, e sono un passo cruciale verso la produzione in futuro di energia abbondante ed eco-sostenibile - ha sottolineato Maria Chiara Carrozza, ex ministra della Ricerca e ora presidente del Cnr - il record di 59 megajoule di energia da fusione ottenuto su Jet è un successo tutto europeo, un risultato chiave che dà forza a Iter e alla Roadmap europea sulla fusione. Il Consiglio nazionale delle ricerche svolge ricerche sulla fusione fin dagli anni ’60, pienamente inserito nel Programma europeo, e ha contribuito a questo successo principalmente con l’attività dell’Istituto per la Scienza e Tecnologia dei Plasmi – Cnr-Istp – e con la partecipazione al Consorzio Rfx, conducendo esperimenti su temi chiave dei plasmi igniti e implementando essenziali sistemi diagnostici”.

"Fusione nucleare da record". È il sogno dell'energia pulita. Gianluca Grossi su Il Giornale il 10 febbraio 2022.

La domanda che sorge è la stessa da decenni, da quando ci siamo resi conto che petrolio e carbone hanno i giorni contati. Dove andremo a recuperare fonti energetiche in grado di sostenere miliardi di persone? Fissione nucleare, pannelli fotovoltaici, pale eoliche, hanno sì dato risultati incoraggianti, ma per un motivo o per l'altro rischiano di non poter essere impiegati su larga scala. In particolare la fissione nucleare su cui s'è puntato dal dopoguerra in poi, ha mostrato tutti i suoi limiti. Senza rievocare i disastri di Chernobyl e Fukushima, c'è un problema insormontabile che a lungo andare potrebbe seriamente compromettere la salute del pianeta: le scorie radioattive. Nessuno ha ancora capito dove e come possano essere efficacemente smaltite.

Ecco perché sobilla l'immaginario collettivo la notizia divulgata ieri dai laboratori inglesi dell'Università di Oxford: la possibilità di produrre energia tramite la fusione nucleare, che obbedisce a un processo fisico opposto a quello della fissione, evitando l'accumulo di rifiuti radioattivi.

Non è la prima volta che sperimentiamo la fusione nucleare. Gli studiosi del Joint European Torus (Jet), il più grande reattore al mondo per questo tipo di test, perso fra le campagne fra Londra e Bristol, aveva già dato esiti incoraggianti nel 1997: 21,7 megajoule di energia prodotta fondendo fra loro gli atomi più leggeri della materia. Ma oggi siamo andati oltre e i megajoule ottenuti in cinque secondi di gloria sono stati 59. Presupposto ottimale per poter presto battezzare Iter (International Thermonuclear Experimental Reactor), in pratica la prima centrale nucleare basata sullo stesso principio con cui le stelle irradiano l'universo. Di fatto, la fusione nucleare è un principio conosciuto, ma che nessuno è mai stato ancora in grado di realizzare. Per un motivo molto semplice: per avviarlo occorrono milioni di gradi.

Nelle stelle tutto ciò avviene senza problemi: il cuore del sole, per esempio, possiede una temperatura intorno ai 15 milioni di gradi. Diversa la situazione sulla Terra, oggettivamente incompatibile con un calore del genere; raggiungibile solo tramite centrali nucleari come quella, appunto, che sta sorgendo a Cadarache, nel Sud della Francia e che secondo le più rosee aspettative potrebbe iniziare a erogare energia dal 2035 in poi. Come? Con un marchingegno altamente sofisticato appannaggio degli studi di fisica più avanzati testati proprio al Jet: il tokamak. Basato sull'azione di potenti magneti superconduttori capaci di confinare e controllare reazioni chimiche ad altissima potenza, e con temperature superiori a quelle registrate nel nucleo stellare. Altrettanto promettente l'ipotesi di avvalersi di un stellarator, per certi versi più vantaggioso del tokamak, ma più difficile da collaudare.

In ogni caso il meccanismo per l'ottenimento dei megajoule sarebbe sempre lo stesso. L'impiego di deuterio e trizio, due forme particolari d'idrogeno, l'elemento più abbondante dell'universo alla base dell'economia stellare, consentirebbe infatti la trasformazione della materia ordinaria in plasma; atomi caratterizzati da una carica elettrica, in grado di fondersi emettendo neutroni a vita breve, innocui per l'ambiente. Anche il boro, quinto elemento della tavola periodica, di poco più pesante dell'idrogeno, promette bene. In tal caso non si avrebbe nemmeno il rilascio di neutroni (a scapito, però, di una richiesta di energia maggiore per l'avvio delle reazioni chimiche).

Le prospettive? Arrivare un domani a produrre energia pulita, decarbonizzando lo sviluppo economico e risolvendo definitivamente la dipendenza dagli idrocarburi. Al momento un'utopia, ma grazie a risultati come quelli di oggi seriamente auspicabile. Come ricorda Thomas Klinger, esperto di fusione del Max Planck Institut fur Plasmaphysik (Ipp) di Greifswald, in Germania: «L'atmosfera è cambiata, ormai siamo così vicini alla fusione nucleare che ne sentiamo l'odore».

Avanti tutta sull’atomo. La Francia sceglie il nucleare per raggiungere gli obiettivi climatici. Francesco Maselli su Linkiesta l'11 Febbraio 2022.

Macron ha annunciato la costruzione di sei nuovi reattori Epr entro il 2035, e sono stati avviati gli studi di fattibilità per altri otto. A due mesi dalle presidenziali la questione energetica diventa un tema centrale della campagna elettorale 

«Il tempo della rinascita del nucleare è arrivato», in un lungo discorso pronunciato all’interno dello stabilimento Arabelle di Belfort, Emmanuel Macron ha annunciato un ambiziosissimo piano per rinnovare interamente il parco atomico francese.

Il presidente, che da tempo aveva promesso un grande discorso sul tema del futuro energetico del Paese, facendo capire che questo sarà un asse portante del suo secondo mandato (e quindi della sua campagna elettorale), ha detto che la Francia ha scelto «il clima, dotandosi di strumenti energetici in grado di farle raggiungere i suoi obiettivi di riduzione di emissione di gas serra; l’industria e l’occupazione, preservando 220mila posti di lavoro; del potere d’acquisto, perché il nucleare e le energie rinnovabili ci consentiranno di produrre energia meno costosa e proteggere i francesi dalle turbolenze del mercato».

Sei nuovi reattori Epr entreranno in funzione entro il 2035, ha detto Macron, che ha anche annunciato di aver avviato gli studi di fattibilità per altri otto, oltre all’allocazione di un miliardo di euro per progetti di ricerca sui piccoli reattori modulari, considerati più sicuri e meno problematici dal punto di vista delle scorie rispetto a quelli attuali.

Oggi la Francia possiede il primo parco nucleare europeo e il secondo al mondo dopo quello americano: 56 reattori in attività che producono il 70% del fabbisogno di energia elettrica del Paese.

I francesi beneficiano dell’eredità del piano Messmer, dal nome del primo ministro che nel 1974 diede il via libera alla costruzione di decine di centrali nucleari, destinate a rendere la fornitura di energia il meno dipendente possibile dalle fluttuazioni del prezzo del petrolio. I reattori francesi, tuttavia, sono relativamente vecchi: l’età media è di oltre 36 anni, l’ultimo reattore è entrato in funzione nel 1999, una decisione sul futuro energetico del Paese era dunque necessaria.

Per questo, particolarmente rilevante è la decisione del governo di prolungare la vita delle centrali esistenti oltre i cinquant’anni. Si tratta di una novità rispetto alle previsioni rese note dall’Eliseo nel 2018, quando il piano energetico prevedeva la dismissione di dodici reattori per sopraggiunti limiti d’età.

La crisi energetica di questo periodo e la necessità di combattere il cambiamento climatico hanno modificato le priorità del presidente: «Desidero che nessun reattore nucleare in stato di produzione venga chiuso in futuro, visto l’aumento molto significativo del nostro fabbisogno energetico. Tranne, ovviamente, per ragioni di sicurezza», ha detto Macron.

Il luogo scelto per il discorso non è stato casuale, e anzi piuttosto simbolico. Giovedì, Electricité de France (Edf) ha comprato il sito di fabbricazione delle turbine Arabelle dall’azienda americana General Electric: l’accordo era pronto da giorni, ma si è deciso di annunciarlo in concomitanza con la visita del presidente.

Edf riacquista così la branca energetica che General Electric aveva a sua volta comprato dall’azienda francese Alstom nel 2014, quando Emmanuel Macron era ministro dell’Economia.

Negli anni Macron è stato molto criticato per aver avallato la cessione. Non soltanto perché a molti non sembrò un’idea lungimirante vendere una società specializzata in componenti per le centrali nucleari a un’azienda straniera, ma anche per le ricadute occupazionali, molto deludenti: General Electric non ha mai rispettato gli accordi sottoscritti nel 2015, sopprimendo circa mille posti di lavoro. Secondo alcuni, questo riacquisto perdona il «peccato originale» di Macron, ed è coerente con la sua promessa di re-industrializzare la Francia dopo anni di declino.

Macron ha spiegato che la Francia non intende puntare soltanto sul nucleare, ma anche sulle rinnovabili. Ha quindi annunciato degli ingenti investimenti per raddoppiare la percentuale di energia prodotta in Francia da queste fonti, puntando in particolare sui parchi eolici, che diventeranno «una cinquantina» entro il 2050: «Quello che abbiamo iniziato a fare è ricreare e dispiegare un settore industriale francese: gli stabilimenti di Le Havre, Saint-Nazaire e Cherbourg permetteranno di fornire tutte le attrezzature necessarie e continueremo a sviluppare occupazione e investimenti industriali affinché la scelta dell’eolico offshore si accompagni alla creazione di posti di lavoro in tutto il nostro territorio», ha detto Macron.

La visita e l’annuncio di Emmanuel Macron sono stati molto criticati sia da destra che da sinistra. Mentre i Républicains, il centrodestra moderato, fanno sapere di trovare «sospetta» la conversione del presidente all’energia nucleare, il candidato ecologista Yannick Jadot ha denunciato la «mossa elettorale» di Macron, promettendo di «abbandonare brutalmente il nucleare» se verrà eletto.

Macron è sempre stato favorevole all’energia nucleare, ma aveva deciso di ridurre la percentuale dell’atomo nel mix energetico nazionale a causa degli ingenti costi di costruzione di nuovi reattori.

Negli anni, tuttavia, ha cambiato idea. Rispondendo all’opposizione, il presidente ha detto di non condividere l’impostazione né di chi «vuole 100% di nucleare, abbandonando gli investimenti sul solare e l’eolico» (il centrodestra) né di chi «pretende di puntare unicamente sulle rinnovabili» (gli ecologisti).

Secondo Macron, invece, è necessario puntare su entrambe le fonti per rendere il Paese sostenibile: «Non abbiamo altra scelta che scommettere su questi due pilastri contemporaneamente. Questa è la scelta più rilevante da un punto di vista ecologico e la più opportuna da un punto di vista economico. Infine, la meno costosa dal punto di vista finanziario. Ecco perché è la scelta che perseguiamo».

La decisione di costruire nuovi reattori è dettata anche dalla necessità di mantenere e sviluppare competenze industriali che altrimenti andrebbero perdute. La filiera nucleare dà lavoro a circa 200mila persone, ma manutenere le centrali non garantisce di coltivare le competenze in un settore ad altissima specializzazione.

L’esempio della centrale di Flamanville, il cantiere più recente, lo dimostra: la centrale, dopo innumerevoli ritardi e problemi, dovrebbe finalmente entrare in funzione nel 2023 (dopo 16 anni di lavori), ma i suoi costi sono stati a lungo un argomento per l’opinione pubblica contraria a nuovi reattori. Secondo la Corte dei Conti, i 3,3 miliardi di costi iniziali sarebbero aumentati di circa sei volte, arrivando a 19,1 miliardi di euro.

Non è chiaro quanto costerà il piano annunciato da Emmanuel Macron. Edf promette un costo di 42 miliardi di euro per la costruzione di 6 nuovi reattori, ma secondo un documento acquisito dal media online Contexte, i ministeri dell’Economia e della Transizione ecologica prevedono un prezzo molto superiore, tra i 52 e i 64 miliardi di euro.

Piero Martin, Professore di fisica sperimentale all'Università di Padova, per "La Stampa" il 10 febbraio 2022.

«Vogliamo andare il più velocemente possibile. Ciascun membro della nostra comunità è oggi qui perché vogliamo confrontarci con i cambiamenti climatici, vogliamo trovare una forma di energia sostenibile. La fusione arriverà sempre in tempo. Qualunque sia il momento in cui la otterremo per produrre energia elettrica, la fusione sarà un prezioso elemento di un paniere di tecnologie energetiche libere da CO2».

La frase che Ian Chapman, direttore dell'Autorità per l'energia atomica del Regno Unito, ha pronunciato ieri durante una seguitissima conferenza stampa, nella quale sono stati presentati i risultati record ottenuti dai ricercatori europei nell'esperimento «Jet», riassume una realtà ormai sotto gli occhi di tutti. 

Tutte le strade che possono affrancarci dalla dipendenza dai combustibili fossili e dalle sue drammatiche conseguenze ambientali ed economiche - riscaldamento globale, caro bollette e tensioni geopolitiche sono lì a ricordarcelo - vanno perseguite con la massima determinazione, perché occorre la lungimiranza di guardare avanti, verso un'umanità che avrà sempre più bisogno di energia, se non altro per colmare quel gigantesco divario che divide le economie ricche dagli oltre 800 milioni di persone nel mondo che non hanno accesso all'energia elettrica.

E la fusione nucleare, il processo che alimenta il Sole ed è quindi all'origine della vita, è una di queste. Perché consentirà di garantire la produzione continua e in grandi quantità di energia elettrica libera da CO2, senza scorie radioattive di lungo periodo e in maniera sicura.

I risultati, presentati ieri nel laboratorio inglese che ospita l'esperimento europeo «Jet», sono una tappa fondamentale verso lo sfruttamento della fusione sulla Terra. «Jet» non solo è il più grande esperimento di fusione attualmente in funzione nel mondo, ma anche l'unico oggi in grado di realizzare esperimenti con l'esatta mistura di combustibile che verrà utilizzato nei futuri reattori.

A differenza della fissione, nella quale nuclei pesanti come l'uranio si scindono, la fusione libera infatti la sua energia grazie all'unione di nuclei leggeri e, così facendo, non rilascia scorie radioattive di lunga durata.

Durante gli esperimenti presentati ieri si è ottenuto il valore record di 59 megajoule di energia termica prodotta da reazioni di fusione. Dato particolarmente significativo, perché ottenuto per una durata di circa cinque secondi, che sembrano pochi, ma in realtà sono sufficienti per comprendere molti fenomeni fisici e soprattutto per guardare con fiducia al prossimo passo, «Iter», l'esperimento internazionale in costruzione in Francia che dovrà dimostrare definitivamente la fattibilità scientifica della fusione.

Una sfida alla quale l'Italia sta dando un contributo fondamentale con i suoi ricercatori che lavorano in «Jet», in «Iter» e nell'esperimento nazionale «Rfx» e soprattutto con la costruzione «Dtt» nei laboratori Enea di Frascati, un dispositivo che, avvalendosi delle più moderne tecnologie, contribuirà insieme con Iter alla progettazione dei futuri reattori a fusione.

Ok al nucleare. L'euro-ipocrisia sulla transizione. Nicola Porro il 3 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Commissione europea, bontà sua, ha stabilito ieri che le centrali a gas, a determinate condizioni, e quelle nucleari possono essere utili alla transizione ecologica europea.

La Commissione europea, bontà sua, ha stabilito ieri che le centrali a gas, a determinate condizioni, e quelle nucleari possono essere utili alla transizione ecologica europea. Da segnalare i dubbi del nostro commissario Paolo Gentiloni e l'opposizione esplicita di altri tre membri della commissione. Il voto ha confermato che il germe della pazzia è diffuso. Abbiamo stabilito di uccidere la più importante industria europea, quella automobilistica. E così favorire la competizione dei cinesi che partivano da zero. E ora, per il rotto della cuffia, abbiamo concesso agli Stati di fare ciò che non possono fare a meno di fare. Troppa grazia. In un continente normale, oltre che alla transizione energetica, si sarebbe ragionato su come sopravvivere oggi, non nel futuro, al rincaro delle materie prime. I burocrati comunitari, inoltre, avrebbero dovuto ragionare da tempo sul fatto che metà del gas europeo deriva da un Paese come la Russia al quale sono applicate delle sanzioni economiche. Mordere la mano di chi ci sfama, non è geniale, se non si è trovata un'alternativa. Cosa ha a che vedere questa critica con le decisioni di ieri, molto ragionevoli di continuare a bruciare gas e usare il nucleare? Molto, a ben vedere. L'Europa sembra tollerare i combustibili fossili e, obtorto collo, accetta il nucleare. Ma non dice che abolire queste due fonti energetiche ci porterebbe nel breve termine al black out. I Paesi che usano più energia sono i Paesi più ricchi e meno disuguali. Questo non ve lo dicono a Davos. La Francia ha messo in manutenzione quattro centrali nucleari e i tedeschi ne hanno chiuse tre e ciò contribuirà, come notava saggiamente Romano Prodi pochi giorni fa, a tenere sempre più alto il prezzo del gas e, aggiungiamo noi, dipendere sempre più dalla Russia. I tedeschi chiudono il nucleare, ma tengono in piedi il carbone e soprattutto stanno bene attenti ad attaccare Putin sul fronte ucraino, sperando che si realizzi il tubo diretto dalla Russia a casa loro. È un gigantesco balletto di ipocrisia. Vogliamo più energia e pretendiamo che sia sempre più verde. Nel frattempo ci lamentiamo dell'aumento dei prezzi e ce la prendiamo con il nostro maggior fornitore. E, soprattutto, non esiste forse settore che dovrebbe ragionare in modo coordinato ed europeo ed invece agisce in modo nazionalistico. L'Italia è un campione di questa schizofrenia. Ha fame di gas, ma non lo vuole estrarre in casa; odia il nucleare, ma sopravvive grazie a quello importato dalla Francia a pochi chilometri dal confine; ha giacimenti di rifiuti pieni di energia e li esporta a caro prezzo in giro per il mondo.

Nicola Porro è vicedirettore de il Giornale e si occupa in particolare di economia e finanza. In passato ha lavorato per Il Foglio e ha condotto il programma radiofonico "Prima Pagina" su Rai Radio Tre. Attualmente, oltre a scrivere per il Giornale, gestisce il blog "Zuppa di Porro" su ilGiornale.it e, su RaiDue, conduce il programma d'approfondimento "Virus, il contagio delle idee", il venerdì in prima serata

La Ue dice sì a nucleare e gas ma la Commissione si spacca. Claudio Tito su La Repubblica l'1 febbraio 2022. 

Sei Paesi voteranno contro la “Tassonomia”, il regolamento sui progetti ecocompatibili.

L’Europa dice sì al nucleare e al gas. Ma si spacca. E la Commissione oggi rischia di ritrovarsi sull’orlo di una crisi di nervi. Con almeno 6 commissari - e quindi sei Paesi - pronti a votare no. Una situazione cui l’esecutivo guidato da Ursula von Der Leyen non aveva mai dovuto far fronte fino ad ora.

(ANSA il 2 febbraio 2022) - L'atto delegato sulla tassonomia è stato approvato con "un'ampia maggioranza" all'interno della Commissione europea. Lo ha detto la commissaria Mairead McGuinness confermando così di fatto la spaccatura venutasi a creare in seno all'esecutivo europeo sul provvedimento e, in particolare, sull'inserimento di gas e nucleare tra le fonti 'verdi' necessarie per garantire la transizione energetica.

(ANSA il 2 febbraio 2022) - Gas e nucleare sono fonti energetiche utili alla transizione ecologica dell'Ue e possono avere, a determinate condizioni, l'etichetta Ue per gli investimenti verdi. Lo ha deciso la Commissione europea con l'adozione del relativo atto delegato. Come annunciato, il provvedimento è stato varato con modifiche marginali rispetto alla bozza del 31 dicembre scorso e ora dovrà essere esaminato da Consiglio e Parlamento.

(ANSA il 2 febbraio 2022) - L'inclusione di nucleare e gas nella Tassonomia sarebbe un "tentativo di rapina ai cittadini europei per sottrarre miliardi di euro alle rinnovabili per investirli in tecnologie che non fanno nulla per combattere la crisi climatica". 

Lo afferma Greenpeace Europa in una nota. Secondo l'organizzazione ambientalista, "il piano incentiverebbe potenzialmente centinaia di miliardi di euro di investimenti privati ;;per allontanarsi dall'energia pulita come le rinnovabili e passare invece all'energia nucleare e al gas fossile, accelerando la crisi climatica".

"Oltre a produrre scorie radioattive pericolose e ingestibili, i reattori nucleari impiegano così tanto tempo per essere costruiti che non riescono a collegarsi abbastanza rapidamente per contribuire al raggiungimento degli obiettivi climatici dell'Ue entro il 2030", aggiungono da Greenpeace. Per quel che riguardai la dipendenza dal gas invece gli attivisti sostengono che affidandosi a tale fonte di energia "con l'impennata dei prezzi si rischia di innescare una vera crisi energetica europea".

(ANSA il 2 febbraio 2022) - "Esprimiamo profonda delusione per la scelta della Commissione europea di inserire nella tassonomia, il sistema di classificazione degli investimenti sostenibili, il nucleare e il gas, due fonti energetiche che sostenibili non sono". 

Cosi il Gruppo del Movimento 5 Stelle al Parlamento europeo in una nota firmata dagli eurodeputati Fabio Massimo Castaldo e Laura Ferrara. "Con questa decisione la Commissione europea dimostra di ignorare le critiche arrivate dagli esperti consultati dalla Commissione stessa, il monito della Bei che ha già annunciato che non finanzierà progetti legati a nucleare e gas, la bocciatura di molti Stati membri come Germania, Spagna, Austria, Danimarca e Lussemburgo e la posizione di numerosi gruppi al Parlamento europeo e autorevoli esponenti della maggioranza", prosegue la nota. "Il nucleare è una fonte energetica non sicura, dispendiosa dal punto di vista economico e produce scorie che i cittadini non vogliono veder stoccate vicino casa.

Investire negli impianti di quarta generazione, che allo stato attuale non esistono, è un azzardo perché si mobilitano miliardi di euro di investimenti in progetti di cui non si conosce la tecnologia né la sostenibilità finanziaria. Inoltre, il gas è un combustibile fossile che emette nell'atmosfera CO2 e quindi il suo ingente utilizzo contraddice gli obiettivi europei per la neutralità climatica da raggiungere entro il 2050", sottolineano Castaldo e Ferrara.

"Il Movimento 5 Stelle contrasterà nelle sedi competenti questo atto delegato perché è un passo indietro nel percorso inesorabile dell'Europa verso la transizione sostenibile che si basa su energie rinnovabili e pulite e sul risparmio energetico degli edifici. Auspichiamo dunque che il Parlamento europeo affronti questo tema non in maniera ideologica ma pensando al bene delle future generazioni. Il nucleare e il gas rappresentano il passato, è compito della politica guardare al futuro", conclude la nota.

(ANSA il 2 febbraio 2022) - "La Commissione Ue inserisce nucleare e gas tra le fonti sostenibili su cui investire: un passo indietro, che ignora le critiche degli esperti. Il M5S contrasterà questa soluzione in tutte le sedi. Il futuro è nel segno di rinnovabili, risparmio energetico e tutela dell'ambiente". Così in un tweet il Presidente M5s, Giuseppe Conte.

(ANSA il 2 febbraio 2022) - Il gruppo dei Verdi al Parlamento europeo boccia "il piano orribile" della Commissione, che prevede l'inclusione di gas e nucleare nella tassonomia verde, e lancia una petizione per fermarlo. "L'energia nucleare - scrive il gruppo su Twitter - non è sostenibile" e lascia la gestione dei rifiuti alle generazioni future. "Gli investimenti nell'energia nucleare andrebbero a scapito degli investimenti nell'efficienza energetica e nelle energie rinnovabili".

"Il gas fossile - prosegue - è un killer del clima. Nuovi investimenti in attività fossili sono incompatibili con l'obiettivo di raggiungere la carbon neutrality nel 2050, come hanno recentemente confermato le agenzie internazionali". Investire in tali fonti energetiche aumenterebbe la dipendenza "dall'importazione di combustibili fossili", mentre "il modo migliore per garantire energia sicura, sostenibile e conveniente è investire nelle energie rinnovabili". 

La decisione odierna della Commissione Ue, tuttavia "rallenta la transizione energetica verso energie rinnovabili pulite ed economiche. Fare affidamento sul nucleare e sul gas creerà costi dell'elettricità più elevati per i consumatori privati e le imprese", conclude il gruppo.

Da tgcom24.mediaset.it il 2 febbraio 2022.  

Gas e nucleare sono fonti energetiche utili alla transizione ecologica dell'Ue e possono avere, a determinate condizioni, l'etichetta Ue per gli investimenti verdi. Lo ha deciso la Commissione europea con l'adozione del relativo atto delegato. Come annunciato, il provvedimento è stato varato con modifiche marginali rispetto alla bozza del 31 dicembre scorso e ora dovrà essere esaminato da Consiglio e Parlamento.

"Gli Stati membri restano pienamente responsabili delle proprie strategie energetiche". La tassonomia "non rende obbligatori investimenti in alcuni settori" ne' "proibisce certi investimenti". "Un punto da ricordare e' che resta uno strumento volontario", ha affermato il commissario Mairead McGuinness, parlando dell'atto delegato della Commissione sulla tassonomia.

Nucleare, Ue: tecnologia si evolve, tassonomia documento vivente - Sulla questione delle scorie "vogliamo anche sottolineare che vi è una clausola di revisione, perché questo è un documento vivente: ogni tre anni dovremo esaminare i criteri quando parliamo della migliore tecnologia disponibile che è probabile che si evolva nel tempo quando si tratta di rifiuti", ha precisato McGuinness. "Ho visitato la Finlandia e ho visto il lavoro in corso li'", ha illustrato la commissaria, aggiungendo che al di la' della tassonomia "è necessario che l'industria nucleare affronti la questione dell'1% dei rifiuti, che è altamente problematica".

Berlino: restiamo contrari al nucleare - La Germania continua a dirsi contraria al nucleare. Il portavoce del cancelliere Olaf Scholz, Steffen Hebestreit, rispondendo a una domanda sulla decisione di Bruxelles sulla tassonomia, ha spiegato: "Ci sono quattro mesi di tempo. Valuteremo la posizione della Commissione e poi, dopo un confronto nella coalizione, decideremo come comportarci. La posizione del governo tedesco, che è contrario a classificare l'energia nucleare eco-sostenibile, non è cambiata".

Cosa c’è di vero e cosa no sul nucleare di "quarta generazione". Laura Loguercio,  Carlo Canepa (Pagella Politica) su La Repubblica il 24 gennaio 2022.

Il "nucleare di quarta generazione" viene promosso da più parti come una soluzione più sostenibile e meno costosa per favorire la transizione ecologica, rispetto ad altre fonti di energia. Ma su questa tecnologia c'è ancora parecchia confusione nel nostro Paese.

Da mesi l'aumento del costo dell'energia elettrica e del gas ha spinto alcuni politici e imprenditori a promuovere un ritorno del nucleare in Italia. In particolare il cosiddetto "nucleare di quarta generazione" viene promosso da più parti come una soluzione più sostenibile e meno costosa per favorire la transizione ecologica, rispetto ad altre fonti di energia. Ma su questa tecnologia c'è ancora parecchia confusione nel nostro Paese: fatti e numeri sono a volte riportati correttamente, altre volte in maniera scorretta, altre volte ancora in modo fuorviante o ingannevole. 

L'etichetta "nucleare di quarta generazione" è nata nel 2001 negli Stati Uniti e viene dal Generation IV international forum. L'obiettivo di questo programma di ricerca, a cui al momento partecipano 13 Paesi e la Comunità europea dell'energia atomica (Euratom), è quello di studiare e progettare sistemi innovativi per la generazione di energia nucleare. Ad oggi la maggior parte dei reattori operativi a livello mondiale appartiene ancora alla "seconda generazione", che si basa su tecnologie sviluppate verso la fine degli anni Settanta. Le tecnologie più avanzate sono invece quelle di "terza generazione" (o di generazione "III+"): sono impianti più sicuri di quelli precedenti, ma non ancora dotati di tutte le caratteristiche necessarie per rientrare a pieno titolo nella "quarta generazione". 

Per fissare qualche punto fermo nel dibattito, abbiamo verificato alcune delle dichiarazioni più ripetute negli ultimi mesi, da politici e non solo. Dalla sostenibilità al nodo delle tempistiche, passando per la sicurezza e i costi, ecco che cosa c'è di vero e che cosa no sul nucleare di "quarta generazione". 

Meno scorie, ma non "zero"

Uno dei vantaggi del nucleare di "quarta generazione" più citato nel dibattito italiano è quello sulla sua elevata sostenibilità ambientale. Lo scorso settembre, intervenendo alla Scuola di formazione politica di Italia viva, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani ha per esempio dichiarato (1:51:40) che sarebbe "da folli" non prendere in considerazione il nucleare di "quarta generazione" se davvero producesse "pochissimi" rifiuti radioattivi rispetto alle centrali attuali. Sul fronte della maggiore sostenibilità punta da tempo il leader della Lega Matteo Salvini, che in più occasioni ha sostenuto come il nucleare di "quarta generazione" non produca scorie e sia completamente "pulito". Ma è davvero così? 

"Per essere considerati di "quarta generazione", i nuovi reattori devono avere alcuni requisiti specifici che riguardano la sostenibilità", ha spiegato a Green&Blue Nicola Forgione, docente di Impianti nucleari presso l'Università di Pisa. I rifiuti radioattivi, da conservare in appositi depositi, saranno ridotti e meno tossici, ma comunque "non saranno nulli", ha sottolineato Forgione. 

Più nello specifico, i reattori di "quarta generazione" saranno in grado di ottimizzare l'utilizzo del combustibile e di minimizzare i rifiuti che escono dal nocciolo del reattore, riducendone sia la quantità che i livelli di radiotossicità. In particolare, tre dei sei sistemi attualmente in fase di studio per la "quarta generazione" sono definiti "reattori veloci autofertilizzanti", ha spiegato Forgione. In parole semplici, sono stati pensati per fare in modo che il materiale fissile consumato (il combustibile, per intenderci) sia minore di quello prodotto. Questa è una novità: nemmeno gli impianti più avanzati attualmente operativi, quelli di generazione III+, sono autofertilizzanti.

Al di là di questa miglioria, non è comunque corretto sostenere che i nuovi impianti saranno "senza scorie".

Serviranno almeno dieci anni

Un altro punto cruciale del dibattito, sottolineato da politici e imprenditori, è quello delle tempistiche necessarie per la realizzazione degli impianti di "quarta generazione". Di recente, Salvini ha per esempio affermato (min. 2:55) che il nucleare di "quarta generazione" è una soluzione "a medio termine", potenzialmente disponibile "tra dieci anni". Al margine del Forum Ambrosetti dello scorso settembre, il ministro Cingolani ha invece ricordato che al momento la "quarta generazione" "non è una tecnologia matura" e che "probabilmente tra una decina d'anni si vedrà se potrà essere impiegata".

Queste affermazioni sono sostanzialmente corrette. I Paesi occidentali dovranno aspettare almeno altri dieci anni - dunque oltre il 2030 - prima di poter effettivamente attivare un impianto nucleare di "quarta generazione". 

"La ricerca procede per step: prima si fanno gli studi, poi si costruiscono i prototipi, successivamente i reattori dimostrativi e infine si passa alla produzione commerciale", ha spiegato a Green&Blue Gianfranco Caruso, docente nel dipartimento di Ingegneria astronautica, elettrica ed energetica all'Università Sapienza di Roma. "Di fatto, per la "quarta generazione" non esistono ancora reattori commerciali. La previsione è che entro il 2030 i reattori dimostrativi ci avranno dato le risposte necessarie e potremo quindi partire con i reattori commerciali".  

Sul fronte dello sviluppo, la Cina è tra i Paesi in fase di maggiore avanzamento. Il 20 dicembre 2021, dopo dieci anni di lavori, qui è stato collegato alla rete elettrica il primo reattore dimostrativo di "quarta generazione". E la stessa Cina "ha già pronto il progetto per un reattore più grande", non dimostrativo, ha spiegato Caruso. Anche la Russia ha avviato la costruzione di un reattore dimostrativo di "quarta generazione", che dovrebbe essere pronto entro il 2035.  

L'Italia sta invece collaborando insieme ad altri partner europei alla costruzione del reattore dimostrativo "ALFRED", in Romania, che dovrebbe essere operativo entro il 2028. 

Sui costi c'è incertezza

Spesso i politici e gli industriali promotori del nucleare di "quarta generazione" sostengono che questo abbia costi ridotti rispetto ad altre fonti di energia. I contrari criticano questa posizione, affermando che in realtà il nucleare - al di là delle generazione presa in considerazione - costi invece molto. Per esempio, a settembre scorso il leader del Movimento 5 stelle Giuseppe Conte ha dichiarato (min. 1:45) che "è inutile mettersi a discutere di nucleare di quarta generazione, ma anche di quinta o di sesta", visto che il nucleare "costa molto di più" delle altre opzioni sul mercato.

Quando si parla di costi e nucleare, le stime cambiano molto a seconda dei parametri e dei periodi di tempo presi in considerazione.  

Secondo Forgione, ad oggi il principale ostacolo alla costruzione di centrali nucleari sono gli ingenti investimenti richiesti nelle fasi iniziali, più nello specifico "per la costruzione e la messa in esercizio degli impianti". Una volta passata questa fase iniziale, "le spese potranno essere recuperate dopo 10-15 anni di esercizio, quando i costi principali saranno quelli per il combustibile e la manutenzione. Per citare un esempio, il costo di una centrale a gas funziona più o meno al contrario. Per quest'ultime l'investimento iniziale è ridotto, ma sul lungo periodo il prezzo del gas è l'elemento che rischia di pesare di più sui bilanci. 

Il problema dell'incertezza sui costi rimane uno dei punti chiave anche per la progettazione dei reattori di "quarta generazione". "I nuovi impianti saranno progettati in maniera tale che chi investe abbia lo stesso rischio finanziario che avrebbe, per esempio, con un impianto a gas o a carbone", ha spiegato a Green&Blue Forgione. 

Le ultime centrali costruite non hanno inoltre avuto costi contenuti. Secondo fonti stampa, il reattore russo BN-800, attivato nel 2016 e considerato tra i più avanzati al mondo, è costato come investimento iniziale oltre gli 1,6 miliardi di euro, mentre la società cinese che ha curato la costruzione del primo reattore dimostrativo di "quarta generazione" nel Paese non ha fornito per ora informazioni sui costi. 

È vero però che "i reattori dimostrativi hanno generalmente un costo più alto rispetto ai reattori commerciali finali, per i quali alcuni elementi verranno semplificati e ottimizzati, anche in un'ottica economica", ha aggiunto Caruso a Green&Blue.

Un discorso a parte va fatto invece per i cosiddetti "small modular reactors", piccoli reattori più semplici ed economici da costruire rispetto alle centrali tradizionali, perché possono essere assemblati direttamente sul luogo di utilizzo. "Abbiamo già reattori simili di generazioni precedenti", ha spiegato Caruso a Green&Blue, e in futuro potranno esserne costruiti di nuovi applicando le tecnologie attualmente in fase di studio e testaggio per la "quarta generazione".

Il nodo della sicurezza

Prima di concludere, cerchiamo di capire quanto si pensa sia sicuro il nucleare di "quarta generazione", una delle caratteristiche difese dai suoi promotori. Di recente il vicepresidente di Forza Italia Antonio Tajani ha per esempio scritto sul suo sito ufficiale che bisogna "riprendere la ricerca sul nucleare di ultima generazione, sicuro e pulito". 

Su quel "sicuro" la certezza matematica ancora non c'è, visto che di concreto sul nucleare di "quarta generazione" c'è ancora poco di concreto. È vero però che per essere considerati tali, i reattori di "quarta generazione" dovranno ulteriormente migliorare gli standard fissati per quelli di "terza generazione" o "III+". 

"I nuovi reattori dovranno per esempio ridurre ulteriormente il rischio dei cosiddetti 'incidenti severi', cioè quelli che portano a una parziale o totale degradazione del nocciolo", ha spiegato Forgione a Green&Blue. "Dovranno inoltre avere la capacità di tollerare possibili errori umani ed eventuali catastrofi naturali". 

I nuovi impianti dovranno poi essere in grado di resistere a possibili eventi terroristici, come un attentato simile a quello dell'11 settembre. Questo standard di sicurezza è comunque già presente anche nei reattori di "terza generazione" più avanzati. 

Un'attenzione particolare va infine dedicata al problema della proliferazione, quindi il pericolo che le tecnologie o i materiali utilizzati per la produzione di energia possano in qualche modo contribuire allo sviluppo di armi nucleari. "Con questi reattori dobbiamo scoraggiare ancora di più la possibilità di un uso illecito del nucleare - ha concluso Forgione - impiegando materiali con una composizione tale da essere praticamente inutilizzabili per scopi non pacifici".

Obiettivi green. Il nucleare è un mezzo, non un fine. Luciana Grosso su L'Inkiesta su l'Inkiesta il 15 Gennaio 2022.

La situazione dell’impiego dell’atomo in Europa prevede investimenti per 550 miliardi nei prossimi trent’anni, nella speranza che possa indirizzare in modo decisivo la transizione alle energie rinnovabili. Ma il percorso è lungo e accidentato.

Si fa presto a dire tassonomia. Se, come sembra, il nucleare entrerà, per ragione di concretezza, nell’elenco delle fonti energetiche che l’Ue ritiene sostenibili (o meglio: necessarie a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità energetica entro il 2050) questa ipotesi non si realizzerà da sola.

Anzi. Richiederà, oltre che poderosi sforzi politici per superare la diffidenza che da anni accompagna il settore, anche un sacco di soldi. E 550 miliardi, all’incirca, da qui al 2050. Miliardo più, miliardo meno.

La stima arriva direttamente dal commissario per il mercato interno, Thierry Breton, che pochi giorni fa ha detto al quotidiano Journal du Dimanche che «le sole centrali nucleari esistenti avranno bisogno di 50 miliardi di euro di investimenti da qui al 2030. E quelle di nuova generazione avranno bisogno di 500 miliardi di euro».

I soldi, in buona sostanza, serviranno sia per la manutenzione delle centrali esistenti (l’età media degli impianti è di circa 40 anni, poiché nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di costruzioni degli anni ‘80), che necessitano di ammodernamenti per la loro messa in sicurezza e per la loro maggiore resa energetica (senza la quale il gioco non varrebbe la candela), sia per la costruzione di nuove centrali. 

Già, la costruzione di nuove centrali. A proposito di cose più facili a dirsi che a farsi.

Al momento, in Ue, sono in costruzione solo quattro centrali nucleari: una in Francia, una in Finlandia e due in Slovacchia. Altri impianti, una dozzina circa, sono stati progettati e sono in attesa di ricevere il via libera. Sono tutti in Paesi dell’est Europa: due in Bulgaria, tre in Repubblica Ceca, due in Lituania, sei in Polonia, una in Romania, una in Slovacchia, 1 in Slovenia. 

Sul suolo dell’Unione ci sono oggi 103 centrali nucleari, la metà delle quali, 56, si trova in Francia. Le centrali europee producono, ad oggi, circa 700 terawattora, un quarto del totale dell’energia generata dall’UE (2 778 terawattora nel 2019).  

L’idea europea di inserire il nucleare nella tassonomia verde e di aprire agli investimenti (a questo punto possiamo dire: corposi) sul nucleare non è però da intendere come una decisa scelta di investire sul nucleare e usarlo come unica via, quasi fosse una scorciatoia, per raggiungere la neutralità energetica. 

No. L’idea è che il nucleare faccia da ponte, tra la situazione di oggi, nella quale il 43% circa della nostra produzione di energia arriva da fonti fossili, a una situazione nuova. Una situazione in cui le fonti fossili, semplicemente, scompaiano. E siano sostituite da fonti rinnovabili. 

Solo che il percorso è lungo e molto dispendioso: Nell’Ue, la Commissione europea stima che il raggiungimento dell’obiettivo climatico 2030 richiederà investimenti annuali aggiuntivi in ​​media di 360 miliardi di euro, a partire da ora. 

Per questo chi punta sul nucleare, punta su un’energia che ci liberi, almeno in parte dalle emissioni e che ci consenta di vivere, produrre, lavorare, viaggiare, fino a quando le rinnovabili saranno in grado di farlo da sole. Per questo, nel corso della sua intervista Breton ha detto che se oggi il blocco ottiene il 26% della sua energia dal nucleare, entro il 2050 questa fetta potrebbe ridursi fino al 15%. Perché? Perché per allora potremmo aver compiuto, noi o i nostri figli, la transizione energetica alle rinnovabili. E il nucleare, potrà essere accantonato, come il petrolio e il carbone. Solo che costerà, e parecchio.

Energie e politiche green spingono l’inflazione in Europa. Vittorio Ferla su Il Riformista l'11 Gennaio 2022. 

I 20 anni dell’euro si celebrano quest’anno nel segno dell’inflazione: +5% a dicembre proprio nell’Eurozona. Negli ultimi mesi l’economia della zona euro si è ripresa dallo shock della pandemia e le restrizioni alle attività sono state revocate. Ma l’offerta fatica a tenere il passo con la domanda, provocando l’aumento dei costi energetici e creando carenza di molte materie prime. Eurostat segnala che i prezzi sono saliti dello 0,4% rispetto al mese precedente, spinti dagli aumenti di cibo, alcol, tabacco e altri beni. I prezzi dell’energia sono aumentati del 26% rispetto all’anno precedente. Così, l’inflazione nell’area dell’euro – misurata dall’indice armonizzato dei prezzi al consumo – ha superato le aspettative degli economisti che avevano previsto un aumento del 4,7 per cento.

Perfino la potente Germania è sotto stress. Il ritmo annuale di crescita dei prezzi nel paese è stato del 5,7% a dicembre. La percentuale è leggermente scesa rispetto al 6% di novembre (il livello più alto dai tempi della riunificazione del paese all’inizio degli anni ’90). I prezzi dell’energia sono cresciuti del 18,3% rispetto all’anno precedente. La preoccupazione di Berlino è legata anche a un motivo storico: l’iperinflazione degli anni ‘20 e ‘40 spazzò via i risparmi dei tedeschi. Il partito nazista si nutrì della miseria e della rabbia provocata dall’aumento dei prezzi. Sappiamo come andò a finire. Ecco perché in Germania l’inflazione è un tabù. Christian Lindner, ministro delle finanze tedesco, valuta la possibilità di fornire aiuti finanziari alle famiglie più povere per compensare l’aumento dei costi di riscaldamento durante l’inverno. La Germania, in pratica, si metterebbe così sulla scia di Francia, Spagna e Italia, che si sono già impegnate a intraprendere azioni simili.

Nel frattempo, i prezzi all’ingrosso del gas naturale in Europa – dopo il raddoppio prenatalizio – sono aumentati di nuovo per via del rallentamento delle forniture dalla Russia. I colli di bottiglia della catena di approvvigionamento continuano a causare ritardi e costi più elevati per i produttori, facendo aumentare il prezzo di molti beni di consumo. «Il rapido passaggio dell’aumento dei costi all’ingrosso nelle bollette al dettaglio in Spagna e, in misura minore, in Italia, nonostante l’intervento del governo, è stata la principale sorpresa al rialzo per noi a dicembre», spiega Morgan Stanley. Philip Lane, capo economista della Bce, ha assicurato all’emittente irlandese Rte, «che le pressioni inflazionistiche si attenueranno nel corso di quest’anno» e che, pertanto, «non c’è motivo per aumentare i tassi». Ma gli investitori continuano a scommettere che l’inflazione elevata costringerà la Bce ad aumentare i tassi di interesse prima del previsto.

L’economista tedesca Isabel Schnabel, componente del consiglio della Bce da due anni, è da sempre la critica più accanita del suo vasto programma di acquisto di obbligazioni. Nel corso della riunione annuale dell’American Finance Association di sabato, Schnabel ha chiarito che «la necessità di intensificare la lotta ai cambiamenti climatici può implicare che i prezzi dei combustibili fossili dovranno continuare a crescere se vogliamo raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sul clima». È probabile insomma che anche le politiche europee per affrontare il cambiamento climatico manterranno i prezzi dell’energia più alti, più a lungo: ciò potrebbe costringere la Banca centrale europea a ritirare lo stimolo più rapidamente del previsto. Vittorio Ferla

CARO BOLLETTE E PREGIUDIZI. TRA GAS, NUCLEARE E CARBONE IL GRAN RIFIUTO È IMPOSSIBILE (PER ORA). Ferruccio De Bortoli per “L’Economia - Corriere della Sera” il 10 gennaio 2022.

Due recenti episodi di cronaca ci dicono molto - più di tanti grafici e cifre - su quanto sia complessa la transizione ecologica. La rivolta popolare di Almaty, nel Kazakistan, scatenata anche, non solo, dall'aumento del prezzo del gas di cui peraltro l'ex repubblica sovietica è grande produttrice. 

E, in scala politicamente minore, la decisione dell'Indonesia di vietare (mai accaduto) l'esportazione di carbone pur essendo ricca di miniere. Ma ne ha troppo bisogno. Le fonti fossili - che dovremmo sostituire al più presto per combattere il riscaldamento climatico - non sono mai state così desiderate e pagate profumatamente da chi ne ha necessità vitale, e gelosamente custodite e valorizzate. Persino negate all'acquisto da chi ne ha tante.

Ciò vuol dire subito una cosa. Spiacevole, ma purtroppo vera. La sensibilità ecologica è direttamente proporzionale al nostro grado di benessere. Quando si rischia di restare al freddo, o di dover pagare troppo il combustibile, i destini del pianeta passano inevitabilmente in secondo piano. 

In queste ultime settimane, ed era inevitabile, si è discusso tanto su come alleviare (giustamente) le bollette del gas e della luce. Le tariffe nonostante il deficit aggiuntivo deciso dal governo, sono aumentate mediamente nel 2021 di quasi il 30%. Otto miliardi di nuovo debito per un sollievo però del tutto apparente.

Quasi simbolico vista l'ondata di rincari, speriamo temporanea, dei prezzi del petrolio e del gas naturale. Si è parlato invece poco dei necessari investimenti nelle fonti rinnovabili, in particolare solare ed eolico, come se avessimo tempo, come se la transizione ecologica non fosse un'emergenza quotidiana, come se non ci fossero scadenze serrate e vitali legate alla realizzazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). 

L'attenzione sul Green New Deal europeo si è ravvivata solo dopo la presentazione, da parte della Commissione, della proposta sulla tassonomia, ovvero la classificazione delle fonti energetiche necessarie alla transizione. E al raggiungimento, nel 2050, della net zero emission che non significa il traguardo idilliaco di un mondo pulito, ma l'equivalenza fra l'anidride carbonica che si emette e quella che si cattura. 

Si continuerà a sporcare (meno) anche dopo quella data. Amaro poi notare come dopo l'incerto risultato della Cop26 di Glasgow, i temi più urgenti sulla transizione siano passati in secondo piano. Le ipocrisie in materia sono tante. Nocive.

E alcune di queste si sono manifestate anche nelle reazioni al documento della Commissione europea che «promuove» il gas naturale e soprattutto l'energia nucleare nella tassonomia della transizione. «Sono entrambi dannosi per l'ambiente», ha detto la ministra austriaca, responsabile per la protezione climatica, Leonore Gewessler. 

Vienna minaccia di rivolgersi alla Corte di Giustizia Europea se il documento non verrà modificato. Contrari finora anche Spagna e Lussemburgo. La bozza di delegated act è aperta alle osservazioni degli stati membri. C'è tempo fino al 12 gennaio, mercoledì prossimo, per osservazioni e modifiche.

Il documento ufficiale - indispensabile per l'avvio del processo di Green New Deal - sarà poi inviato al Consiglio europeo e al Parlamento per l'approvazione finale. Molto dipenderà dalla posizione tedesca. La Germania decise l'uscita dal nucleare dopo l'incidente di Fukushima nel 2011. Otto tedeschi su dieci sono contrari alla produzione di elettricità attraverso l'atomo. 

Tre centrali sono state recentemente chiuse e altre tre - come ha spiegato il portavoce del cancelliere Steffan Hebestreit - cesseranno di essere operative a fine 2022. Il governo Scholz, che comprende anche i verdi, sembra orientato ad astenersi. Il no al nucleare significa però un sì all'uso del gas e al Nord Streem 2, il metanodotto, tanto temuto sotto il profilo strategico, che alimenta l'Europa grazie ai giacimenti russi. Da una parte c'è il consenso, la scelta politica, dall'altra le ragioni dell'economia.

Rifiutare subito nucleare e gas naturale è impossibile. E se l'atomo è degli altri - in particolare i francesi - allora va bene. Lo tolleriamo. 

«Se non ci fosse il nucleare - ha scritto su La Stampa Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia - l'Europa sarebbe da tempo al buio». Negarlo è una fuga dalla realtà. Da noi L'Italia ha rinunciato al nucleare con il referendum del 1987. Ma acquista dai francesi, e lo ha fatto la stessa Germania sebbene in misura minore, il 10 per cento del proprio consumo di elettricità. L'equivalente della produzione annua di tre centrali nucleari. «Il nostro vero nemico è la CO2 - commenta Giuseppe Zollino, docente di Tecnica ed economia dell'energia e di impianti nucleari all'università di Padova - visto che l'80% dell'energia primaria mondiale viene dai combustibili fossili.

Sarebbe suicida non impiegare tutte le tecnologie disponibili adatte a combattere le emissioni. Io sono assolutamente favorevole agli investimenti nelle rinnovabili, ma non agevoliamo certamente la transizione se ci nascondiamo alcune scomode verità. Il sistema elettrico va considerato nel suo insieme e deve garantire la potenza necessaria in ogni momento, non solo l'energia che serve in un anno. 

L'eolico e il solare sono puliti ma variabili e certamente abbiamo margini per aumentare la capacità installata in Italia. Non so se ce la faremo ad aggiungere 70 Gw (Gigawatt) entro il 2030, ma è certo che le difficoltà maggiori verranno dopo. Sarebbe infatti davvero arduo soddisfare il 100 per cento delle domanda elettrica prevista al 2050 con i soli solare ed eolico. 

Un po' più facile, e meno costoso, se utilizzassimo anche una fonte continua e priva di emissioni di CO2 come il nucleare a fissione o, un po' più avanti, la fusione. E ancora peggio sarebbe se il nucleare non ci fosse non solo in Italia ma in tutta l'Unione europea, perché allora l'intero sistema elettrico continentale sarebbe a forte rischio di blackout».

Come quello, ricorderemo, del 28 settembre del 2003 che paralizzò l'Italia. Zollino è l'ex presidente della Sogin, la società pubblica incaricata di smantellare i vecchi impianti e trattare (e mettere dove?) le scorie del nucleare italiano. Non crede che il Paese possa riconsiderare in tempi brevi la scelta del 1987. Ritiene che il nucleare sia fatto di processi complessi che richiedono continuità di gestione in un quadro regolatorio chiaro e stabile. 

«E soprattutto servono competenze - aggiunge - per le quali, da Enrico Fermi a Felice Ippolito eravamo un tempo all'avanguardia nel mondo. Ma se qualcuno pensa che in pochi anni si possano costruire nuove centrali nucleari in Italia è fuori strada. Prima va riavviata la macchina».

Insomma, c'è un populismo energetico (promettere ciò che è irrealizzabile) in entrambe le direzioni. Nel pensare che le fonti energetiche siano esposte in un ideale scaffale di un supermercato e si possa passare da un prodotto all'altro. E, al contrario, che la scelta nucleare equivalga, per complessità, alla costruzione di un'autostrada. 

Un altro grande esperto in materia è Umberto Minopoli. «L'84% dell'energia primaria che consumiamo nel mondo, pari a 136 mila Tw (Terawatt), è di origine fossile - afferma l'ex numero uno di Ansaldo Nucleare e attuale presidente dell'Associazione nucleare italiana (Ain) -: possiamo liberarcene in pochi anni? No, un'utopia. Il carbone è la fonte più inquinante. In Europa ci sono 162 centrali a carbone attive, nel mondo circa 8 mila. 

Avremo sempre bisogno del nucleare, non solo quello di quarta generazione quando verrà, con rischi ancora più ridotti e fortemente controllati, ma anche e soprattutto di quello esistente. Il nucleare costituisce il 28 per cento delle energie no carbon europee, se riuscissimo, con tutte le garanzie e grazie alle nuove tecnologie, ad allungare la vita degli impianti esistenti, in particolare di quelli costruiti negli anni Settanta, riusciremmo ad ottenere in tempi molto brevi una quota maggiore di energia pulita e un abbattimento più forte della CO2 già in questo decennio.

Gli americani sono arrivati a 80 anni. È stato calcolato che sarebbe possibile aggiungere ogni anno, entro il 2040, 10 Gw all'attuale produzione che è di 399 Gw. E dopo il 2040, 20 Gw l'anno». Minopoli non si nasconde gli enormi problemi legati ai costi, alle difficoltà di insediamento, al delicato tema delle scorie, all'opposizione popolare. Ma i dati sono questi. Mettere la testa sotto la sabbia non serve a nulla, se non ad appesantire la già titanica lotta al riscaldamento climatico. L'ultimo paradosso è quello di Paesi, come il nostro, che non vogliono più sentir parlare di nucleare ma sono nella condizione di sperare che gli altri - francesi, inglesi per esempio - non li imitino. Altrimenti sarebbero guai. Seri.

Felice Manti per "il Giornale" l'11 gennaio 2022.

Il nucleare è una fonte green? All'Unione europea l'ardua sentenza. Bruxelles ha deciso di traccheggiare fino al 21 gennaio, ma intanto in un Paese «energivoro» come l'Italia le bollette lievitano e le aziende chiudono perché il costo del gas è praticamente quintuplicato (da 21 euro per mille kilowatt a 120 euro). 

L'authority Arera che stabilisce i prezzi in bolletta l'ha detto forte e chiaro: per il prossimo trimestre l'energia aumenterà del 55%, il gas del 41,8% anche per chi ha un contratto «tutelato», figurarsi per gli altri. 

È vero che il governo ha stanziato quasi 4 miliardi di bonus bolletta per il 2022, assieme alla possibilità di rateizzare le bollette fino a 10 mesi. Ma se la Cina continuasse a fare man bassa di gas a qualsiasi prezzo e se a Mosca farà ancora più freddo lo spettro del «lockdown energetico» ipotizzato da un esperto qualche settimana sul Giornale potrebbe materializzarsi.

Alla faccia di bonus, Pil e Pnrr. Sulla cosiddetta «tassonomia green» l'Europa è divisa: da una parte ci sono Germania, Austria e altri paesi nell'orbita di Berlino, che ieri ha fatto la voce grossa: «Nucleare? Per noi è no», ha scritto la portavoce della rappresentanza tedesca a Bruxelles Susanne Körber, fugando i residui dubbi sul balletto di dichiarazioni del neo governo tedesco, ostaggio dei Verdi.

Se n'è parlato anche nell'incontro del ministro degli Esteri green Annalena Baerbock con suo omologo italiano Luigi Di Maio. Chernobyl uccise il nucleare in Italia, la tragedia di Fukushima del 2011 ha spinto la Germania a smantellare le sue centrali: tre sono state già chiuse, altre tre lo saranno a fine 2022. Ma Berlino ha il «suo» gasdotto North Stream che la tiene al sicuro, il cui raddoppio è al centro del delicato risiko tra Russia (principale produttore di gas naturale mondiale) e Ucraina.

Per ammissione della stessa Baerbock «se per l'escalation il progetto North Stream 2 saltasse per noi cambierebbe poco». Ma quando si spegnerà tutto l'atomo tedesco per l'Italia saranno guai. Finora una parte del nucleare tedesco (e soprattutto francese) è servito ad accendere la luce nel 15% delle case italiane. Dall'altro lato infatti ci sono l'Italia e la Francia, che ha promesso 8 miliardi per sterilizzare gli aumenti in bolletta.

Per il ministro dell'Economia e delle Finanze d'Oltralpe Bruno Le Maire l'atomo è a emissioni zero, quindi è green. Sulla stessa linea anche il nostro ministro per la Transizione energetica Roberto Cingolani, anche se M5s e Pd spingono per il no. Resta il problema degli approvvigionamenti e degli stoccaggi, oggi ampiamente sotto il livello di guardia. In conferenza stampa il premier Mario Draghi, che ha chiesto al Consiglio europeo di ragionare con altri Paesi su «stoccaggi comuni e acquisti comuni per gruppi di paesi».

Senza nucleare peraltro dovremo dire addio anche alle auto elettriche. Le famose «rinnovabili» che piacciono alla sinistra, come solare ed eolico, non ce la farebbero mai a colmare il gap energetico, né tanto meno a farci raggiungere l'obiettivo zero emissioni nel 2050.

«Senza il nucleare è impossibile», ammette il commissario europeo al Mercato unico, Thierry Breton. Ma intanto l'Italia - come anticipato dal Giornale - ha riacceso le centrali a carbone, ad oggi la fonte più conveniente per non chiudere tutto e morire di freddo. E altrove va anche peggio. Negli Usa le emissioni di gas serra l'anno appena passato sono cresciute del 6,2% dopo il calo record del 10% nel 2020. L'elettricità prodotta dal carbone nel mondo è aumentata del 9%, così come la domanda di coke, prevista a 8.025 milioni di tonnellate ogni anno in media da qui al 2024. Ma non ditelo a Greta Thunberg.

Il ritorno del nucleare dopo anni di dubbi: guidano Cina e India. Giacomo Talignani su La Repubblica il 4 Gennaio 2022. Il calo delle risorse naturali e l'aumento dei prezzi di elettricità e gas stanno portando diversi Paesi del mondo a riconsiderare l'uso dell'atomo. Esattamente come nel cuore di una centrale nucleare, dove avviene la fissione, la questione atomica potrebbe essere anche la più divisiva a livello globale in questi anni. La necessità di decarbonizzare per fermare le emissioni e la crisi climatica, il calo delle risorse naturali e l'aumento dei prezzi di energia elettrica e gas, unito al complesso sviluppo delle rinnovabili e dei sistemi di stoccaggio, stanno portando diversi Paesi del mondo a riconsiderare l'uso dell'energia nucleare.

Chi c'è nel partito del nucleare che unisce sovranisti, liberali e imprese. Gabriele Bartoloni su La Repubblica il 2 gennaio 2022. Dal ministro Cingolani al leader leghista Salvini, grazie anche alle convinzioni europeee, cresce la voglia di reinserire un'energia ora considerata "green", ma bloccata da due referendum. Uno schieramento eterogeneo quanto trasversale, composto da sovranisti e liberali, parti sociali ed esponenti di governo. È il partito del nucleare, ritornato in auge all'epoca delle grandi mobilitazioni ambientaliste, ritagliandosi uno spazio crescente nell’ambito delle misure utili a scongiurare l’aumento vertiginoso delle emissioni e non solo. Perché a partire dal 2022 a lievitare sarà anche il costo in bolletta di luce e gas ed è in questo contesto che il nucleare viene visto come soluzione per evitare ulteriori rincari.

Nucleare, la Germania fa retromarcia: si asterrà sulla decisione Ue di inserirlo tra le energie pulite. Tonia Mastrobuoni su La Repubblica il 4 Gennaio 2022. Nonostante le parole di fuoco del ministro dell'Economia e leader dei Verdi contro la proposta della Commissione, il governo Scholz ha deciso di non chiedere modifiche al testo: Berlino sa di non avere molti alleati.

Clamorosa retromarcia della Germania sull'atomo. Nonostante le parole di fuoco del ministro dell'Economia e leader dei Verdi Robert Habeck contro la decisione della Commissione Ue di considerare il nucleare un'energia "pulita", il governo Scholz corregge il tiro. Berlino non chiederà modifiche sostanziali alla bozza di Bruxelles e si asterrà, nel voto al Consiglio sulla classificazione europea delle fonti sostenibili.

NUCLEARE: BERLINO, GOVERNO UNANIME CONTRO PROPOSTA UE. (ANSA il 3 gennaio 2021) - "C'è una posizione unanime nel governo" di Berlino sulla valutazione della classificazione delle fonti di energia proposta dalle Ue: lo ha dichiarato il portavoce di governo Steffen Hebestreit, rispondendo a chi domandava se ci fossero discordanze tra i partiti della coalizione, in conferenza stampa a Berlino. 

Hebestreit ha ricordato che nel contratto di coalizione si concorda sull'addio all'energia atomica in quanto pericolosa e non sostenibile dal punto di vista ambientale, mentre si considera il ricorso al gas naturale come una "tecnologia di passaggio", necessaria per arrivare ad altre forme di tecnologia pulita.

Paolo Baroni per "La Stampa" il 3 gennaio 2021. La Commissione europea che infrange il tabù del nucleare, inserendo l'energia elettrica prodotta grazie all'atomo al pari del metano tra le possibili fonti utili a favorire la transizione ecologica (la cosiddetta tassonomia) riaccende in dibattito in Italia e apre anche le prime crepe in Europa. Il nucleare di quarta generazione, pulito e sicuro, come stanno sperimentando Russia, Cina, Argentina e Stati Uniti, nel lungo periodo potrebbe infatti essere una delle carte che, assieme ad un uso ponderato del metano, consentirà al Vecchio continente di affrontare con meno problemi la fine della stagione dei combustibili fossili. 

E negli anni a venire potrebbe fornire un contributo importante alla soluzione dei problemi del nostro Paese, notoriamente squilibrato nel suo mix energetico a favore di petrolio e metano per la quasi totalità di importazione.

L'eredità del 2011

Certo pesa l'esito del referendum che nel 2011 ha segnato la fine del nucleare «made in Italy» e il rispetto della Costituzione viene ancora brandito da quanti continuano a tenere fermo il no all'atomo. 

Ne sa qualcosa il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, che solo per il fatto di aver suggerito nei mesi passati di fare attenzione agli sviluppi delle ricerche in corso sul fronte delle minicentrali è stato messo in croce per giorni e giorni dai 5 Stelle e da tutto l'ambientalismo tricolore. Inutile dire che ora Cingolani viva la decisione della Commissione Ue di classificare il nucleare tra le fonti green come una rivincita.

Coi prezzi del gas alle stelle e la nuova stangata sulle bollette ha infatti buon gioco a dire «avete visto, che avevo ragione?». Il ministro ufficialmente non commenta le ultime novità, però fa capire di aspettarsi che tutti quelli che negli ultimi tempi gli hanno mostrato solidarietà e si sono detti d'accordo con lui uscissero allo scoperto, mettendoci pure loro la faccia. Inutile dire che sul fronte politico la tensione resta sempre molto alta.

Attirandosi le stesse critiche ricevute del titolare del Mite, Matteo Salvini in questi giorni ha fatto sapere di voler inserire il nucleare tra le fonti previste dal piano sull'energia in chiave sovranista che di qui a breve la Lega presenterà a Draghi, Cingolani e agli alleati di governo. 

I 5 Stelle, invece, dopo le indiscrezioni arrivate da Bruxelles, hanno messo subito in chiaro che «sia il gas che il nucleare non possono essere dichiarati sostenibili e quindi verdi» e che «gli aiuti pubblici possono essere dati solo a tecnologie che rendano i cittadini europei più autonomi rispetto alle importazioni dall'estero», in pratica dunque solo alle rinnovabili. 

Tabarelli: dibattito folle

«Quello della Ue è un atto scontato e ovvio, è dovuto», sostiene invece il presidente di Nomisma Energia, Davide Tabarelli. «È una follia discuterne. Stiamo vivendo un raddoppio delle bollette, c'è uno shock energetico perché non c'è gas e il nucleare continua ad essere principale fonte per la produzione dell'energia elettrica in Europa». 

Intanto però Germania, Austria e Spagna hanno già espresso parere contrario alla proposta della Commissione europea di inserire nella tassonomia delle fonti green anche alcuni investimenti in impianti a gas e nucleari.

«Se questi piani dovessero essere attuati, presenteremo un'azione legale», ha minacciato su Twitter il ministro del Clima austriaco Leonore Gewessler accusando la Commissione di «ambientalismo di facciata», col tentativo di «ripulire» il nucleare ed il gas naturale: «L'energia nucleare è pericolosa e non è una soluzione nella lotta ai cambiamenti climatici».

Anche i tedeschi divisi

Dura la presa di posizione anche del numero del due dell'Spd al Parlamento tedesco, Matthias Miersch, mentre nel governo di Berlino affiorano divisioni coi liberali a favore dell'atomo green ed i Verdi a loro volta contrari come l'Spd. A suo parere la Germania, che ha appena spento 3 centrali nucleare e fermerà entro l'anno le ultime tre, «dovrebbe esaurire tutte le possibilità per impedire di promuovere questa tecnologia a livello europeo.

L'energia nucleare non è sostenibile e non ha assolutamente alcun senso economico». Stessi toni usati dalla vicepremier e ministro per la Transizione ecologica spagnola, Teresa Ribera: «La Spagna - ha spiegato ieri - è un fermo sostenitore della tassonomia verde come strumento chiave per avere riferimenti comuni che possono essere utilizzati dagli investitori per raggiungere la decarbonizzazione dell'economia e la neutralità climatica entro il 2050», ma includere il nucleare e il gas «sarebbe un passo indietro». Giudizi pesanti di cui Bruxelles dovrà tenere conto: nel caso entro il 12 la maggioranza dei paesi fosse a favore il piano entrerebbe in vigore il prossimo anno.

Jacopo Orsini per "il Messaggero" il 3 gennaio 2021. La proposta della Commissione europea di classificare nucleare e gas naturale come fonti green, con l'obiettivo di accelerare il percorso verso le emissioni zero, divide l'Unione. 

La Germania, che da tempo ha varato un piano per l'abbandono dell'energia atomica, guida il fronte dei Paesi contrari: il piano «annacqua» gli sforzi attuali per arrivare all'obiettivo della neutralità climatica, attacca il vicecancelliere Robert Habeck, dei Verdi, definendo «sbagliata» la scelta di inserire il nucleare nella nuova tassonomia Ue e indicando in particolare il problema degli effetti a lungo termine delle scorie. «Etichettare l'energia nucleare come sostenibile è un errore ed è assurdo per gli standard mondiali», ha rincarato il ministro dello Sviluppo, Svenja Schulze. 

Ma anche a Berlino le posizioni non sono unanimi, con il ministro delle Finanze, il liberale Christian Lindner, decisamente meno ostile al nucleare. Critiche sono arrivate anche dall'Austria, dove il titolare dell'Ambiente, Leonore Gewessler, ha definito il nucleare «un'energia del passato». 

Contro la proposta della Commissione si schiera anche il governo spagnolo. «Il gas naturale e il nucleare non possono essere considerati tecnologie verdi o sostenibili, a prescindere dalla possibilità che si possano continuare a fare investimenti nell'una o nell'altra», ha affermato il ministero della Transizione ecologica. «Non ha senso e manda segnali sbagliati per la transizione energetica di tutta l'Ue», è la conclusione di Madrid.

La bozza messa a punto da Bruxelles riaccende dunque le divisioni interne ai 27 sul dossier energia. La Francia, con tutte le sue centrali nucleari da cui ormai dipende fortemente per il suo fabbisogno di elettricità, guida da sempre il fronte favorevole all'atomo. 

In Germania invece, dopo il disastro giapponese di Fukushima del 2011, l'opposizione al nucleare è andata crescendo. Nel mezzo gli Stati dell'est e quelli mediterranei che dipendono maggiormente dai combustibili fossili e hanno invece difeso l'inserimento del gas come fonte sostenibile.

Il caro energia tuttavia continua a preoccupare l'Europa e in particolare l'Italia, dove molte aziende energivore rischiano di dover fermare la produzione a causa degli aumenti. Intanto, mentre il governo è al lavoro per studiare nuovi interventi per calmierare i rincari delle bollette (+55% per l'elettricità e +42% per il gas nell'ultimo aggiornamento trimestrale), Matteo Salvini esulta per la proposta della Commissione sul nucleare. «La Lega è pronta anche a raccogliere le firme per un Referendum che porti il nostro Paese in un futuro energetico indipendente, sicuro e pulito», ha detto il leader del Carroccio.

Ad aprire all'ipotesi di un ritorno alle centrali atomiche è stato più volte anche il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, l'ultima in una intervista poco prima di Natale al Financial Times. Nonostante l'Italia abbia abbandonato la produzione di energia nucleare in seguito al referendum nel 1987, ha argomentato il ministro, è arrivato il momento di considerare l'idea di ripristinarla guardando a tutte le nuove tecnologie «compresi i piccoli reattori modulari». Una prospettiva che tuttavia, oltre alla ferma contrarietà degli ambientalisti, trova fredda anche l'Enel, la principale azienda energetica del Paese. «Il nucleare di quarta generazione necessita di studi e attenti approfondimenti - ha detto al Messaggero Nicola Lanzetta, direttore di Enel Italia - e non vediamo applicazioni commerciali significative prima del 2040».

La tattica tedesca: cosa nascondono le mosse di Scholz sul nucleare. Lorenzo Vita su Inside Over il 4 gennaio 2022. La bozza della Commissione europea in cui inseriscono energia nucleare e gas nella tassonomia delle fonti “pulite” spacca l’Europa ma diventa anche il primo grande banco di prova del governo tedesco guidato da Olaf Scholz.

La Germania ha da tempo avviato una profonda rimodulazione della propria infrastruttura energetica, puntando su un graduale abbandono dell’atomo. E la nascita della cosiddetta coalizione “semaforo”, in cui governano i Verdi insieme a liberali e socialdemocratici, doveva essere in questo senso la certificazione della definitiva svolta “green” e un segnale per tutto il Vecchio Continente. Una rotta intrapresa non solo per la forte presa di idee ambientalista all’interno dell’elettorato tedesco – come confermato anche dai risultati dei Grünen – ma anche da precise scelte di politica industriale e internazionale. E che sembrava dover rimanere solida anche all’interno del consesso europeo.

La Germania pronta alla retromarcia?

Le cose però sembrano andare in un modo diverso. E il nuovo governo Scholz si trova a dover fronteggiare una partita complessa, che riguarda non solo i rapporti politici interni, ma soprattutto il quadro europeo e internazionale.

Dalla maggioranza di governo, infatti, non sembra esserci quell’unità di intenti dichiarato nelle prime ore dopo l’uscita della “tassonomia” europea. I ministri Verdi, come da programma, hanno condannato la scelta di Bruxelles di inserire le fonti nucleari come “pulite”, ma, come riferisce il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung, la ministra dell’Ambiente Steffi Lemke ha confessato che le possibilità che Berlino riesca a far modificare la proposta della Commissione sono “scarse”. “Il cancelliere Scholz ha chiarito che dal nostro punto di vista, dal punto di vista dell’esecutivo tedesco, l’energia nucleare non è un investimento sostenibile”, ha detto Lemke, ma l’impressione da Berlino è che non ci sia una maggioranza tale da rendere possibile la modifica della bozza. E, come scrive Repubblica, il portavoce del governo, Steffen Hebestreit, ha già chiarito che l’esecutivo non farà alcun tipo di ricorso contro la proposta della Commissione europea.

Evitare lo scontro con Parigi

La possibile retromarcia tedesca parte probabilmente da alcuni presupposti tattici che si intrecciano tra di loro. Innanzitutto la Germania, come riportato da Faz, sapeva della scelta dell’Ue di sdoganare l’atomo come energia pulita. La proposta, ripetono da Berlino, era nota da tempo ed era stata discussa in sede europea. Quindi ora sarebbe difficile ripensarci né è possibile trattarla come un fulmine a ciel sereno.

Inoltre, Berlino in questo momento non avrebbe la forza numerica né di leadership per modificare quella proposta. Scholz è appena subentrato ad Angela Merkel, e questo non gli permette di avere quella caratura internazionale tale da convogliare su di se un fronte abbastanza compatto da smuovere la Commissione. Attualmente i più netti contro la proposta per il nucleare sono stati, oltre alla Germania, Austria, Danimarca, Lussemburgo e Spagna, che avevano già mostrato a Bruxelles il loro rifiuto nel considerare questa fonte tra quelle che potrebbero ricevere aiuti europei. Ma a parte la fedeltà di Pedro Sanchez, unico leader socialista di peso al pari di Scholz in Ue, gli altri governi appaiono troppo deboli o poco incisivi per portare avanti questa battaglia.

A questo si aggiunge poi un altro tema: la Francia. L’asse franco-tedesco è una delle chiavi per comprendere l’attuale fisionomia europea. Emmanuel Macron avvia il suo semestre alla presidenza dell’Ue e dalla Germania non vogliono creare dissapori con un leader che si è mostrato molto legato all’alleanza con il vicino tedesco. Parigi guida gli Stati Ue che sostengono la necessità di un aiuto anche sul fronte nucleare. E Berlino non può sganciarsi dalla partnership franco-tedesca in un momento in cui l’Eliseo, se Macron vincerà nuovamente le elezioni di aprile, potrebbe diventare il vero centro politico dell’Unione europea.

Il nodo del gas russo

Inoltre, evitare uno scontro con la Francia potrebbe anche essere utile, per la Germania, per cercare di strappare una posizione meno rigida nei confronti della Russia. Russia che in questo momento si traduce con Nord Stream 2. Se infatti Berlino aveva posto il suo “no” al nucleare nella nuova tassonomia europea, altrettanto non era stato fatto per il gas naturale. E se per la Francia è fondamentale l’atomo nella diversificazione delle fonti energetiche, così è il gas per la Germania.

La questione è talmente importante che, secondo il quotidiano tedesco Bild (e riportato da Nova), il cancelliere Scholz avrebbe addirittura espresso la volontà di prendere in mano lui direttamente la questione dei rapporti con la Russia, con l’idea di incontrare prossimamente anche Vladimir Putin.

L’indiscrezione avrebbe un significato molto chiaro nelle scelte della nuova Germania a guida “semaforo”, perché di fatto significherebbe escludere i Verdi, tra cui vi è anche il ministro degli Esteri, Annalena Baerbock, dalla politica con il gigante eurasiatico: e il partito ecologista è sempre apparso come il più critico nei confronti del Cremlino. I Grünen non hanno mai apprezzato la scelta di blindare i rapporti bilaterali con la Russia attraverso il gasdotto Nord Stream 2, ma Scholz, figlio di quella Ostpolitik tipica dello SpD, sembra voler dare un’impronta positiva anche ai rapporti con la Federazione Russa.

Se per Berlino è essenziale attivare quel gasdotto, allora evitare di avere contro la Francia – leader in Ue ma anche membro permanente del Consiglio di Sicurezza Onu – e le forze non contrarie a questa bozza della Commissione (a partire dall’Unione stessa fino all’Italia) può sicuramente essere d’aiuto.

Sergio Giraldo per “La Verità” il 5 gennaio 2022. Tanto tuonò che non piovve. Con un dietrofront che ha del clamoroso, dopo mesi di dichiarazioni bellicose, il governo tedesco, attraverso il portavoce Steffen Hebestreit, ha fatto sapere che non chiederà rilevanti modifiche alla bozza di tassonomia green diffusa dalla Commissione europea e che si asterrà in sede di Consiglio europeo al momento del voto sul provvedimento. 

Il portavoce ha anche specificato che il governo «semaforo» guidato da Olaf Scholz non seguirà il governo austriaco nella sua decisione di proporre una causa contro la Commissione europea per l'inclusione del nucleare nella tassonomia verde, chiarendo che la vertenza non potrebbe comunque riguardare il merito del provvedimento.

Come previsto da La Verità il 16 novembre e ancora ieri, la Germania abbozza e, pur non nascondendo un atteggiamento critico sui contenuti dell'atto delegato che stabilisce la classificazione degli investimenti «sostenibili», decide di non intervenire ulteriormente. 

Di fatto, il governo Ampel lascia via libera a un provvedimento di compromesso che, pur rappresentando un sonoro schiaffo alle pulsioni antinucleari dei Verdi, è un successo per il sistema industriale e finanziario tedesco, perché gli consente di utilizzare il gas come fonte di energia di transizione.

Olaf Scholz, forse al primo vero ostacolo politico da Cancelliere, si dimostra avveduto, nel frangente. Da una parte sa bene che in una eventuale conta dei voti in Europa la Germania non riuscirebbe ad aggregare tutto il consenso necessario a bocciare il documento (almeno 20 Stati membri dell'Ue che rappresentino almeno il 65% della popolazione totale). 

Dall'altra, non intende ingaggiare una sfida con la Francia, maggiore sponsor del nucleare, giusto all'inizio del proprio mandato e con le elezioni presidenziali francesi che incombono. Su queste considerazioni ha influito anche, almeno in parte, la posizione del governo italiano, che si è venuta chiarendo nelle scorse settimane.

All'ultimo Consiglio europeo dei ministri dell'Energia dei primi di dicembre, infatti, il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani si era detto non contrario all'inclusione del nucleare tra le fonti sostenibili in un'ottica di decarbonizzazione. Non c'è ancora una posizione ufficiale del governo italiano sulla bozza. Tuttavia, tenuto conto del recente Trattato del Quirinale tra Francia e Italia, è assai difficile che il governo di Mario Draghi si schieri contro il partner con cui si è appena lanciato in un rapporto così stretto.

Ieri la Frankfurter Allgemeine Zeitung ha scritto che i vertici del governo Ampel avevano da tempo concordato la posizione tedesca nei confronti del documento sulla tassonomia. Ciononostante, due importanti ministri in quota Verdi, Robert Habeck e Steffi Lemke, proclamano a gran voce il proprio dissenso, mentre il neoeletto Cancelliere preferisce non esprimersi direttamente sulla questione. 

Anche perché una forzatura su questo tema rischierebbe di incrinare il cuore dell'Unione, quell'intesa Germania-Francia che è alla base dell'euro e dell'intera Unione. Il nucleare per la Francia è troppo importante, al punto da essere irrinunciabile. Non è possibile, oggi, un altro testo: l'Unione si romperebbe e questo non è nei piani della Germania. Anzi. Come spiegato ieri da queste colonne, nel giro di un decennio quello francotedesco sarà un unico sistema elettrico integrato e alla Germania servirà quel profilo di base che le centrali nucleari francesi potranno fornire.

La bozza di atto delegato sulla tassonomia, se confermata, è una chiara sconfitta politica per i Verdi, che appena giunti al governo devono incassare obtorto collo anche l'inclusione del gas nella tassonomia delle fonti di energia utili alla transizione ecologica. La questione del gas in Germania è spinosa perché riguarda soprattutto il gasdotto Nord stream 2 e le sue delicatissime implicazioni di politica estera. 

Sul piano interno è chiaro che la maggioranza di governo dovrà concedere ai Verdi qualche vittoria più avanti su altri dossier, per evitare di indebolire la coalizione.Dal punto di vista tecnico, i Verdi sembrano gli unici a non rendersi conto che gas e nucleare sono e saranno ancora per lungo tempo indispensabili in tutta Europa per soddisfare la domanda e mantenere le reti in equilibrio.

Soprattutto se si pensa che i piani dell'Ue per la decarbonizzazione impongono una progressiva elettrificazione dei consumi, sino ad azzerare gas e petrolio in meno di 30 anni. In soldoni, si tratta di raddoppiare la domanda elettrica. Ieri anche l'importante quotidiano tedesco Die Welt si è espresso in maniera molto severa sulla posizione dei Verdi, definendola una sciocchezza: «Qualcuno crede davvero che la Germania coprirà la sua galoppante domanda di energia con la sola elettricità verde?»

Un refolo di pragmatismo sembra quindi spirare tra Buxelles e Berlino, mentre in Italia gli ambientalisti chiedono che il Pd si opponga in tutte le sedi alla bozza di atto delegato. Posto che una contrarietà del Pd non sposterebbe nulla negli equilibri europei così faticosamente raggiunti, dovrà essere Enrico Letta, già commendatore della Legion d'onore, a spiegare il perché ai suoi.

·        Quelli che…sempre no!

Michel Dessì per “il Giornale” il 25 novembre 2022.

Il «No» degli ambientalisti fa eco da nord a sud. Un ritornello stonato che risuona per i cantieri di mezza Italia. Un «No» a priori (spesso ideologico) in nome della tutela dell'ambiente che rallenta, ferma e, nel peggiore delle ipotesi, blocca le opere pubbliche. Un «No» fatto da battaglie legali e carte bollate che ingolfano i tribunali che, spesso, gli danno ragione. Come il Tar della Puglia che ha deciso di bloccare lo snodo ferroviario di Bari sud. Un'opera del Pnrr da 406 milioni di euro. Troppo impattante per le case vicine e, soprattutto, per gli alberi di carrube radicate in quel terreno dove, invece, sarebbero dovuti passare i treni ad alta velocità.

Il progetto è da rifare come anche quello per la nuova strada statale Orte-Civitavecchia. Questa volta nel cuore della Tuscia. Il Tar del Lazio dopo la denuncia delle associazioni ambientaliste ha deciso di bloccare i lavori. Risultato? Una superstrada interrotta a 14 chilometri dalla fine che costringe gli autotrasportatori ad attraversare una serie di piccoli centri abitati dell'entroterra per raggiungere il porto di Civitavecchia. Il motivo? Lungo le sponde del fiume (dove sarebbe dovuto sorgere il 4 ponte) in estate nidifica il falco grillaio. A mettersi di traverso contro il progetto dell'Anas la Lipu, il Wwf e Italia Nostra. Il rischio è che il falco possa essere investito dai mezzi in transito.

Dal falco alla passera scopaiola. Sempre a Bari, in Puglia, il coro del «No» degli ambientalisti ha fermato i lavori di un altro nodo ferroviario (un progetto del Pnrr) per proteggere la nidificazione della passera. Il primo stop (a luglio) è stato superato grazie ad un intervento normativo del governo ai tempi di Mario Draghi. Ma la battaglia è assicurata. 

In Molise, invece, dopo una lunga lotta, ad aprile 2022, sono stati affidati i lavori per il raddoppio ferroviario della tratta Termoli - Ripalta. Un'opera ostaggio dei soliti «No» per vent' anni. La scusa? La nidificazione di un altro uccello, quello fratino.

A Lesina, invece, dopo le proteste degli attivisti i treni ad alta velocità dovranno marciare a vista per non investire il rospo smeraldino. Parola del ministero della Transizione ecologica che, dopo la denuncia delle associazioni, ha redatto un parere di cento pagine. Puntigliose indicazioni che dovranno osservare i costruttori della nuova linea per salvare i rospi e i tritoni. La stessa specie animale che impedisce addirittura l'abbattimento e la ricostruzione del ponte Diana in Sardegna. Causando non pochi problemi ai cittadini. Isolati.

L'elenco delle opere ferme è lungo. Come quello delle battaglie perse dagli ambientalisti.

Per nostra fortuna. Fosse stato per il coro dei «No» non avremmo oggi il Tap e il gas dall'Azerbaijan. La spiaggia di San Foca (a rischio per gli ambientalisti) è salva. Oggi lì sventola la bandiera blu. Come il colore del mare. Nonostante il gasdotto. Alla faccia dei no.

L'ecologismo che nega la realtà. Leonardo Sciascia, acuto scrittore siciliano, metteva in guardia dai moralisti senza morale, professionisti nel puntare l'indice e nel mettersi di traverso su tutto. Pompeo Locatelli il 15 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Leonardo Sciascia, acuto scrittore siciliano, metteva in guardia dai moralisti senza morale, professionisti nel puntare l'indice e nel mettersi di traverso su tutto. Mi è tornato in mente il suo pensiero nel vedere il modus operandi dei professionisti dell'ambientalismo. Che, in nome di una visione delle cose distorta da chiodi fissi, si dimentica delle cose. E cioè della realtà dei fatti.

In sintesi, potremmo dire che gli ambientalisti non vogliono il bene vero all'ambiente. Un professionismo che rifiuta il bene, insomma. E a proposito di fatti, costoro, ovvero quelli impegnati in politica, vorrebbero consentire al sindaco di Roma di approvare sì nuovi impianti per i rifiuti ma giammai i termovalorizzatori. Verrebbe da dire, andiamo avanti con le discariche e altolà a sistemi di smaltimento dei rifiuti tecnologicamente avanzati. In nome di che cosa tale scelta scriteriata ed economicamente svantaggiosa? Proprio in nome della distorsione della realtà. Di un massimalismo che non porta mai del bene. Un inquinamento del pensiero che, nel nostro caso, si traduce in più inquinamento. Quindi soprattutto in un danno per la salute.

Intendiamoci, quando si parla di smaltimento dei rifiuti l'impatto zero è un'utopia. Quel che è opportuno fare per affrontare con giudizio una materia così complessa è adoperarsi per raggiungere risultati apprezzabili. E i termovalorizzatori, allo stato attuale, hanno le caratteristiche per soddisfare tale esigenza. Infatti, sono impianti che nel bruciare i rifiuti creano energia. Bruciano inquinando meno grazie alla tecnologia e parimenti producono quell'energia di cui, oggi più che mai, abbiamo bisogno come il pane. Un vantaggio per tutti che ricade sull'economia reale, cioè famiglie e imprese. Ma questo agli ambientalisti senza macchia non interessa. Si rifiutano di guardare in faccia la realtà. Chissà cosa ne scriverebbe Sciascia.

Flavia Amabile per “la Stampa” il 20 Novembre 2022. 

È una dichiarazione di guerra quella che arriva dalle centinaia di persone riunite a Piombino per protestare contro i rigassificatori. Non solo quello che la Snam sta provando a collocare nel porto della piccola città toscana. 

«Rifiutiamo i rigassificatori in qualsiasi altro tratto di mare o di costa italiani», è lo slogan che chiunque ripete nella sala dell'Hotel Centrale gremita, dove per ore si avvicendano al microfono attivisti, rappresentanti di associazioni, ambientalisti, protagonisti delle battaglie in corso da anni nelle decine di territori dove sono previsti nuovi rigassificatori o depositi di gas liquefatto. 

E tutti ora guardano a Piombino come modello per lanciare una campagna di mobilitazione contro i rigassificatori ancora più forte e decisa. La riunione di ieri è servita per dare vita ufficialmente alla "Rete No Rigass. No Gnl" destinata a dare una dimensione nazionale alla protesta facendo fare un salto di qualità alla loro opposizione a cominciare da una grande manifestazione che porterà migliaia di persone a Roma all'inizio del 2023.

«Piombino è il nostro faro», spiega Claudio Pagnani del coordinamento "Per il clima - fuori dal fossile" arrivato da Ravenna nella piccola città toscana che le politiche energetiche hanno unito. A Ravenna la Snam ha deciso di collocare una nave sorella di quella destinata a Piombino per rigassificare il gas liquido da immettere nel circuito. «Stiamo organizzando manifestazioni di protesta, convegni ma ora non basta più, ora bisogna unirsi per avere più forza nel dire che non vogliamo i rigassificatori, che vogliamo dire basta a questo sistema che ci lega sempre di più alle fonti fossili mentre è evidente che bisogna andare nella direzione opposta, verso le fonti di energia rinnovabile». 

A oggi sono tre i rigassificatori in funzione in Italia: il più anziano risale al 1967, è il terminale Italia, nella baia di Panigaglia, Comune di Porto Venere. Si trova nello stretto golfo della Spezia, a pochi passi dalle case, vicino al porto commerciale e a quello militare. Dal 2009 è operativo nell'Adriatico il più grande rigassificatore italiano. Sorge a 15 chilometri da Porto Viro (RO), su un'isola artificiale. Dal 2013 è entrato in funzione anche il terminale di Livorno. Si trova a circa 22 chilometri al largo di Livorno ed è connesso alla rete metanifera tramite un gasdotto di 36 km.

Una parte minima dei progetti presentati negli anni, ricorda Cosimo Quaranta, attivista del Movimento No Tap/Snam dalla provincia di Brindisi e della campagna nazionale "Per il clima, fuori dal fossile": «A Brindisi il rigassificatore è stato bloccato dall'opposizione locale e dalle inchieste giudiziarie che hanno mostrato che le autorizzazioni c'era un sistema di tangenti e corruzione.  

Ora però bisogna essere più forti nella protesta perché i rischi aumentano: l'articolo 5 del Decreto aiuti prevede procedure più rapide per i nuovi impianti, tralasciando persino la valutazione d'impatto ambientale. Non bisogna consentire questa semplificazione sulla pelle delle persone e dei territori». È quello che sostiene da tempo Piombino opponendosi prima al governo Draghi poi a quello Meloni. Un'opposizione condotta non soltanto da comitati e dalla popolazione.

 Il sindaco si è messo alla testa della sua comunità, promuovendo un ricorso al Tar contro l'infrastruttura, anche se è di Fratelli d'Italia e la sua posizione sta creando più di un imbarazzo nel partito e con la presidente del Consiglio che non intende fare marcia indietro. Il pericolo è molto evidente in Sardegna, per esempio.  

«La Snam ha presentato un progetto di rigassificatore galleggiante nel sud dell'isola, a Portoscuso, che stiamo ritardando attraverso le nostre azioni - racconta Angelo Cremone dell'associazione Sardegna Pulita -. Ha motivato questa necessità asserendo che la centrale Enel vicina sarebbe stata riconvertita a gas. Un'affermazione che Enel ha smentito. Inoltre, nel nostro piccolo territorio si registra già un'alta concentrazione di piombo, arsenico, zinco, alluminio. Anche l'Istituto superiore di sanità ha sottolineato gli ulteriori impatti sanitari che avrebbe un rigassificatore. Noi quindi andiamo avanti nella battaglia e siamo convinti che ora la questione debba essere nazionale».

La mappa dei movimenti che fanno opposizione sul territorio. Nel silenzio dei media e dei partiti. Comunità che coniugano le battaglie su clima e ambiente con quelle sul lavoro e i diritti. E si rendono protagoniste di una contestazione dal basso colpevolmente ignorata. Diletta Bellotti su L’Espresso il 14 Novembre 2022.

Mappare ciò che si mobilita, che emerge, che si coordina e, soprattutto, ciò che resiste, non può essere, neanche lontanamente, esaustivo; al contrario, la necessità di mappare viene proprio dal voler fotografare la propria limitatezza nel percepire le cose del mondo. Tutto ciò che accade freneticamente, simultaneamente, talvolta violentemente e, spesso, lontano da noi. La limitatezza del nostro sguardo esemplifica anche la limitatezza di sopportare emotivamente lo scibile dell’ingiustizia. In altre parole, mappare rappresenta la necessità di rispecchiare onestamente le proprie urgenze, le proprie bolle d’interesse; situare, soprattutto, ciò che si percepisce individualmente come «politicamente rilevante».

I bias che si incontrano nel fare un lavoro del genere sono sostanziali e palesi, ma più del metodo a volte conta l’urgenza. L’urgenza di sapere, in quest’ordine, che qualcosa si è smosso, che riecheggia in noi e che forse ci appartiene.

Da Nord a Sud, da Est ad Ovest, e con legami più o meno stretti con resistenze oltre confine, qualcosa accade lontano dai riflettori del potere, lontano persino dalla propaganda. La soglia di sbarramento per ciò che è bottom-up, movimenti e partiti, sembra essere l’attenzione mediatica. Viviamo, sempre di più, in un’epoca in cui non ci sono ere, non ci sono eventi, ma solo “news” e il ruolo democraticamente necessario dell’informazione pubblica si perde, sembra essere sostituito dall’elemosina o la svendita d’attenzione. La consequenziale problematicità di ciò non sono solo considerevoli ma ormai attualizzate in forma di governo.

Tracciare linee complesse e localizzare con pazienza le istanze credo sia un lavoro delicato quanto vitale. Nel concepire questa mappa ho osservato tre modalità insurrezionali di fluire sul territorio. Queste modalità, sovrapposte in molte pratiche, si dispiegano intorno a tre nodi: rifiutare il credo della società contemporanea, non volersi sacrificare per questa e aspirare a creare una società migliore.

Comunità sconfessate

Se una persona a noi cara si suicida, probabilmente ci sentiremo in colpa. Noi, proprio noi, potevamo salvarla. Questo non è quasi mai vero. Sul tema, si può intuire che se il suicidio è considerato peccato la ragione storica è forse legata al rifiuto di appartenere a una comunità. Infatti, se poni fine alla tua vita, espliciti il fatto che ciò che io, organo di potere, ho creato per te, quest’universo di valori e costumi, per te non ha significato. Ti sfili dal contratto sociale. E io questo non posso permettertelo, perché così neghi il mio potere: io decido quando e come si deve morire. In altre parole, negare il diritto al suicidio o renderlo peccato è biopolitica. Dall’altro lato è vero che la comunità salva.

Se qualcuno a noi caro si toglie la vita, non abbiamo fallito in quanto individui affettivi, ma abbiamo quasi sicuramente fallito in quanto comunità. La comunità ha il ruolo di produrre significato, di creare risposte, reti di cura e ascolto, anche, e questo è essenziale, una comunità che sia senza Stato, senza religione e senza famiglia, tradizionalmente intesa. Ecco, forse appartenere a una comunità significa accettare di sopravvivere. In questo momento storico, c’è una comunità, diffusa, frammentaria e globale, che porta avanti questo tipo di rivendicazione. Per poterlo fare deve convincere le altre comunità che anche loro vogliono sopravvivere.

È un’opera di convincimento molto strana perché si cerca di trasmettere la volontà di combattere contro qualcosa che non si ha ancora unitariamente interiorizzato come reale: il collasso climatico in tutte le sue cause e conseguenze. In più, mobilitarsi è difficile perché si è spesso precari, depressi e soli mentre dentro di noi l’intuito del collasso climatico è violento, pervasivo e onnipresente. Tuttavia, le persone nella nostra vita che lo vivono con l’urgenza che merita si contano sulle dita.

Nelle proprie bolle si sta di lusso perché rimangono in piedi i valori “borghesi”, ovvero quelli vigenti, che continuano, e temo continueranno proprio fino alla fine, a dare adito a chi, sull’orlo del burrone, si aggrappa con le unghie e con i denti al delirio che questo sia il migliore dei sistemi possibili. Sostare lì è quantomeno confortante, ed è normale che si preferisca il comfort alla realizzazione che tutto è (quasi) perduto.

Dall’altro lato, poche cose sono violente come sentire un’urgenza e non percepirne neanche il seme negli occhi dell’altro; nelle sue abitudini, nelle sue priorità. In altre parole, quello sguardo vacuo ci sta dicendo che la nostra realtà non ha senso e tantomeno quello che ne abbiamo tratto come degno di essere salvato. Se questo accade, uno deve decidere dove sostare: nel proprio intuito (il mondo muore) o con la farsa (il mondo continua); decidere, quindi, da quale realtà essere scollati, da chi dissociare. Abbandonare il credo secondo cui la comunità a cui si appartiene ci proteggerà non è facile: l’insurrezione è una specie di suicidio valoriale collettivo poiché l’insurrezione «destabilizza il presente e lo rende fragile, diffamando la coerenza con cui di solito si presenta» (Holston, 2008).

Chi sono quindi le comunità sconfessate? Nella lettura di questa mappa sono gli agenti politicizzati che iniziano una pratica politica ripudiando un credo. Un esempio di comunità sconfessata è “Giudizio Universale”, lanciata da circa duecento soggetti sul territorio italiano: 24 associazioni e 193 individui. La campagna ha l’obiettivo di condannare lo Stato italiano per la violazione del diritto umano al clima. Questa lotta ha una potenza unica proprio perché ritratta il ruolo dello Stato come entità intoccabile. Ancora più affascinante del percepire lo Stato come reo è, a mio parere, proprio percepire lo Stato come entità di riferimento. In questo senso, alla campagna sta anche il ruolo di dover ridefinire, pubblicamente, i doveri dello Stato e, poi, di procedere con l’accusa.

Sicuramente le storie di successo in altri Paesi europei, come il caso dei Paesi Bassi con l’associazione Urgenda, ci danno speranza, ma ci si chiede se qui in Italia non si debba passare dalla sconfessione prima dell’imputazione.

Le Comunità inoperose

Dall’altra parte, sono quelle comunità che non accettano, per esempio, il compromesso lavoro-salute. Sono quelle che spesso vengono additate di fannulloneria e pigrizia. Sono quegli “ingrati” delle aree interne che non si piegano alle opere pubbliche, private o, spesso , volutamente vaghe. Cittadini per cui il ricatto del lavoro precario in una discarica non attecchisce, così come non lo fa la minaccia di esproprio di terre per una base militare o una linea ferroviaria. Gli esempi di queste comunità si moltiplicano e resistono da decenni in tutta la penisola.

A Torino, da parecchi mesi vediamo il comitato EsseNon lottare contro la cementificazione e la privatizzazione di uno spazio pubblico a pochi passi da Porta Susa. Le comunità inoperose sanno che «il dio della produttività uccide anche i suoi umili servitori» (Bonanno, 1977). Queste comunità condividono molto con le lotte oltreconfine contro i sistemi estrattivisti e neocoloniali; bisognerebbe contaminarsi nella prassi.

Le comunità “terribili”

Sono quelle che vogliono una vita bella. Lottano «per questo, per altro, per tutto». Sono quelle che sottolineano l’intersezione tra lotte apparentemente diverse e lontane: smascherano la struttura comune d’oppressione.

Sì, l’ambiente sovversivo è misero: sono d’accordo con lo scritto anonimo del 2003 che propone una disamina della deriva di certi ambienti politici. Sicuramente nel 2003 le comunità “terribili” si inceppavano in dinamiche di potere patriarcale: si perdevano in narcisismi e personalismi, reiteravano ciò che combattevano. Lo fanno ancora oggi. Il tutto, bisogna dirselo, è aggravato dal fatto che queste comunità abitano castelli di sabbia nella bufera della fine del mondo. Mondo che, oltre a finire, nel frattempo, usa comunque le ultime energie per privatizzare, sgomberare e reprimere. È anche vero, però, che l’ambiente sovversivo sta radicalmente cambiando: si decostruisce e si emancipa dai ruoli che, anche da sovversivi, bisognava tradizionalmente occupare. Si cacciano i maschi, intesi come categoria politica oppressiva e patriarcale, dagli ambienti; si pretendono regimi alimentari che rispettino l’ambiente e gli animali non-umani. Si richiede che gli spazi siano accessibili per chiunque li attraversi; che si usi un linguaggio inclusivo, non-violento.

Pretendere, in contesti di questo tipo, significa opporsi alla prassi fornendo degli strumenti per cambiare il presente. Dunque, per uscire dalla miseria bisogna rendere sovversivi, radicali e inclusivi gli spazi, fisici e mentali, che per troppo tempo sono stati appannaggio di una sinistra intoccabile. Nel frattempo la forza fagocitante e centrifuga del potere ha rosicchiato tutt’intorno, ha portato il nostro sistema globale al collasso, le nostre reti di resistenza a sfaldarsi. Queste comunità terribili allora, assodata la loro pregressa miseria, se pretendono di appartenere alla Storia, devono coltivare e collettivizzare la rabbia, la paura, l’impotenza. Ora, un altro mondo non è solo possibile, ma necessario: la fine del mondo e la fine del mese sono la stessa lotta. Le comunità “terribili”, ormai sono un po’ ovunque e pretendono casa, reddito, autodeterminazione.

Queste tre macro-categorie di comunità si intrecciano e si mischiano fisicamente e ideologicamente. Ovviamente sono frammentate e frammentarie: esagerando si potrebbe dire che in Europa non si ha avuto altro piano politico costante nei decenni se non quello di reprimere, con tutta la violenza possibile, l’opposizione al sistema neoliberista. Le resistenze contemporanee non hanno altra opzione che abitare l’opposizione a tutto ciò che ci ha portati a un punto di non-ritorno. Insorgere, a questo punto, è sfilarsi dal contratto sociale per crearne uno non creato dal sangue, è portare avanti una rivoluzione intima, ancor prima che collettiva, ma non per funzionare, non per “essere felici”, ma per vedere la fine di questo mondo violento e ingiusto, con un senso di pace, di riconciliazione, senza complicità. Insomma: s’è fatta l’Italia, s’è fatto il governo, che ora si faccia opposizione.

Anche la virostar Lopalco pensa che le trivelle causino il terremoto. Alla faccia della scienza. Il famoso epidemiologo, consigliere regionale in Puglia di Articolo Uno, chiede di fermare il decreto energia del Governo Meloni, con una motivazione alquanto discutibile. Annarita Digiorgio l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il professor Pierluigi Lopalco, virostar in tv h24 durante la pandemia, scomparso dai radar da quando ha litigato con Michele Emiliano dopo essere stato il suo assessore regionale alla sanità, ora si è messo in testa di fermare le trivelle.

Lo scienziato dopo la rottura con il governatore è uscito dalla sua lista civica, e mantenuto il seggio in consiglio regionale approdando in Articolo Uno, il partitino di Roberto Speranza. E in quanto tale è stato candidato dal Pd alle ultime politiche nel collegio uninominale di Lecce, venendo doppiato, come voti, dal senatore della Lega Roberto Marti.

Ora lo scienziato, dopo aver tenuto i bambini pugliesi in dad più a lungo di tutti gli altri studenti d'Italia, che invece andavano a scuola, oggi pensa di mandare a monte il progetto trivelle, con il il governo intende trovare gas utile al Paese.

“La crisi energetica e la guerra in Ucraina possono e devono rappresentare un’opportunità per creare un nuovo modello di sviluppo più sostenibile e non, come vorrebbe il Governo, per portare avanti una politica che punta a investire in soluzioni retrograde che guardano al passato e mettono a rischio la tutela nostro ambiente e del nostro territorio", ha scritto il consigliere regionale epidemiologo.

E quale sarebbe mai questo rischio? I terremoti!

“Di fronte alla grave crisi climatica in atto e ai potenziali danni ambientali sul piano della sicurezza nelle aree sismiche, tale scelta appare miope e assurda”. Alla faccia della scienza, che ad esempio rispetto al terremoto di due giorni fa nel mare Adriatico ha immediatamente smentito gli allarmi infondati diffusi da Verdi e 5 stelle.

Ma nonostante le smentite lo scienziato ha deciso di cavalcare questa nuova battaglia.

“Auspico che la Puglia - argomenta il professore - che è sempre stata in prima linea nella battaglia contro le ispezioni in mare di idrocarburi e da tempo ha deciso di scommettere sulle fonti rinnovabili a dispetto di quelle fossili per rispondere alle richieste di cittadini, sindaci e associazione, faccia sentire oggi più che mai la propria voce, rilanci le battaglie ambientalistiche sia a livello di mobilitazione di massa che a livello istituzionale per ribadire la ferma contrarietà e difendere i diritti inalienabili delle nostre popolazioni. Non perdiamo questa importante opportunità!”

Lopalco ricorda anche l’ostilità della giunta regionale Pugliese guidata dal Pd che per anni ha impugnato tutti i permessi ministeriali sulle concessioni di prospezione, senza però ricordare che i ricorsi di Emiliano sono stati tutti persi, e che proprio lui e la Regione Puglia chiesero di indire il referendum contro il decreto Sblocca Italia del governo Renzi, ma che quel referendum lo persero clamorosamente non raggiungendo il quorum.

“Sul tema delle trivelle – scrive Lopalco – la nostra regione non si è mai piegata e mai si piegherà all’idea che gli interessi delle multinazionali del petrolio possano mettere a rischio e deturpare, per un pugno di barili, anche di scarsa qualità, la nostra più autentica e inestimabile ricchezza: il mare. È una scelta di buon senso”. Anche scienziato esperto di petrolio adesso.

Rispolverano il vecchio slogan: il mare è il nostro petrolio.

Per assurdo bisognerebbe provare per un giorno a staccare ai centri vaccinali l’energia prodotta con il gas . Forse lo scienziato Lopalco capirebbe.

Alessandro Caporaletti per "il Resto del Carlino" il 12 novembre 2022.

Si dice subsidenza. È la terra che sprofonda, lentamente, ma sprofonda. Sul quarantacinquesimo parallelo, dove la latitudine dell'emendamento sblocca trivelle incrocia quella di Boccasette, a Porto Tolle, sul delta del Po, subsidenza è una parola d'uso comune. Come vongole, caffè, come gli aironi bianchi che danzano sui campi, tra la terra e il mare, o come alluvione. La più disastrosa della storia d'Italia, settantuno anni fa, di novembre, fece quasi cento morti e 180mila sfollati nel Polesine.

Ecco, per questo qui di trivellazioni non vogliono nemmeno sentir parlare, a dodici o nove miglia che siano. E pazienza se il bersaglio grosso del governo è la grande riserva dell'Alto Adriatico che guarda dritto in faccia al Po e sconfina nelle acque della Croazia, dove secondo le informazioni note ci sarebbero almeno da 50 a 70 miliardi di metri cubi di gas in vari giacimenti già scoperti e mappati negli anni Novanta dall'allora Agip: il delta dice no. E pensare che appena ottanta chilometri a sud Ravenna e l'Emilia-Romagna si candidano a locomotiva dell'energia italiana con un rigassificatore autorizzato a tempo record e ora il progetto del grande parco eolico off-shore.

Questione di latitudini. «Abbiamo già pagato a caro prezzo le trivellazioni degli anni Cinquanta, non mi fido e non se ne parla, se non ci portano studi di fattibilità e garanzie nero su bianco - taglia corto Roberto Pizzoli, sindaco di Porto Tolle, eletto con una lista civica ma leghista, precisa lui -. L'ultima alluvione è del 1966, qui da trent' anni non si parlava di estrazioni in mare».

Il fronte dei sindaci: non c'è colore o partito, a parte quello del Polesine. «Non passa nulla se non abbiamo garanzie che non ci saranno conseguenze dannose per il territorio, abbiamo già dato», scandisce al telefono la collega Valeria Mantovan, sindaca di Fratelli d'Italia a Porto Viro, dove a quindici chilometri dalla costa c'è già un rigassificatore costruito nel 2009 dalla Adriatic Lng. Fin troppo facile, o scontato, il paragone con le proteste contro il rigassificatore di Piombino.

Normale per gente che vive tre metri sotto il livello del mare e con l'Adriatico si contende un lembo di terra strappato nei secoli all'acqua del grande fiume e alle paludi. Porto Tolle, 256 chilometri quadrati di campi, filari d'alberi e strade che serpeggiano sulla sommità di argini alti metri e metri. Di là le sacche dove la corrente del Po abbraccia le acque salmastre dell'Adriatico e le casette dei pescatori.  

Di qua la terra, da due metri e mezzo a quattro sotto il livello del mare, a seconda delle zone. E a Polesine Camerini la grande centrale termoelettrica spenta dal 2010 e in dismissione da sei mesi. Ci verrà un villaggio turistico in un'area di trecento ettari col sogno della Camargue francese.

 «Il nostro territorio è fragile e va tutelato, rispettato. Sul piatto c'è la sua sopravvivenza», avverte il sindaco Pizzoli, che non bastasse la strada della moral suasion, ricorda che con gli altri colleghi del delta e il parco ha già depositato un ricorso al Tar del Lazio contro una multinazionale che era stata autorizzata ad avviare ricerche sul fondale. 

«Ridurre la dipendenza energetica: la ratio del decreto è indispensabile - conviene la Mantovan -, ma il territorio del Delta è molto fragile, è impensabile riproporre ciò che si fece già negli anni Cinquanta. Non è un no a priori o ideologico, ma quali sono le condizioni?» 

Il primo appuntamento è col ministro Urso, «c'è massima disponibilità all'ascolto». Ma giù, verso il mare, nelle sacche di Scardovari e Goro, il mondo dei pescatori già ribolle. Il Consorzio delle cooperative dei pescatori del Polesine è il più grande d'Italia per la produzione di molluschi bivalvi: 14 cooperative, 1.500 pescatori, fatturato annuo tra 55 e 60 milioni, cento con i mercati. La golden share dell'economia del delta.  

Luigino Marchesini, il presidente, è preoccupato almeno quanto i suoi. E non si parla solo di subsidenza (è anche il rischio che più teme Vadis Paesanti, vicepresidente di Fedagripesca Emilia-Romagna), ma di uno specchio d'Adriatico che rischia di diventare di tutti tranne che di chi ci campa. A Goro è il 90% della popolazione, in porto attraccano 1.200 barche e di anno in anno si alzano le banchine che finiscono sott' acqua.

«C'è già una zona di rispetto per il rigassificatore, ci sono le aree del parco, c'è il limite delle tre miglia - mette in fila Marchesini -. Se ci saranno anche concessioni per le trivellazioni, dove andranno i nostri a pescare? Guardi che il gasolio è sempre più caro». È il crocevia dell'energia. Il secondo rigassificatore sarà al largo di Ravenna, il Consiglio comunale ha detto sì all'unanimità e il governatore Bonaccini ha già firmato il decreto autorizzativo a tempo record per l'Italia abituata al pachiderma della burocrazia.

Ma qui si progetta di drizzare in mare anche un grande parco eolico - 75 turbine alte 170 metri che produrranno energia pulita, dal vento - e la richiesta al governo è di marciare con altrettanta celerità. A Porto Tolle, per ora, è solo uno studio. 

Sul Po di Goro il confine tra Veneto ed Emilia-Romagna segna un approccio diverso al tema dell'energia. La linea del Piave sono le trivellazioni sulla terraferma: no assoluto. Alle estrazioni in mare, invece, si guarda con «cautela, senso di responsabilità, garanzie, coinvolgimento nel processo decisionale, al netto del fatto che si tratta di una decisione che spetta al governo», per riassumere la posizione bipartisan di Marika Bugnoli, sindaco di Goro (centrosinistra), e Antonio Cardi, assessore di Comacchio (centrodestra). 

Ma l'apertura di credito, diciamo così, è condizionata a «monitoraggi continui trasmessi ai Comuni». Eppure c'è sempre un conto in sospeso: quello con le bollette sull'ascensore, la crisi dell'energia, la guerra e una produzione di gas crollata ai minimi storici, 3,3 miliardi di metri cubi nel 2021. Realpolitik. 

Renzo Righini è il vicepresidente di Roca (Ravenna offshore contractors association), un'associazione di circa quaranta imprese che operano nel comparto energetico. Nella città che dell'energia ha fatto un modello il fronte aperto dal governo non poteva che essere giudicato «positivamente». «Il rigassificatore è stato un esempio virtuoso di intelligenza e responsabilità. Da anni sosteniamo che le risorse del Paese vadano utilizzate - dice Righini -, perché va bene la transizione energetica, ma serviranno anni, se non decenni. E intanto il gas italiano può costare meno, inquinare meno e creare lavoro».

Nimby leghista. Luca Zaia dice no alle trivelle nell’Adriatico approvate dal governo Meloni. L’Inkiesta il 10 Novembre 2022.

Il governatore veneto spiega che le trivellazioni degli anni Cinquanta hanno provocato esiti «imponenti e devastanti. Ci sono zone in cui il fondo si è abbassato di quattro metri». E poi «la prima industria del Veneto è il turismo, la metà del fatturato viene proprio dalle spiagge». E «noi abbiamo fondali sabbiosi, non rocciosi come quelli della Croazia»

«Nel referendum del 2016, io avevo sostenuto il no alle trivelle, come quasi l’86% dei veneti e degli italiani. E oggi, confermare quel no non è soltanto una questione di coerenza». Luca Zaia, il governatore leghista veneto, prende la parola per la prima volta dopo che il governo di centrodestra, con il suo stesso partito, ha dato il via libera all’estrazione di gas dai giacimenti più grandi. Per il Veneto, significa la possibilità che si trivelli in un’area sul mar Adriatico al largo delle coste del Polesine. E il punto è proprio questo, spiega Zaia sul Corriere: «Mi riferisco a un fatto che è sotto gli occhi di tutti. Gli esiti della subsidenza — lo sprofondamento dei terreni e dei fondi marini — in seguito alle trivellazioni degli anni Cinquanta sono stati imponenti e devastanti. Ci sono zone in cui il fondo si è abbassato di quattro metri, con una progressione dei cedimenti anche oggi inesorabile».

Una nuova sindrome Nimby, Not in my backyard, non nel mio cortile, si aggira in Veneto. Mettendo certamente in difficoltà la maggioranza. Il governatore veneto racconta che «la nostra gente è sicuramente inquieta per quello che è successo. Al di là dei colori politici… E la preoccupazione è diffusa anche per un fatto a cui si pensa poco: la prima industria del Veneto è il turismo, la metà del fatturato viene proprio dalle spiagge». E «noi abbiamo fondali sabbiosi, non rocciosi come quelli della Croazia. È tutto un altro contesto ed è ovvio che qualche punto interrogativo ci venga in mente».

Zaia precisa che «la nostra non è una posizione ambientalista e tantomeno ideologica. Per dire: noi siamo favorevoli ai rigassificatori e le posso dire che siamo pronti ad aumentare la capacità di quello che già c’è. Io capisco fino in fondo la preoccupazione del governo. Però c’è luogo e luogo». E per Zaia è già un “no”: «Ho visto dichiarazioni ufficiali secondo cui la verifica dei danni sarà conditio sine qua non. Il problema però è che noi di prove ne abbiamo già fatte, e il combinato disposto tra morfologia e fragilità del territorio ha dato esiti pessimi. Piuttosto, ripeto, si approfitti del rigassificatore che abbiamo e spingiamone al massimo le potenzialità. Tra l’altro, le nuove perforazioni potrebbero non darci risultati prima di tre o quattro anni».

Il governatore ribadisce che «non si può passare sopra a questioni assolutamente serie in nome della ragion di Stato. Il Veneto si è sempre dimostrato attento e solidale, ma in questa fase sarà difficile dipanare le perplessità di una comunità che ha già pagato un conto salato per quello che è stato. Nel Polesine è stato un disastro colossale».

E agli industriali che su questo tema protestano per il «silenzio della politica», risponde: «Personalmente sono noto per aver fatto opere pubbliche anche ciclopiche, anche contro i comitati. Nessuno meglio di me può comprendere e condividere la voglia di fare. Ma sono gli stessi consulenti che gli industriali usano per altri dossier a dire che è pericoloso. Si tratta di capire se c’è qualcuno che sia in grado di certificare che non ci siano rischi. A me, al momento, non risulta». E aggiunge: «L’Adriatico è un mare ma con molte delle caratteristiche di un lago. In questo contesto, gli effetti di eventuali danni ambientali sarebbero devastanti per turismo e balneazione in un raggio amplissimo, con un danno anche d’immagine complessivo enorme: il 66% dei nostri turisti sono stranieri».

Paolo Virtuani per corriere.it il 9 novembre 2022. 

Dopo il terremoto avvenuto alle 7.07 di mercoledì in Adriatico davanti alla costa delle Marche, il più forte in quella zona da circa un secolo, qualcuno ha messo in relazione la scossa con le trivellazioni alla ricerca di idrocarburi degli scorsi anni, criticando la ripresa delle estrazioni che il governo vuole autorizzare per rendere l’Italia meno dipendente dal gas di importazione. 

Dopo sei ore dalla scossa principale di 5.7 (magnitudo locale, la rilevazione più rapida) e di 5.5 (magnitudo momento, la più accurata e significativa), l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha registrato 64 scosse successive di varia intensità.

Ci può essere una relazione tra il terremoto odierno e le trivellazioni in Adriatico?

«Eventi sismici in Adriatico ci sono sempre stati, anche molto prima che iniziassero le trivellazioni», risponde il geologo marchigiano Endro Martini, della Società italiana di geologia ambientale. «Quando l’Ingv non aveva ancora diffuso i dati scientifici accurati dell’evento di questa mattina, sui social qualcuno ha iniziato a mettere in relazione terremoto e trivellazioni». 

Le trivellazioni avvengono alla stessa profondità dove si sono scatenate le onde sismiche?

«No, le piattaforme in mare trivellano fino a una profondità massima di 3-4 chilometri. Il sisma di mercoledì si è innescato a una profondità di 7,6 chilometri, a una distanza di 30 chilometri dalla costa della provincia di Pesaro Urbino secondo i dati forniti dai rilevamenti dell’Ingv».

La struttura geologica della zona dove è avvenuto il terremoto può essere influenzata dalle estrazioni?

«La scossa è avvenuta nell’ambito di una situazione geologica profonda con strutture che governano faglie e movimenti dell’evoluzione geologica dell’Appennino», secondo il geologo Carlo Meletti dell’Ingv. «Sono da mettere in relazione a un meccanismo di compressione dell’Appennino verso l’Adriatico, come il terremoto che è avvenuto in Emilia nel 2012 e nel passato a Rimini nel 1916 e a Senigallia nel 1930».

 Esistono terremoti che sono stati provocati da attività antropiche? Negli Stati Uniti, in particolare in Oklahoma, dopo l’inizio delle estrazioni con la tecnica denominata fracking sono stati registrati molti terremoti fino a una magnitudo di 5.0 in zone dove in precedenza non erano mai avvenuti.

«La situazione geologica delle aree centrali degli Stati Uniti è completamente diversa da quella dell’Adriatico», prosegue Endro Martini. «Ricordo inoltre che in Italia il fracking è vietato per legge proprio per i problemi che causa a livello superficiale».

In passato l’estrazione di idrocarburi ha provocato fenomeni di subsidenza nella zona del Ravennate, nel delta del Po e del Polesine. I sindaci della zona sono contrari alla ripresa delle estrazioni proprio per questo timore.

«C’è stata subsidenza, ma nel caso del Ravennate ci sono studi che hanno dimostrato che è stata dovuta anche all’eccessivo sfruttamento delle falde freatiche».

Qual è la posizione dei «No-Triv»?

«Il Rapporto Ichese, commissionato dopo il terremoto dell’Emilia nel 2012, non escludeva in linea di principio una correlazione tra estrazione e sismicità», risponde Enrico Gagliano vice portavoce del Coordinamento nazionale No Triv. «Nel caso esistano dubbi, specie in zone sismiche, per il principio di precauzione bisognerebbe evitare le trivellazioni esistenti e non dare ulteriori autorizzazioni».

Per l'Ingv non ci sono nessi. L’Italia che trema, giornata di terremoti da Nord a Sud: “Nessun legame tra le scosse”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Settembre 2022.  

L’Italia ha tremano per tutta la giornata, percorsa da sud a nord da terremoti, scosse più o meno grandi che hanno fatto preoccupare. Per esempio nelle Marche, solo una settimana fa colpite da un tremendo alluvione che ha causato undici vittime e due dispersi. La terra ha tremato anche in Liguria, Sicilia, in Emilia Romagna e in Toscana. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) ha comunque chiarito: “Non c’è alcun nesso fra il terremoto di magnitudo 3,9 avvenuto nelle Marche, quello di magnitudo 4,1in Liguria e quello di magnitudo 3,6 che ha colpito la Sicilia, nella zona dell’Etna: non c’è alcuna relazione, le distanze fra i luoghi in cui sono avvenuti i terremoti sono di centinaia di chilometri perché possa esserci un nesso”.

Le dichiarazioni sono state rilasciate all’Ansa dal sismologo Carlo Meletti, della sezione di Pisa. La prima scossa era stata avvertita alle 4:21 in provincia di Catania. L’epicentro è stato individuato a quattro chilometri da Paternò, a una profondità di dieci chilometri. Questa mattina in tarda mattinata due scosse erano state avvertite nelle Marche. Un sisma magnitudo 4.1 alle 12:24 con ipocentro a 24 km di profondità e una scossa magnitudo 3.6 un minuto dopo (ipocentro a 10 km), entrambi con epicentro a 4 km a sudovest da Folignano (AP). Sono seguite le repliche magnitudo 2.0 alle 12:27, a 23 km di profondità, e magnitudo 2.5 alle 12.35 (ipocentro 25 km).

Quando sono state avvertitele due scosse di terremoto, ad Ascoli Piceno la gente è uscita in strada. Sono uscite anche alcune scolaresche, come quelle della scuola media ‘Cantalamessa’, che si sono radunate nel campetto dell’istituto. Altre scuole invece non hanno fatto uscire gli alunni. Non ci sono state scene di panico. Nessun danno segnalato a persone o cose. La Regione Abruzzo aveva fatto sapere che la situazione “é sotto controllo. al momento non si registrano danni a cose e persone. Come da protocollo gli studenti delle scuole sono stati fatti evacuare per sicurezza”. Per le due scosse di terremoto avvertite nell’Ascolano, in particolare la prima di magnitudo 4.1, è stata sospesa la circolazione dei treni lungo la linea ferroviaria Ascoli Piceno-Porto d’Ascoli. Il sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti, ha disposto l’immediata apertura del Coc, Centro operativo comunale.

La terra ha tremato nel primo pomeriggio anche in Liguria. L’Ingv ha registrato una scossa tra 3.9 e 4.4 di magnitudo, nitidamente avvertita nel centro della città. Il traffico ferroviario è stato sospeso tra Genova e Recco, la gente è uscita da case e uffici, incluso il palazzo della Regione Liguria. I treni sono rimasti fermi fino alle 20:00 per le verifiche a quattro linee. La scossa è stata avvertita anche nell’entroterra e nel levante. Alcune pietre e calcinacci si sono staccati da una chiesa di Pieve Ligure, a 7 km dall’epicentro. Sempre nel primo pomeriggio una scossa di magnitudo 3.2 era stata avvertita sulla costa calabra sud-orientale, in provincia di Reggio Calabria.

Le ultime scosse in ordine di tempo, sono state quelle registrate sull’Appennino tosco-emiliano, a distanza di circa un minuto una dall’altra. L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia rileva una scossa di magnitudo 3.8 a otto chilometri da Pievepelago, in provincia di Modena, poco prima delle 17.50, a una profondità di 14 chilometri. La seconda è stata di magnitudo 3.2 a otto chilometri da Fosciandora, in provincia di Lucca, a una profondità di 13 chilometri, a poca distanza dalla prima. Nessun danno è stato segnalato al momento. Queste scosse sono state percepite anche a Firenze.

L’Ingv in Italia registra 16mila scosse all’anno in media, nel 2016 se ne contarono 100mila. Pochi eventi superano in genere la magnitudine 4. “In genere – ha spiegato il sismologo Carlo Meletti a Repubblica – due terremoti sono legati se avvengono a poche decine di chilometri di distanza. Non è possibile che lo siano, se in mezzo ci sono centinaia di chilometri. In Emilia ad esempio avevamo registrato due scosse in due faglie quasi contigue, la prima il 20 maggio 2012 e la seconda il 29 maggio, di magnitudo simili. Quel fenomeno è stato molto studiato. Ipotizziamo che l’energia liberata dalla prima scossa si sia accumulata sulla faglia contigua, accelerandone la rottura”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Turismo e risorse ambientali. “Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi”.

19 settembre 2016. Dibattito pubblico a Otranto, in Puglia, sul tema: "Prospettive a Mezzogiorno".

Il resoconto del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nel Salento: sole, mare e vento. Terra di emigrazione e di sotto sviluppo economico e sociale dei giovani locali. Salentini che emigrano per mancanza di lavoro…spesso con un diploma dell’istituto alberghiero. Salentini che perennemente si lamentano della mancanza di infrastrutture per uno sviluppo economico e che reiteratamente protestano per i consueti disservizi sulle coste e sui luoghi di cultura. Salentini con lo stipendio pubblico che si improvvisano ambientalisti affinchè si ritorni all’Era della pietra. Salentini con la sindrome di Nimby: sempre no ad ogni proposta di sviluppo sociale ed economico, sia mai che i giovani alzino la testa a danno delle strutture politiche padronali. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. Salentini che dalla nascita fin alla morte si accompagnano con le stesse facce di amministratori pubblici retrogradi che causano il sottosviluppo e che usano ancora il metro di misura dei loro albori politici: per decenni sempre gli stessi senza soluzione di continuità e di aggiornamento.

Presente al convegno Flavio Briatore, fine conoscitore del tema, boccia il modello turistico italiano, partendo proprio dalla Sardegna del suo Billionaire. Intanto per il caro trasporti: «Hanno un'isola e non lo sanno - dice Briatore alla platea del convegno - pensano che la gente arrivi per caso. La gente arriva o via mare o via aerea: sono due monopoli, per cui fanno i prezzi (che vogliono). Se tu vai da Barcellona a Maiorca, quattro persone sul traghetto spendono 600 euro. Da Genova ad Alghero ne spendono 1600. L'80 per cento degli amministratori - aggiunge ancora Briatore - non ha mai preso un aereo. Come si fa a parlare di turismo senza averlo mai visto?».

Briatore è poi passato alla Puglia, dove nell’estate 2017 aprirà il Twiga Beach di Otranto grazie a una cordata di imprenditori locali ed ha criticato l'offerta turistica del territorio, sottolineando in particolare la mancanza di servizi adeguati alle esigenze dei turisti più facoltosi, sorvolando sulla mancanza di infrastrutture primarie: «Se volete il turismo servono i grandi marchi e non la pensione Mariuccia, non bastano prati, né musei, il turismo di cultura prende una fascia bassa di ospiti, mentre il turismo degli yacht è quello che porta i soldi, perché una barca da 70 metri può spendere fino a 25mila euro al giorno. Masserie e casette, villaggi turistici, hotel a due e tre stelle, tutta roba che va bene per chi vuole spendere poco - ha affermato Briatore - ma non porterà qui chi ha molto denaro. Ci sono persone che spendono 10-20mila euro al giorno quando sono in vacanza, ma a questi turisti non bastano cascine e musei, prati e scogliere - ha continuato l'imprenditore - io so bene come ragiona chi ha molti soldi: vogliono hotel extralusso, porti per i loro yacht e tanto divertimento». Non poteva essere altrimenti: Briatore ha puntato il dito sulle mancanze di infrastrutture a sostegno di quelle strutture turistiche mancanti ad uso e consumo di un’utenza diversificata e non solo mirata ad un turismo di massa che non guarda alla qualità dei servizi ed alla mancanza di infrastrutture. Una semplice analisi di un esperto. Una banalità. Invece...

Sulle affermazioni di Briatore si è scatenato un acceso dibattito, in particolare sui social: centinaia i commenti, quasi tutti contro.

I contro, come prevedibile, sono coloro che sono stati punti nel nerbo, ossia gli amministratori incapaci di dare sviluppo economico e risposte ai ragazzi che emigrano e quei piccoli imprenditori che con dilettantismo muovono un giro di affari di turismo di massa a basso consumo con scarsa qualità di servizio.

L’assessore regionale Sardo Maninchedda: «A parole stupide preferisco non rispondere».

Francesco Caizzi, presidente di Federalberghi Puglia replica alle parole dell’imprenditore: «La Puglia non è Montecarlo, Briatore si rassegni. La Puglia ha hotel che vanno dai 2 stelle ai 5 stelle, dai bed & breakfast agli affittacamere. Sono strutture per tutte le tasche e le esigenze, ma con un unico denominatore comune: rispettano l’identità del luogo. Questo significa che non ci si può aspettare un’autostrada a 4 corsie per raggiungere una masseria. È probabile che si dovrà percorrere un tratto di sterrato, ma nessuno ha mai avuto da ridire su questo. Anzi, fa parte del fascino del luogo».

Loredana Capone, assessore imperituri (governo Vendola per 10 anni e con il Governo Emiliano), che ha concluso da poco un lavoro di diversi mesi sul piano strategico del turismo, ha illustrato il punto di vista di un eterno amministratore pubblico: «Dobbiamo partire da quello che abbiamo per puntare ai mercati internazionali. Come stiamo nei mercati? Prima di tutto evitando qualsiasi rischio di speculazione e abusivismo. È puntando sulla valorizzazione del patrimonio, residenze storiche, masserie, borghi, che saremo in grado di offrire un turismo di qualità, capace di portare ricchezza. Non i grandi alberghi uguali dappertutto, modelli omologati e omologanti. Anche gli investimenti internazionali puntano al recupero più che alla nuove costruzioni».

La visione di Briatore proprio non piace a Sergio Blasi, altro esponente eterno del Pd che si è detto disponibile a concorrere alla primarie del centrosinistra a Lecce: «Briatore punta alla creazione di non-luoghi riservati all’accesso esclusivo di una élite economica ad altissima qualità di spesa, nei quali conta chi sei prima di entrare e non quello che sarai diventato alla fine del tuo viaggio o della tua vacanza. Io la ritengo una prospettiva poco interessante per il Salento. E lo dico da persona che ha criticato fortemente la svolta “di massa” di alcune attrazioni, che a furia di sbandierare numeri sempre più alti finiscono per rovinare più che per valorizzare le opportunità di crescita. Ma esiste un mezzo – ha proseguito nel suo post l’ex segretario regionale del Pd - nel quale collocare un’offerta turistica che sia in grado di valorizzare le potenzialità inespresse, e sono tante, garantendo al contempo una “selezione” non in base al ceto sociale quanto agli interessi e alle aspettative del turista. Noi dobbiamo guardare ad un turismo che apprezza la cultura, anche quella popolare, la natura e il paesaggio. Che apprezza i musei e i centri storici tanto quanto il buon vino e il buon cibo. Che sia in grado di apprezzare e rispettare la terra che visita e di non farci perdere il rispetto per noi stessi».

Per Albano Carrisi: “La Puglia piace così!”

Naturalmente l’Italia degli invidiosi, che odiano la ricchezza, quella ricchezza che forma le opportunità di lavoro per chi poi, senza quell’occasione è costretto ad emigrare, non ha notato la luna, ma ha guardato il dito. Il discorso di Briatore non è passato inosservato sul web dove alcuni utenti classisti, stupidi ed ignoranti hanno manifestato subito il loro disappunto. "Tranquillo Briatore, i parassiti milionari che viaggiano e non pagano non ce li vogliamo in Puglia", ha commentato un internauta, "Noi vogliamo musei e prati perché vogliamo gente che ami cultura e natura. Gli alberghi di lusso fateli a Dubai", ha ribattuto un altro.

Ci vogliono brutti, sporchi e cattivi. E’ chiaro che il Salento quello ha come risorsa: sole, mare e vento. E quelle risorse deve sfruttare: in termini di agricoltura, ma anche in termini di turismo, essendo l’approdo del mediterraneo. E’ lapalissiano che le piccole e le grandi realtà turistiche possono coesistere e la Puglia e il Salento possono essere benissimo l’alcova di tutti i ceti sociali e di tutte le esigenze. E se poi le grandi strutture turistiche incentivano opere pubbliche eternamente mancanti a vantaggio del territorio, ben vengano: il doppio binario, strade decenti al posto delle mulattiere, aeroporti, collegamenti ferro-gommati pubblici accettabili per i pendolari ed i turisti, ecc.. Ma il sunto del discorso è questo. Salento: sole, mare e vento. Ossia un luogo di paesini e paesoni agricoli a vocazione contadina con il mito tradizionale della “taranta” e della “pizzica”. E da buoni agricoltori, i salentini, da sempre, la loro costa non la considerano come una risorsa turistica da sfruttare, (né saprebbero come fare, perché non è nelle loro capacità), ma bensì semplicemente come dei terreni agricoli non coltivati a vigna od ulivi ed edificati abusivamente, perciò da trascurare. Ed i contadini poveri ed ignoranti, si sa, son sottomessi al potere dei politicanti masso-mafiosi locali.

Stesso discorso va ampliato in tutto il Sud Italia. Gente meridionale: Terroni e mafiosi agli occhi dei settentrionali, che invidiano chi ha sole, mare e vento, e non si fa niente per smentirli, proprio per mancanza di cultura e prospettive di sviluppo autonomo della gente del sud: frignona, contestataria e nel frattempo refrattaria ad ogni cambiamento e ad una autonoma e propria iniziativa, politica, economica e sociale.

Allora chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

Basta col tabù del paesaggio. ​Sbloccare le installazioni di impianti di energia rinnovabile significa violentare la burocrazia, non il paesaggio. Pier Luigi del Viscovo il 13 Settembre 2022 su Il Giornale.

Sbloccare le installazioni di impianti di energia rinnovabile significa violentare la burocrazia, non il paesaggio. Il ministro Cingolani lamenta come molte di queste siano bloccate dalle sovraintendenze: «C'è una quantità enorme di potenza energetica di impianti nuovi ferma perché ci sono le sovraintendenze che bloccano l'autorizzazione per una questione paesaggistica». Il primo impulso è quello di mettere a contrasto i due valori, quello paesaggistico e quello energetico e anche il ministro vi inciampa: «Io capisco l'importanza del paesaggio, trovo stucchevole dire che il paesaggio va in Costituzione, siamo in emergenza. Bisogna capire quale è la priorità». Tuttavia, forse è il caso di usare una chiave di lettura diversa, ossia capire cosa si celi dietro tali «blocchi».

La burocrazia italiana non è nota per la sua rapidità. Così negli anni scorsi il legislatore si è occupato delle procedure per le autorizzazioni paesaggistiche. Intanto, molti interventi di piccolo cabotaggio sono stati esclusi dall'autorizzazione, mentre altri sono stati sottoposti a procedura semplificata. Per gli altri, a procedura ordinaria, ciò che risalta è la durata piuttosto breve dei termini entro cui la soprintendenza e/o l'amministrazione competente devono pronunciarsi: da 45 a 90 giorni, con possibilità di ulteriori 20. Alla presentazione della domanda da parte del richiedente, l'amministrazione competente svolge le verifiche e gli accertamenti necessari, anche acquisendo il parere della commissione locale per la qualità architettonica e il paesaggio. Poi trasmette la proposta di autorizzazione, unitamente agli elaborati tecnici, alla soprintendenza che fa le sue verifiche e nel caso richiede integrazioni ma qui i termini si sospendono! prima di emettere il parere di competenza entro 45 giorni, decorsi i quali viene indetta una conferenza dei servizi con ulteriori 15 giorni.

Senza soffermarsi su aspetti tecnici e procedurali e valutando solo l'iter da un ufficio all'altro e i soggetti coinvolti, paiono tempi davvero stretti, qualche mese al massimo. Non tantissimo per l'installazione di un impianto eolico o anche fotovoltaico. La domanda che sorge è se non siano «troppo» stretti, al punto da indurre le soprintendenze ad un atteggiamento difensivo: nel dubbio, negare, avendo come faro solo la propria missione paesaggistica. Però la soluzione non può essere il braccio di ferro paesaggio contro energia. Un territorio deve proteggere il suo paesaggio e anche generare energia rinnovabile. È una bilancia, se pende troppo da una parte c'è qualcosa che non va. Serve un punto di sintesi superiore che decida di volta in volta cosa privilegiare, nel merito e non solo in base alla documentazione formale.

Questo porta al vero nodo del problema: c'è paesaggio e paesaggio. Pure nel Bel Paese, una collina brulla dell'Appennino non è uguale alle Cime di Lavaredo, come una costa anonima non dà le stesse emozioni dei Faraglioni. L'accettazione delle diversità conduce dritto alla valutazione di merito. Infine, l'idea che il paesaggio non debba mai recare l'impronta umana va abbandonata. Noi esistiamo su questo pianeta con dignità piena. Certo, ci sono impronte brutte e impronte belle. Via Krupp a Capri o Castel Sant'Angelo sul Tevere sono impronte bellissime, mentre non lo sarebbe al loro posto un palazzone anonimo. Non è «dove» lasciamo le impronte, ma «come».

"Riflesso post-sessantottino". Così l'ideologia ambientalista schiaccia le necessità del Paese. Andrea Muratore il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

La condanna di Vincenzo Pepe: "L'ambientalismo moderno è ad appannaggio di movimenti radicali, estremisti e senza visione". Ecco i rischi che corriamo

"Parlare di ambiente significa parlare di futuro e parlare di futuro significa puntare sul progresso, lo sviluppo, la tecnologia. L'ambientalismo è tale solo se è pragmatico, un ambientalismo del fare. ": esordisce così Vincenzo Pepe, giurista e filosofo politico, presidente dell'associazione Fare Ambiente e candidato in Campania al Senato con la Lega. Una scommessa ambiziosa quella del docente di Diritto dell'Ambiente e dell'Energia all'Università della Campania Luigi Vanvitelli: promuovere la riflessione sull'ambiente nel centrodestra mettendo al primo posto il pragmatismo e evitando che la riflessione sul tema sia appannaggio della Sinistra del "No a tutto" che, a suo avviso, "per via di un riflesso post-sessantottino mette l'ideologia sopra le reali necessità del Paese, dell'ambiente, del futuro". Pepe da tempo alla guida della sua associazione lotta per un ambientalismo pragmatico, nel 2011 era contrario alla chiusura del programma di rilancio del nucleare via referendum e anche oggi, conversando con IlGiornale.it, rivendica la necessità di un'agenda ambiziosa sul tema.

Professor Pepe, la partita dell'ambiente sarà importante per il Paese nella prossima legislatura?

Sarà la partita più importante e tutti i partiti dovrebbero averla al primo posto, con una riflessione seria a riguardo, nei loro programmi. Serve coraggio per pensare al futuro: ma coraggio vuol dire anche assumersi dei rischi in termini di investimenti, scelte politiche, visioni per il futuro. E questo è ciò che non capisce il "partito del No" che da anni blocca una seria riflessione sull'ambiente in Italia.

Ritiene l'ambientalismo italiano indietro in tal senso?

Da troppo tempo purtroppo sì. L'ambientalismo italiano moderno nasce, va ricordato, in ambito liberale e moderato con il Club di Roma e le sue campagne degli Anni Settanta. Poi i suoi primi riferimenti politici furono esponenti di rottura ma ancora moderati, come Marco Pannella. Dagli anni Ottanta è diventato appannaggio di movimenti radicali, estremisti e senza visione che anche oggi mostrano i loro riflessi ideologici: no alla Tav, no al Tap, no alle trivelle, no al nucleare, no ai rigassificatori, no a tutto, no in fin dei conti alla tecnologia e allo sviluppo. Per troppo tempo i moderati italiani hanno sottovalutato questa partita, ma negli ultimi tempi la musica è cambiata. Ringrazio in tal senso Matteo Salvini per aver creduto alle mie battaglie: non punto a tutti i costi ad avere un seggio, ma era importante portare il dibattito su un piano realista e fuori dalle torri d'avorio degli atenei.

Come si può cambiare sul tema ambiente questo Paese?

Guardiamo agli altri Paesi europei. In nessuno c'è un ambientalismo radicale come quello italiano. Pensiamo alla Finlandia, ove i Verdi al governo supportano il nucleare di terza generazione. Pensiamo alla Danimarca e all'Olanda, dove i termovalorizzatori sono vicini al centro nelle grandi città. In Italia per il partito del no non riusciamo a costruire un termovalorizzatore nella capitale e si discute perfino, in tempi di crisi energetica, dei rigassificatori che potrebbero contribuire a accelerare la crisi energetica sfruttando il gas come risorsa-ponte. Per non parlare del tema nucleare...

Come giudica la questione in materia?

Abbiamo alcuni dei migliori dipartimenti di Ingegneria Nucleare d'Europa, penso primo fra tutti a quello del Politecnico di Milano, e spesso formiamo con corposi investimenti pubblici professionisti che poi possono dare il meglio solo cercando lavoro in altri Paesi. Ritengo questa scelta in prospettiva un errore notevole. Da tempo vengo definito eretico perché sono favorevole a un ragionamento in tal senso: fiero di esser chiamato così se sono nello stesso gruppo di pensatori come Antonio Zichichi o il Premio Nobel Carlo Rubbia.

Con questa logica, sarebbero "eretici" anche Enrico Fermi e i ragazzi di Via Panisperna...

Esatto, un certo tipo di ambientalismo autoreferennziale pensa più a mettere etichette che a cercare soluzioni ai problemi.

Il nucleare le appare in grado di realizzare il gancio tra transizione energetica e sviluppo tecnologico di cui parlava?

Può e deve esserlo. Con l'energia nucleare si può iniziare un ragionamento di sistema, che permetta di unire transizione e sviluppo di nuove tecnologie, come ad esempio quella sulla fusione nucleare. E poi con la ricerca nucleare si salvano vite, pensiamo alle ricadute in ambito medico e ospedaliero. Il paragone con la sanità è il più azzeccato, a mio avviso, quando parliamo di transizione energetica: accettiamo che la tecnologia medica e la scienza migliorino la qualità della vita, e giustamente mettiamo in secondo piano il problema dello smaltimento delle scorie e degli scarti medici fidandoci della stessa tecnologia e della stessa ricerca che aiuta alla qualità dello sviluppo. Penso che sull'ambiente si debba seguire un approccio simile.

Dunque, l'ambientalismo del "No" si pone a suo avviso in contrasto con le indicazioni della scienza?

Dire no a tutto, come del resto accettare tutto senza porsi il minimo dubbio o il minimo ragionamento, significa andare contro ciò che prescrive il metodo scientifico. Bisogna fidarsi dei ritrovati della tecnologia e non ripiegare sull'ideologia limitandosi a dichiararsi contrari a un impianto energetico, centrale nucleare, rigassificatore o termovalorizzatore che sia, solo per il timore che "faccia male". La partita per l'ambiente è una partita per il futuro. Ed escludere dal suo perimetro una riflessione su scienza e tecnologia significa rinunciare al suo portato più importante. Sa qual è? Il miglioramento della qualità della vita.

L'ambiente come la madre di tutte le battaglie, insomma...

Sì. Parlare di ambiente significa oggi parlare di sviluppo in un'ottica di maggiore efficienza con un mix energetico bilanciato. Significa bollette meno care e posti di lavoro in settori ad alta intensità tecnologica. Significa maggiore sicurezza e benessere per le generazioni future e custodia dell'ambiente in un'ottica di lungo periodo. Ha ragione Papa Francesco a ribadire la necessità di prendersi cura del creato. Oltre alla battaglia energetica, dobbiamo occuparci della qualità delle nostre acque, della tutel del cibo, dell'agricoltura, del suolo. Dobbiamo, e penso alla mia Campania, puntare sull'economia circolare e le sue nuove tecnologie per gestire al meglio il ciclo dei rifiuti. In tutto questo i moderati e liberali possono e devono esprimere la propria voce per orientare la battaglia per l'ambiente in un'ottica socialmente avanzata. Possiamo e dobbiamo sviluppare tecnologie di alto livello e affidabilità per gestire questa nuova sfida, decisiva per consolidarci come comunità. E dimostrare che la battaglia per l'ambiente non è pertinenza esclusiva del solito partito del No.

Le crociate del dem Emiliano contro il tubo che porta il gas. Il governatore pugliese s'è sempre battuto contro il Tap e ha accusato Calenda e Renzi: "Schiavi delle lobby". Annarita Digiorgio il 4 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il 25 maggio 2015 l’allora governo Renzi firmò il decreto di autorizzazione unica del metanodotto di interconnessione Trans Adriatic Pipeline (Tap), al fine di consentire l'apertura di una nuova rotta di approvvigionamento di gas prodotto nell'area del Caspio in Italia e in Europa.

Da quel momento iniziò la guerra delle comunità locali, tutte guidate dalla sinistra.

Michele Emiliano, all’epoca ancora iscritto al Pd prima che Csm e Corte Costituzionale glielo vietassero in quanto pm, fece subito ricorso al Tar appellandosi al non rispetto della direttiva Seveso su incidenti rilevanti, e impugnando il decreto del governo che non aveva tenuto conto del parere della Regione.

Il Tar rigetto è il governatore si appellò al Consiglio di Stato. I giudici lo respinsero confermando erano state vagliate tutte le possibili ipotesi di approdo e che quella di San Foca era la scelta migliore dopo una completa analisi delle possibili alternative (ben undici). Inoltre fu escluso che l’opera dovesse essere assoggettata alla cosiddetta “direttiva Seveso” ed è stato riconosciuto l’avvenuto rispetto del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato nella procedura di superamento del dissenso espresso dalla Regione alla realizzazione dell’opera. Non contento Emiliano fece ricorso alla Corte Costituzionale che dichiarò inammissibile il conflitto di attribuzioni.

Emiliano partì a Roma con tutti i sindaci del Pd del Salento a manifestare sotto il governo con la bandiera NoTap: “Questa sentenza viola il Principio internazionale dell’autodeterminazione dei popoli - commentò il governatore all’esito della Consulta – Stanno consentendo la realizzazione di un’opera privata, priva dell’intesa tra Stato e Regione, contro la volontà delle popolazioni che non accettano, giustamente, l’approdo del gasdotto sotto una delle più belle spiagge del Salento in pieno sviluppo economico”.

Secondo Emiliano quella di Melendugno era una “spiaggia esotica” e Renzi e Calenda, “schiavi della lobby del gas”, stavano distruggendo il turismo. Poi a questa scusa negli anni Emiliano, con i nuovi alleati 5 stelle e Fratoianni, aggiungerà il rischio incidenti, il fatto che il Tap avrebbe fatto aumentare i tumori e la distruzione degli ulivi. Secondo Sabina Guzzanti la Xylella fu inventata apposta per distruggere gli ulivi nel cantiere. Secondo loro per far passare un gasdotto di 8 chilometri e spostare 200 alberi ci sarebbe stato un complotto internazionale che ha portato al disseccamento di 21 milioni di ulivi.

E cosi iniziarono i ricorsi e le contestazioni contro gli espianti. Il Tar anche questa volta rigettò il ricorso di Emiliano, e nella sentenza rilevò inoltre che due articolazioni della stessa Regione Puglia avevano già concesso alla società Tap l’autorizzazione all’espianto delle 211 piante di ulivo. La stessa Regione quindi aveva già di fatto autorizzato l'oggetto della contesa, cosa che Emiliano forse non sapeva: non parla con gli uffici da lui guidati, ma pretende di comandare quelli di Roma.

A quel punto i sindaci di sinistra di tutto il Salento, guidati dal presidente della provincia Minerva (Pd), occuparono il cantiere dormendo in macchina di notte. Il giorno dopo all’arrivo dei militari i NoTap scatenarono tafferugli e violenze con lancio di pietre verso gli operai e militari, che portano alla condanna in primo grado per violenze a 67 attivisti. Il cantiere fu militarizzato e solo così si riuscirono a fare i lavori mentre Emiliano, sostenendo gli ricordasse Auschwitz, iniziò a rivolgersi alla magistratura penale, che anni dopo archiviò.

A quel punto il governatore chiese al governo di fare una nuova legge ad hoc per imporre la Seveso: “Prima il governo la fa meglio è, se qualcuno aspetta che mi fermi se lo deve scordare. Che direbbero se i loro figli dormissero sopra un gasdotto? Non vorremo che fra vent’anni ci sia un documentario in cui dopo un incidente in cui conteremo migliaia di morti qualcuno dica che non abbiamo fatto niente”.

Ovviamente in questa lotta di Emiliano contro il gas di Tap nulla c’entra il fatto che lui sia sempre stato amico di Putin e del patriarca russo Kirill, e che solo due anni fa chiedeva al governo di abolire le sanzioni alla Russia.

Alla vigilia dell’inaugurazione, in campagna elettorale per le Regionali, Emiliano - sempre parlando di Calenda e Renzi che gli avevano candidato contro Scalfarotto - disse: “Qualcuno ha avuto il compito in questa campagna elettorale di impedire che in Puglia arrivi gas per far andare Ilva a idrogeno. Ora hanno fatto Tap ma dall’Azerbaijan il gas è finito, quindi da Tap non arriverà nulla”.

E invece il Tap è funzionante, porta 8 miliardi di metri cubi di gas azero in Italia ed è pronto a raddoppiare, mentre la spiaggia di Melendugno è bandiera blu. Quindi ora la versione di Emiliano è diventata: “Il tap esiste ed è in funzione quindi se stiamo ancora in questa situazione vuol dire che non è stato sufficiente”. Insomma, tanto valeva non farlo. Anche se oggi abbiamo sia gas che turismo.

In tutto questo, mentre il presidente della Basilicata Vito Bardi usa le compensazioni delle estrazioni per da il gas gratis a tutti i lucani, la Regione Puglia ha rifiutato di sedersi al tavolo con Tap non accettando i 50 milioni messi a disposizione dal consorzio per le compensazioni. Il territorio pugliese da Tap non prende nulla, impedendo di rispettare il decreto autorizzativo del 2015 che imponeva “in accordo con gli enti territoriali, le opportune misure per massimizzare le ricadute positive sull'economia del territorio e sulle attività locali”.

E quando Tap ha proposto corsi di formazione e lavoro ai ragazzi pugliesi, Emiliano ha detto: “Mi auguro che nessun giovane salentino aderisca tradendo la sua terra, e che nessun operatore turistico intenda assumere coloro che parteciperanno a questi corsi”. La disoccupazione giovanile in Puglia è al 39%, 10 punti più della media nazionale.

E il Pd continua a candidarlo, appoggiarlo e portare tutti i suoi lacchè in Parlamento.

Lo rivela l’Osservatorio regions2030. Franceschini leader del ‘Partito del No’, così Ministero e Sovrintendenze bloccano l’87% dei progetti per le rinnovabili. Claudia Fusani su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Il capofila del partito dei No? Le nostre amate Sovrintendenze, custodi della bellezza, della specificità e unicità del suolo italico. La scoperta ha il sapore amaro delle cose che non ti aspetti. Provoca rabbia e stupore. Si fa un gran parlare di rinnovabili, semplificare, autorizzare perché abbiamo bisogno come del pane di pannelli fotovoltaici, pale eoliche e pannelli solari. Abbiamo bisogno di produrre energia gratuita dal sole e dal vento almeno per garantire luce e riscaldamento nelle nostre case senza strozzarci a bollette ostaggio di speculazioni e importazioni di fossili come il gas. Bene, tutto chiaro.

Ma non per le Soprintendenze e le varie commissioni paesaggistiche che fanno capo a ciascuno di questi potentissimi uffici e alle Regioni. Un ginepraio di soggetti autorizzativi che fa venire il mal di testa. E che, si scopre, blocca l’87% dei progetti con rinnovabili. Il più grosso soggetto Nimby – not in my backyard, mai nel mio cortile – dell’amministrazione pubblica sono le Sovrintendenze e il ministero dei Beni Culturali che le rappresentano. Nessuno ministro finora, compreso Franceschini, è riuscito a scalfire il potere di interdizione di questi uffici. Il governo Draghi ha cercato di dare una svolta e ha approvato una norma per cui in caso di contenzioso tra i due ministeri – Mite e Beni Culturali – che si prolunga nel tempo, interviene il Consiglio dei ministri che sblocca le autorizzazioni. In questo modo in un anno è stato sbloccato più della metà di quanto autorizzato negli ultimi quindici anni.

Il paradosso è che l’ambientalismo che chiede più energia rinnovabile è lo stesso ambientalismo che blocca tutto in nome della tutela del paesaggio e dell’identità dei luoghi. Non se ne esce. Pare. La scoperta è dell’Osservatorio regions2030 del Centro studi Elemens insieme con Public Affairs Advisor. Il buco nero dove la quasi totalità dei progetti sulle rinnovabili si ferma si chiama VIA, acronimo che sta per Valutazione di impatto ambientale. Le VIA sono in capo al ministero per la Transizione ecologica, quindi Cingolani. Ma Cingolani deve sottostare anche al via libera paesaggistico e culturale delle Sovrintendenze, cioè del ministero della Cultura guidato negli ultimi tre anni dal ministro Dario Franceschini (Pd). L’Osservatorio Regions2030 ha calcolato che su 76 pareri rilasciati dal ministero della Cultura, oltre l’87% è contrario alla realizzazione dei progetti.

Entro la fine di agosto, cioè ieri, le due commissioni di valutazione del ministero della Transizione ecologica (Via-Vas, valutazione di impatto ambientale e strategico e Pnrr) dovrebbero aver esaminato progetti di rinnovabili per una potenza totale di 1200 megawattore. Però poi tutto dipende dal ministero della Cultura che raccoglie i No di associazioni, comitati e sovrintendenze. In caso di contenzioso, cioè quasi sempre, il dossier finisce al dipartimento Dica della Presidenza del consiglio che a gruppi di una dozzina per volta li porta in Consiglio dei ministri per lo sblocco definitivo. Una procedura assurda. Che fa perdere un sacco di tempo. L’onorevole Librandi (Iv) spiega, basandosi di dati Terna, che sono 1400 gli impianti tra eolico, fotovoltaico e biomasse bloccati dalla burocrazia. Così facendo è chiaro che l’obiettivo di 80gw di rinnovabili entro il 2030, cavallo di battaglia di Verdi e sinistra italiana ma un po’ di tutti i partiti almeno a sentire gli slogan della campagna elettorale, è irrealizzabile.

Il problema è che le rinnovabili, oltre a non poter essere stoccate, hanno anche bisogno di impianti estesi ed altamente impattanti ad occhio nudo: intere colline e vallate piene di pale eoliche e distese di moduli di silicio (i pannelli) sui tetti nei borghi, nelle città e nei campi. Tutti li vogliono ma nimby, not in my backyard, non nel loro cortile. Un po’ come i rigassificatori e i termovalorizzatori. Un po’ come il nucleare a cui diciamo no ma lo acquistiamo in Francia in centrali che sono a meno di cento km dal nostro confine. Lo studio Regions2030 ha analizzato i singoli progetti e l’87% di no. Ecco i motivi di quei no che spesso si sommano e pesano sullo stesso progetto: nel 70% dei casi il motivo sta nel vincolo paesaggistico; l’assenza di analisi geologiche pesa per il 38%; nel 31% dei casi il No nasce dall’impatto sulla valutazione agricola; il 22% dei rifiuti sono dovuti al fatto che ci sono molti altri impianti eolici nella stessa zona. E poi, distanze non rispettate, interferenze con altre attività produttive. Di chi la colpa allora? Gli uffici sono inadeguati e poco preparati? Oppure i vincoli sono eccessivi?

Oggi tutti gli impianti eolici maggiori di 30mgw e fotovoltaici maggiori di 10 mgw devono essere prima vagliati dal Mite e poi dalla Cultura. Restano in mano alle Regioni i progetti al di sotto di questa potenza. In quindici anni sono stati sottoposti alle Commissioni di Valutazione di impatto ambientale 15.300 mgw eolici, ovverosia progetti in grado di produrre quale volume di energia. Hanno ottenuto il via libera 1300 mgw, meno di un decimo. Di questi, 672 mgw sono stati sbloccati nell’ultimo anno grazie alle procedure accelerate volute dal governo Draghi. Ulteriori 452 mgw sono stati autorizzati a fine luglio, a governo già in uscita. Sempre la stessa storia: il Mite dice sì, i Beni Culturali dicono no, palazzo Chigi decide e sblocca. Numeri troppi piccoli per una vera transizione energetica in chiave green.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

No nucleare, stop trivelle e ostacoli alle rinnovabili: così hanno bloccato l'Italia. Dario Martini su Il Tempo il 03 settembre 2022

Se oggi l'Italia si trova con il cappio al collo, costretta ad approvvigionarsi di energia all'estero, è il frutto anche delle scelte politiche fatte negli ultimi trent' anni. Dal no al nucleare alle trivellazioni bloccate nell'Adriatico, fino agli impianti eolici e fotovoltaici sul larga scala bloccati dalla burocrazia. Negli ultimi mesi il governo Draghi ha iniziato a svincolarsi dalla dipendenza dal gas russo. Prima importavamo da Mosca il 40% del nostro fabbisogno. Oggi siamo scesi sotto al 26%. Ora il nostro maggior fornitore è l'Algeria. Ma ancora non basta. Occorre puntare sulla produzione nazionale.

RIFIUTO DEL NUCLEARE Il tema è al centro della campagna elettorale. Matteo Salvini assicura che, in caso di vittoria, il nuovo governo punterà sul nucleare di quarta generazione. È un cavallo di battaglia anche di Carlo Calenda. Ovviamente, si tratta di un progetto di lungo periodo. L'Italia, con le sue quattro centrali nucleari, ha prodotto energia per quasi trent' anni, dal 1963 al 1990, quando ha smesso di farlo per rispettare l'esito del referendum del 1987 (l'anno dopo il disastro di Chernobyl). Nel 1986 il nostro Paese produceva prodotti 9 terawattora grazie all'energia nucleare. Molto meno dei 254 twh prodotti in Francia nello stesso periodo. Il governo di Silvio Berlusconi nel 2008 propose un ritorno al nucleare. Per impedirlo, anche allora fu indetto un referendum, che si tenne tre anni dopo, nel maggio 2011. Due mesi prima, però, ci fu il disastro di Fukushima. Il governo provò a fare retromarcia, proponendo subito una moratoria al nucleare. La consultazione popolare, però, si tenne lo stesso, confermando l'esito del 1986. Ma cosa significa produrre energia nucleare? La Francia, con i suoi 56 reattori, produce il 59% del suo fabbisogno di energia elettrica. Molti impianti, però, oggi sono vecchi, tanto che Emmanuel Macron pochi mesi fa ha lanciato un maxi-piano di investimenti da 52 miliardi di euro. Pensare che, come ha spiegato il ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani, il 5% della nostra energia proviene proprio dalla Francia. L'Agenzia internazionale dell'energia (Iea), in un rapporto di giugno scorso, ha incluso il nucleare tra le fonti di energia «pulite», affermando che, a partire dagli anni Settanta, «ha fortemente contribuito alla riduzione delle emissioni globali di anidride carbonica».

TRIVELLAZIONI BLOCCATE A metà anni '90 l'Italia estraeva 20 miliardi di metri cubi di gas dal Mare Adriatico. Nel 2000 erano 17 miliardi. A fine 2021 si è toccato il punto più basso: 800 milioni di metri cubi. Tra le coste dell'Emilia Romagna e della Croazia c'è un enorme tesoro di metano inutilizzato. Il primo governo Conte nel 2018 ha promosso una moratoria delle trivellazioni di 18 mesi. Solo dopo tre anni, il 13 febbraio scorso, undici giorni prima della guerra, è stato possibile approvare il Pitesai, il piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee. La situazione, però, si è sbloccata per modo di dire. Il documento voluto da Cingolani, infatti, riduce di due terzi il territorio idoneo alle trivellazioni. Così, oltre il 70% delle 108 concessioni in essere per il gas si trovano in territorio non idoneo. Venti sono state revocate, mentre per altre 45 parte è partita la fase di verifica. Sarà molto difficile tornare ai 20 miliardi di metri cubi degli anni Novanta. In qualche anno si potrebbe arrivare alla metà, 10 miliardi. Ma l'obiettivo a breve termine si limita a raddoppiare la produzione attuale per raggiungere 6/7 miliardi. Eppure, sotto i mari italiani - secondo i dati del Ministero- giacciono riserve per oltre 90 miliardi di metri cubi di metano a basso costo. L'estrazione, infatti, costa 5 centesimi al metro cubo, mentre paghiamo tra i 50 e i 70 centesimi per importarlo dall'estero.

EOLICO E SOLARE FERMI Gli ambientalisti invitano a puntare sulle rinnovabili. Un settore dal grande potenziale bloccato dalla burocrazia. Nell'Irex annual report 2022, lo studio di Althesysk, a fronte di 264 nuovi progetti eolici e fotovoltaici su larga scala, 188 sono ancora in corso di autorizzazione.

I "No a tutto" hanno contribuito alla crisi energetica. Gas, nucleare, rifiuti: la crisi energetica e il ruolo degli ambientalisti che dicono "no a tutto" nella gestione delle sfide dell'Italia. Andrea Muratore l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'Italia del "no" fa sentire il suo peso nei conti della crisi energetica. L'Italia del "no a tutto", no alle trivelle, no ai gasdotti, no a qualsiasi riflessione sul nucleare, no addirittura ai parchi per le rinnovabili quando fatta nel suo cortile di casa è corresponsabile delle problematiche acuite, nell'ultimo anno, dal contesto globale e dalla tempesta della guerra in Ucraina.

L'Italia del "no" contiene al suo interno gli avversari inguaribili delle politiche energetiche, gli ambientalisti ideologici, diverse forze politiche in larga parte riferibili agli ambienti progressisti ma che non mancano di coinvolgere in diversi casi forze di destra e liberali, intellettuali e agitatori. E ha un potere d'influenza importate su un'opinione pubblica a cui spesso è difficile spiegare l'utilità prospettica di un rigassificatore o di una centrale elettrica e i suoi dividendi economici-sociali, ma è più facile prospettare disastri ambientali o minacce alla salute. Un intero filone politico si è sviluppato a partire dall'ideologia del No. Possiamo fornire di esso alcune istantanee.

I costi economici e sociali del "no" al gas

La prima è quella del costoso disastro sul gas di cui si sono rese, in tempi diversi, responsabili molte forze politiche attorno alla pressione esercitata dal Movimento Cinque Stelle prima e dopo l'ascesa al governo. Mentre la tempesta energetica d'autunno pare farsi sempre più prossima, i prezzi sono in volo e l'inflazione galoppa il nostro Paese si trova in una fase critica in cui sul fronte del gas naturale la ricostruzione delle scorte e la lotta ai rincari deve far fronte con la castrazione dell'estrazione nazionale operata per vie politiche. Stiamo parlando dell’inopinata decisione presa ai tempi del governo Conte I su iniziativa del Movimento Cinque Stelle con il benestare del partner di governo di allora, la Lega, di fermare e depotenziare le capacità estrattive dell’Italia e di bloccare le trivelle operanti nell’offshore del Mar Adriatico. Decisione che anche il governo Conte II a trazione M5S e Partito Democratico ha, di slancio, confermato e che in sostanza il governo Draghi non ha ribaltato.

Anzi, il governo Draghi ha nel febbraio 2022, poco prima dell'invasione russa dell'Ucraina, dato il via libera definitivo al piano istituzionale che, secondo le norme dei governi Conte, ha dato struttura all'Italia del no e alle sue pretese politiche: il Pitesai, che inndica le aree idonee e quelle non idonee all'estrazione di idrocarburi. Il Pitesai è stato approvato andando al contempo in parte a bloccare quanto previsto dal Decreto Bollette promosso ai tempi dal governo Draghi su iniziativa di Roberto Cingolanni, che apriva all'estrazione crescente dai giacimenti nazionali. Il Pitesai ha indicato chiaramente le aree escluse dalla possibilità estrattiva indicando come ingestibile in tal senso il 42,5% della superficie nazionale terrestre e il 5% dell'area marittima, facendo calare gli spazi a disposizione per la ricerca di idrocarburi a disposizione del 50% nel primo caso e addirittura dell'89% nel secondo.

Ma sul gas pensare che tutto nasca solo con l'ascesa al governo dei grillini è fuorviante. “L’inaffidabilità e l’ambientalismo ideologico hanno un costo salato" a prescindere, ha argomentato la sottosegretaria del Ministero della Transizione Energetica Vannia Gava (Lega). "Lo dimostra", sottolinena l'onorevole del Carroccio, "la penale di 190 milioni che lo Stato italiano, cioè tutti noi cittadini, dovremo pagare alla società titolare dal 2014 della concessione di Ombrina Mare, in Abruzzo, che avrebbe dovuto sfruttare un giacimento di gas ma che è stata fermata”. E il nuovo fronte dei rigassificatori mostra che la partita è pronta a espandersi e si vede il dualismo del Paese: a Ravenna il progetto di un nuovo rigassificatore nel quadro di una strategia chhe porterà Roma a poter accogliere 32 miliardi di metri cubi di Gnl annui dai 17 attuali ha il sostegno del sindaco Michele De Pascale e di un tessuto imprenditoriale attento alle opportunità, a Piombino il rigassificatore galleggiante di Snam, che dovrebbe consentire l’importazione di 5 miliardi di metri cubi all’anno, è oggetto di una compatta opposizione sociale e dell'inseguimento tra forze politiche per ottenere il centro della scena in una battaglia locale ma di risvolto nazionale. E intanto le bollette volano.

Il dilemma del nucleare

Un secondo punto è quello del nucleare. Risorsa assai discussa in termini di utilità, convenienza e garanzie contro la crisi energetica, ma su cui il dibattito dovrebbe essere in primo luogo di carattere industriale, programmatico, strategico. E invece sul fronte del nucleare torna in campo con forza il partito del "no" a prescindere.

Lo segnala con attenzione un recente manifesto della coalizione Verdi-Sinistra Italiana, candidata come lista unita nel campo del centrosinistra alle prossime politiche. Al suo interno gli ecologisti attaccano la proposta di Carlo Calenda, leader della coalizionne Azione-Italia Viva, e del centrodestra di costruire nuove centrali nucleari indicando su una mappa i progetti previsti dai piani dei due poli. Sono indicati quattordici siti precisi, dagli ex centri nucleari italiani come Caorso, presso Piacenza, e Trino Vercellese, a altre cittadine: la sarda Oristano, la molisana Termoli, la veneta Chioggia tra queste. Il fine è chiaro: mostrare la pericolosità del nucleare paragonando ognuna di queste centrali a una "bomba" per gli abitanti dei paesi in questione. Un appoggio esterno al partito del "no a tutto" è arrivato poi dall'ex Ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio in un'intervista a La Notizia. Pecoraro ha dichiarato che il tema nucleare non si dovrebbe porre nemmeno perché "nessuna regione è disponibile a ospitare una centrale nucleare e nemmeno un deposito di scorie quindi mi sembra tutto infattibile".

Lo spreco dei rifiuti

Un altro ministro dell'Ambiente del passato ben più pragmatico, Corrado Clini, titolare del dicastero ai tempi del governo Monti, ha invece sottolineato la problematica legata "all’incredibile gestione dei rifiuti di mezza Italia" e ai suoi effetti sulla crisi energetica in un editoriale su Formiche. "Non solo", nota Clini, "perché dal 2015 abbiamo pagato alla Commissione europea una multa di 450 milioni di euro per la malagestione dei rifiuti della Campania, ma anche perché i nostri rifiuti sono esportati a caro prezzo (fino a 300€/tonnellata) in Paesi europei che li utilizzano per produrre elettricità e calore, perché in mezza Italia l’uso energetico dei rifiuti non sarebbe sostenibile". E questo, per una grande potenza dell'economia circolare come l'Italia rappresenta uno smacco.

Sui termovalorizzatori necessari a smaltire i rifiuti e potenzialmente in grado di diventare hub per la generazione energetica l'ambientalismo ideologico va in testacoda, come dimostrato dal litigio interno ai Verdi italiani che vede il coordinatore Angelo Bonelli favorevole all'impianto a Roma contro il parere del suo stesso partito, tra cui la candidata nella Capitale Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente. L'ambientalismo ideologico denuncia i presunti danni ambientali degli impianti che bruciano i rifiuti ma ne trascura totalmente i dividendi in ogni campo, compreso paradossalmente quello per la sostenibilità. Da Brescia alla Sardegna, dalla Capitale all'Emilia, negli ultimi anni il braccio di ferro sui termovalorizzatori ha portato gli ambientalisti del no a posizioni kafkiane sulla base di un pregiudizio ideologico verso qualsiasi cosa possa avere un vago sentore di industria o applicazione concreta di una sinergia tra mondo energetico, transizione e sviluppo. Sintesi di un problema che prima che economico appare culturale: un timore del progresso e della gestione delle sfide del futuro che si basa su pregiudizi ideologici anacronistici. E che danneggiano la coesione economica e sociale del Paese.

Recensioni indipendenti: Il metodo Piombino, l’Italia oltre la legge. Federico Mels Colloredo su L'Indipendente il 6 novembre 2022.

Un docu-reportage di 60 minuti diretto da Max Civili sulle proteste contro il rigassificatore di Piombino. Un caso che sta diventando sempre più un caso politico nazionale complicato, che ha trasformato la piccola cittadina costiera toscana, in una sorta di linea rossa che ha diviso la politica locale e nazionale. L’opera racconta le vicende che hanno portato all’approvazione del rigassificatore e la lotta dei cittadini che si oppongono alla sua realizzazione, avendo il pregio di andare oltre la questione prettamente locale. Nonostante la breve durata, infatti, il documentario pone interessanti questioni sulla democrazia e sulla tendenza sempre più marcata delle istituzioni a sacrificarne i principi in nome dell’emergenza del momento.

La nave rigassificatore Golar Tundra, acquistata dalla Snam per 330 milioni di euro. È lunga 293 metri, larga 47 e ha una capacità di stoccaggio di circa 170 mila metri cubi di gas naturale liquefatto (GNL), pari a circa 5 miliardi di metri cubi di gas, considerato il 6,5% del fabbisogno nazionale. Con l’obiettivo di ridurre la dipendenza dalle forniture russe si sta moltiplicando quella dalle più costose fonti statunitensi. Oltre all’installazione della Golar Tundra, sarà realizzato un metanodotto sotterraneo lungo più di 8 chilometri, che collegherà la nave stessa alla rete nazionale del gas in un’area che attende da tempo la bonifica ambientale. Il reportage affronta il processo accelerato con il quale le istituzioni hanno approvato l’opera che si insedierà nel piccolo porto cittadino. Una procedura alla quale i cittadini continuano ad opporsi sottolineando potenziali rischi di sicurezza e ambientali, non presi del tutto in considerazione visto che l’opera non è stata sottoposta a procedure di valutazione di impatto ambientale.

Il timore per molti è che alla luce dell’articolo 32 del decreto aiuti bis dello scorso agosto, se passasse l’operazione Piombino, con lo stesso metodo si potranno in futuro realizzare altri progetti senza il coinvolgimento delle popolazioni, anzi contro di queste. Un breve documentario che ha il pregio di andare oltre la questione locale e fare riflettere su un problema più ampio, chiedendosi se in Italia vige ancora uno stato di diritto, che rispetta ancora la Costituzione e considera la democrazia come un diritto reale non calpestabile sotto i colpi di ogni emergenza.

Il 25 ottobre scorso il presidente della Regione Toscana nominato commissario straordinario per il rigassificatore di Piombino, Eugenio Giani, ha firmato l’autorizzazione definitiva all’installazione nel porto della città toscana, che dovrebbe diventare operativo entro la primavera del 2023, dove la nave rimarrà ormeggiata per 3 anni. Successivamente nell’area di 20 km sarà individuata una zona in cui stabilire la nave per altri 22 anni. In risposta il sindaco di Piombino Francesco Ferrari, contrario all’infrastruttura, ha fatto ricorso al Tar. Mentre la cittadinanza continua a battersi senza arrendersi. Il documentario è visibile in formato integrale gratuitamente su YouTube. [di Federico Mels Colloredo]

"La vera incognita sono i rigassificatori in balia di burocrazia e questioni locali". Il presidente di Federpetroli Michele Marsiglia: "Snam ha comprato due navi ma se a Piombino e Ravenna non partono i lavori l'investimento sarà vano". Gian Micalessin il 26 Agosto 2022 su Il Giornale.

«La vera incognita del prossimo inverno non è il gas che resta caro ma abbondante sui mercati internazionali, bensì il funzionamento dei rigassificatori sempre a rischio per questioni amministrative o locali». Per Michele Marsiglia, presidente 56enne di Federpetroli la più grossa preoccupazione è l'imprevedibilità di una politica più sensibile alle volubilità dell'opinione pubblica che alle esigenze di approvvigionamento energetico. «Snam in questi mesi - spiega in questa intervista al Giornale - ha acquistato due navi per la rigassificazione investendo 320 milioni di Cassa depositi e prestiti per una, e più o meno lo stesso per l'altra. Ma se non si sbloccano i lavori a Piombino e Ravenna il gas di quelle navi resterà inutilizzato».

E quindi?

«E quindi, a differenza di quanto promette Mario Draghi, il Gnl non ci salverà, perché dovremo riempire un buco pari al 36 per cento della programmazione».

Invece i contratti stipulati in Africa per la sostituzione del gas russo sono una garanzia?

«Solo se non ci saranno intralci. Mosca ha intese cinquantennali con Algeria, Angola, Congo Nigeria, Egitto e Mozambico ovvero tutti i paesi a cui si è rivolta l'Italia. Non a caso il recente tour africano del ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov è stato seguito con molta apprensione dall'Eni e dal nostro governo».

Gli accordi potrebbero non venir rispettati?

«Oggi solo l'Algeria ci sta già dando del gas. Tutti gli altri contratti partiranno nei prossimi anni. Quindi possono venir messi in discussione o compromessi da rivolte o crisi politiche che in Africa sono tanto imprevedibili quanto frequenti. Quindi nulla garantisce che il flusso effettivo corrisponda a quello previsto dai contratti. Firmarli era necessario, ma perché la stabilità ci vorrà almeno un decennio».

In Libia già paghiamo lo scontro con Mosca.

«Non da ora. L'assenza dell'Italia durante il governo Conte ha permesso a turchi e russi di scipparci molti contratti off shore. Oggi non siamo più il primo partner sul fronte energetico».

Un taglio totale del gas russo è tecnicamente possibile?

«Basta schiacciare un pulsante. A quel punto Gazprom dovrebbe solo trasferirlo nelle riserve in attesa di completare i gasdotti e portarlo su altri mercati».

Intanto il gas è oltre i 300 euro e come scrive il «Financial Times» i mercati scommettono sulla crisi energetica ed economica dell'Italia.

«Il prezzo fuori controllo non è determinato dalla crisi ucraina, né da una carenza di gas sui mercati, bensì da speculazioni borsistiche. Purtroppo questi prezzi esorbitanti avranno conseguenze durissime sia per le famiglie sia per molte aziende che saranno costrette a chiudere».

La politica saprà affrontare questa crisi?

«In questo primo scorcio di campagna elettorale l'argomento gas mi sembra solo uno slogan. Probabilmente ne sentiremo parlare seriamente di politiche energetiche in autunno. E scopriremo che assieme ai posti in Parlamento sono scomparse anche tante aziende messe fuori mercato dalla scarsa attenzione della nostra politica».

Il sindaco di Piombino: "Meloni è d'accordo con me, il rigassificatore qui non si deve fare". Azzurra Giorgi su La Repubblica il 26 Agosto 2022 

Intervista a Francesco Ferrari, di Fratelli d'Italia: "Il nostro partito è a favore degli impianti ma questa scelta è sbagliata"

"Ne ho parlato spesso anche con Meloni. La posizione del partito è chiara: in linea di massima Fdi è favorevole ai rigassificatori, ma la scelta di Piombino è assolutamente sbagliata". Il sindaco di Piombino, Francesco Ferrari, di Fratelli d'Italia, torna a parlare del rigassificatore dopo che il progetto di Snam, con la sua nave Golar Tundra, in grado di stoccare fino a 170mila metri cubi di Gnl, è entrato nella campagna elettorale.

Molinari: "Il rigassificatore di Piombino serve al Paese ma FdI si oppone"

"L'Italia ha bisogno di due rigassificatori mobili uno davanti a Ravenna l'altro a Piombino per aumentare la propria indipendenza dall'importazione di gas naturale russo". Così il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, ospite di SkyTg24. "C'è ancora un'opposizione da parte del sindaco di Piombino di FdI e l'interrogativo è se questa opposizione continuerà a durare", conclude Molinari

La polemica sulle grandi opere. Che follia bloccare il rigassificatore di Piombino. Siamo in piena emergenza gas ma c’è chi si oppone al rigassificatore. Stessa storia del Tap…di Nicola Porro il 27 Agosto 2022.

L’Italia è questa qui. Siamo tutti preoccupati per l’inverno che deve arrivare, visto che rischiamo di restare senza gas qualora Putin decidesse di chiudere i rubinetti. Però quando scopriamo che per diversificare, e magari abbassare un po’ il prezzo, c’è bisogno di un “rigassificatore“, ecco che cominciano i distinguo: Fratelli d’Italia non lo vuole a Piombino, il Pd locale neppure, la Lega difende l’itticoltura, il M5s neppure a parlarne così come Sinistra Italiana e Verdi.

Era già successo in passato. E non facciamo il Tap perché dava fastidio alla spiaggia. Non facciamo il rigassificatore. Non facciamo le pale eoliche. Non ci piace il fotovoltaico. Abbiamo votato “no” al nucleare. Ma andate a quel paese. E l’aria condizionata come la facciamo funzionare? E le auto come le mandiamo avanti? E le fabbriche? E le ceramiche? Come possiamo vivere la nostra comoda vita senza l’energia? Siamo dei pazzi…

Nicola Porro, dalla Zuppa di Porro del 27 agosto 2022

In Onda, Federico Rampini gela tutti: "Il sindaco di Piombino? In Cina sarebbe già in galera". Il Tempo il 27 agosto 2022

Sabato 27 agosto si parla del caso del rigassificatore di Piombino a In Onda, il programma condotto da Luca Telese e Marianna Aprile su La7. La trasmissione è collegata con il sindaco del comune toscano, Francesco Ferrari di Fratelli d’Italia, dalla piazza in cui va in scena una manifestazione contro la scelta del governo di realizzare l'impianto nel porto della città. Federico Rampini, editorialista del Corriere della sera, spiega che il primo cittadino di Piombino parla con "grande onestà, una trasparenza assoluta. Non è contrario per posizione ideologica ai rigassificatori, ritiene che siano necessari ma non lo vuole lì", riassume Rampini. Insomma, è un caso di "nimby", l'acronimo di "not in my blackyard", non nel mio cortile? "È un problema che avremo in ogni tipo di soluzione energetica, accadrà anche quando decideremo di investire seriamente sul solare, nessuno vorrà le grandi centrali solari o le pale eoliche vicino casa propria", argomenta il giornalista. 

"La responsabilità è dei governi, bisogna assorbire le resistenze locali con le compensazioni. Se fossimo in Cina il sindaco di Piombino sarebbe già in galera", afferma poi Rampini scatenando l'ironia dei conduttori. "Per fortuna non siamo in Cina, ci sono regimi che possono fare scelte dall'alto sulla società civile che deve subire - rimarca il giornalista - noi siamo in un modello politico molto diverso, e bisogna interloquire con il sindaco di Piombino".

Il nodo della questione è che il governo di Mario Draghi ha puntato sul rigassificatore nel porto perché è una soluzione veloce, "e noi siamo a corto di soluzioni rapide" per la crisi energetica, argomenta Rampini. Ferrari, dal canto suo, replica dicendo che sarebbe anche disponibile a finire in galera per difendere la comunità e respinge l'etichetta "not in my backyard": "Piombino ha una fabbrica da 100 anni che avuto un grande impatto ambientale, ha avuto una centrale a olio combustibile, ha una discarica per rifiuti speciali... Non possiamo essere considerati nimby"·     

Pd ecologista a chiacchiere: "Quanti progetti ha bloccato Franceschini". Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 23 agosto 2022

Il programma del Pd è chiaro: «La transizione ecologica rappresenta una grandissima occasione per ammodernare l'Italia e reindirizzarne la traiettoria di sviluppo in uno scenario di sostenibilità». Qualcuno ritiene che le fonti pulite siano armi spuntate contro la gravissima crisi energetica che l'Europa, e soprattutto l'Italia, dovrà affrontare il prossimo inverno. Ma i dem su questo punto non sentono ragioni. Come ha spiegato più volte lo stesso segretario Enrico Letta, le rinnovabili sono il miglior antidoto al caro bollette. Al punto che l'unica proposta concreta contenuta nel programma per fronteggiare lo tsunami che secondo tutti gli esperti, a partire dal presidente dell'Autorità per l'energia, Stefano Besseghini, si sta per abbattere sul Paese è il contratto «luce sociale» per i redditi medio bassi.

Un contratto di fornitura energetica a prezzi agevolati (energia gratis fino a 1.350 KWh/anno per famiglia) prodotta totalmente da fonti rinnovabili e acquistata direttamente dalla società pubblica Acquirente Unico. E partendo dalla convinzione che «investire subito, da oggi, nell'energia pulita è tre volte strategico», i dem propongono anche «un piano nazionale per il risparmio energetico e interventi finalizzati ad aumentare drasticamente la quota di rinnovabili prodotte in Italia, anche attraverso lo sviluppo delle Comunità energetiche, con l'obiettivo di installare 85 GW di rinnovabili in più entro il 2030. Un obiettivo ambizioso ma realistico che porterà, secondo alcune stime, alla creazione di circa 500.000 nuovi posti di lavoro». Si può non essere d'accordo, e molti non lo sono, ma su questo terreno, anche per non creare attriti con i compagni di viaggio Bonelli e Fratoianni, il Nazareno ha scelto con determinazione il suo posizionamento.

RIGASSIFICATORI

Persino sui rigassificatori, tassello strategico del piano Draghi per la diversificazione energetica, i dem hanno cambiato idea. «Sono necessari», si legge sempre nel programma, «ma a condizione che costituiscano soluzioni-ponte, rimanendo attivi pochi anni». Insomma, se volete trovare i nemici della rivoluzione verde dovete cercare da un'altra parte. Attenti, però, a dove girate lo sguardo. Se vi capita di puntare gli occhi sul ministero della Cultura, infatti, potreste accorgervi che il titolare del dicastero, il super dirigente dem Dario Franceschini, capolista del Pd a Napoli per il Senato, sta sgambettando senza troppi problemi tutti i progetti per nuovi impianti di rinnovabili. Possibile? Che le Sovrintendenze locali, rappresentate dal ministero di Franceschini, siano spesso d'intralcio alla realizzazione di pale eoliche, impianti idroelettrici e campi fotovoltaici non è un mistero. Sembra, però, che nelle ultime settimane le opposizioni arrivate dai territori abbiano provocato una vera e propria falcidia. Il ministro Roberto Cingolani, quello lapidato per le sue aperture al nucleare pulito, sta infatti accelerando in questi giorni, in vista del passaggio di consegne, le pratiche autorizzative per smaltire l'arretrato. Secondo quanto riporta il Sole 24 Ore, le commissioni di valutazione del ministero della Transizione ecologica stanno liberando decine di progetti, puntando a dare il via libera entro fine agosto a nuove centrali rinnovabili per circa 1.200 megawatt.

PARERI NEGATIVI

Tuttavia tutte le pratiche devono anche passare sul tavolo di Franceschini, che deve dire l'ultima parola sulle questioni di carattere paesaggistico e culturale. Ebbene, stando ad una rilevazione congiunta dell'Osservatorio Regions2030 e di Public Affairs Advisor, su 76 pareri rilasciati, il ministro dem nell'87% dei casi ha espresso un giudizio negativo sulla realizzazione dei progetti già vistati dai colleghi della Transizione ecologica. Qui non stiamo parlando di qualche impuntatura o di una eccessiva puntigliosità, ma del blocco praticamente totale di tutti i nuovi impianti di quelle fonti pulite tanto care al partito. Certo, le rinnovabili, tanto amate dagli ambientalisti, hanno il difetto di essere ingombranti, invadenti e non discrete. L'energia di vento, sole e pioggia deve essere raccolta con immense pale, distese di moduli al cilicio, dighe di calcestruzzo che sbarrano intere vallate. Ma se gli ambientalisti che vogliono la transizione ecologica non si mettono d'accordo con quelli che non vogliono deturpare il territorio non se ne esce. Delle due l'una: o Franceschini spiega ai suoi colleghi del Pd che la rivoluzione verde è più complicata di quello che sembra oppure i dem la smettono di accusare il centrodestra di voler far saltare la transizione ecologica. L'alternativa è continuare a prendere in giro gli elettori: con la mano destra scrivere proclami a favore della lotta al cambiamento climatico e allarmi per la scarsa attenzione alle rinnovabili, con quella sinistra bocciare tutti i progetti per sviluppare le fonti pulite.

Duello Berlusconi-Letta sull'energia. Rigassificatori e nucleare, il Cav: stop ideologici della sinistra. Gaetano Mineo su Il Tempo il 23 agosto 2022

La vitale questione energia è sempre più protagonista in questa campagna elettorale. L'emergenza principale, il gas, continua a preoccupare i partiti ma soprattutto le famiglie italiane. E così, ieri, è andato in scena uno scontro a distanza, tra Silvio Berlusconi e Enrico Letta sul come affrontare il caro-energia.

Il presidente di Forza Italia ha sferrato un affondo contro «gli stop ideologici della sinistra» e questo mentre il prezzo del gas è salito ad Amsterdam a 283 euro al MWh dopo il nuovo stop del gasdotto Nord Stream annunciato venerdì scorso da Gazprom. E con previsioni che parlano di un ottobre di nuovi rincari, con aziende che saranno costrette a chiudere, se non si corre ai ripari.

Quindi, i due leader hanno presentato i rispettivi piani per affrontare la spinosa questione. Proposte profondamente diverse tra loro e che non toccano, al momento, il dilemma di fondo riguardante la transizione energetica e i piani che dovevano portare a una accelerazione sulle rinnovabili. «Mentre l'attenzione dei leader politici di questi giorni è tutta concentrata sulle liste e sulle candidature, sul nostro Paese si sta abbattendo un'emergenza molto grave: il costo dell'elettricità e del gas è cresciuto da 4 a 6 volte in un anno» ha detto Berlusconi nel corso della sua "pillola" quotidiana. Uno scenario, per il Cavaliere, che porta «molte famiglie a dover fare una scelta drammatica: o pagare le bollette o fare la spesa, molte imprese rischiano di non farcela, di chiudere o di dover ridurre il personale».

Da qui la ricetta: «Provvedimenti urgenti per sterilizzare gli aumenti e partendo immediatamente nella realizzazione di rigassificatori, dei termovalorizzatori, delle energie rinnovabili e anche con le ricerche sul nucleare pulito». In altri termini, «tutte cose che la miopia ideologica della sinistra ha bloccato per anni, portandoci a questa situazione», ha concluso Berlusconi.

Dall'altro schieramento, arriva la proposta di Letta in cinque punti. Il segretario Dem parte nel mettere a livello nazionale un tetto al prezzo dell'energia in Italia e questo «consentirà a imprese e famiglie di avere un prezzo calmierato e non soffrire per questi aumenti». Poi lancia un «nuovo contratto "luce sociale" per piccole e medie imprese e famiglie. Al terzo punto, colloca il «raddoppio dell'intensità del credito d'imposta per compensare gli extra costi per le imprese, i prezzi amministrati hanno effetto in futuro, il problema sono gli extra costi arrivati adesso». Poi snocciola un «piano nazionale per il risparmio energetico, perché arriva un inverno molto complicato». E chiude la cinquina con il «continuare con queste politiche per arrivare a un tetto europeo sul prezzo del gas e per l'incentivazione degli impianti di energie rinnovabili».

Tutti buoni propositi che dovranno fare i conti anche con le soluzioni europee, che sono lente e rischiano di arrivare troppo tardi e che a loro vole, vanno a sommarsi con le ipotesi nazionali ancora agli albori. Un puzzle di non facile soluzione perché i principali attori sono internazionali. Di certo, nella politica italiana c'è la consapevolezza condivisa che sia necessario fare i conti, subito, con un tema, quello dell'energia, che rischia di far saltare l'economia italiana e, di conseguenza, di compromettere la tenuta di imprese e famiglie. 

Quando il "no" di Bonelli fu un assist per la Xylella. Infettati 8 milioni di ulivi per il veto dei Verdi che non eliminarono le piante malate. Annarita Digiorgio il 15 agosto 2022 su Il Giornale.  

Angelo Bonelli (nel tondo) e la federazione dei Verdi da lui guidata, hanno deciso in questa campagna elettorale di schierarsi contro «le destre», essendo ormai da tempo impegnati più nelle battaglie pacifiste che a difesa della natura.

È il caso della loro contrarietà ai termovalorizzatori, rigassificatori, nucleare, tecnologie moderne e pulite a sostegno della decarbonizzazione e dell'ambiente. Ma c'è un caso emblematico che dimostra come il pseudoambientalismo massimalista e demagogico abbia causato la distruzione un intero territorio: il Salento. Una terra un tempo sterminata di ulivi, ora tutti definitivamente rinsecchiti per colpa della Xylella. Fino a oggi ha infettato oltre 8mila chilometri quadrati con oltre 21 milioni di ulivi. Da quando sono stati scoperti i primi alberi infetti a Gallipoli ormai 10 anni fa, gli scienziati dissero che l'unica iniziativa possibile per bloccarne la diffusione era l'eradicazione. E invece si creò subito un movimento che in nome di una sedicente difesa degli alberi, avviò una campagna contro l'abbattimento. Ne facevano parte anche i Verdi. I post e i comunicati di Bonelli e il suo partito sono ancora presenti online: «L'utilità delle eradicazioni degli ulivi del Salento non è scientificamente provata come non è provata che la causa del rinsecchimento degli ulivi sia provocata dalla Xylella. Fanno bene i cittadini e gli olivicoltori a difendere le piante da questa folle volontà di eradicare. I tagli degli ulivi rappresentano un attacco alla storia, all'economia e al paesaggio del Salento» scrivevano i Verdi nel 2016. Solo tre anni fa, dopo che l'Europa ha imposto l'eradicazione, i Verdi ancora definivano la xylella «una frode: che il batterio della xylella non fosse il responsabile del disseccamento degli olivi e di altre specie arboree in Salento era già evidente grazie agli alberi dichiarati infetti che sono sopravvissuti ai tagli che a distanza di 4 anni sono ancora vivi, vegeti e produttivi». Ovviamente di quegli alberi non c'è più traccia. Oggi Bonelli si giustifica dicendo che in quelli anni, quando diceva che la Xylella era una frode e chiedeva di non abbattere gli ulivi infetti, lui non era al governo e quindi non ha responsabilità sulla diffusione della Xylella. Al governo però oggi vorrebbe portarcelo il Pd. «I danni provocati all'agricoltura pugliese dai fanatici e pseudo ambientalisti sono stati incalcolabili - ci dice Raffaele Fitto, tra i sei autori del programma della coalizione di centrodestra per le politiche - Cinque anni fa, di fronte alla scienza che ordinava di eradicare gli ulivi malati di xylella, i Verdi insieme ai grillini, sostenuti da Emiliano, si sono incatenati agli alberi rallentando un'attività preziosa per prevenire l'avanzata del batterio. Quando provavamo a dire cose di buon senso eravamo insultati . Fra Xylella e Tap abbiamo vissuto anni bui nel Salento, con la conseguenza che oggi la xylella è alle porte di Bari e Melendugno approdo del Tap è Bandiera Blu.Come possa il Pd di Letta allearsi con chi ha sostenuto e sostiene queste posizioni dà l'idea della totale mancanza di credibilità della loro alleanza».

Francesco Maria Del Vigo per il Giornale il 6 Agosto 2022.   

Alla fine hanno fatto perdere la pazienza anche a lui, l'emblema deambulante e danzante del buonismo, l'uomo sempre, inspiegabilmente, immotivatamente e a volte anche fastidiosamente «positivo», nel senso del pensiero e non dello stramaledetto Covid. Alla fine anche Jovanotti nel suo piccolo - che piccolo non è visto che raccoglie centinaia di migliaia di spettatori in tutta la Penisola - si è incazzato.  

Seppure tardivamente e con le parole sbagliate. Piccola premessa necessaria: Lorenzo Cherubini sta spopolando con il Jova Beach Party, un megatour, con un sacco di ospiti, sulle spiagge italiane che macina un successo dopo l'altro. 

Una specie di Festivalbar a immagine e somiglianza di Jovanotti, un rave party politicamente corretto e a portata di famiglia, una Gardaland musicale. Però - ormai è prassi consolidata -, in Italia quando hai troppo successo e le cose ti vanno troppo bene, in qualche modo, anche se sei il buonistissimo Jovanotti, diventi bersaglio di critiche e odio sociale.  

Così, Cherubini, è stato infilzato con due accuse: aver utilizzato dei lavoratori in nero nel montaggio dei palchi (accusa smentita) e, soprattutto, aver inquinato i lidi tricolori con i suoi mega raduni. Anzi, per la precisione, è stato accusato di «greenwashing», parola così antipatica da meritare di finire subito nella spazzatura (ovviamente differenziata).

Insomma, il buonista è finito buonistizzato. E ha iniziato a strillare. 

«Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l'attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente», ha attaccato il cantante toscano. Posto che il nazismo è una cosa ben più seria di queste piccole bagatelle e bisognerebbe iniziare a pesare le parole, è giusto precisare che Jovanotti scopre i fondamentalisti dell'ecologia solo ora che toccano i suoi interessi. 

Il profeta della «grande chiesa che passa da Che Guevara e arriva fino a madre Teresa», l'artista del «cancella il debito» che prestò pure una canzone a una campagna elettorale del Pd, all'improvviso si desta dal torpore e scopre che anche tra i «buoni» esistono i cattivi.  

Non aveva fatto un plissè quando gli stessi esaltati gretini avevano detto no alla Tav, alla Tap o al nucleare. Ma appena toccano la sua «grande opera» va su tutte le furie e denuncia le storture dei talebani dell'ambientalismo. Privilegi di un «ragazzo fortunato».

Mario Tozzi per “la Stampa” il 9 agosto 2022.

Caro Lorenzo, non ci conosciamo personalmente, ma ti scrivo in relazione al tuo Jova Beach Party e alle polemiche che si stanno scatenando per la tua risposta piccata alle critiche di cittadini e associazioni. Mi permetto di darti del tu come a un amico di lunga data, visto che seguo con attenzione e simpatia il tuo percorso musicale e umano almeno da «Serenata Rap», cioè da quasi trent' anni. 

Premetto che mi piace molto la tua evoluzione artistica e ho apprezzato anche una certa inclinazione globale di alcuni brani, come per esempio «L'ombelico del mondo». Tutto questo per dire che non c'è ombra di pregiudizio nella mia analisi. E così vengo subito al punto: noi tutti amiamo coniugare natura e cultura, arte e ambiente, musica e paesaggio.

Direi che ci viene spontaneo, sia quando ne godiamo, sia quando ne siamo protagonisti. Nel mio piccolissimo, io non sono certo contrario e ho fatto spettacoli di parole e musica con Niccolò Fabi nelle Grotte di Castellana e con il jazzista Enzo Favata anche nelle spiagge più intatte di Sardegna. Quindi il connubio mi piace. 

Il problema infatti non sta nella manifestazione in sé, ma negli impatti, che, come si vede chiaramente nelle foto del JBP dall'alto, sono dirompenti, semplicemente per il numero di individui che vi partecipano: un conto sono cento persone, un altro cinquantamila. Un recente studio del Cnr ha stimato che, dalle spiagge del Parco Nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena, ogni bagnante che passa una giornata al mare porta via con sé, volente o nolente, dai 50 a 100 grammi di sabbia.

Lo studio è stato elaborato per la famosa spiaggia di Budelli che veniva sistematicamente depredata delle sue sabbie rosa e che è stata chiusa all'accesso proprio perché, comunque, dieci bagnanti trasportavano inconsapevoli altrove almeno un chilo di sabbia al giorno. Moltiplica questa cifra per le tue diecimila o cinquantamila persone e vedi a che montagna di sabbia si arriva, senza contare che si balla e ci si agita, aggiungendo erosione a erosione. Anche se solo per una giornata.

Il primo elemento di critica sono dunque i numeri, non sostenibili da alcun sistema naturale, specialmente se delicato e fragile. E il secondo elemento è proprio il luogo: le linee di costa sono quanto di più delicato esista sul pianeta e sono compromesse soprattutto in Italia. Oggi le nostre coste sabbiose sono spesso in via d'erosione, mentre quelle alte, di falesia, finiscono per subire i colpi delle maree, sempre più disastrosi anche a causa delle frequenti tempeste. 

In Italia circa il 40 per cento delle spiagge è sottoposto a un'erosione costante e l'esito di questo processo è che rischiano di andare perdute, se non si interviene incisivamente. A patto di non affidarsi alle solite opere: moli, pennelli, scogliere artificiali o addirittura rimpinguare la spiaggia con camion di sabbia presa chissà dove e scaricata lungo la costa. Ci si dovrebbe, invece, affidare al ripascimento naturale guidato, ma per questo ci vogliono tempi lunghi, opere dolci e tranquillità.

Non meno dannoso è l'uso malsano che facciamo della spiaggia, che in Italia è particolarmente deleterio. La duna, per esempio, è stata cancellata ormai su quasi tutte le decine di migliaia di chilometri del confine marino; la gran parte delle praterie sommerse di Posidonia è stata ormai divorata; la sterminata foresta che un tempo andava da Ventimiglia a Trieste facendo il giro di tutte le coste è scomparsa ormai da almeno duemila anni. Solo il 29 per cento delle coste italiane, circa 2.200 ettari, è libero da insediamenti e può essere considerato un paesaggio integro. 

Il 60 per cento è già stato oggetto di un'occupazione intensiva che ha portato alla cancellazione della duna e della macchia, sostituite da costruzioni a tappeto e stabilimenti balneari in cemento armato. Il restante 11 per cento è in via di occupazione. Le coste sono un patrimonio che noi diamo per scontato, ma che sta andando perduto senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

Non sembra poi una delle migliori idee passare con le ruspe prima dell'evento o imporre un megapalco di quelle dimensioni con tutte le opere temporanee, ma pesanti, che richiede. E le opere di compensazione servono relativamente, perché agli impatti resistono solo gli ecosistemi resilienti e, per ciò sopra esposto, in Italia gli stessi sono allo stremo, specie lungo le coste. 

È vero che il Wwf si è fatto garante della mitigazione degli impatti, visto che tanto i comuni avrebbero comunque autorizzato gli eventi. Ma come membro del Consiglio Scientifico devo rivelarti che, insieme ad altri, avevo fatto presenti le mie perplessità.

C'è poi un aspetto culturale di fondo che non va trascurato: trasformando gli ambienti naturali in luoghi per eventi di massa si potrebbe dare l'idea che la natura e il paesaggio siano, in fondo, modificabili costantemente dai sapiens anche per esigenze che non sono di immediata sopravvivenza, pur riconoscendo il valore assoluto della musica. Ma ci sono luoghi deputati per quelle manifestazioni, anche giganteschi: stadi, palazzetti, piazze municipali e quant' altro.

E se è vero che si tengono eventi nell'Arena di Verona o in siti archeologici, è pure vero che i Pink Floyd a Pompei il pubblico non ce lo avevano e che i numeri sono comunque molto più bassi. Il problema sono i numeri, ma certo non per danneggiare le persone che vogliono godere della tua musica, solo per evitare di lanciare un messaggio diseducativo, che qualsiasi cosa si può fare sempre a spese dell'ambiente.

Ciascuno di noi sbaglia benissimo da solo e i consigli so dove posso mettermeli, ma davvero non devi pensare che ci sia una pattuglia combattiva di eco-nazisti, come li hai chiamati, che vuole distruggere la tua iniziativa per invidia sociale. Se pure ci sono voci estreme, ci sono anche altri, ecologisti di lunga data come me, che studiano l'ambiente da un punto di vista scientifico e che ne hanno viste abbastanza per suggerirti di rinunciare a questo progetto e rimodularlo legandolo a vere iniziative di compensazione ambientale: dalle emissioni clima alteranti che un evento ha sempre e comunque, alla piantumazione di alberi seguita e certificata, alla restaurazione di dune e praterie di Posidonia, alla difesa dell'avifauna e delle tartarughe marine.

Chi se frega del fratino, mi potresti dire, o delle tartarughe. Ma faresti un errore: in questo mondo c'è un posto per la zanzara e uno per il pipistrello, uno per il fratino e uno per la medusa, solo noi sapiens pigliamo il posto di tutti gli altri, prepotenti e invasivi come siamo. Non realizziamo che, se si estingue una specie, l'effetto è a domino e, prima o poi, si estinguono anche le altre. In fondo la ricchezza della vita sulla Terra è data dalle sue singole componenti, esattamente come la sicurezza di un aeromobile è garantita a partire dall'ultima vite della macchinetta per scaldare i pasti a bordo: non sai mai come si mettono le cose, se fai finta di niente. Mi congedo nell'illusione che le mie parole servano almeno a un ripensamento e una discussione non ostile e addirittura serena. Tuo.

(ANSA il 10 agosto 2022) - "L'altro giorno ho chiamato 'econazisti' quei mitomani pericolosi che polarizzano violentemente la grande questione dell'ecologia dentro a piccoli brand personali non accreditati se non da loro stessi e dai like rimediati a vanvera. 

Li ho chiamati econazisti perché essi lo sono": si apre così il lungo post con cui Jovanotti su Facebook risponde al professor Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, che in una lettera aperta indirizzata proprio a Lorenzo Cherubini, e pubblicata ieri sul quotidiano La Stampa, sostiene che i "concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale".

(ANSA il 10 agosto 2022) - "Sei Jovanotti e invece di proteggere le spiagge proteggi i tuoi tweet": nuove accuse su Twitter, nei confronti del cantante, 3,7 milioni di follower, accusato di aver 'lucchettato' il suo profilo, rendendolo accessibile solo ai follower confermati. 

Quella di oggi è solo l'ultima polemica nei confronti dell'artista, accusato di distruggere l'ecosistema delle spiagge che ospitano i concerti del suo Jova beach party. 

Lorenzo Cherubini ha risposto ai suoi detrattori con una lunga diretta Instagram dal lido di Fermo, dando degli "econazisti" a chi lo critica e sottolineando che "il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente". 

Oltre 20mila persone hanno firmato su change.org, intanto, una petizione che dice 'No ai grandi eventi su spiagge e siti naturali', lanciata da associazioni ambientaliste e animaliste come ENPA, Lav, Marevivo Onlus e Sea Shepherd Italia.

Jovanotti difende di nuovo il suo 'Beach Party': "Gli econazisti sono mitomani pericolosi". Lorenzo Cherubini replica alle critiche per i suoi concerti in spiaggia con il tour 'Jova Beach Party'. E risponde al geologo Mario Tozzi. La Repubblica il 10 Agosto 2022.

Jovanotti insiste: "Gli econazisti sono mitomani pericolosi". Il cantante replica alle critiche ricevute per i concerti in spiaggia. "L'altro giorno ho chiamato econazisti quei mitomani pericolosi che polarizzano violentemente la grande questione dell'ecologia dentro a piccoli brand personali non accreditati se non da loro stessi e dai like rimediati a vanvera. Li ho chiamati econazisti perché essi lo sono". Comincia così il lungo post con cui Jovanotti su Facebook risponde al professor Mario Tozzi, geologo e divulgatore scientifico, che in una lettera aperta indirizzata proprio a Lorenzo Cherubini, e pubblicata ieri sul quotidiano La Stampa, sostiene che: "I  concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale". 

Al geologo, autore dell'articolo Caro Jovanotti, stavolta sbagli, Jovanotti replica: "Seguo il tuo lavoro di scienziato e di divulgatore da tanto tempo e mi ricordo quando nel 2019 hai difeso le nostre feste in spiaggia, non capisco quindi cosa sia cambiato nel frattempo". E continua: "Così come nel 2019 tutto è stato fatto bene in collaborazione con Wwf (io non ho competenze specifiche, loro ne hanno), anzi ancora meglio. Abbiamo tutti i permessi delle autorità competenti, locali, regionali e nazionali - ricorda Cherubini, che farà tappa venerdì e sabato a Roccella Jonica con il Jova Beach Party - un lungo lavoro di monitoraggio e ricerca da parte del Wwf nazionale, che ha coordinato un team di tecnici ed esperti, ha scandagliato ogni metro quadro e valutato tutte le questioni perché tutto si svolgesse sempre in aree senza criticità ecologica di nessun tipo". 

"Io davvero, per quello che ho potuto verificare e fidandomi di gente esperta che ci affianca in questa avventura, non ho niente di cui pentirmi" sottolinea ancora l'artista, spiegando: "le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente" e che "non andiamo mai, nemmeno una volta, in luoghi dove c'è la possibilità di nidificazione del fratino o presenza di caretta caretta o altre specie animali o vegetali protette" e, anzi, che "la spiaggia di Lido di Fermo non é più 'naturale' di Hyde Park o del prato di San Siro". Per questo: "fare di JBP un bersaglio ecologista è semplicemente assurdo. Questa cupezza da santa inquisizione che qualcuno vuole infondere al tema ambientale usando JBP - conclude Jovanotti - è controproducente soprattutto per l'ambiente". Per questo il cantante invita il geologo Tozzi "a vedere di persona quello che facciamo".

Fioccano intanto le accuse su Twitter: "Sei Jovanotti e invece di proteggere le spiagge proteggi i tuoi tweet". Nuove accuse su Twitter, nei confronti del cantante, 3,7 milioni di follower, accusato di aver 'lucchettato' il suo profilo, rendendolo accessibile solo ai follower confermati. Quella di oggi è solo l'ultima polemica nei confronti dell'artista, accusato di distruggere l'ecosistema delle spiagge che ospitano i concerti del suo Jova Beach Party. Cherubini ha risposto ai suoi detrattori con una lunga diretta Instagram dal lido di Fermo, dando degli econazisti a chi lo critica e sottolineando che "il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente". Oltre 20mila persone hanno firmato su change.org, intanto, una petizione che dice 'No ai grandi eventi su spiagge e siti naturali', lanciata da associazioni ambientaliste e animaliste come Enpa, Lav, Marevivo Onlus e Sea Shepherd Italia.

"Voi econazisti dovete finirla...": la rabbia di Jovanotti. Francesca Galici il 5 Agosto 2022 su Il Giornale.

Dopo le polemiche, il cantante ha replicato a tutte le accuse che gli sono state mosse nelle ultime settimane per i Jova Beach Party

Dopo giorni di attacchi, Jovanotti ha deciso di replicare alle critiche per il suo Jova Beach Party che si avvia alla conclusione dopo un tour che ha toccato numerose spiagge in tutta la penisola. Il cantautore è stato molto chiaro nel suo intervento social: niente lavoro in nero al Jova Beach Party né greenwashing. Jovanotti non si è limitato a un post ma ha realizzato una diretta per i suoi follower per replicare punto per punto alle accuse che gli sono state mosse. Il cantante in questi giorni si trova a Fermo, dove domani salirà nuovamente sul palco, e ha voluto fare il punto con chiarezza sulla situazione, respingendo accuse e sospetti, dopo il blitz dell'ispettorato del lavoro di Ascoli Piceno. Questione già chiarita ieri, immediatamente dopo la diffusione della notizia.

Nel suo intervento replica anche a chi punta il dito sui rischi per l'ecosistema e non usa mezzi termini dopo settimane di attacchi: "Se voi, econazisti che non siete altro, volete continuare ad attrarre l'attenzione utilizzando la nostra forza, sono fatti vostri. Il nostro è un progetto fatto bene che tiene conto dell'ambiente". Lo sfogo di Jovanotti è duro e senza troppi giri di parole, arriva all'indomani della diffusione della notizia della sospensione dell'attività per quattro ditte coinvolte nel mega-evento, per la presunta presenza di 17 lavoratori coinvolti nel progetto che sarebbero stati non in regola. Già nella serata di ieri la Trident, la società che da sempre produce e organizza i live di Jovanotti, aveva smentito il lavoro nero, parlando di "inadempienze formali" peraltro subito sanate. Notizia, questa, che ha trovato scarso risalto in confronto a quella del lavoro nero.

Su questo punto, Jovanotti non transige: "Il lavoro nero per me è una piaga enorme, una cosa molto seria. Lavoro con la Trident e Salvadori dal 1988, e da allora abbiamo fatto tournée grandi e piccole, discoteche, locali, bar, stadi e non abbiamo mai avuto una contestazione sul piano della legge del lavoro. Ma so che siamo nell'occhio del ciclone: il Jova Beach porta grandi eventi in piccole realtà mettendo in moto il livore locale e micro vendette in qualche modo politiche". Insieme a Jovanotti, nella diretta c'era anche Maurizio Salvadori della Trident, che ha spiegato: "Si tratta di un'accusa veramente pesante, per chi cerca di lavorare sempre al meglio: non esiste lavoro nero al Jova Beach Party, può esistere qualche infrazione formale. Ci hanno dato 1400 euro di multa perché non avevamo transennato l'area del cantiere, in una parte mancava il nastro bianco e rosso, probabilmente si era strappato, e pagheremo". Quanto ai 17 lavoratori non in regola, "le tre società interessate hanno oblato in dodici ore, sono risultate in norma e stanno lavorando nel cantiere, anche i 17 lavoratori sono qui e stanno lavorando". Tutto chiarito, quindi, ma non per il cantante, che ha voluto buttare fuori tutta la rabbia accumulata nelle scorse settimane.

Jovanotti non esita a parlare di killeraggio nella diffusione della notizia, evidenziando una profonda ferita per quanto accaduto: "Sappiamo come funzionano certe notizie: un'agenzia che esce alle 19 è fatta apposta per non dare il tempo di replicare, è un modo per provare a farti male, una tecnica collaudatissima che si utilizza perché poi, il giorno dopo, quando i giornali sono usciti, la replica è una notizia data due volte". Jovanotti non le manda a dire anche a chi parla di greenwashing, accuse rilanciate da diverse associazioni ambientaliste tra cui Italia Nostra: "Il Jova Beach Party non mette un pericolo nessun ecosistema, non devastiamo niente, le spiagge non solo le ripuliamo, ma le portiamo a un livello migliore di come le troviamo. Il Jova Beach non è un progetto 'greenwash', parola che mi fa cagare così come mi fa schifo chi la pronuncia, perché è una parola finta, è un hashtag e gli hashtag sapete dove dovete metterveli".

(ANSA l'11 agosto 2022) - "Prima di tutto grazie Lorenzo per la tua risposta gentile e argomentata: questo nostro scambio è già un primo risultato. Stante la buona fede di entrambi, non avremo difficoltà ad intenderci di fronte a una birra, magari in spiaggia. Diversità di vedute ne abbiamo, ma questo è il bello dei sapiens. Ti auguro ogni bene, attendo un tuo invito".

Così il geologo Mario Tozzi risponde a Jovanotti, che ieri aveva pubblicato su facebook un lungo post dove aveva a sua volta risposto al divulgatore scientifico che, su 'La Stampa', gli aveva fatto notare che "concerti con 50mila persone non sono sostenibili da alcun sistema naturale". "Dove vuole Prof! L'aspetto!" la risposta a Tozzi di Jovanotti, che ieri aveva già invitato il geologo a uno dei suoi 'Jova beach party'.

Il dibattito. Jovanotti e le polemiche sui Jova Beach Party: gli ambientalisti econazisti, Mario Tozzi, il Fratino, le spiagge. Antonio Lamorte su Il Riformista l'11 Agosto 2022

L’ombelico del mondo della musica e dell’ambiente è diventato l’ombelico del mondo di una rissa senza esclusione di colpi: da una parte chi accusa l’altra di greenwashing, dall’altra chi accusa la prima di “econazismo”. E così il Jova Beach Party ha smesso di essere solo una festa con centinaia di migliaia di partecipanti a ballare sulle spiagge dal nord al sud dell’Italia per diventare terreno di scontro, frecciatine e accuse pesanti, autorizzazioni e morale, proteste e difese. Il tutto al tempo dei social e dell’impegno a favore dell’ambiente.

Il Jova Beach Party è alla sua seconda edizione: la prima nel 2019, si era chiusa con 100mila spettatori all’aeroporto Linate di Milano. 21 le date in tutta Italia, nel tour 2022, da inizio luglio fino a inizio settembre. Il primo dei 10 comandamenti del Party è: “Rispetta e difendi la spiaggia e il mare. Raccolta differenziata, no plastica, no cicche per terra”. E quindi le critiche ai concerti colpiscono al cuore un progetto che si basa nella musica e nell’ambiente, divertimento e tutela, ballo ed ecologia.

A partire da luglio si sono diffuse, per poi moltiplicarsi, le critiche contro l’evento. Influencer e associazioni non solo hanno criticato il Jova Beach Party ma lo hanno tacciato di Greenwashing, una definizione di eventi che indica iniziative che si danno un tono o si rivestono di una veste ambientalista ma che di ambientalista hanno poco anzi nulla. Le proteste hanno accusato il Party dell’uso delle lattine; di spianare le spiagge; di trasportarci sopra un enorme mole di materiale, tra palco e attrezzature, e di persone; di danneggiare aree naturali e le specie animali che ci vivono; di inquinamento acustico.

Last but not least, gli sponsor: Fonzies: che vende pacchetti di patatine in plastica; A2A: società di multiservizi che utilizza termovalorizzatori che gli ambientalisti chiamano inceneritori, Fileni: che gli ambientalisti accusano di allevamento intensivo – e Jovanotti da tempo si è dichiarato vegano. Le associazioni e gli influencer ecologisti criticano duramente l’artista per le scelte a loro dire incoerenti con il proposito e il progetto del Beach Party che aveva attirato critiche ancora prima di partire: l’alpinista Reinhold Messner già ad aprile 2019 criticava il concerto sul Plan de Corones, a 2275 metri di altitudine, che si sarebbe tenuto l’agosto di quell’anno. Fosse stato per lui, disse, l’avrebbe vietato. E non fu l’unico a esprimersi in questi termini. Lo stesso anno le critiche delle associazioni ambientaliste avevano messo al centro il Fratino, piccolo uccello che nidifica sulle spiagge europee, che sarebbe stato messo a loro dire in pericolo dal JBP. 

Dure, in questi giorni, e per esempio, anche le associazioni Lipu Calabria, Italia Nostra, Marevivo sezione Lamezia Terme e Rifiuti Zero Lamezia Terme secondo le quali “non esistono concerti ecosostenibili in spiagge o aree naturali, anzi”. Le due specie a rischio di estinzione, Fratino e Caretta Caretta, “per vivere e riprodursi hanno bisogno della spiaggia, non possono farne a meno, sulla spiaggia depongono le loro uova e lo fanno da migliaia di  anni, prima ancora che Jovanotti si inventasse questa ‘grande figata’  – fanno sapere le associazioni – Tutte le coste italiane, sabbiose o rocciose che siano, sono aree preziose per la biodiversità, d’estate subiscono una forte pressione antropica e i mega eventi in spiaggia, aggravano notevolmente la già precaria conservazione di questi siti, fonte di grave disturbo per la fauna selvatica”.

Il dibattito ha compiuto un ulteriore step negli ultimi giorni. Prima Jovanotti stesso si era sfogato con un video sui social – “Venite a vedere, è tutto in regola. Le spiagge non solo le ripuliamo, ma le riportiamo a un livello migliore di come le abbiamo trovate. Non è un progetto ‘greenwash’, una parola che mi fa schifo come chi la pronuncia. Siete eco-nazisti” – e dopo il geologo Mario Tozzi ha scritto un articolo in forma di lettera intitolato “Caro Jova stavolta sbagli” per il quotidiano La Stampa.

Il problema, ha scritto lo scienziato, “non sta nella manifestazione in sé, ma negli impatti, che, come si vede chiaramente nelle foto del JBP dall’alto, sono dirompenti, semplicemente per il numero di individui che vi partecipano: un conto sono cento persone, un altro cinquantamila. Un recente studio del Cnr ha stimato che, dalle spiagge del Parco Nazionale dell’Arcipelago di La Maddalena, ogni bagnante che passa una giornata al mare porta via con sé, volente o nolente, dai 50 ai 100 grammi di sabbia”. 

La lettera continua spiegando che il secondo elemento di critica è il luogo: “le linee di costa sono quanto di più delicato esista sul pianeta e sono compromesse soprattutto in Italia”. E sul WWF, che “si è fatto garante della mitigazione degli impatti, visto che tanto i comuni avrebbero comunque autorizzato gli eventi. Ma come membro del Consiglio Scientifico devo rivelarti che, insieme ad altri, avevo fatto presenti le mie perplessità”. Infine un elemento culturale, dannoso per l’ambiente, quello che porta pensare alla natura come modificabile a seconda delle esigenze dell’uomo.

Alla lunga lettera di Tozzi Jovanotti ha risposto con un’altra lunga lettera, pubblicata sulle colonne dello stesso quotidiano e sulla sua pagina Facebook. Ha rimandato al mittente tutte le critiche. “Le spiagge dove suoniamo sono luoghi popolari sempre pieni di gente (fosse per me la spiaggia di Budelli di cui tu scrivi e simili andrebbero proprio rese inavvicinabili , tipo gioconda al Louvre , guardare non toccare ). I ‘nostri’ sono luoghi urbanizzati, sono aree dove le ruspe ci passano quasi tutte le mattine da maggio a ottobre anche senza JovaBeach. Noi in più le curiamo bene e quando andiamo via sono meglio di come le abbiamo trovate. Non andiamo mai , nemmeno una volta, in luoghi dove c’è la possibilità di nidificazione del fratino o presenza di caretta caretta o altre specie animali o vegetali protette. A me il fratino sta a cuore, penso di essere uno dei tre italiani che ne conosceva l’esistenza prima del 2019 quando noi lo portammo agli onori delle cronache. Chi scrive frasi tipo ‘JBP distrugge ambienti naturali’ non ha mai prodotto nessuna prova a sostegno e non sa cos’è un ambiente naturale. Quando ho chiesto a WWF se era vero che per JBP avessimo spianato dune naturali mi hanno mostrato documenti che certificano che le dune naturali nelle spiagge dove suoniamo non ci sono più da decenni e spesso non ci sono mai state, e prima della costruzione di frangiflutti artificiali non c’era neanche la sabbia: la spiaggia di Lido di Fermo non é più ‘naturale’ di hyde park o del prato di San Siro”.

Gli “econazisti”, come li ha chiamati, dice di averli invitati a vedere senza che nessuno sia mai arrivato. “Fare di JBP un bersaglio ecologista è semplicemente assurdo, perché la verità è proprio che noi siamo la più grande iniziativa che parla di ambiente mai fatta in Italia. Nei prossimi mesi WWF con le finanze messe a disposizione da Intesa San Paolo realizzerà un progetto di pulizia e ripristino ecologico di 20 milioni di metri quadri di ambienti a rischio nel paese. Mi dovete bruciare in piazza perché io smetta di sostenere quello che ti sto dicendo : le nostre feste sono una bella cosa e fatta bene“. La corrispondenza si è conclusa con la promessa di un incontro tra Jovanotti e Tozzi. Non è detto che la polemica sia però chiusa.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Francesco Borgonovo per “la Verità” l'11 agosto 2022.

Gli ultimi due anni hanno confermato ciò che da tempo sospettavamo: una delle principali caratteristiche degli artisti italiani è il conformismo. Sono pochissimi ad avere il coraggio di prendere l'onda di petto, i più si limitano a seguire la corrente. Il governo decreta che tutti si devono barricare in casa?

Loro si prodigano a registrare video dal salotto grande più di un monolocale per assicurarsi che il popolo obbedisca. Il governo decide di imporre il green pass? Loro immediatamente s' accodano ad applaudire via social.

Quindi tutti si uniscono a sventolare bandiere ucraine, o a gridare contro il pericolo del fascismo di ritorno. E poi, ovviamente, c'è la battaglia più importante di tutte, quella che da decenni rapisce cuori e menti di ogni impegnato che si rispetti: la difesa dell'ambiente. Non c'è attore che non abbia fatto professione di fede green, da Alessandro Gassmann a Stefano Accorsi. 

Non c'è cantante che non si dichiari ecosostenibile, ecocompatibile e biodegradabile. Negli ultimi giorni c'è la fila a sottoscrivere l'appello sul clima sponsorizzato da Repubblica, che ha raccolto circa 130.000 firme: ogni mattina una nuova stella offre il proprio appoggio incondizionato. Si mettono tutti sulla scia, le celebrità, e se qualcuno si permette di pizzicarle notando qualche incoerenza - vedi il caso Jovanotti - vanno su tutte le furie e tirano fuori addirittura l'econazismo: perché va bene essere ecologisti, ma il verde che conta di più resta comunque quello dei biglietti da cento euro.

Il punto, infatti, non è che gli artisti non debbano schierarsi in difesa della natura, ci mancherebbe altro. 

A infastidire è la disponibilità all'appecoronamento che mostrano ogni volta, la necessità che avvertono di proferire banalità e di limitarsi alla superficie, affidandosi a pensierini precotti e massificati. Possibile che non ci sia qualcuno capace d'appassionarsi alle cause mostrando un minimo d'indipendenza di pensiero? (O, meglio, qualcuno c'è, ma è sempre il solito paio di anticonformisti, su tutti gli altri cala la notte).

Risulta tuttavia consolante sapere che - da qualche parte nel globo - esistano anche menti creative in grado di scavalcare la sceneggiatura stantia veicolata dal discorso dominante, dotate di quel minimo di curiosità e di fegato che consente di muoversi in territori leggermente meno esplorati. È il caso di Oliver Stone, mostro sacro del cinema vincitore di tre Oscar, quattro Golden Globe e una montagna di altri premi di ogni ordine e grado. Stone è noto da sempre per le posizioni radical. 

Alcuni dei suoi film più celebri - da Platoon a Wall Strett a Jfk - sono immersioni nel lato in ombra dell'America, roba che ha mandato in sollucchero generazioni di attivisti. Da qualche tempo, però, il regista non è più tanto gradito alla pletora di liberal che affolla Hollywood. Il fatto che abbia deciso di intervistare o raccontare alcuni dei principali supercattivi in circolazione (Hugo Chavez e Vladimir Putin, per dire) lo ha reso leggermente problematico per i produttori abituati alle tirate ambientaliste di Leonardo Di Caprio e di altri engagé col jet privato.

A peggiorare la situazione c'è il fatto che si sia schierato con tutte le forze dalla parte di Julian Assange, e che non abbia grande simpatia per beniamine della sinistra come Hillary Clinton (in una recente intervista con The Independent l'ha definita «un uomo»). Senza contare, inoltre, le feroci critiche che ha rivolto alla cosiddetta «cancel culture» tanto cara agli attivisti illuminati statunitensi: «La disprezzo», ha dichiarato il cineasta in una recente intervista. 

«Sono sicuro di essere stato cancellato da alcune persone per tutti i commenti che ho fatto. è come una caccia alle streghe. È terribile la censura americana in generale. L'America, poiché è un impero in declino, sulla difensiva, è diventata molto sensibile a qualsiasi critica.

Guardate cosa sta succedendo nel mondo con YouTube e i social media Twitter è il peggiore. Hanno messo al bando l'ex presidente degli Stati Uniti. È scioccante!». 

Non sorprende, viste le premesse, che anche la sua ultima opera non sta godendo della pubblicità che potrebbe meritare, e che otterrebbe se rientrasse nei canoni del moralmente corretto. Nelle prossime settimane, infatti, Stone sarà alla Mostra del cinema di Venezia e presenterà un documentario intitolato Nuclear.

Si tratta di un lavoro militante, come no, e anche profondamente ambientalista.

Ma - ecco la sorpresa - del tutto a favore dell'energia nucleare. «Ci lavoro da quasi due anni con l'enorme aiuto di Joshua Goldstein, coautore di A Bright Future», ha scritto il regista sul suo profilo Facebook. «Ormai, sono sicuro che sappiate che questo è un argomento a favore dell'energia nucleare come soluzione realistica delle difficoltà che ora affrontiamo nella produzione di energia pulita per la nostra esistenza qui sul pianeta Terra. Questa è un'energia che non solo salverà il pianeta ma ci permetterà di prosperare su di esso. E sebbene sia da tempo considerata pericolosa nella cultura popolare, è, di fatto, molto più sicura del carbone, del petrolio e del gas».

Il film durerà un'ora e quarantacinque minuti e si propone di smontare molte delle «meschine argomentazioni» utilizzate da chi contesta l'atomo per partito preso. Secondo Stone, infatti, sostenere le centrali è un gesto di grande rispetto per la natura e il creato. Egli è convinto che le energie rinnovabili funzionino, ma non bastino. «L'energia nucleare fornisce la risposta che l'eolico e l'energia solare semplicemente non possono fornire», dice Stone. «Entro vent' anni, gli Stati Uniti possono convertirsi, riducendo drasticamente i gas serra e decarbonizzando l'economia. Solo la paura ci trattiene». Ecco, la paura. 

Forse è proprio questa a spingere i nostri intellettuali verso la più smaccata sottomissione all'ovvietà regnante. Hanno paura di perdere i loro privilegi, e si rifugiano nelle confortanti braccia dell'obbedienza. Niente di inedito o troppo sconvolgente, per carità: per la ribellione, quella vera, serve un'altra tempra.

Il commercialista minacciato dai No Tav: "I magistrati rossi peggio dei centri sociali". Incriminato e assolto dopo anni. "Così speravano di bloccare i cantieri". Luca Fazzo l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

Incriminato, assolto dopo anni: nel frattempo vita, carriera, persino la salute rovinati. Quella di Michele Vigna commercialista a Torino, sembra una delle tante, ordinarie storie di malagiustizia di cui i tribunali italiani sono una fucina instancabile, e che sono uno dei nodi principali che il ministro Carlo Nordio sarà chiamato ad affrontare. Ma la storia di Vigna è particolare. Perché prima della Procura di Torino a metterlo nel mirino erano stati i militanti no-Tav, gli estremisti che si battono da anni contro la realizzazione dell'alta velocità ferroviaria in Valsusa. Dopo gli antagonisti, sono arrivati i pubblici ministeri: anche lì c'erano di mezzo i lavori della Tav. «E a me - racconta amaro oggi Vigna - hanno fatto molto più male i magistrati degli anarchici». E non è tutto. Perché dietro i guai di Vigna si muove sempre lo stesso gruppo di magistrati torinesi, tutti dell'area di Magistratura democratica, che nel corso degli anni hanno incriminato più chi si batteva per realizzare l'alta velocità che gli estremisti che attaccavano ripetutamente il cantiere di Chiomonte. Nume tutelare di questo gruppo di magistrati, uno dei fondatori di Md, Livio Pepino, che per anni ha fatto il pm a Torino e il cui figlio Daniele Pepino è un militante antagonista nonchè uno dei protagonisti della lotta contro la prosecuzione dei lavori per la Torino-Lione e animatore del «Controsservatorio Valsusa». Nel 2016 Pepino junior venne denunciato per furto dai carabinieri per avere prelevato da una libreria di Oulx undici libri, ovviamente sulla Tav; poi venne archiviato. «I miei guai - racconta Vigna - sono cominciati quando il presidente della sezione fallimentare di Torino mi propose la nomina a curatore della Italcoge, la società incaricata dei lavori per la Tav, che era andata in bancarotta. Lavoravo per il tribunale da decenni, avevo sessantaquattro procedure aperte, non avevo mai avuto problemi di alcun tipo, decisi di accettare anche sapendo che era un incarico un po' rognoso. Infatti pochi giorni dopo il mio nome era già sui manifesti affissi in Valsusa, e un avvocato dei Notav mi chiamò per dirmi: vedrà cosa le succederà.

A mettermi da subito nel mirino degli antagonisti era la mia scelta doverosa di continuare i lavori. Loro speravano che il fallimento della Italcoge segnasse lo stop dei cantieri, invece come curatore io avevo il dovere di garantire al meglio la continuità aziendale. Sapevo che rischiavo di finire nella lista nera dei centri sociali, i mezzi del cantiere che avevo in gestione venivano danneggiati e incendiati. Non immaginavo che avrei dovuto fare i conti più pesanti con la magistratura». Nel gennaio 2013 Vigna riceve un avviso di garanzia dalla Procura di Torino per interesse privato in atti d'ufficio, lo accusano di avere affidato a un poliziotto amico di un amico la vigilanza sui cantieri. In primo grado lo condannano a un anno e mezzo di carcere e ad altrettanta interdizione dalla professione. In appello la sentenza viene fatta a pezzi, i giudici scrivono che alle ruspe la vigilanza serviva davvero, e che la condanna in primo grado viola una sentenza della Corte Costituzionale. La botta è tale che la Procura rinuncia persino a ricorrere in Cassazione. Stessa sorte per il processo-bis per turbativa d'asta: condanna in primo grado, assoluzione in appello. Ma intanto intorno a Vigna si è fatto il vuoto. Il lavoro costruito per decenni è come se non ci fosse mai stato. Censura dall'ordine professionale, incarichi giudiziari azzerati. A gennaio di quest'anno il commercialista scrive al ministro della Giustizia Cartabia chiedendo l'avvio di un procedimento disciplinare contro i pm che lo hanno distrutto. La Cartabia non gli risponde neanche. Cosa farà adesso Nordio? Il nuovo ministro si trova sul tavolo non soltanto il caso di Vigna, ma anche il contesto che gli si muove dietro. Quello per cui a incriminare e a giudicare il commercialista della Valsusa sono gli stessi magistrati che firmavano opere insieme a Erri De Luca, lo scrittore che diceva: «è giusto sabotare la Tav».

Vicenza: le denunce si abbattono sul movimento No Tav. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 7 novembre 2022.

Il 18 ottobre scorso, un gruppo di cittadini è entrato nella sede del Comune di Vicenza per chiedere al sindaco di convocare un consiglio straordinario e discutere con i vicentini la questione della linea ferroviaria ad alta velocità in costruzione nella città. Durante l’occupazione sono stati esposti degli striscioni, con una parte dei cittadini che ha deciso di incatenarsi per protesta alla ringhiera delle scale interne. Il tutto senza esercitare alcuna violenza. Nelle ultime ore, 17 di loro sono stati denunciati dalla Digos per occupazione abusiva di edificio pubblico, reato per il quale si rischiano 2 anni di carcere. Per i lavori della Tav decine di famiglie vicentine hanno già ricevuto la notifica di esproprio della propria abitazione, con un preavviso di appena 18 mesi.

Il Progetto Av/Ac Verona-Padova 2° lotto “Attraversamento di Vicenza” prevede il raddoppio dei binari sulla linea Milano-Venezia, inclusi i tratti che attraversano il centro abitato della cittadina veneta. Per la realizzazione del piano per l’alta velocità sono previste diverse demolizioni abitative, soprattutto nei quartieri di San Lazzaro, San Felice e Ferrovieri, tra i più popolosi di Vicenza. Interi condomini da abbattere, per un totale di circa 62.316 metri quadri di superficie, e decine di famiglie che dovranno abbandonare le proprie case dietro indennizzo. L’opera andrà a modificare 6,2 chilometri di tratto con annessi interventi all’intera viabilità nella parte ovest della città, fino alla stazione ferroviaria nel centro storico. Gli abitanti contrari alla Tav hanno accusato l’amministrazione di non aver considerato, oltre all’opinione dei cittadini, l’impatto ambientale dell’opera e le ripercussioni su coloro che vivono nell’area interessata. In questo contesto s’inserisce la protesta degli attivisti in sede comunale, costata a 17 di loro la denuncia dalla Digos per occupazione abusiva di edificio pubblico. Il reato delineato dall’articolo 633 del Codice Penale viene generalmente contestato a coloro che, mediante l’occupazione, intendono prendere possesso del bene invaso in maniera duratura, comportandosi da proprietari. Un’ipotesi lontana dall’intento degli attivisti. [di Salvatore Toscano]

L’anarchica Dana intercettata mentre parla con… il gatto. Frank Cimini su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Alle ore 16,38 del 7 agosto 2020 in camera da letto per un minuto e 14 secondi Dana Lauriola parla con il gatto. A scriverlo è la Digos di Torino in una annotazione allegata agli atti dell’inchiesta sul centro sociale Askatasuna dove si contesta il reato di associazione sovversiva che poi il Riesame ha modificato in associazione per delinquere. Le difese degli indagati hanno presentato ricorso in Cassazione che sarà discusso nell’udienza del prossimo 24 novembre.

Dana Lauriola, già condannata a due anni di reclusione senza sospensione della pena (infatti è stata in galera) per aver usato il megafono durante una manifestazione in autostrada scrive su Facebook: “Intercettazioni nella mia camera da letto. La sintesi in fondo di questo audio ci restituisce la pericolosità del soggetto coinvolto. Se non facesse piangere farebbe molto ridere. Comunque, scherzi a parte, si tratta di una violazione così forte della propria intimità, è un qualcosa che non dovrebbe essere permesso. Ma a Torino, si sa, tutto è possibile”. A Torino va ricordato il bruciacchiamento di un compressore era stato trattato con riferimenti espliciti nero su bianco al pari del caso Moro. Accusa di terrorismo azzerata da Riesame e Cassazione. Ma intanto gli indagati si prendevano la scabbia in carcere. L’operazione era stata denominata dalla molto solerte Digos col termine “Sovrano”, alludendo a Giorgio Rossetto, uno dei leader del movimento contro il treno dell’alta velocità. “Ma secondo noi – chiosa un legale della difesa – il vero Sovrano è il gatto di Dana”.

Il gatto di Dana si chiama Tigro. Non si riesce a capire quali spunti investigativi abbia tratto la polizia dalla “conversazione” tra Dana Lauriola e il micio. E si fatica a comprendere quali motivi abbiano indotto la procura ad allegare agli atti dell’inchiesta l’annotazione della Digos. Bisognerebbe anche chiedere al Consiglio Superiore della magistratura se abbia qualcosa da dire sul comportamento dei magistrati che non depone sicuramente a favore del loro equilibrio mentale. Probabilmente più che andare in Cassazione il prossimo 24 novembre bisognerebbe rivolgersi a un medico, ma uno di quelli molto bravi, per dirimere la questione.

Al di là dei sorrisi amari che derivano da questa vicenda a dir poco allucinante andrebbe affrontato un problema concreto del quale sia la politica sia i mezzi di informazione non si vogliono occupare. Il fatto è che abbiamo in questo paese apparati antisovversione assolutamente spropositati e che costano un sacco di soldi (quanto pare impossibile sapere) rispetto alla bisogna. La ragione è essenzialmente la mancanza di materia prima. Tanto è vero che la stragrande maggioranza di questo tipo di indagine è da tempo di tipo preventivo. Con scarsi risultati perché dopo la galera gratis di molti indagati soprattutto anarchici poi fioccano le assoluzioni come recentemente a Roma per il caso Balystrok. Ma arrivare a intercettare un gatto appare francamente al di là del bene e del male.

Frank Cimini

"Guerriglia come in Kurdistan". Il dossier choc sui no Tav. La relazione della polizia inchioda gli antagonisti e parla di vera e propria "guerriglia". Nel report catalogati anche "gli ordigni esplosivi" e gli strumenti utilizzati negli attacchi al cantiere. Marco Leardi il 2 Agosto 2022 su Il giornale.

Petardi, bombe carta, "ordigni esplosivi" lanciati contro la polizia. Azioni mirate che negli anni si sono intensificate e affinate, assumendo i connotati di una vera e propria "guerriglia". Così, la mobilitazione contro la Tav in Valle di Susa è diventata "il principale terreno di scontro con lo Stato" da parte degli antagonisti. Lo scrive la stessa Digos in una relazione inviata all'autorità giudiziaria nell'ambito dell'inchiesta sul centro sociale Askatasuna, sfociata nei giorni scorsi nel rinvio a giudizio di 28 militanti. Nel loro report, le forze dell'ordine utilizzano espressioni chiarissime e inflessibili per descrivere le scene di violenza avvenute attorno ai cantieri della grande opera.

Nel corso del tempo - si legge infatti nella relazione di polizia - gli antagonisti hanno utilizzato "tecniche di guerriglia mutuate verosimilmente anche da altri territori di conflitto bellico (vedi il Kurdistan) e adattate al particolare contesto boschivo". Il dossier individua poi "gli ordigni esplosivi" e gli strumenti utilizzati nel corso degli attacchi al cantiere; tra di essi, anche un particolare dispositivo da lancio che per anni era stato un mistero per gli stessi investigatori. Il marchingegno in questione, soprannominato "sparapatate" dagli stessi attivisti No Tav, è stato definito dalla Digos "uno strumento artigianale equiparato a un'arma letale in grado di lanciare oggetti a lunga gittata a una velocità da proiettile".

Tale inquadramento, a quanto si apprende, è stato ottenuto dopo una serie di accertamenti tecnici effettuati nel tempo. Nel rapporto viene spiegato infatti che, "soprattutto negli anni fra il 2011 e il 2015", nel corso degli attacchi al cantiere del Tav "venivano riscontrati lanci di oggetti verso le forze di polizia di cui non si riusciva a capire da dove provenissero". A fare maggior chiarezza sul misterioso oggetto utilizzato dagli antagonisti sarebbe stata un'intercettazione del 4 maggio 2020. Nella conversazione, un militante di Askatasuna spiegava che il cosiddetto "sparapatate" era stato portato da "un tipo strano che veniva al campeggio, arrivava, parcheggiava lontano, scendeva a piedi nel bosco e stava sempre bardato".

Il dossier stilato dalla Digos evidenzia anche l'interesse degli attivisti verso il confezionamento di ordigni fai da te come il "tubo bomba". Tale oggetto, secondo quanto spiegato da uno degli indagati ai compagni, "è usato in Nicaragua, si mette un petardino o un petardone insieme a una biglia". E poi si colpisce. Nei giorni scorsi la situazione in Val di Susa era tornata a farsi rovente e non certo per le temperature estive. A San Didero, nel torinese, erano scattati nuovi scontri tra i manifestanti contrari al Tav e la polizia. Alcuni attivisti con il volto travisato avevano scagliato pietre e bombe carta contro gli agenti.

A quanto si apprende, tra i promotori della protesta ci sarebbe stato proprio il centro sociale torinese già al centro di una maxi-inchiesta.

L’ESTREMA DESTRA E IL CLIMA. Sotto l’«ecologismo» di Giorgia Meloni ci sono i vecchi fossili e la patria. FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 28 luglio 2022

I temi ambientali sono ormai ineludibili, così come la mobilitazione delle nuove generazioni per il clima. Perciò Giorgia Meloni usa la bandiera dell’«ecologismo conservatore», con figure di riferimento come Roger Scruton, per rubare questo campo alla sinistra. Gli attacchi a Greta Thunberg e ai Fridays sono violenti, FdI si scaglia contro l’ambientalismo e vi oppone il suo «ecologismo» come difesa del territorio.

In realtà l’armamentario ideologico meloniano è quello di un tempo: Dio, patria e famiglia. L’ambiente è «il creato», l’ecologia è difesa del suolo patrio, e «se difendiamo i cuccioli di animali allora perché non i cuccioli di donna?», dice alludendo al tema antiabortista l’eurodeputato Procaccini, referente Ambiente del partito, e attualmente indagato.

Come mostrano i voti in Ue, più che il clima, Fratelli d’Italia difende in realtà combustibili fossili e imprese. Dietro il volontarismo e l’approccio locale, che Scruton appuntava nella sua strategia «conservatrice», c’è l’idea che nessuna iniziativa dall’alto debba mettere un freno alle attività predatorie dell’uomo e del mercato. Si comincia dalla difesa della caccia. Si arriva fino all’eliminazione di ogni briglia e di ogni tassa alle imprese inquinanti.

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.  

C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali

Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.

Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.

Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.

L'emergenza nella capitale. L’emergenza rifiuti di Roma colpa dei 5 Stelle che hanno detto no a tutto. Corrado Clini su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

Nel marzo 2012 Mario Monti mi chiese di “prendere in mano” l’emergenza dei rifiuti a Roma, anche per bloccare una rovinosa procedura di infrazione aperta il 17 giugno 2011 e la conseguente condanna da parte dell’Europa, che avrebbe avuto importanti effetti economici e politici. Il prefetto di Roma Pecoraro, nominato commissario per l’emergenza rifiuti dal Governo precedente, aveva individuato come soluzione la realizzazione di una nuova megadiscarica a Corcolle, in prossimità di Villa Adriana, in contrasto con le direttive europee e le stesse norme nazionali, oltrechè con il buon senso. Infatti la direttiva europea 1999/31 aveva stabilito gli obiettivi e la tempistica per la progressiva riduzione dell’uso delle discariche e la contestuale promozione del recupero di materia ed energia.

Mentre il sito prescelto, in piena area Unesco, era uno schiaffo agli impegni per la conservazione del patrimonio artistico. Mi sono assunto la responsabilità di bloccare la realizzazione della nuova discarica, e dopo un lungo negoziato, il 4 agosto 2012 ero riuscito ad ottenere la convergenza di Regione, Provincia e Comune, sul “Patto per Roma”, che impegnava tutti i firmatari a realizzare

-entro la fine del 2014, il 65% di raccolta differenziata con il recupero e riciclo di materia;

-la riqualificazione dei Tmb della Regione, con l’obiettivo di assicurare almeno il 35% di produzione di combustibile solido secondario (CSS);

-il completamento dell’autorizzazione regionale, bloccata da anni, degli impianti per il trattamento dei rifiuti di Roma e del Lazio;

-la chiusura di Malagrotta, e l’individuazione di una discarica di servizio per i soli residui marginali (non più del 20% dei rifiuti trattati).

-Il patto, sottoscritto anche dai consorzi obbligatori (Conai, Corepla e Comieco) da Acea, Ama, e dalle imprese che facevano capo a Cerroni (E.Giovi e Colari), era diventato norma con due decreti del 7 gennaio e 25 marzo 2013. Pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

I decreti non sono mai stati attuati, ed è singolare che né i Governi né la Magistratura abbiano mai chiesto al Comune ed alla Regione le motivazioni della non applicazione dei decreti, né tantomeno abbiano rilevato le spese sostenute per il trasferimento dei rifiuti in altre Regioni o all’estero, con un costo stimato attorno a 2 miliardi di euro. Ricordo che l’allora ministro Sergio Costa, voce governativa dell’Italia del No, aveva dichiarato nel dicembre 2020 che «non c’è un’emergenza rifiuti a Roma, ma uno stato di sofferenza che già da domani mattina dovrebbe trovare soluzione». L’incendio di Malagrotta ha reso evidente una situazione già insostenibile, ben rappresentata dai cinghiali urbani. Il sindaco ha deciso la costruzione di un termovalorizzatore, ma i tempi di realizzazione sono molto incerti mentre il Giubileo è alle porte.

Nel frattempo l’emergenza rifiuti di Roma si intreccia con la crisi energetica, e con la decisione di riavviare le centrali a carbone già destinate alla chiusura. Nell’emergenza assume un ruolo strategico il combustibile solido secondario Css, perché consente di ridurre il consumo di combustibili fossili di importazione, e assicura il recupero di quantità rilevanti di rifiuti altrimenti destinati all’esportazione da Roma verso altre regioni e all’estero. Le caratteristiche del Css sono stabilite con un decreto del 14 febbraio 2013, che ha fissato standard di produzione e di impiego molto più stringenti delle norme europee, in particolare con limiti molto rigorosi per il contenuto di cloro e mercurio, e per i metalli pesanti (arsenico, cadmio, cromo, nichel, piombo).

L’impiego di Css consente una sostituzione del carbone nelle centrali termoelettriche fino al 20%, e del pet-coke/polverino di carbone nei cementifici fino al 70%, con effetti significativi sull’efficienza del processo di produzione, sulla riduzione delle emissioni, sull’importazione di fonti energetiche primarie. Questa è l’esperienza europea.

L’Italia del No ha contestato per anni l’impiego del Css e il “decreto Clini”, raccontando che i cementifici e le centrali diventavano inceneritori. Ma il Css non è un rifiuto, è un combustibile “end of waste” alternativo ai combustibili fossili, come previsto dalle regole europee. E tuttavia ci sono voluti 8 anni perché il Tar e il Consiglio di Stato confermassero che “l’impiego del Css risulta conforme alle politiche europee per la creazione e promozione dell’economia circolare, nel pieno rispetto della gerarchia europea dei rifiuti”. Di conseguenza il decreto “semplificazioni bis “ ha stabilito che l’impiego del Css negli impianti già autorizzati per la produzione di cemento ed elettricità non è una “modifica sostanziale” e dunque non richiede una procedura autorizzativa con la valutazione di impatto ambientale.

Se a Roma fosse stato prodotto – come previsto dal Patto per Roma – CSS in quantità pari al 35% dei rifiuti urbani trattati (circa 700.000 tonnellate/anno) destinato ai cementifici ed alle centrali termoelettriche della Regione, avremmo ottenuto molteplici risultati ambientali ed economici. Assumendo come riferimento lo standard di sostituzione del pet-coke/polverino di carbone nella stessa percentuale della Germania (66%), l’impiego nelle cementerie di Guidonia e Colleferro di circa 250.000 tonnellate/anno di CSS, avrebbe consentito una riduzione

-delle emissioni di CO2 pari ad almeno 850.000/tonnellate/anno, con un risparmio sulla tassa di carbonio applicata dal sistema ETS dell’Unione Europea pari, ad oggi, tra 55 e 65 milioni€/anno;

-del costo di trasporto e smaltimento dei rifiuti di Roma nelle altre Regioni o all’estero per almeno 50 milioni€/anno;

-del costo di approvvigionamento di pet-coke/polverino di carbone per almeno 25 milioni€/anno.

Assumendo come riferimento il tasso minimo di sostituzione del carbone nella centrale Enel di Fusina-Venezia (5-10%), la centrale Enel di Civitavecchia avrebbe potuto impiegare 450.000 tonnellate/anno di Css, con la riduzione

-delle emissioni di CO2 pari ad almeno 1.600.000/tonnellate/anno, con un risparmio sulla tassa di carbonio applicata dal sistema ETS dell’Unione Europea pari, ad oggi, tra 105 e 125 milioni€/anno;

-del costo di trasporto e smaltimento dei rifiuti di Roma nelle altre Regioni o all’estero per almeno 90 milioni€/anno;

-del costo di approvvigionamento di carbone per almeno 45 milioni€/anno.

In attesa del termovalorizzatore, per “pulire” Roma in vista del Giubileo, per ridurre i costi e migliorare la qualità dell’ambiente, il Css è una risorsa strategica. Facciamo ora e subito quello che non abbiamo fatto negli ultimi 8 anni, applicando quanto previsto dalle direttive europee e dal decreto ”semplificazioni bis” del 2021. Corrado Clini

Populismo capitale. Il niet di Giuseppe Conte sul termovalorizzatore è un pericolo per Roma e per l’Italia. Mario Lavia su L'Inkiesta l'11 Luglio 2022.

In vista di future alleanze, il Pd deve prendere atto che la scelta dell’ex avvocato del popolo è in sintonia, senz’altro involontaria ma oggettiva, con soggetti opacissimi e fuorilegge che non vogliono mollare la miniera d’oro della monnezza. E che quindi, come dice Calenda, il M5s è un rischio per la sicurezza del Paese

Ci ha messo ventiquattr’ore ma alla fine abbiamo visto e sentito il sindaco di Roma in tv, un paio di minuti al Tg1 ieri sera. Meglio di niente. Roberto Gualtieri, dunque, è vivo e lotta insieme a noi e anzi ha detto una cosa molto importante confermando il massimo impegno per il termovalorizzatore che può salvare Roma. La (tardiva) apparizione televisiva del sindaco non tranquillizza molto: faremo, vedremo…

Comunque è stato proprio l’annuncio del termovalorizzatore dato settimane fa da Gualtieri ad aver scatenato una reazione gangsteristica da Chicago anni Venti: i governanti della Roma post-Raggi, dunque il Pd, ne sono convinti. Ci sono delle indagini in corso sul tremendo incendio di sabato scorso a Centocelle, popolare e grosso quartiere a sud-est. E c’erano già state le fiamme al Pineto-Valle Aurelia, a nord, e l’incendio dell’ex discarica di Malagrotta, il primo segnale che tra l’altro ha fatto decuplicare i sacchetti della mondezza non raccolti.

Saremmo dunque a una “mani sulla città” con protagonisti non i palazzinari della Napoli di Francesco Rosi ma forze occulte e opacissime che non vogliono mollare la miniera d’oro dei rifiuti. Se così fosse, Roma sarebbe under attack come mai prima d’ora. Una roba da chiamare la città alla vigilanza e alla mobilitazione, come si diceva una volta.

Il problema è: chi lo fa? Il sindaco c’è, ma certamente si sarebbe dovuto far vedere sabato sera in tv in maniche di camicia a dirigere le operazioni insieme ai vigili del fuoco e a parlare con i cittadini come avrebbero sicuramente fatto Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Ignazio Marino e, a suo modo, Gianni Alemanno (l’aliena Virginia Raggi magari no): sarebbero stati sul campo, avrebbero rilasciato decine di interviste a tv e giornali, avrebbero spiegato ai romani la situazione.

Ma, a parte i limiti e i problemi comunicativi di Roberto Gualtieri, qui c’è una questione politica molto seria che riguarda il Pd e il governo. Che è appunto la decisione sul termovalorizzatore che salverebbe la Capitale consentendo di gestire la metà dei rifiuti prodotti ogni giorno e producendo nuova energia, una scelta sulla quale si è abbattuto il no di Giuseppe Conte, che l’ha addirittura inserito tra le “condizioni” per restare al governo.

L’avvocato del popolo, con il fiato della Raggi sul collo, così rischia di diventare l’avvocato di chi sta appiccando i roghi o comunque di chi ha interesse a che le cose non cambino. La norma sul termovalorizzatore è inserita nel decreto “Aiuti” passato con la fiducia alla Camera e che verrà approvato sempre con la fiducia giovedì al Senato, con il M5s che dovrebbe uscire dall’aula consentendo che la fiducia passi ma senza la sua firma. Insomma, i grillini guidati dall’ex premier Conte, che aveva proprio Gualtieri come suo ministro dell’Economia (e che fregava a quest’ultimo i progetti, intestandoseli nelle orride conferenze stampa casalinesche), sono esattamente i nemici della soluzione che salverebbe la Capitale d’Italia e in questo senso è difficile dar torto a Carlo Calenda quando dice che «il M5s è un pericolo per la sicurezza del Paese».

Qui emerge in chiaro una contraddizione non tra le minori di questa fase: possono Mario Draghi e Enrico Letta tollerare un niet dell’azzeccagarbugli foggiano su una misura di enorme importanza, e davvero di salute pubblica, come questa? Può, il segretario del Pd, immaginare ancora un’alleanza con chi sabota l’interesse pubblico in oggettiva sintonia con soggetti opacissimi e fuorilegge? È chiaro che nessuna mediazione è possibile. Sarebbe come fare un regalo alle gang di Roma. Non è esattamente quello che ci si attende dal “campo largo”.

Lo smaltimento degli altri. Sul termovalorizzatore, la Cgil riesce a battere Conte in populismo. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.

Per rifiutare il progetto, Michele Azzola, segretario del sindacato nel Lazio, si lancia in un volo pindarico in cui propone come soluzione (temporanea) di affidare i rifiuti alla bolognese Hera, dimenticandosi però di dire che questa un impianto ce l’ha e lo usa

Mario Lavia denuncia nel suo articolo (“Populismo Capitale – Il niet di Giuseppe Conte sul termovalorizzatore è un pericolo per Roma e per l’Italia”) la grave situazione della Capitale d’Italia, meta di milioni di turisti (finalmente tornati numerosi dopo la fase più acuta della pandemia), ora soffocata dai rifiuti divenuti “orrido pasto” di mandrie di cinghiali e di sorci, di sciami di gabbiani da combattimento.

Così, a proposito della costruzione di un termovalorizzatore dalla quale dipende la stessa tenuta del governo – scrive Lavia: «I grillini guidati dall’ex premier Conte, che aveva proprio Gualtieri come suo ministro dell’Economia (e che fregava a quest’ultimo i progetti, intestandoseli nelle orride conferenze stampa casalinesche), sono esattamente i nemici della soluzione che salverebbe la Capitale d’Italia e in questo senso è difficile dar torto a Carlo Calenda quando dice che “Il M5s è un pericolo per la sicurezza del Paese”. Di conseguenza – sostiene Lavia – Qui emerge in chiaro una contraddizione non tra le minori di questa fase: possono Mario Draghi e Enrico Letta tollerare un niet dell’azzeccagarbugli foggiano su una misura di enorme importanza, e davvero di salute pubblica, come questa? Può, il segretario del Pd, immaginare ancora un’alleanza con chi sabota l’interesse pubblico in oggettiva sintonia con soggetti opacissimi e fuorilegge? È chiaro che nessuna mediazione è possibile».

Tutto condivisibile. Ma per rappresentare compiutamente le difficoltà di Roberto Gualtieri è bene conoscere un altro aspetto del dibattito sul termovalorizzatore. A Roma Conte ha un altro alleato “oggettivo”, ovvero contrario al progetto del sindaco, sia pure con motivazioni diverse (che tuttavia si sintetizzano sempre in un diniego) da quelle del M5S. Si tratta, niente meno, della Cgil del Lazio e di Roma. Basta andare a rileggere un’intervista (non smentita né successivamente modificata) di Michele Azzola, segretario di ambedue le strutture della regione e del capoluogo.

L’intervista (del 6 maggio) segue a pochi giorni di distanza l’annuncio di Gualtieri ed è stata rilasciata a Nunzia Penelope su Il Diario del Lavoro. Azzola è una persona colta, di esperienza; ciò lo rende consapevole della delicatezza di una posizione che potrebbe apparire (è difficile che non avvenga) filo-grillina. Si sforza quindi di prendere le distanze dal M5S, dichiarando più volte che la Cgil non ha alcun pregiudizio ideologico contro i termovalorizzatori (più o meno come, a suo tempo, con riguardo al green pass).

Il problema è un altro: per spiegarne le motivazioni Azzola si lancia in un volo pindarico sul piano tecnico che lascia tutti a bocca aperta. Perché nessuno si aspetterebbe uno scienziato alla guida di un sindacato, per quanto importante. Ma perché la Cgil è contraria (il che non è un problema da poco per il Pd, anche se non esiste più la cinghia di trasmissione)? «Intanto perché il Comune punta su un modello di impianto vecchio. Vent’anni fa lo avrei approvato subito, oggi è superato. Bruciando tutto indistintamente, come avverrebbe col nuovo termovalorizzatore, si azzera la gerarchia dei rifiuti, quella che ci raccomanda l’Europa, e che si basa su prevenzione, riuso, riciclo, termovalorizzatore e discarica, in quest’ordine. Ma se per i prossimi vent’anni si getterà nel termovalorizzatore il contenuto tal quale del cassonetto, le prime tre voci perderebbero senso, e la stessa raccolta differenziata non farebbe passi avanti. Senza contare le emissioni di Co2 causate dal termovalorizzatore». E quindi, che cosa dovrebbero aspettarsi i cittadini romani? «Qualunque soluzione ha bisogno di tempo, e del resto anche il termovalorizzatore dubito sarà pronto in due anni e mezzo, ce ne vorranno almeno quattro. Quindi ci sarà un’altra deroga da parte del governo, che consentirà alla spazzatura romana di essere esportata, magari in Emilia Romagna, e poi magari ci penserà Hera a smaltirla. In questo modo passeremo indenni il Giubileo, ma il problema della spazzatura a Roma non sarà certo risolto».

Già, Hera la multi-utility del Comune di Bologna, che serve anche altri Comuni della regione. Da anni, quando l’amministrazione di palazzo d’Accursio ha bisogno di risorse, immette sui mercati finanziari, dove Hera è quotata, un pacchetto di azioni (senza mai rinunciare alla maggioranza) che di solito vanno a ruba. Il contrario di quanto succede a Roma. Hera, però, si avvale di un termovalorizzatore in funzione da decenni e a Bologna nessuno trova da ridire.

Il compagno Azzola è uomo di mondo e sa che il meglio è nemico del bene, e che non è serio liberarsi del problema dei rifiuti con gli inceneritori degli altri. Ecco perché – se fosse informato – Giuseppe Conte potrebbe dire a chi lo critica: «Populista a me? Rivolgetevi alla Cgil». E non avrebbe tutti i torti, perché, a compiere un esame serio dei nove punti del documento che Conte ha presentato a Mario Draghi, si troverebbero parecchie rivendicazioni in comune con la stessa Cgil.

Il Consiglio di Stato boccia il sindaco di Bari sul termovalorizzatore. Annarita Digiorgio il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016.

Il Consiglio di Stato ha rigettato il ricorso del Sindaco di Bari Antonio Decaro contro la realizzazione del termovalorizzatore Newo il cui iter autorizzativo era stato presentato nel 2016. Eppure proprio Decaro due giorni fa sul palco della kermesse organizzata da Nicola Porro lamentava l'accoglimento del Tar dei ricorsi dei comitati contro i progetti del Pnrr, poi velocizzati con un decreto del governo Draghi. Contrario anche il governatore Emiliano, che in un tweet scriveva: «Sono contrario all'impianto Ossicombustione di Modugno e alla sua realizzazione che stiamo cercando di scoraggiare in ogni modo». Eppure la Puglia ne ha estremo bisogno: da settimane gli impianti sono saturi e costretti a rallentare il conferimento dei rifiuti per il sottodimensionamento dei termovalorizzatori pugliesi, e a ogni emergenza Michele Emiliano emana un'ordinanza contigibile e urgente per mandare il css in discarica invece di recuperarlo a energia.

Gli unici due termovalorizzatori furono realizzati dalla giunta Fitto. Mentre continuano a farla da padrone le discariche, che accolgono persino i rifiuti di Roma. Per questo sarebbe utilissimo il termovalorizzatore di Bari, osteggiato da tutti i sindaci della zona, compreso il draghiano Decaro, uno dei primi ad aver firmato l'appello per spingere il premier a restare al governo. Che si è dimesso proprio per le proteste di Conte contro il termovalorizzatore di Roma.

Tra l'altro quello di Bari è un progetto a ossicombustione, ovvero senza fiamma, che consente la cattura e lo stoccaggio dell'anidride carbonica con meno emissioni: è il modello preso a riferimento da Beppe Grillo e Virginia Raggi per Roma. E invece cosi ha commentato ieri Decaro la sentenza del Consiglio di Stato: «Ho chiesto ai legali di convocare una riunione con tutte le parti che come noi si sono opposte al provvedimento. Insieme valuteremo compiutamente gli effetti della sentenza e le azioni da intraprendere». Farà dimettere il prossimo governo

Roma, l'ecologista blocca il Gra e il camionista lo brutalizza: "Ti sfondo". Libero Quotidiano l'01 luglio 2022

Una nuova azione di protesta ha smosso degli attivisti di Ultima Generazione sul Grande Raccordo Anulare di Roma. Gli ambientalisti hanno bloccato per l'ennesima volta il traffico e in questa occasione l'hanno fatto all'altezza di via Portuense. Il motivo? Volevano bloccare il Gra per farsi ascoltare dal Governo affinché fermi la riapertura delle centrali a carbone.

"Sappiamo di creare conflittualità sociale ma continueremo a bloccare il Gra finché il governo non ascolterà le nostre istanze: bloccare la riapertura delle centrali a carbone e lo sblocco di 20 gigawatt di fonti rinnovabili in Italia": urlavano gli attivisti di fronte agli automobilisti infuriati in coda da ore.  

Proprio gli autisti, esausti di questa scena, hanno tentato in tutti i modi di spostare gli attivisti, prendendoli addirittura di peso. La situazione si è sbloccata solo quando sono arrivate le forze dell'ordine che hanno sgomberato il Grande Raccordo Anulare dopo una buona mezz'ora, solo allora il traffico è ritornato scorrevole. Stesso copione delle scorse settimane, dove la tensione era ancora più palpabile. In questa occasione, gli attivisti avevano spiegato a FanPage.it: "Sono piuttosto spaventata dalla possibilità che ci sia un futuro invivibile per me e le prossime generazioni un futuro senza cibo e acqua significa violenza. Ci saranno altre guerre, altre migrazioni. È incredibile che i governi non stiano facendo nulla e continuino a investire nel fossile, sapendo che c'è un'emergenza. Lo dicono gli scienziati e lo stiamo vedendo con i nostri occhi. A me fa impressione che non siano spaventati e pensino solo al profitto e non alla vita delle persone".

La piaga del "noismo". Francesco Maria Del Vigo il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.

C'è una pericolosa ideologia che, da decenni, paralizza il corpaccione malandato della nostra Italia. È il "noismo".

C'è una pericolosa ideologia che, da decenni, paralizza il corpaccione malandato della nostra Italia. È un «ismo» e no, non stiamo parlando né di fascismo né di comunismo, ma del «noismo». Cioè la folle ossessione al boicottaggio, il riflesso condizionato che fa partire - come il calcio dopo la martellata del medico sul ginocchio - sempre e comunque un «no». No alla Tav, alla Tap, ai rigassificatori, al nucleare, al taglio del cuneo fiscale, alla riforma della giustizia. No a tutto, specialmente all'intelligenza, a giudicare dagli effetti di questa non cultura sulla nostra economia. Badate bene, il «noismo», nella sua totale avversione ad ogni forma di cambiamento, non ha nulla a che vedere con il conservatorismo. È, anzi, una forma di sclerotizzazione della politica. La paura ossessiva del cambiamento. Una coazione a ripetere, ampiamente annaffiata dall'ideologia grillina della decrescita felice e dalla sinistra più paranoica che, purtroppo, ha attecchito anche altrove. Basti pensare al caso del rigassificatore di Piombino e all'ostracismo di una parte del centrodestra. Perché l'Italia è il Paese dei mille campanili e dei centomila cortili, nei quali, come è noto, nessuno vuole far passare mai un tubo (nel senso idraulico del termine), un binario o un traliccio. Così l'Italia cortilizzata finisce per rimanere paralizzata.

Ieri, in ordine sparso, Salvini, Giorgetti e Bonomi hanno attaccato il sistema del «noismo». Il leader della Lega ha provocatoriamente detto che si metterebbe una centrale nucleare sotto casa; il ministro dello Sviluppo economico ha ricordato, per l'appunto, che non è il momento dei «no» pregiudiziali e il presidente di Confindustria ha spronato il governo a fare le riforme e tagliare il cuneo fiscale, non tra un mese, ma domani. Temiamo che molti di questi appelli siano destinati a cadere nel vuoto. La politica fa tanto baccano quando si tratta di operazioni ideologiche e di bandiera, che di solito interessano pochi (vedi Ius Soli e ddl Zan), e poi diviene silente e bizantina quando è necessario prendere provvedimenti che riguardano i più. Una iattura in tempo di pace, una catastrofe durante una guerra. E, proprio il conflitto, ha evidenziato quanti siano maiuscoli i danni che la (non) cultura di chi boicotta tutto ha inflitto a questo Paese. Dalle colonne di questo Giornale abbiamo sempre sostenuto grandi opere e riforme - dalla Tav, al Fisco fino alla giustizia - necessarie per far ripartire l'Italia. Ma ora diciamo un chiaro e netto no agli alfieri del No. È il momento del cambiamento, non dei sabotatori.

Mattia Feltri per “la Stampa” il 21 giugno 2022.

Da qualche giorno gli ambientalisti - per la precisione cinque o sei ragazzi fortemente preoccupati dai cambiamenti climatici - hanno preso la consuetudine bloccare il Grande raccordo anulare di Roma per sensibilizzare il popolo sul futuro del pianeta. Lo hanno fatto la scorsa settimana e di nuovo ieri. Sarò io, con l'animo ormai arido come un fiume in quest' estate, ma le scene mi paiono comiche anziché drammatiche.

Già sventolare davanti agli automobilisti uno striscione in cui si invoca lo stop all'estrazione di gas e petrolio, in un Paese che non ne estrae, e per la sua dipendenza dalla Russia paga la benzina quanto il barolo, non mi sembra la più brillante delle idee. Né mi sembra una trovata geniale conquistare le simpatie dei pendolari del Gra, spesso paralizzato per il traffico, paralizzandolo per un'idea, sebbene nobile.

E infatti di simpatie ne conquistano poche. Ieri un motociclista si è messo di impegno nel tentativo di illustrare a un manifestante il dubbio che l'iniziativa non fosse centratissima e, dopo quattro minuti di serrato ma pacifico dibattito, il motociclista ha virato sulla franchezza: «Mo' m' hai rotto er cazzo».

Vi consiglio anche il video in cui si vede un camionista trascinare i ragazzi sul ciglio della strada nel vano tentativo di aprirsi un varco: i ragazzi si sono dichiarati non violenti e hanno invitato a non ricorrere alla violenza. E il cerchio si è chiuso perché poco mi pare violento come impedire agli altri di andare al lavoro, da un parente, a fare la spesa, e inchiodarli in colonna nella presunzione di avere in testa qualcosa di meglio di quello che c'è nelle teste loro.

Da Eni spengono i timori sulla crisi del gas: “Niente paura”. Pronta la soluzione. Pietro De Leo su Il Tempo il 20 giugno 2022

Tempi liquidi, questi, dove la straordinarietà dei fatti e delle dinamiche sottopone i partiti a stress culturale, prese di posizione spesso inedite e ribaltamenti della storia. A volte basta un singolo caso per costruire nero su bianco veri e propri casi di scuola. Ad esempio, il caso Piombino. A largo della città portuale toscana, infatti, il governo ha in programma di piazzare un rigassificatore galleggiante che dovrebbe lavorare una quota di gas liquido acquistato all'estero nell'obiettivo di svincolarci dalla Russia (anche se negli ultimi giorni il racconto è un po' cambiato, visto che Mosca ci sta tagliando le forniture). E da lì si è innescato un certo bailamme politico, con una manifestazione locale, contraria all'arrivo del rigassificatore, che si è svolta sabato.

Sul fronte del No, per esempio, è schierato il sindaco Francesco Ferrari, aderente a Fratelli d'Italia, un partito che, però, nel suo messaggio politico ha proprio la respinta di quell'ambientalismo del no a tutto che ha contribuito, in questi anni, a renderci dipendenti sul piano energetico. Ferrari dibatte da settimane con Eugenio Giani, presidente della Regione Toscana e per il caso specifico commissario per il rigassificatore. Piccola nemesi anche per lui, visto che nel 2015 aderì alla mozione regionale dell'allora governatore Enrico Rossi, figura che ha sempre orgogliosamente rappresentato quella quota di Pd molto orientata a sinistra, dunque anche all'ambientalismo. Sfumature, forse. Ma una conversione in corsa riguarda invece il Movimento 5 Stelle. L'altro ieri, infatti, nel dibattito attorno alle proteste si notava un comunicato stampa del deputato Francesco Berti. «La nostra sicurezza energetica nazionale passa da Piombino - esordiva - Se vogliamo davvero rompere le catene che ci legano alle forniture di gas russo abbiamo bisogno del rigassificatore» sulle acque della città toscana «e non ci sono alternative». E poi aggiungeva: «una cosa è sicura: renderci indipendenti dalle forniture russe è una priorità».

E meno male che anche i pentastellati, no-triv, no-tap, sempre presenti in ogni comitato per il no su qualsiasi fonte energetica si sono convertiti sulla via di Damasco prima della definitiva condanna di tutti noi all'utilizzo delle candele. Poi c'è il caso Lega. Dove addirittura ci sono due sottosegretari sui due opposti lati della contesa. Gian Marco Centinaio, in forza alle Politiche agricole, è preoccupato che la struttura galleggiante non sia di ultima generazione, e dunque finisca per scaricare cloro in mare e danneggiare il comparto ittico locale. La collega Vannia Gava, leghista anche lei e sottosegretaria allo Sviluppo economico, prova a rassicurare: «La nave 2015 che sarà presto operativa del Porto di Piombino ospita un rigassificatore di ultima generazione, sicuro e a bassissimo impatto come si evince anche da studi scientifici fatti a priori». Da ultimo, il ministro della transizione ecologica Cingolani, che a Il Tirreno la butta giù chiara: «Senza questa soluzione» l'effetto sarebbe «staccare la luce e chiudere le fabbriche d'Italia». Abbandonati, d'un colpo, i toni tranquillizzanti sulle forniture che il ministro utilizza di solito. 

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 20 Giugno 2022.

Piombino contribuirà a «salvare» l'Italia, dice il ministro Roberto Cingolani. Ma l'impressione è che non basterà il richiamo all'orgoglio patriottico a far accettare agli abitanti della città toscana l'arrivo, da qui a un anno, di una nave rigassificatore a due passi da casa, un progetto a cui si oppone anche il sindaco di Fratelli d'Italia. 

La Golan Tundra, lunga 300 metri per 40 di larghezza, pagata da Snam 330 milioni di euro, ha una capacità di stoccaggio di circa 170mila metri cubi di Gnl (gas naturale liquefatto) e una capacità di rigassificazione di 5 miliardi di metri cubi l'anno.

Non proprio una presenza discreta, per quanto il ministro della Transizione ecologica, in un'intervista al quotidiano Il Tirreno, lo abbia definito «un impianto sicuro, sono state fatte tutte le verifiche tecniche, e temporaneo». 

E, del resto, la scelta di Piombino, in tandem con Ravenna, «è l'unica soluzione se vogliamo garantire in tempi brevi indipendenza energetica al Paese», ha concluso Cingolani.

Insomma, la decisione è presa, lo ha fatto capire anche il presidente della Toscana, Eugenio Giani, nominato dal governo commissario per la realizzazione dell'opera, durante l'incontro con i sindaci della zona: «C'è un interesse nazionale da perseguire - ha spiegato - entro 120 giorni vanno raccolte tutte le autorizzazioni necessarie». 

Per il disturbo, Cingolani ha parlato di «adeguate compensazioni», mentre Giani ha garantito l'impegno a ottenere da Roma «gli investimenti, da anni promessi e mai fatti, che riguardano la bonifica ambientale dell'area delle acciaierie e le infrastrutture per consentire di arrivare al porto senza passare dal centro».

Il fatto è che, tra un anno, ci sarà un tubo, agganciato alla nave, che partirà dal porto e penetrerà nel territorio per 8 chilometri, per poi connettersi alla rete nazionale del gas. Abitanti, imprenditori e ambientalisti non ci stanno a sacrificarsi sull'altare dell'indipendenza energetica.

Sabato in piazza erano in 2 mila, più altre decine di persone in mare sulle barche. Un'opposizione trasversale, che va dalla Lega a Greenpeace a Rifondazione comunista fino al Movimento 5 Stelle: i rappresentanti locali contestano l'operazione, avallata invece dai vertici nazionali. Poi c'è Fratelli d'Italia, il partito del sindaco, Francesco Ferrari, che spiega le ragioni di un «no convinto, non dettato da vezzi o egoismi, ma da un'infinità di ragioni oggettive». Piazzare un rigassificatore nel porto «rappresenta un pericolo per la sicurezza, nonché un danno economico, sociale, ambientale e turistico. Ci doteremo di studi tecnici e giuridici per proteggere la città».

IL CASO DI PIOMBINO. Cosa c’è dietro le proteste contro il rigassificatore. GAIA ZINI su Il Domani il 07 agosto 2022

I rigassificatori, in aggiunta all’inceneritore di Roma, sono ormai oggetto di contrattazione pre elettorale per accordi tra forze politiche che la pensano diversamente non solo al proposito ma più in generale sugli scenari energetici ed ecologici.

I rigassificatori sono trattati in modo ideologico: sono necessari e quindi vanno accettati, quanti? Almeno due, dove? In alto mare o in porti industriali, quando? Subito. Ma, come sempre, la situazione è più complessa di quanto si dipinga.

Oltre ai rischi di incidenti di vario tipo, si tratta di impianti emittenti inquinanti che rilasciano in mare quantità enormi di acqua marina raffreddata arricchita di ipoclorito di sodio, disinfettante dagli effetti ambientali da valutare attentamente.

I rigassificatori, in aggiunta all’inceneritore di Roma, sono ormai oggetto di contrattazione pre elettorale per accordi tra forze politiche che la pensano diversamente non solo al proposito ma più in generale sugli scenari energetici, ecologici e da qui sul tipo di sviluppo.

In una situazione sicuramente complicata dalle conseguenze, peraltro prevedibili, della guerra in Ucraina, e dalla necessità di cambiare registro sull’approvvigionamento di gas (poco si dice sul consumo e le alternative), i rigassificatori sono trattati in modo ideologico: sono necessari e quindi vanno accettati, quanti? Almeno due, dove? In alto mare o in porti industriali, quando? Subito. Ma, come sempre, la situazione è più complessa di quanto si dipinga. 

COSA SONO

Questi “oggetti”, di trattativa politica, sono grandi navi di 300 metri che diventano impianti industriali per la rigassificazione del gas naturale liquido (Gnl), soggetti alla normativa Seveso (D. Lgs. 238/05 detto “Seveso ter”, in vigore dal 13 agosto 2012, sul controllo del pericolo di incidenti rilevanti connessi con determinate sostanze pericolose; Direttiva 2012/18/UE), alle quali si accostano navi metaniere cargo, altrettanto grandi, che a loro volta hanno bisogno di rimorchiatori.

Oltre ai rischi di incidenti di vario tipo, si tratta di impianti emittenti inquinanti, soprattutto ossidi di azoto (NOx), in concentrazioni non affatto trascurabili (centinaia di milligrammi/metro cubo), per il trattamento di alcuni miliardi di metri cubi di gas/anno.

Impianti che rilasciano in mare quantità enormi di acqua marina raffreddata (svariate tonnellate/ora), arricchita di ipoclorito di sodio, noto disinfettante (dall’amuchina alla candeggina) dagli effetti ambientali da valutare attentamente.

Impianti tutt’altro che “neutri”, che per le loro caratteristiche di rischio vengono previsti o in alto mare (offshore), a largo di Ravenna, in aggiunta a quelli già esistenti (Olt davanti alla foce dell’Arno, Panigaglia in Liguria e Adriatic Lna davanti alla foce del Po-Rovigo), oppure in aree portuali.

La previsione di nave gasiera ormeggiata nel porto di Portoscuso (Sardegna) sembra già sulla via del tramonto, dopo il parere negativo dell’Istituto superiore di sanità soprattutto per gli impatti sulla salute respiratoria prevedibili sulla base delle emissioni dal nuovo impianto, mentre permane quella di Piombino, sebbene l’amministrazione comunale abbia espresso contrarietà motivata da numerose ragioni e, da quanto risulta dai media, stia preparando le osservazioni al progetto di Snam.

IL CASO PIOMBINO

L’intervento previsto in area di bonifica (porzioni sia a mare che a terra) pone problemi soprattutto per la realizzazione di 9 km di metanodotto dal rigassificatore alla centrale di smistamento, ma è soprattutto sulla conformazione e sulla ridotta dimensione del porto di Piombino che si addensano le maggiori preoccupazioni: un porto dove, specie in estate, si registrano giornalmente molte decine di transiti di traghetti da e per l’isola d’Elba, la Corsica, la Sardegna, oltre alle navi da crociera e da carico, con decine di migliaia di passeggeri, che “assisterebbero” molto da vicino (nell’ordine delle centinaia di metri) alle operazioni del rigassificatore affiancato dalla metaniera di turno, quasi sempre presente viste le molte ore necessarie per le operazioni di scarico del Gnl.

Da aggiungere poi che l’abitato di Piombino è a circa un chilometro e che la popolazione presenta molti tratti di fragilità demografica e sanitaria anche a causa della permanenza decennale in area di bonifica mai realizzata, come confermato dai vari rapporti dello studio Sentieri coordinato dall’Istituto superiore di sanità.

L'ambientalismo spesso fa peggio di un terremoto...Nicola Porro il 19 Giugno 2022 su Il Giornale.  

Mariopaolo Fadda, che ha vissuto due decenni in California dove ha lavorato come architetto, è autore di vari saggi che spaziano dall'architettura alla fede religiosa, dall'ambientalismo alla storia degli insediamenti umani. La sua ultima fatica è L'Armageddon ambientalista un libro insolito - è autopubblicato - nel panorama dei saggi su temi di scottante attualità come i cambiamenti climatici, la gestione delle risorse energetiche, la sostenibilità. L'autore, poco incline a farsi condizionare dall'incessante tambureggiare della propaganda in materia, prende di petto gli aspetti più controversi e, dati alla mano, ne ribalta le conclusioni mettendo a nudo distorsioni e pregiudizi.

Il prologo è incentrato sul mea culpa di un ambientalista doc che chiede pubblicamente scusa per l'allarmismo creato e per aver alimentato paure a danno del buon senso. Pregevole l'excursus storico che, benché stringato, va al cuore del problema: come è nato e chi ha generato un movimento che sembra, a prima vista, l'erede dell'ondata giovanilista innescata dalla contestazione globale degli anni '60. L'autore mette in rilievo la natura anomala di questo movimento che raggruppa, in una ristretta élite di tecnocrati riuniti sotto l'egida del Club di Roma, politici e militanti delle più disparate organizzazioni ambientaliste. Illuminanti le considerazioni sul ruolo svolto proprio dal Club di Roma con David Rockefeller in posizione dominante nel promuovere quelle politiche ambientaliste che avevano, e hanno oggi, l'obiettivo di ridurre forzatamente la popolazione mondiale.

Senza peli sulla lingua è il ridimensionamento dell'eroina dell'ambientalismo disinformato, Rachel Carson, che, con il suo libro Primavera silenziosa (silenziosa a causa della morte di tutti gli insetti) dette avvio all'allarmismo. Un ridimensionamento affidato alle parole di un famosissimo entomologo che ebbe l'opportunità di esaminare le «prove scientifiche» delle affermazioni della Carson...

Un capitolo è dedicato a Greenpeace. Il profilo di questa organizzazione-corporazione è tracciato con l'ausilio delle dichiarazioni e degli scritti di membri che l'hanno abbandonata per le sue posizioni estreme sull'esaurimento delle risorse, i veleni invisibili, il diradamento della fascia d'ozono e il golden rice: il testo di una lettera sottoscritta da 158 premi Nobel contro l'ostruzionismo verso questo dorato riso Ogm è un colpo mortale alla credibilità di Greenpeace.

Un altro aspetto messo in evidenza è l'orchestrazione della grancassa catastrofista sotto l'ala protettrice dei burocrati dell'Onu, un organismo oramai alla mercé della Santa Alleanza ambientalista. Il libro si chiude con un'analisi, non senza una punta d'ironia, delle presunte alternative suggerite dagli ambientalisti: dalla sostenibilità alle energie rinnovabili, dal biologico al riciclaggio e alla raccolta differenziata. Insomma, un viaggio nel paese di Bengodi.

Gas nell’Alto Adriatico, l’Italia blocca le trivelle e la Croazia va all’assalto dei giacimenti. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 19 Giugno 2022.

La crisi energetica e la necessità di sganciarsi dalle forniture russe costringono i Paesi europei a cercare soluzioni per trovare nuovi approvvigionamenti energetici. Mentre l’Italia ha deciso di ampliare le infrastrutture dedicate alle importazioni di gnl - ai primi di giugno Snam ha annunciato di aver concluso il contratto per l’acquisto di una nave rigassificatrice che sostituirà da sola un quinto del gas russo - la Croazia continua ad aumentare l’estrazione di gas in Adriatico.

Il piano della compagnia croata Ina

La compagnia petrolifera e del gas croata Ina, mercoledì 8 giugno, ha annunciato di voler investire quasi 2 miliardi di kune, vale a dire 266 milioni di euro, in nuove trivellazioni e piattaforme. «A settembre di quest’anno Ina inizierà una nuova campagna di trivellazione nell’Adriatico settentrionale. Abbiamo in programma di investire quasi 2 miliardi di kune nella costruzione di nuove trivelle e piattaforme, che contribuiranno ulteriormente alla sicurezza energetica del Paese», ha dichiarato il direttore operativo per la ricerca e la produzione di petrolio e gas dell’Ina, Nikola Misetic, all’emittente televisiva statale HRT.

Le trivelle in Croazia e il no italiano

Per ridurre la propria dipendenza dal gas russo, Zagabria aumenterà di oltre il 20% l’attuale produzione di gas naturale entro il 2024. Stando ai dati forniti dall’Agenzia per gli idrocarburi, nel 2021 dai giacimenti di gas sono stati estratti 0,78 miliardi di metri cubi di gas il che soddisfano il 30 per cento della richiesta nazionale, che ammonta a circa 2,7 miliardi di metri cubi. La Croazia punta soprattutto sui giacimenti dell’Adriatico settentrionale, dove non ha concorrenza, visto che in Italia le attività estrattive in quest’area sono vietate in quanto considerata zona a rischio subsidenza.

La riserva dell’Alto Adriatico

Proprio nell’Alto Adriatico c’è la riserva di gas naturale più consistente d’Italia. Secondo i calcoli di Nomisma Energia si tratta di una cifra che si avvicina a 40 miliardi di metri cubi, situati a circa 40 chilometri al largo di Venezia. L’Italia ha iniziato a bloccare l’attività di estrazione e ricerca in Adriatico dalla metà degli anni ‘90 e la produzione nazionale è passata dai 20,6 miliardi di metri cubi nel 1994 ai 4,4 del 2020, mentre i consumi hanno continuato a salire.

Il «piano trivelle»

Sempre secondo le stime di Nomisma Energia dai Lidi ferraresi alle Marche, si potrebbero rimettere in moto circa 50 piattaforme in grado di fornire circa 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno. A rallentare l’estrazione è stato il Pitesai «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee». Questo programma, avviato dal governo Conte I nel 2019 e approvato definitivamente a febbraio 2022 dal governo Draghi, si proponeva di limitare le trivellazioni. Secondo il documento su 123 concessioni minerarie, sono ben 108 quelle legate al gas ma oltre il 70% si trovano in aree definite, appunto, non idonee. Di queste, sono già 20 quelle revocate. Per contrastare il caro energia, il ministero della Transizione ecologica ha deciso di aggiornare il piano per poter incrementare la produzione di gas italiano, presentando una sorta di piano regolatore che indica dov’è consentita l’estrazione di idrocarburi.

Quel gas a "chilometro zero" bloccato dalla burocrazia. Alessandra Benignetti il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

I vetrai di Murano costretti a spegnere le fornaci per l'aumento della bolletta energetica sono seduti su giacimenti dal potenziale di 3 miliardi di metri cubi l'anno. La Croazia li sfrutta e noi stiamo a guardare.

Il flusso di gas russo che arriva in Europa passando sul fondo del Baltico continua ad affievolirsi. Da Mosca il colosso degli idrocarburi, Gazprom, si giustifica dietro un problema tecnico: la mancanza dei componenti per la riparazione di una turbina a causa delle sanzioni. Ma per il governo tedesco quella del Cremlino sarebbe una "decisione politica". E per l’Ue un "ricatto". L’incertezza sulle forniture fa impennare di nuovo il costo del metano a 142 euro Mwh, dopo il rialzo del 18 per cento di giovedì sul listino di Amsterdam. A pagare le conseguenze di queste oscillazioni, che il governo italiano chiede di fermare mettendo un tetto europeo al prezzo, sono famiglie e imprese. Soprattutto quelle energivore.

Il costo della bolletta, che secondo le stime di Confcommercio e Nomisma Energia è aumentato fino al 140 per cento nel giro di un anno, ha messo in ginocchio anche attività secolari, come quelle dei vetrai di Murano, dove qualche mastro è stato costretto a malincuore a spegnere le fornaci. Eppure proprio il Veneto, paradossalmente, potrebbe beneficiare di gas a "chilometro zero" sul modello della Basilicata. Qualche miglio al largo della laguna di Venezia c’è un giacimento scoperto negli anni ’80 e ’90 che consentirebbe di raddoppiare il potenziale estrattivo nazionale. Le riserve accertate si attestano tra i 30 e i 40 miliardi di metri cubi. Ma ce ne potrebbero essere 10 ulteriori. Nelle proprie acque territoriali la Croazia ha costruito piattaforme già da decenni ed ha in programma con la società petrolifera croata, l’Ina, di investire 266 milioni di euro per realizzarne altre a partire dal prossimo settembre.

Nel nostro mare, invece, tutto è fermo a causa di una serie di norme che a partire dagli anni ’90 e 2000 hanno bloccato le attività di ricerca per il rischio di subsidenza. Tecnicamente si tratta dell’abbassamento del suolo proprio a causa dell’effetto delle estrazioni. Anche il Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI) approvato di recente dal ministro della Transizione Ecologica mette dei paletti alle esplorazioni nel Nord Adriatico per lo stesso motivo. E così l’Italia rinuncia ad estrarre 3 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno. È questo il potenziale del giacimento per al massimo un ventennio. Se contiamo anche il periodo che ci vorrebbe a metterlo a regime, due o tre anni con un costo di circa due miliardi, è esattamente il tempo che ci separa dagli obiettivi del Green Deal europeo.

La cifra, per avere un’idea è equivalente al totale dell'attuale produzione nazionale e rappresenta il 10 per cento del gas che importiamo dalla Russia. Oggi la tecnologia consentirebbe di minimizzare anche i rischi geologici. Gli studi effettuati sulle piattaforme operative davanti alle coste dell’Emilia Romagna hanno dimostrato che il fondale si abbassa di due centimetri in un arco temporale di trent’anni e soltanto nel raggio di pochi chilometri da dove avviene l’attività estrattiva. Considerando che, tranne per quello situato di fronte a Chioggia, i giacimenti dell’Alto Adriatico si trovano a molte miglia dalla costa, per gli esperti il rischio è davvero minimo. E poi la Croazia da anni estrae lungo la linea del confine.

Le tecniche sarebbero le stesse utilizzate a sud della foce del ramo di Goro del Po. Potrebbero essere anche le stesse aziende del ravennate che già operano in quell’area a realizzare le piattaforme, con conseguenze positive anche sull’indotto. Per questo la politica si sta muovendo e chiede che vengano rimossi i vincoli che risalgono ad almeno vent’anni fa. Tra le proposte c’è quella della deputata di Forza Italia, Claudia Porchietto, che ha presentato un emendamento al Dl Aiuti per sbloccare le esplorazioni sui giacimenti dell’Alto Adriatico. Anche il senatore Gaetano Nastri, vicepresidente della commissione Ambiente, ha chiesto conto della situazione al ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani, che in Senato si è detto disponibile ad una revisione del PiTESAI "alla luce di quanto sta accadendo, cercando di combinare le due cose, che sono combinabili: riduzione del gas totale e nello stesso tempo aumento del gas che ci servirà dai nostri giacimenti”. "In tal modo, - ha specificato il ministro - si mantiene la rotta della decarbonizzazione al 55 per cento, ma si rende l'Italia più sicura e stabile dal punto di vista energetico".

Nel frattempo i croati approfittano di risorse che sono anche nostre? Purtroppo, in qualche caso, è verosimile. Per capire il perché basta pensare ai giacimenti che si trovano tra Venezia e l’Istria come ad una manciata di acini d’uva. Se li lasciassimo cadere in terra sparpagliandosi e tracciassimo una retta immaginaria per separarli, quelli finiti sulla linea di divisione rischiano di dare tutto il succo a chi li spreme per primo.

Ideologia inquinante. Augusto Minzolini il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.

Cantava Giorgio Gaber quasi trent'anni fa: "L'ideologia, l'ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia...". Aveva ragione. Anzi, nel nostro Paese le ideologie si moltiplicano.

Cantava Giorgio Gaber quasi trent'anni fa: «L'ideologia, l'ideologia malgrado tutto credo ancora che ci sia...». Aveva ragione. Anzi, nel nostro Paese le ideologie si moltiplicano. Ai tempi di Gaber c'erano solo quelle di destra e di sinistra. Ora, invece, nascono come funghi: dai noi-vax ai putiniani di diversa estrazione. Ma la più perniciosa è sicuramente quella ambientalista: quando il verde dimentica il realismo e il pragmatismo e diventa un'altra ideologia come i rossi e i neri, allora i danni si sprecano.

Lo abbiamo già visto il mattino del 24 febbraio scorso quando i Paesi europei, in primis l'Italia, si sono accorti, mentre i carri armati russi invadevano l'Ucraina, di essersi impiccati al gas russo per aver fatto gli schizzinosi con il nucleare. Ieri, per coerenza, al Parlamento di Strasburgo sulle auto uno schieramento trasversale, in cui i verdi si sono mescolati con rossi e neri, ha preparato la corda per appenderci per il collo all'albero cinese: è stato bocciato, infatti, un emendamento del Ppe che prevedeva di limitare la riduzione delle emissioni per le auto entro il 2035 del 90% invece del 100%. La conseguenza è che da quell'anno non saranno vendute più auto a benzina o diesel. Ci saranno, quindi, solo auto elettriche che, per funzionare, hanno bisogno di batterie, il cui monopolio è saldamente nelle mani di Pechino. Di fatto, un calcio negli zebedei all'industria automobilistica italiana ed europea (e al suo indotto) e un tappeto rosso steso per dare il benvenuto ai prodotti del dragone cinese.

Sarebbe bastato un meccanismo più graduale, ma così va il mondo. Anche perché l'ideologia, anche quella verde, non prevede compromessi: o tutto, o niente. Lo si è visto al mattino a Strasburgo quando gli ambientalisti, duri e puri, e la solita sinistra sempre attenta al richiamo della foresta, battuti su alcuni emendamenti riguardanti il nucleare e il mantenimento di alcune quote di emissione indispensabili oggi alle nostre imprese per sopravvivere, per ripicca hanno bocciato - e rinviato - l'intera riforma Ets. Appunto, l'approccio ideologico non prevede le mezze misure.

Si tratta, però, di una mentalità pericolosa che può suscitare a lungo andare una reazione. Anche perché l'assenza del buon senso, del gradualismo, di quel metodo prudente del passo dopo passo proprio del riformismo, determina grossi costi sociali. Oltreché politici. Per non aver impostato con raziocinio la nostra politica energetica, per aver detto un «no» pregiudiziale al nucleare, per aver bloccato le trivellazioni nel nostro mare in cerca di gas, la guerra in Ucraina, e le sanzioni, ci hanno costretto addirittura a rimettere in funzione le centrali a carbone. Un ritorno alla preistoria. Fra qualche anno, con le nuove regole che ci sta imponendo l'ideologia ambientalista, rischiamo di riprendere precipitosamente la strada del petrolio se per caso la Cina decidesse di invadere Taiwan. O, peggio, se la filosofia verde scoprirà di avere sbagliato i conti: cioè se si accorgerà che forse sarebbe stato più facile sviluppare una tecnologia per permettere alle auto di consumare meno, che non smaltire milioni e milioni di batterie esaurite e i relativi contenuti tossici. Sempreché non si decida di spedirle sulla Luna. E inquinarla.

Michele Di Branco per il Messaggero l'8 giugno 2022.

Una intera linea ferroviaria in ostaggio degli uccelli. Il completamento della Pescara-Bari, di cui si parla ormai da vent' anni, è legato al raddoppio della tratta Termoli-Lesina (32 km) della direttrice ferroviaria Adriatica Bologna-Lecce. Ma i lavori non procedono affatto perché ci si sono messi di mezzo ricorsi, carte bollate, ambientalisti, politici e persino, appunto, la scoperta di un nido di simpatici fratini, che ha rallentato le pratiche. Il progetto è inserito nel primo programma delle infrastrutture strategiche di interesse nazionale, approvato dal Cipe nel 2001. 

La Corte dei conti ha acceso un faro sul dossier evidenziando quanto la burocrazia, a vario titolo, abbia condizionato lo stato di realizzazione degli interventi che, nonostante la disponibilità di tutte le risorse finanziarie nazionali ed europee necessarie (700 milioni, di cui 22,47 derivanti dal Pnrr), dal 2003 hanno visto avviarsi la sola fase progettuale, non ancora conclusa.

Solo nel 2017, dopo 14 anni dall'avvio della progettazione, l'intervento è stato suddiviso in due lotti con un incremento di 150 milioni di euro sul costo complessivo. La realizzazione del primo lotto Ripalta-Lesina è prevista per il secondo semestre 2025, quella del lotto Termoli-Ripalta è programmata per il secondo semestre 2028. 

Come a dire che, fratini permettendo, ci vogliono ancora 6 anni per andare a dama. Intanto la magistratura contabile ha sottolineato la necessità che studi e indagini preliminari siano particolarmente accurati, per ridurre successive revisioni dell'opera, con conseguente aumento dei costi, nonché per evitare che l'allungamento dei tempi di realizzazione renda le opere portate a termine inadeguate rispetto alle esigenze dell'utenza. Il caso della Termoli-Lesina non è purtroppo isolato.

 Nell'area delle regioni centrali del Paese si sono accumulati ritardi infrastrutturali pesanti. Il più celebre riguarda il potenziamento della tratta ferroviaria Roma-Pescara sulla quale governi e amministrazioni di vario colore non trovano la quadra da diversi anni. Problemi di ritardi interessano anche la Roma-Teramo, la Roma-Civitavecchia, l'Autostrada A14 Adriatica su vari tratti fino a Bari, la Tirrenica, in particolare nell'alto Lazio e nella Maremma, la A24-25 abruzzese e la E45 Orte-Cesena, con storico ritardo dei cantieri nel manto stradale romagnolo. Cambiare questo stato di cose non appare semplice. 

Una indagine del Consiglio nazionale degli Ingegneri sulla distribuzione geografica delle risorse infrastrutturali (ferrovie, autostrade e porti) del Pnrr mostra elementi penalizzanti per le Regioni centrali.

Sud e Nord viaggiano affiancati con il 43 e il 42% delle risorse assegnate; il Centro invece resta indietro con soltanto il 15% dei fondi totali. Sul piatto, per il Centro Italia, ci sono appena 8 miliardi su 60: una disparità che non si spiega nemmeno in raffronto alla popolazione, che nelle regioni centrali è pari al 20% del totale. La regione del Centro Italia che si trova più in alto in classifica rispetto alle altre della sua macro-area è il Lazio, al settimo posto della classifica generale, con 3,8 miliardi di euro pari al 7% del totale.

Sulla distribuzione delle risorse pesano principalmente due fattori: la decisione del governo di privilegiare in questo momento le opere già programmate e avviate (si pensi all'Alta Velocità ferroviaria), ma pesa anche la partecipazione ai vari bandi nazionali da parte delle amministrazioni locali. E quelle del Centro, evidentemente, non brillano per iniziativa e programmazione.  

 E così all'Umbria finora sono state assegnate solo il 2% (960 milioni) delle risorse, e alle Marche il 3% (1,4 miliardi), mentre la Toscana sfiora i due miliardi (4% delle risorse territorializzate). Un'altra chiave di lettura arriva da Luciano D'Alfonso, presidente della Commissione finanze del Senato ed ex governatore della Regione Abruzzo. «A mio avviso», spiega D'Alfonso, «è diventata indiscutibile la necessità che le figure commissariali utilizzino tutti i poteri discrezionali che hanno a disposizione». 

Uno dei problemi dell'andamento al rilento dei cantieri e delle opere, insomma, sarebbe che i commissari non usano appieno quei poteri che la legge gli affida. «Troppo spesso», prosegue D'Alfonso, «i commissari cercano una copertura legislativa ulteriore sulle loro decisioni. I poteri», sostiene D'Alfonso, «ci sono e vanno usati, e va anche dato un termine per completare le opere agli stessi commissari».

Ambientalisti ottusi a caccia della "tortora" Cingolani. Felice Modica l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Le associazioni verdi contro il ministro. Ha allargato la stagione venatoria, usando i loro dati.

Anche un vecchio liberale come me che, per citare una antica massima, ha una sola certezza: quella di non averne, possiede una sua stella polare. La mia brilla alta nel cielo, è luminosa e un infallibile punto di riferimento: gli ambientalisti italiani nel loro complesso. Non si sbaglia: se loro dicono di fare una cosa, conviene esattamente il contrario. Quando osannano una personalità, drizzo le antenne: bisogna assolutamente diffidarne. Se attaccano qualcuno per le sue opinioni, subito, d'istinto, scatta un moto di simpatia e solidarietà: quel tizio quasi sicuramente sarà in gamba. Parlo di ambientalisti italiani, s'intende, ché i nordeuropei sono gente di tutto rispetto; lo stesso Wwf internazionale merita attenzione e spesso sostiene cose condivisibili.

Così, anche se credo poco nei colpi di fulmine, oggi voglio fare una dichiarazione d'amore al ministro Roberto Cingolani, che riveste il delicato incarico di responsabile della Transizione ecologica, ma si occupa pure, incidentalmente, di caccia e biodiversità. Ora, Cingolani è stato messo in croce da un collettivo che rappresenta la crème de la crème dell'ambientalismo italiano, sintetizzato dalle firme congiunte di: Enpa, Lac, Lav, Lipu Birdlife Italia, Wwf Italia. Hanno scritto che metterebbe l'Europa in imbarazzo, lo hanno definito ministro della Caccia, definendo le sue posizioni «culturalmente inaccettabili e tecnicamente incomprensibili». In sintesi, il ministro sarebbe reo di aver scritto al Commissario europeo per l'Ambiente Sinkeviius una nota per «chiedere che venga stravolto tutto il processo scientifico di individuazione delle date di inizio migrazione e inizio del periodo di riproduzione degli uccelli selvatici che vivono in Europa».

Tutto vero, ma Cingolani fonda la sua richiesta proprio sulle informazioni scientifiche contenute nel nuovo Atlante europeo delle migrazioni. Gli ambientalisti non tollerano il fatto che questo possa produrre l'effetto di estendere alcuni periodi di caccia. In particolare, sempre leggendo i dati dei censimenti di ben 17 anni cui ha collaborato anche Lipu Cingolani vuole autorizzare, per un periodo limitatissimo, anche la caccia alla tortora. La cui popolazione nidificante in Italia è giudicata stabile dal 2000 al 2017. Nell'arco di 18 anni di monitoraggio, in cui la specie è sempre stata cacciabile in pre-apertura nella maggior parte delle regioni italiane, il prelievo venatorio non ha influito negativamente sulla demografia della popolazione nidificante in Italia.

Comunque, voglio essere sincero. Sono un cacciatore siciliano e l'elemosina di due o tre giornate di caccia estratte col classico metodo scientifico «ad mentula canis» mi lascia indifferente. Cingolani ha sostenuto le sue idee fondate su dati oggettivi, raccolti principalmente proprio da chi lo accusa! Per questo gli ambientalisti lo mettono all'unisono in croce. Come molte cose italiane, è grave ma non è serio. Ergo, mi è simpatico e dico: viva Cingolani!

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 28 maggio 2022. 

Ieri ho tenuto l’aria condizionata sparata a palla tutto il giorno (impianto del vecchio tipo, consuma come l’abbattitore di un peschereccio Mizar) e la terrò accesa tutta l’estata anche se dovesse bussare Mario Draghi in persona per chiedermi di abbassarla. Anch’io antipolitica, anch’io deficiente: non me ne starò al caldo per colpa degli errori e delle cazzate ambientaliste e localiste che hanno portato questo Paese a diventare servo di paesi incivili. 

Abbiamo rinunciato alle centrali nucleari, mortificato quelle idroelettriche, l'Eni potrebbe portarci un sacco di gas liquefatto da tutto il mondo ma non abbiamo costruito i rigassificatori (ne abbiamo due) per le opposizioni dei soliti, così ora trattiamo con il Congo (potere militare) e con l'Angola (guerra civile) e con l'Azerbaijan (monarchia dinastica) e con l'Egitto, unico caso per cui i «no tutto» hanno alzato il sopracciglio per via del maledetto caso di Giulio Regeni.

Intanto le sovrintendenze, gli Enti locali e gli ambientalisti bloccano da anni ogni parco eolico e fotovoltaico (soprattutto in meridione) per non parlare delle trivelle, delle centrali a biomasse, i termoutilizzatori, e tutto questo, sia chiaro, con la collaborazione di liste civiche, società civili, destre e sinistre e grillini e idioti che vogliono tutto ma «not in mybackyard». Pagherò una bolletta da spavento, chi ne se frega.

Gabriele De Stefani per “la Stampa” il 23 maggio 2022.

Tutti volevano l'energia pulita già prima della guerra, inseguendo la transizione ecologica. Tutti ancor di più la vogliono oggi, sognando l'indipendenza dalla Russia e da Vladimir Putin. «Servono diciotto-ventiquattro mesi» ha scandito più volte il ministro Roberto Cingolani. 

Il problema è che sentir parlare di tempistica fa venire l'orticaria a chi in impianti green ci investe davvero. E va inesorabilmente a sbattere contro la burocrazia, contro il sindaco di un comune di montagna che alza il dito e blocca tutto, contro un parere tecnico che manca e manda tutto all'aria. Per l'autorizzazione di un impianto eolico, secondo le stime di Legambiente, in Italia servono cinque anni, contro i sei mesi previsti dalla normativa.

Uno studio di Althesys dice che un impianto verde mediamente ne richiede sette e così il 50% dei progetti finisce nel cassetto, perché ad un certo punto conviene rinunciare e cambiare strada. 

La storia

«Noi non vogliamo mollare, ma la situazione è assurda» sbotta Alberto Balocco, industriale dei biscotti. La sua avventura nelle rinnovabili è un paradigma surreale.

A Trinità, nel Cuneese, sede di un polo logistico del gruppo esteso su 16mila metri quadrati, aveva già pannelli solari per 0,6 megawatt, sufficienti per il proprio fabbisogno energetico. Lo scorso anno ha deciso di triplicare: da 0,6 a 1,8 megawatt, per mettere in rete l'energia in più e monetizzare, in attesa che magari in futuro, con l'espansione del sito, quell'elettricità non possa servire al gruppo. Balocco mette sul piatto un milione e mezzo di euro. Un investimento?

«Sì, ma soprattutto l'inizio di una via crucis» dice all'uscita dall'ennesima conferenza di servizi con gli enti locali. 

E' tutto pronto da otto mesi e non si parte perché di traverso ci sono due Comuni: per far passare i cavi e allacciare l'impianto alla rete nazionale bisogna bucare l'asfalto appena rifatto e al Comune di Fossano sembra un peccato, quindi chiede di rifare il progetto; traliccio e cavi dovrebbero passare anche sopra il fiume Stura, e alla commissione paesaggistica del Comune di Trinità pare uno scempio. Tutto fermo, tutto da rifare.

Congelati 1,2 megawatt di energia elettrica, cioè il fabbisogno di circa 500 famiglie. 

«Tutto per non bucare un po' di asfalto e per qualche cavo aereo di impatto minimo, è una situazione assurda - si sfoga Balocco -. Noi non molliamo e anzi facciamo un altro investimento da 1,8 milioni di euro nel nostro stabilimento di Fossano, ma la verità è che quando si parla di sburocratizzazione si fa solo demagogia, ci sono centinaia di casi come il nostro.

E oltre al danno subiamo pure la beffa di dover pagare una multa di 25mila euro al provider a cui ci eravamo impegnati a fornire l'energia: l'impianto era pronto, sembrava non dovessero esserci più ostacoli». 

Il tappo Gli impianti in coda erano centinaia già gli anni scorsi, una quantità pressoché incalcolabile, persi nella miriade degli enti autorizzatori e di norme che cambiano di regione in regione. Poi se ne sono aggiunti 50 per produrre biometano dai rifiuti, bloccati da un improvviso cambio normativo.

Di certo ora a complicare le cose c'è la grande sete di energia. Nell'ultimo anno - ha spiegato in Parlamento la direttrice generale del Ministero dei Beni Culturali Federica Galloni, che ha una delega specifica all'attivazione del Pnrr e del Piano integrato per energia e clima - le richieste di autorizzazione sono schizzate da 84 a 575: 170 per l'eolico e 405 per il fotovoltaico. 

Senza un corrispondente potenziamento degli uffici, l'imbuto è presto spiegato. Il governo è corso ai ripari con il Dl Semplificazioni prima e poi con il dl Energia con una serie di interventi che, nelle intenzioni, dovrebbero accorciare i tempi di un quinto «e già nei primi mesi dell'anno abbiamo avuto effetti visibili» ha detto Cingolani commentando le misure dell'esecutivo.

Per le imprese non basta: «Ogni misura di semplificazione della burocrazia delle rinnovabili è positiva, ma servono una riforma più ampia dei processi organizzativi e una programmazione energetica complessiva» dice Agostino Re Rebaudengo, presidente di Elettricità Futura, l'associazione nata dalla fusione tra Assoelettrica e assoRinnovabili e che mette insieme oltre 500 aziende del settore. 

«Con il DL Energia - prosegue Re Rebaudengo - sono state ampliate le aree da considerare sicuramente idonee allo sviluppo delle rinnovabili. Ma le Regioni procrastinano le autorizzazioni. 

In generale, il punto è che, benché sicuramente ora faremo meglio come Paese, il confronto è con il poco o niente che abbiamo fatto negli ultimi 5 anni, e certamente non riusciremo a realizzare le rinnovabili necessarie a tagliare il 20% delle importazioni di gas. Non si vede ancora per le rinnovabili la stessa fretta, la stessa urgenza, che si applicano ai rigassificatori e all'inceneritore nel Lazio». 

Pietro Saccò per “Avvenire” il 18 maggio 2022.

La crescita delle rinnovabili in Italia è ancora troppo lenta. Nel 2021 sono stati installati 1.351 MW di nuova capacità rinnovabile: 935 MW di fotovoltaico, 404 MW di eolico, 11 MW di idroelettrico. 

La capacità totale di energia rinnovabile italiana arriva così a 60,58 GW, il 2,2% in più rispetto al 2020. L'Energy & Strategy Group della School of Management del Politecnico di Milano, che ha raccolto i dati per il suo nuovo Rapporto sulle energie rinnovabili, con franchezza parla di «un altro anno sprecato».

Nel Piano per la transizione ecologica il governo si è dato l'obiettivo di arrivare ad almeno 125 GW di capacità rinnovabile entro il 2030. Per riuscirci, calcolano dal Politecnico, serve un tasso di crescita di quattro volte maggiore per l'eolico (circa 1,75 GW all'anno contro gli 0,38 del 2021) e di sette volte maggiore per il fotovoltaico (che dovrebbe passare da 0,73 a 5,6 nuovi GW all'anno). 

Per rendere realistici questi obiettivi occorrono due semplificazioni: una sul lato delle norme, in particolare per le autorizzazioni dei nuovi progetti, e una sul lato dell'accesso agli incentivi.

«Qualcosa è stato fatto, ma la strada è lunga - spiega Davide Chiaroni, condirettore di Energy & Strategy - nonostante le rinnovabili rappresentino una grande opportunità per la competitività del nostro Paese, che vedrebbe non solo una drastica riduzione della propria dipendenza energetica, ma potrebbe anche raggiungere livelli molto competitivi del costo dell'energia grazie alla disponibilità di risorse come sole e vento».

Secondo le stime del centro ricerca gli investimenti necessari sono nell'ordine dei 40-50 miliardi di euro all'anno. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza può dare un contributo, ma più regolatorio che economico: le risorse messe a disposizione per le rinnovabili sono 6 miliardi di euro complessivi, di cui 2,2 per lo sviluppo delle comunità energetiche e poco meno di 2 per il biometano. 

Occorre creare le condizioni perché il settore finanziario sia invogliato a investire nelle rinnovabili in Italia. Anche perché altrove le opportunità di investimento ci sono. Qualche settimana fa Solar Power Europe ha pubblicato il suo rapporto 2021.

Con 0,8 GW di nuovo fotovoltaico installato (stima appena superiore a quella del Politecnico) l'Italia è solo nona in Europa dietro anche all'Ungheria e lontana dalle grandi economie dell'Ue: lo scorso anno la Germania ha installato 5,3 nuovi GW di fotovoltaico, la Spagna 3,8, la Francia 2,5. 

Hanno completato più progetti fotovoltaici dell'Italia anche Paesi Bassi (3,3 GW), Polonia (3,2), Grecia (1,6), Danimarca (1,2). Di questo passo l'Italia rischia di perdere rapidamente il ruolo di secondo maggiore produttore di energia fotovoltaica d'Europa: oggi con 22 GW installati è dietro (ampiamente) alla sola Germania, che ha 59,9 MW di potenza fotovoltaica.

Nello scenario "medio" ipotizzato da Solar Power Europe in base ai progetti in cantiere, entro il 2025 l'Italia sarà superata da Spagna, Paesi Bassi e Francia. Già oggi a livello di capacità fotovoltaica pro-capite l'Italia è solo decima in Europa, con 364 Watt per abitante. 

Lo scenario non è diverso per l'energia eolica. I 404 MW installati nel 2021 non bastano a fare entrare l'Italia nei dieci Paesi europei che ci hanno investito di più lo scorso anno. Anche Grecia, Ucraina e Polonia hanno avviato più nuovi impianti dell'Italia secondo i numeri di WindEurope. E anche qui, purtroppo, lo scenario al 2026 vede il nostro Paese molto indietro rispetto al resto d'Europa.

Tap, l'ultimo intoppo sul gasdotto "salva-Italia". Il sindaco si preoccupa della vista dei bagnanti. Giacomo Susca il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Navi di fronte alla spiaggia (per due mesi). Ma l'opera non ha deturpato l'ambiente.  

La guerra alle porte dell'Europa da ottanta giorni, i prezzi delle materie prime che aumentano senza sosta, con lo spettro di una drastica riduzione delle forniture energetiche e la prospettiva di un autunno-inverno di austerity per il nostro Paese. Uno scenario a tinte fosche che dovrebbe togliere il sonno a molti amministratori pubblici. Invece nel Belpaese delle meraviglie succede che un sindaco sia preoccupato da ben altri orizzonti. Siamo in Puglia, Salento, sulla spiaggia di San Basilio a San Foca: domenica pomeriggio il primo cittadino di Melendugno (Lecce), Marco Potì, mentre ammirava il paesaggio costiero ha pensato di pubblicare il suo sfogo su Facebook. «Una bellissima domenica, con un mare stupendo. Ma cosa occupa la meravigliosa visuale panoramica? Toh! Due grosse navi, con motori rumorosi e sempre accesi, che operano (da oltre due mesi?) a più di 400 metri dalla costa per lavori sul gasdotto Tap, dicono. Ma non si potrebbero rinviare a dopo la stagione turistica questi fastidiosi e inutili lavori (forse fatti anche fuori dai termini autorizzativi)? Lo diciamo per tanti amici...».

Insomma, si chiede il sindaco, è proprio questo il momento di rovinare la vista a bagnanti e turisti? E, aggiungiamo noi, proprio mentre a Kiev si combatte e a Bruxelles si litiga sull'embargo al gas russo?

Le due navi sullo sfondo del mare cristallino di Melendugno - peraltro insignita anche nel 2022 della Bandiera Blu nonostante la realizzazione del gasdotto tanto vituperato da sinistra e grillini - sono della ditta Next Geosolutions, incaricata dalla Trans adriatic pipeline (Tap) della installazione dei dissuasori anti-strascico in mare, nei pressi del punto di uscita del micro-tunnel del gasdotto che porta metano dall'Azerbaijan all'Italia, approdando sulla costa salentina. Si tratta di lavori volti ad impedire la pesca a strascico (illegale) che potrebbe danneggiare il micro-tunnel. L'operazione è autorizzata dal ministero delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili e i lavori, iniziati il 14 aprile, dovrebbero concludersi il 31 maggio. Un sacrificio limitato nel tempo, ma evidentemente insopportabile pur in questa fase di emergenza internazionale e nel bel mezzo di un'economia di guerra. Non tutti i concittadini di Potì, a dire il vero, sono d'accordo e assecondano la crociata No Tap. C'è chi fa notare «veramente pensate che il turista sia disturbato più dalle navi al largo rispetto a quel delirio di segnaletica che avete fatto?». Mentre un altro utente contrattacca: «Post fuorviante ed elettorale per quei quattro gatti che ancora guardano al Tap come una disgrazia. Nessun problema di inquinamento, di rumore, di chiazze in mare, nessun impatto visivo sul territorio, ma solo una grande infrastruttura. Solo mera propaganda politica di cui il sindaco dovrebbe dare atto, visto che conosce perfettamente il motivo per cui la nave sta effettuando dei lavori».

Guardate di nuovo questa foto. Le navi al largo di San Foca non sono certo gli incrociatori che assediano Odessa, eppure nell'Italia affetta dalla sindrome Nimby («not in my back yard», non nel mio cortile) fanno paura quasi allo stesso modo. Tap, dipinto come il demonio da leader di partito, governatori ed ex ministri per fini di mero consenso, in poco più di 14 mesi dall'avvio delle forniture ha già trasportato in Europa 10 miliardi di metri cubi di gas naturale, 8,5 dei quali hanno raggiunto l'Italia garantendo il 10% dell'approvvigionamento nazionale. Tap punta al raddoppio dei flussi in quattro anni (18-20%), condizione fondamentale per diversificare il rischio e affrancarsi dalla dipendenza russa. Ma oggi quelle navi all'orizzonte rappresentano il simbolo di un Paese ostaggio di campanilismo e immobilismo. E dove, come nella metafora di Esopo, perfino in tempi di crisi è più comodo comportarsi da cicale al sole che ragionare da formiche in vista dell'inverno.

Carlo Tecce per “l’Espresso” il 15 maggio 2022.

Lo scienziato Roberto Cingolani ne sapeva così tante che alla fine viene isolato e osteggiato e presto verrà ripudiato per l'unica cosa che non sapeva davvero: la politica. «Appena finisce il governo me ne torno al mio mestiere». 

Il ministro per la Transizione Ecologica rappresenta la regola laddove non abitano le eccezioni: i tecnici si corteggiano per vezzo, ma una volta a corte sono fastidiosi, perché zelanti, maldestri, spigolosi. Invece la politica è l'arte di conoscere qualcosa di tutto e non tutto di qualcosa, di omettere e non mettere troppe dosi di verità.

I bollettini di Palazzo Chigi, per esempio, aggiornano i cittadini sulle temerarie conquiste in giro per il mondo di volitivi ministri e dirigenti di Stato che procacciano miliardi di metri cubi di gas per sopperire alle forniture dei russi. Ovunque vadano c'è pronta una scorta di gas naturale, spesso liquefatto, diciamo da asporto. 

A che prezzo. A che costo. A quali condizioni. In quanto tempo. Dov'è il sito di stoccaggio. Altri dettagli che vengono ignorati. E gli annunci si susseguono con tale ritmo che il gas sembra pure soverchio e tra un po' lo daremo in beneficenza.

Però Cingolani che sta lì a fare i conti, e neppure lo invitano alle missioni internazionali, sprofonda nel panico, dichiara che se i russi insistono possiamo pagare il gas in rubli, lo randellano per bene e si smentisce, fissa a 36 mesi (ha imparato che è meglio non usare anni) l'indipendenza energetica da Mosca, lo ripassano nei retroscena e si corregge, allora facciamo dai 24 ai 30 mesi, più realistico 30 che 24, fate un po' voi, come vi pare.

E dunque lo scienziato che non frequenta Facebook e Twitter perché inquinano, che si è arruolato nel governo per dimezzare le emissioni di anidride carbonica, che deve spendere 69 miliardi di euro col piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ha capito, e se non l'ha capito si sbrighi, che il solo parametro che ha azzerato in quest'anno e mezzo al ministero è il suo potere.

Il difetto è di origine. Il fisico Cingolani si è sempre percepito come uno scienziato di Stato. Ha fondato il polo di nanotecnologia di Lecce. Ha diretto per oltre un decennio l'Istituto italiano di tecnologia di Genova. Ha frequentato i politici, li ha abbindolati facilmente con le sue scoperte, le sue asserzioni, i suoi concetti avveniristici. Introdurre il futuro negli ambienti dove si replica il passato è prorompente. I politici ne erano estasiati perché lo avvertivano esotico, erudito, distante: inoffensivo. E quindi da sfruttare.

Adatto a ogni tipo di platea. Perciò adatto a ogni tipo di incarico. Il premier Matteo Renzi gli affidò le aree Expo di Milano per creare il centro di ricerca medica Human Technopole (2015). I Cinque Stelle e soprattutto Beppe Grillo lo volevano commissario per la ricostruzione del ponte Morandi di Genova (2018).

E poi la politica l'ha strappato definitivamente ai laboratori e ne ha propiziato la nomina a capo dell'innovazione di Leonardo che fabbrica sistemi di difesa e militari (2019). Finché lo scorso anno Grillo l'ha elevato al neonato ministero della Transizione Ecologica, gonfio di miliardi e di equivoci. Cingolani si è ritenuto estraneo alle logiche politiche, immune a qualsiasi interferenza o petulanza, capace di fare la rivoluzione verde, di tramortire la burocrazia, di impiantare pannelli solari, di installare pale eoliche, di espandere l'idrogeno, di inculcare un'esistenza sostenibile, perché dotato di sufficienti nozioni e abilità. Lo paragona, chi non lo apprezza, al sinologo Peter Kien del romanzo "Auto da fé" di Elias Canetti.

Un genio introverso e diffidente che fu fregato da una domestica e da un portiere. Kien è convinto di non essere «tenuto a prestare orecchio alle sciocchezze di ogni passante. Perdersi in chiacchiere è il peggiore pericolo che minacci uno studioso». Al contrario la politica è chiacchiere, mediazione, compromesso. 

Cingolani ha sottovalutato i partiti, sicuro di poterli ammansire con un bocconcino a testa. Ha tentato un ecumenismo politico. Non esiste il ministro che piace a chiunque.

Succede poi che non piaccia a nessuno. Cingolani ha deluso i Cinque Stelle più ambientalisti con le concessioni per le trivellazioni in terra e in mare. Ha battibeccato col ministro Dario Franceschini per le autorizzazioni paesaggistiche al punto che al ministero della Cultura si raccontano in lotta contro l'invasore: voleva eliminare le nostre competenze, instaurare zone idonee senza limiti, ricoprire l'Italia di pannelli.

Ha consegnato il Pnrr ai consulenti della multinazionale di McKinsey in ossequio alle indicazioni del ministero del Tesoro che li aveva reclutati: quattro si sono insediati nei suoi uffici per un paio di mesi e uno del mazzo, Paolo D'Aprile, si è dimesso ed è rimasto a vigilare e dunque coordina la struttura dedicata. Ha proposto il nucleare, poi l'ha ritirato, infine ha argomentato. Ha intimato alla scuola di non insegnare quattro volte le guerre puniche ai ragazzi, ma di divulgare cultura tecnica per formare i professionisti di domani.

Per il dipartimento energia e clima ha scelto Sara Romano, considerata vicina all'ex segretario dem Pierluigi Bersani. Come consigliere diplomatico ha richiesto alla Farnesina l'ambasciatore Giuseppe Manzo, riferimento geopolitico di Renzi. Per il gabinetto ha preso Roberto Cerreto, molto stimato al Quirinale, ex dirigente di Maria Elena Boschi e più pratico con le norme che con la gestione di un ministero, nel governo Gentiloni era il capo del legislativo. Ha partecipato da protagonista a un viaggio per la caccia mondiale al gas. 

Quando Draghi era a casa col covid. Le trattative e le strategie sui rifornimenti di gas sono esclusiva di Palazzo Chigi, ministero degli Esteri con Luigi Di Maio, azienda Eni con l'amministratore Claudio Descalzi. «Ho parlato con Grillo due o tre volte quest' anno. Sono in costante contatto con esponenti importanti dei partiti perché - spiega - per il mio ruolo è fondamentale ascoltare il Parlamento». Anche Grillo si è defilato.

La conseguenza è che Cingolani trova conforto soltanto a Palazzo Chigi, non nel sottosegretario Roberto Garofoli. Il professor Francesco Giavazzi, collaboratore (e vero amico) del premier, lo ha sempre protetto. 

E poi Draghi ha avocato a sé il tema energia. Adesso proteggere Cingolani è proteggersi. La politica è rituale. E anche noiosi adempienti. Il ministro non ha segnalato nel suo stato patrimoniale le poche quote (due per cento) che possiede di Daunia Solar Cell, «era caduta nel dimenticatoio», società pugliese che appartiene alla multinazionale dell'energia Tozzi Green.

Daunia Solar Cell fu aperta nel 2008 per sviluppare una nuova generazione di fotovoltaico con componenti più convenienti rispetto al silicio «a partire dai risultati di ricerca del mio gruppo», precisa il ministro, «poi quella tecnologia è fallita e non ho idea di che fine abbia fatto, ma non ha prodotto nulla». 

Il bilancio del 2019 annunciava il termine dei programmi di studio svolti da Daunia Solar Cell con 676.000 euro di finanziamento agevolato e 232.800 a fondo perduto, il trasferimento del personale in Tozzi Green, il mantenimento «di una licenza relativa all'agente sigillante a bassa temperatura nella preparazione di dispositivi elettronici».

Daunia Solar Cell risulta ancora attiva. Il tema è diverso. Non le azioni. C'è un legame pregresso fra la Tozzi Green e il ministro Cingolani e rendere edotte le Autorità di controllo (il modulo trasparenza è richiesto dall'Anticorruzione) e lo stesso ministero era di certo necessario. 

Il proprietario Andrea Tozzi aveva buone ragioni per accogliere con entusiasmo la promozione a ministro di Cingolani, «persona di grandissimo spessore che ci invidia il mondo». E la Tozzi Green è interessata a espandersi nel mercato italiano, di recente ha acquistato due parchi eolici in Sicilia, ha risposto al bando del ministero per costruire piattaforme galleggianti per ricavare energia solare in mare.

Siccome Cingolani s'era scordato di quel due cento in Daunia Solar Cell, in altre vesti, ha incontrato al dicastero i vertici di Tozzi Green, formalmente suoi soci, senza alcuna precauzione: «Mi libero senza problemi di quelle azioni». 

L'esperimento non è concluso, però attorno si sta facendo buio. Cingolani ha avviato un lavoro che sarà completato da altri. Ha due obiettivi. In ordine: sganciarsi dal gas russo entro 30 mesi e attuare i progetti del Pnrr. In mezzo, molta confusione. E una lezione appresa in ritardo: «Un tecnico sarebbe inutile senza la visione della politica». Il prossimo scienziato prenda nota.

Uccello Fratino, "il padulo del Molise": blocca la ferrovia da 22 anni. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

Il Charadrius Alexandrinus, altrimenti detto Uccello Fratino, è un piccolo volatile bastardo, causa di grandi devastazioni politiche e di naufragi parlamentari.

Probabilmente nostalgico del binario unico della direttrice adriatica inaugurata nel 1863 da re Vittorio Emanuele III°, il Fratino, assieme al collega Coracias Garrulus detto Ghiandaia Marina, da ben ventidue anni, nidifica cocciutamente nei pressi della tratta ferroviaria Termoli - Lesina. Il pennuto, infastidito dalla velocità dei treni e adirato a causa dell'inquinamento acustico («il sistema delle barriere è unanimemente ritenuto inadeguato», recitano le perizie), ama sollevare le masse ecologiste d'ogni dove. E quelle stesse masse di ambientalisti e di decrescenti felici alla Latouche, a loro volta, indotti dal cinguettio di dolore del volatile, spingono e influiscono sulla redazione di documenti di valutazione d'impatto ambientale; e inducono i ministeri, prima dell'Ambiente e ora della Transizione Ecologica, a bloccare qualsiasi tentativo di piano di raddoppio ferroviario tra due regioni, il Molise e la Puglia, che proprio non riescono a spendere i fondi dedicati al progresso infrastrutturale. 

IL "FRATINO PADULO" - Da ventidue anni il Fratino oramai chiamato "il Padulo del Molise" dagli sfiancati politici locali- blocca la linea adriatica, è diventato l'incubo di ogni ministro delle Infrastrutture d'Italia. Soltanto ieri, per dire, negli intervalli pubblicitari di Omnibus su La7, l'ex ministra ora responsabile dell'attuazione del Pnrr del Pd Paola De Micheli, evocava il Fratino con gli occhi che brillavano dello stesso terrore degli spettatori de Gli Uccelli di Alfred Hitchcock. E corre voce che, fino alla settimana scorsa, l'attuale ministro dei Trasporti Enrico Giovannini, già nelle peste della vischiosa burocrazia che attanaglia il 45% delle fondi europei destinati al sud Italia, fosse ossessionato dall'uccello medesimo. 

Giovannini vede le ali del Fratino come quelle d'un angelo caduto. Il ministro si tormenta a causa del mancato affidamento di 594 milioni di euro per la suddetta tratta ferroviaria, paralizzata dalla causa ambientalista, e dal Fratino. Giovannini, da mesi, si passa nervosamente tra le mani il documento di valutazione d'impatto ambientale dell'opera. Documento che recita: «Considerato che velocità maggiori sono indubbiamente associate a un maggior rischio di mortalità della fauna selvatica sulle ferrovie, la moderazione della velocità del treno, almeno nei punti critici e durante i periodi di movimento e di attraversamento più elevati (per esempio, nei periodi della migrazione), dovrebbe essere tenuta in considerazione in quanto può contribuire a ridurre la mortalità degli animali, poiché i treni più lenti hanno meno collisioni». Cioè i treni -già lentissimi sul binario unico- devono rallentare in presenza di Fratino e Ghiandaia. 

Per evitare di produrre loro danni psicologici. Addirittura alcuni vagoni dovrebbero montare videocamere per monitorare gli "incontri ravvicinati" con gli animali. Ci manca solo Hitchcock vestito da capotreno, e il tutto si tinge di surrealismo cinematografico. Da ventidue anni l'Uccello Fratino fa muovere più le carte che le ruspe. Pur col massimo rispetto ornitologico, l'intero arco costituzionale si è battuto per lo sblocco ferroviario di quella tratta di 33 chilometri divenuta simbolo di fanatismo animalista. Un'ossessione paragonabile soltanto alla cura maniacale per il Gallo Cedrone che, per non vedere disturbata la sua attività riproduttiva, spinge il Comune di Madonna di Campiglio a desertificare intere aree sciiistiche. 

GARA CONCESSA - Ora, dopo ventidue anni qualcuno si è accorto che il Fratino e la Ghiandaia Marina (lo dice la parola stessa) nidificano sì, ma solo sulla sabbia e vicino al mare. E la ferrovia non passa vicino al mare. Sicché dopo tale formidabile agnizione, ora la notizia è che Rete Ferroviaria Italiana rende noto di essersi aggiudicata «la gara (il bando era stato pubblicato a inizio dicembre), del valore di circa 440 milioni di euro per la progettazione e la realizzazione del raddoppio della tratta Termoli - Ripalta (24,9 km), ovvero il secondo lotto funzionale del tratto di linea Termoli - Lesina, ancora oggi a unico binario». L'appalto è stato finalmente assegnato al Raggruppamento Temporaneo di Imprese capitanato da D'Agostino Angelo Antonio Costruzioni Generali Srl. Sicchè pare che, infine, il maledetto Fratino non l'abbia avuta vinta. Dopo, ripeto, ventidue anni. Anche se l'attuazione della seconda Ferrovia ha subito notevoli aumenti dei costi (circa 600 milioni), e pare che non vedrà la luce prima del 2028. Non oso pensare se così, en passant, dovessero far capolino un albanella reale, un gabbiamo, una Pulcinella di mare...

Maurizio Belpietro per "La Verità" il 17 aprile 2022.

So che le buone maniere imporrebbero, almeno a Pasqua, di mettere da parte le polemiche. Le festività sono sacre e dovrei mettere in secondo piano le cattive notizie per servirle, fredde, al rientro dal breve riposo offerto dalla Resurrezione. Purtroppo, visto il momento, non ne sono capace e dunque mi scuso in anticipo se farò andare di traverso la fetta di colomba zuccherata e pure il brindisi. Del resto, non sono un ipocrita e non mi riesce di nascondere quel che penso. 

Fatta questa sgradevole premessa, vi devo confessare che siamo nei guai. Non parlo del Covid e di quel ministro senza Speranza che da quasi tre anni si occupa, malamente, della nostra salute. Né mi riferisco ai suoi consiglieri, che riescono a essere più menagrami del titolare. Neppure sono preoccupato dalla guerra: quella ormai c'è e, grazie a politici e opinionisti lungimiranti che si dicono pronti a imbracciare le armi, non c'è verso di fermarla.

No, il guaio che più mi impensierisce in questo momento è quello dell'energia. Fino all'altroieri, cioè a prima che la Russia invadesse l'Ucraina, nessuno era preoccupato per il fatto che Mosca ci fornisse quasi la metà del metano di cui abbiamo bisogno. Anzi: quando Letta e Gentiloni baciavano la pantofola a Putin per ottenere più gas, tutti sembravano contenti, perché si faceva il pieno a prezzi convenienti. Già allora lo zar del Cremlino era quel che era, ossia uno che eliminava gli oppositori con il polonio, oppure ricorrendo a sicari per tappare la bocca ai giornalisti.

Ma nessuno dei compagni sempre pronti a difendere i diritti degli omosessuali pareva turbarsi se la Russia votava una legge anti gay. Poi però il vento è cambiato e anche le ambizioni dei nostri leader e così, a causa di un conflitto che certo non abbiamo cercato, eccoci in prima linea a sostenere Volodymyr Zelensky, cioè uno di cui fino a tre mesi fa neppure conoscevamo l'esistenza. Ora siamo tutti ucraini e tutti anti russi, ma per esserlo davvero dovremmo staccarci dal tubo del gas che tiene in piedi la nostra economia. Tuttavia, rinunciare al metano dell'orso russo significa prepararsi a un inverno rigido, non tanto in casa, quanto nell'economia, perché senza i miliardi di metri cubi che alimentano la nostra industria, è destinata a crollare.

Nella scorsa settimana, di fronte all'insistenza con cui Zelensky ci invita a staccarci dalla canna del gas di Putin, Mario Draghi ha provato a stringere un accordo con l'Algeria, allo scopo di sostituire il metano siberiano con quello africano. Ma bene che vada riusciremo a rimpiazzare un terzo della produzione di qui a due anni, cioè quando la maggior parte delle città ucraine saranno rase al suolo. Nei prossimi giorni, il presidente del Consiglio andrà in missione anche in Angola e Congo, ma sempre bene che vada, alla fine dell'anno prossimo avremo due terzi di quel che ci serve.

E il resto? Qui dovrebbe intervenire la produzione nazionale, ovvero le trivelle in mezzo all'Adriatico, le centrali a carbone che dovremmo riattivare e i rigassificatori che dovremmo costruire. Sì dà però il caso che il ministro della Transizione ecologica, colui a cui i grillini affidarono il compito di inseguire il sogno di un mondo con zero emissioni, si sia messo di traverso. Roberto Cingolani non vuole sentir parlare di trivelle neppure in alto mare, al solo pensiero di bruciare carbone s' infiamma e così pure per quanto riguarda i rigassificatori, ovvero i depositi di metano che consentirebbero di stoccare grandi quantità di gas.

Finché ci sarò io, avrebbe detto secondo un'indiscrezione della Stampa, non se ne fa nulla. In pratica, più che verso la transizione ecologica, Cingolani pensa di traghettarci verso l'era glaciale, cioè in direzione di un periodo in cui dovremo prendere atto che il riscaldamento domestico non è per tutti e che, come l'acqua corrente, la luce non è un diritto. Più che il ministro dell'innovazione energetica e del futuro, Cingolani ci pare il principe delle tenebre, perché dicendo no a tutto rischia di farci precipitare nel Medioevo, quando il calore era garantito dal camino e l'illuminazione dalla candela.

Già oggi l'Italia è uno dei Paesi occidentali meno autosufficienti in materia di energia, ma grazie alle posizioni di Cingolani si rischia di retrocedere ancora di più nella graduatoria. L'unica concessione del Greta Thunberg ministeriale consiste nei rigassificatori galleggianti, una soluzione che oltre a essere costosa, presenta almeno due problemi. Il primo è che non possedendo simili infrastrutture dovremmo noleggiarle e al momento non pare ne esistano di disponibili.

Ma poi, anche se vi fossero e si potessero affittare a costi proibitivi, questi serbatoi in mezzo al mare dovrebbero essere ancorati a un porto, dal quale dovrebbe partire un gasdotto in grado di collegarsi alla rete nazionale. Come dicevo all'inizio, se questa è la linea del governo, siamo nei guai, perché se pensiamo di sostituire il gas russo che serve alla nostra industria con le idee strampalate di Cingolani, non può che finire male. Insomma, so che è Pasqua e che almeno il giorno della Resurrezione dovremmo avere speranza (con la s minuscola, mi raccomando), ma se le cose stanno così non ci resta che spegnere la luce, pronti a una crisi al buio.

Guerra in Ucraina e crisi energetica, Paolo Scaroni accusa gli italiani. Il Tempo il 04 maggio 2022.

"La crisi energetica è colpa degli italiani". Non usa mezze misure Paolo Scaroni, deputy Chairman Rothschild & Co, presidente del Milan ed ex presidente dell'Eni. Intervistato da Barbara Palombelli nel corso della puntata di "Stasera Italia" andata in onda mercoledì 4 maggio, Scaroni punta il dito contro le responsabilità degli italiani nel disastro energetico che stiamo vivendo in questo periodo di guerra. "Finora gli italiani hanno fatto di tutto per votare referendum e opporsi a tutto - ha detto Scaroni durante Stasera Italia - Hanno fatto iniziative contro il nucleare, contro le energie rinnovabili e persino contro le trivellazioni nell'Adriatico".     

Altro grande paradosso è la presenza di giacimenti di gas naturale sui fondali del Mar Adriatico ma nessuno accetta di vedere trivelle in azione. "L'Italia potrebbe estrarre il 30% del gas di cui ha bisogno - prosegue Scaroni - ma, impedendo l'esistenza delle trivelle, si riesce ad estrarre solo 3 miliardi di metri cubi su un consumo totale di 70 miliardi". E pensare che l'Italia potrebbe produrne ben 20 miliardi di metri cubi.    

La vera causa dell'emergenza gas? L'ambientalismo ideologizzato. Francesco Giubilei il 2 Aprile 2022 su Il Giornale.  

La stessa rapidità con cui negli ultimi anni, per seguire le sirene dell’ambientalismo ideologizzato e una concezione della transizione ecologica basata sul tutto e subito, si è smantellata l’indipendenza energetica italiana ed europea, è ora necessaria per correre ai ripari. Non serviva una guerra per capire che la sovranità energetica non è un vezzo ma una prerogativa di cui una nazione come l’Italia non può fare a meno. Eppure le scelte compiute per seguire una certa vulgata, unite a una congiuntura geopolitica internazionale sfavorevole, ci hanno portato a dipendere in modo eccessivo da un unico fornitore, la Russia, da cui oggi siamo costretti a dover rivedere le nostre forniture.

Le strade intraprese per diversificare l’approvvigionamento di gas sono essenzialmente quattro: aumentare le forniture da altri paesi come l’Algeria o l’Azerbaijan con la realizzazione del nuovo gasdotto Eastmed; accrescere l’estrazione di gas italiano; incrementare il Gnl (gas liquido) e puntare sulle rinnovabili. Il Gln arriverebbe in prevalenza dagli Stati Uniti via mare in nave ma ha una serie di problematiche dovute al costo più alto (si stima del 15-20% rispetto al gas che arriva tramite gasdotto), al fatto che inquina di più dovendo essere trasportato oltre Oceano e soprattutto alla mancanza di un numero sufficiente di rigassificatori, gli impianti necessari per convertire il gas che sono solo tre in tutta Italia. Inutile dire che costruirne di nuovi, oltre a investimenti, richiede tempo che non abbiamo.

Fa particolarmente riflettere l’intervista rilasciata dal commissario europeo per il mercato interno Thierry Breton in cui ha sostenuto che l’Ue è pronta a sostituire il metano russo ma “serviranno carbone e nucleare”. Le sue dichiarazioni cancellano anni di propaganda ambientalista poiché, nel caso dovessero interrompersi le forniture di gas dalla Russia, per compensare il fabbisogno energetico, sarà necessario rinviare la chiusura delle centrali nucleari e riattivare quelle a carbone.

Sebbene il primo obiettivo della commissione sia “più Gnl e spinta all’eolico e al solare”, non esclude ricorrere a soluzioni fino a pochi mese fa apertamente osteggiate. Breton ha puntato il dico contro l’Italia e la Germania poiché “il mix energetico dipende esclusivamente dalle scelte degli Stati. Alcuni sono stati prudenti, hanno diversificato, garantendo la sicurezza degli approvvigionamenti, altri no”.

Spiegando: “Guardiamo alla Germania: ha scelto di fermare le centrali nucleari, passando a un maggior utilizzo del gas e del carbone russi. L'Italia ha deciso di avere nel suo mix energetico il 40% di gas, con il 40% di questo che arriva dalla Russia. Oggi siamo in una situazione difficile perché ogni anno importiamo 155 miliardi di metri cubi di gas dalla Russia. La sola Italia ne acquista 30 miliardi, il 20%. E questa dipendenza è stata scelta”.

Da qui la necessità di un piano per essere pronti a ogni evenienza che prevede la sostituzione entro la fine dell’anno prossimo di “50 miliardi di metri cubi di gas con l'aumento delle forniture di gas naturale liquefatto, anche se ovviamente bisogna incrementare la rigassificazione. Altri 10 miliardi via gasdotto, soprattutto a Sud, dal Nord Africa o dall'Est. Possiamo inoltre ridurre il consumo abbassando termosifoni e climatizzatori e accelerando il risparmio energetico: circa 14 miliardi. E poi spingere il biometano, così come i progetti per l'eolico e il solare: ulteriori 25 miliardi”.

Un progetto che permetterebbe di raggiungere circa 100 miliardi di metri cubi lasciando un gap di 50 miliardi di metri cubi in caso di un’interruzione improvvisa, da qui l’apertura a fonti energetiche più tradizionali: “In una situazione estrema avremmo bisogno di misure estreme. Penso alle centrali a carbone: si potrebbe decidere di non chiuderle oppure di riaprirle. Questo ci permetterebbe di sostituire 20 miliardi di metri cubi di gas, di cui 14 dalla sola Germania. Stesso discorso per le centrali nucleari, che garantirebbero l'equivalente di 12,5 miliardi di metri cubi di gas”.

Si tratta di un piano a tutti gli effetti emergenziale vista la situazione in cui si trova l’Europa ma è arrivato il momento di realizzare proposte in grado di garantire nei prossimi decenni una sovranità energetica italiana ed europea ma, ancora una volta, rischiamo di imboccare una strada, quella del Gnl, che presenta numerose criticità e limiti.

Enrico Pirondini per blitzquotidiano.it il 12 aprile 2022.

Gas naturale, nel nostro mare ce ne è un tesoro. E 50 piattaforme da riattivare. Cosa aspettiamo? Trivelle, sì o no?  Decidiamoci. Cancelliamo la vergogna impostaci da Conte e dai grillini. 

Cerchiamo gas da tutte le parti, anche da fornitori peggiori di Putin, e l’abbiamo in casa ma non lo estraiamo. Non trivelliamo. Fenomeni.

In Adriatico c’è un tesoro di gas ma siamo bloccati da paure immotivate dì subsidenza, cioè abbassamento del suolo. Vero, falso? Gli ambientalisti dicono che è vero, gli ingegneri idraulici sostengono il contrario. 

Morale, tutto fermo. L’Italia piange, la Croazia (nostra dirimpettaia) ride. Loro fanno il pieno di gas, noi facciamo il vuoto di idee. L’Adriatico è come un bicchiere con due cannucce: i croati la usano, noi no.

Sono una cinquantina, distribuite fra Emilia Romagna e Marche. Dai Lidi ferraresi a San Benedetto. Se riattivate, potrebbero fornire “circa 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno”, come dice Davide Tabarelli, leader Nomisma energia e docente universitario.

Ed allora cosa aspettiamo? La Croazia galoppa con le trivelle di Zagabria. Quest’anno incrementerà il bottino di 285 milioni di metri cubi di gas naturale; passerà dal 30 al 40% del proprio fabbisogno nazionale. Ironia della sorte (cercata):  è stata scelta una impresa italiana – la Edison – “castrata” sul fronte dell’offshore nazionale. 

Lo stop tricolore risale al 2019, ai tempi del primo governo Conte. E ora, insieme alla Grecia (che già trivella sul confine marittimo fra la Puglia e Corfù ) stanno muovendosi anche Albania, Montenegro e Bosnia; hanno già avviato i progetti di ricerca e le esplorazioni.

La possibilità di costruire l’autonomia energetica nazionale si ridimensiona. Draghi -meno male – le ha cantate chiare in occasione del voto (unanime) al Def avvertendo sul possibile embargo verso Mosca. Cari miei, scegliete: la pace  o l’aria condizionata. Un messaggio di realpolitik. Tempo da perdere non ce n’è’. 

Le battaglie identitarie dei singoli partiti portano al fatto che le istituzioni non rispondono ai bisogni dei cittadini e delle imprese. Vabbè che siamo in campagna elettorale ma bisogna scendere dal pero. Trivelliamo o andiamo a fondo?

Fausta Chiesa per corriere.it il 27 aprile 2022.

È il primo parco eolico offshore del Mediterraneo ed è stato inaugurato il 21 aprile a Taranto. A realizzarlo, 14 anni dopo la presentazione del progetto, è la società del gruppo Toto Renexia. L’impianto, che è stato chiamato «Beleolico», comprende dieci pale per una capacità complessiva di 30 MW e assicurerà una produzione di oltre 58 mila MWh, pari al fabbisogno annuo di 60 mila persone.

In termini ambientali vuol dire che, nell’arco dei 25 anni di vita prevista, consentirà un risparmio di circa 730 mila tonnellate di anidride carbonica. Beleolico, ha dichiarato Renexia, rappresenta la realizzazione del primo parco eolico marino d’Italia e dell’intero Mediterraneo. La prima turbina era stata installata il 6 febbraio a trecento metri dalla costa. 

L’investimento complessivo per la realizzazione di è di 80 milioni di euro. «L’eolico offshore - hanno spiegato i vertici di Renexia - rappresenta una tecnologia innovativa che rispetta l’ambiente perché non consuma suolo ma punta a sfruttare la maggiore forza del vento che il posizionamento in mare garantisce, rispetto a un impianto di terra. Anche le principali associazioni ambientaliste sono favorevoli a questa tipologia di impianti. Si tratta quindi di una vera alternativa alle centrali clima alteranti, per la produzione di energia pulita e contribuire così alla riduzione delle emissioni in atmosfera». 

La concessione per 25 anni

Nel periodo di durata della concessione di Beleolico, pari a 25 anni, Renexia si impegnerà per creare una filiera industriale intorno al parco, per valorizzare le risorse imprenditoriali e professionali già presenti nell’area e far nascere una filiera italiana specializzata nella realizzazione e gestione di parchi eolici offshore.

Un accordo con l’Autorità portuale del Mar Ionio, porto di Taranto, regolerà la fornitura pari a 330 megawatt annui, il 10 per cento dell’energia prodotta dal parco offshore. «Ci auguriamo - ha dichiarato Riccardo Toto, direttore generale Renexia - di poter replicare anche con altre realtà l’accordo con il porto di Taranto».

L’evento di inaugurazione

All’evento di inaugurazione dell’impianto, presso l’area Yilport di Taranto, hanno partecipato autorità nazionali e locali tra cui il Presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, il Presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, Sergio Prete, il Presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè, il Presidente Legambiente, Stefano Ciafani, il Presidente dell’Aiad, Guido Crosetto e il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone.

Legambiente «Il Paese dovrebbe chiedere scusa per i ritardi burocratici»

Per Legambiente, è stata una giornata importante per la lotta alla crisi climatica, ma è anche il momento di chiedere scusa alle aziende delle rinnovabili per i ritardi burocratici e gli ostracismi di Sovrintendenze, Regioni, Comuni e comitati locali. «Dopo 14 anni di ritardi e ostracismi istituzionali - ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente - finalmente a Taranto parte il primo parco eolico offshore del mar Mediterraneo.

È un caso emblematico della via crucis autorizzativa del nostro Paese: il progetto proposto nel 2008 ha avuto la contrarietà degli enti locali e ricevuto il parere negativo della Sovrintendenza per un incomprensibile impatto visivo, considerando la presenza delle ciminiere dell’ex Ilva, della raffineria Eni, del cementificio e delle gru del porto industriale.

Il caso di Taranto è purtroppo solo la punta di un iceberg perché in Italia sono tanti i progetti sulle rinnovabili bloccati per eccessiva burocrazia, no delle amministrazioni locali, pareri negativi delle Sovrintendenze, moratorie delle Regioni, proteste dei comitati locali e di alcune associazioni ambientaliste. Tutto ciò è inammissibile: il Paese dovrebbe chiedere scusa alle aziende che in Italia stanno investendo sulle fonti pulite. Speriamo che il caso di Taranto segni il punto di svolta per lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, in una città che vive ancora l’era del carbone, del petrolio e dell’inquinamento, con l’augurio che questa inaugurazione possa essere l’inizio del riscatto tarantino nel segno dell’innovazione e delle tecnologie pulite». 

L'INTERVISTA. Il Parco eolico a Taranto? «Ecco tutti quelli che dicevano no». Il racconto e i retroscena, dopo l'inaugurazione, del progettista Luigi Severini. Fabio Venere su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Aprile 2022

TARANTO - «Vi spiego chi, in questi quattordici anni, ha fatto parte del partito del No ostacolando il parco eolico offshore a Taranto». Inizia così l’intervista che Luigi Severini, ingegnere tarantino, concede alla «Gazzetta» il giorno dopo l’inaugurazione delle dieci turbine in mar Grande che rappresentano l’investimento di 80 milioni di euro di Renexia (attraverso il Gruppo Toto). Ecco, Severini è quello che può considerarsi il padre di questo progetto. Correva l’anno 2008.

Ingegner Severini, in questi 14 anni, ha mai avuto la tentazione di mollare tutto e arrendersi alla burocrazia?

«No, mai. Ci ho sempre tenacemente creduto».

L’altro ieri, nel corso della tavola rotonda organizzata al Porto, il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, si è scagliato contro il partito del no. Secondo lei, chi ne ha fatto parte?

«La sua composizione è piuttosto articolata. Partiamo dal 2008, da quando presentammo il progetto per la prima volta. Prima, però, vorrei ricordare che in quello stesso anno una legge voluta dall’ex ministro Di Pietro aveva attribuito la competenza autorizzativa sugli impianti offshore allo Stato e non alle regioni».

E invece?

«Il Comune di Taranto si oppose, ma non solo. Sulla scorta di un pronunciamento negativo da parte della commissione consiliare Ambiente dell’Amministrazione comunale, la Regione Puglia accese il semaforo rosso. Dunque, la nostra iniziativa imprenditoriale partì con l’opposizione degli enti locali».

In particolare, su cosa si basava il no del Comune di Taranto?

«Di fatto, non c’era alcuna motivazione oggettiva. Quello fu un atteggiamento pregiudiziale, politico anche in considerazione del fatto, già di per sè clamoroso, che gli uffici tecnici del Municipio invece avevano fornito un parere positivo. L’Amministrazione comunale fece così ricorso al Tar, che perse, e poi propose persino appello in Consiglio di Stato. Che perse anche in quel caso. In realtà, i legali del Comune sostennero la tesi che ci dovesse essere una distinzione tra impianti nearshore e offshore. Ma questo non esiste. Per la nostra legislazione, infatti, anche dopo poche decine di metri si deve parlare di offshore».

Ingegnere, ma la linea del Comune di Taranto non vi ha certo bloccato per 14 anni. E allora, chi altri vi ha ostacolato?

«La posizione assunta da Palazzo di Città, infatti, ci ha rallentato complessivamente per tre - quattro anni».

E negli altri?

«La Soprintendenza ai Beni paesaggistici espresse parere negativo che è ancora agli atti, ma che abbiamo bypassato (con un dispendio di tempo non irrilevante) con il via libera poi ottenuto a Roma direttamente dal ministero dei Beni culturali».

E cos’altro è accaduto nel corso di questi anni che hanno preceduto l’inaugurazione del parco dell’altro ieri?

«Proprio a causa dei ricorsi amministrativi intrapresi dal Municipio, non abbiamo potuto applicare le tariffe per le energie rinnovabili che, per dir così, avevamo spuntato al termine di una gara pubblica. Saltato quel giro, poi siamo stati costretti ad attendere altri tre anni affinché il ministero per lo Sviluppo economico emanasse un nuovo decreto con le nuove tariffe. Che, anche in quel caso, ci siamo poi aggiudicati».

Cattiva burocrazia?

«Non solo. Ci ha messo del suo anche il privato».

In che senso?

«Proprio quando tutto l’iter burocratico era sostanzialmente finito, tra il 2017 e il 2018, il fallimento dell’azienda tedesca Senvion ha costretto Renexia a ricercare un altro operatore internazionale per la costruzione delle turbine (poi realizzate dalla cinese Ming Yang Smart Energy)».

Sui social network c’è chi ha polemizzato sulla distanza di alcune turbine dalla costa. In particolare, l’attenzione si è concentrata su quelle più vicine al molo polisettoriale che sarebbero troppo vicine ad uno specchio d’acqua di Lido Azzurro in cui, in genere, d’estate, ci sono diversi bagnanti. Come valuta queste affermazioni?

«Mi sembra un dibattito inutile. È tutto legittimo. Le dieci turbine distano da un minimo di 200 - 300 metri dalla costa ad un massimo di tre chilometri. Ma quale sarebbe il problema dei bagnanti? Temono di nuotare vicino ad una turbina eolica? Mah, forse, non sanno che nel Nord Europa capita così e già da anni ormai. E poi, quale sarebbe l’alternativa?».

In che senso?

«Chi si lamenta preferisce l’industria pesante e l’energia prodotta in maniera tradizionale e quindi con il carbone? Magari poi protestano le stesse persone che, partecipando alle tavole rotonde, invocano le energie rinnovabili».

A proposito, invece, della potenza prodotta dal parco eolico di Taranto (58mila megawattora annui), onestamente, non può certo sopperire a quella che deriva dalle forme tradizionali e pià inquinanti. È d’accordo su questo?

«Vogliamo dire che è una goccia? Bene, nel mare ci vanno le gocce. Uscendo da quest’immagine, è vero non c’è (ancora) proporzione, ma da una parte bisogna pure iniziare ad invertire la rotta. Che porterà a risultati davvero importanti anche per quel che riguarda la realizzazione di nuovi posti di lavoro».

A cosa si riferisce esattamente?

«Il parco eolico offshore di Taranto è il primo in Italia e nel Mediterraneo e quindi presto saremo un punto di riferimento internazionale, dando vita ad un distretto produttivo in cui collaboreranno enti di ricerca e l’Università. Metteremo a disposizione degli altri la nostra esperienza e le nostre competenze tecniche maturate in questo progetto che, finalmente, ha visto la luce».

Taranto dà il benvenuto al primo Parco eolico marino del Mediterraneo. I ministri Di Maio, Giovannini e Giorgetti hanno inviato messaggi di auguri, tutti uniti nel «sì» alle soluzioni innovative. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Aprile 2022.

È stato inaugurato oggi a Taranto il primo parco eolico marino del Mediterraneo. Si tratta di Beleolico, nome dell’impianto che Renexia, società del Gruppo Toto attiva nelle rinnovabili, ha realizzato al largo del molo polisettoriale tarantino. L’impianto, che comprende dieci pale per una capacità complessiva di 30 MW, assicurerà una produzione di oltre 58mila MWh, pari al fabbisogno annuo di 60mila persone. In termini ambientali vuol dire che, nell’arco dei 25 anni di vita prevista, consentirà un risparmio di circa 730mila tonnellate di anidride carbonica. Per la distribuzione dell’energia sul territorio Renexia ha costruito una sottostazione per l’allaccio alla rete elettrica nazionale in località Torre Triolo, a pochi chilometri dall’area portuale. L'investimento complessivo per la realizzazione di Beleolico è di 80 milioni. 

Oggi si è svolta anche una tavola rotonda dal titolo «Beleolico: Taranto riparte con energia. L’Italia scommette sulle rinnovabili», cui hanno partecipato, insieme con il direttore generale di Renexia, Riccardo Toto, il presidente dell’Autorità di Sistema Portuale del Mar Ionio, Sergio Prete, il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, il presidente dell’Aiad, Guido Crosetto e il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone. In collegamento video il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, e il presidente di Acciaierie d’Italia, Franco Bernabè.

Hanno inviato messaggi, anche video, i ministri Di Maio, Giorgetti e Giovannini. «Il completamento di quest’opera - ha commentato l'imprenditore che ha realizzato Beleolico, Riccardo Toto, direttore generale di Renexia - centra un duplice obiettivo, da una parte la soddisfazione per aver realizzato il primo impianto eolico marino in Italia e nel Mar Mediterraneo, dall’altra la consapevolezza che il nostro approccio, basato sulla condivisione, possa contribuire alla creazione di un nuovo protocollo che coniughi tecnologia e attenzione all’ambiente». Al termine del convegno il simbolico taglio del nastro e la benedizione dell’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro. 

Gli auguri dei Ministri

«Cogliamo pienamente il valore strategico di questo progetto nel contesto della transizione energetica che, in linea con gli obiettivi del Green Deal europeo, ci prefiggiamo di accelerare per raggiungere la neutralità climatica al 2050. Aziende come Renexia svolgono un ruolo importante per lo sviluppo di soluzioni innovative che favoriscano l’incontro tra domanda e offerta nel modo più efficiente e sostenibile». Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio nel messaggio inviato per l’inaugurazione di Beleolico, il parco eolico offshore a Taranto realizzato da Renexia (società del gruppo Toto).

«Con questa consapevolezza - ha aggiunto - l’approccio della Farnesina nella sua missione di sostegno all’internazionalizzazione del sistema produttivo e promozione del commercio estero, si fonda su un dialogo costante con la realtà imprenditoriale. Siamo al vostro ascolto, per mettere in campo, come abbiamo fatto durante l’emergenza pandemica con il Patto per l’Export, le misure più adeguate alle vostre esigenze e difficoltà».

Per Di Maio, «nell’attuale congiuntura, abbiamo anzitutto istituito alla Farnesina un’unità di crisi per le imprese italiane, con l’obiettivo di assicurare loro assistenza a fronte delle ripercussioni del conflitto in Ucraina cui sono più esposte. Allo stesso tempo, nel disegnare e attuare strumenti di sostegno - ha evidenziato il ministro - continueremo a sostenere quei processi di transizione verde, digitalizzazione e innovazione che consentiranno al nostro tessuto economico di essere sempre più competitivo a livello internazionale». 

«In questo frangente, mentre portiamo avanti in raccordo con i nostri partner e alleati una risposta ferma e incisiva contro l’illegale condotta russa, e a sostegno dell’Ucraina e della sua popolazione, siamo fortemente impegnati anche sul fronte, cruciale, della diplomazia energetica». E’ quanto sostiene il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, in un messaggio inviato a Taranto in occasione della cerimonia inaugurale di Beleolico, il primo parco eolico marino del Mediterraneo, sviluppato da Renexia.

«Il processo di transizione ecologica - per Di Maio - rappresenta l’unica via in grado di garantire sostenibilità, resilienza e adattabilità del settore energetico. Ciò appare ancora più evidente nell’attuale congiuntura internazionale, segnata dall’inaccettabile aggressione russa all’Ucraina e dalle sue gravissime ripercussioni geopolitiche, umanitarie ed economiche».

«In Italia siamo determinati ad accelerare l’installazione di energia rinnovabile e elevarne la quota nel mix energetico nazionale. Le rinnovabili significano, peraltro, sicurezza e autonomia per il nostro sistema, nonché maggiore convenienza e capacità di creare valore e occupazione». Lo ha sottolineato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio in un messaggio inviato per l’inaugurazione di Beleolico a Taranto, il primo parco eolico marino del Mediterraneo.

«Tra le forme di energia pulita - ha proseguito - l’energia offshore può offrire un contributo cruciale al processo di transizione ecologica e assicurare al contempo opportunità economiche ai paesi con estese aree costiere, come l’Italia, promuovendo le catene di valore locali e le sinergie tra i diversi attori della blue economy. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia Rinnovabile (Irena), questa forma di energia è già competitiva in molte aree geografiche, rispetto alla generazione da fonti fossili».

Nella prospettiva «di incrementare - ha chiarito il ministro - la quota di energie rinnovabili e sviluppare le competenze tecnologiche e industriali nelle principali filiere della transizione, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza incoraggia lo sviluppo di soluzioni innovative come le rinnovabili offshore, puntando a combinare le tecnologie ad alto potenziale di sviluppo a quelle ancora in fase sperimentale». "L'obiettivo del Pnrr - ha sottolineato - è realizzare nei prossimi anni impianti per una capacità totale installata di 200 MW, assicurando così anche un contributo significativo alla riduzione delle emissioni climalteranti».

«Questa iniziativa si inquadra in un ambito complessivo di investimento nel nostro Paese sul fronte dell’energia rinnovabile che nei prossimi anni vedrà un vero e proprio balzo in Italia di impianti di varia natura. Ovviamente mi riferisco a impianti di energia rinnovabile resa ancora più necessaria da questa crisi drammatica che è stata scatenata dalla guerra in Ucraina». Lo ha detto il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Enrico Giovannini in un videomessaggio in occasione dell’inaugurazione del parco eolico offshore realizzato da Renexia a Taranto. «La trasformazione verso la sostenibilità - ha aggiunto - passa ovviamente dalla produzione di energia rinnovabile in tutto il mondo. Impianti come questo possono essere una risposta importante al nostro fabbisogno. E’ importante non solo valorizzare buone pratiche come questa, ma anche coinvolgere le comunità per comprendere quali soluzioni possono essere ottimali dal punto di vista della produzione di energia e relativamente meno impattanti».

Secondo Giovannini, «l'investimento di innovazione è indispensabile per consentirci di guardare al futuro in modo diverso, più sostenibile dal punto di vista ambientale ma anche economico e sociale». Il ministro ha sostenuto che "l'insostenibilità la pagano soprattutto quelli che stanno più indietro, come stiamo vedendo anche a causa di questa crisi energetica. Pensare anche in termini innovativi, realizzare - ha osservato il ministro - impianti innovativi, sicuri da tutti i punti di vista, è un contributo non solo alla crescita economica, non solo alla riduzione dell’impatto ambientale, ma al miglioramento delle disuguaglianze».

«Sappiamo che c'è una scuola di pensiero contraria alle installazioni di parchi eolici e di parchi fotovoltaici in nome di un elemento che è tutelato dalla nostra Costituzione: la tutela del paesaggio che però va considerato insieme ad altre tutele di cui la nostra Costituzione si fa garante, tra l’altro proprio quella degli ecosistemi, dell’ambiente, nell’interesse delle future generazioni come recita il cambiamento dell’articolo 9 della nostra Costituzione recentemente votato dal Parlamento». Lo ha sottolineato il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Enrico Giovannini nel videomessaggio in occasione dell’inaugurazione del parco eolico offshore realizzato da Renexia a Taranto. «Avere - ha proseguito - un bilanciamento dei diversi interessi, delle diverse necessità, anche in un’ottica di future generazioni, richiede un nuovo modo di pensare e vedere anche per infrastrutture come questa che sono innovative e che sono necessarie per assicurare l’indipendenza energetica nel nostro Paese, ma che certamente hanno un impatto sul paesaggio limitato tutto sommato rispetto ad altre soluzioni».

Giovannini auspica che si trovino «soluzioni di mediazione anche per ciò che riguarda parchi eolici e fotovoltaici e iniziative di energie rinnovabili, perché ne abbiamo bisogno per il benessere di questa generazione e soprattutto delle future generazioni».

«Questo è anche un momento di orgoglio perchè questo primo parco eolico marino in buona sostanza apre la strada a quello che è è un grande programma di produzione di energia rinnovabile e compatibile con l’ambiente, come quello che Renexia ha immaginato in una zona particolarmente delicata per tanti aspetti come quella di Taranto». Lo ha dichiarato il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, in un videomessaggio inviato per l'inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto, realizzato da Renexia. «Le emergenze che stiamo vivendo in questi momenti - ha aggiunto - si coniugano con quella che era già stata la decisione di spingere moltissimo per tutte le energie rinnovabili, ma l’eolico applicato al marino può essere per l'Italia davvero un settore importante di sviluppo. Altre iniziative hanno avuto il via libera e c'è grande impulso da parte del Governo».

Per Giorgetti, «la realtà vera di oggi è che Renexia è riuscita a bruciare le tappe e a inaugurare il primo paro eolico marino. Vanno i miei complimenti alla società e coloro che hanno contribuito a portare avanti questo progetto». «Naturalmente - ha concluso il ministro - questo può rappresentare una pietra miliare e un motivo di emulazione per tanti altri che, finanziati magari con i contratti di sviluppo e iniziative che il Pnrr ha messo in campo, possano dare un contributo fattivo a quella che sarà in prospettiva la sovranità energetica del Paese che è l’obiettivo che tutti quanti ci dobbiamo porre».

A margine della cerimonia di inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto, è stato firmato un accordo tra l’Autorità Portuale e Renexia per la cessione di una parte dell’energia prodotta da Beleolico per consentire la totale elettrificazione del porto di Taranto. Si tratta della cessione di almeno il 10% dell’energia prodotta, per un quantitativo comunque non inferiore a 220 MWh annui. Il presidente dell’Authority Sergio Prete e il direttore generale di Renexia Riccardo Toto, dopo aver siglato l’intesa, hanno sottolineato come «elettrificare il porto significhi una riduzione molto elevata dell’inquinamento, se si considera che ogni nave che entra in porto e non spegne i motori produce un inquinamento su base giornaliera pari a quello di 10 mila vetture»

LA BENEDIZIONE DEL VESCOVO

«Benediciamo il parco e anche chi ci deve lavorare. Nella settimana di Pasqua, dare inizio a un evento del genere è proprio una gioia grande, è proprio un proseguimento del Mistero della resurrezione. Io sono qui da 10 anni e aspettavo i segni di una inversione di rotta reale. Questo lo è e ne aspettiamo altri, soprattutto nel campo di produzione di energia alternativa e di passaggio graduale, progressivo, dal ciclo completo del carbone nelle Acciaierie d’Italia al ciclo integrato, ad una realtà che abbia come riferimento il bene della persona, la salvaguardia della salute, della vita, dell’ambiente e quindi del lavoro e dell’economia». Così l’arcivescovo di Taranto, Filippo Santoro, durante la benedizione del parco eolico offshore realizzato da Renexia. 

«Questa battaglia energetica positiva - ha aggiunto - è per l'innovazione tecnologica. Come parrocchie, dopo la 49esima Settimana dei Cattolici Italiani a Taranto, ci siamo impegnati a fare in ogni chiesa, sono 26mila, le parrocchie energetiche. Questo progetto che voi fate con le pale eoliche è un impegno forte rispettando le caratteristiche storiche dei templi, delle strutture, ma proprio per il bene della persona. Chiamiamolo Beleolico perché legato alla bellezza, la bellezza ha a che vedere con il lavoro, con la vita, con la fede, con la resurrezione».

Legambiente: 14 anni di ritardi

«Dopo 14 anni di ritardi e ostracismi istituzionali, finalmente a Taranto parte il primo parco eolico off-shore del mar Mediterraneo. È un caso emblematico della via crucis autorizzativa del nostro Paese: il progetto proposto nel 2008 ha avuto la contrarietà degli enti locali e ricevuto il parere negativo della Sovrintendenza per un incomprensibile impatto visivo, considerando la presenza delle ciminiere dell’ex Ilva, della raffineria Eni, del cementificio e delle gru del porto industriale». Lo ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, ospite della tavola rotonda a margine dell’inaugurazione del parco eolico offshore a Taranto realizzato da Renexia. "Il caso di Taranto - ha aggiunto - è purtroppo solo la punta di un iceberg perché in Italia sono tanti i progetti sulle rinnovabili bloccati per eccessiva burocrazia, no delle amministrazioni locali, pareri negativi delle Sovrintendenze, moratorie delle Regioni, proteste dei comitati locali e di alcune associazioni ambientaliste. Tutto ciò è inammissibile». Secondo Ciafani, «il Paese dovrebbe chiedere scusa alle aziende che in Italia stanno investendo sulle fonti pulite. Speriamo che il caso di Taranto segni il punto di svolta per lo sviluppo delle rinnovabili in Italia, in una città che vive ancora l’era del carbone, del petrolio e dell’inquinamento, con l’augurio che questa inaugurazione possa essere l’inizio del riscatto tarantino nel segno dell’innovazione e delle tecnologie pulite».

Francesco Bisozzi per “il Messaggero” il 21 aprile 2022.  

Ci sono quelli che preferisco i ciottoli del paleolitico ai pannelli solari, chi dice no ai rigassificatori per non offendere la memoria di Luigi Pirandello e chi si oppone all'eolico offshore perché in fondo al mare ci sono tesori risalenti all'antica Cartagine. Benvenuti nell'Italia che non fa pace con la transizione energetica e che chiude gli occhi davanti alla minaccia di un blocco delle forniture di gas russo.

Partiamo dal rigassificatore di Porto Empedocle, in provincia di Agrigento, fermo dal 2006: i tre rigassificatori in funzione in Italia non bastano a lavorare i nuovi volumi in arrivo grazie al tour del gas in Africa del governo. Ecco perché Enel si è detta pronta a riprendere in mano il progetto dell'impianto di gnl in Sicilia, ma Legambiente e cittadini si oppongono. Il sito scelto per realizzare il rigassificatore è troppo vicino alla Valle dei Templi e alla dimora storica di Pirandello. Nel frattempo la licenza per la costruzione dell'impianto è scaduta e dalla Soprintendenza di Agrigento fanno sapere che non risultano avviati procedimenti per il rilascio di nuovi pareri.

 All'Italia servono anche due rigassificatori galleggianti da circa 5 miliardi di metri cubi ciascuno e il governo conta di piazzare una delle due unità galleggianti in Puglia e più precisamente nei porti di Taranto o Brindisi. Dovrà fare però i conti con i sindaci delle due città, che hanno già detto di essere contrari. Di questo passo, il gnl proveniente dall'Africa rischia di rimanere sulle metaniere una volta giunto nei nostri porti.

I rifiuti continueranno a essere trasferiti all'estero, dove al momento già spediamo 581mila tonnellate di scarti l'anno. E la crescita delle rinnovabili proseguirà con il contagocce: entro il 2030 vanno installati almeno 70 gigawatt di potenza da fonti rinnovabili, ma il tasso annuo di installazione è oscillato negli ultimi sette anni tra 0,8 e 1 gigawatt di potenza media. Colpa della burocrazia, dei movimenti Nimby (non nel mio cortile) e del fenomeno Nimto (non nel mio mandato).

Renexia vuole costruire al largo delle Egadi un parco eolico galleggiante capace di generare energia elettrica sufficiente a coprire il fabbisogno di 3,4 milioni di famiglie: presenterà la richiesta per la valutazione di impatto ambientale prima dell'estate, nonostante l'Assemblea regionale siciliana si sia già espressa a sfavore nelle scorse settimane.

Nell'area in cui verrebbe realizzato il parco eolico offshore sono presenti i resti di imbarcazioni affondate e risalenti all'epoca degli scambi con l'antica Cartagine. A Centuripe, in provincia di Enna, per non recare danno a dei ciottoli del paleolitico inferiore, la Soprintendenza ha deciso l'anno scorso di bloccare il progetto di una centrale fotovoltaica da 384,1 megawatt di potenza solare.

Il premier Draghi nei giorni scorsi ha messo gli italiani davanti a un bivio con quel «preferite la pace o i condizionatori», ma a giudicare dai tanti progetti per la diversificazione delle fonti di approvvigionamento che risultano fermi al palo verrebbe da chiedersi se gli italiani preferiscono salvare i ciottoli del paleolitico o non rischiare di subire i razionamenti sull'energia.

E ancora. Nel porto di Genova, sulla nuova diga foranea, sarebbe dovuto sorgere un parco eolico, ma dal momento che andrebbe a deturpare il paesaggio, il progetto non ha ricevuto il via libera della Soprintendenza speciale per il Pnrr. Peccato, perché le turbine alte 50 metri avrebbero coperto il 6,5% del fabbisogno energetico del porto genovese.

In provincia di Biella, nel Comune di Cavaglià, è in fase di valutazione ambientale un progetto per realizzare un termovalorizzatore da 110 megawatt e capace di smaltire 278mila tonnellate di rifiuti l'anno. L'impianto è stato proposto da A2A, ma associazioni e cittadini hanno chiesto una serie di modifiche: se non arriveranno entro settembre il progetto verrà archiviato. Altri investimenti andati in fumo.

Trivelle, lo stop di 24 Comuni: ministero fuori tempo massimo, ricorso al Tar. Alessia Conzonato su Il Corriere della Sera il 12 aprile 2022.

A due mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Pitesai, Piano della transizione energetica sostenibile delle aree idonee, si presentano le prime contestazioni: ben 24 Comuni italiani, in cinque diverse regioni (Abruzzo, Basilicata, Campania, Sicilia e Piemonte) hanno presentato ricorso alla magistratura contro il provvedimento, che è volto a individuare le zone dove sono consentite le attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi sul territorio nazionale.

Il ritardo nella pubblicazione del Pitesai

Di fronte al Tar del Lazio, i Comuni impugnano il Pitesai, approvato dal ministero della Transizione ecologica con il decreto n. 548 del 28 dicembre 2021, chiedendone l’annullamento. A organizzare l’iniziativa e a unire i Comuni è stato il Coordinamento nazionale No Triv e il ricorso, firmato dall’avvocato Paolo Colasante, è stato preparato grazie alla collaborazione del docente universitario Enzo Di Salvatore, autore anche dei quesiti del referendum «no triv» del 2016. La richiesta dell’annullamento si basa su quattro punti fondamentali. Il primo riguarda il ritardo nell’adozione del Pitesai: secondo il decreto legge n. 135 del 2018, convertito nella legge n. 12 del 2019, avrebbe dovuto essere adottato entro il 30 settembre 2021 ma la pubblicazione in Gazzetta è avvenuta l’11 febbraio 2022, ben oltre il termine previsto. Stando ai Comuni, il Piano è da ritenere illegittimo in quanto «l’unico atto che il Mite ha adottato in tempo utile - si legge nel ricorso - è il decreto Vas del 29 settembre 2021, n. 399. Rimane però inteso che l’adozione di tale atto non consente di ritenere soddisfatto il limite temporale imposto dalla legge, la quale richiedeva perentoriamente che l’iter procedimentale si chiudesse entro il 30 settembre 2021». Il provvedimento, infatti, è stato presentato durante il primo governo Conte, ma ha subito un lungo iter di approvazione e un complesso lavoro di mappatura che ha ritardato la pubblicazione di tre anni.

Il contrasto con la normativa europea

Oltre al ritardo, la critica è rivolta anche al contenuto: secondo i firmatari del ricorso il Pitesai sarebbe in contrasto con la normativa e la giurisprudenza europee, in quanto non tiene in considerazione degli effetti cumulativi dei progetti esistenti e di quelli che potranno essere richiesti. «La pianificazione voluta dal legislatore - recita il ricorso - dovrebbe tener conto, in un’ottica complessiva, dei titoli minerari esistenti e di quelli per i quali sarà possibile presentare istanze per l’inizio delle attività». Nel fare questo, come prescrive il diritto dell’Unione, «avrebbe dovuto valutare se la sommatoria dei progetti esistenti e potenziali possa recare danno al bene ambientale». Ma, secondo i Comuni, nel caso dei Pitesai «non vi è traccia alcuna di valutazioni circa gli effetti cumulativi dei progetti di ricerca e di coltivazione esistenti e potenziali». L’obbligo di svolgere tale procedimento nella ricerca di idrocarburi liquidi e gassosi in Italia è sancito dalla sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea del 13 gennaio 2022. Viene poi citata la Costituzione nella quale è stata introdotta, l’8 febbraio scorso, proprio tre giorni prima della pubblicazione in Gazzetta del Pitesai, «la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni, tra i principi fondamentali» e ha altresì «subordinato alla tutela ambientale la libertà di iniziativa economica». «Tali modifiche della Carta fondamentale - evidenziano i ricorrenti - non possono rimanere prive di effetti concreti».

I mancati obiettivi

Infine, i Comuni evidenziano come il Pitesai non realizzi l’obiettivo di individuare le aree idonee all’estrazione di idrocarburi che gli è stato assegnato: il quadro che ne deriva dalla sua adozione, si legge, «non è affatto quello di una pianificazione nazionale previamente e rigorosamente definita e in grado di guidare, con un certo grado di prevedibilità, la successiva attività sui singoli procedimenti per il rilascio dei titoli minerari. Non è, come invece la legge avrebbe voluto, un atto di pianificazione che va a definire “zone aperte” e “zone chiuse” alle attività minerarie con mappature chiare e senza relativizzazioni di sorta. È piuttosto, come dichiara la stessa relazione illustrativa, un “atto di indirizzo generale al fine di guidare la gestione delle procedure”».

La mancata distinzione tra gas e petrolio

L’approvazione del Pitesai prevede un’intesa nella Conferenza unificata di Regioni ed enti locali, che si è tenuta il 16 aprile 2021, che è dipesa principalmente «alla garanzia che, nelle aree definite idonee dal Piano, il prosieguo delle attività connesse ai permessi di ricerca di idrocarburi si limitino esclusivamente al gas», si legge nel ricorso al Tar, e non al petrolio. Il documento fa emergere come il decreto del 2018 disponga al Piano il compito di «individuare un quadro definito di riferimento delle aree dove è consentito lo svolgimento delle attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi», senza distinguere fra idrocarburi liquidi e gassosi e, anzi, tutte le volte in cui si menzionano i permessi di ricerca di idrocarburi, essi si riferiscono espressamente a entrambe le tipologie. Ma i permessi di ricerca, rilasciati per condurre indagini volte al rinvenimento di idrocarburi, non possono conoscere prima delle trivellazioni «il contenuto di quanto deve essere ancora cercato e, pertanto, non potranno mai essere accordati permessi per una sola tipologia di idrocarburi». Solo dopo gli scavi e all’atto del «rinvenimento di idrocarburi e solo allora, dopo la perforazione del pozzo esplorativo, si potrà sapere se si tratterà» di gas o petrolio. Ecco perché anche la legge n. 9 del 1991, nel disciplinare i permessi di ricerca, si riferisce indifferentemente a entrambe le tipologie di idrocarburi ed perché la limitazione posta dal Pitesai non sia conforme, non solo alla base giuridica di quest’ultimo, ma anche alla fonte normativa che regola i permessi di ricerca.

I firmatari

I Comuni firmatari del ricorso, presentato l’11 aprile al Tar del Lazio sono: Alba Adriatica (Teramo), Atella (Potenza), Atena Lucana (Salerno), Baragiano (Potenza), Barile (Potenza),á Buonabitacolo (Salerno), Carpignano Sesia (Novara), Lavello (Potenza), Lozzolo (Vercelli), Martinsicuro (Teramo), Maschito (Potenza), Montemilone (Potenza), Monte San Giacomo (Salerno), Montesano sulla Marcellana (Salerno), Noto (Siracusa), Padula (Salerno), Pineto (Teramo), Polla, (Salerno), Rionero in Vulture (Potenza), Ripacandida (Potenza), Sala Consilina (Salerno),á Silvi (Teramo), Teggiano (Salerno), Venosa (Potenza).

Alessia Conzonato per corriere.it il 9 aprile 2022.

Il settore energetico è stato colpito dal quinto pacchetto di sanzioni contro la Russia, a causa del conflitto in Ucraina, con l’embargo sul carbone. Ma, consapevoli che questo non sarà sufficiente a rappresentare un problema per il presidente Putin, i Paesi dell’unione europea continuano a interrogarsi se disporre o meno un embargo anche per il gas russo, di cui molti sono fortemente dipendenti. Tra questi c’è anche l’Italia, che sta valutando le diverse possibilità per raggiungere una propria autonomia energetica.

L’impianto Giulia di fronte a Rimini

Il mare Adriatico, ad esempio, sembra essere una fonte di gas naturale fondamentale per il Paese. Secondo Davide Tabarelli, docente universitario e leader di Nomisma Energia, aumentare la produzione interna potrebbe essere la soluzione ai problemi di approvvigionamento. «Dai Lidi ferraresi alle Marche, si potrebbero rimettere in moto circa 50 piattaforme - ha detto -, pronte a fornire circa 3 miliardi di metri cubi di gas all’anno». Tra questi giacimenti si trova anche “Giulia”, circa a 15 km dalla costa di Rimini. Secondo le stime attraverso l’impianto è possibile estrarre 500 milioni di metri cubi di gas. La sua installazione risale al 1980, appartiene ad Eni e attualmente non è in uso, perché l’unica cosa che manca è un tubo che lo colleghi alla terraferma. 

Il piano “no trivelle” che blocca l’estrazione di gas

A fermare non solo il giacimento “Giulia” ma anche a rallentare l’estrazione nazionale, però, si è posto il Pitesai “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee”: si tratta di dossier, varato dal primo Governo Conte come strategia alternativa alle trivelle (quindi molto prima dell’emergenza causata dalla guerra) ma approvato lo scorso 12 febbraio, per l’esplorazione e produzione di metano. 

Il documento ha creato non poche complicazioni: su 123 concessioni minerarie, sono ben 108 quelle legate al gas ma oltre il 70% si trovano in aree definite, appunto, non idonee. Di queste, sono già 20 quelle revocate mentre 45 sono ancora in fase di verifica. Il piano, però, ferma anche gli investimenti in nuovi pozzi: 42 titoli esplorativi, su un totale di 45 che sono stati presentati, saranno revocati, così come 37 istanze - che sono state presentate per gas e petrolio tra il 2004 e il 2009 - sono state rigettate in questi giorni dal ministero per Transizione ecologica in conformità con il Pitesai. Secondo le stime, i paletti del dossier rischiano di far spegnere fino a un miliardo di gas all’anno. 

Sotto il canale Sicilia è in corso il progetto per il giacimento Cassiopea, sempre di proprietà Eni, per cui ora è prevista un’accelerazione nell'avvio della produzione, così come per altri impianti situati lungo le coste italiane, ad esempio nelle Marche, dove la piattaforma Bonaccia, di fronte a Porto Recanati, nel Maceratese, ha accolto coralli e aragoste diventando un rifugio ambientale.

Rispetto a quando il Pitesai è stato emanato, che ha poi richiesto tre anni di gestazione, lo scenario sul piano energetico è molto cambiato e non solo a causa del conflitto in Ucraina, ma anche al forte aumento dei prezzi delle materie prime iniziato ben prima. Un’ipotesi sul tavolo potrebbe essere anche quella di allentare la stretta del dossier con un provvedimento mirato alla sua deroga in modo da non bloccare gli investimenti fatti nel settore, che hanno causato un calo della produzione nazionale di gas naturale. Come ha ricordato lo stesso ministro Cingolani, si è passati «da circa 15 miliardi di metri cubi ai 3,3 attuali».

Ucraina, il suicidio italiano sul gas: ne siamo pieni ma non lo estraiamo. Michele Zaccardi su Libero Quotidiano il 09 aprile 2022.

Nonostante i proclami di intransigenza di vari politici nei confronti di Mosca, l'Italia non sembra pronta a rinunciare al gas russo. Riuscire a rimpiazzare in pochi mesi 29 miliardi di metri cubi su un fabbisogno di 76,2 appare improbabile. Oltre a trovare nuovi fornitori, il governo è al lavoro per aumentare la produzione nazionale. Il mini incremento, di uno o due miliardi di metri cubi, però, si scontra con un fatto: in Italia è molto complicato estrarre gas. Solo nei giorni scorsi, il Ministero della transizione ecologica ha bocciato 37 richieste di esplorazione del sottosuolo presentate tra il 2004 e il 2009 da compagnie come Eni, Total e Shell.

IL RIGETTO

Il motivo del rigetto va cercato nell'oscuro acronimo Pitesai, in pratica il piano regolatore per le attività minerarie. Varato dal Governo Conte I e operativo da quattro mesi, il documento mette dei vincoli stringenti a tutte i lavori connessi alla "coltivazione" dei giacimenti di gas e petrolio. Secondo un'analisi di Assorisorse, l'associazione di categoria delle aziende minerarie, soltanto tre permessi o istanze di ricerca di nuovi siti su 45 sopravviveranno alla tagliola del Pitesai. Il resto delle licenze, invece, verrà bloccato o revocato, portando di fatto, scrive Assorisorse, «all'azzeramento delle attività future, sia a terra che a mare». Per quanto riguarda 123 giacimenti oggi in funzione (di cui 108 di gas), soltanto 21 non avranno problemi. Infatti, 20 concessioni saranno revocate, altre 45 dovranno superare una verifica per continuare a produrre, mentre 37 siti saranno sottoposti a limiti. «Il Pitesai è una follia» commenta Davide Tabarelli, fondatore della società di ricerca Nomisma Energia. Il documento, prosegue il professore, «introduce tantissimi elementi di incertezza e di incomprensione, oltre a portare all'esclusione di molte aree dove in precedenza erano stati dati dei permessi».

Il Pitesai, del resto, va ad aggravare una situazione già di per sé critica. Dal 2009, infatti, la superficie delle aree in concessione si è ridotta di un terzo mentre dal 2019 non è stata fatta nessuna perforazione a scopo esplorativo. Il risultato si vede nei dati sulla produzione nazionale di gas, declinata dagli oltre 17 miliardi di metri cubi del 1997 ai 3,34 dell'anno scorso. E i numeri di quest' anno, se possibile, sono ancora peggiori. A gennaio e febbraio sono stati estratti 542 milioni di metri cubi di gas, in calo del 18,9% sullo stesso periodo del 2021. Con i lacci imposti dal Pitesai, del resto, è difficile fare meglio. «Se riusciamo ad arrivare a 4 miliardi di metri cubi di produzione è già molto» sottolinea Tabarelli. Anche perché, per iniziare a estrarre gas da un giacimento passano in media quattro o cinque anni, senza contare le lungaggini burocratiche. Ne è un esempio il Canale di Sicilia, dal quale si potrebbe ricavare fino a un miliardo di metri cubi l'anno. Il progetto per l'estrazione di metano dai giacimenti Argo e Cassiopea, presentato nel 2014, è stato autorizzato solo a settembre del 2021 e non entrerà in funzione prima del 2024. Il problema, dunque, non è la mancanza di gas, anzi. Secondo le stime più attendibili, le riserve italiane di metano ammonterebbero a 60 miliardi di metri cubi, a cui vanno aggiunte quelle "probabili" pari a 200 miliardi. «Ma si tratta di valutazioni fatte quando il prezzo era a 15 euro al megawatt», prosegue Tabarelli, «con i valori attuali, e applicando le sofisticate tecnologie sviluppate da Eni, le nostre riserve potrebbero essere anche di 500 miliardi di metri cubi».

RIGASSIFICATORI

C'è poi l'altro pilastro del piano del governo per liberarsi dalla dipendenza da Mosca: l'importazione di gas liquefatto. L'Italia ne acquista poco, 9,8 miliardi di metri cubi nel 2021, perla mancanza di rigassificatori e per il minor costo del metano russo. Gli impianti in grado di trattare il gas liquefatto sono infatti tre (contro i sei della Spagna), con una capacità di 15,25 miliardi di metri cubi usata, l'anno scorso, al 64,4%. Per aumentare Palazzo Chigi ha dato incarico a Snam di procurarsi due navi rigassificatrici mentre sono ripresi i lavori per la costruzione dell'impianto di Porto Empedocle. Ma anche se dovessero crescere le forniture dal Qatar (nel 2021 pari a 7,4 miliardi) si potrà fare ben poco. Nel frattempo le imprese americane sembrano aver anticipato la promessa fatta da Biden di aumentare di 15 miliardi di metri cubi la vendita di metano liquido all'Europa, con le esportazioni Usa che hanno raggiunto i quasi i 9 miliardi nei primi due mesi dell'anno.

Harakiri energetico targato 5 Stelle. L'Italia bloccherà 2 giacimenti su tre. Gian Maria De Francesco il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il Piano per le estrazioni, varato da Draghi ma pensato da Conte, ferma il settore gas.

Altro che indipendenza energetica dalla Russia! L'Italia, sostanzialmente, non può permettersi di rinunciare al gas di Vladimir Putin perché masochisticamente ha bloccato la maggior parte delle attività di estrazione e di ricerca degli idrocarburi nel nostro Paese. Colpa del Pitesai, complicato acronimo di «Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee». E quando il burocratese allude ad «aree idonee» (come nel caso del Deposito nazionale delle scorie nucleari) significa restringere al minimo qualsiasi possibilità.

Al ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, va dato il merito di aver tirato fuori dai cassetti questa mappa della quale i governi Conte I e Conte II avevano promesso la pubblicazione. Il problema è che ideologicamente il Pitesai sembra proprio figlio dell'esecutivo giallorosso e non del governo Draghi. Lo ha spiegato bene ieri con un'analisi d'impatto Assorisorse, l'associazione confindustriale delle imprese estrattive presieduta dal manager Eni, Luigi Ciarrocchi. Dal punto di vista delle esplorazioni di idrocarburi, il Pitesai revoca di 42 titoli su 45 (tra istanze e permessi di ricerca), comportando «di fatto» l'azzeramento delle attività future, sia a terra che a mare. Resteranno solo 3 permessi di ricerca tra i quali uno dell'Eni e uno della piccola compagnia emiliana Gas Plus. Delle 123 concessioni minerarie attualmente in essere (di cui 108 relative al gas) oltre il 70% ricade in aree definite come «non idonee». In questo modo, prosegue Assorisorse, «si limitano fortemente le prospettive di produzione per effetto delle incertezze sulla possibilità di effettuare nuovi investimenti».

È pressoché certo, infatti, che 20 concessioni saranno revocate e 45 saranno soggette a verifica per stabilire l'eventuale prosieguo o meno delle attività. Su 171 titoli di concessione solo 38 sono in aree idonee, mentre 133 sono in zone «non idonee». Una Caporetto su tutta la linea. Se si osserva il solo potenziale estrattivo del nostro Paese, rileva l'associazione che aderisce a Confindustria, esso ammonta a 112 miliardi di metri cubi (con un ulteriore potenziale di 50 miliardi) dei quali 46 miliardi certi, 46 miliardi probabili e 20 miliardi possibili. Qual è l'assurdo? Che queste cifre sono superiori ai consumi del Paese che nel 2021 si sono attestati a 76 miliardi di metri cubi. Dunque si potrebbe soddisfare con risorse nazionali ben più del 10% cui ambiva il governo Draghi lo scorso febbraio.

«Con un piano di azioni mirate, si può rilanciare la produzione nazionale di gas, andando ben oltre i 5 miliardi prefissati dal decreto Energia e compensando il veloce declino, che oggi è pari ad oltre 0,5 miliardi di metri cubi l'anno», spiega Assorisorse al Giornale aggiungendo che «la valorizzazione del gas domestico comporterebbe il contenimento della bolletta energetica, una riduzione delle emissioni clima-alteranti legate al trasporto (oltre sei volte più alte in quanto nei gasdotti parte del gas è disperso per garantire la costanza della pressione; ndr), occupazione e crescita». Secondo uno studio presentato al dibattito sul Pitesai da Assorisorse, i soli giacimenti di gas dell'Emilia-Romagna potrebbero garantire fino a 1,6 miliardi di metri cubi dagli attuali 800 milioni con un investimento di circa 300 milioni.

Insomma, sarà difficile tornare ai livelli del 2000 (17 miliardi di metri cubi di gas estratti in Italia), ma si può fare uno sforzo per risalire dai 3 miliardi dell'anno scorso, un’eredità costosa lasciataci dai talebani del «no triv». Risultati lontani dai 17 miliardi del 2000, ma darebbero un contributo alla manodopera nazionale, alle imprese, alle casse dello Stato e alla lotta contro emissioni che scaldano il clima, invece di prendere la rotta estera per pagare importazioni lungo migliaia di chilometri di tubature ad alto impatto climatico. «Riteniamo ancora possibile un intervento legislativo, in primis sul Pitesai, con l'obiettivo di salvaguardare e promuovere le attività di estrazione del gas italiano in coerenza con quanto espresso nella mozione votata nei giorni scorsi dal consiglio regionale dell'Emilia-Romagna (approvata da tutti partiti tranne M5s e Verdi; ndr)», sottolinea Assorisorse ricordando che nel Basso Adriatico (Puglia in primis) «sono identificate molte nuove aree non idonee per l'attività estrattiva che mettono a rischio l'estrazione di diversi miliardi di metri cubi di gas».

L'Altravoce dell'Italia. Le due Italie. Rigassificatori del Sud fermi per veti e burocrazia. GIAMBATTISTA PEPI su Il Quotidiano del Sud il 6 aprile 2022.

In un Paese dipendente energeticamente dal gas come l’Italia, sarebbe di fondamentale importanza disporre di rigassificatori e impianti di stoccaggio di gas naturale liquefatto per potersi affrancare dal gas russo che oggi sfiora il 40% dell’import complessivo di metano.

Più facile a dirsi che a farsi, specialmente se si guarda al Sud, dove i progetti per i rigassificatori di Gioia Tauro (Reggio Calabria) e Porto Empedocle (Agrigento), che valgono 20 miliardi di metri cubi di gas all’anno, sono ancora fermi, anche se qualcosa si sta muovendo. Le cause? Le solite: iter burocratici asfissianti, preoccupazioni diffuse dei cittadini locali per gli impatti ambientali, contrasti stridenti tra Stato e autonomie locali sull’allocazione degli impianti.

IL POTENZIALE DEL SUD

In particolare, il rigassificatore di Porto Empedocle è una potenza in fieri. È capace di trattare 8 miliardi di metri cubi l’anno, da solo quindi intercetterebbe oltre il 10% del fabbisogno nazionale. Il gas arriverebbe in forma liquida a bordo delle navi metaniere e verrebbe trasformato dall’impianto per essere poi immesso in rete.

Per realizzare l’impianto, dotato di due vasche interamente interrate, serviranno circa 900 persone, tra diretto e indotto. Naturalmente la crisi ucraina, che ha acuito i problemi legati alla dipendenza energetica del nostro Paese, probabilmente accelererà le procedure. Il Tar ha nei giorni scorsi respinto un ricorso presentato anni fa dal Comune di Agrigento che si opponeva al passaggio delle condotte nel proprio territorio.

A Gioia Tauro non è successo intanto assolutamente nulla, se non una lunghissima storia italiana di ordinaria burocrazia. Eppure, sarebbe stato strategico realizzare questo investimento per una nuova infrastruttura energetica, nell’interesse della Calabria e dell’Italia. Un investimento da un miliardo di euro è rimasto nel “congelatore delle decisioni perdute” per realizzare un impianto adeguato a gestire 12 miliardi di metri cubi di gas rispetto agli 80 circa che il Paese consuma ogni anno. Intanto, ancora oggi, l’impianto attende la dichiarazione di strategicità da parte dello Stato. Serviranno poi quattro anni per costruire il rigassificatore.

Proprio il gap nelle infrastrutture energetiche è la cartina di tornasole che rende evidente il ritardo del Mezzogiorno rispetto alle aree più sviluppate, coese e competitive del Nord del Paese e dell’Europa. Per le piccole e medie imprese è urgente, ora più che mai, trovare soluzioni concrete e alternative, poiché il costo alto dell’energia rappresenta una delle motivazioni principali che può determinarne la crisi, portandole a chiudere o delocalizzare. Una problematica riproposta negli ultimi mesi ogni qualvolta si apre o s’inasprisce una vertenza industriale al Sud.

I TRE POLI DEL NORD

L’altra Italia, cioè quella del Nord, sta messa decisamente meglio, con tre rigassificatori che possono immettere in rete 15,25 miliardi di metri cubi di gas all’anno. I rigassificatori oggi in uso sono tre strutture diverse tra loro.

Il più grande è il Terminale Gnl Adriatico (di proprietà di Qatar Petroleum, ExxonMobil e Snam) ed è un impianto offshore: un’isola artificiale che si trova in mare al largo di Porto Viro, in provincia di Rovigo, e ha una capacità di produzione annuale di otto miliardi di metri cubi di gas, che saliranno a nove grazie a un’autorizzazione arrivata a dicembre 2021 che ne consente la modifica e, dunque, l’ampliamento.

Anche nel mar Tirreno, al largo della costa tra Livorno e Pisa, c’è un rigassificatore offshore: Olt Offshore Lng Toscana al largo di Livorno, di proprietà di Snam, First Sentier Investors e Golar Lng. È una nave metaniera che è stata modificata e ancorata in modo permanente al fondale e immette gas in rete dal 2013. Ha una capacità di 3,75 miliardi di metri cubi annuali.

Il terzo rigassificatore è invece una struttura onshore, cioè sulla terraferma, e si trova a Panigaglia, in provincia di La Spezia. È il primo rigassificatore costruito in Italia (risale agli anni Settanta), ha una capacità annuale di 3,5 miliardi di metri cubi.

La capacità complessiva dei tre rigassificatori non sarebbe da sola sufficiente a permettere l’immissione nella rete italiana di una quantità di gas pari a quella che negli ultimi anni è stata importata dalla Russia (29 miliardi di metri cubi di gas nel 2021).

E quindi, come nel gioco dell’oca, si torna al punto di partenza: serve realizzare i rigassificatori al Sud. Ma qual è oggi lo stato dell’arte degli approvvigionamenti per via marittima di Gnl? La quota di gas sotto forma di Gnl è pari al 13,1%.

Quanto al capitolo stoccaggio, l’attività è iniziata nel 1964 nel campo di Cortemaggiore, in Emilia, tuttora in esercizio. L’attività consiste nell’utilizzare giacimenti in passato produttivi per l’immagazzinamento del gas, tipicamente nel periodo estivo quando la domanda è bassa, e l’erogazione in inverno per soddisfare le richieste del mercato (vedi grafico). Lo stoccaggio ha la finalità di compensare, nel sistema gas nazionale, fluttuazioni dei consumi e garantire una riserva strategica.

I PROGETTI PER LO STOCCAGGIO

Ora, tuttavia, il governo sta valutando l’installazione di due unità galleggianti di stoccaggio e rigassificazione (Fsru) per stimolare le importazioni di gas naturale liquefatto. Le unità, la cui capacità totale è di oltre 10 miliardi di metri cubi, saranno situate nel Mar Tirreno e, possibilmente, nel Mar Adriatico. Le imbarcazioni saranno situate nei pressi di infrastrutture di gasdotti esistenti.

Nel breve periodo sarebbe anche possibile l’utilizzo, con minime modifiche impiantistiche, della filiera dei depositi small scale già realizzati e autorizzati di Oristano (Higas ed Ivi Petrolifera) e Ravenna (Edison).

Nel medio e lungo periodo, all’incremento dei flussi di gas dall’Algeria, dalla Libia e dall’Azerbaigian, anche tramite il raddoppio dell’utilizzo del gasdotto Tap, si potrà aggiungere il contributo dei due terminali di rigassificazione di Porto Empedocle e Gioia Tauro, ma a patto che non si perda altro tempo nel farli.

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Energia, ecco dove l'Italia ha sbagliato. Il rigassificatore fermo per 7 anni. Filippo Caleri su Il Tempo il 05 aprile 2022.

Ecco l’esempio delle scelte poco lungimiranti della politica energetica italiana. Fatte di lassismo da parte del governo e della sindrome Nimby delle comunità italiane. Ma alla fine la storia presenta sempre il conto. Come nel caso del rigassificatore di Porto Empedocle in Sicilia. Bloccato sette anni fa da una lunga serie di ricorsi e controricorsi tra il comune di Agrigento e gli assessori della regione siciliana. Con un epilogo del quale oggi ci si pente. Le carte da bollo diedero ragione alla città agrigentina. L’Enel pronta a mettere mano all’investimento, che avrebbe consentito di liquefare il carico delle navi cisterna, si bloccò. Tutto fermo. Ma oggi le necessità di recuperare la sovranità energetica ha rimesso in moto quanto progettato anni fa. Chi si potrà opporre ora non è chiaro. Intanto l’Enel ha annunciato che riprenderà l’investimento «messo in naftalina sette anni fa dai governi precedenti» per l’impianto di rigassificazione siciliano. Ad annunciare lo sblocco è stato ieri l’ad del gruppo elettrico, Francesco Starace, intervenuto all’incontro di Merita sul ruolo del Mezzogiorno nella sicurezza energetica italiana ed europea. 

«Il terminale - ha ricordato - ha tutti i permessi, sempre rinnovati aspettando il via libera. Serve un investimento di un miliardo di euro per attrezzare la Sicilia a ricevere navi gasiere e dare flessibilità sulle forniture di gas dopo le recenti convulsioni». Una scelta importante che pone il quesito su quanto la tutela delle ragioni del territorio, sempre legittime e giustificate, debbano essere contemperate con la strategicità di alcune opere fondamentali a livello nazionale. 

Potrebbe essere il momento del riscatto per il Mezzogiorno. Sempre in Sicilia, ha ricordato Starace, Enel ha in programma il potenziamento di una fabbrica di pannelli fotovoltaici, con il volume produttivo che aumenterà di 15 volte, da 200 a 3000 Mw. «C’è un investimento europeo di 200 milioni di euro, il totale degli investimenti è di 600 milioni. Il Mezzogiorno diventerà il più grande produttore di pannelli solari in Europa» ha aggiunto l’ad di Enel che ha affrontato anche il tema delle autorizzazioni per le energie rinnovabili. Con un distinguo importante. Per un volta la colpa non è della burocrazia ma delle risorse umane, poche e mal formate, usate per accompagnare e svolgere le pratiche della pubblica amministrazione. 

Per sbloccare nuovi impianti rinnovabili «tutto transita dall’impegno sul lavoro più che sulla semplificazione normativa- ha chiosato Starace. Che ha proposto di istituire «task force» regionali. «Si sente spesso parlare di semplificazione dei processi autorizzativi come necessità per sbloccare lo sviluppo delle rinnovabili, questo è vero, tutto può essere ulteriormente semplificato, ma il vero problema sta nella massa dei permessi concentrati in strutture amministrative non staffate adeguatamente per gestire questa mole di lavoro». Starace a un convegno della fondazione Merita. «Anche semplificando ulteriormente – ha continuato l’ad di Enel - ci sarebbe comunque da mettere a lavoro più persone, più risorse, più mezzi per processare l’accumulo di domande. Sarebbe molto più semplice creare task force regione per regione per dare una mano alle amministrazioni pubbliche del Mezzogiorno per venire a capo.

Valentina Iorio per il “Corriere della Sera” il 2 aprile 2022.

La crisi energetica, acuita dalla guerra in Ucraina, pone l'Italia di fronte a un problema strategico: come assicurarsi l'indipendenza dal gas russo e accelerare sulla transizione verde. Un'esigenza che è in contrasto con il rallentamento nello sviluppo delle rinnovabili degli ultimi anni, dovuto in parte alla riduzione degli incentivi ma soprattutto alla burocrazia.  

I ritmi degli iter autorizzativi fanno sì che solo il 9% dei progetti di impianti fotovoltaici presentati abbia ricevuto il via libera. L'Alleanza per il fotovoltaico, che rappresenta i principali operatori impegnati nello sviluppo di soluzioni per l'energia solare, calcola che ci sono 35 i miliardi di investimenti bloccati e 40 GW di energia da fotovoltaico in attesa del semaforo verde.

Le Regioni «Il dato relativo alla percentuale di progetti incagliati è più o meno costante in tutte le Regioni, con alcuni casi più virtuosi - osserva Filippo Fontana, responsabile dello sviluppo business in Italia per il gruppo Solarig - . Per questo chiediamo al governo di creare un contesto che ci consenta di avere tempistiche certe. Ad esempio, ci vorrebbero degli interventi normativi che sblocchino i progetti incagliati da anni negli uffici regionali». 

L'autorizzazione all'installazione di impianti fotovoltaici ha un iter lungo e complesso. Per evitare disparità fra i territori e garantire maggior coerenza nella valutazione, il decreto Semplificazioni ha introdotto una commissione nazionale per la Valutazione di impatto ambientale (Via) degli impianti di potenza superiore a 10 MW.

 «È un buon passo avanti. Però la commissione ha cominciato a lavorare con notevole ritardo rispetto alla tabella di marcia. Inoltre, una volta ottenuto il via libera della commissione, è previsto che si torni in ambito regionale per completare l'iter. Considerando che le Regioni hanno ancora arretrati da smaltire, bisognerà vedere come riusciranno a gestire questo nuovo carico di lavoro», dice Alessandro Ceschiat, responsabile per lo sviluppo del business di Enfinity Global. 

Le procedure autorizzative degli impianti durano in media tra i 4 e i 5 anni. Una tempistica che impedisce all'Italia di raggiungere l'obiettivo di 60 GW di produzione da rinnovabili, indicato dal Piano nazionale integrato per l'energia e il clima (Pniec) per il 2030. Le imprese del settore chiedono al governo di sbloccare questo stallo, rendendo pienamente operativa la commissione Via e facendo in modo che le sue decisioni non possano essere smentite nel momento in cui il provvedimento passa alle Regioni.

 «Bisognerebbe assegnare alle Regioni target specifici (tramite il cosiddetto burden sharing) connessi alla realizzazione degli impianti fotovoltaici o prevedere meccanismi di premialità per chi supera determinati obiettivi», spiega Fontana.Nimby e Nimto Ad ostacolare lo sviluppo del fotovoltaico sono anche le cosiddette sindromi Nimby e Nimto: Not in my back yard e Not in my terms of office, ovvero «non nel mio territorio» e «non durante il mio mandato elettorale». 

 «Questo meccanismo fa sì che tutti siano d'accordo nel volere più energia pulita, ma quando si tratta di costruire un nuovo impianto fotovoltaico tutte le Regioni ritengono di aver già fatto la propria parte. Con questo approccio diventa impossibile raggiungere i target - sottolinea Andrea Cristini, fondatore di Greenergy - . La conseguenza è che di fronte a una crisi energetica non possiamo fare altro che prendere gas dalle riserve, fare accordi con altri Paesi o sovralimentare centrali a carbone».

Quello che serve è una pianificazione e un maggiore coordinamento tra i ministeri (Transizione ecologica, Politiche agricole e Cultura) per evitare che impianti già autorizzati vengano bloccati da opposizioni o ricorsi. A frenare, spesso, sono le Soprintendenze. «A questo proposito potrebbe essere utile avere delle sezioni dedicate a tutto ciò che concerne l'energia nei tribunali amministrativi - conclude Ceschiat -. Questo eviterebbe che i ricorsi vengano fatti in modo strumentale, confidando sul fatto che ci vuole molto tempo prima di arrivare a una sentenza». 

Francesco Bisozzi per “Il Messaggero” il 4 aprile 2022.

Tutti a dire che le rinnovabili sono il futuro, l'antidoto al caro energia, lo strumento per svincolarsi dal gas di Mosca. Poi però quando arriva il momento di passare dalle parole ai fatti, ecco spuntare lo scoglio (apparentemente insormontabile) della burocrazia. 

Sì, è vero, siamo il Paese del sole e del vento, solo che poi oltre il 90% dei progetti per la realizzazione di impianti eolici e solari sottoposti ad approvazione l'anno scorso risulta ancora fermo.

I progetti fotovoltaici, per esempio, in media non ottengono semaforo verde prima di tre anni, nonostante la legge preveda al massimo 12 mesi di tempo per concludere l'iter autorizzativo.

Oggi la produzione da solare fotovoltaico copre il 7,9% della domanda elettrica annuale del paese, mentre l'eolico il 6,5%: nel complesso le rinnovabili soddisfano il 36,4% dei consumi elettrici nazionali.

Il fotovoltaico l'anno scorso è cresciuto appena del 2,1%, un incremento di 500 Gwh, mentre l'energia dal vento,2 Twh in più del 2020, è aumentata di oltre il 10%. Risultato: per centrare gli obiettivi di sostenibilità fissati dall'Ue vanno installati in Italia impianti per la produzione di energia green per circa 70 gigawatt entro il 2030, ovvero circa 8 gigawat all'anno per i prossimi nove, peccato che al momento l'asticella si fermi allo 0,8 per cento. 

Il governo, prima con il decreto Semplificazioni e poi con il decreto Energia, ora in fase emendativa, sta cercando di snellire i procedimenti allo scopo di mettere il turbo alla transizione energetica.

Si punta, per esempio, sulla nuova super commissione Via Pnrr-Pniec, per la valutazione di impatto ambientale delle opere connesse al Piano nazionale di ripresa e resilienza e al Piano nazionale integrato per l'energia e il clima. Inoltre per le famiglie e i piccoli impianti è stata quasi azzerata la burocrazia. 

Ma secondo gli operatori del settore gli interventi calati a terra finora non bastano a dare quella sterzata che servirebbe. Gli addetti ai lavori insistono sull'importanza che passino una serie di emendamenti al decreto energia, affinché vengano sbloccati tutti quei progetti che risultano arenati presso le Regioni per effetto di pareri contrari ricevuti dagli uffici territoriali che vigilano sul paesaggio. 

L'Alleanza per il fotovoltaico in Italia, network di imprese che da ormai due anni spinge per semplificare il quadro normativo che intrappola le aziende dei pannelli solari, stima in 40 gigawatt la produzione di energia da fotovoltaico che, allo stato attuale, è ancora in attesa di ricevere l'autorizzazione per la realizzazione degli impianti. 

«Progetti di investimento privato, senza alcun onere per lo Stato, pari a 35 miliardi di euro, già presentati e pronti per la messa a terra, ma che sono ancora bloccati a causa della burocrazia» e dei veti incrociati, sottolinea il network. Di più.

Su un totale di 33 gigawatt di progetti presentati dal 2018, pari a circa mille impianti, soltanto il 9%, uno su dieci, ha ricevuto fin qui il via libera definitivo.

Va detto che negli ultimi sei mesi il governo è riuscito a togliere dalle sabbie mobili progetti per circa 1,4 gigawatt, ossia più o meno la metà dei 3 gigawatt di impianti rinnovabili che risultavano bloccati dalle Soprintendenze nonostante avessero la Valutazione di impatto ambientale favorevole.

Vediamo i numeri: nel 2021 sono state presentate quasi 16mila istanze per la realizzazione di impianti fotovoltaici, di cui poco più di 100 hanno ricevuto semaforo verde, mentre sono 14.500 circa quelle che aspettano l'esito della valutazione di impatto ambientale. 

Nel 2020 le istanze sono state più di 14mila, di cui autorizzate 11.600. Poco meno della metà delle richieste avanzate nel 2019 è in attesa di risposta e ci sono addirittura 163 progetti in attesa della Via dal 2018, anno in cui sono state presentate 700 istanze per gli impianti fotovoltaici. Non se ne esce.

Rinnovabili, tra cavilli ed egoismi locali rischiano di restare un sogno. Alessandra Puato su Il Corriere della Sera il 17 aprile 2022. 

Energia rinnovabile? Va bene ma non nel mio cortile, grazie. Il fenomeno Nimby (Not in my backyard) rischia di affossare i progetti di produzione alternativa a gas e petrolio e ritardare l’autonomia energetica dell’Italia, nonostante i quasi 60 miliardi destinati dal Piano di ripresa e resilienza alla rivoluzione verde e transizione ecologica del Paese. Approfondisce il tema Ferruccio de Bortoli che sull’ Economia del Corriere della Sera, in edicola martedì 19 gratis con il quotidiano, stila un elenco dei progetti bocciati e analizza le criticità del passaggio alle rinnovabili, dalla sostenibilità economica delle iniziative private al meccanismo per fissare i prezzi.

«Mentre il governo si appresta a semplificare ulteriormente i passaggi burocratici per l’approvazione di impianti rinnovabili, il fronte variegato dei resistenti è tutt’altro che in disarmo», scrive de Bortoli. E passa agli esempi: le pale eoliche di Genova progettate da Renzo Piano alle quali «la Soprintendenza speciale ha detto no»; il parco eolico in mare «non visibile da terra», cui «la commissione Cultura della Regione Sicilia ha votato contro all’unanimità»; il «parere negativo della sovrintendenza di Sassari al ministero della Transizione ecologica su un impianto fotovoltaico nell’area industriale di Porto Torres». Morale: «Non si può riempirsi la bocca di rinnovabili e applaudire i ragazzi di Fridays for Future e opporsi a ogni progetto che turbi anche potenzialmente paesaggi magari già offesi da un’edilizia selvaggia e abusiva». Troppa zavorra per il salto nel verde.

Intanto proseguono i piani del governo per sostituire il gas importato dalla Russia. Un’indagine del settimanale traccia la mappa delle nuove reti. Mentre gli effetti dell’inflazione, generata essenzialmente dal rincaro delle materie prime, uniti alla coda della pandemia stanno cambiando le relazioni industriali. I modelli salariali della stagione precedente sono saltati, come si può calmierare i prezzi tutelando il potere d’acquisto? Con soluzioni-ponte per alzare i salari, dice un approfondimento sull’ Economia. Per esempio, l’una tantum per chi ha già firmato il contratto nazionale. O la classica riduzione del cuneo fiscale.

La copertina del settimanale è dedicata a Patrizio Bertelli, amministratore delegato di Prada. «Forse per il polo del lusso è tardi, è un’occasione persa — dice —, ma possiamo crescere anche da soli».

Tra i personaggi c’è Luigi Lazzareschi, amministratore delegato della Sofidel che produce i Rotoloni Regina: ha stanziato 500 milioni per costruire impianti da fonti rinnovabili. E c’è Stefania Di Bartolomeo, fondatrice della startup Physis: è una fintech che misura l’impatto effettivo dei valori Esg, cioè sull’ambiente, sulla società, sul lavoro, dei titoli azionari e dei fondi. Vuole crescere in Europa. È in tema Christian Meunier, ceo del marchio Jeep, che annuncia la svolta verde del fuoristrada del gruppo Stellantis e dichiara: «Vogliamo replicare il successo italiano nel resto d’Europa».

Nella sezione Risparmio trovate l’elenco dei fondi comuni in gara per gli «Oscar» di Morningstar che saranno assegnati il 4 maggio.

Rinnovabili, 517 impianti solari ed eolici fermi: ecco chi blocca i permessi. Fausta Chiesa su Il Corriere della Sera il 2 Aprile 2022.

Rinnovabili, 517 progetti in attesa della Via nazionale

Sono 517 i progetti di rinnovabili che attendono il via, o sarebbe meglio dire la Via, la valutazione di impatto ambientale necessaria per passare alla fase successiva dell’iter dei permessi. Si tratta di 240, impianti fotovoltaici, 254 eolici onshore e 23 di eolico offshore. Il loro elenco è pubblico e si trova a un link del sito del ministero della Transizione ecologica, che da settembre scorso ha il compito di rilasciare la valutazione di impatto ambientale al posto delle Regioni, dopo che il governo (con il decreto Semplificazioni-bis) ha deciso di riportare a livello centrale per velocizzare i tempi. Così, parte dei progetti presentati alle Regioni sono stati dirottati verso gli uffici nazionali del Mite e in particolare alla Commissione Tecnica Pnrr Pniec (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza e nel Piano energia-clima 2030).

Ma ci sono anche le richieste rimaste in capo alle Regioni. Complessivamente risultano iter aperti progetti per 25 Gigawatt di eolico e 34 GW di solare.

Qual è la situazione di uno dei settori diventato strategico sia per la transizione ecologica sia per l’autonomia energetica? Come si comportano i vari enti che devono dare la loro approvazione? Chi blocca i progetti? L’Osservatorio R.E.gions2030 ha condotto uno studio. Ecco i risultati.

Chi blocca i permessi

Quali sono gli enti che ostacolano maggiormente le procedure di permessi (il cosiddetto «permitting»)? La risposta la hanno data gli operatori rispondendo all’indagine dell’Osservatorio «R.E.gions2030» a cura di Elemens e Public Affairs Advisors. La maggior parte degli operatori (64%) ha individuato nel ministero della Cultura e nelle Soprintendenze regionali i soggetti principalmente caratterizzati da un atteggiamento negativo verso lo sviluppo delle rinnovabili. Il 31% ha invece individuato negli Uffici regionali la barriera più significativa allo sviluppo dei progetti.

«Leggendo i dati - commentano i ricercatori - colpisce la resistenza opposta dalle Regioni (e dal ministero della Cultura) nell’ambito dei procedimenti di Valutazione di Impatto Ambientale nazionale (cioè la Commissione del Mite, ndr): la quasi totalità dei pareri espressi è infatti negativa (per le Regioni 46 pareri negativi su 47 pareri forniti, per il ministero della Cultura 41 pareri negativi su 47). La lentezza delle procedure comporta anche un altro effetto: le tecnologie dei progetti, trascorsi gli anni dedicati alle procedure autorizzative, possono diventare superate e rendere necessaria l’autorizzazione di una variante progettuale, procrastinando ulteriormente l’entrata in esercizio dell’impianto e aprendo un circolo vizioso di iter burocratici che in numerosi casi si conclude con lo stallo di un progetto che di fatto era già autorizzato».

Ma come si comportano le singole Regioni?

La performance amministrativa delle Regioni

Ma come si comportano le singole regioni? I criteri presi in considerazione per valutare la performance amministrativa sono stati l’avanzamento dei progetti nel processo autorizzativo, il numero di Autorizzazioni Uniche rilasciate fino a fine 2021 e anche (ma solo per l’eolico) le tempistiche medie di ottenimento dei titoli autorizzativi e il numero di progetti con problemi di permessi o «bloccati» da varianti e proroghe non concesse. Le migliori performance sono mostrate in Friuli Venezia Giulia, seguita da Emilia-Romagna, Liguria (pur su un campione limitato ed esclusivamente relativo a progetti eolici) e Sicilia. «Particolarmente interessante, sul piano della performance, è proprio la Sicilia, che sebbene interessata da un numero significativo di istanze (la Sicilia è infatti seconda dopo la Puglia nell’attrattività) presenta un buon numero assoluto di Autorizzazioni Uniche rilasciate: un dato che la distingue dalla Puglia, ove le autorizzazioni, negli ultimi anni, sono state pressoché ferme».

Eolico, procedure di permesso sempre più lente

Le domande per nuovi progetti eolici sono costantemente cresciute dal 2018. In base a dati di Regions 2030, nel 2021 sono state richieste autorizzazioni per 9,4 GW. «I procedimenti autorizzativi, tuttavia - analizza l’Osservatorio - non sembrano mantenere il passo rispetto alla crescita delle istanze di progetti eolici: a titolo esemplificativo, dei 1.370 MW (1,3 GW) per cui è stata presentata istanza nel 2018, 788 MW, pari al 57,5%, sono ancora fermi in attesa di completare la prima parte dell’iter di permitting, quello della Valutazione di Impatto Ambientale». Il dato dei progetti fermi aumenta man mano che i progetti diventano più recenti: si tratta del 79,3% dei progetti presentati nel 2019, del 90% dei progetti presentati nel 2020 e del 99,9% dei progetti presentati nel 2021.

L’accelerazione del fotovoltaico

Per quanto riguarda il fotovoltaico, nel 2018 le domande raggiungevano appena un valore di 718 MW, ma nel 2020 e nel 2021 si è verificata invece un’esplosione: le amministrazioni hanno ricevuto richieste relative a progetti fotovoltaici per un valore complessivo nei due anni che supera i 30 GW. «La PA - commenta Regions 2030 - ha fornito i primi segnali di un timido risveglio: nel 2021 il numero di autorizzazioni è cresciuto arrivando a 2,4 GW (di cui oltre 1,4 GW su area agricola e quasi 1 GW su area industriale), un valore che pur inferiore alla traiettoria necessaria, supera nettamente quello degli anni passati».

Fotovoltaico, richieste per 35 Gigawatt

Le domande annuali per nuovi progetti fotovoltaici sono costantemente cresciute dal 2018, arrivando a oltre 15,7 GW nel 2021, per un valore cumulato di oltre 35 GW. «Anche in questo caso - analizza l’Osservatorio Regions 2030 - i procedimenti di valutazione da parte delle amministrazioni procedono con lentezza: a titolo esemplificativo, il 48,4% dei progetti per cui è stata fatta richiesta nel 2019 è ancora oggi in attesa del giudizio di compatibilità ambientale (primo step del percorso autorizzativo). Tale valore cresce significativamente nel 2020, quando a fronte di 14,5 GW di istanze presentate, il 79,5% della nuova capacità è ferma in attesa di giudizio di compatibilità, e nel 2021, anno in cui il 92,4% della capacità solare presentata è rimasto in attesa di valutazione».

Con la guerra in Ucraina tornano i progetti dei gasdotti e gli ambientalisti protestano. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 29 marzo 2022

Il Poseidon, il gasdotto che porterebbe il gas da Israele è tornato a occupare le pagine dei giornali, mentre Snam ha ricominciato a ipotizzare un collegamento con la Spagna. Per queste opere però ci vorrebbero anni e per gli ambientalisti legano l’Italia ancora di più alle fonti fossili

Fino a ieri l’Europa puntava tutto sulla transizione ecologica, adesso la parola d’ordine è “diversificazione” e le alternative non sono più quelle energetiche ma quelle del metano.

Le notizie si rincorrono e gli ambientalisti stanno cominciando a preoccuparsi visto che per loro non solo sarebbero infrastrutture inutili, ma persino deleterie.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

CARO BOLLETTE: DAL GAS IN PIANURA PADANA ALLA TAP, GLI ERRORI DA NON RIPETERE.  Ferruccio de Bortoli su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Ora che ci affanniamo ad andarlo a prendere ovunque per sostituire quello russo, sarà bene ricordarsi che in un metro cubo di gas c’è molta storia italiana. E un formidabile intreccio di ragioni e amnesie geopolitiche, oltre a più banali questioni di interesse. Non sempre pubblico. Facciamo solo qualche esempio. Se non avessimo avuto, ai tempi di Enrico Mattei all’Eni, il metano della Pianura Padana lo sviluppo italiano sarebbe stato assai diverso, certamente inferiore. E, altra fortuna, senza quei giacimenti oggi vuoti non riusciremmo a fare gli stoccaggi vitali per affrontare il prossimo inverno. L’Italia degli anni Cinquanta non si sarebbe posta grandi problemi con il gas dell’Adriatico che per ragioni anche di tutela ambientale ci siamo astenuti dall’estrarre negli ultimi tempi — lasciando via libera alla Croazia — salvo poi nell’emergenza attuale ripensarci. 

Ricordare questi e altri fatti non tradisce alcuna nostalgia fossile. Tutt’altro. Anzi, è il momento di imprimere una forte accelerazione alle rinnovabili e non soltanto di diversificare gli approvvigionamenti di gas e petrolio, in seguito all’aggressione russa alla Ucraina. Dovremo approvare, entro giugno, progetti su solare ed eolico per 60 Gigawatt. Novanta miliardi di investimenti, 80 mila posti di lavoro. Ce la facciamo? La «memoria del gas» ci mette in guardia da una sorta di relativismo energetico, malattia della quale non siamo immuni.

Le ragioni dell’ambiente, purtroppo, sono meno urgenti quando il rischio è quello di rimanere al freddo o di chiudere le aziende. Riconoscerlo non vuol dire arrendersi al destino climatico ma ci aiuta a tutelarci meglio da costi di transizione stimati male, tensioni sociali (il caro tariffe incide di più su chi ha meno), paralisi di alcune filiere per le difficoltà nei trasporti e la conseguente perdita di consenso sulla necessità di ridurre le emissioni di gas serra. Nella transizione energetica meglio essere sinceri fino in fondo, non nasconderci le difficoltà.

La bolla

La «memoria del gas» è poi foriera di curiosità — chiamiamole così — e di contraddizioni. Costosissime. Ogni stagione ha avuto i suoi mantra e i suoi errori. C’è stato un momento, agli inizi del secolo, nel quale si temette addirittura la formazione di una «bolla del gas». Ce n’era troppo. Anche per l’offerta, sul mercato internazionale, del gas e del petrolio estratto negli Stati Uniti con la tecnica della fratturazione idraulica (fracking). Ci si oppose, di conseguenza, al raddoppio del gasdotto con l’Algeria, oggi corteggiatissima e probabilmente decisiva per affrancarsi in tempi ragionevoli da Mosca. Il progetto (Galsi) includeva il passaggio dalla Sardegna per arrivare a Piombino. Non se ne fece nulla e la regione è rimasta ancora più isolata e desolata sul piano energetico. Per tanti anni il fornitore algerino venne ritenuto politicamente più instabile di quello russo.

E così fino a poco tempo fa — amara ironia della Storia — gli europei, d’accordo con Mosca, hanno avuto come principale preoccupazione, non quella di dipendere troppo dal gas russo ma di evitare che i tubi transitassero in Ucraina, considerata inaffidabile (per usare un eufemismo) sul piano contrattuale.

Il progetto South Stream — e lo stesso North Stream 2 oggi bloccato dai tedeschi — avevano l’identico obiettivo. Anche il tanto contestato Tap (Trans Adriatic pipeline), che arriva in Puglia con il gas dell’Azerbaigian, venne progettato con l’idea di evitare problematici passaggi. E sotto la spinta degli americani preoccupati per l’eccessiva dipendenza europea da Mosca. Senza Tap oggi saremmo in braghe di tela. E pensare che il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, voleva chiedere i danni. La Russia era così credibile che, specie nel periodo dei governi Berlusconi, si decise che una parte del gas contrattato tra Eni e Gazprom venisse veicolata, per un ammontare tra i 3 e 4 miliardi di metri cubi l’anno, in una società con soci privati italiani. Affare che poi (fortunatamente) non si concluse.

Il caso Gnl

Nel frattempo il gas liquefatto (Gnl) diventava sempre più importante, riuscendo a spuntare il prezzo marginale sul mercato. E la Cina — che ogni anno porta il metano a 15 milioni di case — si affermava come il principale degli acquirenti al punto di dirottare il flusso delle navi gasiere verso i porti asiatici. Peccato che l’Italia, a differenza della Spagna, di rigassificatori —anche per l’opposizione delle comunità interessate come a Brindisi — ne abbia fatti pochi. Se ne progettarono dieci, oggi ce ne sono solo tre. Si studia un collegamento con la Spagna dopo anni in cui un gasdotto fra Spagna e Francia è stato a lungo osteggiato. Gli errori li hanno fatti un po’ tutti. La produzione europea di gas è diminuita in tre anni del 15 per cento. Anche in Olanda e in Norvegia. Soltanto nel 2020, nel pieno della prima ondata di pandemia, il gas costava tra i 6 e gli 8 euro a Megawattora (Mwh). E arriviamo così alla «memoria dei prezzi del gas». 

Nell’audizione svoltasi martedì scorso davanti alla Commissione Attività produttive della Camera, Stefano Besseghini, presidente di Arera (l’authority dell’energia), ha fornito alcune stime sull’evoluzione futura del mercato. L’ipotesi più accreditata è quella di un rientro graduale dalla crisi, ma con le quotazioni forward che saranno intorno ai 100 euro a Mwh fino a tutto il 2022, a circa 65 nel 2023 e 45 nel 2024. Mentre si attende per i prossimi giorni l’aggiornamento delle tariffe di gas e luce (forse con segno meno), la formazione dei prezzi sui mercati internazionali è oggetto di profondi ripensamenti. Innanzitutto a livello europeo con le decisioni dei giorni scorsi a Bruxelles.

I contratti

«Ci troviamo nella curiosa condizione — spiega Besseghini — di pensare di far cambiare la direzione di marcia a un elefante prendendolo per la coda. La tendenza negli scorsi anni è stata privilegiare il mercato spot rispetto ai contratti a lungo termine, detti take or pay, prendi e paga. Si riteneva che ciò avrebbe aumentato la liquidità, smontando le rendite di posizione. Ma di fronte a shock così rilevanti, come la forte domanda dopo la pandemia e la guerra in Ucraina, il prezzo marginale ha dettato legge».

Non solo. La concentrazione degli scambi del gas sul Ttf (Title transfer facility) olandese ha accelerato la finanziarizzazione degli strumenti, scollegandoli di fatto dalle quantità sottostanti, e deprimendo di conseguenza gli investimenti maggiormente incoraggiati dai contratti a lungo termine. Contratti che rimangono — e lo ha notato, durante la conferenza stampa sui provvedimenti per l’emergenza dei prezzi dei carburanti, lo stesso premier Draghi — tra i misteri meglio custoditi. Ora Arera avrà qualche potere in più per conoscerli. Inoltre a lungo il gas è stato considerato un settore residuale. E soltanto pochi mesi fa si ipotizzava di non comprenderlo nemmeno nella tassonomia delle fonti indispensabili alla transizione energetica.

Diciamo che si è preso, con la complicità delle truppe russe, una rivincita. E l’estrema importanza assunta dal mercato spot è finita per essere addirittura un’arma commerciale in più per il fornitore russo. «Quello che è accaduto in questi mesi — conclude Besseghini — ci insegna alcune cose. Nel calmierare com’è giusto i prezzi, bisogna fare attenzione a non estromettere operatori e non compromettere la concorrenzialità del sistema, costruita con fatica negli anni. Le fasce più deboli sono ora meglio tutelate, su questo si deve insistere. Alcuni assunti del passato vanno messi in discussione, come il prezzo marginale per favorire gli investimenti nelle rinnovabili che oggi però coprono il 40 per cento della produzione elettrica. Ma non illudiamoci che le dinamiche di un mercato così complesso si possano cambiare in pochi mesi». La «memoria del gas» serve anche per questo.

Il rigassificatore che si poteva fare: tacciano adesso i professionisti del no. PANTALEONE SERGI su Il Quotidiano del Sud il 29 Marzo 2022.

Se le cose fossero andate secondo i programmi della Giunta regionale della Calabria e dell’Autorità portuale di Gioia Tauro del tempo, in tema di approvvigionamenti energetici messi in ginocchio dall’aggressione russa all’Ucraina oggi non saremmo – scusate se la battuta viene scontata – alla canna del gas.

La Calabria ne avrebbe avuto da tempo benefici soprattutto in termini occupazionali e produttivi e le navi gasifere da almeno 10 anni avrebbero scaricato gas liquefatto attraccando all’esterno del porto di Gioia dove si doveva creare un impianto di rigassificazione, stoccaggio e distribuzione del gas naturale che avrebbe consentito anche la realizzazione di una piastra del freddo nel retroporto, legame tra l’attività portuale e il territorio che avrebbe dovuto costituire la motivazione in più per far preferire lo scalo marittimo calabrese a qualsiasi altro in Europa.

Quel progetto stava tra le priorità di Governo presentate dal Presidente della Giunta Agazio Loiero al Consiglio Regionale nel mese di settembre 2006. Sedici anni fa. Se avesse avuto l’accelerazione che la giunta Loiero avrebbe voluto imprimere, oggi la dipendenza così marcata dalle forniture di gas della Russia forse non ci sarebbe stata o almeno sarebbe stata nettamente minore.

La nuova piastra del freddo progettata avrebbe di certo stimolato l’atteso sviluppo imprenditoriale capace di usufruire finalmente, perché a costi eccezionalmente competitivi, delle enormi opportunità offerte da un porto leader nel mondo.

Solo in questo modo, s’affannavano a spiegare i tecnici a orecchie che non volevano sentire, si sarebbe data finalmente una forte risposta occupazionale. Basta rileggere le cronache del tempo per rendersene conto: tra impianto di rigassificazione (altri 150), piastra del freddo (700), servizi di logistica (250), si sarebbe arrivati a un’occupazione diretta di 1100 nuovi addetti e a 3000 di occupazione indotta. Per la Calabria non sono bazzecole. Se si considera, infatti, che allora lavoravano al porto 1200 persone. E sappiamo delle tribolazioni occupazionali nell’ultimo decennio almeno.

Si scommetteva allora sulla catena del freddo (che avrebbe avuto ricadute importanti per l’agroalimentare calabrese), senza rinunciare ad altro, zona franca compresa. Ci scommettevano industrie di primo piano come la Società Petrolifera che faceva capo a Franco Sensi, mitico presidente della Roma che aveva programmato un investimento di 340 milioni di euro, e la società LNG Medgas Terminal Srl che faceva capo a De Benedetti che ne ereditò il progetto ed era pronta a metterci qualche euro in più pur di riuscire nell’impresa.

Quel rigassificatore da realizzare a Gioia Tauro di cui oggi, si torna a parlare come necessità impellente, senza che la proposta abbia, almeno al primo impatto, l’opposizione che ebbe il progetto perseguito da Loiero, allora osteggiato all’interno della stessa maggioranza di centrosinistra e non solo per presunti rischi ambientali. Nonostante il presidente dell’Autorità portuale Giuseppe Guacci, progetti alla mano, s’affannava a spiegare a destra e a manca, che un’isoletta sottile, dove sarebbero attraccate le navi colme di gas, avrebbe separato dal mare aperto il lungo canale allargato, dotato di una seconda darsena e un secondo imbocco a nord: tutti lavori di infrastrutturazione necessari per rendere più flessibile il transito nelle navi nel canale portuale, spiegò all’epoca. Senza alcun pericolo per l’ambiente. L’impianto di rigassificazione, assieme alla piattaforma del freddo, avrebbe incentivato lo sviluppo dell’attività dell’hub interportuale e della stessa Calabria.

L’economia di guerra, determinatasi dopo l’aggressione russa all’Ucraina, le sanzioni occidentali, l’aumento stratosferico del prezzo del gas, hanno riproposto con urgenza la necessità di approvvigionamenti diversificati per cui il governo Draghi sembra orientato ad aumentare, visto il loro ruolo strategico, il numero dei rigassificatori nel nostro Paese. Torna in auge, così, la vecchia idea di Gioia Tauro. Il nuovo progetto di Iren e Sorgenia prevede una struttura capace di gestire 12 miliardi di metri cubi di gas all’anno. È tanto, anche se non è mai troppo, specialmente in tempi di crisi che si allungheranno ancora per anni e che potrebbero ridurre in una condizione di crisi epocale l’economia italiana e dei Paesi europei.

Sedici anni fa in tanti, con miopia e una buona dose di stupidità politica, si misero di traverso. Gli avvenimenti di oggi impongono scelte drastiche e veloci, nell’interesse di Gioia Tauro, della Calabria, del Paese e dell’Europa. Tacciano quindi i professionisti del no.

La Puglia e le fonti rinnovabili: ancora bloccati 396 progetti. L'energia del vento. Via libera a quattro parchi eolici nel Foggiano: Legambiente soddisfatta. Gianpaolo Balsamo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Marzo 2022. Vengono definite rinnovabili perché hanno la connaturata caratteristica di rinnovarsi e di non non esaurirsi. Parliamo, per esempio, di energia eolica, solare, idroelettrica o geotermica: le energie rinnovabili sono il futuro per il nostro Paese. Ne è consapevole Legambiente Puglia da sempre a favore dello sviluppo delle rinnovabili, spesso sola in battaglie in difesa di questa indispensabile fonte energetica che rappresenta la soluzione per uscire dalla dipendenza dai combustibili fossili e per raggiungere l’obiettivo dell’Unione europea di produzione elettrica entro il 2030.

Il «tacco d’Italia», d’altra parte, è tra le prime regioni produttrici di energia da fonti alternative ma, è pur vero, sono ben 396 i progetti di impianti di energia da fonti rinnovabili in esame tra piccoli e grandi, in zone marginali e non (alcune dei quali anche in zone agricole). Tra questi, quelli in aree Sin (Sito d’interesse nazionale) che risultano attualmente bloccati per via della mancanza delle analisi di rischio sui terreni agricoli interessati. «Certo - ha spiegato Ruggero Ronzulli, presidente di Legambiente Puglia - è importante anche smontare i falsi miti che circolano soprattutto in Puglia quando si afferma che la nostra regione ha già dato ed è autonoma energeticamente. Questo è vero nel complesso della produzione energetica regionale, ovvero tenendo conto del termoelettrico (carbone e gas) che rappresenta ben il 70% della nostra produzione energetica regionale. Quella stessa produzione oggi in crisi a causa della scarsità di gas e carbone importato per il 94% dall’estero». Ben venga allora la decisione del Consiglio dei Ministri di sbloccare la realizzazione di sei parchi eolici, che assicureranno una potenza pari a 418 MW. Quattro di questi si trovano proprio in Puglia nella provincia di Foggia. «Ricordiamo anche come lo sviluppo delle rinnovabili - aggiunge il presidente di Legambiente Puglia - compatibili con l’ambiente e territorio, sono anche un’importante fonte occupazionale per i nostri territori e soprattutto per i giovani che sempre vanno via per mancanza di futuro. Invece è fondamentale investire e puntare su un #futuro rinnovabile in ogni direzione».

La stessa Legambiente Puglia condivide con soddisfazione la decisione della Regione Puglia di aprire un confronto con l’azienda che ha proposto il progetto del parco eolico offshore nello specchio di acqua tra Santa Cesarea Terme e Santa Maria di Leuca per trovare delle soluzioni condivise. Un progetto di cui si parla ormai da settimane e che trova forte contrarietà in molte amministrazioni comunali, in politici in generale legati al territorio, in associazioni. «Dire solo “no” senza dialogare non porterà mai a niente, anzi non farà altro che far ripetere gli stessi errori commessi in Puglia nel passato, come accaduto con la Tap – sottolinea Ruggero Ronzulli - La Regione Puglia e i Comuni devono chiedere lo studio di fattibilità che Legambiente, più volte, ha chiesto e giudica ineludibile e preliminare nel confronto con la società proponente».

Dagonews l'8 marzo 2022.  

Ieri sera, in diretta durante il Tg7, Milena Gabanelli, parlando con Enrico Mentana, ha dovuto ammettere anche le sue responsabilità nella campagna d’informazione contro il rigassificatore di Brindisi: 

“Vent’anni di politica energetica in Italia mai fatta. Con qualche colpa anche di noi giornalisti. Io personalmente so di aver combattuto - mea culpa! - quando stavano costruendo e allargando il rigassificatore di Brindisi, per esempio. Quindi su questo faccio mea culpa. Ma ci sono state tante partecipazioni in questo non sviluppo di diversificazione e nel non-sviluppo delle energie rinnovabili perché nessuno vuole l’infrastruttura sul suo territorio. Poi succede questo…”

Rinnovabili, i "no" costano 6 miliardi. Sofia Fraschini il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Sindrome "nimby" e burocrazia bloccano pure l'energia green.

Emergenza gas, caro-bollette e dipendenza energetico-politica sono oggi l'effetto diretto di precise scelte fatte nel passato. E che non sono solo politiche ma, come ricorda Paolo Scaroni, vicepresidente di Rothschild in una intervista al Sole 24 Ore, il dilagare di una sorta di «isterismo verde» che ha colpito persino le rinnovabili. Basti pensare che il primo parco eolico offshore sta prendendo vita in queste settimane al largo di Taranto, ma per entrare in azione il progetto da 80 milioni ha impiegato 14 anni: avviato nel 2008, il sito ha ricevuto l'autorizzazione unica nel 2013 e subito scontri legali davanti alla giustizia amministrativa tra il Comune di Taranto e gli allora proponenti dell'iniziativa. E poi di queste ore il no del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano (Pd), a un progetto gemello in Salento. E che dire dell'opposizione di questi giorni all'idea (emergenziale) di riavviare a centrale a carbone di Monfalcone? La risposta è sempre no.

Ed è un trend così diffuso da essere stato indicato con un nome preciso: «effetto Nimby» (not in my back yard, «non nel mio giardino»). Una tendenza che ha portato l'Italia a dover dipendere per oltre il 90% dalle risorse energetiche altrui. Che poi queste siano russe (40%) o algerine, poco cambia. Anche se l'emergenza legata al conflitto ci obbliga a un esame di coscienza sui tanti no con cui cittadini, enti locali e politici hanno bloccato lo sviluppo energetico del nostro Paese.

Analogo discorso può essere fatto considerando la via nucleare passata per due referendum e, quindi, attraverso la scelta diretta degli elettori nel 1987 e nel 2011. Gli stessi che oggi contestano il caro-bolletta e la dipendenza (solo oggi scomoda) dalla Russia, ma che difficilmente rinuncerebbero a tutta l'energia necessaria per stare al caldo, cucinare e alimentare i nostri dispositivi. Eppure, un aiuto arriverebbe, come ricorda Scaroni, anche solo dall'abbassare i termostati: dai 20 gradi in su ogni grado ci costa 7% in più in bolletta.

C'è poi il grande tema burocrazia. «L'Italia ha un parco rinnovabili di grande entità che però inizia ad accusare la sua vetustà in confronto alle più moderne tecnologie. Esso, quindi, ha una amplissima potenzialità di incremento delle performance», spiega al Giornale Marco Carta amministratore delegato di Agici e direttore dell'Osservatorio Industria Rinnovabili. In sostanza, aggiornando gli impianti avremmo un ritorno energetico nazionale assicurato.

Sulla base delle stime dell'Osservatorio Industria Rinnovabili di Agici, attraverso una capillare opera di rinnovamento sarebbe possibile incrementare la potenza idroelettrica di 3,5 gigawatt, quella fotovoltaica di 7,5 gigawatt e quella eolica di quasi 9 gigawatt. «Complessivamente ben 20 gigawatt in più, per una produzione addizionale di circa 35 terawattora/anno. Ciò senza avere nessun impatto sull'occupazione di suolo. Tale produzione rinnovabile consentirebbe di evitare di bruciare circa 6 miliardi di metri cubi di gas ogni anno. Tale gas vale, alle attuali condizioni di mercato, circa 6 miliardi di euro» spiega Carta. Questi interventi di ammodernamento hanno tempi di realizzazione relativamente brevi: mediamente un anno, in molti casi anche significativamente meno. La burocrazia e una legislazione farraginosa stanno però rallentando il mercato.

«Nell'eolico sono necessari fino a 5 anni per ottenere l'autorizzazione al potenziamento di un impianto, senza contare contestazioni e ricorsi dei sempre presenti comitati del no. Nell'idroelettrico tutto o quasi è bloccato in vista del rinnovo delle concessioni. Nel solare manca una legislazione volta a promuovere realmente il potenziamento del parco esistente», conclude Carta.

STORIE DAL TARANTINO. I Nimby retrogradi. Avetrana, oggi come ieri dice «no» al nucleare. Negli anni '80 si oppose alla costruzione di una centrale: un movimento di protesta dal basso che coinvolse oltre 50mila persone. Maristella Massari su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Febbraio 2022.

Nel 1982, mentre l’Italia diventava campione del mondo di calcio, Avetrana, piccolo comune a vocazione agricola all’estrema periferia orientale della provincia di Taranto vinceva la madre di tutte le battaglie ambientaliste. Con un movimento di protesta dal basso, i cittadini di questo remoto borgo di poco più di seimila anime, quarant’anni fa presero in mano il proprio destino e si opposero al nucleare. L’onda della contestazione partita da sud-est, diventò tempesta travolgendo Roma e, dopo il caso Chernobyl del 1986, si fece tsunami. L’anno successivo, 1987, il referendum sul nucleare fu bocciato senza ombra di dubbio. Circa l’80 per cento degli italiani scelse di respingere l’ipotesi di impiantare in Italia le centrali, nonostante quelli (dopo la guerra del Kippur e la grave crisi petrolifera), fossero anni di grande sofferenza sul fronte della produzione energetica.

«Meglio attivi oggi che radioattivi domani» era uno dei motti più felici coniati ad Avetrana. Alla prima grande manifestazione ambientalista presero parte più di 50mila persone. Furono stipate sul basolato di piazza Vittorio Veneto. Una folla incontenibile giunta da ogni parte d’Italia per la quale fu necessario aprire anche la seconda e più capiente piazza Giovanni XXIII. Le due piazze oggi sono rimaste quasi immutate.

«Quel giorno di marzo - racconta alla Gazzetta Celestino Scarciglia, uno dei padri fondatori del Comitato contro il nucleare -, la giornata era un po’ come oggi: umida e fredda. Ma noi quel freddo non riuscivamo a percepirlo. Se in quella piazza fosse caduto uno spillo, non sarebbe mai arrivato a terra per quanta gente c’era».

Scarciglia, funzionario e poi direttore di banca, all’epoca era il segretario cittadino della Democrazia Cristiana. Aveva seguito suo padre Luigi, conosciuto come Gino in paese. Negli anni ‘80 il Piano energetico nazionale aveva previsto la costruzione di centrali nucleari per far fronte al fabbisogno di energia del paese. L’ipotesi studiata a Roma aveva trovato il favore e l’accoglienza del governo regionale, guidato dal democristiano Nicola Quarta. La centrale nucleare avrebbe dovuto vedere la luce al confine dei territori di Avetrana a e Manduria. Un altro possibile sito era quello di Carovigno, nel Brindisino. Gli impianti, costruiti vicino al mare, avrebbero dovuto da questo prelevare le acque per il raffreddamento. Tutto questo era inaccettabile per un manipolo di illuminati consiglieri comunali di Avetrana. Nel luglio del 1981 Antonio Nigro, Fernando Schiavoni e Chicco Marasco, con il nostro Celestino Scarciglia, presentarono in Consiglio una risoluzione che impegnava la stessa assise a votare su ogni decisione che riguardasse l’ipotesi centrale nucleare.

«Eravamo in pochi a conoscere i pericoli di questa nuova tecnologia. E poi all’epoca l’impianto significava grossi investimenti, lavoro, ristori. Questo incontrava il favore di più di qualcuno». Celestino Scarciglia non si lascia incantare dalle sirene del progresso e va avanti nella battaglia. Ci scriverà anche un libro. «Il 7 dicembre del 1981 alla notizia che il presidente della Regione Quarta aveva dato la disponibilità del sito, costituimmo ufficialmente il Comitato. Scendemmo subito in piazza, raccogliemmo più di 2000 firme e cominciammo a informare la popolazione del rischio che stavamo correndo. Dalla nostra avevamo anche gli scienziati: i professori universitari Giorgio Nebbia, Gianni Mattioli e Massimo Scalìa. Cercammo di coinvolgere anche il Partito Comunista, ma in un primo momento le segreterie locali erano restie a respingere l’ipotesi del nucleare. Poi, quando il popolo scese nelle piazze, cambiò tutto anche per loro». Il 6 gennaio del 1982, Celestino Scarciglia, novello Davide, sfidò platealmente il gigante Golia. «Quel giorno mi recai in sezione e strappai la tessera della Democrazia Cristiana. Poi togliemmo le insegne del partito. Contro l’imposizione dall’alto di questa decisione che ci cadeva sulla testa, facemmo resistenza attiva e passiva. Fummo ricevuti dappertutto, anche al Quirinale da Pertini. La gente per aiutarci in questa battaglia si autotassava. Quando arrivarono le trivelle per i carotaggi la popolazione organizzò i turni di bivacco per impedire ai mezzi di scavare la nostra terra. Furono proclamati 3 giorni di sciopero generale anche a Manduria, Maruggio, Porto Cesareo, Carovigno. La Regione Puglia fu inchiodata dalla volontà popolare a rivedere la sua decisione».

Una battaglia civile che sa di epico e che ancora oggi, a quarant’anni di distanza, è impressa nella memoria di chi, all’epoca, era poco più che bambino. Antonio Iazzi, 52 anni, docente universitario, da settembre è il primo cittadino di Avetrana. È l’«homo novus» della politica locale, eletto con una civica che, per usare un gergo da anni ‘80, è da larghe intese. «Il tentativo di occupazione dell’Ucraina, l’assedio di Chernobyl (proprio lei), le ripercussioni sui consumi di energia, già alle prese con costi divenuti ormai insostenibili, sono temi che oggi si intrecciano e negli abitanti di Avetrana rievocano - dice alla Gazzetta -, il ricordo della lotta contro il nucleare. Una lotta, quella contro l’insediamento della centrale nel territorio di Avetrana, che vedeva insieme popolazione e scienziati, tutti a far fronte comune contro un progetto dai consistenti interessi, ma dalla oscura sicurezza; tutti uniti per far rilevare la portata delle energie alternative. Quelle che oggi, con le moderne tecnologie, rappresentano un grande strumento dell’evoluzione verso la “transizione tecnologica”.

Sono trascorsi appunto quaranta anni dalle prime proteste che coinvolsero migliaia e migliaia di cittadini provenienti dai comuni anche di Manduria, Sava, Maruggio e da quelli delle vicine province di Lecce e Brindisi. E fu proprio il disastro del 26 aprile 1986 - prosegue il sindaco Iazzi -, che coinvolse la centrale nucleare di Chernobyl, oggi sotto assedio russo, con molta probabilità, a rafforzare il sano sentimento osteggiante delle popolazioni pugliesi ed italiane contro quell’impianto che probabilmente avrebbe dato sollievo economico, ma che certamente avrebbe compromesso il futuro di una comunità che, di lì a poco, avrebbe visto nel turismo una grande fonte di sviluppo economico». «Oggi per fortuna stiamo assistendo ad un profondo cambiamento finalizzato alla transizione verde, ecologica e inclusiva del Paese, grazie allo sviluppo dell’economia circolare, delle fonti di energia rinnovabile e di conseguenza un’agricoltura più sostenibile. L’auspicio è che con le risorse disponibili nel Pnrr, Avetrana possa continuare la sua lotta contro le potenzialità di inquinamento e diventare un esempio come lo fu in quei giorni indimenticabili» 

Quell'urlo di Avetrana contro il nucleare. Era il giorno della Befana del 1982 quando nel piccolo centro di Avetrana, ultimo bastione dell’agro tarantino (ma di antica appartenenza salentina), si svolse la prima grande manifestazione contro il nucleare. Omar Di Monopoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Febbraio 2022.

Tempi cupi. Di un buio difficile da stenebrare. Mentre il ciclico manifestarsi della crisi energetica torna a squassare i mercati, contrapposizioni belliche che credevamo archiviate si sono riproposte trovando corpo e alimento proprio nel dominio di quelle materie prime cui siamo irrimediabilmente diventati dipendenti.

Oggi che l’idea di una transizione ecologica risolutiva - a lungo caldeggiata nei corridoi della politica - pare destinata a rimanere una chimera, ci piace ricordare l’importante contributo che il Mezzogiorno seppe dare alla discussione con uno scatto d’onore e d’orgoglio che proprio in queste settimane rintocca il suo quarantennale.

Era il giorno della Befana del 1982 quando nel piccolo centro di Avetrana, ultimo bastione dell’agro tarantino (ma di antica appartenenza salentina), si svolse la prima grande manifestazione contro il nucleare.

In quegli anni, infatti, il piano energetico nazionale concordò la costruzione di due nuove fonti di alimentazione nella nostra regione: a Brindisi una mega centrale a carbone e, a ridosso del territorio di Avetrana, una centrale nucleare.

Contro l’ultima delle due ipotesi le forze politiche che amministravano la cittadina e i movimenti ambientalisti dell’intera provincia insorsero, compattandosi.

Avetrana era allora una città priva di difese: nessun rappresentante di rilievo in Parlamento e peso equivalente a zero sul nascente circuito virtuoso del turismo: un villaggio ai piedi di Cristo di cui poco o punto si sapeva e che sembrava perciò calzare perfettamente, complice l’ubicazione a due passi dallo Ionio in cui le acque di raffreddamento del reattore potevano essere sversate, alla rapida costruzione di un impianto tecnologico che avrebbe attenuato il carico del caro-bolletta sul portafogli nazionale creando però, di fatto, nuovi e irrisolvibili (per la tecnologia dell’epoca) problemi in termini di stoccaggio delle scorie.

Oggi la questione è ancora dibattuta (l’eliminazione degli scarti radioattivi resta faccenda di difficilissima gestione, anche per le centrali di quarta generazione) e certo aver rifiutato quel tipo di opportunità ci ha esposto a debolezze di cui oggi l’intera penisola paga il fio, ma chiunque sia cresciuto in questa parte di Sud non può non ricordare il forte senso di comunanza che si respirava in quei giorni: fu una stagione di lotta di cui persino chi era solo un bimbo, come chi scrive, percepiva la forza.

Piazze e contrade di tutto il Meridione, irraggiandosi della spinta propulsiva degli avetranesi, si contaminarono di una fratellanza che oggi guardiamo con nostalgia. Aspettando che il suo caldo abbraccio torni a sostenerci per il futuro.

Le proteste contro le miniere di litio, decisive per la transizione energetica. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 20 febbraio 2022

Il progetto di una miniera di litio in Nevada è bloccato dalle proteste di allevatori, ambientalisti, comunità native. Storie simili si trovano anche in Spagna, Portogallo e Serbia. È uno dei conflitti della transizione energetica: servono più miniere per le batterie, ma nessuno le vuole

Negli Stati Uniti il progetto di una miniera di litio in Nevada è bloccato dalle proteste e dai ricorsi di allevatori, ambientalisti, comunità native. È uno dei conflitti della transizione energetica: servono più miniere per i metalli critici ma nessuno le vuole.

In Europa le proteste più eclatanti sono state in Portogallo e in Spagna, e poi c’è il caso della Serbia, dove le manifestazioni di piazza hanno respinto Rio Tinto e quella che sarebbe stata la più grande miniera del continente. 

L’estrazione mineraria era considerato un business sporco e antiquato ed è stato delocalizzato nel sud del mondo, finché non ci siamo accorti che la transizione aveva bisogno di metalli. E l’onshoring minerario è un problema tanto ambientale quanto culturale e politico.  

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

Giuseppe Valditara per “Libero Quotidiano” il 15 febbraio 2022.

Marcellino Tufo è un ingegnere dell'Eni di Ravenna, esperto di perforazioni energetiche. Intervenuto come delegato alla assemblea organizzativa 2022 della Cgil, ha avuto il coraggio di denunciare l'ipocrisia di una classe dirigente sindacale e politica che rincorre falsi miti ambientalisti senza avere il senso della realtà.

I nomi messi sotto accusa sono pesanti: Landini, il segretario della Cgil e Bonaccini, uno degli esponenti più illuminati del Pd. Il tema riguarda le politiche energetiche e in specie il gas, da poco liberato dall'Unione Europea dal marchio d'infamia di sostanza non green. La crisi ucraina e il drammatico aumento delle bollette ripropongono il tema degli approvvigionamenti. 

A fronte di un incremento in Italia dei consumi di gas naturale del 6,8% nel 2021 sul 2020, siamo sempre più dipendenti dall'importazione da aree critiche del pianeta. Il 40,7% del gas consumato in Italia viene importato dalla Russia, il 21,5% dall'Algeria e il 6,2% dalla Libia. Solo il 5,8% proviene dalla produzione nazionale.

Eppure il gas è al primo posto fra le fonti energetiche del Paese fornendo ben il 35% del fabbisogno italiano di energia: l'economia nazionale è dunque dipendente da zone ad alto rischio strategico. 

Tufo denuncia fra l'altro come l'importazione sia particolarmente inefficiente, scarsamente compatibile con esigenze ambientali e assai costosa, posto che circa 1/4 del prodotto si perde nel trasporto.

A fronte di un prezzo del gas sempre più caro, un miliardo di metri cubi di gas prodotto in Italia genererebbe 2 miliardi di pil. Dal momento che la transizione energetica ha bisogno di tempo, il gas può essere una delle soluzioni nella fase di passaggio verso forme di energia pulita.

Ecco allora la particolare attualità di un aumento della produzione nazionale e da qui la drammatica importanza della denuncia del sindacalista della Cgil contro l'ipocrisia e la mancanza di coraggio di alcuni vertici sindacali e politici della sinistra italiana che non hanno il coraggio di puntare su nuove perforazioni. Le perforazioni sono fra l'altro regolamentate da una normativa che è in Italia fra le più severe al mondo.

Carlo Pelanda su Italia Oggi ha recentemente calcolato che, tra pianura padana, Adriatico, Meridione, e offshore ionico-siculo, è sensato ipotizzare un potenziale di circa il 25/30% del fabbisogno nazionale per i prossimi 40 anni. 

Nel 2018 la produzione domestica di gas ammontava a 4,6 milioni di tep (tonnellate petrolio equivalenti) per un risparmio sulla bolletta energetica di 1,2 miliardi di euro.

Abbiamo riserve non sfruttate pari a 82 milioni di tep. Come scrive Maurizio Masi, già direttore del Dipartimento Chimica del Politecnico di Milano, sul blog di Lettera 150, citando dati di Assomineraria: «Per aumentare ulteriormente la produzione si devono fare nuovi pozzi. Visti gli investimenti ingenti gli scenari non sono mai a breve termine. Ciò vuol dire garantire uno scenario stabile. Non si può investire in prospezione, e perforazione senza la garanzia di poter coltivare un pozzo, ossia estrarre una adeguata quantità di gas». 

Eppure non si ha il coraggio di percorrere con decisione una strada necessaria per il futuro energetico del Paese. Ora, con la pubblicazione del Piano per la Transizione Energetica Sostenibile il ministro Roberto Cingolani promette di voler superare la moratoria del 2019. Ma già il Movimento 5 Stelle si mette di traverso e il PD sembra volerlo seguire a ruota. Se non ci si sbriga saranno gli italiani a pagare il conto.

Michelangelo Borrillo per il "Corriere della Sera" il 14 febbraio 2022.

È solo un primo passo. Ma è certamente nella direzione della transizione energetica: la ripresa delle prospezioni ed estrazioni di gas in terra e nell'offshore italiano sarà accompagnata dal sostanziale stop a nuovi permessi per il petrolio. 

Un primo passo - quello della pubblicazione del Pitesai, il Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee - anche verso l'incremento della produzione del gas italiano a cui il governo sta guardando come una delle armi per contrastare il caro energia.

TRIVELLE

Arrivato dopo tre anni dalla moratoria imposta nel 2019 dal governo di allora, il Pitesai è una mappa, una sorta di piano regolatore che indica dove sarà consentita l'estrazione di idrocarburi. 

«Fortemente voluto dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani - come evidenziato da una nota dello stesso ministero - per sanare il «ritardo della sua pubblicazione», non piace al mondo ambientalista, contrario non solo alle trivelle per il petrolio ma anche a quelle per il gas.

Dal punto di vista dei numeri, nel 2021 la produzione nazionale di gas ha raggiunto il minimo dal 1954, 3,2 miliardi di metri cubi (il picco risale al 1991 con 21 miliardi di metri cubi); la ripresa delle estrazioni potrebbe portare a un raddoppio della produzione italiana, arrivando così al 10% circa del fabbisogno nazionale (nel 2021 in Italia sono stati consumati circa 72 miliardi di metri cubi di gas), grazie soprattutto all'aumento delle estrazioni nel Mare Adriatico.

Ma sui tempi del raggiungimento dell'obiettivo Nomisma solleva dubbi: «Con queste regole - spiega Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia - ci vorranno anni, forse decenni. Anche se tecnicamente un raddoppio della produzione da 3 a 6 miliardi di metri cubi sarebbe possibile in un anno».

Il piano non divide solo gli esperti ma anche la politica. Da una parte c'è Italia viva che con un tweet del vicepresidente del gruppo alla Camera Marco Di Maio plaude all'iniziativa perché «il governo ha sbloccato il piano delle estrazioni di idrocarburi» e al contempo sottolinea i danni della «furia ideologica di M5S e Lega che lo bloccò nel 2019», facendo perdere «tre anni cruciali»; dall'altra ci sono le critiche del Movimento 5 Stelle che per bocca di Giovanni Vianello, deputato della commissione Attività produttive, sottolinea come «l'Italia fa un disastro e un ulteriore passo indietro nella transizione ecologica» con il decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 febbraio. 

«Air gun e trivelle - aggiunge il parlamentare pugliese - riprenderanno a devastare i mari e i territori italiani, in particolare quelli pugliesi: saranno almeno 11 le istanze di ricerca (9 basso Adriatico, 2 nel Golfo di Taranto, 1 tra Adriatico e Jonio) e 2 le istanze di prospezione (basso Adriatico e Jonio) che, al netto di qualche parziale riperimetrazione, continueranno il loro iter di approvazione. E non verranno fermati i 6 permessi di ricerca già rilasciati, 2 nel basso Adriatico, 1 a largo di Leuca e 3 a largo di Crotone».

Dagospia il 20 febbraio 2022. Botta e risposta tra Antonino Monteleone e la viceministra Alessandra Todde: "Perché il M5S era contro il TAP? Avete preso i voti di chi non lo voleva e ora rivendicate di averlo fatto", "Una battaglia si fa nelle condizioni del momento"

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 20 febbraio 2022.

Sottosviluppo economico. A «Piazzapulita» (La7) c'è stato un confronto dai toni surreali. Il M5S ha preso voti in Puglia opponendosi alla costruzione del Tap (il gasdotto Trans-Adriatico) ma adesso, con il rincaro delle bollette, ne rivendica la realizzazione. Questo contestava Antonino Monteleone ad Alessandra Todde. 

A quel punto, la viceministra dello Sviluppo economico ha cominciato ad arrampicarsi sugli specchi: «Il problema non è l'infrastruttura in sé ma i benefici che può portare al Paese... non è buona l'infrastruttura in sé è buono il fatto che abbiamo differenziato la fonte». 

Traduzione: il gasdotto in sé resta una porcheria, il colpo di genio del governo Conte è stato quello di utilizzarlo per il gas. Qualcuno, forse, avrebbe potuto usare l'infrastruttura per la posta pneumatica, ma ha trovato il M5S sui suoi passi.

La viceministra scivola su un errore ontologico: l'unico modo in cui un contenuto può esprimersi nella sua interezza consiste nella possibilità di esistere in un contenitore. Una ferrovia è tale se ci corre sopra il treno, altrimenti non è. 

Forse pensava di cavarsela con una sineddoche (confondere il contenuto con il contenitore) ma la retorica non sembra il suo forte. Certe teste sublimano e diventano gas, che si disperde nell'aria al primo refolo di vento.

Luciano Capone per ilfoglio.it il 20 febbraio 2022.

E’ un discorso dialogo surreale quello tra il giornalista Antonino Monteleone e la viceministro grillina dello Sviluppo economico Alessandra Todde. Monteleone ricorda, in questa fase di aumento del costo dell'energia, che il M5s era contrario alla costruzione del Tap, il gasdotto transadriatico che in questa fase molto critica sta garantendo all'Italia il 10% dell'approvvigionamento di gas.

“Il tema non è l'infrastruttura in sé, ma che beneficio può portare al nostro paese", è la risposta della Todde durante la puntata di Piazzapulita su La7. "Il Tap ha portato 10 miliardi di metri cubi di gas dall'Azerbaijan e quindi non è buona l'infrastruttura in sé, è buono il fatto che abbiamo differenziato la fonte e quel gas è particolarmente conveniente”.

Si tratta di un'argomentazione abbastanza surreale perché, essendo un gasdotto, il Tap non è stato pensato per trasportare acqua minerale ma, appunto, gas. E l'obiettivo non era “creare un'infrastruttura in sé”, quasi fosse un'installazione artistica, ma proprio differenziare le fonti di approvvigionamento facendo arrivare il gas dall’Azerbaijan. 

“Avete preso i voti di chi non lo voleva e adesso rivendicate di averlo fatto. È un po' strana questa cosa...”, è l'osservazione del giornalista quando la vicepresidente del M5s dice che “Il Tap è stato supportato dal governo Conte”.

L'affermazione della Todde è a dir poco fuorviante, per non dire falsa. Perché da sempre il M5s si è opposto strenuamente contro la costruzione del gasdotto, partecipando a manifestazioni No Tap con i big del partito in prima linea: Beppe Grillo, Barbara Lezzi, Alessandro Di Battista.

“Con il governo del M5s quest'opera la blocchiamo in due settimane”, urlava Di Battista in un comizio in Salento pochi mesi prima delle elezioni del 2018. “Questo gasdotto non serve a niente. Il gas non serve all'Italia. Non serve neanche all’Europa. Abbiamo più gasdotti del dovuto”, urlava durante una manifestazione No Tap Barbara Lezzi, prima di diventare ministro del Sud.

E non è vero che l'impostazione è cambiata radicalmente con il governo Conte. Il M5s ha continuato ad opporsi al gasdotto e ha tentato in tutti i modi di bloccare la sua costruzione, senza però riuscirci.

“Si tratta di un accordo tombale e il Paese non può fare altro che subire le decisioni prese per colpa del PD in Parlamento. Sciacalli sia ieri che oggi – dichiarava il sottsegretario grillino agli Esteri Manlio Di Stefano, che oggi si dice favorevole al Tap –. E' una mina lasciata a terra dagli imbroglioni per natura che ci hanno preceduto, ed è impossibile da disinnescare. E Calenda, Emiliano, Letta e tutto il Pd sono i principali ed unici veri responsabili”.

L'allora vicepremier e ministro dello Sviluppo economico Luigi Di Maio dichiarava: “Sul Tap sono stato molto chiaro: il M5s era ed è No Tap”. Poi il gasdotto si è fatto solo perché, spiegava l'allora capo politico del M5s: "Non sapevo che c'erano delle penali da pagare, l'ho scoperto una volta diventato ministro. Da ministro dello Sviluppo economico ho studiato le carte Tap per tre mesi. Vi posso assicurare che non è semplice dover dire che ci sono delle penali per quasi 20 miliardi di euro. Ma è così, altrimenti avremmo agito diversamente”.

Della stessa linea di Di Maio era il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che dopo aver dato il via libera all'opera, spiego agli elettori del M5s che aveva effettuato “un rigoroso controllo delle procedure di realizzazione dell'opera al fine di verificare tutti i profili di eventuale illegittimità che erano stati segnalati", preannunciando che “se avessimo riscontrato tali profili di illegittimità non avremmo esitato ad assumere tutti i conseguenti provvedimenti, compresa la decisione di interrompere i lavori”. 

Ma, concludeva Conte “ad oggi non è più possibile intervenire sulla realizzazione di questo progetto che è stato pianificato dai governi precedenti con vincoli contrattuali già in essere. Gli accordi chiusi in passato ci conducono a una strada senza via di uscita. Non abbiamo riscontrato elementi di illegittimità.

Interrompere la realizzazione dell'opera comporterebbe costi insostenibili, pari a decine di miliardi di euro. In ballo ci sono numeri che si avvicinano a quelli di una manovra economica.  Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, non lasciando nulla di intentato. Ora però è arrivato il momento di operare le scelte necessarie e di metterci la faccia”. 

Insomma, non è affatto vero che il M5s e Conte abbiano mai sostenuto la costruzione del Tap. Si sono sempre opposti, con ogni mezzo, alla realizzazione di un'opera che ora è ritenuta strategica senza però riuscire nel loro intento. Per fortuna.

Parla la senatrice di Italia Viva. Teresa Bellanova contro i grillini: “Su Tap e gas aspettiamo le scuse, ci hanno massacrati e ora ci danno ragione…” Aldo Torchiaro su Il Riformista il 22 Febbraio 2022. 

Teresa Bellanova scuote la testa: “I populisti? non hanno nessun bisogno di affrontare i problemi reali. Cavalcano rabbia, invidia, alimentano rancore sociale, avvelenano i pozzi su questioni maledettamente serie costruendo rendita politica. In buona parte è la parabola dei 5Stelle. Hanno trovato buona sponda su più fronti, anche nei partiti del centro sinistra e anche nelle Istituzioni, da Vendola a Emiliano. Le accuse? Connivenza col nemico, intesa con le lobby dei petrolieri, stuprare il territorio, diffondere veleni nelle campagne. Proprio a me che, venendo da una famiglia contadina, ho sempre sostenuto l’importanza delle buone pratiche agricole per l’eccellenza dei nostri prodotti e del nostro agroalimentare”. E dire che se adesso dobbiamo fare i conti con bollette del gas salatissime e con una dipendenza preponderante dalla Russia, le dinamiche erano note da tempo. E ben prevedibili.

Piccola pausa di Bellanova: “Adesso, dalla Viceministra Todde al Sottosegretario Di Stefano auspicano la possibilità che Tap raddoppi la capacità di esportazione. Arrivano con un po’ di ritardo perché all’inizio del mese proprio di questo la Commissaria europea all’Energia Simson ha discusso con il Presidente azero Aliyev. Nel frattempo direi che il minimo sindacale sarebbe scusarsi per tutto lo scempio seminato”. Il sottosegretario Di Stefano dice che è cambiata la fase. “Argomentazione risibile. Non regge ed è infantile. È compito della politica avere uno sguardo lungo sulle questioni. Già nel 2014 dicevo: questa infrastruttura è strategica per la diversificazione delle fonti e degli approvvigionamenti energetici, per l’uso del gas come fonte di transizione come indicata nella Strategia energetica nazionale. Sapere quali sono gli assetti produttivi del proprio paese e come dipendono dagli equilibri geopolitici non è un optional. Ed è evidente che l’interdipendenza nelle forniture di gas per paesi manifatturieri come l’Italia e la Germania è – non da adesso – tema di enorme portata.

La necessità di maggior rifornimento di energia a costi più calmierati, di maggior indipendenza nell’approvvigionamento del gas da altri Paesi, è da sempre sotto gli occhi di tutti. La verità è che su Tap, anche all’interno del Pd, la comunità politica di cui facevo parte, molti hanno preferito essere sponsor dei 5Stelle piuttosto che difendere quanto il Governo nel frattempo andava decidendo. E sì che, dopo Monti, sono stati tutti dem i Presidenti del Consiglio che si sono avvicendati, da Letta a Renzi a Gentiloni. E che lo stesso Presidente Mattarella, in visita ufficiale in Azerbaijan nel luglio 2018, lo ricorda?, ha rivendicato la strategicità di quell’infrastruttura sottolineando l’impegno comune a portarla a termine. Perché Conte, da presidente del governo giallo-verde, se ne accorgesse, è stata necessaria la tirata di orecchie da parte di Trump. L’avvocato, come di solito, ha giocato su più tavoli con dichiarazioni per ogni occasione. Nel frattempo lui e l’allora Ministra per il Mezzogiorno Barbara Lezzi, quella che non avrebbe mai steso l’asciugamano sul tubo del gasdotto, hanno fatto perdere al Salento 55 milioni di investimenti aggiuntivi da parte di Tap e Snam, per cui avevamo lavorato insieme a De Vincenti”.

Ancora una pausa: “Sì, Tap ed Ilva sono veramente due snodi emblematici. Questi signori si sono potuti permettere di distruggere le esistenze altrui dai palchi dei comizi e nelle piazze perché, anche a partire dal Pd, non sono stati attivati gli anticorpi necessari a far muro contro populismo, violenza, rancore, rabbia e incompetenza. Addirittura, sono stati assecondati quando additavano i presunti nemici del territorio e dei cittadini”. Il ricordo va al 2018. Bellanova rivive l’acredine insopportabile con cui veniva accolta negli incontri elettorali fatti sul territorio. Lei provava a ragionare di rilancio territoriale, le replicavano a suono di insulti e di minacce. Dunque a volte bisognava smontarla, l’agenda, perché la Questura sconsigliava di sottoporsi a rischi troppo alti. Chiedo a Bellanova di commentare alcune immagini. Sono le foto nel Comune di Melendugno di Massimo D’Alema, della pentastellata Barbara Lezzi, di altri esponenti politici che, accanto al sindaco Marco Potì, firmano il Patto contro Tap.

L’impegno, una volta eletti, è bloccarne la realizzazione. Un fronte ampio che nei mesi precedenti aveva già visto in prima fila financo il presidente della Regione Emiliano, quello che “chi vuole Tap è al soldo delle lobby”, e, ancora prima, Nichi Vendola. “La saldatura di cui parlavo è questa. Il modo migliore per concimare l’antipolitica”. Anche D’Alema? Bellanova non fa una piega: “Lei come lo definirebbe uno che prima parla del Tap come di un innocuo tubicino, necessario alla diversificazione e all’indipendenza energetica, e poi in campagna elettorale firma per non realizzarlo?”. Gli unici a beneficiare della dipendenza italiana dal gas russo, d’altronde, sono i russi. Non ci sarebbe voluto neanche tanto a capirlo.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Superbonus e stop trivelle. I grillini scaricati da tutti. Lodovica Bulian il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa.

L'allarme delle imprese è ormai un vero Sos. Il conto è già salito da 9 a 37 miliardi, con aumenti del 660% del prezzo del gas a gennaio rispetto a due anni fa. Il governo cerca di rispondere pensando ad uno stock di energia a prezzo calmierato ma anche all'aumento della produzione nazionale di gas. Venerdì il ministero della transizione tecnologica ha pubblicato il Pitesai, il piano che individua le aree idonee alla prospezione all'estrazione di idrocarburi su terra e offshore, dopo la moratoria imposta nel 2019. Il piano nato sotto il governo Conte I, ma con l'intento di mettere vincoli alla ricerca di idrocarburi. Ora invece potrebbe essere accompagnato da un pacchetto di norme per sbloccare le trivelle tanto contestate dal M5s. È un documento di oltre 200 pagine che individua le aree in cui sarà possibile riavviare le ricerche e che arriva nel momento più drammatico per gli equilibri di approvvigionamento del gas. E ora volano le accuse incrociate contro i pentastellati: «La furia ideologica di M5S e Lega lo bloccò nel 2019: tre anni cruciali persi. A proposito di costi della politica: ci è costato più questo o i 345 parlamentari tagliati con la riforma gialloverde?», attacca Italia Viva con Marco Di Maio.

Nel mirino le politiche del No del Movimento, diventate negli anni battaglie contro il Tap, ma anche la Tav e grandi opere. Il M5s definiva il gasdotto pugliese «opera da criminali». E non basta oggi agli avversari l'inversione del sottosegretario agli Esteri dei cinque stelle Manlio Di Stefano: «È una questione di contesto storico differente. Quando abbiamo iniziato a parlare di Tap non si parlava ancora di transizione ecologica. Oggi abbiamo un contesto che mi fa dire: fortunatamente c'è il Tap». Gli risponde il viceministro alle Infrastrutture Teresa Bellanova: «Spiace dover contraddire Di Stefano ma la giravolta del M5S sul gasdotto Tap non è una questione di contesto storico differente. Ho purtroppo vissuto sulla mia pelle ciò che di violento, poco corretto, intimidatorio e umanamente miserabile il Movimento ha saputo scagliare contro chi invitava chiunque a ragionare sul tema gasdotto. Noi siamo ancora qua in attesa di quell'unico atto che sarebbe doveroso da parte vostra: chiedere scusa». E del resto anche sulle trivelle Luigi Di Maio parlava così: «Lo stop alle trivelle è una battaglia per la sovranità nazionale. Io alla mia terra ci tengo, io al mio mare ci tengo e non ho intenzione di svendere nulla ai petrolieri del resto del mondo. Sviluppiamo questo Paese in maniera sostenibile e proiettati al futuro».

M5s che ora finisce nel mirino anche per le frodi sul Superbonus, ma contrattacca la Lega sulle parole del ministro Giancarlo Giorgetti che ha criticato la misura: «Apprendiamo che il ministro è contrario al Superbonus 110%, misura che ha prodotto un terzo dell'aumento del Pil nel 2021. È dunque lecito chiedersi se anche Matteo Salvini e la Lega abbiano cambiato idea rispetto alla nostra misura. Salvini si rimangia i voti a favore del Superbonus espressi dal suo partito in Parlamento?», dicono i deputati Patrizia Terzoni, Luca Sut e Riccardo Fraccaro. «Mi pare che la strategia sia ormai chiara, tutti contro il Movimento. Se è già iniziata la campagna elettorale basta che ce lo dicano», lamenta il capo delegazione M5s al governo, il ministro Stefano Patuanelli. Lodovica Bulian

L'INTERVISTA. «Tap e guerra sono due cose diverse»: parla il sindaco di Melendugno. Il sindaco di Melendugno, Marco Potì. Marco Potì torna alla carica e contesta ancora una volta il gasdotto. Vincenzo Sparviero su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Febbraio 2022.

Coglie la palla al balzo Marcò Potì, sindaco di Melendugno, per lanciare frecciatine a chi confonde la questione energetica con i venti di guerra. Come sempre, non la manda a dire e – ribadendo il secco “no” alla localizzazione nel “suo” territorio del gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline), giocando al rilancio, alla ricerca di possibili alternative che – a suo avviso – non vengono mai tenute nella “giusta considerazione”. La “Tap” è un’opera che consente il trasporto di gas naturale che proviene dal Mar Caspio e precisamente dall’Azerbaijan e che, dopo aver attraversato Grecia, Albania (ma prima sfiorando anche Georgia e Turchia) arriva fino in Italia e in Europa. Il gasdotto è tornato di attualità nelle discussioni sulla questione dell’indipendenza energetica dal colosso russo, diventato ancora più urgente – per osservatori politici e no - a seguito della guerra in Ucraina.

Sindaco, cosa l’ha fatta arrabbiare questa volta?

«Il modo di utilizzare questa crisi, che è geopolitica prima che energetica, per parlare a vanvera e rilanciare su questioni che ritengo che siano non collegate e comunque secondarie. L’infrastruttura era e continua a essere inutile, pericolosa e dannosa».

Tutelare l’ambiente o rischio di diventare potenziali obiettivi, visto i tempi che… corrono?

«Se vogliamo parlare di aspetti geopolitici o di obiettivi militari, nulla vieta anche per un sindaco di un territorio, sede di una infrastruttura energetica, di mettere sul tavolo anche il pericolo di diventare un obiettivo militare. Ma, siccome non voglio stare sullo stesso piano, ritengo, come negli anni precedenti, che il Tap non ha risolto e non risolverà alcun problema e non raggiungerà alcuno dei suoi obiettivi».

Ma questo si «scontra» con le fonti Tap, secondo le quali il gasdotto ha trasportato nel 2021, otto miliardi di metri cubi di gas, dei quali circa sei sarebbero arrivati in Italia e gli altri in Albania e Grecia…

«Io quello che mi domando è: dove sono andati a finire visto che il collegamento, oltre Brindisi, alla rete nazionale non esiste? C’è un mezzo tubicino da 18 pollici che va da Matagiola a Palagiano, se non sbaglio, quello in entrata, ma non c’è sicuramente un adeguato gasdotto in direzione almeno fino a Massafra. Secondo i report di Snam, questo tronco dovrebbe essere realizzato non prima del 2028, cioè tra sei anni. Sul sito di Snam scrivono che l’infrastruttura da Mesagne a Massafra dovrebbe essere realizzata non prima del 2028. Questo è il mio dubbio. Prima di parlare di raddoppio della capacità, mi domando: ma dove vanno quei 6 miliardi di metri cubi di gas che la società dichiara che arrivano in Italia e che rappresenterebbero il 9-10% del fabbisogno italiano? In realtà potrebbero essere utilizzati nelle province di Brindisi e di Lecce nella rete collegata a Snam e forse nella centrale turbogas Edipower di Brindisi, che brucia gas e produce energia elettrica. Ma è un quantitativo eccessivamente alto per il fabbisogno locale. Qualcuno risponda a questo mio dubbio atroce».

La «ferita», dunque, si riapre e non è escluso che altre iniziative possano essere presto intraprese anche in un clima difficile come quello attuale.

Reddito di cittadinanza e bonus, quanto ci sono costati i Cinque stelle al governo. Sandro Iacometti su Libero Quotidiano il 13 febbraio 2022

Quando Daniele Franco gli ha sbattuto in faccia che è grazie a loro, che hanno scritto male la misura, se il Superbonus fa acqua da tutte le parti e le frodi sono arrivate alla mostruosa cifra di 4,4 miliardi («livelli mai visti», ha detto), i grillini sono andati su tutte le furie. Ma è un fatto che la cessione del credito senza controlli per tutti i bonus edilizi è stata voluta dal Conte II nell'estate del 2020, così come è un fatto che uno dei principali ostacoli all'aumento della produzione di gas in Italia, vitale oggi con le bollette alle stelle, è la moratoria sulle trivelle (in queste ore sbloccata dal governo) voluta dal Conte I nel febbraio del 2019. La realtà, piaccia o no al Movimento e al popolo dei vaffa, è che da quando hanno messo piede a Palazzo Chigi i Cinquestelle non ne hanno fatta una giusta. La famosa scatoletta di tonno è stata aperta, bisogna dirlo, ma quello che ne è uscito più che l'onestà e il cambiamento promessi sono stati provvedimenti rabberciati, leggi malfatte, passi falsi e miliardi di soldi dei contribuenti gettati al vento.

Tutto comincia a pochi mesi dall'insediamento nel governo in coabitazione con la Lega. È il luglio del 2018 e Luigi Di Maio annuncia con orgoglio l'approvazione del decreto dignità. Una misura che avrebbe dovuto abolire il precariato mettendo all'angolo sfruttatori e avidi imprenditori. Com' è finita lo sappiamo. Per tenere insieme i cocci del mondo del lavoro mandato in frantumi dalla pandemia è stato lo stesso premier Giuseppe Conte, tanti i problemi provocati dalla stretta grillina sui contratti a termine, a dover sospendere l'applicazione del decreto.

CAPOLAVORO - Il capolavoro a Cinquestelle è, però, quello che arriva qualche mese dopo. È il settembre del 2018 quando sempre Di Maio, ancora più orgoglioso, esce dal balcone di Palazzo Chigi e grida alla folla festante di aver abolito la povertà. Inizia la grande epopea del reddito di cittadinanza. La legge istitutiva è del gennaio 2019, ma la paghetta grillina parte ad aprile. Da allora ci è costata la bellezza di 20 miliardi finiti anche, grazie ad un sistema di controlli basato sulle autocertificazioni, in tasca ad assassini, mafiosi, terroristi, detenuti, parassiti, truffatori, spacciatori, ladri ed evasori fiscali. Nello stesso periodo Alfonso Bonafede, allora ministro della Giustizia, dava vita all'altro grande orgoglio del popolo grillino: la legge spazzacorrotti, con annessa abolizione della prescrizione. Una roba in totale contrasto con l'unica richiesta che da sempre tutti gli organismi internazionali ci fanno: velocizzare i processi. Anche in questo caso la toppa hanno dovuto metterla da soli, approvando lo scorso autunno la riforma Cartabia sulla improcedibilità, che ha di fatto mandato in soffitta le trovate di Bonafede.

Passano pochi giorni, è il febbraio del 2019, e i grillini ne combinano un'altra. Spinto dal generale della Forestale, Sergio Costa, fino allo scorso febbraio ministro dell'Ambiente, Conte blocca tutte le trivelle del Paese. La scusa è una moratoria in attesa di capire dove è meglio traforare a caccia di idrocarburi. Il risultato è che rispetto ai 20 miliardi di metri cubi di gas che venivano estratti in Italia nel primo decennio del 2000 lo scorso anno, proprio quello in cui il costo del metano importato dall'estero ha iniziato a far impennare le bollette, siamo scesi a 3,3 miliardi, con una flessione del 18% rispetto al 2020. Grazie anche a questa bravata il governo ha già dovuto tirare fuori, considerando l'intervento previsto per la settimana entrante, circa 16 miliardi di aiuti pubblici.

AMBIENTE - E arriviamo così al Superbonus del maggio 2020, i cui pasticci originari stanno venendo a galla ora, con l'esplosione delle truffe e una serie di modifiche in corsa che stanno rischiando di far saltare tutto. È di un paio di mesi dopo, invece, il colpo da maestro di Conte. A metà luglio, dopo avere, lui e i grillini, per due anni invocato la revoca forzata delle concessioni per il disastro del Ponte Morandi, decide di siglare un accordo con i Benetton per acquistargli le Autostrade a prezzo di mercato. Costo dell'operazione: 8 miliardi di euro, di cui circa 4 pagati dalla Cdp. Lo scorso dicembre pure la Corte dei Conti si è chiesta a chi sia convenuto l'affare, non propendendo per lo Stato. L'ultima genialata è di qualche giorno fa. Con il contributo, va detto, della maggioranza del Parlamento, i grillini sono riusciti a far inserire nella Costituzione la tutela dell'ambiente. Come non ci fossero già abbastanza giurisdizioni a cui appellarsi quando c'è da bloccare qualche opera strategica per lo sviluppo e il benessere del Paese.

Da open.online il 13 febbraio 2022.

Dopo anni di polemiche e passi indietro, il governo italiano ora è finalmente in grado di tracciare su carta uno dei tesori più importanti del sottosuolo. La mappa pubblicata dal ministero della Transizione ecologica si chiama Pitesai e in più di 200 pagine individua i punti del territorio nazionale in cui sarà possibile avviare la ricerca e la coltivazione di idrocarburi. 

Giacimenti di gas sono stati mappati nell’ambito del Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee, contenuto nel decreto firmato dal ministro Roberto Cingolani poche ore fa, sospendendo di fatto la moratoria del 2019. Un progetto nato sotto il governo Conte I e che allora partì con l’obiettivo di inserire solo vincoli alla ricerca di idrocarburi. Il passo ulteriore spiegato da Cingolani riguarda invece la messa a punto di regole generali molto più rigide, criteri per la difesa dell’ambiente e per la protezione di aree naturali dove non sarà possibile fare attività di ricerca. Nessun nuovo via libera alle trivelle insomma, con l’esclusione delle aree totalmente improduttive e la riduzione dei territori interessati proprio alle trivellazioni. Tra i vincoli principali anche il via libera a ricercare solo giacimenti di gas e non di petrolio, su terraferma e in mare.

La strategia per la crisi energetica

Un piano che arriva da lontano ma che ad oggi deve fare i conti con lo scoppio di una crisi energetica mondiale. Da qui l’idea del governo di raddoppiare l’estrazione dai giacimenti nazionali passando da 3 a 6 miliardi di metri cubi all’anno. La possibilità invece di modificare il Piano appena approvato sembra essere esclusa dal ministero della Transizione ecologica.

L’ipotesi più realistica attualmente presa in considerazione per raddoppiare l’estrazione di metano è quella di aumentare la produzione dei giacimenti già attivi. Nel bel mezzo di una grossa crisi il decreto potrebbe avere l’effetto di accelerare le trivellazioni e intensificare le estrazioni. A prendere in considerazione il difficile momento è lo stesso ministero che nel provvedimento sottolinea come nel 2020 la produzione di gas naturale sia calata dell’11,36% rispetto all’anno precedente mentre c’è stata un incremento della produzione di olio greggio del 26,13%. 

Quali saranno le aree poste a trivellazione?

Secondo il piano Pitesai saranno innanzitutto prese in considerazione solo le richieste arrivate dopo il 2010. Quelle precedenti sono ritenute non più compatibili con le regole dell’impatto ambientale. Per quanto riguarda la terra ferma l’area coinvolta dal Piano sarà pari al 42,5% del territorio nazionale.

Quindici in tutto le regioni d’Italia interessate: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lazio, Lombardia, Marche, Molise, Piemonte, Puglia, Sicilia, Toscana e Veneto. Potrebbero poi sbloccarsi una cinquantina di permessi di ricerca per quasi 12mila chilometri quadrati di territorio in Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Molise e Puglia. Altri permessi di ricerca per 14mila chilometri quadrati potrebbero coinvolgere Piemonte, Sicilia, Veneto e Marche. Per l’area marina invece si parla di una percentuale dell’11,5% delle zone aperte, e cioè quelle dove è concessa la ricerca e la coltivazione di idrocarburi. Si tratterà delle zone del Canale di Sicilia, le coste dell’Adriatico fra le Marche e l’Abruzzo, le coste di fronte alla Puglia, il golfo di Taranto e le coste di Venezia.

Le aree intoccabili

Tra le aree terrestri che non potranno più essere interessate da attività di ricerca e coltivazione c’è la Valle d’Aosta, il Trentino-Alto Adige, la Liguria, l’Umbria, una parte della Toscana e la Sardegna. Per il mare invece si parla del 5% dell’ intera superficie marina sottoposta a giurisdizione italiana. 

Reazioni e polemiche

Il piano tiene conto «non solo della sostenibilità ambientale ma anche sociale ed economica», ha spiegato il ministro Cingolani, evidenziando le diverse tipologie di beneficio che il progetto Pitesai potrà portare al Paese. Ad accogliere di buon grado il provvedimento c’è Confindustria. «Dopo anni di incertezze c’è quantomeno un quadro chiaro in cui potersi muovere. Ora si può ragionare nel medio e lungo termine su nuove autorizzazioni», commenta Confindustria Romagna. Ma c’è chi non è d’accordo. «Quando l’ex ministro Costa parlava del Pitesai ne parlava in chiave di tutela dell’ambiente.

Ora il ministro Cingolani ne mette in luce l’aspetto produttivo. L’approccio è molto diverso», spiega Giovanni Vianello, parlamentare del gruppo Alternativa. Per non parlare delle posizioni politiche nette prese da alcune Regioni. Sul fronte delle trivellazioni la Puglia per esempio ha ingaggiato da anni una contesa giuridica con lo Stato culminata davanti alla Corte di giustizia europea. Proprio la Corte Ue di recente aveva dato il via libera a più permessi di ricerca a uno stesso operatore, ma sempre tenendo conto dell’impatto cumulativo.

LA TAP PUGLIESE COL GAS AZERO MITIGA LA BOLLETTA ENERGETICA. Ma il gasdotto è un’opera che è stata lungamente avversata dal M5S: sarebbe bene che i vertici del Movimento e la ex Ministra Lezzi ammettessero gli errori commessi solo per aggregare consenso. ERCOLE INCALZA su Il Quotidiano del Sud il 20 gennaio 2022.

Ritengo utile riportare una parte dell’articolo comparso il 29 dicembre scorso su Il Sole 24 Ore a cura di Vincenzo Rutigliano. In particolare Rutigliano precisa: “Un anno dopo il giro di manovella la TAP non ha solo trasportato quasi 7,5 miliardi di metri cubi di gas azero, che in prospettiva potrebbero arrivare a 20, ma ha anche assicurato gli approvvigionamenti in una fase delicatissima per il Paese e calmierato il costo della materia prima di circa il 10%. In due parole gas certo, dunque nessuna emergenza energetica e a prezzi all’ingrosso più bassi.

Luca Schieppati, managing director di TAP – il “tubo” dentro cui scorre il gas azero che, estratto dal Mar Caspio, attraversa la Bulgaria, Grecia ed Albania, prima di approdare sulla costa salentina di San Foca a Melendugno – fa il bilancio del primo anno di operatività. E non è solo un bilancio numerico, quello dei 7,5 miliardi di metri cubi di gas trasportati, nel territorio italiano, dal 31 dicembre scorso, giorno dello start.

Ad un anno dal “giro di manovella” il gas che, grazie all’allacciamento della SNAM poi entra, dallo snodo di Mesagne, nella rete di grandi metanodotti nazionali “è arrivato in un momento estremamente critico per l’Italia e per l’Europa. TAP cioè non ha rappresentato solo un’importazione imprescindibile per la nostra sicurezza degli approvvigionamenti ma è anche un argine al costo dell’energia”. L’entrata in esercizio in questo anno infatti ha consentito di annullare sostanzialmente e, talvolta perfino di invertire il differenziale storico di circa il 10% che l’Italia pagava sul prezzo all’ingrosso del gas naturale rispetto alle altre nazioni del centro e del nord Europa. Dunque il gasdotto ha tenuto al riparo da deficit di approvvigionamento il Sud e l’intero Paese assicurando, pro quota, approvvigionamenti costanti nella fase più critica della ripresa economica”.

Quello che riporta Vincenzo Rutigliano è la storia di un risultato ampiamente contestato e bloccato per molto tempo dalle reazioni degli Enti locali; un blocco ed una contestazione, quella in particolare del Sindaco di Melendugno l’ingegner Marco Potì, che può anche essere compresa e capita; in fondo il Sindaco era giustamente preoccupato che una delle coste più belle non della Puglia ma dell’intero Mediterraneo, potesse subire non tanto dei danni da possibili perdite di gas e quindi di inquinamento irreversibile quanto da possibili crolli della domanda turistica preoccupata dalla presenza in mare di un tale gasdotto.

Potì in realtà ha giustamente svolto una battaglia corretta per salvaguardare, ripeto, una qualità paesaggistica ed una ricchezza turistica irripetibile. Mentre non posso assolutamente giustificare l’atteggiamento del Movimento 5 Stelle e, a tale proposito, ho ritenuto utile recuperare delle notizie che hanno caratterizzato il Movimento proprio nei momenti critici dell’approvazione e della realizzazione dell’opera.

Comincio ricordando quanto accaduto in un’assemblea pubblica a Melendugno, il 10 novembre 2013, l’allora parlamentare Barbara Lezzi metteva in guardia: “Se quell’accordo (l’accordo intergovernativo su TAP firmato nel febbraio precedente da Italia, Grecia e Albania) verrà ratificato, andremo a pagare una penale anche bella pesante e non potremo più tirarci indietro. Non è vero che è sganciato dalla ratifica, è falso, andate a leggere le carte”. Un mese dopo, il Parlamento lo ratificò, con l’abbandono dell’Aula da parte dei Pentastellati.

Nella lunga campagna elettorale verso le politiche del 4 marzo 2018, tutto ciò è stato tralasciato. Anzi, la stessa Lezzi ha firmato, presso il municipio di Melendugno, un documento di impegno a fermare l’opera stilato da alcuni giuristi nelle forme di un “contratto con i candidati”. Pesante, sempre, è stato l’attacco ai candidati, in primis Pd ma anche del centrodestra, che hanno ammesso la difficoltà di azzerare tutto.

“Questa è un’opera di fantascienza”, diceva Beppe Grillo nel settembre 2014, ad una manifestazione anti gasdotto proponendo un referendum per dare la parola ai cittadini.

“Governo delle lobbies e delle banche, vattene a casa e portati via anche quel pagliaccio di Michele Emiliano che non mantiene le promesse fatte al Salento”, tuonava la stessa Lezzi il 28 marzo 2017, quando le ruspe hanno iniziato a rimuovere gli ulivi. “La giornata dell’orgoglio salentino non può essere trascurata dal governo e dalla Regione”, ripeteva ancora Lezzi il 3 aprile successivo, davanti alla platea di migliaia di persone che protestava contro la costruzione di TAP a Lecce.

L’apoteosi, in quei giorni, è arrivata con Alessandro Di Battista e il suo “con il Movimento 5 Stelle al Governo blocchiamo questo progetto in 15 giorni” pronunciato sul palco di San Foca.

E poi la doccia fredda del Presidente del Consiglio, voluto dal Movimento 5 Stelle, Giuseppe Conte con la triste dichiarazione: “stoppare il gasdotto in arrivo dall’Azerbaijan costerebbe troppo, quanto una manovra finanziaria”. Venti miliardi di euro è il calcolo minimo fatto da Socar, società di Stato azera. Venti miliardi è la cifra che ha ripetuto durante il vertice l’allora sottosegretario al Ministero dello Sviluppo Economico, il pentastellato Andrea Cioffi, componente dell’Associazione interparlamentare Italia-Azerbaijan. 

Aggiungo solo per correttezza di informazione la dichiarazione dell’allora Ministro Di Maio: “L’opera va fatta, non ci sono alternative. In campagna elettorale non sapevamo ci fossero penali” una dichiarazione che purtroppo contrastava con quanto dichiarato dall’Onorevole Lezzi proprio in campagna elettorale. Una campagna elettorale davvero indimenticabile per il Movimento 5 Stelle che, proprio grazie a queste promesse, a questi impegni sull’annullamento di una scelta strategica rivelatesi oggi essenziale, aveva consentito l’ottenimento, alle elezioni del 4 marzo 2018, di 24 collegi uninominali con oltre il 44% delle preferenze e sfiorando il milione di voti alla Camera. Oltre il triplo rispetto al centrosinistra nel caso della Camera, dove il Pd raccoglieva soltanto il 13,67% dei voti, e circa 12 punti in più del centrodestra, che si fermava intorno al 32% sia alla Camera sia al Senato.

Pensavo e speravo che dopo l’articolo di Vincenzo Rutigliano e dopo gli oggettivi risultati positivi ottenuti dalla TAP la ex Ministra Lezzi o lo stesso ex Presidente Conte ammettessero gli errori commessi solo per aggregare un consenso che oggi diventa forse una delle motivazioni ormai irreversibile del crollo dell’intero Movimento; stranamente una corretta autocritica forse ridarebbe al Movimento stesso una dimensione politica, a mio avviso, mai posseduta.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

San Foca, la Tap non va a tutto gas, anzi. Il gas si ferma in parte in Grecia e Albania, ma a Brindisi trova una strettoia. Non è un'alternativa alle forniture di Putin. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Aprile 2022.

Un segno blu sull’asfalto. Come di un gessetto. Dopo anni di scontri e barricate, la TAP a San Foca (Comune di Melendugno) è tutta qui. Non noti altro. I progettisti sono stati di parola: è tutto come prima. Il gasdotto sembra non esserci.

Anche perché in effetti un po’ non c’è. O meglio. C’è. Ma forse non proprio come viene raccontato. Dopo oltre 4mila chilometri, il gas del giacimento di Shah Deniz, in Azerbaijan, approda su questa spiaggia in un tubo di un metro di diametro, più o meno, 36 pollici, e da qui, viene depressurizzato nel Terminale di Ricezione. Otto chilometri più all’interno. Per ripartire in un tubo da 56 pollici. Ma diretto dove? «L’innesto nella rete nazionale è a Massafra. Solo che a Matagiola, vicino Brindisi, il gas trova una strettoia, perché il tubo si riduce a 18 pollici. Circa 46 centimetri», spiega Gianluca Maggiore, portavoce del movimento No TAP. Che non sta citando contro dati, però. O dati segreti. Sta citando i costruttori. Il raddoppio di questo tubo, che è un tubo pre-esistente, di competenza della SNAM, è previsto dall’inizio. E come dice la TAP stessa il 23 aprile 2021, a Bruxelles, all’Unione Europea, attraverso la sua delegata Lavinia Tanase: «Il gas per ora arriva a Brindisi».

Basta guardarsi le mappe SNAM, d’altra parte. Che sono online. Gli 80 chilometri del metanodotto Matagiola-Massafra risultano in cantiere.

Fine dei lavori: 2026.

E secondo le stime dell’Oxford Institute, uno dei più autorevoli centri di ricerca sull’energia, il giacimento di Shah Deniz potrebbe essere agli sgoccioli già nel 2030.

Il gas passa, certo. La TAP è attiva dal 15 novembre 2020. E assicura gas che in questo momento è più essenziale che mai. Che sia consumato al sud o altrove, non importa. Ma quanto gas? Nel 2021 il fabbisogno dell’Italia è stato di 76,1 miliardi di metri cubi. E a sentire Roberto Cingolani, ministro alla Transizione Ecologica, da qui abbiamo avuto 7,2 miliardi di metri cubi. A sentire la TAP, 6,8 miliardi. A sentire il suo managing director, Luca Schieppati, il 22 ottobre 2021, su Sky, 5,6.

E a sentirlo alla fine della trasmissione, 4,6. Perché un po’ di gas va alla Grecia e all’Albania.

Il numero che in questi giorni circola di più, comunque, è un altro ancora: 20. Perché la TAP, si dice, non solo copre il 10% del nostro fabbisogno di gas, ma ha una capacità di 20 miliardi di metri cubi. Come se domani, cioè, fosse possibile aprire di più il rubinetto. E avere subito più gas. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio è già andato in Azerbaijan. Ma forse, dovrebbe piuttosto andare a Milano. Alla SNAM.

Poco o molto, però, qui o altrove, per il movimento pro TAP la guerra in Ucraina è ora un’ulteriore conferma che l’investimento è stato giusto. Il Pd Fabiano Amati è quello che ha più duellato con gli ambientalisti. Che bolla come conservatori. Una finta sinistra, dice, che finisce per opporsi al progresso. Ha chiesto al governo di accelerare l’iter per il TAP bis: un secondo gasdotto, che da Israele arriverebbe a Otranto. Perché la priorità è diversificare, dice. «Diversificare non solo rispetto al carbone e al petrolio, ma ai fornitori. La TAP non si limita a coniugare ambiente e sviluppo: è utile alla pace», dice. Importiamo dalla Russia il 47,1% del nostro gas. E finora, a fronte di un miliardo di dollari di armi all’Ucraina, a livello europeo abbiamo pagato a Putin 35 miliardi di dollari di gas e petrolio.

Intanto, però, l’Azerbaijan si è alleato con la Russia.

Il 22 febbraio - due giorni prima dell’inizio della guerra in Ucraina - il presidente dell’Azerbaijan, Aliyev, la cui politica estera è stata ribattezzata «diplomazia del caviale» per i metodi non proprio ortodossi con cui si cerca amici nei giri che contano, ha incontrato Putin, siglando un’intesa in 43 punti. Premesso al punto 4 che i due paesi hanno posizioni simili sulle principali questioni internazionali, il testo al punto 7 impegna le due parti ad astenersi da qualsiasi attività che l’altra, a sua discrezione, possa ritenere lesiva della partnership, e in particolare, punto 25, da qualsiasi attività economica che possa causare all’altra un danno diretto o indiretto.

Se c’è del gas su cui Putin ha voce in capitolo, è proprio quello dell’Azerbaijan. Assente al voto quando l’ONU ha condannato l’attacco all’Ucraina.

Anche per Alessandro Manuelli, l’ingegnere chimico che in questi anni ha «vivisezionato» le carte della TAP, contestandole rigo a rigo, la priorità è diversificare: ma rispetto al gas. Sui cui investimenti di lungo periodo non hanno più senso, dice: né ambientale né economico. «Già oggi, l’energia che costa meno è il fotovoltaico», aggiunge. Circa 40 dollari a megaWatt ora, contro i 56 del gas. «La TAP è costata 45 miliardi di euro. Privati, certo. Ma un impianto fotovoltaico con accumulo di energia costa 4mila euro a kiloWatt picco. Significa che con quella cifra, avresti 11 milioni e 250mila kiloWatt picco, ovvero 2 milioni e 812.500 impianti domestici», dice. «E se poi vai sul PVGIS, che sta per Photovoltaic Geographical Information System, un database che calcola l’irradiazione solare in tutto il mondo, e converti il kiloWatt picco, che è la potenza massima di un impianto, una potenza teorica, nella potenza effettiva che avresti non dico qui, in Salento, che c’è sempre sole, ma diciamo, in Italia centrale, avresti... Avresti 13,5 teraWatt ora di energia l’anno. Il 30% del fabbisogno nazionale», dice, riemergendo da un cumulo di tovaglioli fitti di calcoli. Non è che un conteggio da bar, naturalmente: «Però, insomma: rende l’idea».

E in più, l’energia del fotovoltaico poi è gratuita. «Le multinazionali speculano sulla nostra ansia per la crisi per rilanciare il gas», dice. «Ma lastricando di pannelli solari anche solo il 15% della superficie cementificata dell’Italia, che è di 30mila chilometri quadrati, avremmo l’autonomia energetica».

Senza dimenticare il risparmio energetico. Che alla fine, è l’energia che costa meno di tutte. Per ogni 1% in più di efficienza, è possibile ridurre le importazioni di gas del 2,5%.

«Già chiamarlo “gas naturale” è fuorviante. Perché è una miscela di idrocarburi: un combustibile fossile. Come il carbone e il petrolio. Il gasdotto non si vede, è vero. Ma che ragionamento è? Anche il Covid non si vede. Però si vedono le sue conseguenze», dice Marco Potì, il sindaco di Melendugno, che non ha cambiato idea: e resta contrario alla TAP. Sul cui impatto ambientale espresse parere negativo anche la Regione, in realtà: e ora è in corso un processo, con 19 imputati rinviati a giudizio. «Il gas è climalterante. Sui 10 anni, il suo effetto serra è 70 volte maggiore di quello dell’anidride carbonica. Sui 100 anni, è 20 volte maggiore. E sui 500 anni, è ancora 6 volte maggiore», dice. «Ma l’emergenza ora è l’Ucraina. E all’improvviso, il riscaldamento globale non interessa più a nessuno».

«Pensano che sono questioni complesse: per noi incomprensibili. Che ci basta una bocciofila di ristoro», dice. «Parliamo di democrazia, ma poi nessuno spiega chiaramente quanto gas arriva, e dove va, e soprattutto, quanto costa. Niente». Perché la TAP è un tubo: si limita a trasportare il gas. Il resto, dipende dai distributori. E quindi i prezzi non sono noti. E per i cittadini, è difficile valutare se alla fine, un investimento abbia avuto senso o no. Se la strategia energetica dell’Italia sia lungimirante o no. «Ma una cosa visibile, e certa, c’è», dice. «L’impennata delle bollette».

Il vero danno: l'ambientalismo del "no a tutto". Francesco Giubilei il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Non è servita l'impennata dei prezzi dell'energia con le bollette schizzate alle stelle per indurre alla ragione gli ambientalisti ideologizzati, in prima linea nel bocciare qualsiasi soluzione ma assenti quando occorre avanzare proposte. Non è servita nemmeno l'impennata dei prezzi dell'energia con le bollette di luce e gas schizzate alle stelle per indurre alla ragione gli ambientalisti ideologizzati, in prima linea nel bocciare qualsiasi soluzione ma assenti quando occorre avanzare proposte. L'incapacità di scendere a compromesso da parte degli ambientalisti dei no è una delle cause per cui ci troviamo in questa situazione e, quanto sta avvenendo, ne è la testimonianza.

Il boom dei prezzi dell'energia in Europa è dovuto anche a decisioni politiche che hanno portato negli ultimi anni a chiudere numerosi impianti giudicati inquinanti per abbracciare le rinnovabili, un percorso che porterà la Germania nel 2022 a smantellare le proprie centrali nucleari. Una situazione economicamente insostenibile per famiglie e imprese che ha però messo in discussione un modello di transizione ecologica troppo repentino e incapace di una necessaria progressività. In questo contesto si sviluppa il dibattito interno all'Ue sulla possibilità di inserire il nucleare e il gas tra le fonti energetiche green che vede il governo francese favorevole (anche grazie agli investimenti nelle centrali nucleari di nuova generazione) e quello tedesco contrario. Il ritorno al nucleare divide anche il panorama politico italiano che si è spaccato non solo sulla proposta europea ma anche sull'apertura di centrali di nuova generazione sul territorio nazionale. Un'ipotesi che si è scontrata con la netta opposizione di un certo ambientalismo capeggiato politicamente dai Verdi e dal Movimento Cinque Stelle. Perplessità che potremmo comprendere se fossero nei confronti del solo nucleare ma che diventano controproducenti nel momento in cui si trasformano nell'ambientalismo dei no che è non più una mera difesa dell'ambiente quanto un freno alla crescita. Sono gli stessi ambientalisti che si oppongono alle grandi opere, dal Tav al Tap e che, se si propone come soluzione alternativa per cercare di contenere il costo dell'energia l'aumento di estrazione di gas italiano nell'Adriatico, sottolineano la loro contrarietà alle trivelle. Inutile fargli notare che, mentre da noi si ferma la trivellazione, a poche decine di chilometri dalle coste italiane croati e greci ne fanno largo uso, così come Francia e Slovenia producono energia con i rettori nucleari.

Ma si sa, è molto più facile di no a tutto invece di avanzare proposte o mediare soluzioni, peccato che a rimetterci siano sempre i cittadini e il mondo imprenditoriale.

Francesco Giubilei. FRANCESCO GIUBILEI, editore di Historica e Giubilei Regnani, professore all’Università Giustino Fortunato di Benevento e Presidente della Fondazione Tatarella. Collabora con “Il Giornale” e ha pubblicato otto libri (tradotti negli Stati Uniti, in Serbia e in Ungheria), l’ultimo Conservare la natura. Perché l’ambiente è un tema caro alla destra e ai conservatori. Nel 2017 ha fondato l’associazione Nazione Futura, membro del comitato scientifico di alcune fondazioni, fa parte degli Aspen Junior Fellows. È stato inserito da “Forbes” tra i 100 giovani under 30 più influenti d’Italia.

·        La Xylella.

Antonio Giangrande: Non voglio sembrare un complottista, ma ho notato che l’apparizione della Xylella e della sua prolificazione è avvenuta in concomitanza di questi elementi in un dato periodo storico:

Si minava il sostegno europeo di integrazione alle imprese olivicole meridionali;

Si promuoveva da parte dell’Europa l’importazione di olive ed olio nordafricano;

Si alimentava la piantagione nelle campagne di impianti fotovoltaici, finanziata con prelievi sulla bolletta Enel di tutti gli utenti italiani. Sistemi fotovoltaici importati da terre lontane. Pannelli divenuti probabilmente vettori dell’insetto batterio killer, “Cicalina Sputacchina – Philaenus spumarius”.

Si agevolava l’invasione del vettore in zone non attinti dalla malattia attraverso il trasporto in altri luoghi degli scarti di potatura, vietato bruciarli in loco da una legge infame, così come tradizione millenaria.

Non si estirpa il problema, nonostante si trovi sempre una profilassi ad ogni malattia, anche umana. Ci si limita, solo, alle semplici buone pratiche, già adottate anzitempo dal buon contadino.

Quando il "no" di Bonelli fu un assist per la Xylella. Infettati 8 milioni di ulivi per il veto dei Verdi che non eliminarono le piante malate. Annarita Digiorgio il 15 agosto 2022 su Il Giornale.  

Angelo Bonelli (nel tondo) e la federazione dei Verdi da lui guidata, hanno deciso in questa campagna elettorale di schierarsi contro «le destre», essendo ormai da tempo impegnati più nelle battaglie pacifiste che a difesa della natura.

È il caso della loro contrarietà ai termovalorizzatori, rigassificatori, nucleare, tecnologie moderne e pulite a sostegno della decarbonizzazione e dell'ambiente. Ma c'è un caso emblematico che dimostra come il pseudoambientalismo massimalista e demagogico abbia causato la distruzione un intero territorio: il Salento. Una terra un tempo sterminata di ulivi, ora tutti definitivamente rinsecchiti per colpa della Xylella. Fino a oggi ha infettato oltre 8mila chilometri quadrati con oltre 21 milioni di ulivi. Da quando sono stati scoperti i primi alberi infetti a Gallipoli ormai 10 anni fa, gli scienziati dissero che l'unica iniziativa possibile per bloccarne la diffusione era l'eradicazione. E invece si creò subito un movimento che in nome di una sedicente difesa degli alberi, avviò una campagna contro l'abbattimento. Ne facevano parte anche i Verdi. I post e i comunicati di Bonelli e il suo partito sono ancora presenti online: «L'utilità delle eradicazioni degli ulivi del Salento non è scientificamente provata come non è provata che la causa del rinsecchimento degli ulivi sia provocata dalla Xylella. Fanno bene i cittadini e gli olivicoltori a difendere le piante da questa folle volontà di eradicare. I tagli degli ulivi rappresentano un attacco alla storia, all'economia e al paesaggio del Salento» scrivevano i Verdi nel 2016. Solo tre anni fa, dopo che l'Europa ha imposto l'eradicazione, i Verdi ancora definivano la xylella «una frode: che il batterio della xylella non fosse il responsabile del disseccamento degli olivi e di altre specie arboree in Salento era già evidente grazie agli alberi dichiarati infetti che sono sopravvissuti ai tagli che a distanza di 4 anni sono ancora vivi, vegeti e produttivi». Ovviamente di quegli alberi non c'è più traccia. Oggi Bonelli si giustifica dicendo che in quelli anni, quando diceva che la Xylella era una frode e chiedeva di non abbattere gli ulivi infetti, lui non era al governo e quindi non ha responsabilità sulla diffusione della Xylella. Al governo però oggi vorrebbe portarcelo il Pd. «I danni provocati all'agricoltura pugliese dai fanatici e pseudo ambientalisti sono stati incalcolabili - ci dice Raffaele Fitto, tra i sei autori del programma della coalizione di centrodestra per le politiche - Cinque anni fa, di fronte alla scienza che ordinava di eradicare gli ulivi malati di xylella, i Verdi insieme ai grillini, sostenuti da Emiliano, si sono incatenati agli alberi rallentando un'attività preziosa per prevenire l'avanzata del batterio. Quando provavamo a dire cose di buon senso eravamo insultati . Fra Xylella e Tap abbiamo vissuto anni bui nel Salento, con la conseguenza che oggi la xylella è alle porte di Bari e Melendugno approdo del Tap è Bandiera Blu.Come possa il Pd di Letta allearsi con chi ha sostenuto e sostiene queste posizioni dà l'idea della totale mancanza di credibilità della loro alleanza».

Salento Puglia e mondo. Nella Piana degli ulivi monumentali è altissima la concentrazione di ulivi millenari con ben 250mila esemplari di pregio straordinario. La Redazione su La Voce di Manduria giovedì 26 maggio 2022.

La Xylella ha fatto scomparire per sempre 1/3 degli ulivi monumentali in Puglia, privando l’Italia di storici esemplari di inestimabile valore sul piano storico, ambientale, economico ma anche occupazionale, con lo strumento degli innesti che risulta un tentativo sperimentale per salvare gli esemplari centenari sempre che siano praticati su alberi non compromessi e nei tempi giusti. E’ quanto afferma Coldiretti Puglia, in relazione alla determina che assegna le risorse per i primi innesti, mentre è urgente l’attivazione del secondo bando per la salvaguardia degli ulivi monumentali, per cui sono a disposizione 2,2 milioni di euro del Piano per la rigenerazione olivicola.  

Se non esistono cure per salvare gli ulivi infetti da Xylella, unica strada – spiega la Coldiretti Puglia – è la convivenza con il batterio attraverso la pratica dell’innesto con varietà resistenti per salvaguardare gli ulivi millenari, con la pratica degli innesti che è solo sperimentale, adottata con enormi ritardi e soprattutto se operata su ulivi fortemente compromessi non produce certamente i risultati sperati

Con il primo bando sono giunte 94 domande per 2,8milioni di euro, per cui va aperto un secondo bando per assorbire il totale di 5 milioni in dotazione sulla misura, apportando dei correttivi che Coldiretti Puglia ha già proposto, perché non sono stati finora sortiti gli effetti sperati. Le aziende vanno anche supportate con un sostegno al reddito per 5 anni - spiega Coldiretti Puglia - fino a quando gli ulivi innestati non recuperano produttività e misure a superficie per ettaro.

Nella  Piana degli Ulivi Monumentali è altissima la concentrazione di ulivi millenari con ben 250mila esemplari di pregio straordinario. Si stima che alcuni potrebbero addirittura avere un’età fino a 3.000 anni, con circonferenze che superano i 10 metri. Una ricchezza dal punto di vista storico e turistico sino ad oggi mantenuta in vita soprattutto grazie all’impegno di generazioni di agricoltori, anche a prezzo di sacrifici considerevoli. La gestione di un ulivo monumentale è, infatti – rileva la Coldiretti Puglia - molto più complicata, con rese produttive notevolmente più basse rispetto a una normale pianta, ma anche la necessità di procedere a una raccolta esclusivamente manuale e maggiori difficoltà a livello di potatura e di trattamento.   

Un impegno che rischia ora di essere vanificato dall’epidemia di Xylella che dal 2013 ad oggi ha colpito 8mila chilometri quadrati, con un danno stimabile di quasi 3 miliardi euro, secondo un’analisi della Coldiretti. Una vera e propria tempesta perfetta con gli agricoltori senza reddito da ormai 8 anni, 21milioni di ulivi secchi, frantoi svenduti a pezzi in Grecia, Marocco e Tunisia e 5mila posti di lavoro persi nella filiera dell’olio extravergine di oliva, e un trend che – rileva Coldiretti –  rischia di diventare irreversibile se non si interviene con strumenti adeguati per affrontare dopo anni di tempo perduto inutilmente il ‘disastro colposo’ in Puglia e rilanciare la più grande fabbrica green italiana.

Peraltro, nell'intera provincia di Brindisi – denuncia Coldiretti Puglia - la continua avanzata della Xylella fastidiosa, con la presenza sempre più numerosa di oliveti con evidenti disseccamenti caratteristici dell’infezione dovuta al batterio, ha provocato conseguenze gravi nella parte sud del territorio provinciale anche sulla produzione ed una diminuzione dell’olio extravergine che in tali comprensori raggiunge anche il 50% rispetto alle annate precedenti.

A causa della Xylella fastidiosa sono andate perse 3 olive su 4 in provincia di Lecce con il crollo del 70% della produzione di olio di oliva anche nell’annata 2021/2022. E’ il risultato dell’analisi elaborata da Coldiretti Puglia che fotografa uno scenario a tinte fosche, dove il crollo produttivo è divenuto incontrovertibile dal 2015 ad oggi. Allo stato attuale le varietà a duplice attitudine stanno trovando un mercato favorevole, con la varietà Leccino che segna un incremento del 20% rispetto alla campagna precedente, con una resa aumentata che ad oggi si aggira intorno all’ 11-13%.

Il settore oleario è forse quello che ha resistito meglio all’emergenza sanitaria causato dal Covid 19 nel 2020 – aggiunge Coldiretti Puglia – con l’Italia che ha il primato mondiale nei consumi annui di olio extravergine d’oliva con oltre 500mila tonnellate, ma il 50% degli italiani non è ancora in grado di riconoscere un prodotto di qualità, secondo le rilevazioni di UNAPROL. I consumatori dedicano il 2,3% del proprio budget di spesa all’olio extravergine d’oliva – rileva Coldiretti regionale - con una larga propensione all’acquisto diretto proprio presso frantoi, cooperative ed olivicoltori (30%).

Xylella, Tar Puglia: «Non estirpare ulivi infetti ma attuare misure». Giudici sospendono i provvedimenti della Regione per 37 alberi monumentali a Ostuni. Redazione online su la Gazzetta del Mezzogiorno il 07 Maggio 2022.

BARI - I proprietari di 37 ulivi monumentali nelle campagne di Ostuni (Brindisi) risultati infetti da Xylella dovranno dare «attuazione concreta delle misure alternative all’abbattimento, entro e non oltre il 30 giugno 2022» ma per il momento non dovranno eradicare le piante. Lo ha stabilito il Tar Puglia che, con sei diverse ordinanze, ha accolto le richieste di sospensione cautelare dei provvedimenti con i quali nei mesi scorsi la Regione Puglia ha prescritto «misure fitosanitarie per il contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa" attraverso la «estirpazione» degli alberi. I proprietari delle piante infette, tutti assistiti dall’avvocato Rosa Fanizzi, lamentano «l'erronea applicazione della normativa di settore nella parte in cui la Regione ha ritenuto di individuare, quale misura unica di contenimento della diffusione della Xylella fastidiosa, l’eradicazione delle piante infette, precludendo la possibilità di avviare studi di carattere sperimentale intesi alla individuazione di misure fitosanitarie alternative».

Secondo i giudici «il punto di equilibrio tra le opposte esigenze sembra potersi individuare nelle misure fitosanitarie alternative che la stessa Regione Puglia ha riconosciuto potersi praticare in relazione agli ulivi monumentali, i quali godono di speciale tutela». Tra l’altro il Tar evidenzia che «sussiste senz'altro il pericolo di un pregiudizio grave e irreparabile che deriva dalla drasticità della misura di abbattimento contestata», ritenendo però che «la concessione della tutela cautelare deve essere subordinata all’attuazione concreta delle misure alternative all’abbattimento». Per alcune delle piante oggetto dei ricorsi, i giudici sostengono anche che «la predisposizione del cosiddetto incappucciamento dell’albero di ulivo infetto, così come attuata dai ricorrenti, appare misura insufficiente per prevenire il pericolo di diffusione della Xylella fastidiosa, anche in considerazione dell’avvio della stagione estiva che predispone ad un maggior contagio».

Quindi entro il 30 giugno i proprietari degli ulivi infetti dovranno "procedere alla capitozzatura delle branche principali, all’innesto di cultivar resistenti e al monitoraggio del vettore», senza però eradicarli. La questione sarà trattata nel merito all’udienza del 15 dicembre prossimo.

L'ALLARME. «La Xylella ha fatto sparire 1/3 degli ulivi monumentali della Puglia». Sos Coldiretti: «Serve attivare il bando per la salvaguardia di questo patrimonio agricolo. Ci sono a disposizione 2,2 milioni di euro». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Aprile 2022.

«La Xylella ha fatto scomparire per sempre un terzo degli ulivi monumentali in Puglia, privando l'Italia di storici esemplari di inestimabile valore sul piano storico, ambientale, economico ma anche occupazionale». E' l'allarme lanciato dalla Coldiretti Puglia che chiede «l'attivazione del bando per la salvaguardia degli ulivi monumentali, per cui sono a disposizione 2,2 milioni di euro del Piano per la Rigenerazione Olivicola».

Nella Piana degli Ulivi Monumentali, prosegue Coldiretti, «è altissima la concentrazione di ulivi millenari con ben 250mila esemplari di pregio straordinario: alcuni potrebbero addirittura avere 3.000 anni, con circonferenze che superano i dieci metri». La Xylella «dal 2013 ad oggi ha colpito ottomila chilometri quadrati, con un danno stimabile di quasi tre miliardi euro», secondo un’analisi della Coldiretti: «Una vera e propria tempesta perfetta - evidenzia l’associazione - con gli agricoltori senza reddito da ormai otto anni, 21 milioni di ulivi secchi, frantoi svenduti a pezzi in Grecia, Marocco e Tunisia e cinquemila posti di lavoro persi nella filiera dell’olio extravergine di oliva».

Con il primo bando per la Rigenerazione Olivicola, ricorda Coldiretti, «sono giunte 94 domande per 2,8milioni di euro, per cui va aperto un secondo bando per assorbire il totale di cinque milioni in dotazione sulla misura, apportando dei correttivi che Coldiretti Puglia ha già proposto, perché non sono stati finora sortiti gli effetti sperati». «Le aziende vanno anche supportate con un sostegno al reddito per cinque anni - conclude Coldiretti - fino a quando gli ulivi innestati non recuperano produttività e misure a superficie per ettaro».

Gli indennizzi agli olivicoltori

«Al via la procedura di richiesta indennizzi per gli olivicoltori ricadenti nei comuni di Manduria, Sava, Avetrana e Maruggio, in provincia di Taranto, che hanno subìto danni dalla calamità Xylella per le due annualità 2018 e 2019. Sono stati, difatti, pubblicati da Arif Puglia, nella giornata di ieri, 7 aprile, i bandi per la presentazione delle istanze di risarcimento agli agricoltori che hanno perso il patrimonio produttivo a causa della grave fitopatia, con un danno accertato superiore al 30% della produzione lorda vendibile». Lo dichiara l’assessore all’Agricoltura della Regione Puglia, Donato Pentassuglia.

Xylella, la Regione Puglia autorizza gli innesti per gli ulivi monumentali. Granieri (Unaprol): "Sicuramente la possibilità degli innesti e le varie sperimentazioni hanno portato a risultati eccezionali". La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Marzo 2022.  «Nella lotta alla Xylella l'elemento di novità di questi giorni è che proprio ieri abbiamo adottato un provvedimento dirigenziale con il quale abbiamo autorizzato gli agricoltori che possiedono le piante di ulivo monumentali a prelevare il materiale per la propagazione, le marze, e poter procedere ad innestare le piante nella propria azienda». Lo rende noto Salvatore Infantino, dirigente dell’osservatorio fitosanitario della Regione Puglia, a margine del convegno organizzato da Unaprol e Coldiretti Puglia nella Fiera del Levante di Bari in occasione di Enoliexpo dal titolo «Olio: la nuova frontiera del turismo».

«Con il provvedimento dirigenziale - spiega Infantino - abbiamo strutturato un processo controllato, quindi queste piante da cui si prelevano le marze vengono individuate, classificate per essere certi che si tratti di piante appartenenti alle varietà resistenti, favolosa e leccino, vengono analizzate con metodi molecolari e a quel punto l’agricoltore può prelevare le marze e procedere all’innesto. C'è stato bisogno di questo provvedimento perché sul mercato non si trovano le marze idonee per piante di dimensioni importanti come gli ulivi monumentali».

ULIVI PATRIMONIO NAZIONALE - «Gli ulivi monumentali sono patrimonio nazionale e non possiamo prescindere assolutamente nel piano di Recovery del Salento dalla loro valorizzazione. Sicuramente la possibilità degli innesti e le varie sperimentazioni hanno portato a risultati eccezionali». Lo ha detto il presidente di Unaprol David Granieri, a margine del convegno organizzato da Unaprol e Coldiretti Puglia nella Fiera del Levante di Bari in occasione di Enoliexpo dal titolo 'Olio: la nuova frontiera del turismo'.

«La possibilità di recuperare il patrimonio vegetale e aziendale dentro i monumentali - ha aggiunto Granieri commentando il recente provvedimento regionale sugli innesti - è sicuramente una assoluta novità che la Regione Puglia sta facendo sua e disciplinerà. Quindi una possibilità per le aziende di autotutela, in un contesto dove il turismo diventa uno strumento, e devo dire che il Salento lo ha dimostrato negli anni, per portare ricchezza nei territori e dare opportunità di lavoro alle imprese nella logica della multifunzionalità».

La Xylella che ha colpito gli ulivi in Puglia è arrivata dal Costa Rica. Viola Rita  su La Repubblica il 3 Marzo 2022.

Il batterio è stato veicolato da una pianta di caffè arrivata probabilmente nel 2008. Come per Covid-19, ora si cercano possibili terapie e si studiano le varietà di ulivo più resistenti all'infezione. 

Non solo noi animali, anche le piante si ammalano e sono soggette a epidemie importanti. È il caso dovuta al batterio Xylella, e precisamente alla specie Xylella fastidiosa, scoperto nel 2013, che da allora, negli ultimi anni, ha ucciso milioni di ulivi in Puglia. Un gruppo di ricerca internazionale, di cui fa parte il Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr), ha svolto un ampio studio genomico ed è riuscito a individuare l'origine del contagio. Il batterio killer, già noto per essere presente e diffuso in alcuni territori dell'America centrale, è arrivato in Italia molto probabilmente dal Costa Rica, attraverso una pianta del caffè. L'episodio è avvenuto intorno al 2008, con i primi casi riportati dagli agricoltori italiani nel 2010 - un periodo di incubazione compatibile col patogeno in questione. I risultati sono pubblicati sulla rivista Microbial Genomics. 

Analizzare il DNA del batterio

Si tratta della prima epidemia in Europa legata a questo patogeno, in precedenza assente, come spiegano i ricercatori. Gli scienziati hanno ripercorso le tappe temporali della diffusione del batterio, grazie a una dettagliata analisi genetica. Le indagini, svolte fra il 2013 e il 2017, hanno incluso campioni di ramoscelli da più di 70 alberi di ulivo, in Puglia, colpiti dal disseccamento rapido. "Abbiamo studiato il DNA batterico", racconta la coautrice Maria Saponari, ricercatrice dell'Istituto per la protezione sostenibile delle piante del Cnr, a Bari, "e abbiamo poi comparato queste informazioni con quelle provenienti da una banca dati dell'America centrale, dove la sua presenza in alcune piante era già nota".

Dal caffè in Costa Rica all'uliveto in Puglia

I ricercatori hanno individuato forti somiglianze nel DNA della xylella presente in Italia con un ceppo analizzato in Costa Rica, mentre le mutazioni erano poche. "Questo ci fa concludere che ci l'introduzione sia legata proprio al ceppo costaricano", specifica l'esperta. "Inoltre, già sapevamo che nell'America centrale il batterio colpisce alcune piante di caffè e oleandro, ma soltanto il caffè viene importato in Europa". Dunque, in questo caso il vettore è stato il caffè. Fortunatamente, poi, sembra esserci stata un'unica introduzione del ceppo in Italia. Per affermarlo i ricercatori si sono basati sempre sulle analisi genetiche, in particolare sull'albero filogenetico - un po' come il nostro albero genealogico - di Xylella fastidiosa, che ne descrive l'evoluzione (genetica) nel tempo. "Le mutazioni non sono numerose e non sembrano associate a episodi di introduzione differenti", chiarisce Saponari, "inoltre in base alla valutazione del tasso medio di mutazione del batterio, con buona probabilità il contatto risulta avvenuto nel 2008".

Alla ricerca della cura

Ora gli scienziati stanno approfondendo il comportamento del batterio, per esempio come cambia e come potrebbe rispondere a eventuali trattamenti, insieme alle caratteristiche genetiche delle piante, per capire quali individui sono più resistenti all'infezione. L'obiettivo futuro è studiare ceppi mutati di Xylella per individuare nuovi bersagli terapeutici. "Il problema è che in Italia mancano impianti con apposite strutture per la quarantena", aggiunge Saponari, "e che, per ragioni normative, ad oggi non è possibile manipolare questi organismi. L'auspicio è di proseguire la ricerca e di condurre l'analisi all'estero, come già in parte avvenuto in questa fase del lavoro". 

Diversamente da Covid, per la xylella fastidiosa non ci sono vaccini. "Stiamo studiando composti che potrebbero avere un effetto terapeutico sulle piante", prosegue la scienziata, "ma la ricerca in questo ambito è ancora agli inizi. Inoltre, abbiamo individuato due varietà di ulivo più resistenti alla malattia, che possono essere ripristinate nei terreni colpiti e utilizzate per rigenerare i territori devastati dalla xylella". In questo caso la strategia di diffondere gli ulivi resistenti è simile a quella adottata per Covid: rendere più resiliente la popolazione attraverso la vaccinazione e aumentare la quota di persone vaccinate.

Una quarantena per le piante malate

Xylella fastidiosa è un batterio molto trasmissibile e insidioso che causa forti alterazioni della pianta colpita, potenzialmente fatali. L'aggettivo fastidiosa è invece legato alla difficoltà di coltivarlo in laboratorio. Inoltre, c'è una sottospecie, detta pauca - quella che ha colpito gli ulivi in Puglia - responsabile di una gravissima fitopatologia, chiamata complesso del disseccamento rapido dell'ulivo (CoDiRo), una forte minaccia per l'intero comparto della coltivazione dell'ulivo. La connessione fra Xylella fastidiosa nella sottospecie pauca e questa patologia è stata dimostrata da solide prove raccolte negli anni.

Attualmente l'epidemia è ancora in atto, anche se procede con una velocità ridotta. Un po' come per la pandemia di Covid, sono state messe in atto misure protettive per impedire la diffusione dell'epidemia nonché l'arrivo di altre piante malate da zone a rischio per la xylella fastidiosa. "Si va dal blocco dell'importazione delle piante del caffè dal Costa Rica e dall'Ecuador, dove questa infezione è endemica", aggiunge Saponari, "fino alla quarantena per le piante malate o a rischio".

Oltre a pauca, c'è anche un'altra sottospecie, detta multiplex, che però è molto meno aggressiva. "Questa - conclude la ricercatrice - è stata rintracciata in Toscana, nella zona del Monte Argentario, e vicino a Canino, un comune nel Lazio in provincia di Viterbo". Speriamo che anche grazie alle restrizioni e al monitoraggio non ci siano nuove epidemie e nuove introduzioni in Italia e in Europa.