Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

TERZA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

L’AMBIENTE

TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        A tutela dell’Ambiente.

Cop15: perché gli indigeni si schierano contro le aree protette. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 9 dicembre 2022.

Nella città di Montreal, in Canada, ha preso il via il la quindicesima Conferenza delle Parti (COP15) della Convenzione sulla Diversità Biologica, che si protrarrà fino al 19 dicembre. Sono oltre 190 i Paesi che vi hanno preso parte per discutere delle misure da mettere in atto da qui al 2030 per salvare la biodiversità e gli ecosistemi. Tra queste vi è un’iniziativa controversa, la cosiddetta 30×30, che prevede di trasformare il 30% del pianeta in Aree Protette entro il 2030 e la cui adozione è prevista proprio nell’ambito dell’attuale Conferenza. Tale misura tuttavia non è vista in modo favorevole da tutti: alcune associazioni di rilievo, tra le quali Amnesty International e Survival International, hanno redatto una dichiarazione congiunta che elenca i motivi per i quali la creazione di tali Aree costituisce in primo luogo una minaccia per la sopravvivenza delle popolazioni indigene e di conseguenza della biodiversità della quale sono custodi.

L’80% della biodiversità attualmente esistente sul pianeta si trova infatti all’interno delle terre dei popoli indigeni: per tale motivo, sostengono nella dichiarazione congiunta Survival International (associazione che si occupa della tutela dei diritti dei popoli nativi) e le altre ONG, “il modo migliore per conservare gli ecosistemi è proteggere i diritti di coloro che vivono e dipendono da essi”. Le Aree Protette, infatti, costituiscono il “cardine del modello di conservazione dominante condotto dall’Occidente”, promosso attraverso il perpetrarsi di abusi ai danni della popolazione tra i quali omicidi, stupri e torture e sfratti diffusi, tanto in Africa quanto in Asia. Uno degli esempi più recenti lo ha illustrato la ricercatrice Fiore Longo a L’Indipendente, descrivendo il tentativo della Tanzania di sfrattare le popolazioni Maasai dalle proprie terre ancestrali anche con mezzi violenti, incendiando le case della popolazione e sparando contro le persone.

Come scrive Survival, all’interno della propria Guida per decolonizzare il linguaggio nella conservazione, vi è una profonda differenza tra le Aree Protette così come vengono concepite in Occidente e come invece lo sono nelle zone tipicamente collocate nel Sud globale, figlia degli squilibri di potere che evidentemente legano i due emisferi del globo. Mentre infatti in Europa non sarebbe possibile costituire un’area di questo tipo senza tenere in conto i bisogni delle comunità locali, in genere attraverso consultazioni, leggi e processi politici, in Africa e Asia questo genere di aree è gestito “da agenzie governative e ONG conservazioniste occidentali” e difficilmente le comunità hanno un qualche ruolo nella loro gestione. Una modalità di gestione che non si allontana troppo da quello di terra nullius (letteralmente “terra che non appartiene a nessuno”), in base al quale i colonizzatori britannici poterono appropriarsi dei nativi nel Pacifico sulla base del fatto che non vi era un controllo statale tale come concepito in Occidente a delimitarne i confini. “In Europa, i parchi nazionali devono tipicamente portare qualche beneficio agli abitanti locali, mentre in Africa e Asia hanno lo scopo di ‘proteggere’ dalla popolazione locale e indigena”. Oltre il 13% del nostro pianeta è costituito da Aree protette, per un valore totale di due miliardi di ettari (l’equivalente di due volte gli Stati Uniti).

La proposta del 30×30, istituita nell’ambito del Quadro Globale per la Biodiversità post-2020 dell’ONU (Global Biodiversity Framework, GBF), contiene al suo interno molte promesse di inserire la tutela dei diritti umani e territoriali, ma queste si limitano ad essere mere “indicazioni”, denunciano le associazioni, piuttosto che criteri rigorosi e vincolanti. Il 30×30, inoltre, non sarebbe supportato da alcun criterio scientifico, costituendosi piuttosto come obiettivo arbitrario. Allo stesso modo “le evidenze scientifiche dicono chiaramente che per fermare il collasso ecologico sarà necessario ben più di una rete globale allargata di Aree Protette”, indagando “le cause reali della perdita di biodiversità, come il sovra-consumo”.

«L’idea che il 30×30 sia uno strumento efficace nella protezione della biodiversità non ha alcuna base scientifica» dichiara Fiore Longo, «L’unico motivo per cui è ancora in discussione nelle negoziazioni è che viene spinto con forza dall’industria della conservazione, che vede in esso un’opportunità per raddoppiare la quantità di terra sotto il suo controllo. Se sarà approvato, costituirà il più grande furto di terra della storia e deruberà milioni di persone dei loro mezzi di sussistenza. Se i governi intendono davvero proteggere la biodiversità, la risposta è semplice: riconoscere i diritti territoriali dei popoli indigeni». [di Valeria Casolaro]

La guerra bianca. Il nuovo ordine mondiale si decide sull’Artico. Marzio Mian su L’Inkiesta il 6 Dicembre 2022.

Il conflitto in Ucraina ha sancito la fine dell’eccezionalismo della convivenza pacifica nel Grande Nord, dove la Cina è attiva alleata della Russia contro la Nato. Putin è pronto a giocare su questo fronte la sua ultima partita

«Quella della Russia e della Cina nell’Artico è un’aggressione all’ordine internazionale…»

«Ammiraglio, con il dovuto rispetto, il suo intervento è pieno d’arroganza e alquanto paranoico…»

«Ho una domanda per lei, ambasciatore. Visto che la Cina si richiama tanto al principio di sovranità, allora perché non avete ancora condannato l’attacco russo all’Ucraina?»

«Non stiamo parlando d’Ucraina qui. La verità è che voi della Nato state approfittando di questo conflitto per espandervi nell’Artico e dominarlo. È un gioco molto pericoloso…»

Lo scambio avviene all’assemblea dell’Arctic Circle di Reykjavík a metà ottobre 2022. Dal palco sta parlando l’ammiraglio Rob Bauer, presidente del comitato militare Nato, quando l’ambasciatore cinese in Islanda si alza in prima fila e lo interrompe. Volti attoniti e brusio generale. I due si puntano l’indice l’un altro. […]

Pubblicamente, alle conferenze internazionali sull’Artico come quella islandese, non ricordo d’aver mai sentito pronunciare la parola «conflitto», un tabù ben custodito, per scaramanzia o ipocrisia. Il mantra della diplomazia artica era «cooperazione, stabilità, dialogo». Un modo per esorcizzare la realtà, e cioè quella d’una regione fragile non solo dal punto di vista ambientale, ma destinata a essere contesa con la forza perché non esistono accordi capaci di garantire la spartizione pacifica dell’unica area del mondo ancora non sfruttata e che nasconde quelle risorse di cui il mondo è affamato – ora soprattutto i minerali alla base delle tecnologie green e militari –, cruciali per alimentare il modello capitalista della crescita permanente.

Non s’è infatti mai visto che si presenta l’opportunità di mettere le mani su un nuovo continente e gli uomini le tengono in tasca. Non basta abbattere le statue di Cristoforo Colombo per cancellare la cultura dell’impero e del dominio, o pensare che il colonialismo sia archiviato soltanto perché i nuovi colonialisti usano parole corrette come «resilienza» e «inclusione».

Eppure le speciali regole d’ingaggio nelle relazioni artiche hanno resistito. Non secondario il fatto che tra le nazioni che s’affacciano sull’oceano polare ci sono due potenze, Russia e Stati Uniti, che si combattono in vario modo da oltre settant’anni, entrambe chiamate dalla stessa missione d’espandere la propria influenza e supremazia, e poi che ci siano confini polari condivisi da Nato e Russia.

Nasceva soprattutto da qui l’eccezionalismo dell’Artico: il dovere di collaborare e mantenere la stabilità nonostante tutto, nonostante l’oceano di ghiaccio fosse stato il teatro più caldo della Guerra fredda con i sottomarini nucleari che si davano la caccia come il gatto col topo. Lo spirito era quello indicato da Michail Gorbačëv a Ronald Reagan nel 1987, auspicando il disarmo dei missili a medio raggio dispiegati in Artico: «Facciamo del Polo un polo di pace» disse il leader sovietico davanti alla Flotta del Nord a Murmansk.

Il Consiglio artico, quando nacque nel 1996, era poco più d’una dichiarazione di buoni e pacifici intenti tra gli otto Paesi artici – oltre a Russia e Usa, Cana- da, Norvegia, Islanda, Danimarca (grazie alla Groenlandia), Svezia e Finlandia – che si proponevano di ritrovarsi allo stesso tavolo per lavorare assieme sulle questioni ambientali, sulla navigazione o sui diritti delle popolazioni indigene.

Non sulla sicurezza, perché non si trattava d’una organizzazione internazionale, ma d’un forum intergovernativo. Per diversi anni nessuno s’accorse dell’esistenza del Consiglio artico, frequentato da diplomatici pronti alla pensione; man mano che il ghiaccio si fondeva, e cominciavano a circolare le stime delle ricchezze sfruttabili e addirittura s’annunciavano rotte artiche alternative a Suez e Panama, allora sono arrivati i pezzi grossi, ministri degli Esteri, da Sergej Lavrov a Hillary Clinton.

E i Paesi che volevano contare sulla scena mondiale facevano a sportellate per essere ammessi come osservatori al club boreale, in primis la Cina. Quell’area rimasta ai margini della Grande Storia dell’umanità si trovava improvvisamente sotto i riflettori, al centro d’interessi globali.

Lo spirito di Gorby ha retto sotto molte tempeste, l’Artico è rimasto un luogo speciale, in parte perché è il totem della lotta al riscaldamento globale, la fetta di mondo che paga il prezzo più alto, dove sono più estreme le conseguenze della nostra hybris. E poi per quel tabú della guerra, un’ipotesi che non andava nemmeno contemplata lassù, fosse solo per la quantità di testate nucleari con cui Vladimir Putin piantona i suoi 22mila chilometri di costa polare.

Le crisi internazionali sono rimaste fuori dall’uscio del Consiglio artico, Stati Uniti e Russia hanno continuato a parlarsi, a studiare insieme lo smottamento del permafrost, la decimazione degli orsi, lo stravolgimento dell’ecosistema marino. Le guardie costiere dei Paesi artici non hanno cessato di condividere codici di navigazione per gestire gli inediti pericoli creati dal crescente traffico commerciale e turistico.

Il «patto del ghiaccio» tra gli Otto aveva superato anche l’annessione russa della Crimea nel 2014. Ma non l’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio 2022. Sette Paesi artici hanno chiuso ogni collaborazione con la Russia, tra l’altro presidente di turno del Consiglio e titolare del 52 per cento di coste polari. L’Artico s’è spaccato

in due e s’è rotto il tabú della guerra. L’attenzione è sul Donbass e il Mar Nero, le mappe dei generali occidentali segnate in rosso riguardano il Grande Nord, il Mare di Barents e lo Stretto di Bering. «Dopo l’Ucraina è cambiato tutto. Ora la questione non è se ci sarà un conflitto nella regione polare, ma come evitarlo» mi ha detto Angus King, senatore indipendente del Maine: «Ciò che si prepara sul tetto del mondo è un problema di sicurezza nazionale per ogni Paese occidentale».

Con l’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato, il Consiglio artico è interamente euro-atlantico e di fatto il braccio politico della Nato. Dopo l’aggressione russa all’Ucraina, l’Alleanza ha presto accelerato verso una dottrina militare a trazione nordica, concentrando le sue attenzioni lì dove la Russia potrebbe sfidare l’articolo V del Patto atlantico perché è dove Putin ha ammassato la sua forza non convenzionale in grado di colpire l’Occidente con una gittata balistica più breve.

Da quello che ritiene il mare nostrum dei russi, lo zar proietta le sue ambizioni neo-imperiali, perché la Flotta del Nord, dalle acque polari, può collegarsi velocemente sia all’Atlantico sia al Pacifico. Nell’Artico, Putin protegge, armi (nucleari) in pugno, la sua cassaforte di gas e petrolio; ora che non può più confidare sulla barriera naturale dei ghiacci, su quei confini è pronto a giocarsi la partita finale. E, se servisse, a sparare l’ultimo colpo.

Nell’Artico tutto si tiene e tutto sembra convergere verso il peggio. Se Xi Jinping temporeggia sull’Ucraina, qui però è già militarmente alleato con Putin. Russia e Cina svolgono per la prima volta manovre navali congiunte nel Mare di Bering, hanno installato in due mesi – stando a quel che mi hanno detto al Dipartimento di Stato americano – una struttura integrata per la navigazione satellitare basata sulla piattaforma Huawei e il sistema di posizionamento BeiDou, l’alternativa cinese al gps utilizzato dalla Nato.

Non è un caso che, improvvisamente, Stati Uniti e Nato hanno alzato il tiro oltre Putin, parlando di «aggressione militare di Russia e Cina nell’Artico». Washington ha pubblicato in fretta e furia, sull’onda degli sviluppi seguiti al conflitto ucraino, la nuova National Strategy for the Arctic Region, dove s’avvisa la Russia che le verrà impedito «con ogni mezzo» di dominare l’Artico, ma molto spazio nel documento è riservato alla «minaccia militare cinese» e alle «finte basi scientifiche» nella regione. Le intelligence militari di alcuni Paesi euro-atlantici – come ho potuto verificare ascoltando varie fonti in Italia e Regno Unito – ritengono che Pechino e Mosca stiano dando per certa l’escalation nell’Artico.

Sarà Guerra bianca? «Quel che è certo è che il nuovo ordine mondiale si decide oltre il Circolo Polare» è il giudizio di Anton Vasiliev, ex ambasciatore russo in Islanda. «La Nato concentra le sue forze a nord-est approfittando dell’impegno russo in Ucraina. Sanno che la nostra esistenza dipende dal Grande Nord. Per noi anche l’embargo europeo al petrolio russo è un’azione ostile della Nato».

Lo scontro verbale alla conferenza di Reykjavík a metà ottobre 2022 è stato il momento in cui è finito un Artico, quello condannato alla pace, e ne sono nati due, condannati a scontrarsi. Non c’erano delegati russi, ma l’inviato speciale di Pechino per la regione polare, Feng Gao, ha parlato anche per Mosca. Annunciando che si andrà verso la creazione d’un Consiglio artico russo-asiatico, alternativo a quello dei sette Paesi occidentali e Nato. «Non riconosceremo mai un Consiglio artico senza la Russia» ha detto a brutto muso il diplomatico cinese.

Frasi che, a quelle latitudini, sono sembrate siluri. Non è più tempo di buone maniere, del bon ton di circostanza che s’usava verso un ambiente naturale in via di disfacimento e che disvela, insieme alle ricchezze, la nostra natura tracotante. Gli scenari di guerra che racconto in questo libro sono infatti gli stessi dove è già chiara, sul campo, la Waterloo del pianeta.

Il linguaggio è cambiato, ora è quello spietato della Storia che ingloba l’Artico, inquinandolo anche con le parole. Prima che spazio geografico, geopolitico o biologico, era soprattutto un’idea che nasce dal bisogno d’altrove, dalla speranza che vi sia infine un luogo diverso, senza Storia, dove le cose sono sempre state come sono, una parte del pianeta ibernata in un’immacolata, primordiale, purezza. Addio, mitica, ultima thule.

Percepita nei millenni lontana come una Luna, l’Artide in meno d’una generazione, con il cortocircuito climatico, è diventata luogo di conquista neo-coloniale; qualcuno sostiene che sia addirittura il Piano B dell’umanità in un globo sempre più desertificato, sovraffollato e scarso di risorse. Oggi non c’è regione del mondo dove le cannonate sparate in Ucraina rimbombino forte come nel Grande Nord.

Da “Guerra bianca. Il fronte artico“ di Marzio G. Mian, Neri Pozza, 304 pagine, diciannove euro.

La Svastica sull’Antartide. Emanuel Pietrobon il 4 Dicembre 2022 su Inside Over. 

È dal XIX secolo che l’Antartide, il continente ghiacciato, è un’importante arena di confronto tra le grandi potenze. Oggi è una delle tante terre in cui vanno germogliando i semi della Terza guerra mondiale a pezzi, tra militarizzazione sottotraccia e giochi di spie. Ieri ospitò l’altro paragrafo glaciale della Guerra fredda. E l’altroieri, cioè durante la Seconda guerra mondiale, fu un obiettivo della Germania nazista.

Il mito della Nuova Svevia

La storia dell’ossessione antartica della Germania non inizia con Adolf Hitler, ma con Guglielmo II. La weltpolitik imponeva ai tedeschi di piantare ovunque la loro bandiera, dai Caraibi all’Oceania, perciò una prima spedizione antartica, guidata dal comandante Erich von Drygalski, fu organizzata fra il 1901 e il 1903. Poi, cause la Grande guerra e il successivo decennio nero, l’oblìo.

I tedeschi avrebbero dovuto attendere l’arrivo di Hitler per rimettere piede nel continente bianco. Berlino era alla ricerca di postazioni per la caccia alla balena, essendo il suo prezioso olio richiesto dall’industria nazionale, e l’Antartide sembrava il luogo perfetto in cui edificarne una. Anche perché, se fruttuosa, la spedizione avrebbe potuto soddisfare due obiettivi: uno economico, cioè la riduzione delle importazioni di olio di balena dalla Norvegia, e uno militare, ossia il possesso di una testa di ponte utile in caso di guerra.

La storia dimenticata dell’assalto nazista al Sudafrica

Nel dicembre 1938, nella più totale segretezza, il veterano della Marina tedesca Alfred Ritscher lasciò il porto di Amburgo alla volta dell’Antartide. Ritscher e l’equipaggio arrivarono nella costa della principessa Marta, parte di una più ampia regione che di lì a poco avrebbe reclamato la Norvegia – la terra della regina Maud –, poco più di un mese dopo.

Ritscher battezzò quella porzione di Antartide la Nuova Svevia, un omaggio alla nave catapulta sulla quale avevano viaggiato – la MS Schwabenland –, stabilendovi una base ed esplorandola da cima a fondo. Bandiere della Germania nazista furono piantate lungo la costa e colonne con in cima la svastica nell’entroterra.

A missione finita, nell’aprile dello stesso anno, Ritscher rincasò con più di diecimila fotografie aeree della Nuova Svevia e regioni adiacenti, equivalenti ad una mappatura territoriale dall’alto di circa 350mila chilometri quadrati di Antartide, e con dei rapporti oceanografici sui mari del polo sud e sull’Atlantico meridionale.

La Norvegia, venuta a conoscenza della spedizione nazista attraverso dei cacciatori di balene che avevano visto la nave catapulta in rotta verso il continente bianco, avrebbe reagito all’affronto estendendo le proprie rivendicazioni dalla costa della principessa Marta all’intera area mappata da Ritscher, chiamandola terra della regina Maud, ponendo fine alle ambizioni glaciali del Terzo Reich. O forse no.

Alla ricerca dei nazisti tra i ghiacci

Agosto 1946, la seconda guerra mondiale è finita da un anno quando un’imponente forza viene spostata dagli Stati Uniti al continente bianco. Una forza composta da 4.700 soldati, 33 aerei e 13 navi. Obiettivo dichiarato del dispiegamento, rispondente al nome di operazione Highjump, è la preparazione delle forze armate all’azione nei climi estremi. Passo necessario e propedeutico all’ingresso degli Stati Uniti in Antartide.

Ma Highjump potrebbe essere stata molto più di un’esercitazione avanzata. Highjump potrebbe aver perseguito, secondo letture controcorrente – e non per forza prive di senso –, anche un fine occulto: la ricerca di presunte installazioni naziste.

Gli Stati Uniti erano a conoscenza della grande trasmigrazione nazista verso le Americhe Latine e, seguendo le indiscrezioni ruotanti attorno la rete Odessa, si era fatta strada la convinzione, mai esplicitata, che da qualche parte tra il cono sud e l’Antartide i superstiti del Terzo Reich si stessero riorganizzando per un futuro colpo di mano.

Quando i nazisti tentarono l’assalto all’America Latina

Prove di attività naziste nel continente bianco non erano presenti. Dopo la spedizione di Ritscher, invero, Berlino avrebbe ufficialmente annullato le successive missioni in programma – almeno due – a causa dello scoppio del conflitto. Versione contestata dai pettegolezzi provenienti dall’Argentina, dove si parlava di basi sotterranee naziste nei pressi della penisola antartica, che il sensazionale approdo degli U-Boat 530 e 977 a Mar del Plata, sul finire della guerra, avrebbe contribuito in maniera determinante a investire di veridicità.

Gli Stati Uniti dovevano sapere se i superstiti del Terzo Reich avessero effettivamente costruito la vociferata Nuova Berlino nel continente bianco. E Highjump, secondo il filone cospirazionistico, avrebbe servito il proposito di scoprirla per distruggerla. Una teoria affascinante, ma che tale resterà fino a quando non emergeranno prove a suo supporto. Se mai emergeranno.

Il grande gioco per l’Antartide. Emanuel Pietrobon il 4 Dicembre 2022 su Inside Over.  

La fame di egemonia delle grandi potenze non conosce limiti. Esse ambiscono al dominio di qualsiasi terra sulla quale posino lo sguardo o sulla quale camminino. È nel loro dna. Un determinismo genetico che può essere solo inibito, ma non estinto. È così da sempre. E sempre sarà.

Grandi potenze, la loro diplomazia parla la lingua delle cannoniere, dei preti e dei commercianti. Tra loro è grande gioco, torneo delle ombre, ovunque si trovino risorse in abbondanza. Perciò ogni epoca, sebbene in modo diverso, è stata testimone di competizioni egemoniche, corse coloniali e guerre di conquista nei polmoni del pianeta – Latinoamerica e Africa centrale – e nel suo cuore – Asia centrale.

Il cambiamento climatico e il progresso tecnologico hanno poco alla volta portato le grandi potenze a combattersi per le, e alle, estremità del pianeta: i due poli. Ma, mentre della corsa all’Artico è dato sapere di più, sul grande gioco per l’Antartide si scrive di meno. Anche se, numeri e fatti alla mano, ciò che sta accadendo nel continente ghiacciato è tutto fuorché irrilevante e trascurabile.

Tutti pazzi per l’Antartide

Antartide, l’anti-Artide, è da quando Fabian Gottlieb von Bellingshausen ne scoprì l’esistenza, nel lontano 1820, che le grandi potenze avanzano rivendicazioni su di essa. Il diritto internazionale la scherma dalle attività militari e commerciali – sulla base del Trattato del 1959 –, ma se la storia insegna qualcosa è che nulla è perpetuo. E, difatti, cambiamento climatico e competizione tra grandi potenze stanno lentamente portando il continente bianco al centro dell’attenzione di vecchi e nuovi attori.

Nel sottosuolo antartico giacciono quantità indefinite di risorse naturali dal valore strategico, in particolare terre rare, oro, rame, uranio, petrolio e gas naturale. Estrarre questo tesoro non è possibile in ragione del Trattato del 1959, che del continente vuole preservare anche il fragile ecosistema, ma le necessità dell’economia globale e la sfrontatezza di alcuni giocatori sono suscettibili di alterare lo status quo. La Russia, ad esempio, sta investendo nella mappatura del sottosuolo e dei fondali, delle cui ricchezze elabora stime generose da dare in pasto al pubblico, con l’obiettivo implicito di stuzzicare l’appetito delle influenti lobby degli idrocarburi.

Risorse naturali a parte, l’Antartide è un magnete per le potenze di ogni taglia per via della situazione sui generis che la caratterizza. Perché è, nonostante le rivendicazioni territoriali di sette stati – la sola Australia vorrebbe per se stessa il 42% dell’intero continente –, una terra di nessuno. Vuoto di sovranità conclamata che la rende aperta alla contesa e nel quale si è inserita con vigore la Repubblica Popolare Cinese, che sull’Isola Inexpressible sta costruendo la sua quinta base.

Tensioni lungo la Buenos Aires-McMurdo

L’Argentina è la terza nazione più attiva in Antartide in termini di stazioni di ricerca – ben sedici – ed è anche, per ragioni geografiche, naturalmente votata a incidere sulle geografie del potere dell’Atlantico meridionale. Due fattori che potrebbero renderla, in futuro, un attore-chiave all’interno del grande gioco antartico.

Chi controlla l’Atlantico meridionale è proiettato sull’Antartide, perciò il Regno Unito custodisce e continuerà a custodire con gelosia la sovranità sulle Falkland/Malvine. E perciò la Cina, facendo leva sul rancore argentino per l’esito della guerra delle Falkland, sta corteggiando la classe dirigente biancoazzurra e investendo massicciamente tra Patagonia e Terra del fuoco allo scopo di minare l’egemonia regionale britannica – e, dunque, statunitense.

Parlare di asse sino-argentino è precoce, sebbene negli Stati Uniti si parli già di “ArgenCina“, ma ritenerne improbabile la materializzazione e sottovalutarne le potenziali implicazioni è altrettanto sbagliato. Pechino gestisce una stazione radiospaziale in Patagonia dal 2012 – che, di concerto con le basi antartiche, è potenzialmente in grado di permettere intelligence dei segnali a lungo raggio – e starebbe trattando per l’apertura di un porto nella Terra del fuoco, balcone sul continente bianco.

Il surriscaldamento del teatro argentino è la prova del fatto che la grande partita per l’Antartide non si giocherà soltanto sui ghiacci, ma anche nei loro dintorni. Ragion per cui è lecito attendersi scossoni lungo la Buenos Aires-McMurdo e un giorno, forse, la riapertura della questione Falkland/Malvine.

La catastrofe post datata. Paolo Di Paolo su La Repubblica il 21 Novembre 2022.

Dopo l'alluvione a Pianello di Ostra (Ancona) il 16 settembre 2022 (foto: Alberto Pizzoli/Afp via Getty Images) 

Abbiamo chiesto a 13 scrittori italiani di raccontarci cosa sta davvero succedendo. "I Racconti del Cambiamento Climatico", una serie che ha l’ambizione di arrivare là dove gli scienziati e i giornalisti si sono fermati

B con le distopie! Il protagonista del romanzo che sto finendo di scrivere lo dice, per essere sinceri, con meno eleganza. Ma gli ho prestato un'insofferenza che è anche mia: rispetto a un genere di racconto - letterario, filmico - che tende a proiettarci in un domani minaccioso. Non si contano i libri, spesso libracci, in cui le grandi metropoli sono invase dalle acque. A un certo punto, magari, si affacciano gli alieni. Vedo un rischio concreto nell'alimentare a dismisura un immaginario giocato sulla catastrofe post-datata: puoi esserne spaventato ma per gioco, riconoscendola come iperbole narrativa - una specie di caricatura del possibile. E comunque, non riguarda l'immediato.

In realtà, nelle oscillazioni violente di un quadro climatico sufficientemente stravolto, la sconcertante evidenza restituisce una distopia già in atto. Ha infiltrato il presente: come fa con le case l'acqua che sommerge e cancella Cantiano, Marche, Italia.

La dimensione che più sfugge agli umani - un paradosso che spesso rovina intere esistenze - è quella del presente: la capacità immaginativa riesce a lavorare sulla memoria e sul futuro, a cogliere meglio in forma di ricordo o di presagio ciò che è già sotto gli occhi. Se ne ha la prova nel discorso politico: quando per l'appunto si appella alla grandezza (spesso idealizzata) di figure del passato; quando, nell'illustrare programmi ambiziosi quanto aleatori, si rivolge ai giovani con insopportabile retorica. I giovani, che - da frase fatta - "sono il nostro futuro". Il futuro di chi? Intanto esiste e richiede cura e si sfarina e si complica il presente di tutti.

"Il caldo e il freddo estremi non consentono di fabbricare un mondo", ha osservato per tempo un filosofo che, in certi pomeriggi di studio, poteva e può dare qualche preoccupazione. Si tratta di Hegel, che aveva colto o recuperato - dall'alba del diciannovesimo secolo - l'indiscutibile tensione della specie umana verso un "optimum" climatico comunque instabile. L'attesa della singola bella giornata. La spinta migratoria verso climi più temperati. Il Sapiens è duttile, adattabile, sì, e tenace, ma soffre nella furia degli elementi. La meteorologia domina da sempre nelle conversazioni spicce, da bar e da mercato; alle cosiddette previsioni del tempo diamo più di un'occhiata al giorno, ma la verità più impegnativa non viene mai ripetuta dal colonnello dell'aeronautica: il nostro organismo soffre nella furia degli elementi, va in panne se le temperature si innalzano oltre misura, sragioniamo e boccheggiamo nel caldo afoso, sentiamo sfaldarsi la tenuta del nostro complesso energetico; viceversa, a tredici gradi esterni, se nudi, cominciamo a tremare. Se la temperatura corporea scende a trentatré gradi, non stiamo più in piedi.

L'impatto del clima e delle condizioni atmosferiche sulla vita dei popoli non è meno significativo nell'esistenza di un singolo individuo: stati ansiosi, depressione, istinti suicidi o violenti, oscillazioni dell'appetito, del desiderio sessuale, alterazioni della motilità intestinale. Questo per richiamare un'ovvietà fattasi opaca: niente ha più rilievo del clima rispetto al semplice e miracoloso fatto di essere qui, di essere vivi.

Lavorando al romanzo di cui dicevo, ho risalito i secoli in cerca di voci umane in grado di testimoniare la vertigine emotiva, lo sconcerto, la disperazione di fronte alla violenza degli sbalzi climatici. Ho trovato invocazioni e preghiere, l'attribuzione atterrita al divino del furore con cui temporali e grandinate devastano i raccolti, picchi di calore che rendono inabitabili zone desertificate. Ho interrogato la capacità delle società di assorbire gli shock legati alle crisi ambientali non in un futuro possibile, ma nel passato, secoli di gelo, anni senza estate, stagioni torride che minano la tenuta degli imperi. E ho -   ingenuamente! Tardivamente! - colto ciò che non sfugge a storici, antropologi, climatologi: che niente è stato più ferale, per la sopravvivenza delle comunità umane su questo pianeta, di un clima ostile.

Il 6 settembre scorso, a Sacramento, California, il termometro ha toccato i 47 gradi. Dove qualcuno legge eccessivo allarmismo, e con un'alzata di spalle stizzosa liquida come catastrofisti e apocalittici scienziati e cittadini impegnati, c'è una solida sequenza di dati. Che fatica comunque a generare autentica preoccupazione, come se nella cultura umana l'idea di un'apocalisse a rate - per certi versi già piuttosto visibile - fosse meno sinistra e omicida di un'apocalisse che si compie di colpo, in un solo istante. È la "grande cecità", la rimozione di cui ha parlato lo scrittore indiano Amitav Ghosh, quella che impedisce anche a noi scrittori di vedercela davvero con flutti e tifoni, se non per gioco. Se non quando l'acqua arriva in cucina: durante l'uragano Sandy - ha raccontato Zadie Smith - ho sceso quindici piani di scale a piedi, incinta di parecchi mesi, al buio, solo per raggiungere una connessione wi-fi e mandare una mail a un mio conoscente che negava il cambiamento climatico per dargli questa recente prova della sua idiozia".

Qualche volta mi dico che, di fronte al fallimento della nostra immaginazione etica e politica, bisognerebbe davvero sostituire allo spirito farsesco-catastrofista alla The Day after Tomorrow un più solido e non meno angosciante The Day before Yesterday. Provare cioè - come invita a fare il glaciologo Carlo Barbante - a dissolvere le nebbie della fantascienza con notizie dalla Storia. Lui si riferisce ai dati concreti ("per capire cosa lo studio del passato possa dirci del clima di oggi, per poter poi meglio prevedere anche quello di domani"). Io aggiungerei un dato emotivo: e anziché inventare creaturine romanzesche da piantare in un futuro remoto, recuperare l'angoscia di chi in un mondo diventato inabitabile per il caldo sperimentava l'inferno in terra. E non per metafora. O chi, in un mondo raggelato, si domandava: che ne sarà di noi in questo secolo di gelo?

Dobbiamo fidarci di queste voci, di questi sguardi: seguirli mentre indovinano un sole pallido, quasi spento, dietro il velo compatto dei cirrostrati. Mentre si disperano di fronte a una terra infeconda. La presenza di selvaggina è dimezzata; i capi di bestiame, sfiniti, crollano nei torrenti di acqua gelida - ne vanno recuperate le carcasse, e poi, con astuzia, con rabbia, spartite. Perché il vero grande indicibile nemico è la fame, e (come leggevamo sui libri di scuola, mandando a memoria date di battaglie e anni di regno in uno sbadiglio) il prezzo dei cereali raddoppia, triplica; il costo del pane cala o aumenta anche solo in base alle piogge. Non è un caso - racconta chi "predice" il passato - che Filippo II venisse tenuto minuziosamente al corrente delle variazioni climatiche nei suoi vasti domini. 

Paolo Di Paolo. Nel 2005 è stato finalista del Campiello giovani, ha esordito con "Nuovi cieli, nuove carte", poi ha proseguito la sua attività con numerosi libri-intervista. Nel 2019 con "Lontano dagli occhi" vince il Premio Viareggio. Il suo ultimo lavoro è la cura di un'antologia di scritti di Indro Montanelli

Il Consiglio di Stato ha messo fine all’abbattimento indiscriminato degli alberi. di Raffaele De Luca su L'Indipendente il 17 novembre 2022.

Non si può ordinare l’abbattimento d’urgenza degli alberi se non esiste alcun rischio concreto per l’incolumità pubblica: è quanto si desume da una recente sentenza del Consiglio di Stato, con la quale è stata annullata un’ordinanza del Sindaco di Pont Canavese (Torino) del 12 marzo 2020 che imponeva ad alcuni cittadini di abbattere un abete rosso secolare alto circa 29 metri e ricadente entro la loro proprietà, poiché era stato ravvisato in esso un “pericolo imminente per la pubblica incolumità sulla viabilità pubblica e nell’abitato circostante”. Una posizione evidentemente non condivisa dal Consiglio di Stato, che ha ritenuto fondata l’illegittimità dell’ordinanza sindacale sostenuta dagli appellanti. Quest’ultima, infatti, era caratterizzata da diversi difetti sui quali ha fatto luce la sentenza, che rappresenta un importante punto a favore della salvaguardia degli alberi.

Del resto, come testimoniato dal caso in questione, la possibilità che gli stessi vengano sbrigativamente definiti come un pericolo per l’incolumità pubblica – e che venga dunque ordinato il loro abbattimento senza che però via sia alcuna valida motivazione – non è remota, visto che senza l’intervento del Consiglio di Stato la tutela dell’albero in questione sarebbe di fatto venuta meno. Dopo l’ordinanza emessa dal Sindaco su parere dei Carabinieri Forestali locali, i proprietari avevano infatti fatto ricorso al TAR del Piemonte, che tuttavia con un provvedimento del 4 marzo 2021 lo aveva respinto ritenendo legittima l’ordinanza impugnata. Se quindi i proprietari non avessero proposto appello al Consiglio di Stato contestando l’illegittimità dell’ordinanza per motivi quali il “difetto di motivazione” e l'”eccesso di potere per difetto di istruttoria”, l’albero avrebbe dovuto essere sottoposto ad abbattimento nonostante quest’ultimo, a quanto pare, non fosse giustificato.

In tal senso, non solo il “cosiddetto ‘rischio zero’ di caduta di un (qualsiasi) albero non esiste, come del resto esplicitato dalle ‘Linee guida per la valutazione delle condizioni vegetative, fitosanitarie e di stabilità degli alberi’ del Ministero dell’ambiente”, ma – come sostenuto dagli appellanti – allo stato attuale manca del tutto un “grave pericolo che minacci l’incolumità pubblica e la sicurezza urbana”, necessario per emanare un’ordinanza d’urgenza. Del resto, la sola constatazione che l’ordinanza in questione risale ad oltre due anni fa e che ad oggi l’abete oggetto dell’ordine di abbattimento non ha mostrato alcun segno di cedimento, permette di comprendere per quale motivo tale posizione è stata ritenuta fondata: a documentare quest’ultimo punto, infatti, è stata non solo una “perizia di parte”, ma anche il “verificatore” incaricato dal Consiglio di Stato. Lo stesso – a cui nello specifico è stato assegnato il compito di “acquisire una valutazione della reale stabilità dell’albero, alla luce dei protocolli riconosciuti a livello nazionale ed internazionale” – è infatti arrivato alla conclusione che “tali rischi si collocano a livelli internazionalmente riconosciuti come accettabili, in quanto attualmente ‘i più bassi ragionevolmente possibili'”.

Venendo poi all’“eccesso di potere correlato al difetto di un’adeguata istruttoria”, gli appellanti hanno ricordato come l’amministrazione di Pont Canavese li avesse inizialmente incaricati di “produrre una perizia che accertasse lo stato di conservazione della pianta”. Quest’ultima aveva escluso “la sussistenza – all’epoca – di un concreto ad attuale pericolo di crollo dell’albero” ed aveva giudicato “l’intervento di potatura eseguito il 12 ottobre 2019 idoneo a garantire la corretta e sicura fruibilità della strada pubblica”, ma nonostante ciò nella successiva ordinanza il Sindaco si era limitato ad accogliere l’invito all’abbattimento espresso dal “Comando Regione Carabinieri Forestale Piemonte” tramite parere, senza però “indicare i profili argomentativi – nel confronto tra le divergenti ragioni espresse dalle parti – che l’avevano determinato a concludere in tal senso”.

È per questi motivi dunque che il Consiglio di Stato, dopo un lungo procedimento, ha annullato l’ordinanza e condannato il Comune di Pont Canavese al pagamento delle spese legali, tramite una sentenza che rappresenta un monito importante. Mediante la stessa, infatti, è stato indirettamente sottolineato che se da un lato i sindaci hanno il potere di emanare provvedimenti del genere, dall’altro non devono disporre in maniera arbitraria di quest’ultimo, onde evitare di ordinare un abbattimento non necessario e di non tutelare in maniera adeguata gli alberi.

[di Raffaele De Luca]

Gli ultimi giorni della Terra. Come abbiamo fatto ad arrivare a un passo dall’estinzione? Andrew H. Knoll su L’Inkiesta il 29 Ottobre 2022

Abbiamo alterato il clima fino a una crisi irreversibile. Andrew H. Knoll spiega come è stato possibile, partendo dalle origini dell’umanità di 4,6 miliardi di anni fa per arrivare fino al nostro ventunesimo secolo

Viviamo la nostra vita ancorati al nostro pianeta dalla forza di gravità. Ogni nostro passo ci mette in contatto con rocce e terreno, anche se sono nascosti dall’asfalto e dai pavimenti. Possiamo pensare di sfuggire alla forza di gravità quando viaggiamo in aereo, ma il senso di libertà è effimero: dopo poche ore siamo costretti a tornare sulla terraferma e a concedere alla gravità la sua vittoria. Ma il nostro legame con la Terra va ben oltre quello rappresentato dalla gravità.

Il cibo che mangiamo è fatto dell’anidride carbonica che si trova nell’atmosfera o ne gli oceani, oltre che dell’acqua e delle sostanze nutritive che si trovano in mare o nel suolo. A ogni respiro immettiamo nei nostri polmoni l’ossigeno che ci con sente di ricavare energia dal nostro pranzo. Al tempo stesso l’anidride carbonica nell’atmosfera ci impedisce di congelare. Inoltre l’acciaio della porta del frigorifero, l’alluminio delle lattine, il rame delle monete e le terre rare nei nostri cellulari vengono tutti dalla Terra. Stando così le cose, è strano quanta poca curiosità nutra la maggior parte di noi per la grande sfera che ci sostiene e che ogni tanto ci mette in pericolo, in occasione di uragani e di terremoti.

In che modo possiamo comprendere il posto della Terra nell’universo? Come si sono formate le rocce, l’aria e l’acqua che definiscono la nostra esistenza? Come spieghiamo i continenti, le valli e le montagne, i terremoti e i vulcani? Che cosa determina la composizione degli elementi di cui sono fatti i mari e l’atmosfera? Come si è sviluppata l’immensa diversità della vita che ci circonda? E soprattutto: in che modo le nostre azioni stanno cambiando la Terra e la vita? La struttura di questo libro è definita dall’intreccio delle questioni scientifiche con l’indagine storica. La storia di cui parliamo è quella della nostra casa, la Terra, e degli organismi che vivono sulla sua superficie. E la Terra è qualcosa di dinamico, malgrado un (fallace) senso comune che la considera sempre uguale a se stessa.

Boston, per esempio, gode di un clima temperato, con estati calde, inverni freddi e precipitazioni moderate distribuite più o meno regolarmente nel corso dell’anno. Le stagioni sono prevedibili e se, come me, siete in circolazione da qualche decennio, potete avere l’impressione che non ci sia mai niente di nuovo sotto il sole. I meteorologi, per altro, vi possono assicurare che la temperatura media annuale di Boston è aumentata di 0,6 °C nel corso della vita dei suoi cittadini più anziani. Sappiamo anche che la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera – uno dei fattori principali che regolano la temperatura del nostro pianeta – è aumentata di circa un terzo negli ultimi settant’anni. Analogamente, sappiamo che il livello globale degli oceani sta salendo, e che la quantità di ossigeno disciolta nell’acqua è diminuita di circa il 3 per cento da quando i Beatles sono diventati famosi.

Con il passare del tempo si accumulano piccoli cambiamenti. Un volo aereo da Boston a Londra si allunga ogni anno di 2,5 centimetri, dato che il fondale marino allontana lentamente il Nord America dall’Europa. Se potessimo riavvolgere il nastro, constateremmo che 200 milioni di anni fa la vecchia e la Nuova Inghilterra erano parti di un unico continente, con fosse tettoniche (simili a quelle attualmente osservabili nell’Africa orientale) che stavano cominciando a formare un bacino oceanico. Se si prende in considerazione una scala temporale adeguata, le trasformazioni terrestri sono davvero profonde. Per esempio, se fossimo stati liberi di vagare sulla Terra miliardi di anni fa, saremmo morti subito per l’atmosfera priva di ossigeno.

La storia della Terra e degli organismi che vivono su di essa è più spettacolare di qualunque kolossal hollywoodiano, e ha abbastanza colpi di scena per fare concorrenza a un thriller di successo. Più di quattro miliardi di anni fa, dall’aggregazione di detriti rocciosi si formò un piccolo pianeta in orbita attorno a una giovane stella di modeste dimensioni. Nelle sue prime fasi, la Terra versava in uno stato di continua catastrofe, bombardata da comete e meteore, con la superficie coperta da oceani di magma e un’atmosfera satura di gas tossici.

Col tempo, però, il pianeta cominciò a raffreddarsi. Si formarono i continenti, ma solo per essere prima lacerati e poi per collidere gli uni contro gli altri, provocando la formazione di spettacolari catene montuose di cui ormai non rimane quasi più traccia. Vulcani un milione di volte più grandi di qualunque cosa abbia mai visto l’occhio umano. Cicli di glaciazioni globali. Innumerevoli mondi perduti che solo adesso cominciamo a ricostruire. In questa fase di grande dinamismo, in qualche modo prese piede la vita, finendo per trasformare la superficie del nostro pianeta e preparando la strada a trilobiti, dinosauri e a una specie in grado di parlare, pensare, costruire utensili e, alla fine, cambiare nuovamente il mondo.

Comprendere la storia della Terra ci aiuta a capire come si sono formati i monti, gli oceani, gli alberi e gli animali attorno a noi, per tacere di oro, diamanti, carbone, petrolio e dell’aria stessa che respiriamo. In questo modo, la storia del nostro pianeta fornisce il contesto necessario per capire come le attività umane stanno trasformando il mondo nel XXI secolo. Per la maggior parte della sua storia, il pianeta che ci ospita non è stato abitabile dagli esseri umani; e una delle lezioni più profonde della geologia è la consapevolezza di quanto sia fuggevole, fragile e prezioso il momento che stiamo vivendo.

Di questi tempi, i titoli dei notiziari spesso sembrano versetti dell’Apocalisse: la California è colpita da incendi boschivi senza precedenti; l’Amazzonia è in fiamme; in Alaska si raggiungono temperature record, mentre in Groenlandia si accelera lo scioglimento dei ghiacciai; i Caraibi e il Golfo del Messico sono devastati da spaventosi uragani, il Midwest degli Stati Uniti soffre, con crescente regolarità, di alluvioni ogni volta più catastrofiche delle precedenti; Chennai, la sesta città dell’India, rimane priva di acqua, e lo stesso rischiano Città del Capo e San Paolo del Brasile.

Le notizie che vengono dal mondo della biologia non sono migliori: un calo del 30 per cento della fauna avicola nordamericana a partire dal 1970; un dimezzamento degli insetti; una massiccia morte dei coralli lungo la Grande barriera corallina; un rapido calo nel numero di elefanti e rinoceronti; la pesca in crisi in tutto il mondo.

Declino non significa ancora estinzione: ma è la strada che porta le specie alla fase finale. Dobbiamo concludere che il mondo è impazzito? A dire il vero, sì. E sappiamo anche il perché. I colpevoli siamo noi: noi uomini, responsabili di quell’effetto serra che non solo riscalda il pianeta, ma rende più devastanti e più frequenti le ondate di calore, le siccità e gli uragani. E siamo noi uomini ad avere messo in pericolo le specie animali attraverso lo sfruttamento sconsiderato del terreno e il cambiamento climatico. Ciò detto, la notizia forse più deprimente è la reazione umana: una diffusa indifferenza, soprattutto nel mio paese, gli Stati Uniti d’America.

Perché così tante persone hanno così poco interesse nei confronti dei cambiamenti che modificheranno la vita dei nostri nipoti? Nel 1968 una guardia forestale senegalese, di nome Baba Dioum, fornì una risposta memorabile. «Alla fine» disse, «conserveremo solo ciò che amiamo, ameremo solo ciò che capiamo, e capiremo solo ciò che ci verrà insegnato».

Questo libro è un tentativo di capire. Un invito a renderci conto della lunga storia che ha portato il nostro pianeta fino al momento presente. Un’esortazione a prendere atto di come l’attività umana stia radicalmente alterando un mondo che ha impiegato 4 miliardi di anni per diventare così. E una sfida a porre rimedio.

Come le banche continuano a finanziare la deforestazione globale. Simone Valeri su L'Indipendente il 24 Ottobre 2022. 

Le principali istituzioni finanziarie al mondo continuano ad elargire investimenti alle aziende implicate nel disboscamento delle foreste tropicali. E lo fanno senza vincolarle a scelte più sostenibili o trasparenti. La tendenza, tra l’altro, è persino in aumento. Tra il 2020 e il 2021, il flusso di capitali è cresciuto del 60%, toccando quota 47 miliardi solo lo scorso anno. Dal 2015 – anno in cui è stato firmato l’Accordo di Parigi – a oggi, il totale dei finanziamenti è arrivato a 267 miliardi di dollari. A rivelare cosa accaduto in appena sette anni, un rapporto di Forest&Finance, una coalizione di diverse ONG ambientaliste attive nel monitoraggio delle foreste pluviali. Dal documento, in sostanza, è emerso che banche e grandi investitori hanno delle politiche “pericolosamente inadeguate” per le merci legate alla deforestazione. Ne sono un esempio i gruppi indonesiani implicati nella lavorazione della carta Sinar Mas e Royal Golden Eagle, i quali hanno ricevuto investimenti per quasi 23 miliardi di dollari, cioè il 95% del totale donato dalle banche al settore. Questo dal 2016 al 2022, ma i finanziamenti non hanno mai subito battute d’arresto nonostante i due gruppi abbiano politiche del tutto insufficienti in relazione alla tutela degli ecosistemi e al rapporto con le comunità locali. Sinar Mas è ad esempio appurato che espande sistematicamente le sue piantagioni su torbiere drenate, degli ecosistemi particolarmente preziosi e vulnerabili, mentre è accusata di aver fatto ricorso a violenza e intimidazioni contro gli abitanti delle regioni interessate.

Nel complesso, in termini di sostenibilità ambientale e sociale, i 200 maggiori attori finanziari lasciano a desiderare. Per giungere a questa conclusione, le ONG redattrici del rapporto sopracitato hanno valutato le politiche delle banche e degli investitori in esame

sulla base di 35 diversi criteri ambientali, sociali e di governance (i cosiddetti ESG). Su 10 punti totali, 197 istituti di credito su 200 non hanno superato la soglia dei 7 punti. Con un punteggio medio di 1.6, il 59% degli enti valutati è poi risultato addirittura sotto l’1. Ad allarmare, in particolare, le banche che sostengono imperterrite i tre principali gruppi brasiliani del settore della carne: JBS, Marfrig e Minerva. Il Brasile è il più grande esportatore di carne bovina al mondo, il settore identificato come il principale motore della deforestazione nel Paese. L’attività ha contribuito infatti al disboscamento di circa 37 milioni di ettari nella sola Amazzonia, l’80% di tutta la deforestazione brasiliana dal 1985 ad oggi. Nel 2017, quasi il 70% delle esportazioni bovine è stato gestito da questi tre gruppi commerciali, i quali hanno non a caso attratto finanziamenti consistenti: dal 2015, un totale di 67 miliardi di dollari di crediti. Di questa quota, quasi il 90% è derivato dal credito rurale sovvenzionato dal governo, il Programma di Finanziamento dell’Agricoltura del Brasile che sostiene economicamente gli agricoltori e ad altri attori della filiera agroalimentare brasiliana. Ad oggi, JBS, Marfrig e Minerva non sono però riuscite ad attuare gli impegni di ‘zero deforestazione’, sottoscritti più di dieci anni fa, e non sono ancora in grado di garantire che le loro catene di approvvigionamento siano libere da fenomeni di disboscamento. Anzi. JBS, il principale beneficiario dei suddetti investimenti (1.1 miliardi di dollari nel solo 2022), è stata persino più volte collegata alla deforestazione illegale. [di Simone Valeri]

Un’azienda italiana complice del disboscamento delle terre indigene: la denuncia di Survival. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 15 Dicembre 2022.

Survival International, l’associazione internazionale dedita alla tutela delle popolazioni indigene nel mondo, ha presentato all’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico dei Paesi membri) un’istanza contro la conceria italiana Pasubio, fornitrice di case automobilistiche quali Jaguar Land Rover e BMW. L’azienda acquisirebbe infatti i pellami da concerie colpevoli di occupare e disboscare illegalmente le terre ancestrali della popolazione Ayoreo Totobiegosode, nella pianura paraguaiana del Gran Chaco. Le foreste del Chaco soffrono infatti di uno dei più alti tassi di deforestazione al mondo, la quale mette a rischio la sopravvivenza delle popolazioni incontattate che vivono delle sue risorse.

In un comunicato Survival ha infatti fatto sapere di aver inviato lettere di diffida alle due aziende italiane leader della realizzazione di volanti, sedili ed interni in pellame, ovvero la Pasubio Spa e il Gruppo Mastrotto Spa. Entrambe, riferisce Survival, “si riforniscono da concerie che commerciano con allevamenti colpevoli di occupare la terra ancestrale degli Ayoreo e quella dei loro gruppi isolati e di disboscarla illegalmente mettendo a rischio la loro stessa sopravvivenza”. Tuttavia, mentre il Gruppo Mastrotto avrebbe “avviato un dialogo”, Pasubio Spa non ha mostrato la medesima volontà di confronto, motivo per cui l’organizzazione ha deciso di ricorrere all’OCSE.

Secondo due rapporti della ONG britannica Earthsight, citati da Survival, pressoché due terzi delle pelli esportate dal Paraguay ogni anno sono destinate ad aziende italiane, Pasubio in primis. Secondo quanto riferito da Survival, il 98% delle pelli che l’Italia importa dal Paraguay proviene da 4 concerie che commerciano con allevamenti colpevoli di occupare e disboscare illegalmente la terra ancestrale degli indigeni del Chaco. E Pasubio ne è il principale destinatario. La condotta dell’azienda, che non rispetta così le linee guida OCSE in materia di tutela di diritti umani, ambiente e consumatori, alimenta la deforestazione illegale e viola i diritti della popolazione Ayoreo Totobiegosode, che dalla foresta dipendono per vivere. Il contatto forzato con popolazioni che vivono isolate, inoltre, mette queste ultime a rischio di contagio di malattie che, come accaduto innumerevoli volte in passato, ne causa la decimazione. Teresa Mayo, responsabile della campagna di Survival, denuncia la complicità del governo paraguaiano, che «ha consegnato la maggior parte del territorio ancestrale degli Ayoreo ad aziende agroindustriali che abbattono la foresta senza sosta: prima tagliano gli alberi preziosi, poi incendiano la foresta e infine introducono il bestiame sulla terra disboscata».

“Sebbene la pelle di una mucca rappresenti solo il 10% del valore totale dell’animale al momento della macellazione, essa rappresenta una proporzione molto più alta del valore finale di vendita” denuncia Survival. Secondo i dati FAO (l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura), infatti, le esportazioni globali di pelli grezze e finite costituiscono un mercato da ben 28,5 miliardi di dollari, l’equivalente di quello delle esportazioni di carne bovina (29,2 miliardi di dollari). Le previsioni, inoltre, sono che la domanda di pelle destinata al mercato automobilistico aumenterà di oltre il 5% all’anno fino al 2027.

Per sensibilizzare maggiormente il pubblico sulla vicenda, Survival ha lanciato sui social la campagna #SullaPelledegliAyoreo, nell’ambito della quale chiede ai sostenitori di “informare le case automobilistiche dell’impatto devastante che le pelli paraguayane hanno sulla vita degli Ayoreo Totobiegosode e sulle loro foreste, e di sollecitare i loro fornitori a interrompere tali importazioni”.

Nonostante i nostri ripetuti tentativi di contattare l’azienda, Pasubio Spa non ha voluto rilasciare commenti sulla vicenda. [di Valeria Casolaro]

MAIL A DAGOSPIA il 15 Dicembre 2022.

Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Roberto, ho letto la Dagonota secondo cui la rimozione di Lirio Abbate dalla Direzione de l’Espresso sarebbe stata richiesta da Exor o da CNH Industrial. Sei fuori strada, e ti do una notizia: aspettiamo a braccia aperte il ritorno di Lirio nel Gruppo GEDI (controllato da Exor).

Andrea Griva - Comunicazione Gruppo GEDI

DAGONOTA il 15 Dicembre 2022.

Lirio Abbate non è più il direttore dell’Espresso. Lo comunica il cdr del settimanale, che ha proclamato lo stato di agitazione in polemica con l’editore, Danilo Iervolino. 

Ma come mai Abbate è stato fatto improvvisamente fatto fuori? La goccia che avrebbe fatto traboccare il vaso è un’inchiesta, pubblicata nell’edizione di domenica scorsa, 11 dicembre, sull’Amazzonia. Ma cosa c’era di tanto scomodo nel lungo articolo, firmato da Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi da giustificare il siluramento del direttore? 

La risposta è semplice: un attacco durissimo a Exor e Cnh di John Elkann. Le due società degli Agnelli venivano tirate in ballo tra quelle che finanziano i colossi brasiliani accusati dei roghi che stanno devastando le foreste amazzonica. E Yaki, memore dei bei tempi in cui era lui l’editore dell’Espresso, non avrebbe affatto gradito.

Il nipote dell’Avvocato si è incazzato e l’ha fatto presente a Iervolino, minacciando di stracciare l’accordo per la distribuzione del settimanale in allegato a Repubblica (che scade a marzo). E a quel punto il vispo “golden boy” dell’editoria italiana si è rivalso sul direttore, che già la settimana prima gli aveva causato qualche grattacapo con la finta esclusiva sulla polizia cinese in Italia. 

A sostituire Abbate dovrebbe arrivare Alessandro Rossi, fedelissimo di Iervolino: è direttore editoriale di “Forbes Italia” e manager di punta della BFC Media, società di cui il presidente della Salernitana ha acquisito il controllo completo a maggio.

COMUNICATO DEL CDR DELL’ESPRESSO il 15 Dicembre 2022.

La nuova proprietà dell’Espresso oggi ha comunicato al comitato di redazione l’immediata e immotivata sostituzione del direttore Lirio Abbate proprio nel momento in cui deve essere attuato il piano editoriale. La redazione dell’Espresso ha proclamato lo stato di agitazione, si riunisce in assemblea permanente e ha dato mandato al cdr di prendere ogni tipo di iniziativa a tutela del prestigio e dell’indipendenza della testata.

Il cdr dell’Espresso Il sindacato Rsa

L’AMAZZONIA BRUCIA ANCHE PER NOI: SOLDI ITALIANI DIETRO GLI INCENDI IN BRASILE. Estratto Dell’articolo di Paolo Biondani e Pietro Mecarozzi Per “l’Espresso” il 15 Dicembre 2022.

Dietro gli incendi delle foreste dell’Amazzonia ci sono anche soldi italiani. Finanziamenti per decine di milioni concessi dalle maggiori banche del nostro Paese. E prestiti commerciali per somme molto più alte, per un totale di circa un miliardo e mezzo di euro, che arrivano da società finanziarie con la targa italo-olandese del gruppo Exor, che controlla anche la Fiat. […]

Mirko Crocoli per affaritaliani.it - articolo dell'8 settembre 2021

L ARTICOLO DELL ESPRESSO SULL AMAZZONIA (CON ATTACCO A CNH DI JOHN ELKANN)

Ha lanciato 11 start up nell’editoria, scrive libri gialli comici con il macellaio Dario Cecchini. 

I RICORDI: l’ ”Unita”, poi “Class”, “Milano Finanza”, “Italia Oggi”, “Bloomberg” e oggi ci parla di Forbes Italia. L’evento del 15 settembre al Four Seasons di Firenze: “forse il più importante insieme al Private Banking Award”. 

IL GRUPPO BFC MEDIA: Otto magazine, quattro siti, milioni di visitatori, newletters quotidiane, 200 mila iscritti, due tv, accordi con Amazon, Samsung, Huawei, Twitter. A ottobre il lancio dell’edizione italiana di Robb Report, il magazine mondiale del lusso per antonomasia. 

Da buon toscano, Alessandro Rossi, ha sempre la battuta pronta. Per esempio a chi gli chiede se parla inglese, risponde con un sorriso “like a spanish cow”. Sarà. Intanto però è l’unico giornalista italiano ad aver portato nel nostro Paese due colossi Usa dell’informazione come Bloomberg e Forbes. 

E senza mai avere dietro i grandi gruppi dell’editoria italiana. Per creare Bloomberg Investimenti nel 1998 ha fondato una società con Rolando Polli, altri soci italiani e Mike Bloomberg. Per Forbes invece il grimaldello è stata BFC Media, la società fondata dall’amico Denis Masetti e quotata alla Borsa di Milano, all’Aim, di cui è socio da molti anni.

Oggi Alessandro dirige, con successo, l’edizione italiana di Forbes ed è uno dei manager di punta di BFC Media. Ha cominciato da molto lontano, da Siena, dove è nato nella contrada dell’Onda, e dove ha mosso i primi passi professionali al settimanale Nuovo Corriere Senese, prima di passare alla redazione toscana de l’Unità e poi a Milano, nel 1986, per fondare Milano Finanza con il nascente Gruppo Class Editori. Da lì, piano piano, Alessandro ha costruito la sua carriera, passando per Repubblica, poi tornando al gruppo Class fino a incontrare, 13 anni dopo, Mike Bloomberg. Ecco che cosa ci ha detto. 

Alessandro, che cosa si porta con sé di quel periodo a l’Unità e la Repubblica?

Sono stati periodi completamente diversi. Alla redazione regionale toscana de l’Unità sono stato assunto nel 1980 dove ho fatto il praticantato e sono diventato professionista. E’ stata una scuola professionale di altissimo livello: ho avuto colleghi come Gabriele Capelli e Renzo Cassigoli, persone integerrime, di grande professionalità, cultura e umanità. 

I miei direttori si chiamavano Claudio Petruccioli e Emanuele Macaluso: credo, come si dice, che basti la parola. Sono molto legato a quel periodo, perché ero giovane e poi perché lì ho incontrato mia moglie Daniela. A Repubblica invece è stata una parentesi. Mi vollero fortemente Scalfari e Pansa che, dissero, erano stati fulminati da un mio pezzo su Milano Finanza sulla guerra del Credito Romagnolo tra gli schieramenti guidati da Agnelli e da De Benedetti. Era il 1988, arrivai in carrozza, ma le grandi strutture non fanno per me. Troppo impersonali, si perde troppo tempo a parlar male dei colleghi. Dopo un anno alla redazione economica di Milano tornai a Milano Finanza per fondare Mf. Meglio re nell’orto che ortolano nel regno. 

Cofondatore di importanti realtà editoriali come “Bloomberg Investimenti”, “Milano Finanza” e “Italia Oggi”. Giornalista di lunga data ma anche e soprattutto “creatore” di magazine di indiscusso spessore. 

Diciamo che ho una passione per le start up e le piccole case editrici dove la gente si conosce tutta e ci si può guardare negli occhi. Ho avviato 11 nuove iniziative tra quotidiani, settimanali, magazine e siti web. L’esperienza più importante è stata quella nel gruppo Class dove sono stato per 13 anni partecipando appunto alla fondazione di Milano Finanza (eravamo in sei ed io ero l’unico professionista in redazione insieme a Massimo Novelli che però se ne andò al secondo numero), poi di Mf e Italia Oggi.

Ho ancora delle minuscole partecipazioni azionarie in quei giornali. Lì c’era la figura imperiosa di Paolo Panerai, un talento straordinario, un uomo difficile, ma sicuramente unico. A lui devo moltissimo. Nella sua bottega ha forgiato alcuni dei migliori giornalisti italiani. Compreso il vostro direttore con cui ho lavorato assieme per un paio d’anni. Poi un giorno mi chiamò Michael Bloomberg perché voleva fare un giornale in Italia e alcuni amici comuni gli avevano parlato di me. 

Insieme a Rolando Polli, director di Mc Kinsey, mettemmo assieme una squadra di azionisti di tutto rispetto, mentre Mike tenne per sé il 50%. Paolo si arrabbiò tantissimo anche perché credo che mi considerasse quasi un figlio adottivo, una sua creatura. Dicono che non me l’abbia ancora perdonata. Ma secondo me fa finta. Con Bloomberg sono stati quattro anni strepitosi fino alla bolla dei titoli tech e alle torri gemelle. 

Certo, da l’Unità a Bloomberg e Forbes il passo è lungo…

Meno di quanto sembri. Almeno per me. Intanto perché sono un professionista e poi perché la politica ormai mi interessa molto poco. Ma soprattutto perché mi sono sempre ispirato a Romano Bilenchi, senese anche lui, di Cole Val d’Elsa, che con il suo Nuovo Corriere aveva dato esempio che è possibile pubblicare un giornale con opinioni libere e indipendenti. 

Il Nuovo Corriere era finanziato dal Pci che lo chiuse dopo la rivolta degli operai di Poznan del 1956 proprio perché ospitava opinioni dei grandi liberali e cattolici del tempo da La Pira a Ungaretti a Anna Banti e prese una posizione allora considerata scomoda. Cos’è, in fondo, Forbes, almeno il mio, se non un magazine del capitalismo democratico che celebra il successo e non la ricchezza e valorizza chi restituisce parte della sua fortuna ai suoi collaboratori o ai meno fortunati? 

Come nasce la passione di mettersi in gioco anche nei piani dirigenziali? 

E’ sempre stata una scommessa con me stesso, riuscire a costruire qualcosa e a governarla. Sono un leader per caso, uno che è arrivato dove è arrivato da solo, senza padrini, con molta fatica, ma sempre con fermi principi morali e professionali. E tanto lavoro. Se fossi stato più accondiscendente (credo che il termine esatto sia paraculo) forse avrei potuto fare una carriera ancora più importante. Ma a me basta quello che sono. Se penso da dove sono partito. 

Attuale direttore responsabile dell’edizione italiana di “Forbes” e direttore editoriale della casa editrice BFC Media. Correva l’anno? Quando parte l’idea e come si è sviluppata nel corso del tempo? Oggi, ricordiamolo, è un magazine molto seguito e apprezzata soprattutto nel mondo dell’economia, del management e dell’imprenditoria. 

BFC Media è nata nel 1995 per iniziativa di Denis Masetti. Lui sì che è un manager vero, strutturato, coraggioso e anche visionario. Io sono più concreto, operativo e anche creativo. Ci integriamo e intendiamo alla perfezione. Siamo amici proprio da quegli anni e abbiamo fatto un lungo percorso insieme.

L’anno di svolta è stato il 2015 quando ci siamo quotati con 1,6 milioni di fatturato: oggi viaggiamo vicino ai 15 milioni, quasi 10 volte in sei anni. E’ chiaro che l’arrivo di Forbes ci ha dato una grossa mano, ma anche noi ci abbiamo messo del nostro. Intanto abbiamo posizionato il giornale non improntandolo sulle storie dei miliardari ma su quelle di successo. Il successo piace a chi lo racconta e a chi lo legge. E poi è democratico: tutti possono avere successo indipendentemente dai risultati economici. Oggi apparire su Forbes significa acquisire reputazione, affidabilità, credibilità per la propria azienda.

Ma poi c’è tutto il resto: otto magazine complessivi, quattro siti con milioni di visitatori, newletters quotidiane per oltre 200 mila iscritti, due tv (Bike con la nuovissima tecnologia Hbb tv e Bfc sul 511 di Sky), accordi per i contenuti con i più grandi player del mondo da Amazon a Samsung, da Huawei a Twitter. E a ottobre lanceremo l’edizione italiana di Robb Report, il magazine mondiale del lusso per antonomasia. 

C’è soddisfazione nel suo staff?

Direi che il più soddisfatto sono io. Ma credo anche loro. C’è entusiasmo e orgoglio: firmare su Forbes a 30 anni non capita proprio a tutti. La redazione è molto giovane, ma è una caratteristica di tutta la nostra azienda. Lavorano sodo con grande passione e molta professionalità. Siamo bravi anche a dare il giusto peso alle cose: non mancano le occasioni per scherzare, divertirci, fare gruppo. Dopo, però, tutti al pezzo… 

Sono ormai in voga anche da noi (come negli Usa), le famose liste top women e men. Esserci è simbolo indiscusso di successo. Su quali criteri giudicate i vari soggetti? 

Vengono scelti dalla redazione sulla base di informazioni che raccogliamo tutto l’anno. Per esempio sulla lista degli Under 30 2022, in uscita ad aprile prossimo, stiamo lavorando su centinaia di profili giunti in redazione o da noi individuati, sin dal maggio 2021. E così per le altre liste. Il difficile è trovare ogni anno cento nomi nuovi per ogni elenco. 

Se le diciamo Dario Cecchini lei cosa ci risponde? 

Un grande, grandissimo amico. E’ il macellaio più famoso al mondo. Ma è anche molto umile. Ha ristoranti a Dubai, Bahamas, Bolgheri e presto ad Erbusco ma torna sempre a casa, a Panzano in Chianti. Sa vivere e sa ridere. Abbiamo molte cose in comune e soprattutto abbiamo fondato la Libera Università della Nobile Arte del Cazzeggio dove noi due siamo docenti e discenti. E’ un modo come un altro per non prenderci troppo sul serio e ricordarci sempre da dove veniamo. Insieme abbiamo scritto anche un libro per Giunti, è un giallo, un giallo tutto da ridere ambientato nel paesino di Panzano in Chianti con personaggi reali. Per capirlo basta leggere il titolo: “Il mistero della finocchiona a pedali”. Ad aprile ne uscirà un altro.

Come si struttura il suo lavoro. Roma, Milano, il Chianti? Riesce a coniugare affetti, impegni e dirigenza? 

Vivo in campagna a Panzano in Chianti da diversi anni dove avevo comprato una casa durante la mia parentesi milanese quasi ventennale. Non è lontana da Firenze dove c’è sempre un treno che in un paio d’ore al massimo mi collega con Milano o Roma. Vivo la mia vita con molta intensità e trovo il tempo per tutto e tutti, anche per la mia nipotina Giorgia e il mio cane Viola che riesco a portare a caccia (o forse è lei che porta me).

Come “Forbes” fate anche eventi annuali dedicati ai vari settori. Cosa c’è in programma per i prossimi mesi? Al Firenze Four Seasons ci sarà un incontro con le piccole e medie imprese. Ci spiega meglio? 

Facciamo oltre 100 eventi all’anno tra virtuali e fisici. Quello di Firenze è uno di questi, forse il più importante insieme al Private Banking Award. E’ nato quattro anni fa ed ha un successo di partecipanti straordinario. Quest’anno è dedicato alle pmi e sarà il kick off di un grande progetto di Forbes su quelle aziende che abbiamo chiamato Piccoli Giganti del Made in Italy. 

Ora andiamo al Covid-19. Pandemia devastante. Ci vuol raccontare anche a livello personale come ha vissuto questo dramma globale e quanto le sue aziende hanno risentito del fermo dovuto al lockdown? Il settore ne ha sofferto?

Abito in aperta campagna e il primo lockdown è stata un’occasione per stare un po’ più a casa. Personalmente non ho avuto grossi problemi anche se ho lavorato tantissimo da remoto. Come azienda abbiamo utilizzato quel periodo per lavorare a nuovi progetti. È stato proprio durante il lockdown che è nata l’idea di lanciare la tv e il magazine Bike dedicato a chi ama vivere in movimento e poi di acquistare il trisettimanale Trotto&Turf, il giornale degli appassionati di cavalli. Nel 2020 il fatturato di BFC Media è salito del 40% rispetto all’anno precedente. 

Vaccini sì vaccini no, green pass sì green pass no. Qual è il suo pensiero? 

Sono vaccinato. Senza se e senza ma. Il green pass è utile anche se non decisivo perché il contagio è subdolo. Però dà un minimo di garanzia di sicurezza. Ed oggi è quello che tutti cerchiamo. 

Ultima a conclusione. Vuole ringraziare qualcuno in particolare per i suoi 40 anni di onorata carriera?

Di solito si ringraziano sempre le mogli. E io sono riconoscente a mia moglie Daniela che ha avuto una gran pazienza e comprensione. Professionalmente sono legato a tutti coloro che mi hanno dato molto ricevendo in cambio solo professionalità, disponibilità e, in qualche caso, amicizia. Quindi sono molto grato, come dicevo, a Gabriele Capelli e Renzo Cassigoli, ma anche a Denis Masetti, Paolo Panerai, Eugenio Scalfari, Mike Bloomberg e Maurizio Boldrini, oggi professore di Scienze della comunicazione all’Università di Siena, che è stato il mio primo maestro.

Giovanni Contratti, il medico eroe che denunciò i veleni della chimica. E venne isolato dalla politica. Intorno al 1970 fu il primo a combattere l’impianto Montedison di Bussi sul Tirino, mettendosi contro i potenti e venendo abbandonato dalle istituzioni. Mezzo secolo dopo le scorie tossiche restano ancora sotto terra. Maurizio Di Fazio su L'Espresso il 4 aprile 2022.

In rete girano pochissime informazioni su di lui. Giovanni Contratti aveva capito tutto, ma troppo in anticipo. E non che le cose oggi vadano di prassi meglio di mezzo secolo fa. Difesa della natura e della salute pubblica contro ogni cinismo di profitto bulldozer. «Le vedeva come priorità assolute», ricorda la figlia Luana. «Un eroe borghese, un visionario, una voce nel deserto», afferma il procuratore della Repubblica di Pescara Giuseppe Bellelli, che nel processo Bussi-Montedison è stato pubblico ministero.

Sabrina Cottone per "il Giornale" il 9 febbraio 2022.

Forse è l'unico effetto positivo della pandemia, tra fenicotteri rosa in giro sulle strisce pedonali, picchi che martellavano alberi nel centro di Milano, papere con seguito di paperotti a zonzo senza paura di finire sotto l'autobus. 

E non c'è bisogno di interpellare il commissario Rex, la giungla di Mowgli, Zanna Bianca o Masha e Orso, lo charme di Duchessa, i dalmata in fuga da Crudelia Demon, Gatto di Colazione da Tiffany.

Gli animali, cani, gatti, conigli, criceti, tartarughe, pesci ma non solo, persino il perfido serpente Bis di Robin Hood, insieme ad alberi secolari, pianure, laghi, valli, montagne, foreste anche non amazzoniche fanno parte dell'amorevole immaginario collettivo da tempo immemore e la battaglia per farli entrare in Costituzione è iniziata anni fa. 

Ieri è accaduto. In compagnia del resto del creato, con ambiente, biodiversità e ecosistemi, gli animali hanno trovato la propria tutela costituzionale negli articoli 9 e 41 della Carta.

Il primo è una dichiarazione di principio che li accosta alla tutela del paesaggio e del patrimonio artistico, il secondo una precisazione sulla libertà di iniziativa economica, che non può ledere ambiente, biodiversità, ecosistemi, animali. 

A differenza degli argomenti che dividono, in questo caso il passaggio al Senato e alla Camera è avvenuto senza ostacoli, con oltre i due terzi dei voti favorevoli in entrambe le Camere. Ciò significa che questa legge costituzionale non potrà essere sottoposta a referendum.

Fine della storia, almeno in teoria. Leggi entreranno nel dettaglio per specificare meglio come bisognerà comportarsi con la natura e gli amici dell'uomo che in molti, per delusione, cinismo o smisurata passione, arrivano a preferire agli esseri umani. 

Intanto è come l'allunaggio nella storia delle missioni spaziali. Animali come gli uomini? Non proprio, ma certo non palloni da prendere a calci come ha fatto il difensore francese Zouma a un gatto in un video diventato virale proprio ieri, che gli ha scatenato addosso la rabbia del web.

Creature da tutelare, con diritti se non uguali, simili a quelli che pretendiamo per noi stessi. L'arco costituzionale è per una volta compatto per un successo bipartisan, e le dichiarazioni di gioia arrivano da Enrico Letta per il Pd («Il Parlamento unito difende il pianeta e il domani») a Luigi Di Maio per i 5S («passo avanti per le future generazioni») fino a Forza Italia e alla Lega (libertà di voto in Fdi), c'è chi gioisce più di altri, soprattutto al governo.

Il ministro della Transizione ecologica, Stefano Cingolani, usa toni enfatici: «Giornata epocale, ne sono molto contento come cittadino e come proprietario di cani, gatti e pappagalli».

Ma tra i politici il ruolo di paladina degli animali va senza discussione a Michela Vittoria Brambilla. Sono note le sue campagne, i programmi televisivi dedicati a trovare casa a cuccioli abbandonati, al punto da aver pagato con una certa ironìa nel centrodestra quella che era considerata una battaglia «di sinistra», se non addirittura una fissazione.

In realtà, come ricorda Brambilla, non facciamo che raggiungere Paesi quali Germania, Austria, Svizzera: «La tutela ambientale non è una materia o un diritto soggettivo, e oggi lo scriviamo in Costituzione come valore di rango primario anche nell'interesse delle future generazioni, facendo della tutela dell'ambiente e degli animali un valore obiettivo».

Non finisce qui. Perché una cosa è dare rango costituzionale alla natura, altra cosa è limitare allevamenti intensivi e vessazioni immotivate di cavie o frenare ruscelli di scorie nere che ancora oggi si buttano nei fiumi e nei mari.

La proposta di legge approvata a Montecitorio. La tutela dell’ambiente entra nella Costituzione, Sì della Camera: “Giornata epocale”. Redazione su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

La tutela dell’ambiente entra nella Costituzione Italiana. La camera dei deputati ha approvato con 468 voti (superiore alla maggioranza di due terzi dell’aula) la proposta di legge. Il testo – che riguarda la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecostistemi – era passato al Senato lo scorso 3 novembre. La proposta modifica due articoli della Carta, il 9 e il 41. Un contrario e sei astenuti. La modifica entra da subito in vigore e senza referendum.

“Credo che oggi sia una giornata epocale, ne sono molto contento come cittadino e come proprietario di cani, gatti e pappagalli, assolutamente contento. Ma come Governo aggiungo che stiamo facendo uno sforzo enorme sul Pnrr, la transizione ecologica è un po’ questo: riuscire a fare una grande trasformazione che deceleri il riscaldamento, che freni certi eventi avversi a livello meteorologico, mantenendo la sostenibilità sociale“, il commento del ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, a pochi minuti dal voto di Montecitorio. “È una sfida nella sfida ma tutte queste cose, però, sono previste dalla Costituzione: il lavoro, la società, i diritti delle nuove generazioni e l’ambiente. E questo ci dovrebbe anche concettualmente facilitare molto il lavoro”.

E sulle modifiche agli articoli 9 e 41: “L’articolo 9 afferma il valore primario di tutelare la casa in cui viviamo, sancisce il diritto a un ambiente salubre. Molti Paesi del mondo hanno già fatto questa operazione e si tratta di un passaggio assolutamente necessario per un Paese come l’Italia che comunque sta guidando la trasformazione verso la sostenibilità. Ora aggiungiamo ambiente, biodiversità, ecosistema per le future generazioni, e la tutela degli animali. Mentre l’articolo 41 ci dice che l’iniziativa privata economica resta libera, ma è scritto ‘nero su bianco’ sulla Costituzione che non deve danneggiare e non deve essere a detrimento della salute e dell’ambiente“.

“Il WWF accoglie con estrema soddisfazione la notizia della votazione favorevole della Camera sulla riforma degli articoli 9 e 41 della Costituzione che ritiene debbano essere il presupposto di un intervento organico per adeguare strumenti normativi vigenti a tutela della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali. Da oggi, con la modifica all’art. 9 della Costituzione, la tutela dell’ambiente, della biodiversità, degli ecosistemi e degli animali “anche nell’interesse delle future generazioni” entrano di diritto tra i principi fondamentali della nostra Repubblica”, si legge in una nota dell’organizzazione.

“Il voto di oggi rappresenta un fatto storico. Finalmente la tutela dell’ambiente diventa un principio fondamentale della Repubblica a cui la legislazione futura si dovrà ispirare e a cui la legislazione passata si dovrà adeguare”, commenta Donatella Bianchi, presidente del WWF Italia. “Questa modifica costituzionale è un primo importantissimo passo che armonizza il nostro sistema con i principi formulati a livello europeo e internazionale e fatti propri dalla giurisprudenza costituzionale, di legittimità e di merito. Per dare concretezza a questi passaggi è ora necessario definire un sistema normativo organico e innovativo a tutela della natura d’Italia. Il nuovo assetto costituzionale rafforza significativamente il principio della sostenibilità, fin qui trattato solo in termini di dottrina e giurisprudenza, e crea il presupposto per aumentare il livello di salvaguardia del capitale naturale che costituisce la base insostituibile di tutte le nostre attività anche economiche”.

In Costituzione la tutela di animali e ambiente: «Una giornata storica». Adriana Logroscino su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.  

Modifiche a due articoli. Via libera della Camera con 468 sì Il governo Cingolani in Aula: «Il governo crede in questo cambiamento.  

La tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi e l’impegno a disciplinare «i modi e le forme di tutela degli animali» entrano tra i principi fondamentali della Costituzione. Ieri, con un voto favorevole ad amplissima maggioranza (468 sì, sei astenuti, un solo voto contrario) alla Camera, in quarta e definitiva lettura, la proposta di legge che modifica l’articolo 9 e l’articolo 41 della Carta, è stata approvata. «È una giornata epocale - commenta il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, presente in Aula - testimonio qui la presenza del governo che crede in questo cambiamento grazie al quale la nostra Repubblica introduce la tutela dell’ambiente tra i valori fondanti». Emozionata per il traguardo raggiunto «dopo decenni di battaglie» Michela Vittoria Brambilla, presidente dell’intergruppo parlamentare per i diritti degli animali e della Lega italiana per la difesa degli animali e dell’ambiente.

«Dell’aggettivo storico spesso si abusa, ma oggi possiamo adoperarlo propriamente e giustamente - dice Brambilla nella dichiarazione di voto a nome del gruppo di Forza Italia - questo voto è un sogno che diventa realtà. Un punto d’arrivo al quale lavoro con le mie proposte di legge da tre legislature, certo, ma anche un punto di partenza per norme più stringenti contro i reati a danno dell’ambiente e degli animali, purtroppo molto diffusi».

L’iter legislativo previsto per la modifica della Carta, si è quindi definitivamente concluso ieri alla Camera. Con il voto favorevole dei due terzi della maggioranza, l’entrata in vigore è immediata, senza la necessità di referendum confermativo. La modifica interviene sull’articolo 9 integrando la tutela di paesaggio e patrimonio storico e artistico, con quella dell’«ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni» e inserendo il richiamo a una «legge dello Stato» che «disciplina i modi e le forme di tutela degli animali».

L’altro intervento riformula l’articolo 41 della Costituzione, dedicato all’«iniziativa economica privata» che non deve «recare danno alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana» e ora neppure «alla salute e all’ambiente». «Per le azioni che facciamo oggi e per le conseguenze che ci saranno in futuro, è una conquista fondamentale e ci permette di avere regole ben definite per proteggere il nostro pianeta», commenta Cingolani.

Che la tutela dell’ambiente sia in Costituzione, per Brambilla, è la premessa per un’azione più decisa e risolutiva nella direzione delle «esigenze profondamente sentite nella società». Spiega la parlamentare: «Riconosciamo la tutela ambientale non come una “materia” o un “diritto soggettivo”, ma come “valore” di rango primario, trasversale, che interessa vari aspetti dell’agire e chiama in causa la responsabilità di ciascuno di noi. Esplicitare il valore-obiettivo della tutela ambientale ci aiuterà a rafforzare e a indirizzare il cambiamento, che per convinzione e per forza di cose è già iniziato nei nostri comportamenti personali, nelle abitudini delle famiglie, nel modus operandi delle imprese». Unanime, a testimonianza della inevitabile trasversalità del tema ambientale, l’apprezzamento da parte di forze politiche e associazioni ambientaliste. «Grande soddisfazione per l’affermazione di un principio di tutela intergenerazionale», conclude il ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini.

Fulco Pratesi: "Un'orsa mi fece posare il fucile. Ora è tempo di ridare più spazio alla Natura". Giacomo Talignani su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.

Per lo storico ambientalista e fondatore del Wwf la tutela dell'ambiente entrata in Costituzione è "una vittoria grandissima. Ma ora bisogna fare altri passi avanti per affrontare le grandi sfide della crisi climatica e la perdita della biodiversità". A 87 anni Fulco Pratesi, storico ambientalista e fondatore del Wwf Italia, dice che una rivoluzione così, con l'ambiente che entra finalmente nella Costituzione, non l'aveva mai vista. "È una vittoria grandissima: ora è tempo di ridare più spazio alla Natura". 

È soddisfatto per questa riforma? 

"Molto. Avere in Costituzione la parola biodiversità che si aggiunge a paesaggio, la quale si lega a Paese e richiama alla presenza antropica, è una grande rivoluzione costituzionale.

·        Economia circolare.

Riparazioni visibili, la moda critica contro il dominio dello stile usa e getta.  Marina Savarese su L'Indipendente il 12 novembre 2022.

“Riparare” fa parte delle 7 “R” che sono alla base dell’economia circolare: Ridurre, Riutilizzare, Riciclare, che erano le tre originarie, alle quali sono state aggiunte il Riparare, Ripensare, Rifiutare, Riproporre. Eppure sembra che si faccia sempre prima a buttare e ricomprare che ad aggiustare. La malsana abitudine del sostituire il vecchio/rotto con il nuovo è un’anomalia recente nella storia umana. Per millenni i vestiti sono stati così preziosi, così difficili da produrre e così essenziali per la vita, che il rammendo era una pratica comune a tutti. Basta tornare indietro di soli settanta anni e parlare con mamme e nonne per capire quanto la riparazione fosse un’operazione all’ordine del giorno. Le cose erano fatte per durare e non era di certo un buco a segnare la fine di un capo. Anzi.

Il kit del cucito era presente in tutte le case e saper tenere ago e filo in mano era la norma; in alternativa, la sarta o il sarto del quartiere erano sempre a disposizione per stringere, scorciare o trasformare abiti con maestria e santa pazienza. Un’usanza che è andata svanita nel tempo, soppiantata dalla velocità con la quale i marchi sfornano collezioni usa&getta a basso prezzo, che creano desideri e voglia di nuovo (basta pensare al fatto che vengono dati incentivi per il nuovo anziché spronare per riparare il vecchio). Già, perché è meglio andare in giro con dei nuovissimi jeans strappati sulle ginocchia che riparare quelli vecchi, che vengono buttati via proprio per colpa dello stesso buco.

Figli del consumismo, schiavi delle tendenze, succubi dell’obsolescenza programmata studiata a tavolino da grandi imprenditori per spingerci a comprare costantemente. 

Fortunatamente per ogni cosa esiste il suo opposto e per contrastare questo spreco tessile si sono formati, in maniera spontanea e per affinità di intenti (promuovere una moda lenta, attenta ed etica), gruppi di rivoluzionari che stanno riportando in auge l’antica arte del riparare, in maniera creativa e piuttosto visibile. 

Un gesto frutto della consapevolezza dell’impatto ambientale della moda, un rifiuto al far parte della catena dei rifiuti tessili; ed anche un modo per dare valore a quello che è già nell’armadio. “I care, I repair” (Io ci tengo, io riparo) è una delle frasi del libro manifesto “Love Clothes Last” (“I vestiti che ami durano a lungo”, ed. Corbaccio) di Orsola de Castro, designer e co-fondatrice del movimento internazionale Fashion Revolution, nel quale invita a utilizzare il rammendo come atto rivoluzionario, liberatorio e creativo. Dopotutto “Il capo più sostenibile è quello che è già nell’armadio”; perché non allungargli la vita, divertendosi? 

Il visible mending, a differenza delle riparazioni fatte dalle nonne, che dovevano essere nascoste, è qualcosa che si vede bene, che interrompe volontariamente la regolarità di un capo, che sbuca in maniera irriverente, quasi sfacciata, da una manica o sotto a un colletto. L’arte di riparare in maniera evidente, in realtà, affonda le sue radici nella cultura giapponese, che di questa storia dell’aggiustare ne ha fatto una filosofia di vita, quella del “Wabi-Sabi”: sapere cogliere e apprezzare la bellezza nell’imperfezione. Da qui riparazioni che si vedono, riparazioni che diventano arte, riparazioni che rendono l’oggetto più bello di prima. Perché le cicatrici sono segni della vita che scorre, segni del passato che determinano il presente. Come il Sashiko Stitching, letteralmente “piccole pugnalate”; una di queste arti praticabile a colpi di ago e filo, rigorosamente bianco, che crea disegni con cuciture minuscole che sembrano trattini. Come tutte le tecniche giapponesi ha bisogno di pazienza, dedizione ed un’attitudine Zen (utilizzabile anche come pratica meditativa). Con il termine Boro, invece, si indica una specie di patchwork multi-livello con cuciture a vista che somigliano a ricami, che vanno a costruire un tessuto prezioso composto di stracci. Un controsenso all’apparenza, in realtà è una tradizione che nasconde un insegnamento da rispolverare: “I Boro racchiudono i principi estetici ed etici della cultura giapponese come la Sobrietà e la Modestia (shibui), l’imperfezione, ovvero l’aspetto irregolare, incompiuto e semplice (wabi-sabi) e soprattutto l’avversità allo spreco (motttainai) e l’attenzione alle risorse, al lavoro e agli oggetti di uso quotidiano“. (Cit. dal libro “Boro: The art of Necessity”, K-J. Cottman, P. Holmberg)

Nel corso degli ultimi anni il visible mending è diventata una pratica diffusa, condivisa, utilizzata anche come momento di aggregazione durante serate dal vivo o online (nei tempi in cui uscire da casa era complicato), nelle quali poter apprendere nuove tecniche, scambiare consigli e confrontarsi. La riparazione visibile è stata anche il tema di una mostra, conclusa il 25 Settembre scorso, alla Somerset House di Londra, dal titolo “Eternally Yours: Care, Repair, Healing” (Eternamente tuo: Cura, Riparazione, Guarigione), che ha presentato diversi esempi di riutilizzo creativo, da campioni storici dell’arte giapponese di Kintsugi e Boro, fino alle opere di artisti contemporanei che mettono la riparazione al centro della loro pratica. Un modo per riflettere e celebrare la storia e il valore emotivo degli oggetti a cui teniamo, che vengono preservati e non scartati.

Niente più imbarazzo, quindi, ad andare in giro con capi “rattoppati”, perché la riparazione visibile non è un qualcosa di cui vergognarsi, bensì un segno di cura e attenzione da sfoggiare con orgoglio. È un atto d’integrità di cui andare fieri. Una rivoluzione silenziosa, gentile e creativa, che rende cool il capo e chi lo fa.

[di Marina Savarese]

·        L’Edilizia.

Antonio Giangrande. A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Condono edilizio, cosa dice la legge. Redazione il 16 Dicembre 2022 su Panorama

Si sente spesso parlare di condono, un termine per il quale esistono norme complesse all'interno delle quali bisogna muoversi con cautela

Di Carmen Chierchia, Partner, DLA Piper

Con il termine “condono edilizio” si intende una procedura edilizia speciale, introdotta in Italia per la prima volta nel 1985 (con la L. 47/1985), e poi replicata in altre due occasioni, nel 1994  (con la L. 724/1994, cd. “secondo condono”) e nel 2003 (con il Decreto legge 269/2003, il cd. “terzo condono”). Perché una procedura speciale? Il nostro ordinamento giuridico prevede che occorre premunirsi di un titolo edilizio prima che siano eseguiti dei lavori edilizi di costruzione o di modifica di un bene esistente. La procedura di condono scardina questo naturale ordine delle cose e prevede che opere abusive, ossia costruite o modificate senza permesso o con un permesso non valido, possano essere regolarizzate, “condonate” appunto, successivamente alla loro realizzazione. Si tratta di una procedura “speciale” anche perché è stata introdotta per regolarizzare abusi realizzati in determinate finestre temporali e, in particolare per le costruzioni realizzate entro il 1 ottobre 1983 per accedere al primo condono, entro il 31.12.1993 per il condono ed entro il 31.3.2003 per il terzo). Oltre queste fasce temporali (e quindi, dopo marzo 2003), il condono non è più applicabile; il nostro ordinamento, tuttavia, prevede la possibilità di accedere ad una procedura di regolarizzazione ordinaria, il cd. accertamento di conformità, previsto dagli articoli 36 e 37 del Testo Unico Edilizia, che soggiace ad altre condizioni. Le caratteristiche del condono. Non sempre le amministrazioni comunali hanno riscontrato le istanze ricevute, con provvedimento di condoni o, nel caso in cui non ci fossero i presupposti giuridici per provvedere, emanando dinieghi. Spesso, infatti, i comuni sono stati subissati da un numero imponente di domande che, in assenza di una struttura amministrativa adeguata per rispondere in tempi ragionevoli, sono rimaste pendenti per anni (anche decenni). Così il legislatore ha previsto lo strumento del silenzio assenso: decorsi 24 mesi dall’istanza, il silenzio serbato dal Comune equivale a titolo abilitativo in sanatoria. Tuttavia, la formazione del titolo per silenzio-assenso presuppone che la domanda sia stata corredata dalla documentazione necessaria e prescritta dalla legge, che non sia infedele, ossia che contenga documenti e dichiarazioni vere, sia stata interamente pagata l'oblazione e soprattutto l'opera non sia in contrasto con i vincoli di inedificabilità. Un aspetto molto importante è proprio quello del rapporto tra la procedura di condono e la presenza di vincoli territoriali. Anzitutto è bene chiarire che il termine “vincolo” in Italia racchiude molti significati: esistono i vincoli storici e artistici, paesaggistici (a volte denominati anche “ambientali” utilizzando un aggettivo previsto in norme non più in vigore), idrogeologici ecc. I vincoli possono portare all’inedificabilità assoluta oppure possono consentire l’edificazione a determinate condizioni. In aggiunta, oltre ai vincoli veri e propri, esistono anche le cd. fasce di rispetto, ossia aree che sono vicine a presidi di interesse pubblico (linee elettriche, ferroviarie, aeroporti ecc) e che prevedono limitazioni all’edificabilità. Cosa prevede la procedura di condono per queste aree? Il principio di fondo, sia pur articolato in modi differenti dalle leggi che l’hanno introdotto, è che il condono non può essere rilasciato se il bene insiste su un territorio vincolato. Ma esistono delle peculiarità cui è bene fare attenzione. Anzitutto, la L. 47/1985 (art. 33) prevede che la sanatoria in area vincolata è possibile a due condizioni (1) se il vincolo non comporta inedificabilità, ossia consente di costruire in determinate zone o a determinate condizioni e (2) se il vincolo è stato imposto dopo l’esecuzione delle opere, ossia al momento della costruzione l’area non doveva essere gravata da vincoli. Una previsione molto simile è contenuta nel cd. terzo condono che ha aggiunto anche il requisito della “minore rilevanza” , ossia che le opere sanabili fossero solo gli interventi edilizi che non comportano nuove costruzioni, in termini di superfici e volumi, e ricadessero pertanto nelle categorie della manutenzione o restauro. Veniva richiesto, inoltre, che le opere oggetto di domanda dovevano essere conformi alle norme urbanistiche e alle prescrizioni degli strumenti urbanistici. Nei casi in cui la procedura di condono è ammissibile, è centrale l’ottenimento del parere dell’autorità preposta alla tutela del vincolo (ossia la soprintendenza, l’autorità di bacino, ecc). Tuttavia, è bene precisare che se le opere sono difformi dalla disciplina urbanistica, l'incondonabilità non è superabile nemmeno con il parere positivo dell'Autorità preposta alla tutela del vincolo. Questo significa che il meccanismo di formazione tacita del permesso riguardo alle opere realizzate in area sottoposta a vincolo paesaggistico si perfeziona unicamente se è stato rilasciato il parere dell'autorità preposta alla gestione del vincolo, se l’opera è conforme alla normativa locale. È chiaro, quindi, che la procedura speciale del condono ha aperto molti fronti di incertezza: per le pratiche pendenti non può dirsi formato il silenzio assenso fino alla valutazione puntuale circa l’assenza di vincolo o, in caso di presenza, fino alla determinazione della data della sua apposizione, e all’ottenimento del parere dell’autorità competente. Si consideri inoltre che capita spesso che le aree siano sottoposte a più di un vincolo (le aree paesaggistiche sono anche sottoposte a tutela idrogeologica e viceversa). Il condono è una procedura che, attraverso una autodenuncia del proprietario, permetteva al privato di regolarizzare opere abusive e all’amministrazione centrale di fare cassa con le oblazioni connesse alla richiesta di sanatoria. Alla luce delle complessità che questo strumento ha causato, tant’è che se ne parla e si litiga in tribunale anche oggi a distanza di 35 anni dal primo condono e di 19 dal terzo, ci sarebbe da domandarsi se il legislatore abbia anche valutato se gli introiti fossero idonei anche a coprire l’enorme costo della macchina burocratica, connessa alla complessità di questo strumento.

L’abbattimento delle case private. Abusivo: Condonato e distrutto.

L’inerzia delle amministrazioni pubbliche: ambientalismo militante e toghe politicizzate.

Il privato con diritto alla casa, rinunciando all’assegnazione o all’occupazione abusiva di un appartamento pubblico, non aspetta i tempi biblici degli intimoriti amministratori che, per interessi privati o per lo spauracchio dell’abuso d’ufficio, negano il diritto ad una salubre esistenza, non adottando gli strumenti urbanistici adeguati, o non approvando in tempi accettabili un progetto lecito presentato. Il buon padre di famiglia provvede, per necessità, a dare un tetto ai suoi cari, investendo i risparmi di una vita. Chi è abituato a chiedere ed a ottenere una casa senza sudore della sua fronte in conto alla comunità, si oppone a tutto ciò.

Quello che non ci dicono. Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti, che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico). Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali. 

La vicenda di casa Cioce: “Un dolore indescrivibile”. “Quella casa non va demolita”, la Cassazione blocca tutto ma le ruspe l’hanno già abbattuta…Rossella Grasso su Il Riformista il 12 Novembre 2022

“La Cassazione ha detto che la nostra casa non doveva essere abbattuta ma le ruspe hanno già fatto il loro lavoro e della nostra casa, costruita con tanti sacrifici, non resta che un cumulo di macerie. Così come del nostro cuore”. Così la famiglia Cioce commenta la sentenza della Cassazione appena pubblicata, che ha accolto il ricorso dell’avvocato Bruno Molinaro che ha seguito la vicenda della casa ritenuta abusiva.  Tre righe durissime rispetto all’operato dei giudici di Appello: “Nel caso in disamina, il giudice di merito non ha ritenuto di disporre neppure la sospensione, pur non essendo ancora esaurita la procedura di condono edilizio e pur ritenendo che la proposta di riperimetrazione delle aree sottoposte a vincolo non fosse definita e completa”, si legge nella sentenza numero 42624 del 23 settembre 2022 che “annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio alla Corte di Appello di Napoli”.

“Villa Pina. 1992 A.Cioce” si leggeva a colori sulla facciata della palazzina costruita dai Cioce in via Brigata Bologna, a Fuorigrotta, quartiere di Napoli. La villetta era a ridosso della collina di Posillipo ed è lì che 30 anni fa nonno Antonio, capostipite di una famiglia di 7 figli e 14 nipoti, iniziò la costruzione della casa in cui avrebbe accolto tutti i suoi. In quella casa è raccolta una vita di sacrifici, mattone dopo mattone che dedicò a sua moglie Pina. Trenta anni dopo, con utenze accordate e bollette e condoni pagati, a novembre 2021 arriva la notifica di sgombero. La casa andava abbattuta perché costruita in un territorio a rischio idrogeologico.

La famiglia ha lottato strenuamente contro una miriade di problemi burocratici e tecnici per dimostrare che la loro casa non insisteva su un terreno a rischio idrogeologico. A colpi di perizie, costate tanti soldi, e di proteste, la famiglia era riuscita ad ottenere “esito positivo” per l’avvio della “procedura di aggiornamento delle mappe del Piano Stralcio di Assetto Idrogeologico dell’Autorità di Bacino”. Aveva anche proposto l’autodemolizione dei volumi in più della struttura al fine di ottenere un favorevole giudizio di condonabilità. Ma quando tutto sembrava che stesse andando per il verso giusto, sono arrivate le ruspe sotto casa loro. E non c’è stato nulla da fare. La casa, costruita con una vita di sacrifici è stata buttata giù in poche ore.

“Nulla ha potuto – ha dichiarato l’avvocato Molinaro – l’istanza di sospensione che presentammo a cui i giudici incredibilmente non hanno mai nemmeno risposto, pur avendo acquisito copia del ricorso per Cassazione nel giugno scorso. Eppure i tempi per risolvere il problema del vincolo idrogeologico e la questione condono erano brevi. Per la prima volta in Italia la Cassazione bacchetta i giudici dell’Appello per non aver sospeso l’esecuzione della demolizione effettuata nelle more del giudizio. La Procura intanto era andata avanti forte della ordinanza illegittima della Corte territoriale e aveva proceduto senza indugio, quale stazione appaltante, alla eliminazione delle opere. Una esecuzione che non teneva conto nemmeno dei problemi della famiglia, con un nonno anziano e allettato e una bambina piccola, che non sapevano dove andare”.

L’avvocato aveva fatto ricorso e impugnato l’ordinanza che stabiliva la demolizione ma non è servito a nulla. “Citeremo per danni lo Stato italiano per l’errore giudiziario commesso dai giudici della Corte d’Appello  – continua il legale – per non avere questi ultimi inteso salvaguardare il bene della vita invocato quale causa di incompatibilità con l’abbattimento e, quel che è più grave, per aver omesso ogni valutazione, positiva o negativa, della istanza di sospensione presentata dopo la proposizione del ricorso per Cassazione, nonostante il pericolo di pregiudizio grave e irreparabile. Una condotta inspiegabile, sbagliata e disumana”. E che la Cassazione ha bocciato, ma era ormai già troppo tardi.

“In Italia, più dei politici e dei grandi burocrati, sono i magistrati a detenere le leve del potere – continua Molinaro – perché, salvo casi limite, dietro lo scudo della interpretazione delle norme non rispondono mai dei loro errori. Ed è paradossale che chiunque faccia un qualsiasi lavoro, come anche l’avvocato, il medico o l’ingegnere, se sbaglia paga, nel mentre ciò non vale per i magistrati tranne che in caso di dolo o colpa grave. Eppure la Corte di giustizia UE qualche anno fa ha pesantemente stigmatizzato il comportamento lassista ed omissivo dell’Italia sul tema ma la successiva legge del 2015 ha solo rappresentato un timido tentativo di affrontare il problema. Nella vicenda della famiglia Cioce, oltre ad una casa in macerie, ci sono vite umane distrutte. Non è tanto un danno economico quello che hanno subito quanto umano e morale. E questo è sicuramente irreparabile. È come se inermi fossero stati messi davanti a un plotone di esecuzione”.

L’avvocato nel commentare la vicenda è amarissimo: “Quello che è successo alla famiglia Cioce dovrebbe indurre i nostri governanti a fare una riflessione: di tutto questo chi risponde? I giudici o i cittadini? Talvolta i giudici chiamati in causa dicono di essere assicurati, ma le loro coscienze possono essere garantite da una polizza? A questo si aggiunge, nella situazione dei Cioce, anche il costo rilevantissimo della demolizione subita, che alla fine graverà sui cittadini”. 

Per la famiglia Cioce si è trattato di una vera e propria via crucis a tappe. Lo sgombero è iniziato il 16 novembre, poi il 10 maggio hanno iniziato la demolizione e il 5 giugno era tutto finito. La casa non c’era più, al suo posto solo uno striscione con su scritto: “Casa Cioce demolita per errore burocratico”. “Ci hanno buttati fuori casa con il nonno anziano e allettato e una neonata – raccontano i Cioce – Al nonno avevano proposto il ricovero in ospedale, a mamma e neonata una casa famiglia. Nonna e uno dei suoi figli non sapevano dove andare, e lei ha anche avuto un infarto, non è in salute. Ma ora sentiamo che almeno un po’ di giustizia è stata fatta. Lo dobbiamo al nonno Antonio, un onesto lavoratore che ha sofferto tantissimo nel vedere quella casa crollare”.

I Cioce non hanno mai mollato nemmeno per un istante la loro battaglia. Nemmeno davanti alle ruspe. “Quando sono arrivate e hanno iniziato ad abbattere ho pianto come una bambina, è stato un dolore troppo grande – racconta nonna Pina – Un dolore enorme anche per i bambini che si sono visti togliere quello che per loro era come un parco giochi. Hanno sofferto tanto, le maestre ci raccontavano che a volte li vedevano come persi. La nostra fortuna è stata quella di essere una grande famiglia unita. Ci siamo dati man forte a vicenda, anche nei momenti più bui. E non abbiamo mai perso la speranza. Ringraziamo con tutto il cuore l’avvocato Molinaro che ci è sempre stato vicino come una persona di famiglia, che ci ha sempre sopportato e supportato”.

Nonna Pina racconta di quando suo marito tornava dal lavoro e si metteva a spianare quella zona del terreno acquistato, a mano con la pala. È come se sentisse ancora l’odore acre di quel sudore e delle mani che mettevano mattone su mattone per alzare mura. “Non ci siamo fatti mai un viaggio, mai uno sfizio: tutto quello che guadagnavamo era per la nostra casa, il nostro sogno – continua la nonna – Nessuno credeva che avevamo ragione. Quello che abbiamo passato, la sofferenza, l’ansia nel vedere buttata giù la casa non lo posso descrivere. Nemmeno tutto l’oro del mondo potrà ripagare tutto questo dolore”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Massimiliano Jattoni Dall’Asén per corriere.it il 20 settembre 2022.

Edilizia libera per l’installazione delle vetrate panoramiche amovibili, ovvero le Vepa. Un emendamento alla legge di conversione del decreto Aiuti bis, approvato in Senato (articolo 33-quater che modifica il Testo Unico Edilizia), ha fatto rientrare questa particolare categoria di vetrate nei lavori che non necessitano di un permesso dal Comune. Vediamo di spiegare meglio cosa cambia. 

Cosa sono le Vepa?

La novità riguarda, come detto, le vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasparenti. Questa categoria di vetrate sono dette Vepa, un acronimo sillabico per indicare, appunto, le vetrate panoramiche amovibili installate per la ridurre le dispersioni termiche e per il risparmio energetico, ma anche per la messa in sicurezza e per una maggiore fruizione di verande e balconi. 

Come spiega l’Assvepa, l’associazione italiana vetrate panoramiche, queste strutture permettono di schermare, ombreggiare e di coibentare parzialmente, migliorando le prestazioni energetiche di una parte dell’edificio, ma anche di impermeabilizzare dalla pioggia i balconi e le logge. In genere questi sistemi sono scorrevoli e si aprono e chiudono a seconda del bisogno. La loro principale caratteristiche è quella di poter essere rimovibili.

Cosa cambia?

Questo tipo di vetrate finora si trovavano in una sorta di limbo, alla mercé cioè delle interpretazioni dei vari Comuni: per alcuni infatti si potevano installare senza problemi, per altri l’autorizzazione veniva negata perché erano considerate un modo per aumentare i volumi dell’abitazione. Ora, con l’inserimento nell’edilizia libera, installare queste vetrate diventa più facile. 

Si possono cambiare i volumi?

Come detto, quello dei volumi era un elemento che gettava ambiguità sull’installazione delle vetrate panoramiche. L’emendamento ha chiarito che le Vepa, assolvendo a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, non modificano i volumi dell’appartamento o della villetta.

E questo rimane un vincolo alla loro installazione: L’emendamento, infatti, specifica che le Vepa sono permesse nell’edilizia libera purché : «non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente reazione di volumi e di superfici, come definiti dal Regolamento edilizio tipo, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile anche da superficie accessoria a superficie utile». 

Verande, balconi e terrazze ora si possono chiudere senza permessi con vetrate amovibili: le regole da rispettare. Valentina Iorio su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.  

L’installazione di vetrate panoramiche amovibili e trasparenti, ovvero le Vepa, su verande e balconi si potrà eseguire senza permessi. Con l’emendamento all’articolo 33 quater del decreto Aiuti bis, approvato in via definitiva al Senato martedì 20 settembre, rientrano nei lavori in edilizia libera. La loro installazione può consentire un risparmio energetico del 27,6%, secondo le stime di Assvepa, l’associazione che riunisce i produttori del settore. Per poterle installare però è necessario rispettare determinati requisiti. Vediamo quali.

Volumetria: vietato aumentarla

Il primo vincolo riguarda il divieto di aumentare la volumetria della proprietà. Per questo è indispensabile che le vetrate siano amovibili. L’articolo 33 quater del decreto Aiuti bis, infatti, precisa che l’installazione è ammessa «purché tali elementi non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici, come definiti dal regolamento edilizio-tipo, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile anche da superficie accessoria a superficie utile».

La microareazione

Il decreto Aiuti bis prevede anche che affinché l’installazione di vetrate panoramiche amovibili e trasparenti si possa eseguire senza permessi tali strutture devono favorire «una naturale microaerazione che consenta la circolazione di un costante flusso di arieggiamento a garanzia della salubrità dei vani interni domestici »

Impatto visivo minimo

Un altro requisito indispensabile è che una volta installate le Vepa abbiano un impatto visivo minimo. A questo proposito la norma dice che devono «avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l’impatto visivo e l’ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche».

Miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche

Infine l’installazione delle vetrate panoramiche amovibili deve avere come scopo il miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche dell’edificio. L’articolo 33 quater parla infatti di Vepa «dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell’edificio o di logge rientranti all’interno dell’edificio».

·        Il Mare.

Dall’ 11 marzo 2011, ogni giorno si carica una bombola e la cerca nell’oceano gelido. L’amore eterno dopo lo tsunami: “Da 11 anni mi immergo per cercare mia moglie nel mare”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Ottobre 2022 

Quella di Yasuo Takamatsu, 65 anni è la storia di un grande amore. L’11 marzo 2011 il terribile tsunami che si abbattè sul Giappone gli ha portato via la sua adorata moglie Yuko. Il suo corpo non è mai stato ritrovato e lui non si dà pace: vuole trovarlo e avere un posto dove piangerla. Ogni settimana si immerge nelle acque della sua regione, Onagawa. Lo farà finchè il suo corpo si muoverà. Il suo amore per la moglie è talmente grande e sacro da superare qualsiasi difficoltà.

Quando lo tsunami colpì il Giappone, Yasuo, autista di autobus, era a casa a spazzar via i detriti lasciati dal terremoto delle ore precedenti. La moglie era a lavoro in banca. Subito dopo il terribile terremoto che devastò la regione Thoku, Yasuo iniziò a cercare sua moglie via terra. Ha passato al setaccio la zona dove la moglie lavorava in banca, poi gli edifici circostanti, la costa, la foresta e le montagne. Niente, della sua Yuko nessuna traccia. Trovò però il cellulare della moglie e così la speranza che forse stava andando nella giusta direzione. Nel telefono trovò anche l’ultimo messaggio di sua moglie per lui, che non riuscì mai a mandare: “Stai bene? Voglio tornare a casa”.

“Sono sicuro che vorrebbe ancora tornare a casa”, ha raccontato Yasuo. Con il telefonino, recuperato mesi dopo, Yuko aveva provato a inviare un altro messaggio al marito: “Questo tsunami è disastroso” ma queste parole non era riuscita a spedirle. Così si è fatto animo e coraggio e ha deciso di iniziare a cercarla in mare. A settembre 2013 decide di contattare una guida e prendere il brevetto da sub per poterla cercare nelle acque costiere del Pacifico. “Ho 56 anni – aveva detto all’istruttore Masayoshi Takahashi – voglio imparare a immergermi perché voglio trovare mia moglie nel mare”.

Quando le onde gigantesche e violente avevano distrutto tutto, Yasuo si era ritrovato nell’ospedale di una città vicina, insieme alla suocera e non gli era stato permesso di tornare a Onagawa, che nel frattempo era diventata un cumulo di macerie, uno scenario apocalittico dove le barche dei pescatori si erano frantumate contro auto ed edifici. Il giorno dopo tornò sulla collina che avevano allestito come punto di ritrovo per gli sfollati. “È stato in quel momento che mi è stato detto che tutti gli impiegati della banca di mia moglie erano stati spazzati via dall’acqua”, ha raccontato. “Ho sentito le mie ginocchia cedere, non ho più sentito il mio corpo”. Durante tutte le immersioni, che pratica una volta alla settimana da quasi dieci anni, Yasuo indossa una muta, si carica una bombola sulla schiena e si tuffa nelle acque gelide dell’oceano insieme all’istruttore subacqueo Masayoshi Takahashi. Quest’ultimo tiene aggiornate costantemente le mappe e i registri delle aree che sono già state battute, a volte anche più di una volta perché le correnti spostano in continuazione i detriti.

Il violento tsunami dell’11 marzo 2011 è stato il più violento in Giappone e il quarto peggiore della storia. causa del sisma e dello tsunami successivo – che ha distrutto i generatori di emergenza che alimentavano i sistemi di raffreddamento di tre dei reattori della centrale nucleare di Fukushima – sono morte circa 20mila persone, quasi mezzo milione sono rimaste senza una casa e 2500 sono ancora disperse. Una di queste, è Yuko, almeno finché Yasuo non l’avrà ritrovata.

Elena Del Mastro.  

Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(Askanews il 29 luglio 2022) - Tutti i valori sul batterio Escherichia Coli registrati nei giorni scorsi lungo la costa romagnola del Mar Adriatico sono "rientrati ampiamente nella norma" tanto che "già nel pomeriggio sono attese le ordinanze dei sindaci di ritiro dei divieti temporanei di balneazione. 

I valori delle analisi aggiuntive dei campioni fatte da Arpae in tutti e 22 i punti della Costa romagnola che risultavano ancora fuori norma, sono infatti risultati sottosoglia". Lo ha annunciato l'assessora regionale all'Ambiente, Irene Priolo.

Secondo i tecnici, le ipotesi per spiegare i risultati, anomali, dei campionamenti effettuati martedì 26 luglio sono al momento riconducibili a un insieme di condizioni meteorologiche, idrologiche e marine del tutto eccezionali per la Romagna: la temperatura dell'acqua molto elevata da diverse settimane, con valori oscillanti intorno ai 30 gradi, la prolungata assenza di ventilazione, lo scarso ricambio delle acque, la mancata diluizione delle immissioni nei corsi d'acqua che arrivano al mare, a causa della forte siccità di questo periodo. 

Tutti elementi, questi, che sommandosi potrebbero aver avuto un effetto particolarmente impattante sulla composizione delle acque del mare. 

Il miracolo di Rimini, l’acqua inquinata tornata pulita in 24 ore. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 29 luglio 2022

Partiamo dall’inizio. Il 28 luglio, in Emilia-Romagna, arriva la mazzata:  l’Arpae, ovvero l’Agenzia prevenzione ambiente/energia dell’Emilia-Romagna, impone il divieto temporaneo di balneazione in ben 28 aree della riviera emiliano-romagnola.

Il comune di Rimini, il giorno dei campionamenti di Arpae, aveva fatto analizzare le acque anche da un laboratorio autonomo (Lav). Evidentemente si fida molto dell’ente regionale Arpae. O ne teme i responsi, chissà.

E infatti il laboratorio autonomo dice il contrario di quello che sostiene Arpae: il mare a Rimini te lo puoi anche bere.

Quello che sta accadendo in Emilia-Romagna con divieti di balneazione revocati in 24 ore è una storia da manuale pratico dell’inverosimile.

Si parla di Cervia, Bellaria, Rimini e altre località nelle quali in vista del Ferragosto si stanno per riversare milioni di turisti (oltre quelli che sono già lì). Il problema è serio: dopo i prelievi di martedì 26 luglio è stato rilevato un grave superamento dei limiti normativi dei livelli di Escherichia coli ed Enterococchi intestinali nelle acque di mezza costa. Insomma, un disastro, visto che i rischi non sono solo problemi intestinali, ma conseguenze più gravi soprattutto per bambini ed anziani (sindrome emolitico uremica).

Per parlare chiaro: significa che quel mare non è balneabile secondo un serio indicatore di contaminazione fecale. Inutile dire che il divieto ha provocato fulminei (e anche comprensibili) crampi intestinali alla regione e a tutto il comparto turistico. Panico. Nel giro di poche ore dall’annuncio si consuma il primo miracolo: tornano idonee alla balneazione le spiagge di Cervia, Bellaria-Igea Marina e Rimini. Così, di botto.

Le avranno fatte bollire nel pentolone della mensa militare. Anzi no. Il comune di Rimini, il giorno dei campionamenti di Arpae, aveva fatto analizzare le acque anche da un laboratorio autonomo (Lav). Evidentemente si fida molto dell’ente regionale Arpae. O ne teme i responsi, chissà. E infatti il laboratorio autonomo dice il contrario di quello che sostiene Arpae: il mare a Rimini te lo puoi anche bere.

Fresco, pulito, cristallino. Bizzarro no? Roba che se fossi il presidente Stefano Bonaccini chiederei il licenziamento in massa di tutti i dipendenti dell’Arpae che boicottano il turismo commettendo errori grossolani. Fatto sta che nel giro di altre 24 ore avviene il secondo miracolo: i parametri del batterio nel mare della riviera emiliano-romagnola rientrano nei limiti in tutte le aree. Tutte e 28 eh.

Abbiamo scherzato

Neppure una a rischio tenue dissenteria. Niente. Abbiamo scherzato. I tecnici non sanno che pesci pigliare (e se fidarsi a pigliarli, in quelle acque) e allora, perfettamente coordinati con la regione, affermano che i risultati anomali dei rilevamenti del 26 luglio potrebbero essere stati causati dal caldo e dalla siccità. Resta da capire cosa sia cambiato dal 26 luglio al 28 luglio a livello climatico, visto che a dirla proprio tutta il 28 e il 29 luglio da quelle parti faceva anche più caldo.

Infine, il capolavoro finale, ovvero le parole dell'assessora regionale all'Ambiente Emilia-Romagna Irene Priolo la quale, in un’epica conferenza stampa, annuncia: «Per il futuro non sarei assolutamente preoccupata, anche se non possiamo escludere in maniera assoluta che episodi simili non si ripresentino». 

Insomma, lei non è preoccupata (forse andrà in vacanza in montagna), però vediamo. Già, ma vediamo quando, visto che in quel mare stanno per fare il bagno milioni di turisti tra cui tanti anziani e bambini? «La prossima rilevazione sarà il 22 agosto», annuncia l’assessora. Ma tu guarda. Dopo la settimana di Ferragosto.

Considerato poi che per avere i risultati passa qualche giorno, la stagione turistica è al riparo. E non importa che le fogne lavorino a pieno regime proprio con case e hotel pieni, per cui i controlli andrebbero fatti proprio sotto Ferragosto, per non mettere a rischio la salute dei turisti. L’importante è salvare l’economia del comparto turistico, mica la salute dei cittadini. 

Nel frattempo, si è aperto da poco il processo che vede tra gli imputati l’ex sindaco di Riccione Renata Tosi: è accusata di non aver fatto posizionare i cartelli di divieto di balneazione nel 2015 e al 2016, dopo che era stata superata la soglia di escherichia coli. Chissà, magari un nipote aveva analizzato le acque col “Piccolo Chimico”, rassicurandola: tutto ok, zia. 

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Una notte sul peschereccio, tra preghiere e caffè: «I rifiuti degli yacht nelle reti insieme con i pesci». Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Leuca, i 30 anni di mare di Ottavio: «È una vita sfiancante, ma anche magica. Ogni tramonto lo stesso gabbiano mi accompagna a casa». 

Son notti e giornate come queste, a bordo: fischi di tramontana — che il pazzo pestifero scirocco non s’inventi imboscate —, piedi nudi per meglio ancorarsi, angurie per pranzo, mani consumate da minatori, urla per farsi sentire, sussurri d’incoraggiamento al motore affinché non si pianti di colpo proprio qui, una permanente estasi dinanzi all’alba rosa, viola e gialla, esultanze per i carichi di calamari, balzi sulle onde, certe logore mappe da pirati, la cabina con i letti, o meglio coperte sul pavimento di assi scolorite. 

E son vite di mutui e preghiere, preghiere e mutui pur di non rinunciare a un mestiere «antico e duro, anzi bastardo, di fatica bestiale, e però magico, pieno d’amore». 

Proprietario e comandante d’un peschereccio, Ottavio Galati (si pronuncia accentando la seconda «a»), sposato, due figli, Giuseppe studente di Economia e Federica ballerina, è un assai ostinato 51enne in direzione contraria. 

Da mozzo a cuoco

Del resto, nell’Italia degli ottomila chilometri di coste ancora ci piantiamo allo strombazzato Chilometro Zero: «Coi colleghi, una vita fa chiedemmo un piccolo spazio per la vendita diretta, una volta sbarcati. Bastano delle bancarelle, le spese per l’amministrazione sarebbero basse e verrebbe garantito il rispetto delle regole. Continuiamo ad aspettare». Ormai, stupirsi delle lungaggini equivale a un reato. «Con le reti, insieme ai pesci tiriamo su gabinetti, computer, materiale edile, pneumatici. Roba gettata da navi e yacht, o mollata a riva e veicolata dalle correnti. Prima del recente decreto “Salva mare” non potevamo portare a terra l’immondizia, se ti beccavano erano multe». 

Dunque, Leuca, lembo peninsulare, provincia di Lecce. Nella seconda metà dell’Ottocento la famiglia Galati aprì una breccia. I proprietari terrieri dell’interno scelsero il paese per la villeggiatura edificando magioni — portici, fichi d’India, gatti, amache, colori tenui — sulla strada parallela al lungomare. E i loro domestici, guardiani, contadini e stallieri quali i Galati, attaccarono a pescare variegando la cucina dei padroni. I Galati trasformarono la pratica in attività lavorativa. «Dai diciott’anni mi sono fatto la trafila: mozzo, cuoco, capopesca, comandante. Orgoglio, testa dura. Ci penso, a cambiare: però, alla mia età, chi m’assume?». Ma si capisce che non è soltanto questo.

Mogli, mariti

L’inizio del turno lavorativo, alle quattro del mattino, ricorda quello di marescialli e autisti: le compagne che ugualmente si alzano così da condividere il caffè e in fondo benedire la partenza. Ottavio e la moglie Assuntina fanno colazione al buio, in veranda. «Lo vedi quel palo della luce? Quando rincaso, si posa sopra un gabbiano. Lo stesso che incrocio in mare aperto. Non è un’invenzione, giuro. Mi segue». Come i delfini. «Affiancano l’imbarcazione, pronti al nostro lancio di cibo». 

Ai piedi di Ottavio, un borsone a tracolla. «Mai dimenticarselo». Dentro: documenti, pratiche timbrate, fotocopie, permessi da questo e quell’altro e quell’altro ente ancora... Il peso della burocrazia nell’anacronistico vincolo alla carta anziché alla digitalizzazione. Ma poi, Internet… «Nella fase di uscita dal porto, oltre che la Capitaneria dobbiamo informare il ministero dell’Agricoltura. Peccato che il segnale per effettuare la comunicazione spesso salti, e senza aver ricevuto la conferma da Roma non possiamo muoverci».

D’estate di questi tempi

Conviene omettere, per evitare un esercizio banale, l’ovvio senso d’invidia verso la libertà di Ottavio e quelli come lui, lontani dalle città- scatolifici, dall’aria infame, dalle malate dinamiche di uffici e colleghi. «Lascia perdere: il novanta per cento delle persone durerebbe due ore al massimo. Intanto c’è il mare. Da temere. Certo, le previsioni del tempo, dei venti… Ma lui, il mare, fa d’improvviso di testa sua. Capitò una burrasca, il radar andò fuori uso e per forza dovevo cercare di uscire da quel punto sennò saremmo affondati… Salimmo in cima a girare a mano le pale di quel disgraziato radar». Il mare che fa di testa sua… «Una buona pesca non è scontata. Capita di non pareggiare nemmeno le spese». Tipo il gasolio? «Non è per piangere, ma oggi viene un euro e venti al litro. A me servono trecento litri quotidiani… Fai il calcolo… Ne sono successe di cose, per carità, a cominciare dalla guerra, povera gente… Però credo ci sia stata una speculazione». 

Anche in questa colta Leuca (eventi letterari, scaffali di libri negli hotel), come in ogni località vacanziera i prezzi hanno registrato aumenti. Tacendo degli stabilimenti balneari, protetti dalla possibilità d’avere le concessioni quasi gratis di generazione in generazione, e capaci di chiedere 4 euro per un parcheggio di mezz’ora dopo il tramonto su un pezzo di prato sabbioso, i ristoranti ormai stampano scontrini osceni. E a catena, bisogna sopravvivere. «La mia è pesca a strascico, calando le reti sui fondali. Cerco di privilegiare i gamberoni: garantiscono maggiori guadagni». 

La pesca a strascico è condannata dagli ambientalisti con l’accusa di devastare ecosistemi, operando una caccia indiscriminata; una pratica barbarica che andrebbe abolita. Ottavio allarga le braccia.

La disfida dell’acqua

Girando in paese, s’ode la storia d’un tizio che usufruisce del reddito di cittadinanza, collegato alla proprietà di un baretto modaiolo che spara 10 euro per un aperitivo con quattro olive. Il che esaspera la mestizia verso il generale andazzo. 

Alla pari del popolo in bikini e infradito che vaga nelle commoventi chiese spingendo passeggini — i bimbi guardano i cartoni sui cellulari — e si esibisce vanesio nel modernissimo porto delle imbarcazioni private, confinante con quello dei pescatori. E laddove nel primo un puntuale sistema di pozzetti permette di lavare per ore gli scafi, nel secondo quei pozzetti non funzionano. «Hanno chiuso l’acqua ripetendo che la sprecavamo». 

Il peschereccio di Ottavio è lungo 17 metri e porta il nome della figlia Federica; sopra l’imbarcazione già trafficano il cugino Corrado, 52 anni, e il terzo membro dell’equipaggio, Michele D’Amico, 62 anni. Controllano l’albero-motore, l’esterno, gli argani. Ottavio manovra ed esce dal porto. Le nuvole paiono profili di montagne. «Non esiste una zona precisa dove calare le reti. Contano l’esperienza, l’intuito. Io me la gioco anche dove i colleghi non vanno». Superiamo uno yacht monumentale, fermo; camerieri in livrea ordinano sedie e tavoli. Ottavio cala le reti. L’operazione dura mezz’ora: quando le reti raggiungono i fondali, anche a cinquecento metri, il peschereccio prosegue a oltranza la sua rotta. In un ambiente infido: l’incrocio delle correnti adriatica e ionica. Un incrocio generatore di scontri. O forse no.

L’«intellettuale»

La poetessa Denata Ndreca dice che questo è il tratto del fluire. È di origini albanesi. E albanese era Aptim. «Avevamo fatto un’ottima pesca ma decidemmo un’altra calata. Sentimmo urlare. “Help, aiuto!”. C’era un uomo in mare. E non è che guido una macchina, non posso sterzare a piacimento, avendo sotto le reti... Riuscimmo a recuperarlo. Aveva mani e piedi rosicchiati dai pesci. Dei galleggianti artigianali. Un coltellino. Una pinna costruita con filo elettrico. Aveva lasciato l’Albania su un vecchio motoscafo, con fratelli e cugini. Il motoscafo s’era scassato. Lui, in quanto più anziano, pur avendo vent’anni, s’era avventurato in cerca di soccorsi. Scoprimmo dalla Capitaneria che un elicottero aveva visto il motoscafo ed erano scattati i soccorsi. Aptim stava in mare da due giorni… Un ragazzo dai modi educati, elegante nella postura. Parlava l’inglese, che noi ignoravamo… No, non l’ho più cercato… Sarà diventato un intellettuale, ne aveva l’aria, mentre io non sono altro che un pescatore».

Legambiente: «Fuorilegge il 32% di acque di mare e laghi in Italia». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Il bilancio di Goletta Verde e Goletta dei Laghi 2022, le due campagne itineranti di Legambiente condotte in 18 regioni e 37 laghi italiani

In Italia è «fuorilegge» il 32% delle acque costiere e dei laghi analizzate da Legambiente durante le campagne Goletta verde e Goletta dei laghi 2022 in cui è stato trovato «inquinato o fortemente inquinato» quasi un campione su tre prelevato e sottoposto ad analisi microbiologiche in 18 regioni e 37 laghi. Il 55% dei punti critici, spiega l’organizzazione ambientalista «si concentra in foci di fiumi, canali e torrenti: tra mala depurazione e scarichi abusivi» e l’Italia resta un Paese «malato cronico». 

Sono 387 i campioni sottoposti ad analisi microbiologiche, di cui 124 oltre i limiti di legge per concentrazione di Enterococchi intestinali ed Escherichia coli. Sorvegliati speciali, anche in questa stagione di monitoraggio — compiuto dal 20 giugno al primo agosto da oltre 200 volontari di Legambiente — foci di fiumi, canali e torrenti, «i principali veicoli con cui l’inquinamento causato da cattiva depurazione o scarichi illegali arriva al mare e nei laghi». In particolare, dei 188 «punti critici» di questa tipologia monitorati da Legambiente (sui 387 complessivi), 103 (55%) sono risultati oltre i limiti di legge. Nei restanti 199 punti campionati a mare o nelle acque lacustri, invece, i valori rilevati hanno superato il limite di legge soltanto in 21 casi (l’11%), è stato precisato durante la presentazione dei risultati. Più in dettaglio, il 31% dei punti campionati da Goletta Verde nei mari italiani (83 su 261) ha restituito valori oltre i limiti di legge: in media, un punto inquinato ogni 91 chilometri di costa. 

Oltre i limiti di legge, in particolare, il 55% delle foci campionate, il 42% delle quali è risultato «fortemente inquinato» secondo il giudizio del programma scientifico della Goletta Verde. Una dimostrazione, sottolinea Legambiente, «del fatto che i pericoli di una cattiva o assente depurazione sono la principale minaccia per la salute dei nostri mari e che c’è ancora molto da fare per recuperare il deficit impiantistico e della rete fognaria». Oltre i limiti di legge il 33% dei punti campionati dalla Goletta dei Laghi, ossia 42 su 126 prelievi eseguiti in 37 laghi e distribuiti in 11 regioni. Il 53% dei prelievi eseguiti presso foci, canali e punti critici (32 punti campionati su 60) è risultato oltre i limiti di legge consentiti per le acque superficiali e interne. Ancora una volta, osserva l’associazione, risultano compromessi soprattutto i corsi d’acqua che ricevono scarichi abusivi non collettati o non depurati, provenienti da impianti inadeguati o guasti, su cui bisogna investire risorse per risolvere il problema della depurazione in Italia.

Valentina Iorio per corriere.it il 3 agosto 2022.

Il mare più pulito d’Italia si trova in Puglia, al secondo posto c’è la Sardegna e al terzo la Toscana. A stilare la classifica è il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente, sulla base del monitoraggio effettuato dal personale delle Agenzie regionali e delle province autonome per la protezione dell’ambiente, gli enti pubblici che, insieme a Ispra, formano il sistema.

Arpa Puglia: «Controlli periodici»

«Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti — spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia — e siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio e seconda solo per il numero di punti monitorati, dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso».

La classifica

Anche quest’anno sono molte le regioni in cui oltre il 90% di acque è considerato eccellente, sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. In particolare la Puglia ha il 99% di acque eccellenti, la Sardegna il 97,6% e la Toscana il 96%. Seguono Emilia-Romagna con il 93,8% di acque eccellenti, Veneto con il 91,4%, Friuli- Venezia Giulia con il 90,9%. Tra le regioni che hanno oltre l’80% di acque eccellenti ci sono: Marche (89,8%) Basilicata (86,7%), Liguria (86,3%) , Calabria (85,5%), Lazio (84,1%), Molise (83,3%), Campania (82,8%) e Sicilia (80,6%). In fondo alla classifica c’è l’Abruzzo con il 71,9%. 

Come vengono fatte le analisi

In totale ogni anno vengono effettuate le analisi su circa 30.000 campioni prelevati nei mari e nei laghi italiani, spiega il Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente. I dati del quadriennio 2018-2021, pubblicati sui siti delle diverse Arpa/Appa, sul portale acque del Ministero della Salute e dalla Agenzia Europea dell’ambiente, che ha realizzato anche una mappa interattiva, hanno portato al giudizio che resterà in vigore per tutta la stagione balneare 2022: da scarso (meno del 2% dei casi) a eccellente (89%). 

Con i controlli della balneazione vengono monitorare anche le alghe potenzialmente tossiche, la cui presenza è correlata al riscaldamento globale. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.

Puglia prima in Italia per la qualità delle acque di balneazione, eccellenti al 99%. L'esito del monitoraggio Snpa e Arpa Puglia. La regione è seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%). Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Agosto 2022.

La Puglia si conferma prima in Italia per l’eccellenza delle acque di balneazione, seguita da Sardegna e Toscana: i dati rilevati da Snpa e Arpa Puglia. Le acque di balneazione sono eccellenti al 99%, seguita da Sardegna (97,6%) e Toscana (96%).

È quanto emerge dal lavoro di controllo e monitoraggio condotto dal Sistema nazionale per la protezione dell’ambiente  la rete che coordina le varie Agenzie regionali per l’ambiente presenti sul territorio nazionale tra cui l’Arpa Puglia. Una attività disciplinata dalla direttiva comunitaria 2006/7/CE, che stabilisce le regole della classificazione in tutta la Comunità Europea delle acque di balneazione nelle quattro classi di qualità: eccellente, buona, sufficiente e scarsa.

“Accogliamo con soddisfazione gli esiti del monitoraggio delle acque di balneazione pugliesi – ha detto l’assessore regionale all’Ambiente, Anna Grazia Maraschio -, condotto in maniera efficiente e preziosa da Arpa Puglia, riferimento  per le politiche ambientali della Regione Puglia, risultate "eccellenti" per il secondo anno consecutivo e prime in Italia per qualità. Siamo consapevoli che questi risultati non si raggiungono per caso o per fortunate congiunture, ma sono frutto di anni di programmazione ed attuazione, in piena collaborazione con tutti gli Enti coinvolti: da Acquedotto Pugliese ad Autorità Idrica Pugliese fino ad Arpa che non smetteremo mai di ringraziare per professionalità ed  abnegazione nella tutela della nostra Regione. Siamo altrettanto consapevoli però che la tutela e la valorizzazione delle risorsa idrica non possono conoscere punti di arrivo nella politica regionale ma sono il faro della nostra missione per la nostra terra”.

“Ogni anno le acque di balneazione vengono sottoposte a periodici controlli per garantire la salute dei bagnanti – spiega Vito Bruno, direttore generale di Arpa Puglia - . Siamo lieti di constatare che anche quest’anno la Puglia è prima in Italia per la qualità delle acque balneabili. Non solo. È  prima anche per il numero di campioni analizzati in laboratorio (4056, ndr), e seconda solo per il numero di punti monitorati (676, ndr), dopo la Sicilia che gode di un litorale molto più esteso”.

A livello nazionale anche quest’anno sono numerose le regioni in cui oltre il 90% di acque è nella classe eccellente; sommando anche le buone, si arriva a livello nazionale al 94%. I controlli sulle acque di balneazione riguardano anche laghi e (in pochi casi) fiumi, dove alcune regioni raggiungono il 100% di acque eccellenti.

Lungo i 1000 km circa di costa pugliese la Regione Puglia ha individuato, ai sensi dell’attuale normativa di riferimento, ben 676 “acque” (tratti) destinate alla balneazione, che corrispondono ad un totale lineare pari a circa 800 km: in particolare sono state individuate n. 254 acque di balneazione in provincia di Foggia, n. 46 in provincia di Bat, n. 78 in provincia di Bari, n. 88 in provincia di Brindisi, n. 139 in provincia di Lecce e n. 71 in provincia di Taranto (gli elenchi di tali acque, distinti per provincia, sono riportati nelle delibere di Giunta regionale dal n. 2465 al n. 2470 del 16 Novembre 2010 e s.m.i.). Arpa Puglia effettua il monitoraggio delle acque di balneazione regionali controllandone la qualità. Durante il periodo stagionale di monitoraggio in ogni “punto stazione” sono misurati in campo diversi parametri meteo-marini, mentre in laboratorio sono analizzati i campioni per la determinazione della carica batterica, calcolata rispetto a valori soglia di due parametri microbiologici: “Enterococchi intestinali” ed “Escherichia coli”, indicatori di inquinamento di origine fecale; in relazione ai campioni raccolti, si stima che ogni anno l’Agenzia regionale per la prevenzione e la protezione dell’ambiente effettui circa 8.500 determinazioni analitiche di laboratorio.

Per quanto riguarda la Puglia, l’1% di acque di balneazione in classe di qualità “non eccellente” riguarda i monitoraggi dei seguenti siti: tre nel territorio di Lesina (classificazione ‘Buona’ per il canale La Fara, ‘Sufficiente’ per la Foce De Pilla e ‘Buona’ per Foce del Canale La Fara), tre di San Nicandro Garganico (classificazione ‘Buona’ per Fiume Lauro e Foce Zanella, ‘Sufficiente’ per Foce Fiume Lauro) e uno di Manfredonia (classificazione ‘Sufficiente’ per il tratto in prossimità della Foce del Fiume Candelaro). Si fa comunque notare che dei sette siti sopra descritti solo uno riguarda le acque marino-costiere (la foce del fiume Candelaro), gli altri sei fanno invece riferimento ad acque di transizione (nella fattispecie la laguna di Lesina).

Tutti i dati sono comunque disponibili sul sito istituzionale di Arpa Puglia dove è possibile, utilizzando una mappa interattiva, visualizzare la localizzazione geografica delle acque di balneazione nonché dei singoli punti di monitoraggio, a cui sono associati i risultati analitici più aggiornati; alla stessa pagina web sono inoltre riportati i dati, in forma tabellare e sotto forma di bollettino mensile, anche per i periodi precedenti a quello visualizzato. Proprio in virtù del monitoraggio effettuato, Arpa Puglia ha in disponibilità e elabora una notevole mole di dati, che consente di fornire un quadro sulla situazione annuale e sulla serie storica (quadriennale) a proposito dello stato di qualità delle acque di balneazione pugliesi.

LA SETTIMANA DELLA SCIENZA. Lo spaventoso tsunami che quasi due secoli fa colpì il Mediterraneo. LUIGI BIGNAMI su Il Domani il 15 maggio 2022

Uno studio condotto dall’Istituto di Scienze Marine del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna (Cnr-Ismar) ha ricostruito e pubblicato su Scientific Reports le tracce di uno tsunami che circa 1600 anni fa ha colpito le coste del Mediterraneo.

Lo studio si è concentrato su un deposito di sedimenti spesso fino a 25 metri presente nel mar Ionio. Sono il risultato di un forte tsunami avvenuto nel 365 d.C., originato a Creta e che ha coinvolto Calabria e Sicilia.

Le caratteristiche di questo deposito hanno permesso di identificare altri due eventi più antichi avvenuti circa 15 e 40 mila anni fa. La ricerca coordinata dal Cnr-Ismar è stata pubblicata su Scientific Reports.

Uno studio condotto dall’Istituto di scienze marine del Consiglio nazionale delle ricerche di Bologna (Cnr-Ismar) ha ricostruito e pubblicato su Scientific Reports le tracce di uno tsunami che circa 1.600 anni fa ha colpito le coste del Mediterraneo, incluse Sicilia e Calabria meridionale. La ricerca riguarda un’area abissale nel mar Ionio, tra l’Italia, la Grecia e l’Africa, dove un deposito di sedimenti marini che raggiunge i 25 metri di spessore è stato deposto in modo quasi istantaneo dalla forza catastrofica delle correnti indotte dall’onda di uno tsunami. Il mar Mediterraneo ospita fasce di subduzione lungo il limite tra le placche africana ed eurasiatica che hanno prodotto forti terremoti nel passato spesso associati a tsunami. Le aree di subduzione sono quelle dove una zolla della crosta terrestre si infila al di sotto di un’altra zolla. «Sulla base di descrizioni storiche e dell’analisi dei sedimenti prelevati dai fondali del mar Ionio, uno di questi eventi, avvenuto nel 365 d.C., ha interessato un’ampia area geografica incluse regioni distanti circa 800 chilometri dalla zona sorgente del sisma che si trova a Creta», spiega Alina Polonia del Cnr-Ismar.

LA GRANDE ONDA

«I campioni di sedimento analizzati hanno permesso di verificare che il materiale che si trovava in condizioni di acqua molto bassa è stato strappato dalla zona costiera e depositato a 4mila metri di profondità. L’onda dello tsunami ha prodotto molteplici frane sottomarine lungo un fronte di migliaia di chilometri, dall’Italia meridionale alle coste africane. Le correnti hanno trascinato sedimenti costieri nelle profondità abissali. Questo ha permesso la deposizione di un volume straordinario di sedimenti di oltre 800 km3 in tutto il Mediterraneo orientale».

Una conferma a quanto scoperto arriva da processi molto simili sono stati descritti anche durante il mega-tsunami del 2011 che ha devastato le coste giapponesi.

Le caratteristiche del deposito hanno permesso di identificare altri due eventi più antichi che rappresentano i predecessori di quello di Creta consentendo di acquisire elementi utili per una più corretta valutazione del rischio tsunami sulle nostre coste.

Sottolinea Polonia: «Lo studio dimostra che uno tsunami può scaricare volumi significativi di sedimenti e carbonio organico nelle profondità oceaniche, influenzando così il ciclo geochimico globale e gli ecosistemi dei fondali marini».

Uno studio che una volta ancora di più dimostra come tutte le coste del Mediterraneo e dunque della nostra Penisola siano a rischio di questo fenomeno che può causare migliaia di vittime se non si interviene ad istruire la popolazione del possibile rischio e sull’istruire le persone su come comportarsi in caso che si abbia tale evento.

LO STUDIO DELL’UNIVERSO PRIMORDIALE

Si chiama Qubic (Q&U Bolometric Interferometer for Cosmology), il nuovo telescopio che si sta realizzando in Argentina per lo studio dell’universo appena nato e che utilizzerà per le sue ricerche una tecnica completamente innovativa. Qubic, infatti, osserverà e mapperà le proprietà del “fondo cosmico a microonde”, ossia l’eco, o se si vuole, quel che è rimasto come impronta residua del Big Bang.

Si concentrerà sulla «misura di particolari componenti dell’orientamento dell’oscillazione delle microonde della radiazione cosmica di fondo sul piano del cielo (polarizzazione), denominate modi-B, indicative delle possibili perturbazioni indotte dalle onde gravitazionali generate nei primi istanti di vita dell’universo». 

Questa definizione della ricerca fa capire quanto sia estremamente complessa, ma che avrà come contraltare risultati finora inaspettati. Per i non addetti ai lavori il tutto lo si può semplificare dicendo che le ricerche si concentreranno sulla raccolta di informazioni per studiare e fornire le prove della “teoria dell’inflazione”.

Secondo tale teoria, la rapidissima fase di espansione dell’universo subito dopo il Big bang, durata meno di un centomillesimo di miliardesimo di miliardesimo di miliardesimo di secondo (circa 10-32 secondi), avrebbe lasciato un debole fondo di onde gravitazionali, che a loro volta avrebbero prodotto particolari debolissime tracce, detti modi-B, nella polarizzazione del fondo cosmico di microonde.

In pratica, le onde elettromagnetiche del fondo cosmico non oscillerebbero in direzioni casuali, ma sarebbero invece leggermente allineate lungo direzioni che in cielo formerebbero un disegno vorticoso.

È evidente che se si avesse una simile conferma, ciò permetterebbe di essere ancora più certi che realmente il nostro universo partì dal Big bang. «Qubic è uno strumento originale ed estremamente complesso: per questo era necessario pubblicare in anticipo i dettagli del suo hardware e delle nuove metodologie di sfruttamento dei dati raccolti. È un passo essenziale per le successive misure di interesse per la cosmologia e la fisica fondamentale», spiega Silvia Masi, docente dell’Università La Sapienza di Roma e ricercatrice Infn, che coordina la partecipazione italiana all’esperimento.

In altre parole era necessario che gli astrofisici conoscessero al meglio le metodologie di ricerca per meglio interpregtare i risultati. «Qubic verrà portato nel sito di Alto Chorrillo entro pochi mesi. Le prime misure dimostreranno l’efficienza del nuovo metodo di ricerca per la prima volta osservando sorgenti astronomiche. Lo strumento verrà poi completato inserendo un maggiore numero di rivelatori, in modo da poter eseguire le misure di interesse cosmologico entro tre anni. La strada è lunga, e Qubic si presenta come estremamente originale e complementare a tutti gli altri che cercano di misurare questo elusivo segnale primordiale», spiega Aniello Mennella, ricercatore Infn e docente all’Università di Milano.

Il contributo italiano è stato fondamentale per lo sviluppo dello strumento, e continuerà ad esserlo nelle fasi successive dell'esperimento.

UCCELLI ALPINI A RISCHIO

La pernice bianca, lo spioncello, il sordone e il fringuello alpino, quattro specie di uccelli associate agli ambienti alpini e ai climi freddi che li caratterizzano, sono a rischio estinzione a causa dei cambiamenti climatici in atto negli ambienti di alta montagna sulle Alpi, dove gli effetti del riscaldamento globale sono più evidenti.

Tuttavia, possono sopravvivere grazie alla salvaguardia di circa 15mila km2 di rifugi climatici, ovvero aree che rimarranno idonee per queste specie a prescindere dal modello climatico considerato.

Lo studio internazionale, coordinato da Mattia Brambilla ricercatore in ecologia presso il Dipartimento di scienze e politiche ambientali dell’Università degli studi di Milano, è stato appena pubblicato su Global Change Biology.

I modelli di distribuzione, basati su variabili climatiche, topografiche e di uso del suolo, sono stati “proiettati” su diversi scenari rappresentanti le condizioni attuali e quelle future, permettendo così di valutare le probabili variazioni nell’areale delle diverse specie.

Dalla situazione attuale al periodo 2041-2070, tutte e quattro le specie considerate andranno incontro a una modifica della distribuzione sulle Alpi, con un innalzamento della quota media di presenza, che potrà oltrepassare i 400 metri nei casi più estremi.

Con la parziale eccezione dello spioncello, queste specie subiranno anche una contrazione della superficie di aree idonee, compresa tra il 17 per cento e il 59 per cento a seconda delle specie e degli scenari climatici.

In questo quadro poco incoraggiante, ma purtroppo in linea con quanto lecito attendersi per queste specie, emerge un risultato che fa sperare e, al tempo stesso, chiama all’azione: circa 15mila km2 di territorio alpino risultano idonei per queste specie nelle condizioni attuali e lo rimarranno anche in futuro, a prescindere dal modello climatico considerato. 

Si tratta quindi di siti di cruciale importanza per la conservazione degli ecosistemi alpini e della biodiversità di alta quota. Il 44 per cento di queste aree è attualmente incluso in aree protette, ma anche il restante 56 per cento dovrebbe essere tenuto in debita considerazione, considerata l’importanza di tali siti.

«Ipotizzare come la distribuzione delle specie d’alta quota cambierà, e quali aree continueranno a offrire condizioni idonee anche in un futuro caratterizzato da un clima più caldo, è di fondamentale importanza per la conservazione di questi organismi sensibili alle variazioni ambientali. Queste aree rappresentano dei “rifugi climatici” per la biodiversità alpina e devono essere salvaguardati, evitando alterazioni significative causate dalle attività umane e degrado degli habitat», commenta  Brambilla.

Il concetto di “rifugio climatico”, sempre più frequentemente utilizzato nella letteratura ecologica in relazione agli effetti del climate change, indica quelle aree che sono in grado di mantenere le proprie caratteristiche fondamentali nonostante il cambiamento climatico, consentendo così la persistenza di organismi o risorse importanti da un punto di vista ecologico, fisico o socioculturale.

CIVILTÀ DI TIPO I

Partiamo da una premessa: Nikolai Kardashev, un astrofisico russo che visse tra il 1932 e il 2019, propose nel 1964 un metodo di classificazione delle civiltà in funzione del loro livello tecnologico che è diventata nota come Scala Kardashev.

Una “Civiltà di tipo I” è quella che riesce a ottenere il massimo rendimento da tutta l’energia che arriva dalla stella attorno alla quale il suo pianeta orbita. Quella di “tipo II” è una civiltà che riesce a sfruttare tutta l’energia della stella, anche quella che non raggiunge il pianeta.

Quella di “tipo III” sfrutta tutta l’energia presente nella sua galassia. Altri autori si sono poi spinti in ulteriori aggiunte, ma poco importa al momento, almeno per noi. Il nostro livello, in base a questa scala, è ancora ben al di sotto del primo gradino, in quanto segna un valore di 0,73.

Quando raggiungeremo il livello di “Tipo I”? Per arrivare a un livello di civiltà di tipo I dovremmo essere in grado di sfruttare molto intensamente ogni fonte d’energia, non solo quelle rinnovabili ma anche quelle relative ai combustibili fossili o al nucleare e dunque tutta quell’energia, comunque originata dal Sole, ma “immagazzinata” nella terra.

Al momento sappiamo utilizzare per bene quella fossile, anche se ora l’idea più o meno comune sarebbe quella di farne il più possibile a meno per evitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera. Ci manca invece la capacità di sfruttare appieno l’energia degli atomi che otterremo quando si riuscirà a sfruttare la fusione nucleare. E poi non siamo ancora in grado di raccogliere l’energia che ci arriva dal sole per convogliarla sulla terra. Insomma i passi da fare sono ancora tanti.

Quando allora ci arriveremo? I calcoli di uno studio pubblicato su Arxiv dicono che potremmo arrivarci nel 2371. C’è ancora molta strada, dunque, da fare, ma la scelta del percorso non sembra essere sbagliata. E per arrivare ad essere una Civiltà di “Tipo II”? Non si parla di secoli, ma di millenni, in quanto si dovrà riuscire ad imbrigliare l’energia emessa dal sole a 360° e inviarla sulla terra. Mentre per diventare una “Civiltà di Tipo III”, per la nostra umanità è ancora un sogno da fantascienza.

Onde del mare «catturate» per farne energia e idrogeno: Brindisi sorprende. Il progetto «doc» della Geco srl primo a Valencia su 80 presentati da 30 aziende e Università blasonate. Antonio Portolano su La Gazzetta del Mezzogiorno l'08 Aprile 2022.

Semplice, innovativo, con consumi ed emissioni pari a zero e dalle potenzialità incalcolabili in termini di produzioni di energia che oltre a quella elettrica si presta perfettamente alla produzione di idrogeno. Si chiama «Sewat», acronimo di «Sustainable energy by wave trap» (Energia sostenibile dalla cattura del moto ondoso) sviluppata dalla Geco srl, società interamente brindisina, composta sostanzialmente da un team di ingegneri. Del team fanno parte i professori Giulio, Cosimo, Amelia, il compianto Vito Maellaro e la figlia Francesca; Zenograde, Antonio e Felice Frascino, Ida Moscarito e Gabriella Guardini (amministratore). Una azienda di famiglia, per un progetto tutto brindisino che ha sbaragliato tutti al «Blue deal» di Valencia. Una sorta di business forum dell’energia rinnovabile generata dal mare e che si inserisce all’interno di un progetto Interreg-Med al quale partecipavano più di 30 aziende europee con circa 80 progetti per rispondere alle 12 sfide lanciate da varie realtà europee che si affacciano sul bacino del Mediterraneo. Legambiente lo sostiene e lo vorrebbe applicato anche nell’ambito degli investimenti Enel nell’annunciato polo energetico delle rinnovabili a Cerano.

Ma come nasce il progetto?

«Nasce da oltre 40 anni di studi ed insegnamento e, ci tengo a sottolinearlo, da un proficuo rapporto e confronto con i ragazzi dell’istituto Carnaro». 

Avete primeggiato su progetti con sponsor blasonati come il Politecnico di Torino o aziende israeliane sponsorizzate da università spagnole. Come?

«Il progetto è semplice, innovativo. È un bacino idroelettrico in mare, non altera lo stato dei luoghi, può permettere di produrre corrente e idrogeno. Può essere installato su dighe o barriere frangiflutti, in tratti non utilizzati per altre attività. Può prevenire l’erosione della costa ed essere utile per il ripascimento». 

Come catturate l’energia delle onde marine?

«Il progetto che si propone prende spunto dall’osservazione dello scenario naturale offerto delle onde frangenti e prevede, essenzialmente, la costruzione di una successione di vasche modulari in calcestruzzo, a sviluppo allungato, poste in mare, parzialmente immerse, in direzione ortogonale alla direzione dominante delle onde. Ogni vasca ha la parete esposta ai marosi, idoneamente attrezzata, in grado di captare l’acqua delle onde che vi si infrangono grazie a numerosi varchi muniti di paratoie mobili le quali, sotto l’azione di ogni onda, si aprono, consentendo l’ingresso dell’acqua nella vasca che, quindi, viene riempita. L’acqua accumulata nella vasca produce energia elettrica durante il travaso nel mare calmo sul lato riparato dalla vasca stessa, perché durante il travaso attraversa una pluralità di microturbine idrauliche che, girando, azionano generatori elettrici. L’idea innovativa è appunto il sistema di captazione delle onde e il modo di sfruttarne l’energia. L’energia elettrica prodotta può essere immessa in rete o preferenzialmente può essere usata in loco per la produzione di idrogeno consentendo un auspicabile sviluppo della relativa filiera». 

Quanta energia si può produrre?

«Sono calcoli complessi per il fatto che le onde del mare non sono mai costanti. Volendo necessariamente esprimere una valutazione, seppur sommaria e di larghissima massima, delle potenzialità del sistema, applicando, in maniera semplicistica, gli elementari concetti di idraulica classica semplificando drasticamente il fenomeno si stima che un modulo della lunghezza di 50 metri potrebbe avere una produzione annua di energia pari a circa equivalente alla produttività di un campo fotovoltaico di circa 8 ettari». Il progetto tutto brindisino, anche le microturbine sono state costruite dagli ingegneri della Geco, si appresta ad essere sperimentato con un prototipo. Ad investirci al momento è stata la sola impresa che per sviluppare un progetto dalla potenzialità incalcolabile ha bisogno di sostegno. E coltiva un sogno: «Vogliamo che questo progetto sia sviluppato a Brindisi, per creare occupazione in loco e perché affrancarci dalle fonti fossili è possibile, semplicemente usando la natura nel massimo rispetto».

Fabrizio Geremicca per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 25 marzo 2022. 

L’effetto serra cambierà il profumo del mare e non è un problema di poco conto, perché sott’acqua animali e piante comunicano essenzialmente attraverso gli odori. Sono questi ultimi che li aiutano a riconoscere il cibo, a sfuggire ai predatori, a percepire le possibili prede. La chimica olfattiva gioca un ruolo essenziale anche nei meccanismi dell’accoppiamento e, forse, in quelli della individuazione delle rotte che seguono gli animali nei loro spostamenti.

Potrebbero essere gli odori, per esempio, ad aiutare le tartarughe della specie Caretta Caretta a ritrovare ogni anno la spiaggia dove avevano deposto già le uova nell’estate precedente oppure a guidare i mammiferi marini nel percorrere centinaia e centinaia di miglia lungo sentieri solo ad essi noti.

E’ un mondo di profumi, dunque, più che di luci e di suoni quello sottomarino e questa considerazione è tanto più vera quanto più si scende in profondità, dove la luce arriva a fatica e la vista aiuta ben poco. L’acidificazione provocata dall’eccesso di immissione di anidride carbonica nell’atmosfera, che è assorbita in parte dal mare, parrebbe sconvolgere in maniera radicale questa sinfonia olfattiva.

Le alterazioni

Altera profondamente, infatti, sia la produzione di odori da parte degli organismi marini, sia la percezione degli stessi da parte di altri animali. Non solo negli oceani, ma anche nei mari di casa nostra. Lo rivela uno studio dei ricercatori della Stazione zoologica Anton Dohrn, i quali hanno condotto esperimenti in laboratorio su alghe ed organismi prelevati nel mare di Ischia, in particolare nella zona del Castello aragonese.

La ricerca si intitola «Ocean Acidification affects volatile infochemicals production and perception in fauna and flora associated with Posidonia oceanica» ed è stata pubblicata sulla rivista internazionale Frontiers in Marine Science . «Abbiamo lavorato — racconta Mirko Mutalipassi, uno degli studiosi che ha preso parte al lavoro scientifico, che si è avvalso anche del contributo di ricercatori tedeschi — su due microalghe ed una macroalga ed abbiamo testato come il ph modifichi la produzione e la percezione di composti da parte di alcuni piccoli organismi: un gamberetto (Hyppolite ), un altro piccolo crostaceo (Idotea ) e due lumachine (Albania e Rissoa)».

L’esperimento

Come si è svolta la ricerca? «Abbiamo estratto gli odori dalle alghe, differenziando quelle coltivate in acqua a ph 8,2 ed a ph 7,7 - dice ancora Mutalipassi - abbiamo poi immesso i crostacei, le lumache ed i gamberetti in vasche con mare a ph normale o acido. Abbiamo quindi osservato i differenti comportamenti degli animali rispetto agli odori delle alghe nelle acque normali o acidificate. E’ emerso con chiarezza che nel mare a ph più acido salta la normale chimica degli odori, quella che porta normalmente alcuni di questi animali ad avvicinarsi alle alghe perché sono cibo e riparo od a fuggire da esse, perché magari sono tossiche».

L’acidificazione marina, quindi, interferirà fortemente con la capacità delle specie marine di comunicare fino al punto che, in futuro, si potranno osservare animali che invece di fuggire correranno verso i propri predatori, altri che non riconosceranno il proprio alimento, altri ancora che vedranno alterata la propria fisiologia e la capacità stessa di riprodursi.

Conseguenze indirette

«Queste alterazioni — conclude il ricercatore della Stazione zoologica — avranno conseguenze indirette a vari livelli anche sull’uomo: impoverimento degli stock ittici, degradazione degli ambienti naturali, perdita di molecole importanti per le biotecnologie, come ad esempio quelle con interessanti prospettive nella lotta contro il cancro». Il mare di Ischia, peraltro, in alcuni punti parrebbe già anticipare gli scenari che verranno. In prossimità di alcune caldere sottomarine il ph acido modifica in maniera radicale l’ecosistema. Favorisce alcune specie, per esempio le salpe, e ne penalizza altre.

Lo strano caso sul Lungomare e alla Darsena. A Pozzuoli si ritira il mare, cosa sta succedendo tra terremoti e bradisismo nei Campi Flegrei: “Spunta una spiaggia”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Marzo 2022. 

“Qui non c’è mai stata una spiaggia, ora ce n’è una bella grande. Alle persone piace tanto ma non hanno capito che non è un buon segno”. Sono queste le parole di una 35enne che ha sempre vissuto a Pozzuoli. Con il suo bambino è scesa in spiaggia sul lungomare di Pozzuoli a prendere il sole. Ma quella spiaggia prima non c’era. O meglio non era ampia e spaziosa come lo è oggi. Negli ultimi mesi il livello del mare è sceso sempre di più tanto che nella darsena al centro di Pozzuoli le barchette dei pescatori sono quasi arenate. Questo si aggiunge anche che i terremoti sempre più spesso fanno saltare dalle sedie i puteolani e anche gli abitanti di Bagnoli, Fuorigrotta, Quarto e Pianura. Tra bassa marea, bradisismo e terremoti, cosa sta succedendo nei Campi Flegrei?

“Qui siamo nell’area vulcanica dei Campi Flegrei, che non è un vulcano centrale come il Vesuvio, ma qui tutte le collinette sono degli antichi vulcani – ha spiegato Giuseppe de Natale, ricercatore dell’Istituto Italiano di Geofisica e Vulcanologia – Il Vesuvio non c’entra nulla perché sta proprio da un’altra parte. Questa è un’area dove un’eruzione vulcanica futura può avvenire in un raggio di circa 3 km attorno a Pozzuoli. Come ricercatore non credo che questi episodi (terremoti o il livello basso del mare, ndr) preludano ad un’eruzione vulcanica”.

Ed è proprio questa la paura che affligge maggiormente gli abitanti della zona, visto l’intensificarsi di terremoti che nei giorni scorsi sono arrivati anche a un’intensità di 3.5. De Natale da oltre 35 anni studia a fondo la zona e sostiene che la paura attualmente è immotivata. E spiega perché il livello del mare si è abbassato così tanto negli ultimi mesi. “Ci sono due fattori fondamentali – dice il ricercatore – Il primo è un fattore transiente, quello mareale. Nei periodi di bassa marea ovviamente c’è un maggiore insabbiamento”. Ed è questo un periodo in cui normalmente ci sono le basse maree.

Poi c’è il bradisismo, “il fenomeno del sollevamento del suolo – continua De Natale – Dal 1984 al 2005 il suolo si era abbassato di 90 cm circa. Adesso abbiamo recuperato quasi totalmente, manca circa un centimetro a quella quota”. Pescatori e abitanti di Pozzuoli però non hanno potuto fare a meno di notare che il livello del fondale del mare sembra ancora più alto, c’è ancora meno acqua rispetto a quanto successe nel 1984. Cosa che si nota particolarmente nella Darsena, meglio conosciuta come “’o Valione” e sul lungomare di Pozzuoli.

“Questo dipende dal fatto che proprio perché c’è stato un abbassamento di circa 90 centimetri, nella zona la sedimentazione è aumentata in questi anni e quindi al bradisismo si è aggiunto anche un livello di sedimenti maggiore e che quindi ha portato il suolo ancora più alto di quello che era il fondale della Darsena”, spiega De Natale.

E perché la terra sta tremando sempre più spesso nei Campi Flegrei? “I terremoti i quella zona avvengono esclusivamente quando c’è sollevamento del suolo – chiarisce il ricercatore – Sappiamo che dal 2005 a oggi c’è un fenomeno di sollevamento del suolo continuo, con tassi di sollevamento molto più bassi di quelli enormi che abbiamo visto negli anni ’80. Dall’ ’82 all’ ’84 ci furono picchi di sollevamento di un metro all’anno. Ora siamo a un sollevamento di 15 centimetri all’anno circa. La differenza è che all’epoca il fenomeno durò due anni e mezzo, ora sta durando da 17 anni”.

Cosa sta succedendo nel sottosuolo? “Quando il suolo si solleva vuol dire che c’è una sorgente di pressione – continua De Natale – Questa sorgente di pressione mette le rocce sotto sforzo e queste producono terremoti. Già dal 2017 abbiamo scritto e pubblicato su riviste scientifiche che finchè il suolo si sollevava, la sismicità poteva soltanto aumentare. Quando saremmo arrivati a livelli superiori a quelli dell’ 84, e ormai ci siamo molto vicini, la sismicità sarebbe diventata simile o addirittura superiore a quella dell’ ‘84. Oggi praticamente ci siamo quasi arrivati perché l’ultimo terremoto era di magnitudo 3 e mezzo, nell’ ’84 e ’83 avemmo magnitudo massime di 4.2”.

C’è da temere per questi terremoti? “Anche se giustamente spaventano le persone, non sono terremoti distruttivi, anche ne 1984 i terremoti di magnitudo massima non distrussero edifici, provocarono al massimo piccoli danni”. Istituti come l’INGV e la Protezione Civile vigilano attentamente su questi fenomeni per cui non c’è da temere. Esiste anche un piano di emergenza per far fronte a tutte le evenienze.

“Il piano di emergenza dei Campi Flegrei che è simile a quello del Vesuvio è costituito da 4 livelli – spiega ancora De Natale – Il livello base, verde, quando l’attività del vulcano è assolutamente nella norma. Quando ci sono delle osservazioni particolari che non sono del tutto normali, si assegna il livello giallo. Oggi i Campi Flegrei sono a livello giallo. Poi se i fenomeni anomali sono molto evidenti, sii passa al livello arancione, quello di preallarme. Infine il livello rosso, l’allarme totale. Se si dovesse arrivare a questo, speriamo mai, l’area rossa corrispondente a quel vulcano, deve essere evacuata in tre giorni perché si presume che ci possa essere un’eruzione con grande probabilità. Questi livelli vengono stabiliti dalla Protezione Civile e dalla Commissione Grandi Rischi basandosi sui dati degli istituti di ricerca e in particolare dell’ INGV”. “Tutto quello che le ho detto lo dico come ricercatore che da 35 anni si occupa di questa zona, non parlo a nome del mio istituto. Ma è la mia personale convinzione come ricercatore che conosce bene questi fenomeni”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival. 

L'inconsueto fenomeno. Bassa marea nel Mediterraneo, a Sciacca riemerge l’isolotto di San Giorgio dopo 300 anni: la situazione anomala. Roberta Davi su Il Riformista il 30 Marzo 2022.

Un’eccezionale bassa marea lungo la costa meridionale della Sicilia sta facendo riscoprire alcuni punti della costa finora poco conosciuti, oppure ‘dimenticati’.

Un fenomeno affascinante ma anche anomalo che alla lunga, sottolineano gli esperti del  WWF Sicilia Area Mediterranea, potrebbe avere degli effetti dannosi. 

Le meraviglie del mare

Documentato in alcune mappe del Seicento e Settecento, riemerso nei giorni scorsi a poche centinaia di metri dalla costa a Sciacca. Si tratta dell’isolotto di San Giorgio, scomparso a causa dell’innalzamento del livello del mare: un evento mai accaduto nel corso del Novecento. 

Ma non solo. Un ampio tratto di scogliera è emerso per circa 50 centimetri portando in secca rocce coperte da alghe e scogli coperti di Posidonia oceanica. Alcune riprese effettuate con i droni dal Wwf della Sicilia Area Mediterranea hanno inoltre mostrato scogli affioranti per diverse decine di centimetri in vari punti della costa.

L’abbassamento del livello del mare, che ha interessato anche altre località in Sicilia come Mazara del Vallo, il porto di Licata e Pantelleria, ha riportato alla luce addirittura alcune strutture dell’antica città sommersa di Eraclea.

Segnalazioni di fenomeni simili sono arrivate da altre zone d’Italia, come la Puglia.

Cosa ha provocato il fenomeno

La causa di questo fenomeno piuttosto insolito è in realtà un mix di fattori diversi. “La presenza di maree primaverili e quella di un anomalo anticiclone che insiste da giorni su gran parte d’Europa sono i responsabili” hanno spiegato gli esperti dell’Ingv in un post pubblicato su Facebook. “L’alta pressione ha infatti causato una temporanea diminuzione del livello marino in corrispondenza della bassa marea media osservabile per questa stagione, provocando, nel caso della Sicilia, una diminuzione del livello marino di circa 14 centimetri. Inoltre la presenza di vento da nord (da terra) ha probabilmente contribuito alla diminuzione locale del livello del mare (la costa è esposta a sud-sudovest)”. 

I mareografi hanno registrato per varie ore in queste zone una diminuzione del livello marino fino a circa 41 centimetri a Sciacca e a 32 centimetri a Porto Empedocle.

L’abbassamento del livello del mare rischia di causare però dei danni all’ecosistema marino, come evidenziato dagli esperti di WWF Sicilia Area Mediterranea, che hanno evidenziato l’anomalia lo scorso 25 marzo.

Nella segnalazione riportata sulla pagina Facebook dell’organizzazione avevano escluso che le cause di quanto stava avvenendo fossero da attribuire alle maree o al cosiddetto ‘marrobbio’, in quanto l’abbassamento del livello del mare risultava costante, protraendosi da diversi giorni. “Molti animali marini (ricci di mare, oloturie, granchi anemoni e gamberi), sono stati sorpresi da questo fenomeno, rimanendo uccisi dal ritiro del mare oppure rimanendo intrappolati in sacche di acqua destinata ad evaporare: questa moria non avverrebbe durante i flussi di marea” si legge sul post. Roberta Davi

Bassa marea record nel Salento, a Porto Cesareo il mare arretra fino a 30 metri. Il fenomeno sarebbe conosciuto come le «secche di marzo». L'Isola dei conigli raggiungibile a piedi. La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Marzo 2022.  Una bassa marea da record sta facendo di Porto Cesareo (Lecce) il protagonista indiscusso del web. Le immagini dell'arretramento del mare stanno diventando virali. Il fenomeno - tutt'ora in corso - si è registrato nel tratto di costa della riviera di Ponente.Il mare si è ritirato di circa 30 metri, con decine di imbarcazioni da diporto e per la piccola pesca rimaste improvvisamente spiaggiate. Ancora di più in un tratto antistante l'«Isola dei conigli». I pescatori della zona ricordano che 60 anni fa l'isola di fronte alla costa di Porto Cesareo, era separata dalla terra ferma da uno specchio acqueo profondo solo alcune decine di centimetri. Oggi come allora, il fenomeno si è riproposto, anche se avrà breve durata. Tutto sarebbe causato da quelle che vengono definite le «secche di marzo».

·        La Sabbia.

Presto non avremo più sabbia. Il problema dell’estrazione delle risorse è che non sono infinite. Oscar di Montigny su L'Inkiesta il 22 Aprile 2022.

Le imprese devono modificare il paradigma del trattamento dei rifiuti minerari. Presto potremo trovarci ad affrontare un pianeta senza più materie prime.

Tra le risorse maggiormente consumate al mondo, al secondo posto in assoluto, dopo l’acqua, troviamo la sabbia. Elemento indispensabile per costruire città e infrastrutture, le applicazioni della sabbia sono numerosissime e vanno dal cemento, all’asfalto, al vetro sino ai chip elettronici. La domanda, negli ultimi 20 anni, è triplicata per via soprattutto dell’urbanizzazione e della crescita della popolazione. Oggi, per fare un esempio, solo per il calcestruzzo ne consumiamo 3,2 miliardi di tonnellate ogni anno. E, nell’insieme, se ne stima un consumo annuo di 50 miliardi di tonnellate che aumenterà sino al 300 per cento nei Paesi più poveri soprattutto in Africa e Asia per via dell’aumento della popolazione e dell’urbanizzazione.

Erroneamente pensiamo alla sabbia come a una risorsa infinita e tuttavia nei prossimi decenni questa risorsa essenziale si esaurirà. Anche se il pensiero corre alla quantità sconfinata di sabbia immediatamente disponibile nei deserti, per qualità e caratteristiche questa non è utilizzabile, serve invece quella estratta dai letti dei fiumi e dai fondali marini. Cosicché l’estrazione di simili quantità e volumi comporta gravi conseguenze ambientali e ne comporterà sempre di più.

Basti pensare che, rispetto all’acqua che ha un suo ciclo, la sabbia, una volta usata nei vari materiali non tornerà più a far parte dell’ambiente. Per questa ragione sarà sempre più rara e dunque iniziare a trattarla tempestivamente come una risorsa strategica è sempre più urgente. Oltre al tema della scarsità, occorre considerare anche quello legato alla sua estrazione che sempre più compromette i fiumi per via dell’erosione dei loro argini che di conseguenza fa crescere notevolmente il rischio di inondazioni. Per la sabbia occorre dunque, «una maggiore conoscenza scientifica, tecnica e politica, al fine di sostenere azioni globali per l’estrazione e l’uso nel rispetto dell’ambiente», come afferma la risoluzione «Environmental aspects of minerals and metals management» appena approvata, nel marzo scorso, dalla quinta United Nations Environment Assembly (UNEA).

Ma occorre anche un cambio di paradigma nella cultura d’impresa che deve aprirsi all’innovazione. Innovare spesso spaventa. Non sempre siamo propensi ad allontanarci dai nostri percorsi conosciuti che ci permettono di sentirci in sicurezza. Tuttavia, e non solo in un simile scenario di esaurimento delle risorse, innovare significa solo «variare l’ordine prestabilito delle cose per fare cose nuove». Oggi, nel campo dell’edilizia, esistono soluzioni innovative che forniscono un’alternativa alla sabbia molto interessante. Per esempio, la cosiddetta demolizione gentile praticata già da tempo in alcuni Paesi più attenti a queste tematiche come l’Olanda, dove dai palazzi abbattuti si recupera anche quel 30% di materiale che in genere viene perso come polvere. Ma soprattutto gli scarti delle cave che ancora oggi vengono smaltiti come rifiuti.

I rifiuti minerari sono il risultato dello sfruttamento delle miniere e attualmente rappresentano il più grande flusso di rifiuti del pianeta: circa 30 – 60 miliardi di tonnellate all’anno. Questa sabbia minerale ha il potenziale per affrontare contemporaneamente due sfide globali di sostenibilità: separare e riutilizzare questi materiali prima che vengano aggiunti al flusso di rifiuti non solo ridurrebbe significativamente il volume dei rifiuti generati, ma creerebbe anche una fonte responsabile di sabbia. Lo dice il rapporto «Ore-sand: a potential new solution to the mine tailings and global sand sustainability crises», edito dall’Université de Genève e dal Sustainable Minerals Institute dell’università del Queensland.

Un’altra idea innovativa viene dall’Università di Cambridge, che propone di sostituire il 10% della sabbia utilizzata per produrre cemento, una percentuale maggiore non è possibile, con plastica triturata che ha la stessa resistenza e la stessa durata della sabbia. Il riutilizzo della plastica è vantaggioso anche in termini economici specialmente in quei Paesi come l’India dove al boom edilizio si contrappone la scarsità di sabbia e dove ogni giorno vengono invece buttate 15.000 tonnellate di plastica.

È chiaro che l’innovazione tecnologica può aiutare a mitigare momentaneamente il problema della mancanza di materia prima per la costruzione, ma il vero cambiamento richiesto deve venire dal mondo delle imprese stesse. In questo caso specifico il cambiamento è richiesto a quello dell’edilizia ma, se consideriamo che la carenza di sabbia è solo una piccola parte del problema più grande dovuto al depauperamento di tutte le risorse naturali terrestri, comprendiamo che nessuna impresa e nessun imprenditore possono chiamarsi fuori.

·        I Parchi.

I 100 anni del Parco d’Abruzzo e del Gran Paradiso, ma c’è ancora tanto da fare. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 16 aprile 2022

Questo è un nuovo numero di Areale, la newsletter sul clima e l’ambiente di Domani.

Questa settimana numero speciale per celebrare il secolo di vita dei due più antichi parchi nazionali d’Italia: il Parco Nazionale del Gran Paradiso e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. 

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Buongiorno, lettrici e lettori di Areale. Questo è un numero speciale della newsletter, in questo sabato pre-festivo (auguri!). C’è un articolo di qualche mese fa, che avevo condiviso su Areale, che ogni tanto rileggo e che ripropongo. La scrittrice e attivista Rebecca Solnit aveva messo insieme dieci punti per occuparsi di cambiamenti climatici senza farsi prendere dalla paura. Il mio preferito era: non trascurate la bellezza.

«Parte di quello per cui stiamo combattendo è la bellezza e questo significa prestare attenzione alla bellezza nel tempo presente. Se dimentichi quello per cui ti stai battendo, rischi di diventare infelice, amareggiato, perduto».

Ecco, oggi ci occupiamo di questo, e in particolare celebriamo la bellezza degli ecosistemi italiani, perché c’è una ricorrenza importante da festeggiare. Cominciamo.

I PRIMI PARCHI NAZIONALI ITALIANI

I due patriarchi tra i parchi nazionali italiani compiono cento anni, quindi innanzitutto: auguri a loro. Sono nati quasi in parallelo, agli estremi opposti delle montagne italiane. Il Parco Nazionale del Gran Paradiso, in Valle d’Aosta e Piemonte, sulle Alpi, e il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise sugli Appennini. Sono i due modelli base dell’immenso valore, delle sfide e anche dei problemi della conservazione della natura in Italia, che nasce e parte innanzitutto con loro.

Le celebrazioni di questo secolo di vita dureranno un anno e partono ufficialmente il 22 e 23 aprile, con un evento all’Auditorium Parco della Musica di Roma. È una storia importante, che ci riguarda, quindi innanzitutto ne ripercorriamo gli inizi, per vedere a che punto siamo.

Il Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise nasce due volte. La prima per un’iniziativa privata, nell’autunno del 1922. La seconda con un decreto regio, l’11 gennaio del 1923, che mise il sigillo pubblico a un attivismo che era nato sul territorio. Il primo artefice di questa grande storia è stato il naturalista Erminio Sipari, cugino di Benedetto Croce, una specie di padre nobile della conservazione della natura e dello sviluppo sostenibile in Italia. La grande sfida della sua vita, da ambientalista e da politico, fu proteggere quell’angolo di natura di Abruzzo, isolato, con poche strade di accesso, una vecchia riserva reale di caccia, areale di due specie in particolare da tramandare alle generazioni successive, quindi a noi: l’orso bruno marsicano e il camoscio d’Abruzzo.

Il modello di Sipari erano i grandi parchi nazionali americani, in particolare quello di Yellowstone. Riuscì a difendere l’area che oggi è il cuore del parco da progetti di sviluppo industriale ed energetico (doveva diventare un bacino per l’idroelettrico) e a farne la prima riserva protetta d’Italia. Sipari fu poi rimosso dal regima fascista, l’ente parco fu soppresso nel 1933 e ricreato solo nel dopoguerra. A suo nome ci sono un bellissimo sentiero nel parco e un coleottero, l’elongata siparii. La Relazione Sipari del 1926 è ancora un documento base della protezione della natura in Italia. La si legge qui.

Anche la storia del Parco Nazionale del Gran Paradiso inizia come quella di una riserva di caccia, istituita da Vittorio Emanuele II nel 1856. Solo il re poteva usarla per le sue battute venatorie. E anche qui c’è un animale simbolo al quale il parco ha legato sia la sua storia che la sua identità: lo stambecco.

I numeri di questa specie erano preoccupanti alla fine dell’Ottocento, lo stambecco veniva cacciato per la carne, per sport e per i trofei, per farne delle medicine. Se non avessimo avuto il parco, oggi semplicemente non avremmo più stambecchi in Italia. Fu istituito un corpo di guardie specializzate per proteggerli e una rete di sentieri e mulattiere per favorire la conservazione (sono ancora oggi l’ossatura dei sentieri).

Nel 1919 Vittorio Emanuele III passò allo stato italiano la riserva, affinché diventasse un parco nazionale, cosa che successe ufficialmente il 3 dicembre del 1922. Anche questo ente fu sciolto dal fascismo nel 1933, l’incuria della milizia nazionale forestale istituita dal fascismo e poi la guerra fecero di nuovo crollare i numeri degli stambecchi, che si sarebbero ripresi definitivamente con la rinascita del parco nel dopoguerra. Altri animali che potete (con un po’ di fortuna) avvistare nel parco: camosci, aquile reali, lupi (moltissima fortuna), volpi, marmotte.

Poco dopo i due patriarchi nacquero il Parco Nazionale del Circeo (1934) e quello dello Stelvio (1935). Da allora quella delle aree protette italiane è stata una storia ricca ma anche travagliata, di sforzi e disinteresse, di dissesto economico (fu catastrofico quello del Parco d’Abruzzo, dal quale si è usciti solo con l’ultima gestione), scempi evitati e scempi che non sono stati evitati, come il «sacco del Circeo» e la speculazione edilizia a Pescasseroli.

Una linea comune di tutti i problemi di questo secolo è la difficoltà nel coniugare conservazione, sviluppo e turismo. Se dobbiamo però celebrare una tappa in particolare della storia che ci ha portato fino a qui, è sicuramente la Legge sui parchi del 1991, una delle grandi (e non tante) vittorie politiche dei Verdi in Italia, passata definitivamente il 6 dicembre 1991 (quindi freschissima dei suoi trent’anni) con primo firmatario il deputato Gianluigi Ceruti.

Le aree protette in Italia erano il 3 per cento nel 1991, oggi sono l’11 per cento, abbiamo 24 parchi nazionali e 30 aree marine protette. I parchi assorbono 145 milioni di tonnellate di CO2, un terzo delle emissioni italiane. Se aggiungiamo la Rete natura 2000 (habitat riconosciuti di valore ecologico e sociale dall’Unione europea) arriviamo al 21 per cento di aree protette. L’obiettivo europeo è arrivare entro la fine del prossimo decennio al 30 per cento. È una strada ancora lunga.

Ho parlato di questa lunga strada con Antonio Nicoletti, responsabile aree protette di Legambiente. «I parchi hanno reso più bella l’Italia, hanno creato un modello di co-partecipazione che però oggi vive una situazione di difficoltà. Soprattutto a livello regionale, dove viene fatta carne di porco della conservazione, se mi permetti l’espressione». La permetto, certo che la permetto. Un esempio su tutti, il Parco Regionale Migliarino, San Rossore, Massaciuccoli, una meraviglia in Toscana che rischia di perdere 70 ettari per fare una base militare dedicata alle operazioni speciali, con dentro due poligoni di tiro, una torre di ardimento, una pista per l’addestramento alla guida veloce, un eliporto, campo sportivo e piscina, capannoni e diciotto fabbricati per alloggi, molti edifici di servizio e ampio parcheggio.

«I parchi devono imparare a essere l’avanguardia delle politiche di sostenibilità in Italia. Devono fare solo agricoltura biologica, non ci devono più essere allevamenti intensivi dentro le aree protette, devono essere un passo avanti nell’economia circolare e nella mobilità sostenibile. Devono essere i primi della classe della transizione ecologica e questo purtroppo – a parte alcune lodevoli eccezioni – ancora non succede».

Un elemento ancora troppo assente, secondo Nicoletti, è paradossalmente proprio la crisi climatica. «Sono ancora pochi i parchi che lavorano seriamente sui propri piani di adattamento, che sono fondamentali. Chi fa conservazione deve essere in grado di sapere se gli animali si nutrono ad altitudini più elevate per via del riscaldamento globale, cosa succede quando si riducono i ghiacciai, come sta cambiando la vegetazione. Ma i parchi nazionali sull’adattamento sono all’anno zero».

Una storia utile per comprendere la complessità dei due parchi nazionali neo-centenari è quella dell’orso bruno marsicano in Abruzzo. Una specie che sta bene, ma non ancora così bene, che vive su un crinale sottile e in una situazione di costante assedio: se il principale pericolo di vita per un animale così raro, protetto e simbolicamente importante è morire per un incidente stradale (l’ultima volta è dello scorso autunno), allora qualcosa è andato storto.

Gli orsi marsicani ora sono tra i cinquanta e i sessanta esemplari (prossimo censimento genetico nel 2023), è una popolazione stabile ma ancora troppo piccola per essere resiliente. Basterebbero delle annate negative per le nascite o la perdita prematura di alcune femmine per mettere in crisi la specie. Gli orsi marsicani avrebbero bisogno di crescere in numero e per farlo devono potersi espandere, agli orsi serve spazio, perché quella marsicana è la popolazione più densa al mondo. Noi siamo disposti a concederne? L’Appennino centrale potrebbe ospitarne fino a duecento, secondo una ricerca della Sapienza, quelli sarebbero numeri stabili con i quali guardare con ottimismo al futuro.

Per poter viaggiare, colonizzare stabilmente il Parco della Maiella, i Monti Sibillini, e altre aree idonee, gli orsi hanno bisogno di strade e autostrade messe in sicurezza, servono barriere, corridoi ecologici, più segnaletica, meno frammentazione dell’habitat (quelle dell’Appennino sono quote basse e con sempre meno neve, ma si continuano a costruire impianti per gli sport invernali, investimenti condannati al fallimento) e soprattutto comportamenti diversi da parte di chi frequenta il parco. Da parte di automobilisti, motociclisti e anche turisti.

Oggi l’orso marsicano è la star locale, ogni pacchetto turistico prevede e promette avvistamenti, e la giusta distanza è uno dei concetti più difficili da far passare al turismo. Non è un equilibrio facile. Come mi ha detto il direttore del Parco Luciano Sammarone: «L’orso è il miglior promotore del territorio, ma è stato più facile spiegare ai nostri nonni pastori e boscaioli perché fare un passo indietro per proteggerlo, che farlo capire ai turisti oggi».

Un’ultima storia sui parchi nazionali centenari e la loro ricerca di questo difficile equilibrio viene dal Gran Paradiso: il tentativo di istituire una «montagna sacra», con un invito pubblico a non salirci. Me ne ha parlato Toni Farina, storico socio di Mountain Wilderness e rappresentante delle associazioni ambientaliste all’interno del consiglio direttivo del Parco.

La cima scelta per questo tentativo di sacralizzazione laica è il Monveso di Forzo. Perché proprio questa? «È sul crinale tra le due regioni del parco, è poco salita, non ha alcun interesse alpinistico e poi è una bella piramide di 3.300 metri, la sua forma ricorda quella del Monviso». Questa campagna prova a sfruttare il secolo di storia che celebriamo per promuovere una cosa di cui un ambiente fragile come la montagna italiana ha un disperato bisogno: una nuova cultura del limite. Non sarebbe una montagna sorvegliata né ci sarebbe alcun divieto ufficiale, è un’iniziativa che si gioca tutta sul piano del simbolico. Un modo per ricordare le pressioni ecologiche che sta affrontando questo parco centenario, e ce le elenca Farina: «Carenza di personale, non si è investito in riserve integrali, troppo turismo adrenalinico, troppi mezzi motorizzati, troppi sentieri rovinati. Non possiamo più permetterci il “no limit” in un’area protetta nel 2022».

Per questo numero speciale di Areale dedicato alla lunga e importante storia dei parchi centenari è tutto. Anzi no, se avete voglia, avrei voglia di conoscere la vostra storia di persone che li frequentano o che ci lavorano: cosa vedete? Come stanno andando? Qual è il futuro dei parchi nazionali italiani? A presto! Ferdinando Cotugno 

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

·        La Pioggia.

Contrastare la siccità. Il caso francese ci insegna cosa (non) bisogna fare per stoccare l’acqua. Irene Fodaro su L'Inkiesta il 26 Settembre 2022.

L‘utilizzo smodato dei grossi bacini di raccolta dell’acqua conserva una forma di agricoltura intensiva, mettendo a rischio la biodiversità oltre che la qualità del suolo in certe zone della Francia. Esistono però altre soluzioni di stoccaggio. Un esempio? I bacini di accumulo collinari che raccolgono l’acqua piovana di scorrimento

Di fronte alla grave crisi idrica e ad un settore agricolo messo a dura prova, l’Italia sta cercando soluzioni concrete a possibili episodi di siccità in futuro. Secondo molti esperti un’importante forma di prevenzione sarà quella della conservazione dell’acqua – ad oggi solo l’11% dell’acqua piovana viene trattenuta – e alla costruzione di nuovi bacini e invasi. 

In Francia, la costruzione di alcuni tipi di bacini, detti riserve di sostituzione, ha creato una vera e propria “guerra dell’acqua”, che ci insegna che bisogna riflettere su quali sono i  migliori modelli di stoccaggio e a utilizzarli con parsimonia. 

Il dibattito sui metodi per stoccare l’acqua è aperto da diversi anni ed è talmente divisivo da aver creato non solo una frattura tra gli ambientalisti, ma anche tra gli stessi agricoltori. La discussione si è infatti cristallizzata intorno all’utilizzo e alla costruzione di nuove riserve di sostituzione, ribattezzate da chi vi si oppone “mega bacini”, per via delle loro considerevoli dimensioni: tra gli otto e i dieci ettari di superficie in media. 

Un collettivo chiamato Bassines non merci da cinque anni si dichiara contrario alla proliferazione di questi grandi bacini attraverso manifestazioni e azioni di disobbedienza civile. Da poco hanno pubblicato una mappa che identifica più di cento riserve di sostituzione in Francia, alcune già esistenti e altre in via di costruzione.

Concentrati principalmente ad ovest e nel sud-est del paese, i mega bacini, difesi dal governo e finanziati dalle istituzioni, sono detti “di sostituzione” perché in grado di trattenere l’acqua d’inverno, prelevandola dalle falde acquifere, per poi permetterne l’utilizzo d’estate, quando la disponibilità idrica è minore.

Destinati soprattutto all’irrigazione di colture intensive come mais e cereali, questi sistemi vengono difesi e giustificati da alcuni agricoltori e sindacati, per i quali le riserve di acqua sono «una questione di interesse pubblico» necessaria a «garantire la perennità dell’agricoltura francese e della sua industria agroalimentare». Alcuni di questi bacini, tuttavia, sono già stati giudicati illegali a causa della mancanza di studi sul loro potenziale impatto ambientale. 

Soluzione a breve termine 

Ricoperte di teloni di plastica impermeabili e circondate da dighe, le riserve di sostituzione sono soprattutto prese di mira per gli effetti che producono sui suoli che ne risultano inariditi e di peggiore qualità. «Bisogna capire che prima che l’acqua penetri in una falda acquifera ci vuole moltissimo tempo e in generale solo il 9% dell’acqua piovana riesce a penetrare nel suolo.

Il fatto di creare bacini che pompano l’acqua dalle falde in quantità colossali è un non senso, soprattutto dopo un anno in cui per la prima volta le falde non si sono rinnovate. Se continuiamo a prosciugarle così abbondantemente renderemo i suoli aridi e contribuiremo ad accelerare gli effetti della siccità», evidenzia Emma, idrologa e ricercatrice sull’adattamento al cambiamento climatico. 

Anche lo stoccaggio outdoor dell’acqua è fonte di critiche: «Sotto il sole l’acqua evapora, sviluppa salmonelle e sostanze insalubri. Si conserva quindi dell’acqua di bassa qualità per di più impedendole di alimentare il corso d’acqua al quale è connessa. Si tratta di una soluzione utile solo nel breve termine, ma che ci porta dritti contro un muro», prosegue Haziza. 

Uno studio dell’AGU (Advancing Earth and Space Science) affermava già nel 2018 che, se da una parte le opere idrauliche possono ridurre la durata e l’intensità della siccità agricola, aumentano però l’intensità della siccità idrologica del 50%.

Se la protezione dell’acqua è una questione cruciale, la produzione agricola non può però essere lasciata da parte e c’è chi cerca di porsi al centro della diatriba. Serge Zaka, agroclimatologo che si occupa dell’impatto climatico sull’agricoltura ritiene, ad esempio, che per rendere i mega bacini un’operazione realmente conveniente, bisogna cercare di limitare al massimo il prelievo d’acqua dalle falde acquifere e studiarne la costruzione caso per caso.

«Esistono talmente tanti territori, suoli, tipologie di irrigazione, colture e varietà di falde acquifere, che bisogna studiare i singoli casi. Ad esempio, ci sono territori più fragili, come le aree umide, dove se si preleva acqua si rischia di creare uno squilibrio in superficie. In zone come il Marais Poitevin e le regioni umide, bisogna fare degli studi e non forzare la costruzione di bacini se l’ambiente è troppo fragile», spiega. Nel Marais Poitevin, ad ovest della Francia, una della più grandi aree umide d’Europa, si prevede però già la costruzione di sedici nuovi bacini molto controversi. 

Mal-adattamento 

Secondo alcuni agricoltori le riserve di sostituzione favorirebbero la produzione di proteine vegetali e il passaggio all’agricoltura biologica, per alcuni esperti invece il loro effetto sarebbe quello opposto, ovvero di conservare una forma di agricoltura intensiva e deleteria per l’ambiente. «Perché i bacini siano convincenti (dal punto di vista ambientale ndr.) bisogna introdurre colture che necessitano meno acqua e che resistono al caldo, migliorare i sistemi di irrigazione e proteggere i suoli per favorire l’infiltrazione dell’acqua.

Ma quando si ha a disposizione un mega bacino, si tende a non modificare le pratiche agricole, senza fare attenzione all’acqua proprio perché se ne possiedono grandi quantità. I bacini inducono a non ri-adattarsi, ma a conservare gli stessi metodi. Io lo chiamo “mal-adattamento” perché si pensa di aver trovato una soluzione, ma ci si è dimenticati di lavorare sul cambiamento climatico», sottolinea Zaka. 

I mega bacini sono sfruttati solo da alcuni agricoltori, di norma le aziende più facoltose e produttive che necessitano di più acqua per irrigare, per questo motivo, lo sfruttamento di grosse quantità d’acqua generano disparità tra gli agricoltori, rischiando di produrre un sistema a due velocità. Durante l’estate, infatti, quando gli agricoltori sono costretti a limitazioni nell’uso dell’acqua e non possono irrigare per via della siccità, come è successo quest’estate, coloro che hanno accesso ai bacini possono invece continuare a farlo.

Ma attenzione, mette in guardia Zaka, «vedremo se nel 2050 gli agricoltori che non avranno adattato le loro pratiche avranno abbastanza acqua nei loro bacini per irrigare. Un bacino non basterà più e ne servirà un secondo. Invece gli altri agricoltori che avranno imparato a lavorare con poca acqua si saranno realmente adattati al cambiamento climatico e sapranno cosa fare in caso di siccità». Gli episodi di siccità ripetuti e l’aumento delle temperature negli anni a venire rischiano infatti di non permettere alle falde acquifere di riempirsi durante l’inverno e di rendere quindi i mega bacini infruttuosi.

Altri modelli possibili 

Le riserve di sostituzione non sono però le uniche soluzioni quando si parla di stoccaggio dell’acqua. In Francia esistono anche i “bacini di accumulo collinari” che raccolgono l’acqua piovana e le acque di scorrimento. «È una soluzione interessante, bisogna solo fare attenzione a non metterne ovunque e rischiare di non far più arrivare l’acqua agli affluenti e nel fiume a valle, come succede ad esempio in Australia.

Se li si usa con parsimonia possono essere efficaci», commenta Haziza. Dello stesso avviso, Zaka aggiunge: «ne esistono già in Francia, e in alcuni casi si è creato un nuovo ecosistema intorno a questi bacini con anfibi, uccelli, pesci ecc., in cui sono state installate anche attività economiche e nautiche. I bacini non devono essere privi di biodiversità e devono al contempo sviluppare l’economia per garantire una maggiore accettazione sociale».

Bacini di accumulo, laghetti aziendali e invasi, diverse sono le proposte di cui si parla in Italia. L’Anbi (Associazione nazionale bonifiche irrigazioni) propone di realizzare una rete di circa diecimila laghetti e piccoli bacini alimentati dall’acqua piovana, dal ruscellamento di acque superficiali e dalle sorgenti.

Strutture pensate per essere prive di cemento, nel pieno rispetto della biodiversità. «Può essere una soluzione, a condizione che si tratti di vere riserve di biodiversità, dove l’acqua viene protetta», suggerisce Haziza. «È interessante perché quando si moltiplicano i piccoli bacini si dà accesso all’acqua a più agricoltori e si risolve il problema dell’accaparramento dell’acqua da parte di pochi», aggiunge Zaka. 

Il Centro Italiano per la Riqualificazione Fluviale (Cirf) si oppone però alla costruzione di nuovi invasi lungo i corsi d’acqua per evitare il degrado, il consumo dei suoli e l’alterazione del deflusso ecologico e delle portate dei corsi.

Se realizzati, i laghetti dovrebbero anche permettere di produrre energia pulita grazie all’installazione di pannelli fotovoltaici galleggianti con cui produrre energia elettrica. Tolto il fatto che questi travasi potrebbero intaccare lo sviluppo della biodiversità, i due esperti sono comunque d’accordo nel dire che può essere una soluzione innovativa che permetterebbe di «evitare l’evaporazione dell’acqua» e al contempo «produrre energia diversamente». 

 Siccità: la peggiore in Europa degli ultimi 500 anni. TheWorldNews il 6 settembre 2022.

In Europa, la siccità estiva del 2022 è stata la peggiore degli ultimi 500 anni. Le immagini di Sentinel 2 lo chiariscono. Si tratta di un satellite in orbita nello spazio e parte di Copernicus, il programma europeo per l'osservazione della Terra. Dal 1 luglio al 31 agosto, la situazione era allarmante in almeno il 47% dei territori europei .

Terre aride causate dalla siccità-Nanopress.it

Naturalmente, anche le conseguenze di questo fenomeno sono gravi. Gli incendi boschivi stanno aumentando in modo significativo e contribuiscono in modo significativo agli inquinanti nei cieli europei. Stiamo parlando delle maggiori emissioni degli ultimi 15anni.

Siccità e suoi effetti

Parliamo di6,4 megatonnellate di carbonio nei cieli d'Europa. Dal 2007 non sono state osservate emissioni di questa portata. Incendi devastanti nel sud della Francia e nella penisola iberica avrebbero avuto un effetto devastante sui livelli insoliti di emissioni di quest'estate.

Dal 1540 non c'è stata una tale siccità nel nostro continente. In quella situazione, ci sono stati meno giorni di pioggia su 90 giorni. E soprattutto, il caldo estremo ha colpito quasi tutti i mesi dell'anno.

Questa volta, appena due mesi ha raggiunto livelli altrettanto allarmanti. Particolarmente preoccupante è stata la mancanza, e in alcuni casi, la mancanza di umidità nel suolo, che ha fortemente influito sulla distruzione della vegetazione. Dalle immagini del satellite

, è facile vedere che alcune aree verdi disi sono trasformate in aree marroni secche con l'avanzare della giornata. Un chiaro segno di perdita di vegetazione.

Campi di mais essiccati in Italia a causa della siccità - Nanopress.it

Un altro segnale serio è il livello del fiume a. Il Reno, Poe Danubio sono particolarmente colpiti da questa siccità, con livelli d'acqua nei loro letti che diminuiscono notevolmente. . Rendili non navigabili.

Risultati in Italia

Di fronte a questo scenario apocalittico, l 'agricoltura non è indenne. L'agricoltura europea ha sofferto molto. Ad esempio, in Italia, Coldiretti ha pubblicato alcuni dati allarmanti.

6 miliardi di euro sono costati ai nostri raccolti. Ciò equivale a 10% della produzione agricola della nazione. In alcuni casi, si è verificato un calo della produzione in cui ha raggiunto il 40-45% in meno di .

Altri casi hanno rivelato una riduzione della produzione, ma una diminuzione del 30%, che di per sé è sconcertante. Mais e Foraggi, Frutta e Grano sono i campi più colpiti.

Entro il prossimo raccolto, la produzione è già in calo del 10%. È chiaro che il danno degli ultimi mesi di siccità non sarà riparato facilmente.

In Europa la peggiore siccità degli ultimi 500 anni vista dai satelliti. La Repubblica il 7 Settembre 2022.  

Le immagini di Sentinel 2 (Copernicus) mostrano come, tra il primo luglio e il 31 agosto 2022, vaste regioni siano passate da un verde acceso a un marrone arido

La siccità in Europa nell'estate 2022 è stata la peggiore degli ultimi 500 anni. Lo indicano i dati del programma europeo di osservazione della Terra Copernicus, gestito da Commissione Europea e Agenzia Spaziale Europea (Esa). 

Le immagini dal satellite Sentinel 2 indicano come, tra il primo luglio e il 31 agosto 2022, vaste regioni siano passate da un verde acceso a un marrone arido. I danni più gravi alla vegetazione sono ben visibili nelle aree sud-orientali della Gran Bretagna, in Francia settentrionale e in Germania, Polonia e Europa orientale. I dati sono stati confrontati con un altro studio del 2014 sulla siccità del 1540. 

L'ultima grande siccità colpì il continente nel 1540. L'ondata di caldo estremo avvenuta in quel periodo fu molto persistente, con una durata di ben 11 mesi, portando a circa 90-95 giorni di pioggia in meno rispetto alla media dell'Europa occidentale e centrale del XX secolo. La siccità idrologica risultò altrettanto estrema: la portata di fiumi come Reno ed Elba scese addirittura del 90% e i corsi d'acqua più piccoli si prosciugarono completamente.

Anche i dati ricavati dall'Osservatorio Globale sulla Siccità (Global Drought Observatory, Gdo) indicano che il 47% dell'Europa ad agosto si trovava in condizioni allarmanti: i segnali più gravi erano la mancanza di umidità nel suolo e gli effetti negativi sulla vegetazione. Inoltre, il livello dell'acqua nei fiumi, compresi il Reno, il Danubio e il Po, è sceso così tanto da impedirne la navigazione, mentre il clima eccezionalmente caldo e secco ha notevolmente aumentato il rischio di incendi boschivi.

Mai vista (in 500 anni) una siccità così pesante. Distese di aridità nelle immagini del satellite. Coldiretti: all'agricoltura danni per 6 miliardi. Maria Sorbi il 7 Settembre 2022 su Il Giornale.

Fiumi ridotti a rivoli o del tutto spariti dalla cartina geografica, immagini surreali fatte di sola terra e laghetti alpini completamente prosciugati. I dati del programma europeo di osservazione della Terra Copernicus, gestito da Commissione europea e Agenzia spaziale europea Esa, raccontano di una siccità devastante. E le statistiche confermano che in Europa è stata la peggiore dal 1540. All'epoca non c'erano le immagini dall'alto, ma erano stati contati oltre 90 giorni di pioggia in meno rispetto alla media.

Le immagini dal satellite Sentinel 2 indicano come, tra il primo luglio e il 31 agosto 2022, vaste regioni siano passate da un verde acceso a un marrone arido. I danni più gravi alla vegetazione sono ben visibili nelle aree sud-orientali della Gran Bretagna, in Francia settentrionale e in Germania, Polonia e Europa orientale. I dati sono stati confrontati con un altro studio del 2014 sulla siccità del 1540.

Anche i dati ricavati dall'Osservatorio globale sulla siccità (Global Drought Observatory, Gdo) indicano che il 47% dell'Europa ad agosto si trovava in condizioni allarmanti: i segnali più gravi erano la mancanza di umidità nel suolo e gli effetti negativi sulla vegetazione. Inoltre, il livello dell'acqua nei fiumi, compresi il Reno, il Danubio e il Po, è sceso così tanto da impedirne la navigazione, mentre il clima eccezionalmente caldo e secco ha notevolmente aumentato il rischio di incendi boschivi.

L'ultima grande siccità, infatti, colpì il continente nel 1540. L'ondata di caldo estremo avvenuta in quel periodo fu molto persistente, con una durata di ben 11 mesi, portando a circa 90-95 giorni di pioggia in meno rispetto alla media dell'Europa occidentale e centrale del XX secolo. La siccità idrologica risultò altrettanto estrema: la portata di fiumi come Reno ed Elba scese addirittura del 90% e i corsi d'acqua più piccoli si prosciugarono completamente.

Dopo ettari di boschi persi per gli incendi, dopo l'allarme ghiacciai e dopo restrizioni sull'utilizzo dell'acqua in certi Comuni che mai avremmo immaginato, possiamo dire che il peggio sia passato.

Ma l'estate nera parla di un bilancio pesante: è costata all'agricoltura italiana 6 miliardi di euro di danni, pari al 10% della produzione agroalimentare nazionale. A fare i conti è Coldiretti che calcola, solo a giugno, temperature medie superiore di ben +2,88 gradi rispetto alla media su valori vicini al massimo registrato nel 2003. Nel mese di luglio la colonnina è stata più alta di +2,26 gradi la media, inferiore solo al 2005. Il risultato è stato che le campagne italiane sono allo stremo con cali produttivi del 45% per il mais e i foraggi che servono all'alimentazione degli animali, del 20% per il latte nelle stalle, del 30% per il frumento duro per la pasta di oltre 1/5 delle produzione di frumento tenero, del 30% del riso, meno 15% frutta ustionata da temperature di 40 gradi, meno 20% cozze e vongole uccise dalla mancanza di ricambio idrico nel Delta del Po, dove - evidenzia la Coldiretti - si allargano le zone di «acqua morta», assalti di insetti e cavallette con decine di migliaia di ettari devastati. Gli agricoltori sono preoccupati anche per la vendemmia, con la prospettiva di un calo del 10% delle uve mentre è allarme negli uliveti con il caldo che rischia di far crollare le rese produttive.

Le biciclette elettriche attirano i fulmini? Il caso della morte di Alberto Balocco in Val Chisone. Enrico Maria Corno, Michela Rovelli su Il Corriere della Sera il 27 Agosto 2022.

La bicicletta e la batteria non attirano i fulmini. Rimane il consiglio, alle prime gocce di pioggia, soprattutto in montagna, di mettersi al riparo ma non in aree aperte e tantomeno vicino a pali o tralicci 

Si trovavano in sella a una bicicletta elettrica - una mountain bike in fibra di carbonio - Alberto Balocco e l'amico Davide Vigo, quando sono stati sorpresi da un violento temporale. Si trovavano in Val Chisone, nel Piemonte Occidentale. Un fulmine li ha colpiti mentre stavano indossando le giacche antivento per proteggersi dalla pioggia e forse mentre pensavano di cercare riparo nel vicino rifugio. Li ha uccisi entrambi, sul colpo. Che sia pericoloso trovarsi all'aperto durante una tempesta di fulmini è cosa nota (qui i consigli su cosa fare). Ma le due ruote dotate di batteria, scelte dai due amici per la gita, possono aver aggravato la situazione?

Si stima che nel mondo le morti causate da un fulmine siano tra le 6 e le 24mila. Anche se il numero di coloro che vengono colpiti è molto più alto: spesso si sopravvive. In Italia cadono circa 1,6 milioni di fulmini ogni anno: è un fenomeno che si concentra soprattutto d'estate. E trovarsi all'aria aperta durante un temporale è sicuramente più pericoloso. Secondo i dati del Center for Disease Control and Prevention americano, dal 2006 al 2021 quasi i due terzi di decessi causati da un fulmine negli Stati Uniti riguardano persone che stavano svolgendo attività ricreative all'aperto come la pesca, la nautica, lo sport, il relax in spiaggia. O la bicicletta.

Cosa attira un fulmine? Quale situazione aggrava il pericolo? Scrive il SIRF (Sistema italiano rilevamento fulmini) sul suo sito che «ogni oggetto con un’elevazione predominante rispetto all’area circostante ha una maggior probabilità di essere colpito dal fulmine (un albero, una torre, un traliccio)». Dunque trovarsi in montagna, ad esempio, o in mezzo a degli alberi, è un rischio. Questo perché è probabile che la scarica elettrica cerchi il percorso più facile per arrivare a terra, quindi puntare su oggetti più alti o solitari significa che percorrere una distanza minore. Tuttavia, non c'è alcuna garanzia che venga privilegiato: i fulmini sono indiscriminati e spesso imprevedibili. Non è un caso che il luogo in cui il fulmine si è abbattuto sui due sfortunati sia ben sopra il livello della vegetazione in un tratto di montagna completamente spoglio. cosa che ha aumentato le possibilità di essere colpiti.

Arriviamo alle biciclette. Questo mezzo non attira fulmini più di qualunque altro oggetto: «I nostri tecnici confermano che né un telaio in carbonio né la presenza di materiale elettronico o della batteria stessa rendono una e-bike un bersaglio più facile», ci dice Donatella Suardi, general manager di Scott, la filiale del noto brand svizzero che è tra i primi produttori al mondo di e-MTB a pedalata assistita. A conferma, c'è anche ciò che è scritto sul sito del National Weather Service americano: «L'altezza, la forma appuntita e l'isolamento sono i fattori dominanti che controllano il punto in cui un fulmine colpisce. La presenza di metallo non fa assolutamente differenza sul luogo in cui il fulmine colpisce. Le montagne sono fatte di pietra, ma vengono colpite dai fulmini molte volte all'anno». E poi precisa: «Il metallo non attira i fulmini, ma li conduce». Aggiunge Donatella Suardi: «Il ciclista è per sua natura più in alto della bici e quindi attirerebbe la traiettoria del fulmine più della bici stessa, indipendentemente dai materiali con cui è stata costruita. Il fatto che l'acciaio, il carbonio o le altre leghe siano ottimi conduttori diventa secondario».

«I copertoni delle Mountain Bike sono comunque in gomma isolante, così come le manopole del manubrio. Il ciclista non pedala mai a contatto diretto con il carbonio o l'alluminio..», ci dice Dario Acquaroli, due volte campione del mondo di MTB che oggi lavora per Merida, l'azienda taiwanese che produce biciclette. Aggiungiamo anche che la batteria delle eBike è ricoperta da materiale isolante. «E' facile quindi immaginare che il fulmine si sia scaricato a terra con una potenza di milioni di volt e che abbia travolto allo stesso tempo i due ciclisti. Questa è la casistica più comune per questo genere di incidenti. In montagna sappiamo che, alle prime gocce di pioggia, dobbiamo metterci al riparo ma non in aree aperte e tantomeno vicino a pali o tralicci. Sfatiamo una volta per tutte che il carbonio o i dispositivi elettronici attirino le scariche dei fulmini».

Un punto sulla batteria della bici elettrica che stava utilizzando Alberto Balocco. No, i dispositivi elettronici non attraggono i fulmini. L'unica cosa che attrae i fulmini è appunto la forma di un oggetto, appuntito o che si erge verso l'alto. Molto discusso è infatti anche il possibile pericolo nell'utilizzare uno smartphone durante una tempesta. Si tratta ancora una volta di un mito: i telefoni cellulari sono dispositivi a bassa potenza e non hanno alcuna caratteristica che li renda attraenti per i fulmini. Quello che può essere pericoloso, in caso di tempesta, è usare un dispositivo elettronico collegato alla presa di corrente in casa.

Andrea Joly per “La Stampa” il 27 agosto 2022. 

Dottor Cat Berro, una morte causata da un fulmine si può evitare?

«In Italia muoiono 10-15 persone l'anno di media uccise da un fulmine. È un episodio difficile da prevenire, subdolo, e non sempre avviene sotto una nube temporalesca: basti pensare che a volte un fulmine può cadere lateralmente anche a distanza di diversi chilometri dalla nube, in modo che quasi non ci accorgiamo del pericolo, mentre sopra di noi c'è il sole. Certo oggi abbiamo degli strumenti, come le previsioni meteo. Se sono previsti temporali, meglio stare lontani dai luoghi in cui si è più esposti». 

Quali sono i luoghi più pericolosi?

«Tutti i luoghi aperti. Nel caso della montagna non tanto le Alpi interne, come Aosta o Bolzano, quanto sulla fascia prealpina, nelle zone che si affacciano alla Val Padana: Varese, Como, le prealpi venete e friulane. Lì dove i temporali più frequenti. Ma si è in pericolo anche in acqua, mare, lago o fiume che sia, e in aperta campagna».

Dove ci si mette al riparo?

«La prima accortezza, che appare banale, è quella di cercare immediatamente riparo in un edificio: è molto più difficile essere colpiti da un fulmine al suo interno. Vanno bene anche anfratti della montagna, preferibilmente senza appoggiarsi alla roccia del fondo e nemmeno restare in corrispondenza dell'apertura, che può essere un luogo di passaggio preferenziale della scarica. 

Il luogo più sicuro in cui possiamo trovarci durante un temporale è la macchina. La sua struttura metallica costituisce una Gabbia di Faraday che ci protegge. Un'altra cosa da fare è abbandonare subito i luoghi più elevati, come creste, vette. La forma appuntita del territorio, prominente, può facilitare l'innesco di un fulmine. Più ancora del materiale, che è più un luogo comune: non è detto che il metallo attiri di più di altro». 

In caso in cui non ci siano le condizioni per ripararsi?

«L'importante è evitare gli alberi, per il motivo di prima, soprattutto se isolati. Se proprio il temporale ci sorprende in una zona aperta, senza alcun rifugio, si può accucciarsi in posizione "a uovo" con i piedi uniti. Serve a evitare quella che è chiamata la "corrente di passo": anche se noi non veniamo direttamente colpiti dalla scarica, può capitare che il fulmine caduto a breve distanza sviluppi un gradiente di potenziale elettrico lungo il terreno. Se noi siamo a piedi divaricati, toccando il suolo in due punti distanti tra loro facciamo da "arco", dove si sviluppa una differenza di potenziale che fa sì che la scarica elettrica passi attraverso il nostro corpo. Questa scarica può essere letale, capita spesso agli animali quadrupedi che vengono falcidiati dai fulmini». 

Cosa fare del cellulare?

«I vecchi telefoni in casa erano pericolosi, quelli col filo dove poteva correre la scarica. Gli smartphone non rappresentano un pericolo significativo». 

Quali sono i periodi peggiori per essere colpiti?

«Al Nord l'estate, e coincide con uno dei momenti di massima frequentazione della montagna. Nell'arco della giornata è peggio al pomeriggio: meglio partire presto al mattino in modo da essere di rientro a inizio-metà pomeriggio. Nella fascia mediterranea i temporali sono invece frequenti anche in autunno e d'inverno». 

Quanto incide il cambiamento climatico?

«Difficile dirlo, ma di certo sappiamo che un'atmosfera e il mare più caldi, e quindi più energetici, forniscono più energia e vapore acqueo e fanno sì che i temporali siano più intensi. Di conseguenza anche i fulmini sono più frequenti. Indirettamente il riscaldamento globale può generare un aumento della densità delle scariche e della loro fatalità»

Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 31 agosto 2022.

«All’improvviso un lampo, una luce bianca fortissima, poi il botto. Non ho capito più niente, nemmeno che a colpirci fosse stato un fulmine. So solo che io e Christian non sentivamo più le gambe. E poco più in là c’era Simone svenuto, immobile, con la faccia dentro una pozzanghera...». Manuel Annese è tornato a casa. Sono passati quattro giorni dallo choc vissuto sul Gran Sasso, e solo adesso il 30enne di Roma sud, esperto in sistemi di sicurezza, trova la forza per raccontare i dettagli della drammatica avventura nel cuore dell’Abruzzo.

Proprio nel giorno in cui il suo amico e collega Simone Toni, 28 anni, di Tivoli, si è svegliato dal coma farmacologico e secondo i medici dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila, «è vigile e cosciente», ma sempre in prognosi riservata. Dimesso dallo stesso nosocomio anche l’altro amico, Christian Damiani, di 24, residente a Ostia. Toni potrebbe essersi salvato grazie alla catenina che portava al collo: potrebbe aver contribuito ad abbassare la tensione provocata dalla saetta. 

Manuel, cosa ricorda di quella mattina?

«Le nuvole comparse all’improvviso dopo che avevamo camminato per ore, almeno dalle 8.30, sui sentieri che portano all’Osservatorio, a Campo Imperatore. Abbiamo capito che il tempo stava cambiando all’improvviso e allora abbiamo deciso di scendere verso il parcheggio. Erano da poco passate le 11».

C’erano altre persone con voi?

«Avevamo incrociato una comitiva, poi ce n’era un’altra che ci seguiva a qualche centinaio di metri. Era una bella giornata, avevamo caldo ed eravamo rimasti con le magliette a maniche corte. Simone aveva parcheggiato la macchina in uno spiazzo all’inizio del sentiero. Per noi, appassionati di escursioni e camminate nella natura, era la prima volta sul Gran Sasso». 

Quindi il meteo è cambiato in un attimo...

«Esatto. E questo ci ha sorpreso non poco. Per prudenza abbiamo pensato che fosse meglio tornare indietro. Più che altro per non essere raggiunti dal temporale che si stava per abbattere sulla zona».

E poi cosa è successo?

«Eravamo a qualche centinaio di metri dal parcheggio, stavamo chiacchierando mentre camminavamo, quando in un attimo siamo stati investiti da questa luce bianca, accecante. Non so se un decimo di secondo prima o subito dopo ho sentito le gambe tremare. Era impossibile rimanere in piedi, io e Christian siamo crollati a terra. E lo stesso è successo a Simone, solo che lui è stato preso in pieno. Una sensazione indescrivibile». 

Ha capito subito che era stato un fulmine?

«In un primo momento sono rimasto paralizzato. Come Christian. Ho provato a rialzarmi, ma non ce la facevo: avevo preso una botta al ginocchio sinistro ed ero ferito alla gamba destra. Anche il mio amico non poteva muoversi, ma si lamentava. Simone invece non dava segni di vita. Eravamo disperati». 

Cosa avete fatto?

«Ci siamo trascinati con le braccia verso di lui per togliergli la faccia dalla pozzanghera. Temevamo morisse annegato. L’abbiamo girato, gli abbiamo fatto il massaggio cardiaco, Christian anche la respirazione bocca a bocca. Poi per fortuna siamo stati raggiunti dalla comitiva che ci seguiva e da una dottoressa che faceva trekking e che ha stabilizzato Simone. Sono arrivati subito anche i carabinieri forestali: avevano visto il fulmine cadere su una zona frequentata da escursionisti. Altrimenti non so come sarebbe andata a finire». 

Ma non è finita lì...

«No, perché per portarlo al parcheggio, Simone è stato preso in braccio da più persone, compresi noi due per quello che potevamo fare. Io zoppicavo: mi sono potuto rialzare solo perché avevo gli stivali alti che mi mantenevano le caviglie rigide. Il sentiero è stretto e ripido, non è stato facile, ma dovevamo fare in fretta. Non siamo solo colleghi, siamo amici che si sono conosciuti sul lavoro e sono diventati inseparabili. Adesso poi, dopo essere scampati a tutto questo, lo saremo ancora di più».

“Colpito da un fulmine, un lampo azzurro e poi il nulla”: così una guida alpina è scampata alla morte. La Stampa il 27 agosto 2022.  

Sopravvissuto miracolosamente ad un fulmine in alta montagna, ad un passo dalla morte: "Uno schermo nero che ti oscura gli occhi e una linea blu: uno vuoto e uno spostamento d'aria. E ti rendi conto della tua totale impotenza". Racconta così l'esperienza di un fulmine in montagna Davide Di Giosafatte, il presidente delle Guide Alpine d'Abruzzo, che anni fa proprio scendendo dalla cima del Gran Sasso fu gettato a terra senza gravi conseguenze dalla scarica. "Quanto accaduto non è nuovo, succede, ma certo che in passato erano meno frequenti - spiega la guida, uomo che ha conosciuto i 7 mila sull'Himalaya - Una volta le previsioni meteo inoltre erano meno attendibili, mentre ora sono più precise: io oggi per esempio lassù non ci sarei andato o almeno nelle ore cruciali mi sarei messo al riparo, a metà giornata dico. I temporali quando arrivano, arrivano.... Se mi chiedete se i cambiamenti climatici possono influire, dico che li rendono più facili, li accentuano. Ma questo riguarda l'intero rapporto dell'uomo con la montagna ed è un discorso lungo e complicato. Che ci porterebbe a parlare degli incidenti in montagna, cosa che al momento non possiamo fare". E quando si parla del Gran Sasso si parla sempre di una montagna difficile e pericolosa, che già quest'anno ha mietuto le sue vittime. A parte l'anno horribilis, il 2019 con le sue 8 vittime complessive, a giugno c'era stata la tragedia sul Corno Piccolo, dove dopo essere scivolato dalla presa, precipitato per 50 metri, morì un 30enne romano che assieme ad un collega aveva deciso di arrampicarsi sulla cima del Gran Sasso. Ad aprile Danilo Lesti, ufficiale degli alpini a Vipiteno, aveva deciso di andare sul Monte Piselli per poi essere ritrovato morto ai piedi di una parete. A questo si aggiungono altre due feriti gravi sempre sulle pareti del Gran Sasso. (ANSA).

Da Ansa il 27 agosto 2022.

Un fulmine ha colpito tre ragazzi poco sopra l'osservatorio astronomico di Campo Imperatore: due di loro sono stati sbalzati, mentre l'altro è stato trasportato all'ospedale dell'Aquila in gravi condizioni. Al momento non si conosce la provenienza dei tre escursionisti.  

S.T., il 28 enne di Tivoli colpito dal fulmine sopra l'Osservatorio Astronomico di Campo Imperatore in questo momento è in terapia intensiva in rianimazione all'Ospedale dell'Aquila.

Secondo quanto si è appreso è in grave in pericolo di vita e sottoposto al coma farmacologico. L'incidente ha coinvolto due ragazzi di 24 anni, l'altro, D.C. è di Roma, e un 28enne, A.M. sempre di Roma. Il fulmine ha colpito solo uno dei giovani escursionisti, e sarebbe uscito dal tallone per poi scaricarsi a terra.

A dare l'allarme al personale che opera intorno alla funivia è stato un altro turista che scendeva. I due compagni del ferito sono scesi a valle tramite la funivia con le loro gambe, mentre Simone, età apparente 25 anni, è stato trasportato via elicottero 118 all'Aquila. 

Secondo le testimonianze, il fulmine sarebbe caduto attorno alle 12:30, mentre sulla zona, che è ben sopra i duemila metri e che ora è in piena nebbia, in quel momento non si segnalava attività di fulmini intensa tale da poter pensare ad un pericolo imminente.

Da ansa.it il 26 agosto 2022.

L'industriale Alberto Balocco, 53 anni, titolare e amministratore delegato dell'omonima azienda dolciaria, uno dei due mountain biker morti sulla strada dell'Assietta (Torino) dopo essere stato colpito da un fulmine. E' quanto apprende l'ANSA. 

La seconda vittima è Davide Vigo, 55 anni, originario di Torino e residente in Lussemburgo.  Sul posto, lungo la strada che conduce al rifugio dell'Assietta, è stato inviato un mezzo del servizio di elisoccorso regionale, che è atterrato con notevoli difficoltà per via delle condizioni meteo. L'equipe medica ha tentato delle manovre di rianimazione cardiocircolatoria, ma senza esito. Hanno preso parte all'intervento squadre a terra del Soccorso alpino e personale dei carabinieri.

Neppure due mesi fa, il 2 luglio, un altro gravissimo lutto aveva colpito la famiglia e l'azienda dolciaria Balocco, la morte del padre di Alberto, Aldo, l'inventore del celebre panettone 'Mandorlato' e artefice della crescita dell'azienda avviata dal padre nel 1927 a Fossano (Cuneo), quando aveva aperto una piccola pasticceria. 

Alberto Balocco guidava l'azienda - 500 dipendenti e 200 milioni di fatturato nel 2022 - con la sorella Alessandra.

 "Siamo sconvolti da questa tragedia improvvisa che colpisce un amico, un imprenditore simbolo della nostra terra, che ha portato il Piemonte nelle case di tutto il mondo. Ci stringiamo in un fortissimo abbraccio alla famiglia di Alberto Balocco e a tutti i suoi cari". E' il messaggio del presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio per l'improvvisa morte dell'industriale dell'omonimo colosso dolciario.

Lorenza Rapini per “la Stampa” il 24 agosto 2022.

Anche il rabdomante, per combattere la siccità. Nell'estremo Ponente ligure questa antica conoscenza della tradizione non si è persa, c'è chi la pratica e, in questa estate senza pioggia, con i torrenti quasi a secco e le falde che calano in maniera preoccupante, perfino i Comuni decidono di chiamare in soccorso chi, concentrazione e strumenti alla mano, «sente» l'acqua in profondità nei terreni e, magari, indica dove si può trovare una fonte nascosta o dove si può scavare un pozzo.

«Di scientifico non c'è nulla, lo so - racconta Remo Moraglia, sindaco di Bajardo, piccolo centro sopra Sanremo, poco più di 300 anime - ma due delle nostre cinque sorgenti si sono seccate negli ultimi mesi. Le variazioni climatiche ci sono e purtroppo dobbiamo pensare anche al futuro. Fino ad ora abbiamo avuto le autobotti dei vigili del fuoco che ci hanno portato l'acqua. Ho saputo che anche in passato ci si era rivolti al rabdomante e l'ho chiamato. Un po' come quando si ha una malattia e si è disperati: si prova a percorrere tutte le strade».

Il portatore di questa conoscenza antica e misteriosa è Renato Labolani, 74 anni, residente peraltro a una manciata di chilometri da Bajardo, in un altro piccolo centro dell'entroterra del Ponente ligure, Apricale. «Capisco lo scetticismo - ancora il sindaco Moraglia - e se per caso la Corte dei conti dovesse avere da ridire, sono pronto a pagarli di tasca mia i 300 euro spesi per il rabdomante. Ma Apricale lo aveva già chiamato a luglio con successo e per questo ci siamo decisi. Ha trovato da noi cinque punti di acqua, tra i 120 e i 250 metri di profondità. Ora valuteremo di chiamare i tecnici per carotaggi e trivellazioni, magari prediligendo il punto meno profondo, sperando che lì ci sia acqua davvero».

Con i torrenti secchi o ai minimi storici, l'unico grande invaso dell'entroterra ridotto a una pozzanghera, il fiume Roja, principale risorsa idrica dell'Imperiese, già devastato dalla tempesta Alex di ottobre 2020 che ha modificato le falde e creato grossi problemi, il rabdomante alla fine può essere una opzione da tenere a mente.

Il Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, fondato nel 1989 su iniziativa di Piero Angela) definisce «la rabdomanzia un'arte divinatoria che non ha alcuna efficacia dimostrata» e mette in guardia le istituzioni pubbliche. Anzi, invita il rabdomante a «un esperimento di verifica delle sue abilità sensitive». 

Renato Labolani, che preferisce definirsi esperto di radioestesia piuttosto che di rabdomanzia, raccoglie la sfida e rilancia: «La mia non è una scienza e lo so. Ma è reale e i risultati ci sono. Vorrei incontrare qualcuno del Cicap per un confronto diretto: prendiamo un terreno e vediamo chi trova l'acqua e chi sbaglia». Poi racconta la sua storia: «Ho iniziato tra il 1985 e il 1990. Mia nonna aveva doti particolari e io le ho ereditate. Ogni cosa emette vibrazioni che possono essere colte soltanto dalla nostra parte inconscia. Io con il pendolo, in passato usavo il bastoncino ma l'ho abbandonato, le riesco a percepire. Sembra strano ma funziona».

E infatti a luglio ha trovato una fonte d'acqua nascosta sottoterra appunto ad Apricale, piccolo comune dove il sindaco aveva dovuto chiudere l'acqua alcune ore al giorno proprio per la siccità. «Quella fonte è da 250 metri cubi al giorno», spiega. Il suo modo di parlare è calmo e senza esitazioni, tranquillo nell'affrontare scetticismo e critiche: «Una volta in tanti avevano queste doti, poi sono andate perse. Questo è il mio più grande timore: non riuscire a trasmettere quello che so. Ho perso un nipote che stava imparando in un incidente. Ora ripongo le mie speranze in una nipotina di 18 anni. In tanti possono sentire l'acqua, ma bisogna essere in grado di capire quanta ce n'è e a quanta profondità, altrimenti è inutile».

Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Alberto Fraja per “Libero Quotidiano” il 29 dicembre 2021.

Non c'è fenomeno atmosferico più desiderato, invocato, percepito, ma pure maledetto, dannato e caricato d'ogni vituperio della pioggia. Dai tempi di Noè, che di acquazzoni s'intendeva, al diluvio di previsioni meteo in rete o in tv. 

Perché l'acqua che cade dal cielo «fa sì viaggiare l'anima», ma rende anche impraticabili i percorsi dei cavalieri erranti, complica le guerre, fa ritardare gli amori. Invocata in tempi di siccità, essa provoca anche la paura dell'eccesso, delle alluvioni e dei diluvi. 

Alain Corbin nel suo Breve storia della pioggia (Marietti, 80 pagine, 9 euro) ci disvela in poche ma gustosissime pagine un fenomeno a cui sono state dedicate poesie, pensieri, dipinti ma anche complicati significati politici. 

La pioggia è una straordinaria fabbrica di emozioni. Si chiede l'autore: «In quale momento della storia si individua l'evento di un io meteorologico sensibile a tutte queste variazioni? Fino a che punto i modi di provarle si sono trasformati con il tempo? Come si sono evolute le forme di attenzione, rappresentazione, desiderio, piacere e avversione suscitate dalle meteore, fino a giungere, oggi, a un bisogno quotidiano di sapere e, talvolta, a un vero e proprio disturbo psichiatrico?».

Corbin prova a fornire alcune risposte non prima di aver ricordato che è solo dalla fine del XVIII secolo che, da un lato, si intensifica la sensibilità individuale ai fenomeni meteorologici, dall'altro si affina la retorica per descrivere l'effetto delle meteore nell'animo di scrittori e intimisti. Quella dello storico francese è, insomma, una accurata rassegna delle reazioni più diverse indotte dalla pioggia. 

Già Plinio raccontava che un console romano «quando pioveva, faceva alzare il suo letto sotto le fitte frasche di un albero, per sentir fremere le gocce della pioggia e addormentarsi al loro mormorio».

Per gli artisti del Rinascimento la pioggia è prima di tutto quella del Diluvio, vale a dire la precipitazione di un'acqua violenta, che sorge sotto forma di tromba, forgiata dal vento, che sommerge, che spaventa e che anima gli incubi notturni. 

Leonardo da Vinci, in una pagina dei suoi Diari, immagina le precipitazioni del Diluvio: «L'aria è oscurata a causa della pioggia che, cadendo obliqua, ribattuta dall'assalto trasversale dei venti, forma delle onde come la polvere, a differenza del fatto che questa inondazione è come striata da linee di gocce d'acqua che scorrono».

Sono diverse le reazioni degli animi sensibili verso acquazzoni o semplice pioggerelline di marzo. Stendhal, per esempio, detestava gli scrosci d'acqua. Nei suoi scritti intimi, se la prende con veemenza con «le piogge continue, eterne, villane, infami, abominevoli». 

Al contrario Baudelaire ne faceva una componente essenziale dello spleen mentre i diaristi la intrecciavano con le lacrime.

Nell'opera di Verlaine, la pioggia si accorda con la «malinconia» mentre Victor Hugo non dimenticherà il primo abbandono di Juliette Drouer, sotto l'albero presso cui gli amanti si erano rifugiati per ripararsi dal temporale. 

L'acquazzone, secondo Debussy, racconta «la malinconia e la delicatezza, la dolcezza e la quiete» mentre André Gide, nel suo Journal, non cessa di esprimere la sua avversione verso le gocce cadute dal cielo.

E fin qui siamo alla storia della valutazione intima e individuale della pioggia. Perché esiste anche una dimensione pubblica del maltempo gravida di conseguenze. «Tanti avvenimenti importanti hanno tracciato la figura politica della pioggia» scrive l’autore.

La festa della Federazione, tenutasi a Parigi il 14 luglio del 1790 per celebrare l'anniversario della presa della Bastiglia - tanto per dire - fu rovinata da un vero e proprio nubifragio.

Per il piacere della stampa contro-rivoluzionaria che si dilettò nel descrivere il disordine, la confusione, la ressa, la fuga degli spettatori verso le gallerie, il sublime spettacolo degli indumenti femminili che aderiscono al corpo rivelandone alla vista «i contorni». 

Il libro di Corbin indaga anche sugli effetti prodotti dalla pioggia sulla guerra. Dalle strade rese impraticabili dalla pioggia che impediscono ai cavalieri erranti dei romanzi di Chrétien de Troyes di andare alla pugna alle orribili sofferenze causate dal maltempo nelle trincee durante la prima guerra mondiale.

C'è infine un ultimo aspetto da valutare. Quello relativo al desiderio della pioggia nei periodi di siccità e al terrore ispirato dalle precipitazioni eccessive, dalle piogge interminabili e, primo fra tutti, dalla grandine.

Ossessioni collettive rinvenibili in molte zone del pianeta e che hanno dato origine a un numero infinito di rituali dal profondo significato antropologico. Siamo all'origine dei tempi, quando è agli eventi celesti e marini che si attribuiscono le precipitazioni. 

Nuvole e temporali sono nelle mani delle divinità. Ma Giove e Nettuno non sono soli. Il Dio della Bibbia è anche più severo. Poi la società si laicizzò. E ora, se piove, è perché il governo è ladro.

(ANSA il 26 novembre 2022) -  "Delle circa cento persone nella zona di via Celario, a Casamicciola, intrappolate nelle proprie case senza acqua e senza luce, resta da raggiungerne una decina. Tutte le altre sono state messe in salvo". Lo riferisce il sindaco di Ischia, Enzo Ferrandino.

"Dalle prime verifiche effettuate, sono 150 le famiglie che non potranno far rientro nelle loro abitazioni a causa di situazioni di pericolo e delle condizioni idrogeologiche". Ne da' notizia il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.

"Insieme alla ricerca dei dispersi - spiega il governatore in una nota - l'altra grave emergenza è quella abitativa, per la quale la Regione sta definendo insieme ai sindaci le più opportune soluzioni, garantendo condizioni di piena sicurezza. Segnaleremo questa ulteriore e grave situazione alla Presidenza del consiglio e alla Protezione civile, con l'obiettivo di evitare il prolungarsi di condizioni di precarietà per gli sfollati. 

E' indispensabile, vista l'impossibilità per le famiglie di rientrare nelle proprie abitazioni nelle zone più colpite - conclude De Luca - definire il trasferimento in altro luogo, in sicurezza. E' questa l'altra grave emergenza che preoccupa in queste ore". (ANSA)  

Da ansa.it il 26 novembre 2022.

Un fiume di fango e detriti ha colpito questa mattina, intorno alle ore 5, Casamicciola, comune dell'Isola di Ischia, ingentissimi i danni. 

E' una donna la prima vittima accertata della frana di Casamicciola. 

Al momento il bilancio è di 12 dispersi ma i soccorritori stanno scavando nel fango alla ricerca delle persone. 

Il corpo della donna è stato individuato e recuperato in piazza Maio, una delle prime zone battute dai soccorritori. Con ogni probabilità la vittima, cittadina di un Paese dell'Est e sposata con un ischitano, proprio in quel punto è stata travolta dalla frana che non le ha lasciato scampo.

Sul posto stanno operando 70 uomini dei vigili del fuoco, insieme a personale della Protezione Civile e agli uomini delle forze dell'ordine ma i soccorsi sono resi complicati anche dalle difficili condizioni meteo. Complessivamente sono 20 i mezzi impiegati tra elicotteri, droni e movimento terra. "La prefettura insieme alla Regione sta disponendo l'evacuazione di circa 200 persone", ha annunciato il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi che ha parlato di "una situazione grave, con persone probabilmente ancora sotto il fango".

Una famiglia con un neonato, data in un primo momento dispersa, è stata ritrovata: sono tutti salvi e ricoreranno alle cure dei medici. La frana è venuta giù, alle primissime luci dell'alba, dal monte alle spalle della frazione dell'isola, così come avvenuto nel novembre del 2009, e ha trascinato massi e detriti che hanno causato il crollo di almeno 10 edifici. Sono circa 30 i nuclei familiari isolati, in totale 100 persone che devono essere ancora raggiunte e che sono senza acqua e luce. La strada che porta alle loro abitazioni è attualmente impraticabile per il fango. 

Le zone in cui è più visibile la forza con cui la frana ha colpito sono il porto di Casamicciola e piazza Bagni: dal monte Epomeo ha ceduto il terreno e la valanga di fango ha cancellato la vegetazione, gli albero sono venuti giù come birilli lasciando nudi i fianchi del monte. Sul lungomare sono ammassate almeno una decina di vetture e due bus turistici che la forza della frana ha trascinato giù.

Alcune macchine sono finite in acqua, altre sono sommerse dal fango. Anche il mare al porto ha cambiato colore: è diventato marrone a causa di quel fiume di fango sceso dalla montagna. Non va meglio nella zona alta, quella già ferita dal terremoto del 2017. I bob cat vanno avanti e indietro per rimuovere i detriti. La Protezione civile regionale ha approntato gruppi elettrogeni che verranno messi in funzione in modo da potere consentire le ricerche anche con il buio.

Restano invece ancora senza luce e acqua i 100 isolati, impossibili da raggiungere per i soccorritori. Albergatori e ristoratori, intanto, hanno dato la loro disponibilità ad offrire accoglienza e pasti per sfollati e soccorritori. Nella sede provvisoria del Comune è stato aperto il centro operativo comunale. E' in corso sull'isola anche la ricerca di strutture pubbliche, come palestre e scuole, dove accogliere temporaneamente persone rimaste senza casa. Il presidente della Regione Campania, Vicenzo De Luca chiede "lo stato di emergenza per l'isola di Ischia e i territori colpiti da questi eventi atmosferici disastrosi". E in segno di "rispetto e vicinanza" stasera la prima al Teatro San Carlo è stata annullata.

Macron chiama Meloni

Il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato questo pomeriggio con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e ha espresso il suo sostegno e la sua solidarietà dopo i drammatici eventi sull'isola di Ischia. Lo riferiscono fonti dell'Eliseo. 

Salvini, "otto i morti accertati" cautela dal prefetto

"Sono otto i morti accertati", informa il ministro delle Infrastrutture e Trasporti Matteo Salvini ma il prefetto di Napoli Palomba è cauto. ''Al momento c'è una notizia di una vittima, sicuramente accertata, e ci sono ancora una decina di dispersi'', afferma invece il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi.

"La situazione è molto complicata, si tratta di persone che sono probabilmente sotto il fango, che non rispondono alle chiamate", dice il ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi, al Tg2 rispondendo dalla sala operativa dei vigili del fuoco, da dove sta seguendo le operazioni di soccorso per la frana a Casamicciola. "La prefettura insieme alla Regione sta disponendo l'evacuazione di circa 200 persone, per il ricovero delle persone interessate dal movimento franoso, che devono essere messe in salvo", ha detto il ministro dell'Interno. 

Vertice in prefettura

Durante il vertice in prefettura 'il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ha voluto sincerarsi della situazione''. Lo ha riferito il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, sottolineando che la premier si è collegata in video durante la riunione del Ccs così come il ministro dell'Interno, Piantedosi. Il governo è pronto a fare la sua parte dopo la tragedia di Ischia. Lo ha detto - apprende l'ANSA - la premier Giorgia Meloni che ha appena lasciato la sede della Protezione Civile, dove è rimasta a lungo videocollegata con il comitato operativo del centro di coordinamento soccorsi allestito alla Prefettura di Napoli.

La premier ha fatto il punto con il Capo della Protezione Civile Curcio, i sindaci di Ischia, il governatore campano De Luca, il ministro dell'Interno Piantedosi e quello degli Esteri Tajani. Giorgia Meloni ha assicurato che allerterà tutti i ministri per un eventuale consiglio dei ministri da convocare d'urgenza. Straordinaria, una eccellenza internazionale. Così la premier Giorgia Meloni ha definito la Protezione civile italiana - apprende l'ANSA - ringraziandola per la capacità di risposta alle tante emergenze in Italia. La presidente del Consiglio si è videocollegata dalla Protezione Civile con il comitato operativo del centro di coordinamento soccorsi allestito alla Prefettura di Napoli, centro nevralgico dei soccorsi dopo la tragedia di Ischia. 

Mattarella, vicino alla popolazion colpita

Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiamato il sindaco della Città metropolitana di Napoli per esprimere la propria vicinanza alle popolazioni colpite dalla frana, per esprimere riconoscenza per l'opera dei soccorritori e per sincerarsi sull'andamento dei soccorsi. Manfredi ha ringraziato il Capo dello Stato per essere sempre vicino alla città e alla sua comunità.

Ischia, le cause della frana: detriti e cemento, così è partita la colata di fango. Fabrizio Geremicca su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2022.

La pioggia record in sei ore ha provocato lo smottamento. Gli esperti accusano: «Un’area ad alto rischio, lì si è costruito troppo». Gli ambientalisti puntano il dito sul condono del 2018

Centoventi millimetri di pioggia, tra mezzanotte e le sei del mattino. A Ischia ieri, secondo quanto riporta il Cnr, è piovuto come mai era accaduto negli ultimi venti anni. L’ennesimo fenomeno estremo del 2022 in Italia (130, quelli registrati). Il picco massimo di pioggia oraria è stato di 51,6 millimetri a Forio, uno dei Comuni ischitani, e di 50,4 millimetri sul Monte Epomeo, la montagna dalla quale si è staccata la frana che ha devastato Casamicciola Terme. Anzi, varie micro-frane incanalate in un flusso che ha creato un unico fiume di detriti, con grande capacità distruttiva. «Una tragedia e una comunità colpita duramente da un evento importante», ha detto Fabrizio Curcio, responsabile nazionale della Protezione Civile.

Che cosa è successo a Ischia: la ricostruzione

Sarebbe però semplicistico ricondurre quanto è accaduto solo alla tempesta d’acqua, secondo la geologa Micla Pennetta, docente di Geomorfologia all’Università Federico II. «La colpa — dice — è del cemento». Chiarisce il suo pensiero: «Lì c’è un terreno di natura vulcanica, ovvero poco compatto. In caso di piogge abbondanti l’acqua lo gonfia e tende a portarlo a valle. Gli alberi svolgono un ruolo fondamentale per prevenire questi fenomeni, ma ne sono stati eliminati molti per le attività antropiche. La cementificazione dei suoli ha ridotto la capacità di assorbimento delle acque, che scivolano a valle con una violenza devastante, trascinano fango ed altri materiali e creano disastri. Si è verificata una colata detritica».

Identificata la vittima: è Eleonora Sirabella, 31 anni

Non è la prima volta che accade, ricorda Pennetta: «È un fenomeno molto simile a quello del 2009, quando una colata rapida invase Piazza Bagni e morì una ragazza». Terrazzamenti con rimboschimento, vasche di laminazione, canali di drenaggio, secondo la geologa, sono gli interventi che vanno realizzati subito per evitare che si verifichino a Casamicciola nuove tragedie. Gli ambientalisti puntano il dito contro il condono-Ischia inserito nel decreto sul ponte Morandi di Genova crollato nel 2018: una sanatoria che bollano come «incostituzionale» e «con tanto di contributi concessi dallo Stato a chi ha edificato abusivamente e collegandoli alla ricostruzione post sisma del 2017». Secondo Legambiente a Ischia erano ben 28 mila le richieste ufficiali di sanatoria edilizia.

Per questo, dice Gaetano Sammartino, presidente della sezione Campania della Società Italiana di Geologia Ambientale, «va posto definitivamente un freno al consumo di suolo e va adeguato il sistema drenante». Riflette: «Quella è un’area a rischio idrogelogico molto elevato perché la stratigrafia del versante è precaria. Se l’abbandoniamo, non facciamo manutenzione e magari cementifichiamo i canali di impluvio la catastrofe è garantita. Il cemento non assorbe l’acqua, che scorre rapidamente e si precipita nelle zone di fondovalle».

A Ischia si è costruito troppo, insomma, e per lo più senza regole. Lo sa bene Aldo De Chiara, ex procuratore aggiunto a Napoli, che quando era magistrato si impegnò per contrastare il fenomeno dell’abusivismo edilizio sull’isola. «La storia si ripete — commenta —. Un terreno fragile non può subire edificazione senza criterio e fuori da ogni idonea programmazione. È il contesto fertile perché poi eventi atmosferici come quello della notte tra venerdì e sabato provochino danni irreversibili a cose e persone».

Eppure, ricorda De Chiara, che tra il 2010 ed il 2011 subì minacce di morte quando provò a far demolire alcune case abusive nei Comuni di Forio d’Ischia e di Barano, il contrasto al consumo di suolo ed all’abusivismo edilizio non sono tra le priorità nell’agenda politica. «Basti pensare — dice — che quando nel 2018 hanno stanziato fondi per la ricostruzione per le case danneggiate dal sisma del 2017 a Casamicciola sono state previste risorse anche per quelle abusive. Un atteggiamento irresponsabile». Incalza: «Sull’isola c’è stato un forte abusivismo edilizio del quale la classe politica non ha mai voluto prendere atto o verso il quale è stata connivente per motivi di consenso. Non è un problema solo di Ischia, peraltro. Ho ascoltato in occasione della campagna elettorale per le politiche candidati che invocavano un nuovo condono edilizio con il pretesto, in verità poco condivisibile, dell’abuso edilizio di necessità».

Eleonora Sirabella, chi era la vittima della frana di Ischia. E la storia di Nina, dispersa, sull’Isola da tre giorni. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2022.

La trentunenne deceduta viveva sull’isola. La donna bulgara aveva invece lavorato in un ristorante e stava facendo le pratiche per la cittadinanza italiana

Il fango tiene prigioniere undici persone. La speranza è che siano bloccate da qualche parte dove i soccorsi ancora non sono riusciti ad arrivare. La paura — e per i più pessimisti anche molto più che paura — è che melma e detriti le abbiano inghiottite, che quando si arriverà a loro si dovrà inesorabilmente allungare l’elenco delle vittime.

Le ultime notizie sulla frana di Ischia

Dall’inferno per ora è venuto fuori un solo corpo. È quello di una ragazza ischitana di trentuno anni, Eleonora Sirabella, che in una parte del nome aveva ciò che era: bella. Molto. E invece ci sono volute ore per identificarla. Abitava nella zona alta di Casamicciola, proprio lì dove la frana si è generata, assieme al marito Salvatore Impagliazzo, marinaio, di cui invece non si hanno notizie: disperso. Lei faceva la commessa.

Quando il suo corpo è stato trovato un centinaio di metri più giù, prima che riuscissero a darle un nome, si era sparsa la voce che si trattasse di una donna dell’est. Perché era difficile riconoscerla, e qualcuno si è ricordato che nella zona dalle parti di piazza Maio era tornata tre o quattro giorni fa Nikolinca Blagova, di cinquantaquattro anni che tutti chiamavano Nina. Il suo nome è ancora nell’elenco degli undici dispersi, ma lei a Ischia ci si è trovata per caso. Anzi, non per caso ma per quel desiderio infinito che aveva di diventare cittadina italiana, pure se era nata in Bulgaria e adesso la sua casa e la sua vita erano in Germania.

Nina aveva conosciuto Ischia ai tempi in cui era ancora una ragazza. Veniva a lavorare qui quando era una rarità incontrare, non solo da queste parti, una donna dell’est. Faceva lavori stagionali, da giugno a settembre e qualche volta anche oltre, perché a Ischia il turismo è sempre durato almeno quattro mesi abbondanti. Addetta ai piani negli alberghi di Forio e Lacco Ameno, cameriera nei ristoranti. Si era innamorata di Ischia ma anche di uno dei ristoratori che aveva avuto modo di conoscere, Vincenzo Senese, diventato poi il suo compagno. Vincenzo aveva ristoranti a Ischia ma anche a Palma di Maiorca e in Germania, e quando decise di ritirarsi propose a Nina di trasferirsi in Germania. Lei accettò, ormai i suoi due figli, che vivono in Bulgaria, erano grandi, avevano le loro famiglie e lei, pur essendo diventata nonna, poteva scegliere senza pensieri dove e con chi invecchiare.

Quindi basta lavori stagionali, basta avanti e indietro tra Ischia e Pazardzik, la sua città. Era arrivato il momento di raccogliere tutto quello che aveva seminato per una vita, che poi si trattava semplicemente di non dover necessariamente lavorare per mandare avanti la famiglia. Insomma, la pensione. Solo un progetto le era rimasto da portare a termine, solo un sogno ancora da realizzare: ottenere la cittadinanza italiana.

Perciò era tornata altre volte negli ultimi mesi, per presentare tutti i documenti necessari per ottenerla. E perciò era tornata agli inizi della settimana, tre giorni fa. Perché giovedì la cittadinanza le era stata finalmente riconosciuta. Vincenzo aveva preferito restare in Germania, il programma era di festeggiare insieme al ritorno di Nina. E invece ieri gli è arrivata la telefonata del nipote, l’avvocato ischitano Agostino Iacono, al quale è toccato raccontargli della frana e di Nina che non si sa dove sia e se sia viva o no. Ora lui vuole partire, ma non è più giovane, e i parenti hanno paura che lo stress del viaggio, nello stato d’animo in cui è, possa essere pericoloso. E poi sperano ancora di potergli fare un’altra telefonata e raccontargli un lieto fine che oggi sembra impossibile.

Quello stesso lieto fine in cui sperano parenti e amici di altre persone di cui non si sa più nulla dall’alba di ieri e che per tutta la notte le squadre di soccorso hanno continuato a cercare: la famiglia Monti, la famiglia Mazzella e altri. Uomini e donne e ragazzi e bambini che avevano la casa dove ora non c’è più niente. Tutti travolti dal fango. Forse vivi e imprigionati, forse inghiottiti. Probabilmente inghiottiti.

Ma non è solo fatalità. I tanti allarmi inascoltati. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

Mai come in questo caso, una lunga storia di errori dimostrava come l’isola fosse da sempre esposta a rischi di ogni tipo. Le responsabilità sia locali sia nazionali

Non ne possiamo più, di piangere per Ischia. Le nuove ed ennesime vittime travolte dall’ennesima frana venuta giù dal Monte Epomeo (guai a chiamarlo vulcano: porta iella...) vanno piante, onorate e affidate alla terra col cordoglio di tutti gli italiani. Non meno doveroso, però, sarà rispettare lo strazio delle famiglie nel modo più serio e severo, con un’inchiesta che dia il giusto peso alla gravità dell’evento atmosferico ma spazzi via i tentativi di dare tutta la colpa alla fatalità. Si sapeva, che poteva succedere ancora. Si sapeva.

Forse mai come in questo caso, infatti, una lunga storia di errori dimostrava come l’isola fosse da sempre esposta a tutti i rischi: quelli sismici, quelli idrogeologici e più ancora quelli dovuti all’insipienza dell’uomo. Basti rileggere, prima ancora che Francesco Guicciardini il quale già mezzo millennio fa ricordava come siano «gli errori di chi governa quasi sempre causa delle ruine della città», le accuse furenti e sconsolate, del giudice Aldo de Chiara, per anni e anni acerrimo avversario dell’abusivismo sull’isola: «Hanno costruito in prossimità di scarpate, di zone sismiche, di zone franose. C’è sempre stata una coalizione di destra e di sinistra contro tutte le demolizioni». Con un risultato sotto gli occhi di tutti: all’entrata in vigore del condono del 2003 voluto dal governo Berlusconi il numero delle demolizioni eseguite sull’isola a partire dal 1988 risultavano essere state, in totale, solo 22. Ventidue su 2.922 ordinate dalla magistratura con sentenza esecutiva. Lo 0,75%. Briciole.

E non si trattava di sentenze emesse per cocciutaggine da giudici ambientalisti decisi ad applicare nella maniera più pignola regole cavillose per punire tanti poveracci colpevoli «soltanto» di piccoli «abusi di necessità» dovuti alla pigrizia di una burocrazia elefantiaca. Si trattava, quasi sempre, di salvare la pelle a chi aveva tirato su case e case senza rispettare le regole del buon senso. Come si è visto in decine e decine di casi di interi quartieri travolti dalle acque in piena da una parte all’altra dell’Italia. Uno per tutti, la tragedia di Sarno e Quindici nel maggio 1998. Preceduta da segnali nettissimi sui pericoli di aver costruito case su case lungo il percorso di un corso d’acqua destinato un giorno o l’altro a precipitare a valle. Restano nella memoria le parole amarissime di Fabio Rossi, docente all’Università di Salerno ed esperto di idrogeologia, con gli occhi fissi a guardar su verso la montagna mentre troppi corpi erano ancora sepolti dalla melma che li aveva inghiottiti: «La colpa è loro, ma questo non si può dire ai morti». Una frase simile a quella pronunciata da Jean-Jacques Rousseau a proposito dello spaventoso terremoto di Lisbona del 1755: «Dopotutto non è la natura che ha ammucchiato là ventimila case...».

«Come noto, in Italia frane e inondazioni sono frequenti e causano danni a strutture e infrastrutture nonché vittime, feriti e sfollati ogni anno. Negli ultimi 15 (dal 2007 al 2021) le persone che hanno perso la vita a causa di tali eventi sono complessivamente 336, di cui 188 per le inondazioni e 148 per le frane», accusa il dossier Polaris del Cnr. E non passa anno senza che l’Ispra, Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, dimentichi d’aggiornare il censimento delle frane italiane, oltre 620.000 pari a due terzi di quelle rilevate in tutta Europa.

Tutte cose note. Denunciate. Ma troppo spesso accolte come prediche moleste di fastidiosi grilli parlanti, come un geologo cacciato da un convegno proprio a Ischia sul tema del rispetto di un territorio così fragile, con l’accusa d’esser un menagramo. Pochi dati di Legambiente dopo il sisma del 21 agosto 2017 nell’isola, che oggi ha 62.630 abitanti, dicono tutto: «Sono 28 mila le pratiche di richiesta di condono “ufficiali” nell’isola di Ischia. Nei soli Comuni di Casamicciola Terme e Lacco Ameno, che contano circa 13 mila abitanti, le pratiche di condono presentate sono oltre 6 mila, una su due abitanti». Ancora: «Ricordiamo quanto siano stati spropositati i danni rispetto all’intensità del sisma di magnitudo 4.0, anche per via dei materiali scadenti usati negli edifici». Testuale.

Eppure troppi ischitani, convinti di essere vittime di soprusi dei Comuni, della Regione e dello Stato, hanno avuto verso queste grida d’allarme reazioni scomposte. Come un manifesto di qualche anno fa affisso sui muri con queste frasi: «La politica dominante è morta! Dopo sessant’anni di coma vegetativo, ne danno il triste annuncio i cittadini “abusivi ” tutti. Le esequie si terranno in forma privata presso i seggi elettorali nei giorni...». Titolo: «Sulla scheda elettorale scrivi: “voto abusivo! ”».

Ma cosa ha fatto la politica ischitana, in questi anni, per convincere i cittadini a reagire in maniera diversa e a prendere coscienza dei rischi che loro stessi, per primi, correvano? Diciamolo: poco. Anzi, troppo spesso i padroni delle tessere, pronti volta per volta a saltare su cavalli diversi, hanno lisciato il pelo a quanti sbuffavano all’idea di promuovere finalmente una sana manutenzione, un «rammendo» antisismico, un risanamento complessivo di un panorama edilizio ad altissimo rischio. Ricordate, ad esempio, la sortita del governo giallo-verde che cercò di infilare una sanatoria per Ischia nel decreto per Genova dell’autunno 2018? Nella scia della promessa di Luigi Di Maio ai cittadini dell’isola che il loro sarebbe stato «un governo amico», spuntò fuori un decreto contro il quale saltarono su indignati Legambiente, Libera e la Cgil: «Questa proposta di condono è incomprensibile e pericolosissima (...) perché viene premiata l’illegalità, ancora una volta, condonando edifici che sono da decenni abusivi». In pratica, spiegò Sergio Rizzo, il provvedimento che concedeva agli abusivi un «ravvedimento operoso» includeva all’articolo 25 un passaggio di furbetta ambiguità: «per la definizione delle istanze trovano esclusiva applicazione le disposizioni di cui ai capi IV e V della legge 28 febbraio 1985, n. 47». E perché il riferimento era solo al condono craxiano del 1985 e non anche a quelli successivi berlusconiani del 1994 e del 2003? Perché quello più vecchio concedeva molto di più anche agli edifici costruiti su terreni inedificabili. Un messaggio non proprio «educativo »... Ischia merita di meglio. Una svolta vera. Che riscatti finalmente un’isola ferita e straordinaria.

Fabrizio Geremicca per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022. 

Centoventi millimetri di pioggia, tra mezzanotte e le sei del mattino. A Ischia ieri, secondo quanto riporta il Cnr, è piovuto come mai era accaduto negli ultimi venti anni. L'ennesimo fenomeno estremo del 2022 in Italia (130, quelli registrati). Il picco massimo di pioggia oraria è stato di 51,6 millimetri a Forio, uno dei Comuni ischitani, e di 50,4 millimetri sul Monte Epomeo, la montagna dalla quale si è staccata la frana che ha devastato Casamicciola Terme.

Anzi, varie micro-frane incanalate in un flusso che ha creato un unico fiume di detriti, con grande capacità distruttiva. «Una tragedia e una comunità colpita duramente da un evento importante», ha detto Fabrizio Curcio, responsabile nazionale della Protezione Civile. 

Sarebbe però semplicistico ricondurre quanto è accaduto solo alla tempesta d'acqua, secondo la geologa Micla Pennetta, docente di Geomorfologia all'Università Federico II.

«La colpa - dice - è del cemento». Chiarisce il suo pensiero: «Lì c'è un terreno di natura vulcanica, ovvero poco compatto. In caso di piogge abbondanti l'acqua lo gonfia e tende a portarlo a valle.

Gli alberi svolgono un ruolo fondamentale per prevenire questi fenomeni, ma ne sono stati eliminati molti per le attività antropiche. La cementificazione dei suoli ha ridotto la capacità di assorbimento delle acque, che scivolano a valle con una violenza devastante, trascinano fango ed altri materiali e creano disastri. Si è verificata una colata detritica». 

Non è la prima volta che accade, ricorda Pennetta: «È un fenomeno molto simile a quello del 2009, quando una colata rapida invase Piazza Bagni e morì una ragazza».

Terrazzamenti con rimboschimento, vasche di laminazione, canali di drenaggio, secondo la geologa, sono gli interventi che vanno realizzati subito per evitare che si verifichino a Casamicciola nuove tragedie.

Gli ambientalisti puntano il dito contro il condono-Ischia inserito nel decreto sul ponte Morandi di Genova crollato nel 2018: una sanatoria che bollano come «incostituzionale» e «con tanto di contributi concessi dallo Stato a chi ha edificato abusivamente e collegandoli alla ricostruzione post sisma del 2017». Secondo Legambiente a Ischia erano ben 28 mila le richieste ufficiali di sanatoria edilizia. 

Per questo, dice Gaetano Sammartino, presidente della sezione Campania della Società Italiana di Geologia Ambientale, «va posto definitivamente un freno al consumo di suolo e va adeguato il sistema drenante». Riflette: «Quella è un'area a rischio idrogelogico molto elevato perché la stratigrafia del versante è precaria.

Se l'abbandoniamo, non facciamo manutenzione e magari cementifichiamo i canali di impluvio la catastrofe è garantita. Il cemento non assorbe l'acqua, che scorre rapidamente e si precipita nelle zone di fondovalle». 

A Ischia si è costruito troppo, insomma, e per lo più senza regole. Lo sa bene Aldo De Chiara, ex procuratore aggiunto a Napoli, che quando era magistrato si impegnò per contrastare il fenomeno dell'abusivismo edilizio sull'isola. «La storia si ripete - commenta -. Un terreno fragile non può subire edificazione senza criterio e fuori da ogni idonea programmazione. È il contesto fertile perché poi eventi atmosferici come quello della notte tra venerdì e sabato provochino danni irreversibili a cose e persone».

Eppure, ricorda De Chiara, che tra il 2010 ed il 2011 subì minacce di morte quando provò a far demolire alcune case abusive nei Comuni di Forio d'Ischia e di Barano, il contrasto al consumo di suolo ed all'abusivismo edilizio non sono tra le priorità nell'agenda politica. «Basti pensare - dice - che quando nel 2018 hanno stanziato fondi per la ricostruzione per le case danneggiate dal sisma del 2017 a Casamicciola sono state previste risorse anche per quelle abusive. Un atteggiamento irresponsabile». 

Incalza: «Sull'isola c'è stato un forte abusivismo edilizio del quale la classe politica non ha mai voluto prendere atto o verso il quale è stata connivente per motivi di consenso. Non è un problema solo di Ischia, peraltro. Ho ascoltato in occasione della campagna elettorale per le politiche candidati che invocavano un nuovo condono edilizio con il pretesto, in verità poco condivisibile, dell'abuso edilizio di necessità».

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 27 novembre 2022.

Si muore così, in Italia. Quando piove. Quando c'è un temporale che non è nemmeno ancora tempesta, solo pioggia battente che inzuppa la collina argillosa, di terreno vulcanico, e la gonfia, e mentre è ancora buio, tra un tuono del cielo e un rombo di morte, ne sbriciola un pezzo intero e la fa scivolare su Casamicciola, luogo di tragedie recenti e antiche, già cerchiato di rosso, e di croci. 

Una gigantesca colata di fango e detriti, roccia e tutto quello che la furia della natura stuprata dall'uomo, offesa - alberi tagliati per creare terrazze appese nel vuoto, ville abusive costruite su panorami di abbacinante bellezza - riesce a trascinare giù, dentro le camere da letto dove la gente dorme. I sopravvissuti provano a contarsi nella luce di un'alba sporca. Si chiamano dalle finestre. «Assuntina, ci sei?». «Pasqualino dov' è?».

Poi sentono un lamento prolungato, qualcosa di disumano, come un terrificante muggito provenire dal basso, due traverse sotto piazza Bagni. È un manichino di fanghiglia. Ma il manichino parla. «A-iu-ta-te-mi». Gli dicono di resistere. 

E certo che resiste, quello sta lì da almeno due ore, aggrappato a una persiana, e alla vita. Il filmato del salvataggio diventa subito virale, fa il giro del web: il Paese capisce che, a poco più di due mesi dall'alluvione delle Marche, i cadaveri sommersi e trascinati per chilometri a Pianello di Ostra, Cantiano, Senigallia, c'è un'altra storia di ordinario disfacimento del nostro territorio, e ci saranno altre bare, e altri funerali, e ovviamente altre stucchevoli polemiche.

Gira voce che manchi all'appello un intero nucleo familiare: padre, madre e figlio di pochi mesi. Però poi li ritrovano, erano ad asciugarsi a casa di una famiglia amica. I soccorritori faticano a mettere sotto controllo la scena del disastro. 

Spariti vicoli, cortili, giardini in questo lembo settentrionale della dolce Ischia, dell'ospitale Ischia. L'isola del turismo per tutti: alberghi con terme a cinque stelle, pensioni per comitive di tedeschi felici, ma anche e soprattutto la destinazione della vacanza ideale per la classe media di Napoli, che qui tiene orgogliosamente casa da generazioni, perché Capri è per pochi, selezionati riccastri e Procida, pure deliziosa, è troppo piccola.

Così qui hanno costruito e costruiscono ovunque sia possibile. 

Il cemento abusivo è nascosto da stupende bouganville e, adesso, dalla melma. In una casa al primo piano di via Paradisiello, stanno cercando di estrarre dall'armadio una Honda Sh 125. Due cani giacciono al piano terra, davanti l'ingresso. Un televisore e un cassonetto dell'immondizia sono sul tetto della villetta di fronte.

Il vigile del fuoco viene su dal porticciolo, è inzaccherato fino all'addome, ha l'aria desolata: «Abbiamo trovato il cadavere di una donna. Ma finora è stato impossibile risalire alla sua identità».

 Le agenzie - all'improvviso - battono l'annuncio di Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture: «I morti sono otto». Tutti cominciamo a chiederci dove siano. Un ufficiale dei carabinieri allarga le braccia: «Mi sembra complicato che qui nessuno si sia accorto di otto cadaveri. Temo, tra l'altro, che il numero delle vittime possa essere ben più alto». Timore confermato dal ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi. Costretto a smentire Salvini: «Al momento non ci sono decessi accertati».

La certezza è che qui tutto frana da secoli. E che da secoli ci si rassegna, dentro un efferato fatalismo, a pregare compaesani morti non di vecchiaia, ma soffocati, schiacciati, annegati. Nel 2006, una frana molto simile a quella della scorsa notte si portò via Luigi Buono, di 43 anni, e le sue tre figlie: Anna di 18, Maria di 16 e Giulia di 15. Tre anni dopo, morì travolta un'altra quindicenne, Anna De Felice. 

In processione al cimitero sempre con il rosario in mano e lo sguardo rivolto al monte Epomeo: come se fosse colpa sua. E invece le case vennero giù, che nemmeno un presepe di cartapesta, pure quando arrivò la botta di terremoto del 2017: perché poi qui la terra trema spesso e sta sui libri di storia il sisma del 1883, così feroce da far rimbalzare fino ai giorni nostri quel modo dire, non solo partenopeo, sinonimo di paura e distruzione, « È na' Casamicciola» .

Stavolta sono venti le abitazioni rase al suolo. Con prudenza, a pomeriggio inoltrato, il prefetto di Napoli, Claudio Palomba, aggiunge anche gli altri dati, da ritenersi ufficiali: i dispersi sono 11, accertato il decesso di una donna, gli sfollati sono circa 130, tredici i feriti, di cui uno grave.

Le luci delle fotoelettriche illuminano un mare che è ancora color marrone. Proprio così: dovete immaginarvi uno spaventoso mare marrone e schiumoso dentro cui galleggiano almeno dieci automobili e due pullman turistici. Il molo è inagibile. I mezzi dei soccorsi sono sbarcati a Ischia porto e da lì hanno arrancato fin quassù. Le ambulanze sono parcheggiate e hanno spento i lampeggianti. È piuttosto improbabile ci sia da correre in ospedale. Un prete con la giacca a vento nera infangata, la tonaca e una sparata di bottoni, proprio la tonaca dei preti di una volta, scende dal centro del paese e dice che invece bisogna sperare e affidarsi al volere di Nostro Signore. Poi benedice i vigili del fuoco. Si rimette lo zuccotto, accigliato borbotta che «tanto qui scontiamo sempre gli stessi peccati», e sparisce nelle tenebre.

Ischia e quelle case una sopra l’altra. «Ma qui è così da secoli». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

Dal porticciolo alla collina, viaggio nel paese colpito dove regna il fatalismo: «Non è colpa degli abusi».

I vivi cercano i morti. C’è un sole improvvisamente alto e bello senza un perché. Ha seccato il fango. Bisogna scavare piano. Adesso, qui, tutti guardiamo Totonno. È lui che manovra la ruspa. Totonno, attento, con delicatezza. Totonno, per la misericordia di Dio. Il pollice destro di quest’uomo massiccio e ruvido è una farfalla che sfiora appena la leva della ruspa: così il braccio meccanico scende dolcemente e i denti d’acciaio quasi accarezzano la melma che è diventata una crosta sulla sabbia. Porticciolo di Casamicciola, metà mattina. Il timore è che qualche corpo possa essere stato trascinato fin sulla spiaggia, oppure oltre. Laggiù, nell’acqua, ancora galleggiano una Fiat Panda e una Opel Corsa. I sommozzatori dei vigili del fuoco si immergono e vanno a controllare dentro le due automobili e sotto il pontile. Sul molo, fotografi e tigì in diretta. C’è anche la tivù tedesca.

Colpisce la sostanziale compostezza degli abitanti. Il sospetto è che ci sia un diffuso, spaventoso fatalismo. Sulla Moleskine restano dichiarazioni piene di stupore per una tragedia che ha provocato — appunto — tanto stupore. Morire perché piove. Mentre piove. Sì, e allora? È come se la maggior parte degli abitanti immaginasse, aspettasse, convivesse con la prospettiva di un simile disastro. Tutti, mentre parlano, istintivamente alzano lo sguardo verso la vetta del monte Epomeo, che la pioggia battente — l’altra notte — ha inzuppato e sbriciolato, facendo scivolare giù un fiume di detriti in burrasca.

Al bancone del bar Topless, l’unico aperto, si annusa parecchio fastidio per la storia dell’abusivismo che ha aggredito l’isola come una tigna, creando terrazze innaturali, il cemento al posto degli alberi, una casa sopra l’altra, incastrata all’altra, un presepe sbilenco che, periodicamente, tra temporali e terremoti, crolla in un fumo di macerie. Bevono un caffè, sgranocchiano una frolla, scuotono la testa: «Vi siete fissati con i condoni e sciocchezze varie. Risalga invece le strade del paese, arrivi a piazza Bagni, guardi bene in alto. Capirà cosa è davvero successo», dicono allusivi.

D’accordo: salire, vedere meglio, capire. A metà di corso Vittorio Emanuele, una signora gentile dice che dal suo balcone è possibile valutare bene larga parte della catastrofe. Fa strada dentro un vicolo stretto, arriviamo davanti a una porta: corridoio, soggiorno, terrazza chiusa su tutti i lati. Sulla destra, c’è una veranda con un’anziana seduta in poltrona: «È mia sorella, ci mancava una stanza e allora ho fatto costruire questa verandina». Scala a chiocciola, così ci ritroviamo su un ballatoio su cui affacciano due finestre: «Qui, in origine, c’era la cantina: ora l’estate ci vive mio figlio, quando viene in vacanza». Entriamo in una stanza arredata tipo sala da pranzo e, finalmente, usciamo sul balcone. Signora, perdoni: ma qui è tutto abusivo? «In che senso, tutto? Una verandina... e che sarà mai!». Creda: la favela di Salvador de Bahia, ovviamente assai più sporca, ha una struttura architettonica simile a questo pezzo di paese. «Lei sta scherzando...». No, scusi: e la cantina trasformata in appartamento? «E me lo chiama abuso? Guardi che quello, mio figlio, ad agosto si schiatta pure di caldo».

Il colpo d’occhio, in basso, è eloquente: la colata, scesa dal monte Epomeo, si è incanalata in quattro strade diverse. Una è soprannominata via della Lava. «E sa perché?» — questa è la voce di Giovanni Mattera, 65 anni, fino a pochi mesi fa comandante dei vigili urbani. Punta il dito verso la montagna: «Perché sono secoli che, da lassù, l’acqua fangosa scivola verso il mare. Però i nostri vecchi erano saggi: e avevano costruito ben tre canali di scolo, che impedivano all’acqua di stagnare, accumularsi e poi precipitare. Vede: il terreno di questa montagna non è mica diventato improvvisamente argilloso. Lo è sempre stato». L’ex comandante — «Dia retta: il problema, perciò, non è quel po’ di abusivismo che pure c’è» — si rivolge ad un suo amico, e gli chiede di mostrare le foto che ha sul cellulare: sono foto in bianco e nero, anno 1936; un lavoro di ingegneria con i fiocchi. «Purtroppo non c’è più stata manutenzione e i canali, le “briglie”, come le chiamiamo noi in dialetto, sono state sommerse dalla vegetazione. Ecco spiegato la causa del disastro».

Non solo. Ovunque il fiume di fango abbia trovato un ostacolo, e sia stato costretto a deviare la sua corsa, ha lasciato cumuli di detriti: rami secchi e rocce, ma anche scaldabagni arrugginiti, carcasse di lavatrici e frigoriferi, divani sfondati. Gli abitanti, ai piedi della montagna, avevano costruito una diga di rifiuti. Sono responsabilità che si intrecciano, difficili da conoscere, e riconoscere. L’ultima volta che lo Stato provò ad abbattere una villetta abusiva di 70 metri quadrati lungo la via Borbonica, che collega il comune di Lacco Ameno con Casamicciola, ci furono tafferugli con la popolazione, sette agenti feriti. Però se provi a ricordarlo, quell’episodio, così emblematico, ti guardano storto: proprio adesso? Sì, certo, per forza: soprattutto adesso. Mentre arriva la notizia che hanno trovato la settima vittima, ed è il terzo bambino: un neonato, questo, di 22 giorni; Giovangiuseppe Scotto Di Minico, ancora nel suo pigiamino di flanella. Non lo sapeva dov’era nato, piccolo amore. Non sapeva di dormire sotto la montagna che si scioglie, e frana, e uccide. Tre bare bianche. Nessuno speri di cavarsela con un Atto di Dolore.

Frana a Ischia, il neonato e i fratellini morti con i genitori: le storie. Fulvio Bufi su Il Corriere della Sera il 28 Novembre 2022.

Maurizio e Giovanni sono morti con il loro piccolo di 21 giorni. Il tassista e la moglie travolti con i tre figli. Ecco le storie di chi è morto travolto dal fango

Gianluca aveva portato la famiglia a vivere lassù perché lì c’era lo spazio per farci una stalla e sistemarci due muli e un cavallo che erano la sua passione. E pure dei suoi tre figli. Maurizio e Giovanna rimasero senza casa dopo il terremoto del 2017, e invece di rimettere a posto quella che era giù in piazza Maio decisero di ristrutturarne un’altra che avevano al Celario. Con l’orto intorno e la stanzetta per il bambino che era in programma già da un po’ ma era appena arrivato.

Pure Eleonora e Salvatore avevano ristrutturato un vecchio rudere, ma ci vivevano un po’ sì e un po’ no. Quando lui era imbarcato, e rimaneva in mare anche sei mesi, lei si trasferiva dalla mamma a Lacco Ameno. Adesso Salvatore non era imbarcato. Nikolinka, che qui chiamavano Nina, viveva a Berlino col suo compagno ischitano. Ma la casa aggrappata sul costone dell’Epomeo avevano voluto conservarla, e Nina c’era appena tornata per ritirare l’attestato di cittadinanza italiana, che era un suo desiderio ormai da tanti anni.

Gianluca, Maurizio, Giovanna, Eleonora, Salvatore, Nina. E poi Valentina, la moglie di Gianluca, e i loro figli, Michele, Francesco e Maria Teresa. E, ancora, Giovangiuseppe, il più piccolo di tutti, rimasto al mondo ventidue giorni, nemmeno il tempo per Maurizio e Giovanna di abituarsi a essere genitori. E c’è da contare un altro nome, il dodicesimo, che le fonti ufficiali non forniscono (così come non forniscono quelli di chi è ancora considerato disperso) e in piazza Maio, dove pure si conoscono tutti, nessuno ha certezze. Forse una parente di Giovanna, ma non è detto che sia davvero così.

Bisogna aspettare. Solo aspettare, senza più sperare. Perché il fango, come commenta un funzionario dei vigili del fuoco mentre coordina le operazioni di scavo in casa di Maurizio Scotto di Minico e Giovanna Mazzella, dove nell’arco di poche ore saranno poi recuperati i loro corpi e quello di Giovangiuseppe, non lascia scampo né superstiti. Almeno non quando precipita da una montagna e la sua furia cresce e ne viene giù tanto da sfondare le case e riempire, fino a coprirlo, quel poco che resta in piedi. Era rimasto in piedi un pezzo della stanzetta dove dormivano Francesco e Maria Teresa, che avevano undici e sei anni. Hanno trovato prima lei, poi il fratellino. Dicono che Maria Teresa indossasse un pigiamino rosa: chissà chi e come se n’è accorto, con tutta quella maledizione nera che la copriva.

Ora stanno cercando Gianluca, Valentina e Michele, il primo figlio, 15 anni. Ufficialmente sono ancora dispersi, ma in quel rudere nero che è diventata la loro casa, vita non ce n’è più: si tratta soltanto di arrivare dove altra morte è nascosta sotto tonnellate di fango. Pure il cavallo di Gianluca è morto. I muli invece no, forse le stalle erano due e ne è stata colpita una soltanto: questione di destino. Come quello che ha fatto prenotare al fratello di Gianluca una vacanza in Spagna con la famiglia proprio in questi giorni. Anche loro abitavano lì, e anche la loro casa è stata spezzata dalla valanga. Se fossero stati a Ischia, l’elenco dei morti sarebbe più lungo.

E se Salvatore Impagliazzo, il compagno di Eleonora Sirabella, non avesse rinviato l’imbarco all’anno che verrà tra poco, si sarebbero salvati tutti e due, e almeno una famiglia, la meno numerosa delle tre che la frana ha distrutto, sarebbe fuori dal conteggio più tragico. Invece lei è stata la prima a essere recuperata, lui lo cercano ancora.

Parenti e amici credevano invece che non fossero da cercare Giovanna, Maurizio e il loro bimbo piccolissimo. Il cortocircuito comunicativo delle prime ore li aveva dati prima per dispersi e poi per ritrovati vivi. Era vera soltanto la prima notizia. Ora non sono nemmeno più dispersi: li hanno trovati ieri pomeriggio. Tutti vicini, come se il fango avesse avuto almeno un minimo di pudore a sbattere Giovan Giuseppe lontano dalla mamma e dal papà.

A guardarlo ora quel tratto di montagna che nella toponomastica del comune di Casamicciola si chiama via Celario, anche se una vera e propria via non è, un senso alla scelta fatta da tutti quelli che sono andati a viverci proprio non si riesce a trovarlo. Le case erano vicine ma sparse, e la montagna era qualcosa di incombente anche prima di vomitare terreno, tronchi e detriti trascinati dall’acqua. Eppure in quelle case diventate tombe c’era la scelta di una piccola comunità di giovani famiglie di vivere vicine. A parte Nina, che era nata nel 1964 e comunque non viveva stabilmente qui, e a parte ovviamente i bambini, gli altri avevano tutti intorno ai trent’anni. Ed erano tutti amici quando non addirittura parenti, come Gianluca e suo fratello, o Giovanna che ne era la cugina. E come forse l’ultima vittima di cui non trapela il nome. Giovani famiglie, ognuna con i suoi progetti e i suoi sogni, le sue speranze. Cose semplici e normali che il fango si è portato via.

Ischia, la famiglia della casa in bilico dopo la frana: «Davanti a noi il baratro, ci siamo stretti aspettando i soccorsi». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

In cinque hanno aspettato fuori nel viale l’arrivo dei soccorsi per un paio d’ore dentro la macchina, poi hanno cominciato a scendere a piedi. Il padre, Enzo Botta: «Era venuto tutto giù, sembrava di essere in un film, surreale»

È la casa sul burrone, una delle foto simbolo di questa tragedia annunciata che ha travolto Casamicciola a Ischia. Due piani affacciati sul mare, ancora con i panni stesi, la prova provata che chi ci abitava non si aspettava questo torrente di fango sotto i piedi. Enzo Botta alle cinque e un quarto era già in piedi, la pioggia lo stava preoccupando. La corrente elettrica era appena saltata. È andato sulla veranda della casa che ha costruito con tanti sacrifici e dove vive con la moglie Maria e i tre figli, e ha capito subito che quella che stava arrivando dal cielo era l’ira di Dio. «Allora ho chiamato tutti e gli ho detto di scendere nel viale, o almeno in quel poco che restava del viale», ha raccontato all’Ansa. Poi ha chiamato i soccorsi: «Veniteci a prendere, qui frana tutto».

Si sono salvati. Ma ricorderanno il 26 novembre del 2022 come il giorno in cui hanno scampato la morte. «I soccorsi non arrivavano e siamo rimasti fuori nel viale, dove avevamo deciso di restare dopo essere usciti tutti da casa, e ci siamo messi al riparo dentro la macchina. Eravamo sotto la pioggia tutti e cinque, ci tenevamo stretti, e lì dentro siamo rimasti per un paio d’ore, perché per i soccorritori era difficile raggiungerci: davanti a noi c’era il baratro, sembrava di essere in un film, era surreale».

Le sue ragazze hanno ventiquattro e ventuno anni, il maschio quasi dodici. Sono una famiglia luminosa, bella. Enzo ha 52 anni, Maria Acampora, sua moglie, 50. Lui fa il piastrellista, lei lavora come stagionale negli hotel. Hanno continuato ad aspettare l’arrivo dei soccorritori, mentre il fiume di melma si ingrossava sotto il loro occhi consumandogli la terra sotto i loro piedi e lo strapiombo prendeva forma davanti alla loro casa. Ma ancora non arrivavano. Il Monte Epomeo intanto veniva giù con la pioggia. «Ci siamo stretti restando uniti, intanto vedevo il vuoto attorno a me», è andato avanti Botta.

Infine ce l’hanno fatta, praticamente da soli. Quando la pioggia ha dato tregua sono scesi dall’auto e hanno cominciato a scendere a piedi, Enzo al telefono mandava informazioni su quello che vedeva. A metà strada lui e la sua famiglia hanno incontrato gli uomini della protezione civile e hanno proseguito insieme, dirigendosi prima al Palazzetto dello Sport di Forio, per lo smistamento, poi all’Hotel Michelangelo, dove avevano cominciato a dirottare gli sfollati. Dopo ventiquattr’ore la famiglia Botta ha lasciato l’albergo ed è andata a casa di amici: adesso torneranno soltanto per riprendersi le loro cose.

Dal Covid alle frane, se la natura sfida l’intelligenza umana. Il delitto più grave è l’inadeguatezza a guidare una palingenesi del sociale. Gino Dato su La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Novembre 2022

Non ci sono dubbi né esitazioni: è una sfida totale all’intelligenza quella che l’uomo deve affrontare quando l’imprevedibile prende il sopravvento, come è accaduto a Ischia, nel declinare la tragedia e la distruzione.

La cornice storica non è delle più incoraggianti. Prima la pandemia, che ha chiamato in gioco la sorte, ma anche la capacità delle scienze e della medicina di costruire delle barriere solide al dilagare del contagio. Poi la guerra fratricida, che ha messo a dura prova la capacità dell’uomo di produrre humanitas e di capire dove volgono la barra i prepotenti del mondo. Ma se è la natura a lanciare segnali forti, la questione non è solo quella di inventare la terapia o la pace salvifiche, ma di sovvertire gli strumenti di analisi e di intervento.

Perché non siamo più in grado di prevedere ciò che esplode con una furia inarrestabile? Quante sono e saranno le Ischia che sconvolgeranno un paese che si sforza di essere normale? Analisi, previsioni, rimedi. Gli scienziati sociali dovranno pur spiegare alla gente comune che cosa si è interrotto nella concatenazione logica fra i tre elementi che caratterizzano l’indagine degli uomini sul reale, sia questo costituito dai fenomeni fisici o da quelli morali, e la capacità conseguente di intervenire.

Non funzionano le analisi perché non sappiamo più indagare? Oppure le previsioni non sanno anti vedere e prevenire? O i rimedi non rimediano più? Vediamo: la questione è mal posta. Dovremmo dire meglio: le analisi servono a prevedere quel che serve a rimediare, appunto a modificare una condizione. Se il buon senso ci aiuta e ci soccorre, le crisi che investono il corpo sociale ma anche l’ambiente sembrano offrirci la dimostrazione di questo fallimento dell’uomo.

L’impressione è che, nella concatenazione analisi-previsioni-rimedi, l’atteggiamento adottato sia assai simile allo strumentario che si impiega nei confronti dei fenomeni fisici ed atmosferici, dove assistiamo ormai da anni a un vagolare dell’uomo di fronte all’imperversare dei cataclismi, eventi improvvisi che sconvolgono l’ambiente e che lasciano l’uomo fuori del controllo, frustrato nella sua incapacità di porre argini efficaci. E ancor più colpevole se non ha messo in atto fino a quel momento il rispetto e la tutela dell’ambiente.

Fuori da ogni strategia e schieramento, il fallimento convoca sul banco degli imputati una serie di scienziati e di ruoli sociali, in una vasta gamma che trascorre dai sociologi agli economisti ai politici. I primi appaiono ormai incapaci persino di descrivere gli umori reali e i comportamenti privati e pubblici di una società in movimento, che trasmigra e che è liquida, come dice il sociologo Bauman, tanto per richiamarci alle metafore di mutamento che caratterizzano le più recenti ricerche.

Ma anche gli economisti falliscono e vagolano nel buio, non solo perché l’econometria è arida ma soprattutto perché non hanno la capacità di leggere nei bisogni, al di là del puro scambio tra domanda e offerta, tra ricchezza e povertà, i moti dell’animo, le pulsioni che imprimono un altro percorso alla storia. E neanche i pedagogisti, nonostante i saperi verdi, riescono a concepire una pedagogia della crisi.

Abbiamo lasciato per ultimi i politici perché, non appartenendo alla categoria degli scienziati, che dovrebbero avanzare provando e riprovando, qui, nella loro categoria, si compie il delitto forse più grave, quello che attiene alla incapacità appunto di saper guardare avanti e innovare: attraverso le analisi, le previsioni, la scelta di misure alternative, la capacità di costituirsi in classe dirigente che additi percorsi virtuosi al disordine di valori e di mete che l’atomo individuale ormai persegue esclusivamente per i suoi fini personali.

Il delitto più grave diventa allora proprio l’inadeguatezza a guidare una palingenesi del sociale.

IL PAESE SPEZZATO. LA TRAGEDIA DI ISCHIA E IL CONTO CIVILE CHE PAGA IL SUD PER TITOLO QUINTO E ASSISTENZIALISMO. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 26 Novembre 2022.

C’è un carico pesante di responsabilità che appartiene alle colpe sistemiche di una politica che ha scelto la frammentazione decisionale. Con la riforma del titolo quinto e con il finto federalismo che ne è conseguito si è tolto un ruolo che è proprio dello Stato facendo venire meno il presidio centrale che esprime la coscienza di un Paese. Si sono fatti due pesi e due misure con la spesa pubblica incentivando gli egoismi e aumentando le inefficienze a livello regionale. Si sono cancellati gli investimenti in conto capitale per manutenere i territori assorbendo tutte le risorse con un assistenzialismo irresponsabile unico al mondo. Che non ha nulla di gratuito come ripete una disgustosa retorica visto che carica sulle spalle dei cittadini centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico e sottrae ogni anno decine di miliardi sia agli interventi di manutenzione sia di sistemazione dei dissesti strutturali accumulatisi nell’arco degli ultimi due decenni.

Bisogna fare i conti con la realtà in modo crudo fuori dall’emozione e dalle solite polemiche. Perché solo così si può cominciare a operare perché nell’arco di un decennio sia almeno attenuato il tasso di rischio di dissesto idrogeologico di territori sempre più estesi del nostro Paese a partire dal Mezzogiorno. Bisogna avere il coraggio di dire la verità e di essere conseguenti nei comportamenti rispetto a questa verità. Per evitare se non altro che lo strazio di nuove vite umane e lo sgretolamento di quello che fu il Bel Paese siano accompagnati da una retorica nazionale insulsa che rasenta la stucchevolezza. Non ne possiamo più delle lacrime del giorno dopo.

Non ne possiamo più della solidarietà tanto sincera quanto impotente. Dietro la frana di detriti e di acqua di Casamicciola e una speculazione abusiva che dilaga incontrollata ci sono responsabilità che appartengono al rispetto delle regole e a un senso gravemente affievolito dello spirito di legalità, ma molto prima e in misura infinitamente superiore c’è un Paese spezzato con il suo carico pesante di responsabilità. Appartengono alle colpe sistemiche di una politica che ha scelto la frammentazione decisionale. Ha fatto due pesi e due misure con la spesa pubblica grazie a un finto federalismo. Ha cancellato gli investimenti in conto capitale per manutenere i suoi territori decidendo di fare assorbire tutte le risorse disponibili da un assistenzialismo irresponsabile unico al mondo.

Questo assistenzialismo non ha nulla di gratuito come una disgustosa retorica ripete a ogni piè sospinto visto che carica sulle spalle dei cittadini centinaia di miliardi di nuovo debito pubblico e sottrae ogni anno decine di miliardi da destinare sia agli interventi di manutenzione ordinaria del paesaggio sia di sistemazione di tutti i dissesti strutturali accumulatisi almeno nell’arco degli ultimi due decenni. Punto primo. Si deve avere il coraggio di affermare solennemente e pubblicamente che con la riforma del titolo quinto e del finto federalismo italiano che ne è conseguito si è tolto un ruolo che è proprio dello Stato e della sua responsabilità facendo venire meno il presidio centrale che nel bene e nel male esprime le sensibilità e la coscienza di un Paese prima ancora di uno Stato. Quanto meno questa coscienza si è spenta, si è affievolita, perché si è deciso di affidare tutto a Regioni e provveditorati facendo figli e figliastri e moltiplicando distorsioni e negligenze.

Nella riforma del titolo quinto e nel regionalismo del federalismo all’italiana che toglie ai poveri per regalare assistenzialismo ai ricchi ci sono le impronte di questo disastro collettivo.

Punto secondo. Alla luce di tali ripetute tragedie sarà più chiaro a tutti perché questo giornale ha condotto dal suo primo giorno di nascita la battaglia dei livelli essenziali di prestazione e dei diritti di cittadinanza negati attraverso il marchingegno della spesa storica.

Se si è deciso con il paravento di una finta devolution di sottrarre decine e decine di miliardi l’anno alle popolazioni meno ricche per darle a chi sta meglio, nella scuola come nella sanità, nella tenuta dei territori come nel trasporto pubblico locale, nell’Università come nella ricerca, le conseguenze sono di un Paese che non solo si è fermato, ma si è sgretolato al suo interno facendo tracimare coscienza nazionale e spirito di coesione. Questa rovina italiana che è la più grande vergogna civile, prima che economica, della nostra comunità va sanata in radice. Si è presa una strada sbagliata, oltre che immorale, e ora bisogna ripercorrerla a ritroso.

Punto terzo. Bisogna tornare a fare spesa in conto capitale e ad avere la capacità di farlo. La partita della gestione dei fondi europei, non solo Piano nazionale di ripresa e di resilienza, è stata saggiamente affidata nelle mani di un solo ministro e di un solo dicastero. Questa scelta è la premessa giusta per un cambiamento di rotta non più procrastinabile e ne parleremo bene domani. Perché sul campo da gioco cruciale della crescita e della riduzione delle diseguaglianze quello dei fondi europei è il solo capitale vero di cui disponiamo. Qui oggi, però, ci preme sottolineare altri due elementi imprenscindibili.

Chi sostiene che prima delle grandi opere bisogna fare la manutenzione, ignora che le grandi opere pensano costitutivamente al dissesto idrogeologico perché devono strutturalmente fare sempre opere di bonifica. Non fare le grandi opere significa non fare né le une né l’altra. Secondo elemento. Un Paese come il nostro che ha il debito pubblico che ha non può permettersi di spendere 27 miliardi l’anno tra quota 100 e dintorni per le pensioni, bonus 80 euro e reddito di cittadinanza e buttare una tantum oltre 40 miliardi consentendo ai ricchi di rifarsi le case senza essere percorso da un brivido che scorre lungo la schiena e mette a nudo una coscienza nazionale e uno spirito di solidarietà scomparsi con la riforma del titolo quinto e il trionfo dei miopi egoismi territoriali che ne è conseguito. Non è pensabile di buttare 70/80 miliardi l’anno nei giorni della grande crisi geopolitica e economica per fare assistenzialismo e prendere in giro gli italiani che tutto avviene gratuitamente. No, perché nel maxi buco immorale del superbonus edilizio grillino non c’è solo il debito che pagheranno i nostri figli, ma anche i soldi del bilancio pubblico italiano che oggi non ci sono per manutenere i territori.

Ischia, chi era Eleonora Sirabella. Lei e il marito separati dall’onda nera, la loro casa non c’è più.  Michele Bocci su La Repubblica il 27 novembre 2022.

Suo l'unico corpo trovato e identificato. Lavorava come commessa. I dispersi

L'unico corpo recuperato fino ad ora dal fango di Ischia è quello di Eleonora Sirabella, 31 anni. Abitava con il marito Salvatore Impagliazzo, ancora disperso, nella zona di Rarone, cioè nella parte alta di Casamicciola, non molto sotto al punto dal quale si è generata la frana. La loro casa è stata travolta dal fango e il suo corpo sarebbe stato trascinato per un centinaio di metri, fino a piazza Maio, dove poi è stato ritrovato. Lavorava come commessa, il marito è imbarcato sulle navi. I soccorritori hanno trovato il cadavere nel primo pomeriggio.

"Mi hanno mostrato la borsa per vedere se la riconoscevo. Il volto no, mi hanno detto che non proprio era il caso di farmelo vedere", racconta il parroco dei Casamicciola, don Gino Ballirano, che in quanto punto di riferimento della comunità ha collaborato per tutto il giorno con i soccorritori, aiutandoli a verificare i nomi dei dispersi e indicando gli abitanti delle palazzine maggiormente danneggiate dal fango.

Sempre a Rarone, in una casa molto vicina a quella di Eleonora Sirabella e del marito, abita una famiglia di cinque persone che non dà notizie da ieri mattina. Gianluca Monti, Valentina Castagna, due trentenni, hanno tre figli, la più piccola dei quali ha 6 anni. Si teme il peggio. La coppia in passato aveva gestito un banco di frutta e più di recente il marito stava lavorando come cuoco e la moglie stava a casa a crescere i figli.

Una delle persone disperse sarebbe una immigrata bulgara. Nikolina Blagova detta Nina. Ha 58 anni e proprio giovedì scorso è diventata cittadina italiana. Il compagno si trova all'estero, a Berlino, e lei dopo essere stata con lui in Germania fino a un paio di settimane fa, era tornata a Ischia per fare la carta di identità. L'idea era quella di ripartire e tornare dal suo uomo, originario di Ischia. In passato aveva fatto la badante per alcuni anziani dell'isola.

Michele Serra per “la Repubblica” il 27 novembre 2022.

Nel Tg2 delle 13 di ieri, ovviamente, l'apertura era la tragedia di Ischia. Dopo il servizio (ottimo) dell'inviato è andata in onda una impressionante sfilza di dichiarazioni e tweet di quasi tutti i ministri del governo Meloni. Quelli interessati all'accaduto (ovvero, quelli le cui parole avevano rilievo giornalistico) sono, se non erro, due: Interni e Ambiente. Oltre alla presidente del Consiglio. 

Tutti gli altri, che accidenti c'entravano? Con quale diritto, e quale titolo, dichiaravano? Terminata l'assurda sfilza delle parolette governative, ministro per ministro, il Tg2, incredibile ma vero, ha pensato di dare un poco di spazio anche alle reazioni politiche: nuova sfilza di dichiarazioni dei capigruppo dei partiti, compresi, in coda, quelli di opposizione.

Lascio immaginare al lettore il palpitante interesse delle frasi di circostanza spese da ministri e onorevoli. Si andava dal commosso cordoglio all'urgenza dei soccorsi. Un portalettere, una cantante lirica, un geometra avrebbero potuto commentare l'accaduto con identica genericità.

Ci si domanda: posto che un tigì è un giornale, che rapporto, anche vago, hanno questi rosari di parole di circostanza con il giornalismo? Ve lo dico io: nessun rapporto. E a proposito di ministri, se avesse ragione Valditara quando elogia l'umiliazione come esperienza formativa, la Rai ne uscirebbe super formata, perché super umiliata da decenni di asservimento alla politica.

Uno dei pochi veri segni di cambiamento di questo Paese sarà il giorno che alla Rai diranno ai tirapiedi dei ministeri e dei partiti: guardi, richiami domani che qui stiamo lavorando, e il nostro lavoro non è uguale al vostro.

Un fiume di fango travolge Ischia. Una donna morta, 11 dispersi e 13 feriti. In 130 senza casa. Una notte di pioggia record: 126 millimetri in sei ore. Il monte Epomeo viene giù come 13 anni fa e porta con sé automobili, alberi, detriti. Abitazioni isolate, i sindaci: "Non uscite". Salvini annuncia: "Otto vittime", poi smentito. Andrea Cuomo il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

La banalità del Male è che si presenta sempre negli stessi modi e negli stessi posti, approfittando del fatto che l'uomo dimentica e trascura. Era novembre nel 2009 quando la montagna sopra Casamicciola Terme, nel Nord dell'isola d'Ischia, franò portandosi via ogni cosa trovasse sulla sua strada. Morì una ragazza, di quattordici anni. Ed è novembre ora, e contiamo i danni e le vittime della montagna venuta giù di nuovo. E il bilancio potrebbe essere assai più grave di tredici anni fa. Mentre scriviamo a referto è finita una sola vittima, una donna dell'Est Europa sposata a un ischitano. Ma ci sono undici dispersi, caselle vuote di una contabilità che riga dopo riga, minuto dopo minuto, rischia di appesantirsi. E tredici feriti, uno dei quali, un sessantenne, è grave.

Il mare è marrone e gonfio di dolore al porto di Casamicciola. In poche ore la montagna ha rovesciato in acqua tonnellate di fango, alberi e detriti. Sul lungomare sono accatastate molte vetture e anche due pullman turistici che sembrano giocattoli di un bambino arrabbiato. Tutto inizia a mezzanotte, quando sull'isola prende a scendere una pioggia cattiva, da fine del mondo. Centoventisei millimetri in sei ore, un dato record secondo il Cnr. Alle 5 un boato sveglia chi dorme e fa tremare chi è sveglio a guardare il cielo. Sono le pendici del monte Epomeo che cedono nella parte che sovrasta la parte alta di via Celario e che portano giù auto in sosta e in transito fino al lungomare in piazza Anna De Felice, dedicata, per sarcasmo della sorte, alla vittima dell'alluvione di tredici anni fa. L'impetuoso fiume di fango scende rapido verso piazza Maio e poi lungo via Pio Monte della Misericordia, un nome che sembra una preghiera inascoltata. Si porta via anche pezzi di case, come quella di una famiglia, madre, padre, il figlio neonato. Poi con le ore il numero dei dispersi sale, fino ad arrivare a undici. Don Gino Ballirano, il parroco di Santa Maria Maddalena, batte il paese metro per metro, casa per casa, e fa la conta di chi c'è e chi non c'è. Alcuni li incontra, altri rispondono alle sue chiamate, molti no, ma «il telefono non funziona bene», dice lasciando al fato una speranza per insufficienza di prove. Poi, in tarda mattinata, in piazza Maio, viene recuperato un corpo, è la prima vittima: si tratta di una donna originaria dell'est Europa e sposata a un uomo residente sull'isola, il nome non viene reso noto. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini si lascia scappare che ci sono «otto morti» e viene rimbrottato dal capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio («ci sono i numeri della Prefettura per evitare confusione»), ma la verità è che tutti temono che abbia ragione il ministro.

I sindaci dei sei comuni dell'isola emanano un'ordinanza congiunta per invitare i cittadini a non lasciare le loro abitazioni, per non correre pericoli inutili e per non intralciare i soccorsi. Soccorsi che se la devono già vedere con il maltempo, con le strade ostruite dalle automobili, con il mare forza nove che rende quasi impossibile l'arrivo delle navi che trasportano i mezzi pesanti per gli interventi. La macchina fatica a mettersi in moto ma alla fine parte. Nel pomeriggio sono duecento le persone impegnate a cercare i dispersi, a pulire le strade, ad assistere i sopravvissuti e le decine di sfollati, 130 persone che potrebbero aumentare se risponderanno all'appello del prefetto Claudio Palomba che li invita a lasciare le loro abitazioni e che finiscono alcuni nel palazzetto dello sport e altri ospiti delle stanze messe a disposizione dagli albergatori dell'isola. Ci sono mezzi dell'esercito, elicotteri, bob cat, cani dell'unità cinofila, droni. E tanti uomini che non dormono e non si riposano, angeli sporchi di fango.

Ischia è in lacrime, sospesa tra paura e la speranza che si ripeta il prodigio del terremoto del 2017, quando tre bambini furono ritrovati vivi dopo molte ore trascorse sotto le macerie. In serata una famiglia è ritrovata viva e spunta un sorriso stiracchiato. Sperare e scavare. Scavare e sperare.

Ischia è stanca di pagare il conto a una natura matrigna e a un territorio estenuato dall'incuria, dalla sovrappopolazione, dall'edificazione selvaggia, da interventi promessi e mai portati a termine. Il sindaco di Ischia, Enzo Ferrandino, parla di «tragedia». Il sindaco dell'area metropolitana di Napoli, che comprende anche le isole dell'arcipelago campano, Gaetano Manfredi, ricostruisce una giornata angosciante: «Abbiamo fatto un grande sforzo in mattinata per imbarcare le persone di soccorso su navi straordinarie partite da Napoli e Pozzuoli, anche per portare mezzi pesanti sull'isola. C'era un mare forza nove, è stata una situazione drammatica senza la presenza dei tanti vigili del fuoco e uomini della Protezione Civile necessari, che non riuscivano a raggiungere l'isola». Interviene anche il presidente della regione Campania, Vincenzo De Luca, per invocare «lo stato di emergenza per l'isola di Ischia e i territori colpiti da questi eventi atmosferici disastrosi».

Oggi è domenica, non è un giorno di festa a Ischia.

Ischia, una Pec con l'allerta spedita (e ignorata) martedì. Le falle del "Codice appalti". Pasquale Napolitano il 28 Novembre 2022 su Il Giornale.

Pareri, stazioni appaltanti, commissari, ricorsi (contro ricorsi) all'Anac (Autorità per l'Anticorruzione), Autorità di bacino: la burocrazia avrebbe la sua quota di responsabilità nel disastro di Casamicciola

Pareri, stazioni appaltanti, commissari, ricorsi (contro ricorsi) all'Anac (Autorità per l'Anticorruzione), Autorità di bacino: la burocrazia avrebbe la sua quota di responsabilità nel disastro di Casamicciola. Quel pezzo del Monte Epomeo che sabato all'alba si è staccato, travolgendo case e famiglie, poteva essere messo in sicurezza con un codice appalti snello e veloce.

«Ma purtroppo - racconta al Giornale una fonte della Prefettura di Napoli assegnata alla task force dei soccorsi con l'attuale normativa, che regola gli appalti pubblici, è praticamente impossibile portare a termine un progetto di messa in sicurezza delle zone a rischio sul territorio di Ischia e Casamicciola».

I soldi ci sono. Le opere sono finanziate. Ma l'iter è lunghissimo. Stiamo parlando di interventi di messa in sicurezza pianificati dopo l'ultima alluvione nel 2009: tredici anni persi tra lacci, lacciuoli e rimpallo tra enti. Una giungla. Un inferno di competenze. Sarebbero - a quanto risulta al Giornale - almeno tre i progetti finanziati (due nel 2010 e uno nel 2018) che avrebbero evitato morti e distruzioni ma rimasti inattuati. Ma dalla ricostruzione di cui è venuto in possesso il Giornale emerge un altro passaggio decisivo: il 22 novembre, quattro giorni prima della tragedia, il sindaco della Città Metropolitana Gaetano Manfredi e il prefetto di Napoli Claudio Palomba sarebbero stati allertati con una Pec a firma dell'ingegnere Giuseppe Conte, ex sindaco di Casamicciola, dell'imminente pericolo. Pericolo che avrebbe investito anche l'ospedale dell'isola nella zona del vallone della Rita. Ma sarebbe stato praticamente impossibile intervenire per mettere in sicurezza il monte e gli alvei. L'unica cosa da fare sarebbe stata l'evacuazione.

Stiamo parlando di progetti, finanziati e mai portati a termine, che risalgono al 2010. Il primo è un'opera da 180mila euro finanziata dal commissario di governo Mario De Biase nel 2010 per la messa in sicurezza e la bonifica degli alvei di Casamicciola. Un flipper di competenze e passaggi, arrivato fino a oggi, ha bloccato l'avvio dei lavori. Una rincorsa durata dodici anni. Ecco l'infernale sequenza: dal governo la competenza è stata trasferita alla Regione. Dalla Regione al Comune di Casamicciola. Ad oggi quei 180mila euro, che avrebbero contribuito a ridurre i rischi, sono spariti senza alcun intervento. Il secondo progetto risale sempre all'anno 2010: si tratta di un progetto analogo, finanziato dal ministero dell'Ambiente: 2 milioni e 100mila euro per intervenire sul dissesto dell'isola. La competenza della realizzazione dell'opera fu trasmessa all'Autorità di bacino. E infine al Comune. Risultato? Il progetto è rimasto inattuato. Il terzo è più recente: 2018. Un milione e 100mila euro stanziati dalla Città Metropolitana nel 2018 per la sistemazione degli alvei e la messa in sicurezza del costone. Nulla è stato fatto.

Una tragedia figlia dell'irresponsabilità. Ma anche dell'inferno creato con l'attuale codice degli appalti. Un codice che risente molto dei vincoli imposti dall'allora ministro della Giustizia Alfonso Bonafede. All'epoca la Lega spinse per alleggerire le procedure. Ma nulla: il fronte giustizialista fu irremovibile, imponendo una stretta che poi alla lunga si è abbattuta sulla velocità di lavori importanti. Il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini promette di accelerare la riforma del codice degli appalti pubblici. C'è già una legge delega. Che però scade nel marzo del 2023.

"Si poteva prevenire". Ischia, l'allarme inascoltato dalla politica. Gli esperti da decenni avvertivano dei rischi idrogeologici legati a quell'area. "Cattiva gestione del territorio". Ma De Luca, presidente di Regione dal 2015, se la prende con Salvini. Marco Leardi il 26 novembre 2022 su Il Giornale.

"Si poteva prevenire". Forse addirittura evitare. Gli esperti ora lo sussurrano con un certo avvilimento. Quasi sottovoce, per non urtare la disperazione di chi è stato colpito dall'ennesima tragedia annunciata. A Ischia bisognava intervenire per tempo e in molti lo sapevano: ripeterlo ora, mentre i soccorritori stanno liberando l'isola dal fango e dai detriti, fa doppiamente male. Eppure l'allarme sui rischi idrogeologici di quel territorio era stato lanciato più volte. I geologi erano stati chiarissimi: per mettere in sicurezza l'area - da decenni martoriata da fenomeni analoghi - serviva un "piano di grossa portata". Ma il lamento di Cassandra non è stato ascoltato dalla politica.

"La frana si poteva prevenire"

"La frana che si è verificata a Casamicciola si poteva prevenire, se fossero stati effettuati studi sul territorio che avrebbero consentito di rilevare una possibilità di innesco di questi eventi. Si poteva prevenire inoltre evitando di costruire o una volta costruito, sistemando il versante", ha spiegato all'Huffpost Micla Pennetta , docente di Geografia Fisica e Geomorfologia all'Università Federico II di Napoli. E ancora: "Nella zona in cui si è verificata la frana non bisognava costruire, c'è stata una cattiva gestione del territorio anche dopo la grande alluvione del 2009". Già, perché l'area interessata dalla frana era stata colpita dal fango anche in passato. Proprio con modalità analoghe e con episodi altrettanto disastrosi.

La strumentale polemica di De Luca

Nel 2006, sempre a Casamicciola, una frana si staccò dal Monte Vezzi, riversando un fiume di acqua e terra sulle zone sottostanti. Morì un'intera famiglia. Nel novembre 2019, un nubifragio travolse una ragazza di 14 anni, Anna De Felice. Anche allora si parlò di prevenzione, di lotta all'abusivismo edilizio, di interventi necessari. Ma nulla cambiò davvero. In quella fase alla guida della regione c'era già Vincenzo De Luca, presidente poi confermato per un secondo mandato tutt'ora in corso. Sotto la guida del governatore di sinistra, che oggi ha chiesto lo stato d'emergenza per Ischia e per i territori colpiti, non si ricordano però interventi risolutivi o battaglie in prima linea per la messa in sicurezza di quelle zone. In questo senso, sono sembrate fuori luogo le polemiche sollevate nelle scorse ore proprio dall'esponente Pd contro Salvini e contro chi "storicamente ha difeso ogni forma di abusivismo". Non ci saremmo aspettati un'autocritica, ma almeno un maggior contegno sì.

Gli interventi mai realizzati

E pensare che un allarme sulle condizioni precarie del territorio ischitano era stato lanciato nel 2010 dal professor Franco Ortolani, docente universitario di Geologia. "È chiaro che per mettere in sicurezza un’area del genere è necessario un intervento di grossa portata per un territorio che è soggetto per la sua conformazione ad eventi del genere", affermava il geologo, spiegando che sull'isola di Ischia "gli eventi legati a forti acquazzoni si possono ripetere". E così, purtroppo, è accaduto. Anche in quel caso però la politica tutta si dimostrò poco solerte nell'ascoltare il monito degli esperti, suffragato peraltro dal ripetersi di analoghe calamità.

Tra le zone più colpite nella recente frana a Casamicciola ci sono state peraltro piazza Bagni, piazza Maio e Rarone. E proprio di Piazza Bagni già nel 2010, aveva parlato il professor Ortolani. Il geologo sosteneva infatti quanto fosse sbagliato il fatto che l'area non fosse stata individuata come zona di pericolo dal Comprensorio di Bacino. In molti oggi dovrebbero spiegare come mai in dodici anni non è cambiato nulla, o quasi.

Giovanni, il salvataggio diventa simbolo. Ansia per chi non si trova, gara di solidarietà. L'uomo è rimasto aggrappato a una finestra per ore: sta bene. In salvo anche un neonato, sfollati negli alberghi. Raccolte coperte e indumenti pesanti. Matteo Basile il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Ricoverato in ospedale, in buone condizioni, probabilmente ignora di essere diventato il simbolo di questa tragedia che ha colpito Ischia. L'ennesimo manifesto di incuria e superficialità misto alla fatalità della mano della natura. Giovanni è stato salvato dai soccorritori dopo essere rimasto aggrappato alla persiana di una finestra per ore. Ricoperto di acqua e fango, al freddo, in attesa di qualcuno che lo salvasse. «L'uomo di fango» è stato ribattezzato, diventando al tempo stesso l'immagine vivente di una tragedia ma anche un simbolo di speranza. Quella mista a disperazione che ha accompagnato l'attività di soccorso in tutta la giornata e la nottata di ieri.

Subito dopo la frana, Giovanni era corso dal figlio e dalla nuora per aiutarli ma non è mai arrivato. Appena uscito di casa è stato travolto e completamente sommerso dal fango, trovato dai soccorritori poco dopo l'alba. «Cerca di tenere i piedi a terra, reggiti a qualcosa. Due minuti e siamo da te», gli dicevano. Lo hanno preso di peso e portato in ospedale in stato di ipotermia ma senza ferite gravi. Quasi un miracolo, che dà un po' di speranza. Quella che si è spenta per una donna la cui identità non è ancora stata svelata. Di origine est-europea, era sposata con un uomo dell'isola. Il fiume di acqua e fango l'ha travolta e per lei non c'è stato nulla da fare. Irriconoscibile per i soccorritori, è l'unica vittima accertata in una giornata in cui numeri e notizie sono stati forniti e smentiti a stretto giro di posta nel corso delle ore. Undici persone sono ancora disperse, i lavori di vigili del fuoco e uomini della protezione civile continuano senza sosta nella speranza di trovarli. Con il pensiero positivo che magari qualcuno inserito nella lista dei dispersi abbia invece trovato un luogo sicuro. «Una notte impegnativa per tutti coloro che si alternano al prosieguo delle attività urgenti», ha confermato il capo del Dipartimento di Protezione civile Fabrizio Curcio. «Le ore notturne di certo non aiutano, ma si lavora comunque con i fari», ha aggiunto.

Quel che è certo è che nella tragedia, ancora in divenire, ci sono anche storie che regalano speranza. Tratto in salvo il nucleo familiare, tra cui un neonato, che in prima battuta, nella concitazione dei momenti, era stato dato per deceduto. Per fortuna, padre, madre e il piccolo stanno bene. Tredici le persone ferite e ricoverate in ospedale. L'ansia è per i dispersi, tra cui ci sono sicuramente una 25enne e una famiglia composta da padre, madre e due bambini che vivono nella zona interessata dalla frana nel centro di Casamicciola. Anche due immigrati che lavorano in un'attività commerciale della zona sono irreperibili da ieri e i loro telefonini squillano a vuoto. La speranza è appunto che tutte queste persone abbiano trovato un rifugio e non siano stati in grado di comunicarlo alle forze dell'ordine. Oggi, con la luce del giorno e sperando in condizioni meteo migliori, si saprà di più. Di «tragedia collettiva e individuale in divenire» ha parlato don Gaetano Pugliese, attivo da subito per prestare i primi soccorsi ai suoi parrocchiani. «Ha iniziato a piovere fortissimo però eravamo tranquilli. Alle 3 ho sentito il primo boato e un rumore forte, come quando c'è un incidente d'auto. La frana. E dopo la prima, ecco un'altra frana verso le 5. Una cosa impressionante, forse peggio dell'alluvione del 2009 e tremendo quanto il terremoto del 2017», ha raccontato Lisa Mocciaro, illustratrice di libri per bambini, rimasta ostaggio nella sua abitazione risparmiata dalla colata di fango.

Dai primi momenti successivi alla tragedia è scattata un'autentica gara di solidarietà in paese per aiutare chi è stato costretto ad abbandonare la propria abitazione per evitare ulteriori rischi. Sono 130 circa gli sfollati che hanno trovato riparo prima nel palazzetto dello sport per poi essere suddivisi in diversi alberghi dell'isola che hanno immediatamente dato disponibilità. Raccolte anche coperte e indumenti pesanti per proteggersi dal freddo della notte. Una notte scura come il fango che invaso Ischia. Una notte lunghissima. Di lavoro, di rabbia e di disperazione. Ma anche di speranza.

"Disastro per mancanza di pianificazione". Per la sottosegretaria la messa in sicurezza deve seguire la scienza, non la politica. Lodovica Bulian il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

«Purtroppo di fronte a questa tragedia non ci sono parole. Non posso che esprimere tutta la mia vicinanza alle vittime e alla comunità. Non posso che pregare per chi non c'è più e perché si riescano a soccorrere i dispersi», dice la sottosegretaria alla Transizione ecologica, Vannia Gava.

Di nuovo Ischia, di nuovo l'isola colpita con questa violenza.

«È chiaro che questa è l'ennesima tragedia figlia di una fragilità del nostro territorio, la pericolosità riguarda la stragrande maggioranza del paese. Il 90 per cento dei comuni sono a rischio dissesto idrogeologico».

Com'è possibile che non si riesca a prevenire questi eventi soprattutto in territori già colpiti in passato?

«Ancora una volta ci troviamo di fronte a un disastro per una grossa mancanza di pianificazione. Quando ci sono eventi del genere ci diamo sempre dei grandi stimoli a parole, ma poi quando si tratta di metterle in pratica con azioni concrete ci si perde nei lacci della burocrazia».

Da dentro il ministero, a che punto è la messa in sicurezza dei territori?

«È stata fatta una mappatura delle aree più pericolose e abbiamo ridotto di molto il rischio, ma ora dobbiamo valutare le priorità degli interventi. Soprattutto però queste priorità dobbiamo farle gestire a delle figure tecniche».

Perché ora come funziona?

«Ora il sistema funziona così: lo Stato manda i soldi alle Regioni e ai comuni in base a una piattaforma che si chiama Rendis, dove vengono inserite tutte le richieste di finanziamento per interventi di difesa del suolo. Parliamo comunque di interventi tutti da fare, ma dobbiamo dare delle priorità e iniziare dai territori che hanno un'urgenza più elevata. E mi faccia dire, le Regioni insieme alle autorità di distretto devono continuare ad aggiornare i piani regionali per le grandi alluvioni perché sono strumenti indispensabili».

Perché le Regioni non aggiornano i loro piani?

«Si fa sempre una gran fatica a farlo aggiornare perché pongono delle limitazioni alle nuove edificazioni. Capisco che qualche amministratore si indispettisce perché magari alcune edificazioni fatte in passato ora non si possono più fare. C'è ancora purtroppo questa mentalità per cui tanto lì non è mai successo niente", ma con questi cambiamenti climatici e questo livello di rischio certi ragionamenti non sono più accettabili».

Qual è la strada?

«L'unica strada possibile è la pianificazione per una messa in sicurezza del Paese nel caso di bombe d'acqua dovute ai cambiamenti climatici, seguendo la scienza e non la politica».

Perché parla di politica?

«Perché le decisioni di pancia che sono state prese in passato su basi del tutto ideologiche e non scientifiche, criteri che in questo campo non vanno più tollerati».

I geologi parlano di tragedia annunciata in quel territorio così facile e colpito da altre alluvioni e dal terremoto.

«Purtroppo sì. Per questo si deve rafforzare il ruolo delle autorità di bacino distrettuali, necessarie per il monitoraggio del suolo e la verifica della sicurezza».

A Ischia era venuto alla luce il fenomeno dell'abusivismo edilizio che ha reso ulteriormente fragile la struttura idrogeologica dell'isola.

«In passato sono stati fatti tanti danni e non dobbiamo ripetere gli stessi errori. Ma il problema è più generale. Le tragedie sono successe anche dove non c'è la piaga dell'abusivismo».

I fondi del Pnrr dovrebbero accelerare la messa in sicurezza del Paese?

«Nel Pnrr ci sono fondi per il monitoraggio ambientale, ma sono risorse che andranno potenziate è chiaro che ci sono tutta una serie di cose da fare. Ora verificheremo la possibilità di utilizzare fondi Fsc per interventi nel breve termine».

Perché quel territorio colpito già da altre tragedie in questi anni non è stato tutelato? Ci sono delle responsabilità?

«È troppo presto per parlare di responsabilità. Quando sarà il momento, a bocce ferme, si affronterà anche questo».

Quel condono targato Conte e i progetti esclusi dal Pnrr. Il governo nel 2018 ha chiuso un occhio sugli abusi edilizi. Due piani "ammissibili" rimasti senza risorse. Stefano Zurlo il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

È il presente che riporta un passato di morte e devastazione. Le croci e le sofferenze, nulla di nuovo nell'orizzonte malato di un'isola che convive con frane e disastri da sempre. Le statistiche, impietose, danno la misura della forza che dalle viscere del tempo afferra le case e gli uomini, seminando lutti e rovine.

Polemiche & precedenti. Trenta vittime in centodieci anni circa, tre eventi disastrosi negli ultimi quindici anni, o poco più. L'emergenza è strutturale, i progetti di salvaguardia vanno a rilento, si mettono in coda nel grande ingorgo italiano, fra burocrazia e complicazioni varie, le soluzioni sono ancora lontane. Oggi ci sono i fondi del Pnrr e però non è che l'Europa ci abbia regalato la bacchetta magica, anzi per dirla tutta Ischia e le isole del Golfo sono rimaste tagliate fuori dalla pioggia milionaria di questi mesi. Nei mesi scorsi la Regione Campania aveva trasmesso al ministero delle Infrastrutture l'elenco dei progetti ammessi e di quelli finanziati con i soldi del Pnrr. Se si scorre la lista si scopre subito che Ischia non c'è, o meglio ci sono due progetti dichiarati ammissibili, ma rimasti senza risorse.

Cambierà qualcosa dopo questo ennesimo disastro?

Piernicola Pedicini, eurodeputato Verde, punta il dito contro decenni di abbandono e speculazioni: «La tragedia di Casamicciola è lo specchio di un territorio dove ai fatti e alle grandi opere si sono preferite le parole di cordoglio e le passerelle ipocrite». Insomma, siamo al solito vocabolario dei disastri italiani: la cementificazione selvaggia, gli incendi e la mancata prevenzione in un territorio segnato da mille fragilità.

Le responsabilità si rincorrono e si rimpallano, ma è evidente che i ritardi sono gravissimi e incolmabili.

Il leader dei Verdi Angelo Bonelli se la prende con il condono per Ischia, contenuto nel decreto sul ponte di Genova del 2018 e collegato alla ricostruzione post sisma. Si, perché nel catalogo dei guai non manca il terremoto che si era abbattuto proprio su Casamicciola il 21 agosto 2017. Le foto di quell'orrore, con 2 morti e 42 feriti, hanno fatto il giro d'Italia, anche se sono state velocemente dimenticate. Ma hanno lasciato un'eredità di polemiche e critiche senza fine. In pratica, con il condono del 2018, all'epoca del Conte I, si sarebbe chiuso un occhio su centinaia di interventi edilizi abusivi compiuti nell'isola in scempio a qualunque forma di rispetto dei precari equilibri preesistenti. Una sanatoria colossale, voluta dal governo giallo verde, con ben 28 mila richieste in un fazzoletto di terra che passa da una devastazione all'altra.

Il problema è che tutti i partiti o quasi se la prendono con quella politica accomodante che oggi pare orfana di padre. Il ministro delle Riforme Maria Elisabetta Casellati tuona: «La tutela del territorio non è mai stata una priorità di questo Paese». E la deputata forzista Annarita Patriarca disegna una prima risposta: «È fondamentale che nel più breve tempo possibile venga dichiarato lo stato di calamità naturale per Casamicciola». E ancora: «Mettiamo in sicurezza l'area montuosa dell'isola, utilizzando i fondi del Pnrr e impegnando le risorse regionali».

Discorso che non fa una piega e che però sembra scontrarsi con tutto quello che si è fatto finora, privilegiando altre dinamiche.

Torna la domanda chiave: come si stabiliscono le priorità?

Non va dimenticato che al clima di sfiducia e di confusione ha contribuito anche l'inchiesta sugli arresti per la metanizzazione dell'isola che ha indebolito la classe politica locale. In particolare, alla fine il sindaco del Pd di Ischia Giosi Ferrandino era stato assolto e Renzi aveva twittato: «Di questa vicenda si è parlato molto in passato, se ne parlerà poco sui giornali di domani perché è assoluzione, ma se ne parlerà a lungo nei prossimi anni perché è una vicenda enorme».

Disastro a Ischia. Le menzogne di Conte :”Nel 2018 non firmai un condono”. Ma la parola “condono” si trova persino nel titolo della norma ! Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 28 Novembre 2022

Quell'articolo 25, citato da Conte, porta nello stesso nome la parola condono. per la precisione "Definizione delle procedure di condono" in sostanza è stata data la possibilità di riaprire i termini di un vecchio condono - quello del 1985 - e sanare gli abusi costruiti negli anni.

Giuseppe Conte, ospite della trasmissione di Rai 3 “Mezz’ora in più” 24 ore dopo dal disastro di Ischia. Incalzato da Lucia Annunziata sulla norma che riguardava l’isola, contenuta nel decreto del 2018 sul Ponte di Genova, l’allora premier del governo gialloverde risponde: “Per accelerare le pratiche impantanate noi abbiamo introdotto l’articolo 25 che non è un condono, ma una procedura perché si espletasse più celermente l’esito delle pratiche” ed aggiunge “L’apprezzo perché ha letto l’articolo 25 del decreto sul Ponte ma le dico che non era affatto un condono. È uno dei primi dossier che abbiamo assolto – ha osservato in un altro passaggio – con senso di responsabilità cercando di sbloccare una situazione che c’era senza derogare ai vincoli idrogeologici. Era una procedura di semplificazione“.

Ma in realtà non è cosi. Infatti quell’articolo 25, citato da Conte, porta nello stesso nome la parola condono. per la precisione “Definizione delle procedure di condono” in sostanza è stata data la possibilità di riaprire i termini di un vecchio condono – quello del 1985 – e sanare gli abusi costruiti negli anni.

Conte si arrampica sugli specchi e dice: “Ischia è una tragedia in un territorio molto complicato, violentato dal dissesto idrogeologico. Quando mi sono insediato nel 2018 abbiamo trovato una unità di missione che impiegava solo nove mesi per attuare un progetto. Chiamai il ministro Costa e chiesi – insieme al capo della Protezione civile, Borrelli – di elaborare un progetto chiamato ‘Proteggi Italia’, un piano per mettere in sicurezza edifici pubblici e privati italiani. Per quel piano abbiamo stanziato 11,5 miliardi e abbiamo reso soggetti attuatori i presidenti delle Regioni. Di quei soldi non so dire esattamente ma è stata spesa una piccolissima parte ed è un problema che ci trasciniamo da tempo“.

Ed il presidente del Movimento 5 stelle aggiunge in Tv: “A Ischia ci sono richieste di condono precedenti al 2018, dunque precedenti al mio governo, per circa 27mila abitazioni su 60mila abitazioni, quindi la metà con richiesta di condono. In più ci sono richieste per danni da terremoto per 1.100 abitazioni. Per accelerare le pratiche impantanate noi abbiamo introdotto l’articolo 25 che non è un condono, ma una procedura perché si espletasse più celermente l’esito delle pratiche”.

Matteo Renzi immediatamente lo smentisce e va all’attacco: “Conte dice che il provvedimento di Ischia non era un condono. L’articolo 25 del suo decreto legge parla esplicitamente di procedure per il condono ad Ischia. Giuseppe Conte si deve vergognare! Vergognare per il condono di Ischia e per aver chiuso l’unità di missione sul dissesto idrogeologico. Nel 2018 abbiamo chiesto a Conte di fermarsi! C’è un limite alla decenza. Oggi lo ha sorpassato“, scrive in un post sui suoi canali social accompagnato dal video che riassume tutti i suoi interventi – anche in Aula – del 2018 in cui contestava al leader 5S la norma sul condono a Ischia. Il leader di Azione Carlo Calenda aggiunge : “Conte ha fatto un condono pericoloso a Ischia e cancellato l’unità di missione ‘Casa Italia‘” per l’unica ragione che l’aveva istituita Matteo Renzi. Entrambi gravi errori. Ma cercare a posteriori di prendere in giro gli italiani con eloquio stile azzeccagarbugli è anche peggio”. Redazione CdG 1947

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022.

Riepilogando. La responsabilità di quanto è successo a Ischia non è minimamente imputabile al primo governo Conte, sostiene l'ex premier Giuseppe Conte, dato che la norma da lui firmata si intitolava «condono» ma, sia chiaro, non era un condono. 

La colpa non può neanche essere delle persone che costruiscono dove non si dovrebbe (e votano per chi permette loro di continuare a farlo). Intanto perché è di cattivo gusto prendersela con le vittime. E poi perché la tragedia non dipende dagli abusi edilizi, ha ricordato l'ex sindaco Giuseppe Conte, omonimo, puntando semmai il dito sul dissesto idrogeologico.

In Italia funziona così: chi avrebbe saputo cosa fare accusa chi avrebbe potuto farlo, il quale a sua volta accusa chi, pur sapendo, non ha fatto niente lo stesso. I cittadini chiamano in causa le autorità locali, le autorità locali quelle centrali e quelle centrali l'Europa, che in certi casi si rivela maledettamente utile. 

L'ipotesi che le responsabilità siano di tanti, anche di chi le attribuisce soltanto agli altri, non viene nemmeno presa in considerazione. D'altronde avete mai visto l'ospite di un talk cambiare di una virgola la sua opinione su Covid, guerra, migranti? Tutti trincerati dietro convinzioni immutabili, tutti depositari esclusivi del Verbo, tutti garantisti con gli amici e forcaioli con i nemici, che sono sempre o disonesti o coglioni. Facciamocene una ragione: poiché ciascuno si ritiene innocente, a far franare Ischia non può essere stata che la mano di Dio.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 29 novembre 2022. 

Sabato In Onda, il samiszdat che nel weekend sostituisce Ottoemezzo, era dedicato a incolpare Conte per la frana di Ischia. E Paolo Mieli, noto esperto di urbanistica, profetizzava che il Fatto avrebbe scritto che quello varato dal Conte-1 non era un condono. Una volta tanto ci ha azzeccato: scriviamo che non era un condono non perché siamo amici di Conte, ma perché non era un condono. […]

Il Fatto, pur comprendendo il dramma dei senza casa, criticò il Conte-1 perché dava un brutto segnale: quelle vecchie case avevano comunque dei vani abusivi, anche se non si potevano certo abbattere ignorando i tre condoni. 

Ma non sanava un solo abuso in più di quelli già coperti dalle sanatorie di Craxi e B. Anzi il ministro dell'Ambiente Sergio Costa, il migliore degli ultimi 25 anni, aggiunse pure il divieto di qualunque opera in aree a rischio idrogeologico o di interesse ambientale, paesistico, archeologico e artistico. Come sempre, i pifferi di montagna partiti per suonare sono finiti suonati. Ma possono sempre incolpare Conte per il terremoto a Ischia del 1883....

(ANSA il 29 novembre 2022.) - "Sul tema dell'abusivismo, la demagogia si spreca. Abbiamo proposto qualche anno fa di prendere qualche misura semplice, non solo di separare le varie forme di abusivismo. Avrete visto la foto di una villa che è lì appesa su un burrone. Mi verrebbe da domandare, per la verità anche a quel padre di famiglia, con quale coraggio porta la sua famiglia a vivere in quelle condizioni". 

A dirlo, questa mattina a margine dell'inaugurazione di un centro antiviolenza a Salerno, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca sulla tragedia di Ischia. "Cominciamo - ha aggiunto De Luca - a parlare anche di irresponsabilità personali per chi realizza o vive in immobili in quelle condizioni.

Sarebbe bastato cancellare dall'albo delle imprese le aziende che realizzano opere abusive, cancellare dagli albi professionali i tecnici che fanno questi lavori per frenare immediatamente l'abusivismo. Non si è avuto il coraggio di farlo. Abbiamo proposto, sempre qualche anno fa, di rendere chiare le situazioni di abusivismo non sanabili e cioè realizzazioni fatte sui greti dei fiumi, in aree idrogeologicamente pericolose, nelle aree demaniali, nelle aree di vincolo assoluto e immobili abusivi realizzati dalla camorra o da chi aveva già un appartamento di proprietà. 

Questo avrebbe consentito la possibilità di demolire. Un conto è dire bonifichiamo una piccola palude e questo lo puoi fare; un altro conto è dire prosciughiamo l'oceano Pacifico. In Italia abbiamo trecentomila alloggi abusivi, quindi contamineremo ancora per decenni a sentire questa litania dopo ogni disastro, il Paese è fragile e poi nessuno farà niente".

(ANSA il 29 novembre 2022) - "Nel momento che l'isola di Ischia si trova in questa situazione e ci sono degli allarmi, che io ho dato, era necessario che questi cittadini fossero avvertiti, voi di qua ve ne dovete andare perché è pericoloso". Queste le parole di Giuseppe Conte, ex sindaco di Casamicciola, ad Agorà Rai Tre, condotto da Monica Giandotti, sulla tragedia di Ischia

Fabrizio Geremicca per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022. 

La sentenza penale di condanna definitiva per abusivismo edilizio, che comporta la pena accessoria della demolizione, risale al 2003. La casa, però, una villa di circa 100 metri quadrati edificata nel 1995 a Ischia in una zona a rischio idraulico e di frana molto elevato (tecnicamente area «R4»), è stata abbattuta solo nella primavera del 2021.

Accade nel Comune di Ischia, in una località situata circa 110 metri sopra il livello del mare, a ridosso di un versante franoso e di un canale di scolo delle acque. 

Il protagonista della vicenda è un piccolo imprenditore edile, il quale nel 1995 realizza sul terreno di sua proprietà un manufatto di 75 metri quadrati. Non ha alcun titolo edilizio legittimo. Scatta il sequestro da parte dell'autorità giudiziaria. 

Il proprietario presenta istanza di condono - sebbene l'edificio sia stato costruito ampiamente oltre i termini - ai sensi della sanatoria approvata nel 1994 dal primo governo Berlusconi. La pratica resta dormiente, come la maggior parte delle 27.000 che ingolfano gli uffici tecnici dei sei Comuni (Ischia, Barano, Forio, Casamicciola, Serrara Fontana, Lacco Ameno) dell'isola campana. 

A novembre 1997 l'immobile è dissequestrato dall'autorità giudiziaria affinché il proprietario, nel frattempo condannato in Tribunale, proceda alla demolizione. Nel 1998 il prefabbricato abusivo con lamiere va giù, ma dalle sue ceneri ecco che spunta una villa, anch' essa completamente abusiva, di un centinaio di metri quadrati e sei stanze. Presto abitata dall'uomo e dal suo nucleo familiare.

A novembre 1998 i vigili urbani effettuano un sopralluogo ed accertano opere abusive che consistono «in un manufatto di circa 100 metri quadrati ed alto metri 3 circa». Il Comune emana una ordinanza di demolizione, ma ad essa non segue la benchè minima iniziativa finalizzata a dare ad essa esecuzione. La villa da cento metri quadrati rimane lì, dove non potrebbe stare e dove è pericoloso che resti innanzitutto per chi la abita. 

Nel 2003, nel frattempo, ecco che arriva il terzo condono edilizio. Il proprietario della casa in zona R4 decide che è il momento di osare e presenta una seconda istanza di sanatoria, questa volta relativa ai trenta metri quadrati aggiunti al primo abuso, quella da settanta, per il quale aveva già richiesto il condono nel 1995 ed aveva pure riportato una condanna. Il Comune richiede integrazioni, procede nell'istruttoria e sollecita alla Soprintendenza il parere.

Nel frattempo, però, la Procura della Repubblica ha aperto una seconda indagine su quell'immobile di 100 metri quadrati sorto al posto di quello, anch' esso abusivo, di 75 metri quadri. Anche questa inchiesta si conclude nel 2001 con una condanna in primo grado per l'autore degli abusi edilizi e nel 2003 con la conferma della sentenza in Corte di Appello. Prima, però, che le ruspe accendano i motori trascorreranno ancora 18 anni. Gli avvocati continuano a dare battaglia con una serie di ricorsi (incidenti di esecuzione) finalizzati a dimostrare che il provvedimento di demolizione va bloccato. Infine, a maggio 2021 - ventisei anni dopo il primo abuso edilizio in quella zona R4 - la demolizione .

Estratto dell’articolo di Ermes Antonucci per “il Foglio” il 29 novembre 2022.

"Il condono a Ischia da parte del governo Conte nel 2018 ci fu eccome. Il provvedimento faceva riferimento a uno dei condoni più grandi che siano mai stati fatti, quello del 1985. Negare che quello del 2018 fu un condono è come negare l’evidenza”. 

A dichiararlo, intervistato dal Foglio, è Graziano Delrio, già ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti nei governi Renzi e Gentiloni, oggi senatore del Pd. Delrio smentisce così quanto sostenuto dall’ex premier Giuseppe Conte in un’intervista televisiva a “Mezz’ora in più”, dopo l’alluvione che ha devastato Ischia. “Nessun condono, era solo una procedura di semplificazione”, ha detto Conte riferendosi al decreto varato nel 2018 dal governo gialloverde da lui presieduto. Ma le carte parlano chiaro, e dicono il contrario.

[…] “Se si trattava di velocizzare le pratiche che riguardavano un migliaio di case si sarebbero potute avviare le procedure accelerate solo per quelle case, per esempio rafforzando gli uffici”, sottolinea Delrio. “Il messaggio che invece venne fuori fu di tutt’altra natura, e cioè che finalmente si sarebbero sanate tutte le migliaia di richieste di condono edilizio.

 Solo il confronto in Parlamento portò poi a sostanziali modifiche, come il necessario parere favorevole da parte dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Conte decise anche di smantellare la struttura di missione denominata Casa Italia, e poi Italia Sicura, che avevamo istituito presso la presidenza del Consiglio”. […]

Vitalba Azzolini per editorialedomani.it il 29 novembre 2022.

 Il condono disposto nel 2018 per gli immobili di Ischia distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017 è il grande tema di questi giorni, a seguito della tragedia che ha colpito Casamicciola. 

È bene mettere alcuni punti fermi e, soprattutto, chiarire talune inesattezze relative a quel condono che si sentono ripetere in questi giorni.

Il cosiddetto decreto Genova (d.l. n. 109/2018, convertito in l. n. n. 130/2018, art. 25), emanato a seguito del crollo del ponte Morandi, ha previsto la definizione, cioè la conclusione, entro sei mesi delle procedure riguardanti istanze di sanatoria edilizia ancora in corso relative agli immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 2017. Si tratta delle istanze presentate ai sensi delle tre normative di condono succedutesi dal 1985 al 2003 (l. n. 47/1985, governo Craxi; l. n. 724/1994, primo Governo Berlusconi; l. n. 326/2003, secondo Governo Berlusconi).

Il decreto del 2018 ha disposto che per la definizione di tali istanze trovi «esclusiva applicazione» la legge del 1985. Con un emendamento, poi, la definizione è stata subordinata al preventivo parere favorevole da parte dell’Autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. 

Infine, è stato previsto che la concessione dei contributi pubblici per la ricostruzione delle abitazioni distrutte o lesionate dal sisma sia condizionata all'accoglimento delle predette istanze. Ma tale contributo «non spetta per la parte relativa ad eventuali aumenti di volume oggetto del condono».

In buona sostanza, ai fini della concessione di contributi per il rifacimento delle abitazioni terremotate, è stata richiesta la preventiva definizione delle pratiche di condono riguardanti tali immobili, avanzate negli anni precedenti ai sensi delle diverse leggi citate. I contributi sono stati esclusi solo per la parte di sanatoria attinente agli aumenti di cubatura. 

Questo, in sintesi, il contenuto dell’articolo 25, più volte citato negli ultimi giorni.

La questione relativa alla norma sul condono, emanata a seguito del terremoto di Ischia, è complessa. Occorre partire dai vincoli idrogeologici, vale a dire quella particolare forma di tutela del territorio rispetto a modifiche strutturali di terreni, corsi d’acqua ecc.. Secondo l’onorevole Sergio Costa, ministro dell’ambiente all’epoca della legge del 2018, governo Conte I, tali vincoli avrebbero precluso la condonabilità prevista. Le cose stanno diversamente.

La legge del 1985 (“primo condono”) consentiva la sanatoria in caso di violazione di vincoli idrogeologici, tra gli altri, a condizione che essi non comportassero inedificabilità assoluta, cioè non superabile dalla autorizzazione dell’autorità competente, e fossero stati apposti solo dopo l’edificazione dell’immobile per cui si chiedeva il condono. Quindi, salvo questi casi, i vincoli idrogeologici si potevano oltrepassare mediante autorizzazione amministrativa. 

La legge sul condono del 2003 (“terzo condono”) introdusse una disciplina più severa e rigorosa rispetto quella del 1985, escludendo la possibilità di una sanatoria in presenza di inedificabilità non solo assoluta, ma anche relativa, cioè superabile a seguito di valutazione amministrativa.

In altre parole, con le norme del “terzo condono” le opere soggette a vincolo idrogeologico, in qualunque momento esso fosse stato apposto e di qualunque tipo fosse, sono divenute non condonabili. Questo è il motivo per cui nel decreto del 2018 si sancì che le richieste di condono per gli immobili terremotati, avanzate ai sensi della legge del 2003 e ancora pendenti, fossero definite ai sensi della legge sul condono del 1985: se tali richieste fossero rimaste soggette alla stessa legge del 2003 che, come detto, non consentiva condoni in caso di vincoli di edificabilità – sia assoluti sia relativi - molte delle case colpite dal terremoto del 2017 non avrebbero potuto essere oggetto di sanatoria, anzi, si sarebbe dovuto procedere alla loro totale demolizione. Ed era ciò che nel 2018 evidentemente si voleva evitare. 

A ciò si aggiunga che prima del 1985, data della legge che dispone il condono più permissivo, l’unico vincolo idrogeologico previsto era quello di cui al Regio decreto legge n. 3267 del 1923, che tutela i terreni contro i danni da pascolo, dissodamenti del terreno per coltivazioni ecc..

Si trattava, peraltro, di un vincolo superabile mediante autorizzazione amministrativa. Solo molti anni dopo, a seguito di legislazione regionale, i vincoli idrogeologici definirono un quadro molto più articolato rispetto a quello previsto dal Regio decreto del 1923 e divennero anche assoluti, attraverso l’esclusione della possibilità di ovviarvi mediante autorizzazione.

La risposta a questa domanda non è nel titolo dell’articolo 25 - «Definizione delle procedure di condono» - come qualcuno afferma. In termini giuridici, “definizione” significa chiusura, conclusione a seguito di completamento della valutazione degli elementi necessari alla conclusione di un certo procedimento. Procedimento relativo a un condono, in questo caso.

Il titolo è confermato dalla lettera della disposizione, ai sensi della quale le procedure di condono rimaste ancora aperte vengono definite, cioè concluse positivamente o negativamente, nel termine di sei mesi. Quindi, citare il titolo per dimostrare che ci fu un nuovo condono è un autogol, perché il titolo attesterebbe l’esatto opposto. 

Ma un nuovo condono comunque c’è, ed è nascosto nelle pieghe della norma (art. 25), là dove si afferma che per la definizione di tutte le istanze di condono pendenti, relativamente agli immobili lesionati o distrutti dal sisma del 2017, si applichi la legge del 1985.

Il riferimento a quest’ultima legge permette teoricamente di rendere oggetto di condono case abusive che altrimenti ne sarebbero rimaste escluse perché la legge del 2003 non l’avrebbe consentita, essendo molto più restrittiva di quella del 1985. 

In altri termini, la legge del 2018 non si limita a richiedere che le istanze di condono pendenti siano definite, cioè concluse, entro sei mesi, ma introduce condizioni di sanabilità diverse e più lasche rispetto a quelle di cui alla legge del 2003. E se si cambiano le condizioni di sanabilità, elementi chiave per la definizione di un certo condono, di fatto si sancisce un condono nuovo.

Questo è il motivo per cui, nonostante nel titolo e nel corpo della norma si parli solo della definizione di condoni precedenti e la norma sia scritta in modo da configurare apparentemente solo una velocizzazione delle relative procedure, di fatto quello per Ischia fu un nuovo condono: la norma del 2018, innovando rispetto al condono del 2003, introduce di fatto un condono diverso e ulteriore. 

Con buona pace di Giuseppe Conte, presidente del Consiglio all’epoca in cui fu emanato il decreto Genova, il quale afferma che con quel decreto si intese solo accelerare domande di condono impantanate. I fatti sono quelli che abbiamo spiegato, e ora chiunque può farsi un’opinione.

Conte condona, Travaglio no. L'impostazione del giornalista torinese è sempre uguale a se stessa: Giuseppe Conte non si discute, si ama. IlGiornale il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio ha una doppia narrativa sul caso di Ischia. La prima è sintetizzata dalla prima pagina: «Ecco chi ha favorito l'abusivismo a Ischia. Si attacca Conte per tacere le colpe di politica e cittadini».

L'impostazione del giornalista torinese è sempre uguale a se stessa, almeno sin da quando Travaglio è diventato il non ufficiale spin doctor dell'ex premier giallorosso e gialloverde: Conte non si discute, si ama. O qualcosa di molto simile. Peccato per quanto viene invece sottolineato nella terza pagina de Il Fatto Quotidiano.

Al netto del ridimensionamento, infatti, il quotidiano etichetta con la parola «condonite» il provvedimento adottato nel 2018, sottolineando anche il ruolo svolto, per l'adozione del decreto, dall'allora ministro Luigi Di Maio, che certo non era esattamente un estraneo del primo esecutivo guidato dall`avvocato originario di Volturara Appula. Conte innocente, insomma, ma Di Maio parzialmente colpevole: la sentenza doppiopesista è stata emessa.

Estratto dell'articolo di L. De Cic. per “la Repubblica” il 29 novembre 2022. 

La storiaccia del condono di Ischia del 2018, secondo Edoardo Rixi, viceministro alle Infrastrutture in quota Lega e sottosegretario, sempre al Mit, ai tempi del Conte I, governo gialloverde, è nata così: «Noi avevamo la necessità di fare il decreto Genova e all'ultimo momento il M5S ha chiesto di inserire il condono di Ischia. Ci fu una fortissima pressione dei 5 Stelle. E per fare il decreto sul ponte abbiamo dovuto accettare quella parte».

Pressioni di chi, nel M5S?

«Tecnicamente fu Vito Crimi a seguire il provvedimento, da sottosegretario a Palazzo Chigi. Ma si spese soprattutto Luigi Di Maio, ponendola come condizione». 

Di Maio in sostanza disse: o così o non votiamo il decreto Genova?

«Esattamente». 

Però la Lega ha votato tutto il pacchetto...

«Come in tutti i governi si va a mediare. Io ero abbastanza perplesso sull'inserire quella norma. Non perché non ci fossero temi che andassero effettivamente approfonditi. Ci sono milioni di edifici in Italia che sono in sospeso tra l'essere definiti conformi alle norme o abusivi, per i procedimenti bloccati negli uffici. Ma erano due temi scollegati, il ponte e il condono». 

[...]  In conclusione, rivoterebbe il famigerato articolo 25 del decreto Genova, quello sul condono?

«Lo rivoterei per forza, altrimenti non si sarebbe ricostruito il ponte di Genova. Ma è stata una scelta parlamentare quella di accorpare l'emergenza in Liguria con il condono. Qualcuno ha utilizzato quel momento per sistemare altre cose. Quando si arriva a mediazioni governative, ci sono pro e contro. Ma anche senza quel condono, in assenza di lavori sulla montagna, la tragedia ci sarebbe stata lo stesso. Ne sono convinto».

FdI votò coi grillini, il Pd si oppose. Frana di Ischia: il decreto Conte-Meloni che ha condannato a morte l’isola. Piero Sansonetti su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Si è accesa la polemica politica sulla tragedia di Ischia (otto morti e quattro dispersi, finora: tra i morti ci sono tre bambini e un ragazzo di 15 anni). Oltre alle cause naturali ci sono responsabilità? Gli esperti dicono che l’abusivismo edilizio è una delle cause principali del disastro e sotto accusa è finito un decreto del 2018.

Era un condono che sanava gli abusi e salvava diverse costruzioni dalla demolizione. Chi ha varato quel condono? Giuseppe Conte, presidente del Consiglio. Ieri Conte ha negato che fosse un condono, visto che il suo partito è sempre stato acerrimo nemico di tutti i condoni e specialmente dei condoni edilizi. E però il provvedimento è intitolato proprio così: Condono.

Certo, non è che Conte lo fece da solo, quel decreto. Lo fece il suo governo grillin-leghista, con dentro Salvini e Di Maio. Non risulta che Grillo espresse dissenso. Ma la cosa più clamorosa è che a favore del condono intervenne anche Giorgia Meloni. Già: non si tirò indietro. Disse che votava a favore non per fare un piacere al governo ma per farlo agli italiani.

Un solo partito si oppose senza tentennamenti e, in solitudine, votò contro. Il Partito democratico. Vedete, noi siamo tra quelli che spesso criticano il Pd, e però, bisogna dire la verità, spesso il Pd ha ragione.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le colpe della sinistra e la premier "fuoriclasse". Paolo Mieli e Concita De Gregorio alla corte della Meloni. Michele Prospero su Il Riformista il 29 Novembre 2022

“In onda” la post-verità. Su La7 si discute, stancamente a dirla tutta, sulla tragedia di Ischia. Dopo le consuete frasi di circostanza, e qualche volo pindarico sul rapporto metafisico tra umanità e natura, lo studio dà segni di parziale risveglio. E, con il sangue che ribolle un poco di più nelle vene, scivola nella polemica politica spicciola. Quando c’è Mieli in trasmissione, del resto, ogni occasione è propizia per lanciare una bella frecciatina al Pd. Ci saranno delle “ferite ancora aperte” che lo inducono a graffiare a testa alta, anche se non esistono motivi legittimi per farlo.

I lineari discorsi di Mieli sono improntati, almeno apparentemente, sempre al comodo registro del buon senso. A ragionamento concluso, però, non si capisce mai bene dove egli intenda andare a parare. Le sue frasi, con dietro il lavoro di una vera arte retorica, dicono e negano, ribadiscono e ritrattano. La sola certezza è che, dopo il fiumiciattolo di parole, prima o poi un bel ceffone al Pd lo assesterà. Qualunque cosa facciano al Nazareno, la scoppola arriva a prescindere. Come al Pasquale dello sketch di Totò. Stavolta la colpa del centrosinistra sarebbe quella di non poter dire la nuda verità sugli effetti del maledetto condono del 2018. Lo vieterebbe la ricerca di Conte, l’ “agit-p(r)op”, quale indispensabile alleato nella coalizione. Per non allagare anche il campo che dall’odiosa estate non è più largo, meglio sarebbe per il Pd glissare su eventuali responsabilità politiche del disastro riconducibili alle scelte perverse del governo gialloverde di Conte e Salvini.

Per un po’ Mieli si dedica al puro processo alle intenzioni. Presto però acciuffa l’occasione propizia per far uscire quello che ha in serbo. Non si accontenta più di giri di metafore volti a coprire banali sospetti. E così piazza il colpo definitivo che tutti comprendono. L’unico partito che può pronunciare parole autentiche sui fatti di Ischia, annuncia solennemente lo storico, è Fratelli d’Italia. Il partito con la fiamma sarebbe infatti il solo soggetto ad avere la coscienza a posto, grazie al meritato plusvalore etico-politico guadagnato con l’immacolata stagione di opposizione. Le carte di Fratelli d’Italia sono così in regola, dichiara Mieli, che soltanto Giorgia Meloni nel mondo politico odierno può permettersi di “fare una polemica con i fiocchi”, scagliandosi contro i colpevoli politici del disastro che è stato agevolato dall’improvvido condono del 2018.

Concita De Gregorio non aspettava altro. Annusando nel predicozzo di Mieli la conferma della sua analisi, divenuta celebre per l’inusitata ponderazione storiografica, su Meloni come “fuoriclasse”, autentica statista del secolo, la conduttrice si accoda al suo ospite nell’esaltazione della verginità etica della destra radicale. A questi opinionisti che combattono il principio di realtà va rammentato ciò che registra la banale cronaca: mentre il giulivo ministro delle Infrastrutture Toninelli si esibiva in Aula con il pugno chiuso per esultare dopo l’approvazione definitiva del testo assai discusso, Giorgia Meloni giustificava il suo convinto sì al disegno varato dall’esecutivo del “contratto” precisando: “Non è un soccorso al governo, ma un sostegno per gli italiani”.

Per giornalisti della post-verità come Mieli e De Gregorio l’effettivo comportamento parlamentare è un fastidioso dettaglio empirico, in sé del tutto inutile come convalida delle solenni tesi via etere. E però, per chi non si arrende al dominio della chiacchiera che cammina senza uno straccio di conferma fattuale, la storia reale suggerisce che i neri Fratelli d’Italia non possono sviluppare alcuna “polemica con i fiocchi”. Semplicemente perché anche il loro partito (aspirante stampella del primo governo Conte e tentato di entrare nella maggioranza populista) era favorevole al condono della vergogna. Solo Pd e Leu votarono contro il provvedimento, mentre Forza Italia, pur contraria in molti passaggi in commissione, si astenne.

Renzi dice sempre che Giorgia Meloni dovrebbe mandare ogni giorno un bel mazzo di rose rosse a Letta, maldestro artefice, a suo parere, del trionfo settembrino dei patrioti. Sarebbe il caso, però, che “il Signor Presidente del Consiglio” Meloni aggiornasse l’indirizzario per i doni da distribuire in segno di riconoscenza. Per sdebitarsi, dovrebbe avere l’accortezza di inviare a quanti più recapiti possibile una bella copia del nuovo libro di Mieli. Naturalmente, il pacco regalo deve essere aggiustato “con i fiocchi”. Il Natale si avvicina e, dopo un estenuante peregrinare da uno studio televisivo all’altro senza cicatrizzare le sue eterne “ferite”, Mieli avrebbe pure tutto il diritto di essere ripagato delle approssimazioni dette in giro solo per un pugno di copie in più.

Michele Prospero

Dispersi la famiglia dei fratellini morti e il compagno della prima vittima. Chi sono le vittime della strage di Ischia: da Eleonora a Giovangiuseppe (nato 22 giorni fa), vite spezzate dalla valanga di fango. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2022

Eleonora Sirabella, 31 anni, Francesco Monti, 11 anni, Maria Teresa Monti, 6 anni, Maurizio Scotto Di Minico, 32 anni, Giovanna Mazzella, 30 anni, Giovangiuseppe Scotto Di Minico, 22 giorni, Nikolinka Ganceva Blagova, 58 anni. 

Sono i nomi delle sette vittime al momento identificate della valanga di fango e detriti partita dal Monte Epomeo che ha devastato numerose abitazioni nella parte alta del comune di Casamicciola a Ischia.

A lavoro senza soste da oltre 36 ore, i soccorritori nella giornata di domenica 27 novembre sono riusciti a recuperare i corpi senza vita di sei persone, dove l’iniziale ritrovamento nella giornata di ieri della 31enne Eleonora Sirabella (nella foto in alto a sinistra), che poco prima di morire aveva telefonata al papà.

Al momento sono 5 i dispersi: all’appello mancano Gianluca Monti (di professione tassista), la moglie Valentina Castagna e il figlio 15enne Michele Monti, il compagno di Eleonora, il marittimo Salvatore Impagliazzo, e una persona la cui identità non è ancora nota. Le ricerche andranno avanti anche nel corso della notte ma con il passare delle ore le probabilità di ritrovare vive le cinque persone sono minime.

I RITROVAMENTI DI OGGI – Nel corso della giornata, sono stati trovati senza vita i fratellini Francesco Monti di 11 anni e della sorella Maria Teresa di 6 anni. La bimba indossava un pigiamino rosa, ed era rifugiata sotto il suo letto. Ritrovate poi anche le salme di Maurizio Scotto Di Minico, di 32 anni, della moglie Giovanna Mazzella di 30 anni e del loro figlio Giovangiuseppe, nato lo scorso 4 novembre, appena 22 giorni fa. Marito e moglie erano titolari di un negozio di abbigliamento a Forio.

La famiglia Monti: dispersi il papà Gianluca, la moglie Valentina Castagna e il figlio Michele 15enne Michele. Ritrovati senza vita i piccoli Francesco e Maria Teresa

“Il ritrovamento del neonato di 22 giorni ha colpito tutta la comunità dei vigili del fuoco” ha raccontato Emanuele Fraculli, alla guida del corpo del vigili del fuoco regionale, intervenuto in Prefettura all’aggiornamento sulla situazione delle ricerche a Casamicciola.

Tra le vittime accertate, anche Nikolinka Ganceva Blagova (nella foto a destra), 58enne di nazionalità bulgara. Il console bulgaro in Italia nel pomeriggio ha raggiunto Ischia per identificarla. Nikolinka era arrivata ad Ischia anni fa facendo la cameriera. Poi ha sposato un ristoratore che nel frattempo ha aperto un ristorante a Berlino e lei l’aveva seguito. La scorsa settimana era arrivata la notizia che era stata accettata la sua richiesta di cittadinanza italiana. Era tornata sull’isola per ritirare i documenti.

Gli sfollati sono saliti a 230, ma tutti sono stati sistemati in hotel o da amici e parenti. Tre i feriti tra cui uno grave ricoverato al Cardarelli.

ZONA ROSSA – Dopo una giornata di ricerche, aumenta anche il numero delle abitazioni coinvolte, circa 30. Dalla riunione in Prefettura è emersa prioritaria l’individuazione della zona rossa e quando sarà delimitata anche il numero degli sfollati potrebbe aumentare di nuovo.

FAMIGLIE SENZA LUCE E ACQUA  – Sono quattro o cinque i nuclei familiari che, a 36 ore dalla alluvione di Casamicciola, non sono stati ancora messi in sicurezza nonostante il lavoro dei soccorritori. Si tratta di circa 20 persone tra adulti e bambini, tutti localizzati in abitazioni di via Pera di Basso che ancora non dispongono di acqua corrente ed elettricità. I soccorritori stanno facendo arrivare un’autobotte per provare a fornire loro acqua ma è possibile che queste persone debbano restare ancora una notte nelle loro abitazioni.

A coordinare le operazioni sull’isola è il vice prefetto Simonetta Clacalterra, nominata dal governo commissario per l’emergenza a Ischia, per far fronte alla quale sono stati stanziati 2 milioni di euro dall’esecutivo. In mattinata Calcaterra, da giugno commissario prefettizio di Casamicciola, ha incontrato il presidente di Regione Campania, Vincenzo De Luca.

E proprio da De Luca arriva il monito più forte. “Non esiste l’abusivismo di necessità, esistono situazioni di necessità”, dice il governatore, convinto che “le costruzioni nelle zone fragili dal punto di vista idrogeologico vadano demolite, la gente deve capire che in alcune aree non si può abitare“, “In queste ore abbiamo registrato una doppia disgrazia : oltre alla disgrazia dei terremoti, delle valanghe d’acqua, delle valanghe di fango, abbiamo la seconda disgrazia che sono le valanghe di parole, di dichiarazioni, di protagonismi di personaggi politici che non c’entrano assolutamente niente che stanno a farsi propaganda. Però -conclude – è una liturgia quasi inevitabile questa in Italia”.

Condono edilizio o dell’ipocrisia di una sinistra “democratica” senza socialismo. GIUSEPPE MAZZELLA il 23 giugno 2022 su news.ischia.it

L'ipocrisia, dice il Devoto Oli, è "la simulazione estesa all'ambito dell'atteggiamento morale o dei rapporti sociali" e cita La Rochefoucauld: "l'ipocrisia è un omaggio che il vizio rende alla virtù". L'ipocrita è quindi "il simulatore di atteggiamenti o sentimenti esemplari". Il gusto della ricerca semantica – che invece riveste un costume - mi è nato dalle attenzioni che le pagine napoletane de "La Repubblica" hanno dedicato alla "conversione" del Partito Democratico al problema del condono edilizio del 2003, dieci anni fa, che non si applica nella Regione Campania. Sul condono edilizio, sulla necessità e l'opportunità di fermare gli abbattimenti di case abusive in Campania, ha fatto una battaglia soprattutto il PDL attraverso il suo massimo esponente regionale, l'on. Nitto Palma, ricevendo una montagna di insulti soprattutto da esponenti dell'ambientalismo e del PD. Gli esprimo apprezzamento per il suo coraggio, la sua tenacia e la sua competenza giuridica oltre ad aver saputo esprimere una linea UNITARIA del suo partito espressa anche da altri esponenti fra i quali il sen. Domenico De Siano.

Stella Cervasio scrive giovedì 20 giugno 2013 un articolo sul "caso":" Sorpresa PD indietro tutta sul condono edilizio" e spiega il disegno di legge del PD della Campania che prevede "piani di recupero" da parte dei Comuni ed addirittura lo scioglimento per quei Comuni che non lo fanno.

L'argomento occupa l'intera quinta pagina di cronaca e registra fra l'altro una dichiarazione dell'on. Rosaria Capacchione, giornalista, deputata del casertano del PD, coraggiosa cronista contro la camorra, che dichiara: "Stiamo parlando di un milione di abitanti coinvolti, non mille, non tutti sono responsabili degli abusi "perché i Comuni non avevano il Piano Regolatore Generale. Poi però, tanto per "bilanciare", altre dichiarazioni: Ciro Cacciola, coordinatore del PD in Campania: "il disegno di legge che presenteremo consentirà ai Comuni di presentare "piani di recupero"...altro che condono indiscriminato... sanzioni per i Comuni in caso di inadempimento" e Cacciola dice che "cadrebbe per la Campania l'esclusione dal condono del 2003" ma l'altro coordinatore del PD in Campania, Enzo Amendola dice: "Noi siamo contro il condono. Con un architetto d'esperienza come Bruno Discepolo abbiamo discusso delle formule per cercare di alleviare i problemi dei Comuni che hanno difficoltà". Come se il Diritto fosse la Chimica cioè "formule" come se la responsabilità fosse SOLO dei Comuni mentre invece il VERO RESPONSABILE del caos urbanistico è della REGIONE CAMPANIA da 43 anni!!!!

Venerdì 21 giugno "La Repubblica" con "la polemica": L'ipotesi condono spacca la sinistra" e riporta una lunga intervista all'ex- "Governatore" della Campania, Antonio Bassolino di Conchita Sannino dove Bassolino non solo giustifica la legge campana di esclusione del 2003 ritenuta "illegittima " dalla Corte Costituzionale ma afferma "che c'è troppa comprensione per chi ha violato la legge". Un'intera pagina è dedicata alle altre reazioni, naturalmente, di apprezzamento del PDL per la nuova posizione del PD con il titolone: "Il condono del PD divide il partito, il PDL esulta: "oltranzismi ideologici abbandonati".

Sabato 22 giugno "La Repubblica". Un'altra pagina con il titolone: "No al condono senza piani di recupero" con i "chiarimenti" dell'arch. Bruno Discepolo, quello che sta studiando la "formula", che afferma: "la nostra proposta non è quella del PDL. Noi vogliamo chiudere la stagione dei condoni. I Comuni debbono riprendere la pianificazione dei territori. La legge regionale 16 dell'ex assessore obbliga i comuni ad adottare i PUC, i nuovi strumenti urbanistici. I Comuni hanno 30 mesi per i piani di recupero pena lo scioglimento. La legge di non estensione del condono della Campania è stata dichiarata illegittima".

A Discepolo- scrive Stella Cervaso su "La Repubblica" – fa eco il segretario cittadino del PD, Gino Cimino: "Non siamo il partito del condono. Abbiamo provato attraverso la costruzione di una proposta a rimediare a delle incongruenze che non hanno permesso la possibilità di risolvere questioni tecniche ma la premessa è molto chiara. il PD è un partito che non transige sui principi della legalità e non va confuso con lo spirito propagandistico e inconcludente della destra che da vent'anni sventola un condono che non si è mai realizzato".

Finisco qui le citazioni nella speranza di qualche lettore a cui rimando la lettura dei lunghi articoli su "La Repubblica".

Io trovo queste dichiarazioni di esponenti del PD "ipocrite" cioè "simulatrici di atteggiamenti o sentimenti esemplari" ma sono addirittura proposte di "formule" che dimostrano come questi esponenti siano molto lontani dalla "conoscenza" dello stato di "efficienza amministrativa" dei 91 Comuni dell'area napoletana (Napoli esclusa perché concentra, come sempre, tutto il dibattito) ed in particolare dei sei Comuni dell'isola d'Ischia che, per la sua particolarità ambientale – è la più grande delle isole minori italiane (46Km2) e proporzionalmente è la più popolata (65mila abitanti) ed è abitata senza soluzioni di continuità almeno dallo VIII secolo a.C. – ed economica – è un'area turisticamente "ipermatura" diventata tale soprattutto dall'ESPANSIONE EDILIZIA , disordinata ma comunque produttiva, con 40mila posti-letto, 3mila imprese,13 mila lavoratori iscritti al Centro per l'Impiego ex-Collocamento - e quindi avrebbe bisogno non di una "formula" ma di una "LEGGE SPECIALE" perché non ha MAI avuto un Piano Regolatore Generale "approvato" dalla Regione Campania ed "in vigore" ma due Piani di "tutela passiva del territorio", tanto per usare gli eufemismi cari agli architetti, un Piano Paesistico del 1942 ed un Piano Urbanistico Territoriale del 1995 approvato dal Ministero dei Beni Culturali ai sensi della Legge Galasso del 1984 "surrogando" i poteri della Regione Campania che in 11 anni non ha saputo redigere ed approvare un Piano Urbanistico "sovraordinato" rispetto ai sei Piani Regolatori ma veramente "praticabile" in una economia aperta con un mercato libero.

Poiché il Piano "ministeriale" – detto Paolucci dal nome dell'allora Ministro, tecnico di un governo tecnico – vieta qualsiasi nuova costruzione un intero sviluppo sociale ed economico di una comunità di 65mila persone che vivono SOLO di turismo ed indotto è GIURIDICAMENTE bloccato. Non è MAI stato redatto ed approvato il "piano di dettaglio", previsto dal decreto ministeriale di approvazione del Piano Urbanistico Territoriale, dei due condoni edilizi del 1983 e del 1993 che avrebbe dovuto essere redatto dai Comuni ed approvato dalla Soprintendenza ai Beni Ambientali entro UN ANNO dalla approvazione del Piano. Essendo SEI COMUNI e mancando un coordinamento istituzionale e surrogatorio ciascuno ha avviato un proprio piano di recupero con propri "protocolli di intesa" con la Soprintendenza. Le pratiche dei due condoni sono oltre ventimila. Quelle del "terzo condono" del 2003, non applicabile allo stato attuale, del 2003, dieci anni fa, si stima che siano oltre 10mila. Tutto questo senza "rimuovere" le leggi vincolistiche del 1939 cioè settantaquattro anni fa!!!

La storia della "pianificazione mancata" dal 1949 al 2010 nell'isola è raccontata in estrema sintesi in un mio libretto(Ischia, la pianificazione mancata-I Quaderni dell'Osservatorio sui fenomeni Socio-Economici dell'isola d'Ischia-OSIS- giugno 2012 con postfazione di Franco Borgogna).

Credo che è tempo di chiarezza e credo che la proposta dell'on. Nitto Palma sia molto più seria perché semplicemente "realistica" in quanto tiene conto del grado di "efficienza" dei Comuni e soprattutto della Regione Campania. Quindi occorre – purtroppo – l'ennesima "leggina!" di estensione del condono del 2003 a tutta la Campania e soprattutto all'isola d'Ischia, caso emblematico o paradigmatico , ed occorre procedere all'unificazione amministrativa dell'isola d'Ischia in UN SOL COMUNE con un unico Ufficio della Pianificazione Territoriale affidando la PIENA COMPETENZA AL COMUNE UNICO eliminando i poteri della Soprintendenza.

Allo stato dell'efficienza dei sei Comuni dell'isola d'Ischia NESSUNO ha approvato un Piano Urbanistico Comunale previsto dalla legge regionale dell'assessore dell'epoca Marco Di Lello, socialista, eletto deputato del PD che pare già confluito nel gruppo misto della Camera, del 2005 e del resto non avrebbe alcun senso se un Comune – come Serrara-Fontana, il più piccolo fra i sei, ma l'unico ad aver affidato l'incarico di redazione ad uno Studio di urbanistica – approvasse un "piano di recupero" mentre gli altri 5 non lo fanno.

Naturalmente per rivedere un nuovo assetto istituzionale dell'area napoletana ci vuole tempo: bisogna istituire la Città Metropolitana, abolire la Provincia, disegnare i poteri dei 92 Comuni dell'area di cui sei nell'isola d'Ischia e due a Capri. Solo con un "efficiente" assetto istituzionale dei poteri locali può essere credibile ed attuare una "realistica" Pianificazione Territoriale che deve essere legata alla Programmazione Economica. Un assetto istituzionale "efficiente" può rendere "efficace" una "Programmazione-Processo" capace di consolidare e non distruggere un sistema economico complesso di un'isola ancora di straordinaria bellezza dalla articolata Economia come dimostriamo ogni mese con la nostra Rivista-Guida "Ischianews & Eventi" ed abbiamo proposto – nel caso di Casamicciola – una Società di Trasformazione Urbana ai sensi dell'art.120 del Testo Unico degli Enti Locali capace di recuperare almeno 100mila metricubi di superficie coperta soprattutto con il recupero del fatiscente complesso del Pio Monte della Misericordia.

Se queste sono osservazioni "semantiche" o "giuridicamente elementari" come vecchio socialista liberale sessantottino desidero farne una di carattere "politico".

I comunisti hanno sempre sostenuto di essere i primi della classe, di avere "sentimenti esemplari" e non hanno MAI sostenuto abbastanza la politica di Programmazione avviata dai socialisti negli anni ' 60 del ' 900 con la svolta di centro-sinistra fino a dare un contributo decisivo per il suo fallimento che ha portato negli anni ' 80 e ' 90 al più sfrenato liberismo che a sua volta ha determinato la corruzione e la dissoluzione del sistema dei partiti. Diventati "postcomunisti" e semplicemente "democratici", perché non possono dirsi "socialisti", non hanno perso questo "vizio" che vogliono far passare come "virtù". Che cosa sia oggi il PD lo sta spiegando Fabrizio Barca nel suo giro d'Italia in quello che resta delle "sezioni" che oggi si chiamano "circoli".

Se il PD non dichiara se stesso "socialista" in linea con il "socialismo europeo" e se i suoi dirigenti non si scelgono Padri Nobili come Norberto Bobbio e Carlo Rosselli cioè i portatori laici di un "dubbio" non di una "certezza" e ne fanno comportamento politico , non ha né presente né avvenire.

Questa questione del "condono edilizio" è quindi esemplare. Bisogna chiamare le cose con il nome appropriato, bisogna avviare una autocritica, bisogna vedere il palo nei propri occhi prima che il pelo o un altrettanto palo in quelli degli altri, bisogna, tanto per chiudere e scusarmi per chi mi ha letto fin qui, con Ernesto Rossi (1897-1967) "dare occhiali alla democrazia non accecarla". Casamicciola, 23 giugno 2013

(ANSA il 29 novembre 2022) - Accelerare la ricerca dei quattro dispersi dell'alluvione di Casamicciola. Si riparte questa mattina con la preoccupazione che la pioggia, annunciata tra oggi e domani sull'isola d'Ischia, renda ancora più complicate le operazioni di individuazione dei corpi. Il fango in strada da spalare è ancora tanto e si teme per ulteriori ostacoli che provocherebbero piogge intense.

Le ricerche si concentrano nella zona di via Celario, la cosiddetta strada della morte dove la frana ha provocato i maggiori lutti. Il bilancio della tragedia al momento è di 8 morti, 5 feriti, 230 sfollati. Dopo il ritrovamento, nella giornata di ieri del quindicenne Michele Monti, i quattro dispersi sono Valentina Castagna e Gianluca Monti, giovani genitori dei tre fratellini di 15,11 e 6 anni trovati morti, Salvatore Impagliazzo, compagno di Eleonora Sirabella, la ragazza prima vittima del disastro recuperata e una donna di 31 anni.

Sono proseguite anche nel corso della notte le ricerche degli ultimi quattro dispersi di via Celario, nella zona di Casamicciola alta. I vigili del fuoco hanno setacciato metro dopo metro la zona dove ieri sono state ritrovate alcune vittime. In mattinata alcune squadre hanno dato il cambio agli operatori che nelle scorse ore hanno lavorato senza sosta. Intanto, anche questa mattina torneranno in attività i volontari per spalare il fango. (ANSA)

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022. 

Con i vigili del fuoco che ancora scavano, e quattro corpi ancora da recuperare - perché di questo si tratta, e ormai definire «disperso» chi manca all'appello è soltanto un dovere tecnico burocratico - non è facile fissare l'attenzione sull'ombra che dal primo momento accompagna questa tragedia: quella dell'abusivismo e dello scempio ambientale. 

Eppure è anche su questo, o forse soprattutto su questo, che la procura di Napoli dovrà fare chiarezza con l'inchiesta per frana colposa aperta all'indomani della strage di Casamicciola. Ed è inutile nasconderlo: potrebbero venir fuori responsabilità, quantomeno di incoscienza, anche da parte di chi ha trasformato in case vecchi ruderi, stalle risalenti anche a secoli fa, ed è andato a viverci.

Il lavoro dei magistrati è ancora alle primissime battute. Ma sulle condizioni di quel costone del monte Epomeo che si affaccia sul comune di Casamicciola lavorano da anni geologi, ingegneri, architetti, enti territoriali come l'Autorità di bacino. E ogni indagine tecnica, ogni rilievo, ogni ricerca scientifica ha portato allo stesso risultato: la zona del Celario è ad elevato rischio idrogeologico.

In un documento redatto dall'Autorità di bacino meridionale sulla gestione del rischio idrogeologico a Casamicciola e Lacco Ameno si legge che sul versante dell'Epomeo rivolto verso i due comuni si riscontrano «fenomenologie franose» che «sono in grado di trasportare verso il fondovalle grandi quantità di massi e tronchi nonché, laddove presenti lungo il percorso di propagazione, autovetture e materiale antropico in generale. La grande energia messa in gioco da tali flussi è in grado di danneggiare i fabbricati e le strutture con essi interagenti provocandone, occasionalmente, la completa demolizione». 

Sulla base di questi elementi si conclude che «estese porzioni di Casamicciola e Lacco Ameno sono classificate a rischio molto elevato (R4) ed elevato (R3), - in quanto suscettibili all'innesco, transito e invasione di fenomeni di colata rapida di fango, flussi iperconcentrati (miscela acque e sedimento) e crolli».

Sulla stessa linea lo studio condotto dall'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, riportato nella cartina in alto a destra, in cui compare esattamente via Celario, indicata come un'area dove l'alto rischio di frane si somma a un altrettanto elevato rischio di alluvioni. E tutto questo, tornando a quanto scrive l'Autorità di bacino, in un territorio dove «gli impluvi presentano numerosissime interferenze con opere antropiche dell'urbanizzato, quali tombamenti, edificazioni e strade alveo, che generano numerose criticità e singolarità idrauliche».

Che in uno scenario così non si possa pensare di costruire case, né di riattare vecchi manufatti, appare evidente. Ma esistono anche altri documenti ufficiali che di fatto sanciscono l'assoluta inedificabilità di aree come quella del Celario. 

In particolare il Piano territoriale paesistico del ministero per i Beni culturali e ambientali datato addirittura 14 dicembre 1995. Come è indicato nella cartina a sinistra, l'area colpita dalla frana di sabato scorso è identificata in bianco, e questo a una lettura superficiale potrebbe far pensare a un posto a zero rischi, perché convenzionalmente laddove c'è pericolo di disastri naturali si parla sempre di zona rossa.

Ma la legenda che accompagna il grafico, e soprattutto le norme di attuazione dei Ptp, spiegano che in questo caso bisogna ragionare esattamente al contrario: quella in bianco è considerata «zona a protezione integrale», e cioè un'area dove non è assolutamente possibile costruire né eseguire alcun tipo di intervento su edificazioni eventualmente già presenti prima dell'approvazione del piano.

Ferruccio Pinotti per corriere.it il 28 novembre 2022.  

Ventitrè mail pec inviate ad altrettanti destinatari appena quattro giorni prima della tragedia: «Evacuate Casamicciola, la semplice allerta meteo non basta».

A scriverle era stato l’ingegnere Giuseppe Conte (omonimo dell’ex premier), già sindaco nei primi anni ‘90 del Comune colpito dalla frana. Un allarme inascoltato. «Avevo scritto al prefetto di Napoli, al commissario prefettizio di Casamicciol a, al sindaco Manfredi e alla Protezione Civile Campania. Nessuno mi ha risposto», denuncia al Corriere.

« A seguito dell’allerta meteo arancione, avevo segnalato il pericolo per la popolazione della zona e chiesto la loro evacuazione» .

«Dopo l’alluvione del 2009 non c’è stato alcun intervento, o almeno nessuno significativo, nonostante i fondi stanziati per la sicurezza negli ultimi anni: 180mila euro per la pulizia degli alberi, 3 milioni e 100 per un intervento a monte dell’abitato Casamicciola (nel 2010-2012) e un lavoro messo a disposizione dalla città metropolitana per mettere in sicurezza del bacino dell’alveo Larita nel 2018. E ancora manca inoltre da anni l’annunciato piano per il dissesto idrogeologico della zona», sostiene Conte.

 Al Corriere l’ingegnere, classe ‘47, un passato come dirigente nel settore acque e acquedotti della Regione Campania, spiega: «Il problema di Casamicciola di cui sono stato sindaco negli anni Novanta non è l’abusivismo, le cause di questo disastro sono le stesse dell’alluvione del 1910, ovvero la fragilità del territorio. Dopo l’alluvione del 1910 furono realizzati dei sistemi di protezione dell’abitato, le cosiddette “briglie”, ma da allora non si è più intervenuti con interventi appropriati e con una manutenzione degna di questo nome» 

Ma ecco il testo delle mail. Dopo una premessa sull’aggravarsi della situazione meteorologica, l’ex sindaco il 22 novembre scriveva: «È opportuno ricordare che nella notte del 13 febbraio 2021 si verificava, presso il vallone la Rita, il crollo di uno degli storici stabilimenti termali ivi insistenti per cui la Protezione Civile Regionale insieme al Soccorso Alpino e Speleologico della Campania hanno ispezionato il canale tombato quasi sicuramente ostruitosi a seguito degli evidenti crolli. I tecnici intervenuti hanno riscontrato l’esistenza di una situazione decisamente catastrofica e la possibilità di ulteriori crolli e l’urgenza di ripulire tutto l’alveo sia dalla vegetazione, sia dall’immondizia e dai blocchi di materiale solido presenti all’interno». 

L’ingegner Conte prosegue: «Considerato che i lavori richiesti non sono stati realizzati, può sussistere lo “stato di grave crisi per la calamità naturale imminente”, nei Comuni di Casamicciola Terme e di Lacco Ameno, dato dal pericolo imminente nella zona del vallone della Rita. Considerato, altresì, che l’Autorità di Bacino competente, il Sindaco di Casamicciola Terme e il sindaco di Lacco Ameno, pro tempore, hanno segnalato la concreta possibilità, in caso di allerta meteo, di evacuazione della popolazione e dell’unico presidio sanitario ospedaliero dell’isola d’Ischia, delle case popolari nonché della scuola media. 

Con la precisazione che nella zona di confluenza dell’alveo vi è anche una centrale di trasformazione dell’Enel, il Sottoscritto in ottemperanza al senso civico che lo anima, invito le Autorità in indirizzo, per le rispettive competenza ad adottare tutte le iniziative necessarie per la sicurezza e la salute delle persone che operano a valle dell’alveo La Rita».

«Inoltre — prosegue la mail — tutti gli alvei naturali di Casamicciola Terme, nonostante i fondi stanziati, per l’inerzia della pubblica amministrazione, in un perverso gioco di scaricabarile, non sono stati oggetto di alcun intervento dopo l’alluvione del novembre del 2009. 

C’è, quindi, l’eventualità concreta di una nuova alluvione nelle stesse zone, per cui si chiede di porre in essere determinate azione di protezione della popolazione, che non può essere il semplice avviso di un’allerta Meteo». Un avviso che non ha avuto risposta.

Secondo Legambiente le case abusive a Ischia colpite da ordinanza definitiva di abbattimento sono 600; 27mila le pratiche di condono presentate in occasione delle tre leggi nazionali. Di queste risultano negli uffici tecnici del Comune di Forio 8.530 istanze, 3.506 a Casamicciola e 1.910 a Lacco Ameno. L’associazione ha ricordato come dopo il decreto del 2018 (il cosiddetto «decreto Genova» o «decreto emergenze», approvato nell’autunno del 2018) «il numero di fabbricati danneggiati che hanno fatto richiesta di sanatoria sono ad oggi circa 1.000».

Estratto dell’articolo del “Fatto quotidiano” il 28 novembre 2022.

[…] L'articolo 25, poi richiesto da circa 1.100 pratiche di condono sull'isola d'Ischia delle 27.010 già presentate, spaccò in due i pentastellati, tra l'ala favorevole del vicepremier Luigi Di Maio - si ricorda un'intervista a Repubblica del 2017 in cui difendeva "l'abusivismo di necessità di chi ha una casa abusiva perché la politica non ha fatto il suo dovere" - e quella contraria del ministro dell'Ambiente Sergio Costa.

Finì, come sempre, a colpi di espulsioni verso chi non votò il dl in Parlamento.

Nette le parole del governatore campano Vincenzo De Luca a Rainews24: "Le persone devono capire che in alcune aree non si può abitare, non esiste l'abusivismo di necessità.

Le costruzioni nelle zone fragili dal punto di vista idrogeologico vanno demolite".

Virginia Piccolillo per il "Corriere della Sera" il 30 novembre 2022.

Gregorio De Falco, lei venne espulso dai Cinque Stelle perché era contrario al condono di Giuseppe Conte su Ischia?

«Di più. A causa della mia contrarietà a quel provvedimento, contro il quale avevo presentato un emendamento di modifica, sono stato espulso dal M5S con la motivazione di non aver sostenuto il governo e poi dal gruppo parlamentare su indicazione di un ministro, il capo del M5S Luigi Di Maio».

Cosa voleva modificare ?

«Chiedevo di abolire il "richiamo esclusivo" alla legge 47/85 Craxi-Nicolazzi che ha aperto una vera e propria autostrada per i condoni. Le due leggi di condono successive erano meno permissive. Ma dopo il condono Conte si è obbligati ad applicare non quelle ma la norma che aveva maglie più larghe per l'abusivismo».

Conte dice che non è un nuovo condono. Ha torto?

«Sì, perché è vero che la norma già esisteva. Ma il condono è nuovo. La legge Craxi-Nicolazzi era stata in parte superata. Dire che bisogna seguire una legge vecchia, che in parte non esiste più, è come vararla di nuovo. Come se, surrettiziamente, avessimo riaperto i termini per il condono. A Ischia lo sanno».

Chi lo sa?

«I cittadini. A differenza di Conte (che si mostra contrario a un condono da lui stesso varato) loro la norma l'hanno studiata e ne hanno tratto l'aspettativa di nuove sanatorie. E infatti dopo il condono hanno costruito tanto».

Come lo sa?

«La mia famiglia è di Ischia. Ho ancora la casa di mio nonno a Ferrara Fontana. Sul versante opposto alla grande frana. Anche se una piccola c'è stata anche lì. Ischia è un vulcano, è lava consolidata in tufo, friabile. Si è visto».

Vuole dire che la tragedia è colpa del condono?

«Le case, ancorché abusive, non hanno prodotto la frana. Ma il fatto che fossero lì è stata una concausa della tragedia».

Casamicciola va spostata?

«È storicamente una zona in cui si verificano questi fenomeni. Poiché non si può pensare di spostare tutta Casamicciola vanno fatti piani di contingenza sulla base della valutazione concreta del rischio ed eventuali piani di evacuazione».

Quel condono va abolito?

«È nato per sanare piccole irregolarità e consentire che lo Stato finanziasse in edifici senza abusi la ricostruzione post sisma. Ma va tolto quel riferimento alla vecchia legge.

In modo da ripristinare controlli mirati zona per zona. Poi toglierei un'altra parte del decreto che non riguarda Ischia: quella che ha elevato la soglia per l'uso di fanghi di depurazione in agricoltura: ora mangiamo ortaggi meno sani»

Lottò da solo nel M5S?

«No, almeno dieci si alzarono e se ne andarono al momento del voto».

Si volta mai indietro?

«Il M5S aveva scopi condivisibili. Purtroppo traditi da chi ha occupato il potere per fini personali. Io sono tornato al mio lavoro, alla Capitaneria di Porto di Napoli».

Da liberoquotidiano.it il 28 novembre 2022.

"Il mio no al condono mi costò l'espulsione dal Movimento 5 Stelle". A parlare, intervistato dall'agenzia Adnkronos, è l'ex senatore pentastellato Gregorio De Falco, commentando i tragici fatti di Ischia e le accuse ai 5 Stelle e all'allora premier Giuseppe Conte di aver di fatto approvato un condono mascherato nel 2017 che ha peggiorato l'abusivismo edilizio sull'isola al largo di Napoli.

La norma in questione è quella, contestatissima, contenuta nel decreto Genova che riguardava l'isola, ovvero l'articolo 25 sulla "definizione delle procedure di condono". Il provvedimento oggi viene rinfacciato da Italia Viva all'ex premier Conte, il quale nega però si sia trattato di un condono. "Conte sa benissimo che è un vero e proprio condono ex novo che richiama il condono del 1985. In diritto esiste un principio, tempus regit actum, il professor Conte non può non saperlo. Il condono del 2018 doveva essere disciplinato dalle norme del 2018. Se fosse vero quello che dice Conte, sarebbe bastato un atto amministrativo e un modellino unificato", attacca De Falco, che proprio oggi è tornato in servizio a Napoli presso la Capitaneria di Porto.  

 "Parlo a titolo personale", ci tiene a precisare. L'ex senatore grillino, all'epoca, si scagliò contro quella norma "blindata" dal M5s, azionista di maggioranza del governo Conte 1. Un'opposizione che poi gli sarebbe costata la cacciata dal Movimento. "Mi fu contestato il no al decreto Salvini, ma certamente - rimarca De Falco - il decreto Genova fu la goccia che fece traboccare il vaso a metà novembre 2018. Contestai i 12 articoli che riguardavano il condono a Ischia. Mi fu risposto che non si potevano presentare emendamenti e che il condono si sarebbe fatto. Il senatore Santangelo, allora sottosegretario ai Rapporti con il Parlamento, disse che era stato deciso così". 

 De Falco in Commissione provò poi a bloccare la norma sul condono: "Avevo predisposto un emendamento che prevedeva di tagliare le ultime parole dell'articolo 25 laddove si faceva riferimento alla legge 47 del 1985, il cosiddetto condono Craxi". In Commissione "fu messo ai voti l'emendamento presentato dalla senatrice forzista Urania Papatheu, identico al mio. Il governo - racconta il Capitano di fregata - fu battuto e quell'emendamento passò. Immediatamente si auto-sospesero 4 senatori campani di Forza Italia, tra cui De Siano e Cesaro. Il giorno seguente in Aula Fi, dopo un travaglio interno, tornò a 'militare' a favore dei condoni e quindi votò contro il 'proprio' emendamento a firma Papatheu. Insieme a Fi votarono la Lega e Movimento 5 Stelle".

"Tutto il M5s difese quella norma, eccetto me e le senatrici Nugnes e Fattori. Tutto il Movimento si muoveva come una testuggine, secondo un'espressione evocata all'epoca da Luigi Di Maio...", prosegue De Falco togliendosi più di un sassolino dalle scarpe: "Il voto su Ischia contribuì alla mia espulsione. A certificarlo fu il Movimento stesso nelle motivazioni che accompagnarono il mio provvedimento disciplinare. Su quel condono Conte all'epoca nulla ebbe da eccepire, così come Salvini. Oggi entrambi balbettano. Adesso il leader M5s sconta la sua eccessiva attitudine al cambiamento".

Francesco Sisci per formiche.net il 28 novembre 2022.

Una differenza fondamentale nelle democrazie è quella tra responsabilità politica e responsabilità giudiziaria. Anche se tra i due ambiti possono esserci zone grigie la distinzione è essenziale perché consente il libero scambio delle opinioni e soprattutto permette di condannare politicamente qualcuno senza fucilarlo fisicamente. 

Inoltre il politicamente condannato, in democrazia, può fare ammenda del suo sbaglio e rimettersi al pubblico che dopo l’ammenda può decidere di dargli ancora fiducia o togliergliela. In teoria, quindi si crea un sistema trasparente, in cui il pubblico può scegliere in maniera limpida e i politici stessi possono evolversi e fare evolvere la società.

Quindi, negare la responsabilità politica manda il sistema in tilt. Apre le porte alla tentazione di usare il sistema giudiziario per risolvere questioni politiche altrimenti irrisolvibili. 

Diventa l’inizio di una deriva autoritaria e giustizialista, che ancora si trascina in Italia dopo la stagione di Mani Pulite e che ha anche responsabilità politiche nella politica. 

Il cortocircuito tra politica e giustizia sembra alla base di tante delle attuali polemiche sul disastro di Ischia e sul condono agli abusi nell’isola firmato dal governo di Giuseppe Conte.

L’avvocato Conte avrà tutte le ragioni del codice per dire che quello da lui approvato non era un condono e perciò non può essere condannato ad alcuna pena, nemmeno a una piccola multa. È un illustre avvocato e sicuramente avrà ragione. Però non è questo il punto. 

Conte è colpevole politicamente perché ha sanato una situazione che non doveva essere sanata. Poi, sempre politicamente, Conte potrà spiegare perché lo ha fatto. 

Ma la discussione deve essere politica non giudiziaria, perché se si confondono i due ambiti, come egli ha fatto, poi rischia davvero di finire schiacciato sotto le ruote di una giustizia sorda e cieca. 

Il problema non è certo solo di Conte, ma più in generale del dibattito politico italiano e poi in particolare della sinistra.

La difesa leguleia dell’operato di governo non può essere tollerabile da parte di chiunque perché diventa una ferita che non si rimargina facilmente nella politica nazionale. 

Se si vuole eliminare o limitare l’intervento giudiziario nella politica, la politica deve fermarsi prima della giustizia e riconoscere colpe politiche prima che diventino giudiziarie. 

Qui c’è una lezione per i vaffa boys di destra o sinistra. Occorre ammettere le colpe politiche e ritirarsi in buon ordine quando si può. Insistere nell’errore è diabolico, e distrugge tutto, a cominciare da sé stessi.

Sinistra ipocrisia. Il vero scandalo è il condono di Conte (non quello fatto da lui, quello fatto su di lui). Francesco Cundari su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Nessuna ricostruzione del Pd sarà possibile finché dirigenti e intellettuali non si decideranno a lottare seriamente contro l’abusivismo politico di chi ha indebitamente occupato il campo progressista

Come dimostrano le sue ampollose argomentazioni per convincerci che il condono da lui varato non era un condono, che la politica dei porti chiusi e dei decreti sicurezza del suo governo non aveva niente a che fare con la politica dei porti chiusi e dei decreti rave del governo attuale, che si poteva benissimo esultare per la liberazione di Kherson da parte della resistenza ucraina un minuto dopo aver chiesto di interrompere la fornitura di armi alla resistenza ucraina, su Giuseppe Conte non c’è più niente da dimostrare.

Niente, perlomeno, che non fosse chiaro fin dal primissimo apparire sulla scena politica di un uomo capace di dirsi pubblicamente populista e sovranista nel 2018, ma cattolico-democratico e progressista nel 2019, in perfetta coincidenza con il variare delle maggioranze parlamentari dei suoi due governi, e tutto questo senza tradire il minimo imbarazzo, anzi, con la stessa nonchalance con cui oggi accusa Giorgia Meloni di avere fatto «un’opposizione di comodo» a un governo da lui sostenuto e di cui il Movimento 5 stelle faceva parte. C’è veramente poco da aggiungere alle sue parole, tanto più nel momento in cui il leader dei Cinquestelle, a proposito delle polemiche sul terremoto di Ischia, ha persino il coraggio di parlare di «sciacallaggio» contro di lui.

Questo sommario e assai carente riepilogo non serve ad altro che a ribadire un’ovvietà, e cioè che il condono di Conte è imperdonabile, ma non quello fatto da lui. Quello fatto su di lui.

Non c’è manifesto dei valori, carta dei principi, fase costituente che tenga, fino a quando nel Partito democratico non si avrà il coraggio di denunciare apertamente l’abusivismo politico del Movimento 5 stelle, fino a quando dirigenti e intellettuali non si decideranno a liberare la strada di una possibile sinistra di governo dalle pericolanti costruzioni grilline, che nessuna sanatoria e nessun super bonus potrà mai rendere abitabili per una politica autenticamente progressista.

Dai condoni al reddito di cittadinanza, dal superbonus alla battaglia contro i termovalorizzatori, l’esito effettivo di quelle politiche è stato il più grande incentivo alla corruzione, alla deresponsabilizzazione, al degrado urbano e ambientale, alla truffa, al lavoro nero e all’economia illegale che si sia mai visto da almeno trent’anni a questa parte (a tenersi bassi). Un esito tanto più intollerabile perché prodotto da chi nel frattempo avvelenava il dibattito pubblico con campagne giustizialiste e anti-istituzionali, con vere e proprie campagne di odio online e offline, da quella sul caso Bibbiano a quella sul crollo del ponte Morandi (a proposito di «sciacallaggio»).

Tutto questo non è riformabile, non è migliorabile, non è un problema tecnico di questa o quella norma. Una misura che si chiama «reddito di inclusione» è riformabile, una misura che si chiama «reddito di cittadinanza», che come tale è stata propagandata e imposta, no. E continuare a far finta di non vedere il gigantesco problema di lavoro sommerso, distorsione della concorrenza e degrado alimentati da quelle norme e da quella retorica, nascondendosi dietro le tante famiglie povere che ovviamente vanno sostenute, dietro le tante famiglie cui il bonus fa comodo e i tanti cantieri che così sono ripartiti, non significa solo compromettere il futuro dell’Italia e in particolare del sud, ma anche quello della sinistra.

Ed è ancora niente in confronto al significato politico e morale della campagna grillina per il ritiro del sostegno militare all’Ucraina. Un cedimento dei riformisti del Pd anche su questo terreno sarebbe davvero l’ultima e definitiva abiura di una storia certo piena di errori e contraddizioni, ma che era ancora e nonostante tutto una storia dotata di senso, che descriveva un’evoluzione, un percorso in cui le tradizioni della sinistra post-comunista e post-democristiana si incontravano con il socialismo democratico e trovavano infine nel Partito del socialismo europeo la loro naturale collocazione.

Nessuna regressione è più grave e irrimediabile del ritorno alla peggiore demagogia di un tempo, ma senza nemmeno le radici autenticamente popolari di allora, sostituendo la radicalità della lotta di classe con il peronismo casalinista di chi pretendeva di governare in diretta Facebook, ovviamente dalla sua pagina personale, persino nel pieno di una pandemia (sempre a proposito di «sciacallaggio»).

Se davvero i dirigenti del Partito democratico vogliono costruire qualcosa di nuovo, a sinistra, per prima cosa dovranno liberare il campo dai suoi occupanti abusivi.

Grazia Longo per “la Stampa” il 28 novembre 2022.

Ieri mattina il capo della protezione civile Fabrizio Curcio è volato a Ischia per un sopralluogo sul terreno del disastro. E mentre commenta l'ultima emergenza lancia l'allarme: «Il 94% dei Comuni è a rischio frane, alluvioni ed erosioni costiere». 

Che situazione ha trovato sull'isola?

«Molto complicata: la colata di fango e detriti ha investito edifici e ha trascinato fino al mare ciò che ha trovato. In pratica è venuto giù un pezzo del monte Epomeo. A 24 ore dall'evento c'è una grande attività in corso per la ricerca dei dispersi e per l'assistenza alla popolazione da parte di Vigili del fuoco, forze dell'ordine, soccorso alpino e tanti volontari».

Com' è organizzata la macchina dei soccorsi?

«Il sistema operativo ha funzionato, anche perché sull'isola c'era un presidio dei Vigili del fuoco che si è subito attivato grazie anche alla collaborazione dei volontari. Sul campo sono inoltre impegnate altre componenti che prestano aiuto con l'ausilio di cani, droni, l'elicottero notturno del vertice interforze. Strumenti particolari per un evento straordinario in azione in modo complementare. Nonostante il maltempo, i tempi di attivazione sono stati rapidi». 

In appena 6 ore sono caduti sull'isola 120 millimetri di pioggia. C'è dunque il problema di troppa acqua, ma anche di troppo cemento considerate tutte le opere di abusivismo edilizio recentemente condonate per effetto del decreto Morandi.

«Il tema della presenza antropica e il rapporto con la natura è tipica di questi rischi. L'abusivismo edilizio costituisce sicuramente un problema, ma in tante altre zone pur mancando costruzioni abusive si verificano comunque dei disastri ambientali. A Ischia c'è un abusivismo acclarato e quindi il rischio è maggiore. Ma spesso capita che si verifichino delle pianificazioni edilizie sbagliate, nonostante siano in regola con la legge, in aree dove la natura reclama i suoi spazi e dove quindi non si può vivere in piena sicurezza. L'assioma disastro ambientale uguale abusivismo edilizio non sempre funziona». 

A Ischia c'è anche il problema della manutenzione del monte Epomeo. Come intervenire?

«Sinceramente non ho una conoscenza approfondita della questione. C'è tuttavia il tema generale della manutenzione delle montagne: scarsa pulizia dei boschi e dei sottoboschi, mancata cura dell'area fluviale. Occorre sicuramente insistere di più con la pulizia ma è necessario anche accelerare i tempi delle pratiche burocratiche per intervenire più in fretta. Eventi come questo di Ischia sono sempre più frequenti: questo è il tempo del fare, non del pensare».

Quali sono le aree più a rischio in Italia?

«Il 94% dei Comuni, ovvero 7.400 centri, è a rischio di alluvioni, frane, erosioni costiere: sono state recentemente censite 625 mila frane di cui un terzo a cinetismo rapido.

L'Italia è tutta a rischio. Fatichiamo a fare una classifica perché il pericolo è molto esteso. Dobbiamo quindi potenziare la prevenzione strutturale migliorando opere come la costruzione di argini dei fiumi, vasche di espansione, briglie per far defluire l'acqua. Ma è altrettanto necessario un comportamento umano che tenga conto delle allerte meteo e delle criticità che vengono segnalate». 

Abusivismo, mancati investimenti, scarsa manutenzione. Qual è il problema più grave?

«Non credo esista una risposta unica: i tre problemi sono come le tre gambe di uno stesso tavolino, hanno tutte la loro importanza. A seconda delle varie situazioni c'è bisogno di diverse risposte. A volte, per agire in modo adeguato, per trovare la soluzione migliore, c'è bisogno di affidarsi ad analisi terze. Come ad esempio i responsabili amministrativi che svolgono i piani di mitigazione del rischio, le autorità del bacino, le Regioni». 

Nel nostro Paese il rischio idrogeologico è molto alto: quale prevenzione è necessaria?

«Sono fondamentali attività come la cura degli alvei, l'analisi dei confluvi per evitare i cosiddetti "fiumi tombati" dove l'acqua trasborda fuori dal regolare corso. Occorre poi approfondire il reticolo idrogeologico: dove scorre un fiume e con quale portata? Come si rapporta con le abitazioni? Bisogna conoscere bene il territorio e procedere con la realizzazione di vasche di estensione e la ridefinizione dei corsi d'acqua».

Come affrontare l'allarme del cambiamento climatico?

«Ci sono due piani di azione. Uno a breve termine, l'altro a medio e lungo termine. Il primo prevede un comportamento improntato alla resilienza e che tenga conto delle allerte ricevute oltre a opere urgenti sul territorio. Più a lungo termine, invece, servono adeguate politiche sull'emissione dei gas, sulla produzione energetica a impatto ambientale. È importante che il Paese affronti la questione della riduzione dei gas in base a un piano internazionale ma anche con strategie da mettere in atto sul piano personale. Se noi tutti ci impegnassimo ad usare meno l'automobile sarebbe già un primo passo». 

In che modo si può procedere alla modifica delle abitudini personali?

«Dovremmo lavorare di più sulla consapevolezza di migliorare il rapporto tra i cittadini e le istituzioni per la gestione del rischio. Pensiamo al Covid: la popolazione si è affidata alle istituzioni per affrontare l'emergenza. Ma sul rischio c'è diffidenza: uno, ad esempio, non vuole rinunciare a usare l'automobile dimenticando che la natura reclama attenzione. Bisogna rispettare di più il rischio e non cedere ad atteggiamenti irresponsabili».

Il consumo di suolo condanna l’Italia a periodiche tragedie come quella di Ischia. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 28 novembre 2022.

Sabato mattina una frana si è abbattuta sul Comune di Casamicciola Terme, sull’isola di Ischia, causando 7 vittime e 5 dispersi. Si tratta dell’ultimo caso di una serie di tragedie che, oltre ai naturali processi geomorfologici dovuti alla conformazione del terreno, trovano la loro causa in una illogica pianificazione urbana. L’ultimo rapporto ISPRA sul consumo di suolo lascia poco spazio a fraintendimenti. Tra il 2020 e il 2021 si è costruito su 39 ettari a pericolosità di frana molto elevata, altri 79 ettari in aree a pericolosità elevata, 99 a media pericolosità e 104 in aree a moderata pericolosità. 321 ettari totali, il 5% del consumo annuale di suolo italiano, che vanno a sommarsi alle centinaia di ettari a rischio già cementificati negli anni passati. Una negligenza che contribuisce all’impatto antropico sull’ambiente e mette in serio pericolo la popolazione.

“Tra il 2006 e il 2021 il Belpaese ha perso 1.153 km2 di suolo naturale o seminaturale, con una media di 77 km2 all’anno a causa principalmente dell’espansione urbana e delle sue trasformazioni collaterali che, rendendo il suolo impermeabile, oltre all’aumento degli allagamenti e delle ondate di calore, provoca la perdita di aree verdi, di biodiversità e dei servizi ecosistemici, con un danno economico stimato in quasi 8 miliardi di euro l’anno”, si legge nel rapporto Ispra. Del consumo totale di suolo, centinaia di ettari riguardano aree con alta, media e moderata pericolosità e pertanto rappresentano un pericolo per la popolazione. Tali rapporti tecnici dovrebbero fare da monito all’azione politica, orientandola verso scelte utili al benessere dei cittadini. Tuttavia, gli interessi, i compromessi e l’accondiscendenza alterano il principio della buona gestione della cosa pubblica. Così, i dati allarmanti finiscono nell’oblio, fino a quando una delle frane (che in Italia si verificano ogni 45 minuti) non si trasforma in tragedia. Seguono il silenzio, le accuse e poi di nuovo l’oblio. [di Salvatore Toscano]

Dopo la tragedia di Ischia: l’analisi e le ricette dei geologi italiani. Redazione L'Identità il 28 Novembre 2022

Alle prime luci dell’alba di sabato, a seguito di intense precipitazioni protrattesi per tutta la notte, nel territorio di Casamicciola Terme,

sull’Isola di Ischia, si è verificato un fenomeno di colata rapida di fango lungo il versante settentrionale del Monte Epomeo, con un computo delle vittime ancora in corso, mentre i soccorritori sono ancora al lavoro. Comincia così l’analisi dei geologi italiani sull’ultima tragedia causata da fenomeni che troppo frettolosamente e trascuratamente fin qui in Italia sono stati definiti imprevedibili e attribuiti solo alla natura e all’accelerazione del climate change.

“Purtroppo il rischio di questi fenomeni nella zona ischitana è elevatissimo, l’ultimo evento in ordine di tempo si è verificato nel 2009, e i dati del rapporto ISPRA del 2021 indicano per Casamicciola che circa il 60% del territorio ed il 30% della popolazione sono esposti ad un rischio elevato”, rileva Lorenzo Benedetto, presidente Centro Studi CNG.

“I piani per l’Assetto idrogeologico elaborati dalle Autorità di Bacino, evidenziano condizioni di fragilità dell’intero territorio nazionale peggiorate da uno sviluppo caotico e da un non corretto uso del territorio stesso: infatti si è costruito molto spesso in posti dove condizioni geologiche e geomorfologiche non lo avrebbero consentito” prosegue Benedetto.

Cosa fare, allora? “Dopo le operazioni di soccorso e dei primi interventi volti al superamento dell’emergenza e dunque alla ripresa delle normali condizioni di vita e di lavoro, che il sistema di Protezione Civile sta già attuando, sarà importante fare le valutazioni delle condizioni di rischio residuo, con sopralluoghi dedicati anche in relazione agli interventi urgenti di riduzione del rischio da realizzare” afferma Arcangelo Francesco Violo, presidente CNG.

Le prospettive delineate dai geologi italiani conducono ad una unica grande necessità: ““Serve una strategia integrata di prevenzione e gestione del rischio idrogeologico, dobbiamo imparare a convivere con il rischio, il rischio zero non esiste”, prosegue Violo.

Come si può fare? Attraverso l’attuazione di un piano pluriennale di prevenzione e gestione che preveda non soltanto la realizzazione di interventi di tipo strutturale, cioè opere di consolidamento, arginature, briglie, vasche e altro ancora, ma anche una serie di azioni ed interventi non strutturali.

A cominciare, dall’aggiornare i piani per l’assetto idrogeologico e di gestione delle alluvioni perché il territorio è in continua evoluzione, intensificata anche dai cambiamenti climatici in atto. Proseguendo con l’adeguare la pianificazione urbanistica comunale, in modo da non continuare a costruire in aree pericolose ed attuare dunque uno sviluppo compatibile e sostenibile con l’assetto geologico del territorio. E delocalizzare le strutture dalle aree a rischio: recentemente in Campania un importante riferimento è la Legge regionale del 10 agosto 2022 numero 13, che favorisce ed incentiva la delocalizzazione di edifici posti in aree a rischio di frana e alluvione. Attuare, poi, i presidi territoriali, a supporto dei sistemi locali di protezione civile, per monitorare l’evoluzione del territorio insieme ai sistemi strumentali di monitoraggio e di allerta, al fine di tutelare innanzitutto l’incolumità delle persone, dando corso completo ai piani di Protezione Civile, soprattutto nella fase che precede l’evento al fine di ridurre il danno, soprattutto in termini di salvaguardia della vita umana. Informando la cittadinanza così da determinare popolazioni più resilienti: i cittadini devono essere messi a conoscenza dei possibili scenari di rischio che si possono verificare durante le emergenze e delle azioni e comportamenti che devono porre in essere per evitare di mettere a rischio la propria incolumità e quella degli altri.

Occorre infine – concludono i geologi italiani – la manutenzione del territorio che deve riguardare non solo fiumi e torrenti ma anche i terreni presenti sui versanti, prevedendo incentivi economici per i privati nella realizzazione di opere di manutenzione e di sistemazione che migliorerebbero le condizioni di stabilità e di assetto del territorio stesso.

I morti di Ischia sono le ultime vittime del partito del cemento che da anni distrugge l’Italia. Oltre 69 chilometri quadrati di terreni vengono sepolti ogni anno da colate di calcestruzzo e asfalto. Anche in aree ad alto rischio di alluvioni, frane, terremoti. Come dimostra la cronaca di queste ore. Paolo Biondani su L’Espresso il 3 ottobre 2022

C'è un partito in Italia che vince sempre le elezioni. Si presenta sotto diversi colori politici, quasi tutti, esclusi il verde e il rosso vivo degli assessori urbanisti della Bologna di una volta, della primavera di Napoli dopo Mani Pulite, della Sardegna salva-coste. È il partito del cemento. Un partito trasversale che domina da decenni il territorio nazionale, dalle grandi città alle coste di mari, fiumi e laghi, dai centri turistici alle periferie degradate. La sua forza, sotto tutti i governi, è misurata dai numeri e tabelle che pubblichiamo in queste pagine. Sono dati oggettivi, non opinioni: la quantità di terra, la superficie di suolo naturale, che ogni anno viene consumata, sfruttata, ricoperta da una crosta artificiale di calcestruzzo e asfalto.

Lo scempio edilizio in cifre: il grafico mostra le percentuali di suolo consumato da cemento e asfalto in tutto il territorio italiano: dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (5-7), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento)

L'Italia continua da più di mezzo secolo a essere cementificata a ritmi frenetici: in media spariscono ogni giorno 19 ettari di verde. Più di due metri quadrati al secondo. La speculazione edilizia non si è fermata neppure quando il Paese era bloccato per il Covid-19. E dal 2021 è ripresa alla grande, raggiungendo i livelli più alti dell'ultimo decennio: la crosta grigia è aumentata di oltre 69 chilometri quadrati in dodici mesi.

Questi dati, contenuti nel rapporto pubblicato nel luglio 2022 dal Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente (Snpa), nascono dalla schedatura di migliaia di foto aeree che documentano la progressiva cementificazione del nostro fragile territorio. Sono le immagini del disastro di una nazione dove si costruisce ovunque, di solito con tutti i permessi previsti da leggi e piani edilizi approvati dal partito trasversale del cemento, ma contro ogni regola di buon senso. In Italia si fabbricano case e capannoni, strade e parcheggi anche nelle zone a più alto rischio di alluvioni, frane, terremoti, disastri ecologici. Anche a costo di rovinare le bellezze naturali, i patrimoni culturali, i paesaggi che rendono unico il nostro Paese. Un sacco edilizio senza fine, che ignora tante tragiche calamità già vissute e i pericoli per il futuro, aggravati dall’emergenza globale del cambiamento climatico.

Il grafico segnala le percentuali di suolo cementificato in aree a rischio di terremoti: dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (5-7), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento)

Nell'ultima campagna elettorale si è parlato poco di ambiente, per nulla di consumo del suolo. Nell'Unione Europea, almeno finora, è diverso. Diversi atti della Ue imporrebbero anche all'Italia, che li ha firmati, di rallentare la cementificazione fino a bloccarla del tutto. Il suolo è un tesoro naturale, ha scritto e deliberato nel 2021 la Commissione di Bruxelles, che «deve essere tutelato e preservato per le generazioni future», perché «è una risorsa limitata e sostanzialmente non rinnovabile: occorrono migliaia di anni per produrre pochi centimetri di questo tappeto magico». Oltre a essere indispensabile per l'agricoltura, per garantirci cibo, legno e «riserve di biodiversità», la Commissione evidenzia che le terre vergini «svolgono molte altre funzioni preziose, come la regolazione del clima, il disinquinamento dell'aria e dell'acqua, il controllo dell’erosione, la difesa dai disastri idrogeologici». L'Europarlamento ha quantificato i danni collegati al degrado dei suoli in «oltre 50 miliardi di euro all'anno». Eppure in Italia la cementificazione continua, anzi aumenta. Perfino dove è più pericoloso costruire.

Il grafico evidenzia le percentuali di suolo cementificato in aree a rischio di alluvioni: dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (5-7), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento)

Migliaia di case, fabbriche e centri commerciali sono stati edificati nelle zone a più alto rischio di alluvioni. I dati del rapporto, raccolti dall'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e da tutte le Agenzie regionali (Arpa), mostrano che in Italia è stato «consumato», cioè cementato o asfaltato, il 6,4 per cento delle aree «a pericolosità idraulica molto elevata». E il 9,3 per cento di quelle «a pericolosità media». Con situazioni drammatiche. In Liguria risulta cementificato il 23 per cento dei terreni a massimo rischio di straripamento di fiumi e torrenti. La minaccia di disastri idrici è diffusa anche in altre regioni, dal Trentino al Veneto, dal Lazio alla Sicilia, dove è a rischio circa un decimo del suolo occupato da attività umane.

Il “dossier alluvioni 2022”, pubblicato dal Wwf mentre a Senigallia si contavano le vittime, sottolinea che il cambiamento climatico, in Italia, sta aggravando i problemi creati dalla cementificazione dei fiumi e dei terreni dove dovrebbero sfogarsi le piene. «Negli ultimi 50 anni circa duemila chilometri quadrati di aree naturali di esondazione hanno subito varie forme di urbanizzazione», denuncia l'organizzazione ecologista: «Cemento e asfalto ostruiscono dal 3 al 25 per cento di tutte le sponde dei corsi d'acqua». Il rapporto Snpa-Ispra evidenzia che, nel 2021, sono diventati artificiali altri 361 ettari di suolo in «aree a elevata pericolosità idraulica» e 991 in zone «a rischio medio» di inondazioni.

L’assalto alle coste: il grafico evidenzia le percentuali di suolo cementificato nella fascia a meno di 300 metri dal mare, dal verde (sotto il 3 per cento) al giallo (5-7), arancione (7-9), rosso (9-15), granata (15-30) al nero (oltre il 30 per cento)

Il boom edilizio si allarga anche ai territori minacciati dalle frane. Cemento e asfalto, oggi, occupano più del 4 per cento delle zone a rischio «elevato» o «molto elevato» di smottamenti gravi. In Calabria si supera il dieci per cento, in Sicilia, Liguria e Umbria si arriva a quota 9. E anche questo problema si sta aggravando: nel 2021 sono stati edificati altri 370 ettari di terreni franosi, di cui 78 a rischio «elevato» e altri 38 «molto elevato». Considerando anche le aree a pericolosità «media» o «moderata», oggi più di un decimo del totale dei terreni edificati (oltre l'11 per cento) minaccia letteralmente di franare sotto i piedi degli italiani.

La mappa del nostro Paese, purtroppo, è segnata anche da vaste e popolose fasce di territori a rischio di terremoti. Ma pure qui ha vinto il partito del cemento. Nelle zone con «pericolosità sismica alta» o «molto alta» risultano edificati, in totale, ben 820 mila ettari di terreni. E nell'ultimo anno altri 24 milioni di metri quadrati di aree a massimo rischio di terremoti sono stati occupati da nuovi fabbricati, capannoni, strade e parcheggi, soprattutto in Campania, Calabria e Sicilia, seguite da Lombardia e Veneto.

La tabella quantifica gli ettari di verde cancellati in ogni regione dal 2006 al 2012 (linea arancione) e negli anni successivi, fino al 2021 (in blu l’aumento rispetto al 2020)

Il consumo di suolo non risparmia neppure i parchi nazionali, che in dodici mesi hanno perduto 75 ettari di suolo naturale, di cui 14 in Campania, 12 in Abruzzo, 11 nel Lazio. Nel 2021 sono state cancellate ampie zone verdi anche in molte altre zone in teoria protette dalle norme di tutela dell’ambiente e del paesaggio, soprattutto in Abruzzo (137 ettari), Emilia (136) e Veneto (118). Il cemento avanza perfino nei siti nazionali più inquinati, con altri 82 ettari di suolo consumato, solo l’anno scorso, tra Porto Marghera, Sulcis e Casale Monferrato.

In Francia, Germania e altri Paesi europei ci sono leggi urbanistiche chiare e certe, che stabiliscono cosa e come si può costruire, senza dover chiedere favori, e dove invece non si può fare nulla, mai. In Italia invece l'urbanistica è da sempre un gran bazar delle licenze, piani regolatori e varianti, con regole che cambiano in ogni regione, provincia e comune, spesso insieme alle maggioranze politiche. Anche per questo, nelle statistiche giudiziarie, l'edilizia è il settore con i più alti tassi di corruzione e riciclaggio mafioso.

L'Espresso ha ottenuto dall'Ispra i dati completi degli ultimi 15 anni, divisi per regioni, che permettono di valutare, indirettamente, gli effetti sul territorio delle diverse maggioranze politiche. Nelle grandi città del Nord, in quasi tutta la riviera Adriatica dal Veneto alla Puglia, come da Napoli a Roma, mezzo secolo di boom urbanistico ha «saturato» il territorio, come scrivono i ricercatori. Ma in alcune di queste aree il sacco edilizio prosegue. La Lombardia è la regione italiana con più suolo artificiale (oltre 289 mila ettari, il 12,12 per cento), seguita da Veneto (11,90) e Campania (10,49). La stessa Lombardia ha consumato più verde di tutti anche nel 2021, con 883 ettari, e nella lista nera nazionale precede altre regioni molto cementificate come Veneto (684 ettari di verde in meno), Emilia (658), Piemonte (630) e Puglia (499).

La provincia di Monza e Brianza ha il record nazionale di suolo artificiale: il 41 per cento del territorio, con un aumento di 40 ettari nell'ultimo biennio. Cemento e asfalto dominano anche le aree metropolitane di Napoli (35 per cento) e Milano (32). Nel 2021 è la provincia di Brescia che ha consumato più verde (307 ettari), seguita da quelle di Roma (216) e Napoli (204). L'Espresso nel 1955 pubblicò un'inchiesta sui «palazzinari» con un titolo storico: capitale corrotta, nazione infetta. Oggi la città metropolitana di Roma è la più cementificata d'Italia, con oltre 70 mila ettari di suolo consumato.

Le coste sono le altre zone più colpite dalle speculazioni edilizie: in Italia è ormai diventato artificiale più di un quarto del territorio a meno di 300 metri dal mare. In Liguria si raggiunge il 47 per cento, nelle Marche il 45, in Abruzzo, Emilia, Campania, Lazio, Puglia, Calabria e Sicilia si supera il 30. E l'attacco alle coste continua, nel 2021, soprattutto in Abruzzo e Marche.

La cementificazione del territorio viene quasi sempre giustificata da previsioni urbanistiche, regionali o comunali, di aumento della popolazione. Ma i dati reali smentiscono da tempo questi alibi demografici. Nel 2021, in particolare, la popolazione italiana è diminuita di circa 405 mila persone, anche per i tassi eccezionali di mortalità dovuta al Covid, ma invece di ridursi, il consumo di suolo è aumentato: per ogni abitante in meno, sono stati cementificati altri 161 metri quadrati di verde. Questa assurdità urbanistica (più costruzioni per meno cittadini, mentre migliaia di edifici restano vuoti e abbandonati) riguarda ben 3.438 comuni italiani.

Dopo decenni di inerzia, nei mesi scorsi l'Italia si è impegnata con l'Unione Europea ad azzerare il consumo di suolo entro il 2030. I piani approvati dal governo Draghi (Pnrr e Transizione ecologica) prevedono il varo di una nuova legge urbanistica, con una regola base: basta cemento su terreni verdi, via libera solo alle ristrutturazioni. Anche per nuove opere d'interesse pubblico, si dovrà azzerare il consumo netto di suolo, ripristinando altrettante aree naturali. La riforma del febbraio scorso, che ha inserito la tutela dell'ambiente nella Costituzione, crea una cornice favorevole, come mai prima d'ora, a uno stop nazionale al sacco edilizio. Ora però resta da capire se l'agenda europea sarà confermata dalla nuova maggioranza di destra. O se invece vincerà ancora una volta il partito del cemento, come nei governi di Silvio Berlusconi, che legalizzò perfino gli abusi edilizi con i condoni del 1994 e del 2003.

L'Ispra ha calcolato che, al ritmo attuale, in Italia spariranno altri 570 chilometri quadrati di verde entro il 2030 e ben 1836 nel prossimo ventennio. Possibile che a distruggere ciò che resta del territorio nazionale sia un partito che si chiama Fratelli d'Italia?

Triste primato al Sud: abbattuta soltanto una casa abusiva su 10. Il Paese a due velocità: al Nord demolito il 60% degli edifici non a norma. Francesco Giubilei il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il dissesto idrogeologico rappresenta uno dei problemi atavici del nostro Paese e, periodicamente al ripetersi di ogni tragedia, torna in auge il dibattito su come risolvere una questione tanto grave quanto politicamente sottovalutata. Secondo l'ultimo rapporto Ispra, l'Italia è una delle nazioni al mondo più esposte al rischio idrogeologico con circa il 94% dei comuni interessati dal fenomeno e il 18,4% della superficie italiana a elevato rischio frana, alluvione ed erosione costiera. L'11,5% della popolazione (6,8 milioni di persone) vive in aree a rischio alluvioni con 1,5 milioni di edifici interessati mentre nelle aree a rischio frana vivono 1,3 milioni di persone (2,2% della popolazione) e si trovano 565mila edifici.

Nelle zone a rischio vivono ben 21,8 milioni di italiani e, secondo i dati di un rapporto del Cresme, il Centro Ricerche Economiche Sociali di Mercato per l'Edilizia e il Territorio, ogni anno in Italia sono costruite 20mila nuove case abusive su cui pendono più di 71mila ordinanze di demolizione a cui sommare gli abusi edilizi condonati degli anni. Ciò ha portato dal 2002 al 2019 danni agli edifici per 59 miliardi pari al 44% dei danni totali subiti in tutta Europa. In questo contesto si è inserito il condono del governo Conte 1 nel 2018 e, nonostante l'ex premier neghi l'utilizzo di questo termine, secondo il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, si è trattato a tutti gli effetti di un condono come testimoniato «nell'ultima frase del primo comma dell'articolo 25 del Decreto Genova.

Quella frase stabilisce che le pratiche di sanatoria inevase fino ad allora vengono giudicate in base al condono Craxi del 1985, rendendo possibile il condono di edifici costruiti in aree a rischio sismico e idrogeologico, sanatoria che invece era vietata coi condoni successivi di Berlusconi varati nel 1994 e nel 2003».

In concreto per Legambiente «una casa di Casamicciola realizzata abusivamente nel 2000 in una zona a rischio non poteva essere sanata col condono Berlusconi del 2003. Grazie al decreto Genova del governo Conte 1, è diventata sanabile e ricostruibile coi soldi pubblici». Dai dati del dossier «Abbatti l'abuso» di Legambiente, emerge inoltre come l'Italia sia spaccata in due nell'abbattimento degli immobili abusivi. Al Nord viene demolito in media dal 40 al 60% delle costruzioni illegali, mentre al Sud le percentuali crollano dal 10 al 20%.

Dal 2004 al 2020 è stato abbattuto solo il 32,9% degli immobili colpiti da un provvedimento amministrativo con il Veneto e il Friuli-Venezia Giulia che superano il 60% e la Puglia (4%), la Calabria (11,2%) e la Campania (19,6%) tra le regioni meno virtuose.

Sulla tragedia di Casamicciola, Legambiente ricorda, in merito agli abbattimenti a Ischia, l'operato del magistrato Aldo De Chiara impegnato per il ripristino della legalità sull'isola e oggetto di numerose minacce.

Molto duro l'intervento del Wwf secondo cui «quella di Ischia è una tragedia annunciata che ha cause e responsabilità precise», mentre per il presidente dell'Ordine dei Geologi Arcangelo Francesco Violo «si tratta di un'area già riconosciuta ad elevato rischio idrogeologico: un rapporto dell'Ispra del 2021 spiegava che il comune aveva il 60% del territorio in aree ad alto rischio idrogeologico e il 30% della popolazione». Alla luce di questa situazione, sorge spontaneo chiedersi come poter intervenire in modo efficace nel contrasto del dissesto idrogeologico e come per risolvere il problema dell'abusivismo edilizio.

Oltre a una questione di risorse, c'è anche la necessità di rendere esecutivi migliaia di provvedimenti amministrativi mai attuati. Anche le risorse stanziate dal Pnrr per gestire il rischio alluvione e combattere il dissesto idrogeologico pari a 2,5 miliardi di euro, sono ben poca cosa rispetto alla vastità del problema.

"Trascuriamo ogni opera: dalle buche nelle strade agli argini dei fiumi". Il geologo chiede ci sia più manutenzione. "Chi costruisce guardi i piani idrogeologici". Maria Sorbi il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

La storia è sempre la stessa: anche quello di Ischia era un disastro annunciato. Come per l'alluvione delle Marche, le mappe con l'allarme rosso mettevano in guardia ma tutto è rimasto solo sulle scrivanie. Ancora.

Una frustrazione per i geologi che sanno perfettamente dove e come può accadere una tragedia. Tra questi anche Lorenzo Benedetto, geologo dell'Autorità di Bacino dei fiumi Liri-Garigliano e Volturno.

I crolli di Casamicciola non sono stati certo una sorpresa.

«No, nessuna sorpresa. Le piogge di questi ultimi periodi amplificano le condizioni di fragilità e difetto del territorio ma nel piano di assetto idrogeologico si sapeva già tutto.

Anzi, dal disastro di Sarno in avanti, i quadri che abbiamo sono talmente dettagliati che sappiamo con esattezza anche la zona più pericolosa all'interno di uno stesso Comune».

Tutti consapevoli dei pericoli, ma nessuno si muove.

«I piani sul rischio sono eccellenti ma non seguono mai azioni per ridurlo. O meglio, non si fa abbastanza. In vent'anni sono stati stanziati 7 miliardi per 6mila interventi in Italia e altri 2 miliardi sono stati aggiunti dal ministero dell'Interno. Ma al Paese servirebbero opere per 26 miliardi. Una cifra così alta che è impensabile agire solo sul fronte delle nuove opere».

E quindi cosa bisogna fare?

«Organizzarsi meglio. Dobbiamo adeguare le pianificazioni urbanistiche, che spesso non tengono conto dei piani idrogeologici. Dobbiamo fare una manutenzione delle opere costante e reale, altrimenti creiamo una falsa sicurezza. Però non riusciamo a farla nemmeno con le buche in strada, figuriamoci con i fiumi o i terreni franosi».

Cosa intende per falsa sicurezza?

«Se ad esempio viene rafforzato l'argine di un fiume, si presume che lì a fianco si possa costruire tranquillamente. Ma se questo argine non viene controllato periodicamente, si può deteriorare, rivelandosi pericoloso».

Però il problema sono anche tante costruzioni abusive.

«Ma non è abbattendo quattro case abusive che si risolve tutto. Il rischio è alto anche dove si è costruito regolarmente».

I vincoli della Sovraintendenza non bastano o vengono by passati.

«Eppure quelli sono invalicabili, molto più dei limiti del rischio idrogeologico, che invece viene ignorato».

Quindi cosa va fatto per evitare che una famiglia venga inghiottita da fango e macerie?

«Serve una strategia complessiva. Uno: mitigare gli effetti delle esondazioni realizzando (e manutenendo) le vasche dove servono. Due: fare monitoraggi più frequenti nelle aree rosse. Tre: attuare i piani di emergenza. Basta lasciarli chiusi nei cassetti».

Perchè non vengono attuati?

«La Protezione civile dice che, in caso di allerta, vanno sgomberati i sottopassi, chiuse le strade e, se serve, evacuati i quartieri in pericolo. Ma i sindaci non lo fanno mai. O perchè non lo sanno o perchè non hanno le risorse per organizzare lo sgombero».

L'abusivismo edilizio, una piaga nazionale, non solo di Ischia.  Linda Di Benedetto su Panorama il 28 Novembre 2022.

Le migliaia di case abusive sull'isola campana purtroppo non sono una eccezione. E, anche quando arriva il decreto di demolizione, abbattere è quasi impossibile

Ad Ischia ci sono 600 case abusive colpite da ordine definitivo di abbattimento e 27mila pratiche di condono presentate dagli abitanti in occasione delle tre leggi nazionali di sanatoria: 8.530 istanze a Forio, 3.506 a Casamicciola e 1.910 a Lacco Ameno. Numeri preoccupanti soprattutto dopo le tre frane avvenute a Ischia tra il 2006 e il 2015 (una proprio a Casamicciola) ed il terremoto nel 2017 che ha causato 2 vittime, 42 feriti e 2630 sfollati. Ma la piaga dell’abusivismo riguarda tutta l’Italia non solo l’isola di Ischia con case, ville ed edifici costruite in luoghi dove non è sicuro ne legale edificare. Una situazione che il più delle volte viene regolarizzata con un condono dello Stato o con ordinanze di demolizione che non vengono eseguite mettendo a repentaglio la sicurezza di milioni di famiglie.

Infatti secondo i dati Ispra le famiglie a rischio frane e alluvioni sono rispettivamente 547.894 e 2.901.616. Su un totale di oltre 14,5 milioni di edifici, ubicati in aree a pericolosità da frana elevata e molto elevata sono 565.548 (3,9%), quelli ubicati in aree allagabili nello scenario medio sono 1.549.759 (10,7%).Le regioni con i valori più elevati di popolazione a rischio frane e alluvioni sono Emilia-Romagna, Toscana, Campania, Veneto, Lombardia e Liguria. Dati che andrebbero incrociati con gli immobili colpiti da ordinanza di abbattimento che dal 2004 al 2020 sarebbero secondo i dati di Legambiente solo il 32,9% del totale. Di questi la maggior concentrazione è al sud Italia in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria con il 17,4% di ordinanze eseguito su 14.485. Un dato parziale che si riferisce sulla base delle risposte di 1809 comuni su 7.909 a cui è stato inviato il questionario. Ischia: scontri con la Polizia davanti a case abusive da abbattere scontri con la Polizia davanti a case abusive da abbattere www.panorama.it Ischia (2010): scontri con la Polizia davanti a case abusive da abbattere In molti in queste ore dopo il terremoto che ha sconvolto Ischia hanno parlato del numero enorme di case abusive o non a norma costruite sull'isola. Ecco cosa accadeva 7 anni fa proprio a Casamicciola, nel 2010, con la gente p... La classifica delle regioni Il Veneto e il Friuli Venezia Giulia nella classifica per numero di ordinanze di demolizioni eseguite, superano entrambe il 60%, seguite da Valle d’Aosta (56,3%), Provincia autonoma di Bolzano (47%), Lombardia (44,2%). Poi ci sono Piemonte, Liguria e Toscana che dichiarano di aver demolito almeno il 40% degli immobili o degli interventi abusivi colpiti da ordinanza di abbattimento. Male, invece, il Sud Italia dove a parte la Basilicata delle ordinanze di demolizioni eseguite, vede la Puglia piazzarsi in fondo alla classifica con un misero 4%, preceduta dalla Calabria (11,2%), dalla Campania (19,6%), dalla Sicilia (20,9%) e dal Lazio (22,6%). In particolare in Puglia, Calabria, Sicilia e Calabria, tra le regioni più segnate dalla presenza mafiosa e dove stando all’ultimo rapporto Ecomafia vi si concentra il 43,4% degli illeciti nel ciclo del cemento registrati in Italia nel 2019. In altri termini, cinque volte su sei l’abusivo ha la quasi matematica certezza di farla franca. Può andargli ancora meglio se l’immobile è stato realizzato lungo le coste: se si considerano solo i comuni litoranei, infatti, la percentuale nazionale di abbattimenti scende a 24,3%. I dati Istat Secondo i dati Istat dell’ultimo rapporto Bes del 2021 (benessere equo e sostenibile sull’abusivismo edilizio in Italia, le stime del 2020 e 2021 confermano il trend positivo dell’indice di abusivismo, in calo dal 2018 dopo una fase di crescita decennale. Nel 2021 la proporzione è di 15,1 abitazioni abusive ogni 100 autorizzate, ancora elevata ma in allontanamento dai livelli raggiunti nel 2015-2017, quando le nuove abitazioni illegali si stima fossero pari a circa il 20% di quelle autorizzate. L’andamento decrescente della curva è decrescente ma le differenze territoriali sono estremamente marcate: il fenomeno dell’abusivismo, infatti, si concentra soprattutto nel Sud e nelle Isole (dove mantiene livelli allarmanti, con valori dell’indice compresi tra 35 e 40 abusive su 100 abitazioni autorizzate) ed è presente in misura non trascurabile nelle regioni del Centro, mentre può considerarsi marginale in quelle del Nord.

"Arrestare i sindaci? Chi in 12 anni non ha speso i fondi va sostituito subito". Il ministro Pichetto Fratin: «Per Casamicciola 3 milioni. E oggi non c'è nemmeno un progetto». Stefano Zurlo il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Scusi, vuole mettere in galera qualche sindaco?

«No, guardi - replica Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica - qui si passa da un estremo all'altro, dal tutti colpevoli al nessun colpevole, ma così non andiamo da nessuna parte, seguiamo solo l'onda dell'emozione».

Può essere più chiaro?

«La tragedia di Ischia tocca almeno due grandi questioni: l'abusivismo e la lentezza esasperante delle procedure. Ho qui un documento del mio ministero che reputo sconvolgente: c'è scritto che il 12 novembre 2010 il governo Berlusconi assegnava alla Regione Campania 3 milioni e centomila euro "alla riduzione dell'erosione dell'erosione e di stabilizzazione dei versanti nel Comune di Casamicciola Terme"».

Sono passati dodici anni.

«Appunto, dopo dodici anni non c'è nemmeno un progetto, non è che l'opera sia stata avviata, non c'è nulla di nulla.

C'erano norme così complicate da bloccare per tanto tempo la realizzazione di interventi indispensabili? C'era il timore di firmare un atto che poneva delle responsabilità? O forse c'è stata inerzia? Stiamo ricostruendo l'iter di questa storia disgraziata. Nel frattempo, ci sono stati non so più quanti governi, di diverso orientamento».

Che soluzione propone per il futuro?

«Se qualcuno non fa la sua parte entro un tempo ragionevole, sei mesi per un progetto, allora devi poterlo sostituire. Non posso rimanere appeso ai misteri della burocrazia, ai rimpalli, al benaltrismo per cui c'è sempre da qualche altra parte una fantomatica soluzione migliore. E se poi si trova che qualcuno, e sia chiaro parlo in generale, non ha fatto il suo dovere, allora si abbia il coraggio di punirlo. Senza cadere nella stucchevole retorica del giorno dopo, dove tutto è bianco e nero allo stesso temo».

I condoni sono un male nazionale?

«Ho visto le immagini delle case crollate: non ho ancora gli elementi per dire se erano abusive o non erano in sicurezza. E allora dobbiamo riflettere e agire su meccanismi che non funzionano».

In che modo?

«Io capisco se si vuole sanare una tettoia o una finestra, magari dopo anni e anni di andirivieni di carte e documenti; altra cosa è costruire, esponendo al pericolo chi vivrà in quei luoghi. Certi confini non possono essere superati».

A Ischia sono andati oltre?

«Non lo so, non ho gli elementi concreti per giudicare in questo momento quello che è accaduto nel tempo, ma c'è una responsabilità collettiva della politica che deve dare indicazioni chiare e concrete: leggi meno farraginose e tortuose, poi però se l'abuso non può essere sanato, allora deve scattare la tolleranza zero. Non tirare a campare in attesa della prossima sciagura e del prossimo lutto nazionale. Questo è inaccettabile».

Molti funzionari esitano a mettere una firma.

«Questo è un altro aspetto della malattia italiana, se possiamo chiamarla così. E anche su questo versante dobbiamo intervenire, anzi il premier Meloni ha indicato una prima strada: quella della riforma dell'abuso d'ufficio che spesso viene vissuto come una spada di Damocle sulla testa degli amministratori. Purtroppo, i fatti accaduti e che si ripetono con angosciante frequenza, ci impongono una ricerca delle cause che deve andare in profondità. Al di là degli slogan e delle bandiere. Non si deve più attendere dodici anni senza arrivare neppure a un progetto».

Salvini appoggia la rivolta dei Comuni. Musumeci avvisa: "Leggi da cambiare". Andrea Cuomo il 29 Novembre 2022 su Il Giornale.

Una frase che frana sulle polemiche politiche seguite al disastro di Ischia. La pronuncia il ministro dell'Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, intervistato da Rtl 102.5 sull'abusivismo edilizio: «Basterebbe mettere in galera il sindaco e tutti quelli che lasciano fare», perché «i sindaci non devono lasciare costruire. Io confischerei quello che è abusivo, e poi andrei a vedere caso per caso».

Parole goffe che scatenano una gazzarra politica ma che hanno il merito di aprire il dibattito sulle responsabilità politiche di decenni di devastazione del Sud in nome del «qui si è sempre fatto così». Ma le prime reazioni sono un coro di condanna. Naturalmente a prenderla sul personale sono soprattutto i sindaci. Quello di Lacco Ameno, comune ischitano confinante con quello di Casamicciola Terma, Giacomo Pascale si dice «incredulo» e propone a Pichetto: «Se il discorso è in generale faccia una legge che prevede l'arresto dei sindaci». Di dichiarazioni «sconcertanti» parla il sindaco di Pollica (Salerno) Stefano Pisani, anche coordinatore dei Piccoli Comuni Anci Campania: «Arrestare i sindaci? Per quale reato? Siamo di fronte ad una totale ignoranza delle norme del diritto amministrativo e a un conflitto tra Istituzioni gravissimo». Anche il collega di governo di Pichetto, il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, lo bacchetta: «C'è qualcuno che vorrebbe arrestare i sindaci, mentre io li vorrei proteggere, e vorrei liberare i sindaci, perché su loro gravano le maggiori responsabilità». E il presidente dell'Anci, il sindaco di Bari Antonio Decaro, nota che «il ministro forse non sa che la competenza sul dissesto idrogeologico è dello stesso ministero dell'Ambiente. Non sono interventi che fanno i comuni che possono essere chiamati a fare i soggetti attuatori». Decaro invita Pichetto a scusarsi. Cosa che Pichetto non fa, preferendo chiarire che si trattava di «una riflessione di carattere generale» che non faceva «riferimento ad alcun amministratore in modo particolare. Tanto meno si al commissario prefettizio che sta guidando in modo inappuntabile Casamicciola».

Al di là di una frase inopportuna, il governo Meloni appare consapevole della necessità di un cambio di passo in materia di dissesto idrogeologico. Domenica il consiglio dei ministri straordinario ha annunciato l'approvazione entro fine anno del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, che comunque, parole dello stesso Pichetto, «non avrebbe evitato il disastro di Ischia». Ma una road map è necessaria e ne è consapevole anche il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, secondo cui «la normativa attuale ha bisogno di interventi concreti e qualche volta anche radicali» anche se «gli abusi non sono tutti uguali» e «bisogna fare una netta distinzione tra chi ha aperto una finestra in più e non doveva aprirla e l'abuso di chi ha costruito un villino sulla spiaggia o in una zona ad alto rischio come è accaduto purtroppo a Ischia». Naturalmente c'è anche un problema di fondi, in un Paese in cui il 94 per cento dei comune è a rischio. Soldi che, come ricorda il deputato Pd Andrea Orlando, già ci sono per le amministrazioni che ne facciano richiesta, grazie al fondo stanziato nel 2013 dal ministero dell'Ambiente.

La pietra dello scandalo continua a essere il condono previsto per Ischia in un comma del decreto Genova nel 2018 dal governo Conte. «Una casa di Casamicciola realizzata abusivamente nel 2000 in una zona a rischio - fa sapere Legambiente - non poteva essere sanata col condono Berlusconi del 2003. Grazie al decreto Genova del governo Conte 1 è diventata sanabile e ricostruibile coi soldi pubblici». Ieri il leader di Italia Viva Matteo Renzi è tornato ad attaccare Conte, «un uomo senza vergogna». «I fatti dicono che Giuseppe Conte ha firmato il condono per Ischia, ha abolito l'unità di missione Italia Sicura e non ha mandato avanti il progetto Casa Italia lanciato con Renzo Piano. Nessun artificio retorico può negare questa drammatica realtà». «Questo per noi è sciacallaggio, non politica», la replica del leader pentastellato.

Marco Demarco per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2022.

Ischia non è Capri. Allora, cos' è? «È una scoria vulcanica», diceva Maupassant. E probabilmente la sua non era solo una annotazione geologica, perché Ischia è davvero il riflesso del Vesuvio nel Golfo di Napoli. È l'altra faccia del vulcano e come il vulcano affascina e minaccia: è il bello e il tragico che vengono dal mare, e l'aspetto tragico, come storia e cronaca raccontano, purtroppo non è saltuario. Qui Neruda scrive «yo quiero que... io chiedo che tutti vivano nella mia vita e cantino nella mia canzone». E Pasolini si sentiva felice, tanto da annotarlo in un giorno di pioggia nel diario di viaggio: «Mi sembra il Friuli, la Carnia...».

Ma qui la Lenù de L'amica geniale non fa neanche in tempo a scoprire che c'è un mondo diverso dal suo asfittico rione Luzzatti, un mondo di luce, di spiagge, di case nel verde, che subito conosce il lato violento della natura umana. È a Ischia, forse ancora non a caso, che Elena Ferrante ambienta la scena in cui Lenù viene violentata, quella che la fiction Rai ha parzialmente censurato senza però annacquare il racconto.

Ischia non è Capri, non ha i rivoluzionari russi che giocano a scacchi nel parco con Lenin e Gorkij, ma ha i giardini delle Mortelle di lady Walton e ha Garibaldi che viene qui a curare le ferite dell'Aspromonte. Non ha la villa di Malaparte a strapiombo sul mare, dove Godard gira il suo pensoso Il disprezzo con Piccolì e una scandalosa Brigitte Bardot, ma a Forio, nel bosco di Zaro, ha la villa di Luchino Visconti, la Colombaia; e tra i film di cui l'intera isola può andar fiera c'è di sicuro l'esilarante e tutt' altro che elitario Cosa è successo tra mio padre e tua madre di Billy Wilder che nel cast, con Jack Lemmon, ci infila anche un antidivo come Pippo Franco.

Ischia non è stata mondana come l'isola azzurra, ma l'isola verde ha avuto Angelo Rizzoli che nel bene e nel male, dipende dai punti di vista, l'ha trasformata da così a così, da rifugio di pescatori e vignaioli a meta ambita di un turismo per ricchi e popolare insieme, anticipatore di quello che sta ora animando i vicoli antichi di Napoli. A Lacco Ameno, dove negli anni Sessanta è cominciato il nuovo corso, Rizzoli ha portato tutti, non solo Richard Burton e Liz Taylor, che sull'isola girarono alcune scene di Cleopatra , ma anche Pietro Nenni, con cui giocava a bocce a Villa Arbusto e che, grato, gli confida di essersi finalmente lasciato la politica alle spalle, salvo una visita domenicale alla sezione socialista di Casamicciola intitolata a Vittoria, la figlia. Ischia è anche l'isola di Auden, di Capote, di Moravia e di Ingeborg Bachmann che la canta così: «Frutti d'ombra cadono dalle pareti/ luce lunare intonaca la casa/ e cenere di spenti crateri entra col vento marino...».

Ed è l'approdo ferito dai tedeschi. Non solo di pionieri come Ludwig Kuttner e la Baronessa Ursula Von Stohrer, inventori dei parchi termali, dove i compatrioti operai e impiegati possono consolarsi a spese della mutua. Ma anche di Helmut Schmidt e poi di Angela Merkel, per anni abituale e riservata frequentatrice del borgo di Sant' Angelo, dove il marito la raggiungeva con voli low cost, mandando in tilt, lei e lui, i politici nostrani abituati alla super esposizione mediatica. Ischia non è Capri, anche se Elsa Morante, tradendo Procida, l'isola di Arturo, la definisce tra le isole, «la più bella tra le belle». 

Ma ciò che più la distingue - a parte l'umorismo di Wilder, il superaffollamento agostano e l'autenticità che, nonostante tutto, ancora sopravvive in quartieri come Ponte e Forio - è appunto la dimensione tragica. E tragico è il terremoto del 1883, quello di Casamicciola, il terremoto che, come è noto, segnò la vita di Benedetto Croce e ne ispirò la filosofia. Due anni dopo quella scossa devastante, sull'isola arrivò Guy di Maupassant: «Finalmente Ischia. 

Sulla punta estrema, uno strano castello appollaiato sulla roccia che domina la città alla quale è collegato da una lunga diga...». Era il castello Aragonese. Poi, le pagine dedicate ai i dettagli. «Tra le macerie dell'hotel Vesuvio furono ritrovati 150 cadaveri; sotto le rovine dell'ospedale, 10 bambini, qua un vescovo, là una famiglia molto ricca, sparita in pochi secondi...». Era una famiglia in villeggiatura. Come la famiglia Croce.

Roberto Saviano per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2022.

Ischia, Procida, Capri: chi non c'è stato non potrà comprendere il motivo che innesca il desiderio, quando si è lì, di pensarsi creature inventate dagli Dei. Roccia e mare, vicolo e giardino, arrampicata e strapiombo. Terre in mezzo al mare, come mi hanno insegnato a definirle. 

Chiunque, una volta messo piede su queste isole, ha provato ciò che dice Alphonse de Lamartine di Ischia: «È l'isola del mio cuore, è l'oasi della mia gioventù, è il riposo della mia vecchiaia» . 

Ecco, si badi, non un luogo che vuoi visitare, a cui vuoi tornare per ristorarti, nulla di tutto questo. Bensì un luogo dove scegli di vivere. Su quest' isole ci arrivi e immagini come d'instino la tua esistenza per sempre piantata lì.

Ischia rispetto alla sua rivale turistica Capri è sempre stata isola più accessibile, adatta a un turismo d'ogni estrazione dal lusso al popolare, isola più metropolitana e meno elitaria, meraviglioso luogo assai più vicino culturalmente a Napoli rispetto anche a Procida, più piccola e con i suoi abitanti tutti o quasi imbarcati sulle navi commerciali e da crociera. Ischia è l'isola più napoletana del golfo e questo l'ha resa frequentatissima, densa, assediata. 

La tragedia di queste ore è accaduta a Casamicciola nella zona settentrionale di Ischia.

Casamicciola è luogo di leggenda che racconta dove Ulisse riprese le sue forze nel Gurgitello, il ruscello di acqua calda che l'ha resa meta termale amatissima da Ibsen, de Lamartine, sino alla cancelliera Merkel.

Eppure un luogo così d'incanto è sempre stato spazio di tragedia e di instabilità, di insicurezza estrema e di assedio cementizio. Per comprendere quanto è endemico il disastro in quel territorio basta ascoltare una vecchia espressione del dialetto napoletano: «È 'na Casamicciola»; oppure «è successa 'na Casamicciola»; o ancora «faccio succedere 'na Casamicciola», metafora per dire «gran disastro, gran confusione, gran disordine, distruzione». Tutto questo discende dalle continue frane che da secoli avvengono a Casamicciola e che tutto travolgono, ma soprattutto dalla tragedia del terremoto del 1883.

La vittima più illustre del disastro di Casamicciola fu Benedetto Croce. Uno degli scrittori veristi più talentuosi dell'epoca, Carlo Del Balzo, nel 1883 pubblicò a Napoli (per Tipografia Carluccio, De Blasio & C.) il libro Cronaca del tremuoto di Casamicciola dove scrisse: «Era anche a villa Verde tutta la famiglia Croce di Foggia. 

Erano nella loro camera la signora Croce e la figliuoletta, il sig. Croce e il primogenito, seduti presso un tavolino, scrivevano, in una stanza attigua; la porta di comunicazione era aperta. La signora Croce e la fanciullina cadono travolte nel pavimento, che crolla tutto: non un grido, non un lamento, muoiono istantaneamente.

Al contrario, il sig. Croce, sebbene del tutto sepolto, parla di sotto le pietre. Il suo figliuolo gli è daccanto, coperto fino al collo dalle pietre e dai calcinacci. E il povero padre gli dice: offri centomila lire a chi ti salva; e parla col figlio, che non può fare nulla per sé, nulla pel babbo, tutta la notte!». Dalla tragedia che sterminò la famiglia Croce lasciandolo unico superstite ad oggi c'è stata una cementificazione continua, una impossibilità reale di gestire mettendo in sicurezza l'isola.

Disboscare, costruire, speculare, l'unico imperativo è sempre stato solo guadagnare e sopravvivere. Null'altro. Così non possono non accadere frane, si tende solo ad aspettare e sperare di non trovarsi in casa o in strada quando succederà. Fatalismo, da sempre la regola delle mie terre. Lo stesso che fa vivere alle pendici del Vesuvio nonostante si sappia che difficile sarebbe salvarsi in caso di eruzione nonostante il monitoraggio dell'attività del vulcano. 

La bellezza di questi posti, il loro incanto copre l'orrore della gestione, l'assurdità contorta della burocrazia, del familismo che la governa, della mancanza endemica dei fondi pubblici.

Non è accaduto nulla nel 2006, quando a Ischia Luigi Buono, 53 anni, che lavorava come cuoco al porto, fu travolto da una frana identica a quella di queste ore e morì insieme alle sue tre figlie: Anna di 18 anni, Maria di 16 e Giulia di 15. Non è accaduto davvero nulla dopo la morte di Anna De Felice nel 2009 (15 anni) travolta anche lei insieme alla madre. Sento arrivare già il commento: ma è l'abusivismo. Se davvero fosse così (e non bisogna associare abusivismo a lusso turistico perché non è quasi mai così) le soluzioni sono due: o condonare in cambio di una messa in sicurezza totale o abbattere immediatamente. Ma se abbatti perdi voti, perdi consenso su tutta l'isola. E poi non ci sono nemmeno i soldi per farlo. Come al solito il nostro Paese non decide: si è sempre nel mezzo. E proprio nel mezzo ci sono le frane, che tutta l'immensa bellezza di Ischia non può impedire e nemmeno trattenere.

Giuseppe Salvaggiulo per “la Stampa” il 28 novembre 2022.

«Comm' è doce, comm' è bella,'a cittá 'e Pullecenella...». L'altoparlante gracchiava a singhiozzo, ma una generosa tramontana diffondeva la voce di Mario Merola su piazza Plebiscito, la mattina dell'11 febbraio 2010. 

Dietro un cordone di telecamere, una folla variopinta di migliaia di persone: capifamiglia, donne appena uscite dal parrucchiere, ragazzi sottratti alla scuola, sindacalisti fai-da-te, addetti al volantinaggio, responsabili degli striscioni, suonatori di tamburi, distributori di panini al prosciutto. 

I turisti incuriositi scattavano foto, credendo di trovarsi in mezzo a una manifestazione folkloristica. Ma cominciarono a dubitarne quando i partecipanti, dopo averle sventolate platealmente, scaraventarono a terra e poi bruciarono le bandiere tricolori listate a lutto.

Era la prima manifestazione unitaria delle associazioni contrarie al piano della Procura di Napoli per abbattere gli immobili abusivi, nate in pochi mesi in tutta la Campania con i nomi più fantasiosi: da comitato Casa Sicura di Cava de Tirreni a Casa Aurea di Casoria, da Amici del Territorio di Santa Maria la Carità a Diritto alla Casa di Ischia e Procida. Gli abusivi sciamavano nel centro di Napoli ritmando «La casa è nostra/e non si tocca».

Una settimana prima, le ruspe erano arrivate di notte a Ischia, nel comune di Casamicciola Terme, scortate da poliziotti in tenuta anti sommossa per sfondare i cordoni dei comitati degli abusivi a protezione di una villetta su una collina con vista dominante. Per ore furono botte, cariche, urla e lacrime, con il proprietario che si disperava: «Stanotte dormiremo per strada, non è giusto!». 

La tecnica degli abusivi è guadagnare tempo, considerando che ai ritmi attuali si stima che occorrerebbe mezzo secolo per smaltire tutte le domande di condono a Ischia. Dopo la sentenza definitiva e l'ordine di demolizione, inventano mille scuse per rinviare l'appuntamento con le ruspe, sperando in un condono edilizio (la sola istanza ha efficacia sospensiva).

Aldo De Chiara, mitico procuratore napoletano e massimo esperto di reati edilizi, all'epoca minacciato di morte, raccontava di espedienti da teatro eduardiano. Nella casa abusiva confluivano bambini da tutto il parentado, perché la presenza di minori giustifica il rinvio dell'abbattimento. 

Oppure all'arrivo dei vigili urbani, nelle camere abusive fossero pure verande e tinelli, spuntavano lungodegenti attaccati a flebo come in una clinica svizzera.

La strategia era tutt' altro che velleitaria, perché contava su tre fattori: l'onerosità economica e l'esiguità di forze disponibili per gli abbattimenti, che infatti dopo dieci anni sono fermi al 2%; la generale indifferenza, se non avversione, di sindaci e autorità varie alla questione («punizioni inique!», tuonava il vescovo Filippo Strofaldi alla vista delle ruspe); la disponibilità di un vasto e trasversale fronte politico a infilare nuovi condoni nei più insospettabili canali parlamentari.

«Abusivismo di necessità, non c'era alcun elemento speculativo», spiegava nel 2006 Peppe Brandi, berlusconiano sindaco di Ischia. Poco prima una frana (se ne contano tre solo negli ultimi 15 anni) aveva travolto e ucciso tre bambine in una casa costruita, come altre centinaia, sotto la collina definita nelle mappe del suo stesso Comune «R4-alto rischio per la popolazione». Il proprietario, morto anch' egli, aveva presentato una delle 28mila domande di condono dei circa 120mila vani abusivi, su una popolazione di 63mila abitanti. 

Il «problema» di Ischia è che l'ultimo condono edilizio berlusconiano, del 2003, non è applicabile per lo speciale vincolo ambientale che preserva l'isola (ex) verde. Servirebbe un condono del condono. I parlamentari locali ci provarono almeno cinque volte solo in quel 2010 in cui si votava, tra l'altro, per la Regione. Quando un deputato del Pd fu scoperto a firmare l'emendamento salva-abusivi del Pdl, balbettò un'imbarazzata retromarcia.

Il Quirinale stoppò un decreto ad hoc, ma Berlusconi non si arrese. L'anno dopo, scendendo per il ballottaggio delle elezioni comunali, calò l'asso, esibendo in pubblico «il provvedimento che sospenderà gli abbattimenti delle case». Gli strateghi calcolavano che potesse spostare 60mila voti. 

Nel 2012 a Ischia il centrosinistra andò a pezzi «nel più trasformista e peggiore dei modi», denunciarono i Verdi, quando il sindaco pd Giosi Ferrandino (oggi Italia Viva) affidò le deleghe sul condono edilizio a un fedelissimo di Nicola Cosentino, ras berlusconiano imputato di collusioni con la camorra.

Dopo le elezioni del 2013, il Pdl - con gli ex ministri Nitto Palma e Carfagna, oltre al pasdaran Falanga - provò a togliere alle Procura il potere di abbattimento. Ma anche i parlamentari campani del Pd depositarono un testo per fermare le ruspe e riaprire i termini del condono, «aperti al confronto con Pdl e M5S» in nome «dell'emergenza abitativa». Gli ambientalisti contavano 19 proposte di condono formalizzate in Parlamento in due anni e mezzo. Nel 2018 Berlusconi rilanciò in campagna elettorale promettendo «una sanatoria per l'abusivismo di necessità».

E pochi mesi dopo, quando il governo gialloverde inserì un «ravvedimento operoso» ad hoc per Ischia nel decreto Genova sul ponte Morandi, Pd e Forza Italia esultarono. Sergio Costa, ministro dell'Ambiente, si oppose, ma fu zittito dal vicepremier e allora suo leader pentastellato Luigi Di Maio. E siamo ai giorni nostri. Elezioni 2022.

Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione comunista, ricorda che «il 9 settembre all'hotel Ramada di Napoli si tenne una riunione fra alcuni sindaci campani, i rappresentanti dei movimenti anti-demolizioni e i candidati leghisti Rixi, Cantalamessa, Castiello e Nappi. Tema: un decreto per bloccare gli abbattimenti». Un volantino leghista proclamava «Condono edilizio subito». Del resto, come spiegò un sindaco ischitano, «sono piccoli abusi, non mostri di cemento». E pazienza se le stalle trasformate in prime case si sono arricchite di mansarde, tavernette e terrazze, con prezzi al metro quadro che nemmeno sui Navigli.

Estratto dell’articolo di Michele Bocci per “la Repubblica” il 28 novembre 2022.

Nella testa di un costruttore di Ischia il giorno dopo la tragedia della frana vengono frullati realismo e denuncia, ci sono ammissioni di colpa, chiamate a correo e pure un allarme sui cambiamenti climatici. Luigi ha 53 anni e ha iniziato ad andare in cantiere quando ne aveva 14. «Era il lavoro di famiglia. I miei volevano che facessi la scuola ma mi sono innamorato della cazzuola». Da sfollato, fuma una sigaretta dietro l'altra e racconta l'edilizia dell'isola. […] 

Ecco, l'abusivismo a Ischia: di chi è colpa?

«Nostra, ma qui è caduta la cima di una montagna, e una cosa del genere non c'entra niente con le case abusive».

Anche se fosse, cosa da provare, ciò non toglierebbe che il problema esiste.

«Non posso dire che siamo dei santi, per carità. Ma la casa non te la scegli, a volte erediti un terreno dai genitori e lì costruisci. Io lavoro per il pane e a volte penso, in coscienza, che certe case non le dovrei costruire». 

E perché lo fa?

«La questione è complicata. Adesso mi trovo in tutte e due i ruoli, quello di costruttore e quello di abitante. Avrebbero dovuto fermare tutto molti anni fa ma il sistema ci ha mangiato, andava bene a tutti. Ovunque al mondo esiste un piano regolatore ma a Ischia non c'è. Come mai? Perché nessuno si è impuntato per farlo? Non lo sa, eh? Lo dico io, perché non si potrebbe costruire da nessuna parte».

E invece le case nascono e sono nate. Qual è stato il periodo di massima crescita edilizia?

«Gli anni Ottanta, c'è stato il boom. La gente aveva un campo di famiglia e costruiva, le pensioncine si allargavano e un pezzo alla volta aggiungevano camere e camere, così diventavano grandi alberghi. E magari la moglie del titolare dava una mano ai lavori come carpentiere». 

E i controlli non venivano fatti?

«La colpa è anche nostra, però, chiedo io, potevano fermare questo casino subito, senza far buttare soldi alla gente. Se io ho un vigneto e stanotte ci costruisco le fondamenta di una casa, tu autorità domani lo vedi e dovresti fermarmi per dirmi: dopodomani voglio che torni tutto come prima, distruggi le fondamenta.

E invece no. Mi fai andare avanti e spendere un casino di soldi e magari mi vieni a chiedere conto dopo 30 o 50 anni di quella casa. Mi dici che questa cosa lì non ci poteva stare. Tutti hanno tenuto la testa sotto la sabbia e fatto finta di non vedere». 

Come è possibile che si sia arrivati a tutto questo?

«Ischia è un'isola molto popolosa, magari a Ponza e Ventotene non ci sono problemi. Qui siamo 60 mila, in estate 120 mila, e c'è bisogno di immobili. Poi ci si sta mettendo la natura». […]

Seguire le regole non sarebbe anche utile a evitare certe tragedie?

«Se a me dessero 10 metri in un posto sicuro io me ne andrei. Ci rimetto anche, ma dammi uno spazio tranquillo. Ma lo Stato perché dovrebbe mettermelo a disposizione? Per carità, non voglio niente da nessuno. Comunque, ho visto che tanti parlano di tragedia annunciata. Allora perché non sono venuti 24 ore prima a dircelo. Se sapevano dell'allerta meteo ci dovevano avvertire. Ma in Italia succede sempre così e facciamo finta di non vedere». […]

Tagadà, Sottocorona: "126 millimetri in 6 ore", la verità choc su Ischia. Libero Quotidiano il 28 novembre 2022

"Sono caduti 126 millimetri in sei ore": il meteorologo Paolo Sottocorona è intervenuto a Tagadà, ospite di Tiziana Panella su La7, sulle cause dell'alluvione a Ischia. L'isola campana, infatti, è stata letteralmente travolta dall'acqua e dal fango nelle scorse ore. In otto hanno perso la vita. Parlando dei millimetri caduti su quel territorio, Sottocorona ha spiegato: "Sono tantissimi già se fossero distribuiti nelle 24 ore, in questo caso sono stati concentrati in sei ore e addirittura risultano delle precipitazioni di 50 millimetri in un'ora, che è una cosa enorme...".

"È evidente che l'impatto di una precipitazione di questa intensità... - ha continuato il meteorologo nello studio della Panella - credo ci siano due fasi: la prima è l'impatto fisico dell'acqua che erode in superficie e poi c'è l'acqua che penetra e potrebbe fare danni in seguito". "Ma è un evento eccezionale e prevedibile o no?", gli ha chiesto a un certo punto la conduttrice del talk.

Alla domanda della giornalista, Sottocorona ha risposto in maniera netta: "Si, è prevedibile, nei giorni scorsi erano previsti fenomeni intensissimi". Il meteorologo, infine, ha rimarcato anche una importante differenza: "La quantità di acqua caduta a Ischia e Capri non è così diversa, i danni però dipendono dal territorio".

Ischia, l'accusa di Legambiente: "Siamo impreparati al clima che cambia" . E il geologo Tozzi: "Manca la cultura del territorio". Pasquale Raicaldo su La Repubblica il 26 novembre 2022.

"Davanti alle notizie e alle immagini che arrivano da Ischia, il primo pensiero va ai familiari dei dispersi e la vicinanza concreta va all'intera comunità ischitana. Ringraziamo i volontari, i Vigili del Fuoco, la Protezione civile e tutti coloro che sin dalle prime ore del mattino si stanno sporcando le mani per soccorrere le persone e salvarle dal fango. Una cosa, però, ci insegna la pioggia e il fango caduti sull'isola verde: il clima sta cambiando, ormai è un dato di fatto, eppure l'Italia continua ad essere impreparata con amministratori e cittadini lasciati spesso soli a fronteggiare impatti di questa dimensione dovuti in primis ai cambiamenti climatici, che amplificano gli effetti di frane e alluvioni e che stanno causando danni al territorio e alle città mettendo in pericolo la popolazione”. Così in una nota Legambiente.

E su quanto sta accadendo a Ischia si esprime anche il geologo Mario Tozzi, volto noto della divulgazione scientifica in televisione. “Il cambiamento climatico c'entra di sicuro: ci sono piogge più consistenti, ovvero più acqua in meno tempo. E questo è un elemento importante di cui tener conto. Ma non nascondiamoci: tutto il resto è colpa nostra”, dice all’Agi. “Colpa nostra certo - sottolinea – c’è degrado, ci si preoccupa del profitto, della stagione turistica e non della cura del territorio. Non c’è cura e manutenzione del territorio, e senza di questa è tutto inutile”.

Per l'esperto, “in passato anche con precedenti governi sono state fatte cose buone, come quelle di recuperare denari come sei o sette miliardi per il dissesto idrogeologico ma poi, tranne che per due opere, i denari non sono stati spesi. Allora di cosa parliamo? Manca una cultura del territorio, ci vuole una conoscenza maggiore. Tutte cose che a Ischia, sanno bene ma si dimenticano. La manutenzione non va fatta a primavera o in autunno - ha concluso - ma sempre, tutto l’anno. La burocrazia? C'entra, soprattutto quando sappiamo che per abbattere un edificio abusivo e pericoloso ci vogliono anche otto anni. Ma non dimentichiamo che queste cose sono in capo ai sindaci...”.

Ischia è l’ultimo caso di una lunga lista. Arona archivio storico nella foto: Incidenti Alluvioni Italia Piemonte. Straripamento sul Lago Maggiore. NICOLA BRACCI su Il Domani il 26 novembre 2022

Il presidente Sima, Alessandro Miani. «A causa nostra nubifragi, alluvioni, trombe d'aria e cicloni in futuro saranno più numerosi e distruttivi»

Il cambiamento climatico «ha la capacità di influenzare l’intensità e il numero dei fenomeni meteorologici rendendoli dunque più pericolosi e distruttivi», così la Società italiana di Medicina ambientale (Sima), commentando le forti piogge e le frane che nella notte hanno colpito l’isola di Ischia, in provincia di Napoli. Negli ultimi 12 anni, in Italia, si registrano 516 allagamenti provocati da piogge intense. 

«L'anomala distribuzione delle precipitazioni sta prendendo sempre più la forma di eventi estremi concentrati in autunno-inverno», ha spiegato il presidente Sima, Alessandro Miani. «A causa nostra nubifragi, alluvioni, trombe d'aria e cicloni in futuro saranno più numerosi e distruttivi». 

UNA LUNGA LISTA

La pioggia che diventa fango e il fango che corre lungo vie, ponti, vicoli e distrugge tutto quel che può, il resto lo paralizza. Qualche palo della luce crolla, l’acqua trascina tronchi e rami d’albero per chilometri e di alcune automobili si vede a malapena il tettuccio, perché il resto è nascosto sotto strati di melma e detriti. Chiunque è in grado di visualizzare queste immagini nella propria mente. Sono le immagini di Catania, travolta dall’alluvione un anno fa. Morirono tre persone. Ma parlano anche dell’ esondazione dei fiumi Nevola e Misa, che due mesi fa ha portato devastazione nelle valli marchigiane. Tra le province di Ancona e Pesaro e Urbino 12 vittime, un disperso e danni per due miliardi di euro. 

La lista è lunga. Gli eventi sono così ravvicinati nel tempo e così equamente distribuiti nel territorio che nessuno può concedersi il lusso di non ricordare o di non sentirsi, in qualche modo, coinvolto. Se fino a pochi anni fa incolpare le “aree a rischio” e la “sfortuna” era permesso e rispondeva alla necessità umana di rimuovere eventi traumatici, oggi la frequenza con cui quegli eventi accadono non ne lascia la possibilità. 

In Italia gli eventi estremi legati al clima sono oltre 130 dall'inizio del 2022. È il numero più alto dal 2010. Da allora se ne sono verificati 1318. Nella definizione rientrano gli aumenti record di temperature, nelle stagioni calde quanto in quelle fredde, le piogge intense, le grandinate, le trombe d’aria. L’accelerazione di questi fenomeni è monitorata da anni, e i dati a riguardo, non è una novità, preoccupano la comunità scientifica.  

NICOLA BRACCI. Ha 25 anni. È nato e cresciuto a Pesaro e si è poi trasferito a Milano. Legge e scrive di tematiche sociali e geopolitica per interesse, di sport per passione

(ANSA il 29 novembre 2022) - Accelerare la ricerca dei quattro dispersi dell'alluvione di Casamicciola. Si riparte questa mattina con la preoccupazione che la pioggia, annunciata tra oggi e domani sull'isola d'Ischia, renda ancora più complicate le operazioni di individuazione dei corpi. Il fango in strada da spalare è ancora tanto e si teme per ulteriori ostacoli che provocherebbero piogge intense.

Le ricerche si concentrano nella zona di via Celario, la cosiddetta strada della morte dove la frana ha provocato i maggiori lutti. Il bilancio della tragedia al momento è di 8 morti, 5 feriti, 230 sfollati. Dopo il ritrovamento, nella giornata di ieri del quindicenne Michele Monti, i quattro dispersi sono Valentina Castagna e Gianluca Monti, giovani genitori dei tre fratellini di 15,11 e 6 anni trovati morti, Salvatore Impagliazzo, compagno di Eleonora Sirabella, la ragazza prima vittima del disastro recuperata e una donna di 31 anni.

(ANSA il 29 novembre 2022) - Sono proseguite anche nel corso della notte le ricerche degli ultimi quattro dispersi di via Celario, nella zona di Casamicciola alta. I vigili del fuoco hanno setacciato metro dopo metro la zona dove ieri sono state ritrovate alcune vittime. In mattinata alcune squadre hanno dato il cambio agli operatori che nelle scorse ore hanno lavorato senza sosta. Intanto, anche questa mattina torneranno in attività i volontari per spalare il fango.

Fulvio Bufi per il “Corriere della Sera” il 29 novembre 2022. 

Con i vigili del fuoco che ancora scavano, e quattro corpi ancora da recuperare - perché di questo si tratta, e ormai definire «disperso» chi manca all'appello è soltanto un dovere tecnico burocratico - non è facile fissare l'attenzione sull'ombra che dal primo momento accompagna questa tragedia: quella dell'abusivismo e dello scempio ambientale. 

Eppure è anche su questo, o forse soprattutto su questo, che la procura di Napoli dovrà fare chiarezza con l'inchiesta per frana colposa aperta all'indomani della strage di Casamicciola. Ed è inutile nasconderlo: potrebbero venir fuori responsabilità, quantomeno di incoscienza, anche da parte di chi ha trasformato in case vecchi ruderi, stalle risalenti anche a secoli fa, ed è andato a viverci.

Il lavoro dei magistrati è ancora alle primissime battute. Ma sulle condizioni di quel costone del monte Epomeo che si affaccia sul comune di Casamicciola lavorano da anni geologi, ingegneri, architetti, enti territoriali come l'Autorità di bacino. E ogni indagine tecnica, ogni rilievo, ogni ricerca scientifica ha portato allo stesso risultato: la zona del Celario è ad elevato rischio idrogeologico. 

In un documento redatto dall'Autorità di bacino meridionale sulla gestione del rischio idrogeologico a Casamicciola e Lacco Ameno si legge che sul versante dell'Epomeo rivolto verso i due comuni si riscontrano «fenomenologie franose» che «sono in grado di trasportare verso il fondovalle grandi quantità di massi e tronchi nonché, laddove presenti lungo il percorso di propagazione, autovetture e materiale antropico in generale. La grande energia messa in gioco da tali flussi è in grado di danneggiare i fabbricati e le strutture con essi interagenti provocandone, occasionalmente, la completa demolizione». 

Sulla base di questi elementi si conclude che «estese porzioni di Casamicciola e Lacco Ameno sono classificate a rischio molto elevato (R4) ed elevato (R3), - in quanto suscettibili all'innesco, transito e invasione di fenomeni di colata rapida di fango, flussi iperconcentrati (miscela acque e sedimento) e crolli».

Sulla stessa linea lo studio condotto dall'Ispra, l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, riportato nella cartina in alto a destra, in cui compare esattamente via Celario, indicata come un'area dove l'alto rischio di frane si somma a un altrettanto elevato rischio di alluvioni. E tutto questo, tornando a quanto scrive l'Autorità di bacino, in un territorio dove «gli impluvi presentano numerosissime interferenze con opere antropiche dell'urbanizzato, quali tombamenti, edificazioni e strade alveo, che generano numerose criticità e singolarità idrauliche».

Che in uno scenario così non si possa pensare di costruire case, né di riattare vecchi manufatti, appare evidente. Ma esistono anche altri documenti ufficiali che di fatto sanciscono l'assoluta inedificabilità di aree come quella del Celario. 

In particolare il Piano territoriale paesistico del ministero per i Beni culturali e ambientali datato addirittura 14 dicembre 1995. Come è indicato nella cartina a sinistra, l'area colpita dalla frana di sabato scorso è identificata in bianco, e questo a una lettura superficiale potrebbe far pensare a un posto a zero rischi, perché convenzionalmente laddove c'è pericolo di disastri naturali si parla sempre di zona rossa.

Ma la legenda che accompagna il grafico, e soprattutto le norme di attuazione dei Ptp, spiegano che in questo caso bisogna ragionare esattamente al contrario: quella in bianco è considerata «zona a protezione integrale», e cioè un'area dove non è assolutamente possibile costruire né eseguire alcun tipo di intervento su edificazioni eventualmente già presenti prima dell'approvazione del piano.

Alfio Sciacca per il "Corriere della Sera" l’1 Dicembre 2022.

Sono circa trecento le case del comune di Casamicciola inserite nella zona rossa definita dal piano di emergenza speditivo preparato dai vigili del fuoco in vista della nuova ondata di maltempo prevista per sabato su Ischia. A rivelarlo, nel corso della puntata di Porta a Porta di ieri sera, il ministro della Protezione civile Nello Musumeci.

Che ha anche parlato di possibili nuovi smottamenti nel fine settimana e della necessità, quindi, di evacuare gli abitanti di quelle case. Musumeci ha anche annunciato un consiglio dei ministri fissato per oggi in cui dovrebbe essere adottato un decreto legge che preveda i primi aiuti per Casamicciola.

Poi ci sarà tantissimo da pianificare. A cominciare dalla stesura di un piano di protezione civile che il comune ischitano non ha, nonostante nel 2014 avesse aderito a un bando regionale, ottenendo un finanziamento di 30.000 euro da utilizzare proprio per definire il piano. Ma quei soldi la Regione non ha mai dovuto sborsarli: perché il progetto definitivo non fu mai presentato.

In realtà in queste condizioni non c'è solo Casamicciola. «Noi temiamo che in Italia siano circa un migliaio i comuni privi di un piano», perché da parte di molte amministrazioni «lo si considera uno strumento inutile», ha detto ancora Musumeci.

Ma adesso la tragedia riguarda Casamicciola ed è dunque facile ipotizzare che l'assenza del piano sarà uno dei punti al centro dell'inchiesta per frana colposa e omicidio plurimo colposo aperta dalla procura di Napoli. L'indagine è ancora alle primissime battute e senza indagati perché i pm intendono lasciare la priorità ai lavori più urgenti di messa in sicurezza della zona colpita dalla frana e soprattutto al recupero dei corpi di chi ancora manca all'appello.

Poi partiranno rilievi e sopralluoghi e saranno acquisite tutte le documentazioni necessarie a capire una volta per tutte perché, e per scelta di chi, le case spazzate dal fango si trovassero su quel costone così pericoloso.

Ai consulenti dei pm toccherà anche dire una parola chiara sui piani che alcuni sindaci sbandierano per sostenere che quella del Celario non era ritenuta una zona a rischio. I sindaci fanno riferimento a un Piano regionale di ricostruzione post-terremoto di Casamicciola che non esiste.

Spacciano per un piano già approvato quello che invece è soltanto un documento preliminare metodologico, Dove, tra l'altro, si parla chiaramente dell'opportuntà di procedere «con ulteriori attività di studio geologico e geofisico» con riferimento «alle problematiche di dissesto idrogeologico potenzialmente interagenti e/o connesse con gli obiettivi del piano». Ora sarà Giovanni Legnini a gestire i futuri passi da compiere. Dopo aver bloccato la nomina del viceprefetto Simonetta Calcaterra, il presidente della Regione De Luca ha proposto al governo di affidare il post-alluvione al commissario che già si occupa della ricostruzione. E sul suo nome è stata trovata l'intesa.

"Ancora più orgoglioso", l'agente eroe di Casamicciola ringrazia la Meloni. Marco Leardi su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

Il poliziotto 51enne, che assieme ai colleghi aveva salvato una famiglia dalla frana, aveva ricevuto l'apprezzamento del premier. "Ho solo fatto il mio dovere, non me lo aspettavo"

"Ho solo fatto il mio dovere". Non si sente un eroe e non vuole essere definito tale. Ma il suo gesto coraggioso ha ottenuto l'apprezzamento di tutti, anche del premier Meloni. Massimo Gravina è uno degli agenti che sabato scorso, insieme ai colleghi, ha salvato un bambino dalla frana di Casamicciola. Il 51enne, assistente capo coordinatore della polizia di Stato, ha preso in braccia il piccolo e lo ho portato al sicuro. Lontano dal fango che aveva travolto tutto. Una fotografia un po' sfocata di quell'intervento, scattata da qualcuno nella concitazione del momento, era diventata il simbolo del "grande lavoro dei tanti soccorritori".

Soccorsi a Ischia, le parole del premier

Quell'espressione di plauso, in particolare, l'aveva utilizzata Giorgia Meloni. Nelle scorse ore, il premier aveva infatti rilanciato sul proprio account Instagram l'istantanea dell'agente Gravina con il bimbo messo in salvo. E aveva commentato: "Da Casamicciola (Ischia) una foto che trasmette speranza, simbolo del grande lavoro dei tanti soccorritori impegnati da giorni ad aiutare la popolazione. Il Governo e l’Italia tutta vi sono grati". Parole di apprezzamento istituzionale e di sostegno rivolte a tutte le persone che sin dai primi momenti si erano adoperate per arginare le conseguenze della tragica frana. Uomini e donne, servitori dello Stato, ma anche semplici cittadini.

L'intervento dei poliziotti eroi

Il post del presidente del consiglio ha ottenuto centinaia di condivisioni e lo stesso agente ritratto in quell'immagine ha ringraziato Giorgia Meloni per quelle sue parole. "Sono orgoglioso di appartenere alla grande famiglia dello Stato", ha spiegato all'Ansa, ricordando i drammatici momenti che caratterizzarono quel soccorso a Casamicciola. "Sabato mattina non ero in servizio ma insieme all'ispettore Gennaro Di Filippo ed ai colleghi Lenoci e Pezzella abbiamo risposto 'presente' all'appello del nostro dirigente Ciro Re e siamo arrivati sul luogo della tragedia. Sapevo che in quella zona c'erano diverse case e quando siamo arrivati abbiamo trovato un paesaggio lunare, fango ovunque e abitazioni distrutte", ha raccontato il poliziotto. E ancora: "La casa dove abitava la famiglia che abbiamo salvato era l'unica ancora in piedi".

"Orgoglioso", il ringraziamento alla Meloni

Così, assieme ai colleghi, il 51enne ha raggiunto l'abituazione e aiutato chi si trovava intrappolato tra le mura. L'agente si è detto quasi sorpreso dell'attenzione avuta per quel gesto. "Ho solo fatto il mio dovere, non mi aspettavo tanta notorietà ma ho apprezzato il post del nostro presidente Meloni rivolto ai soccorritori e vedendo tutti questi giovani darsi da fare per aiutare le vittime di questa alluvione mi sento ancora più orgoglioso di fare parte della grande famiglia dello Stato italiano", ha concluso.

"Affondavamo nel fango, ho stretto al petto la bimba e l’ho portata via". Il poliziotto con la bimba stretta al petto, la foto di Ischia che emoziona: "Mi ha spezzato il cuore". Elena Del Mastro su Il Riformista l’1 Dicembre 2022

"Da Casamicciola (Ischia) una foto che trasmette speranza, simbolo del grande lavoro dei tanti soccorritori impegnati da giorni ad aiutare la popolazione. Il Governo e l’Italia tutta vi sono grati". Così Giorgia Meloni sui suoi social ha omaggiato quanti sono prontamente intervenuti a Ischia dopo la terribile frana che sabato 26 novembre si è abbattuta su Casamicciola portando morte e distruzione. E accanto al post la foto di un poliziotto con una bambina in braccio, completamente bagnato sotto la pioggia battente, mentre cerca di oltrepassare il fango e portarla in salvo. È Massimo Gravina, 51 anni, assistente capo del commissariato sull’isola, un gigante dalla faccia buona, simbolo della speranza nell’isola martoriata.

"E pensare che abitavo a 700 metri in linea d’aria da via Celario. Il terremoto dell’agosto 2017 mi ha buttato giù la casa di famiglia e da allora vivo in un’altra zona. Tornarci sabato mattina per salvare delle vite dal fango mi ha fatto molta impressione", ha detto Massimo Gravina intervistato dal Corriere della Sera. È in polizia da 25 anni di cui 10 in servizio alla Questura di Napoli e al commissariato di Ischia. È stato tra i primi ad arrivare sul luogo della frana sabato mattina appena è stato diramato l’allarme. Quando è arrivato a Casamicciola pioveva ancora tantissimo. "Davanti a noi un paesaggio lunare, tutti coperto dal fango, da un lato le case non c’erano più, dall’altro esistevano ancora ma la frana rischiava di portare via anche quelle con la gente dentro. Qualcuno che scendeva a piedi lo abbiamo accompagnato, ma gli altri li abbiamo dovuti raggiungere noi", ha raccontato.

I primi soccorsi sono stati i più difficili, con l’acqua che scendeva dall’alto e il fango morbido che trascinava via tutto. "Affondavamo fino al bacino nel fango – continua il poliziotto – sembravano le sabbie mobili, non sapevamo cosa ci fosse sotto, e senza alcun appiglio. Abbiamo cercato di reggerci, di fare una catena umana, di mettere in mezzo tronchi e assi di legno, tutto quello che trovavamo, per costruire un passaggio e per non andare giù. Alla fine abbiamo raggiunto otto persone, bambini e anziani compresi, parenti delle vittime".

Peppe, sopravvissuto al fango aggrappato per ore: "Mai pensato di mollare, vivo grazie alla mia forza e a Dio"

È stato quello il momento in cui è stato immortalato nella foto che ha ripreso la premier Giorgia Meloni. Gravina, insieme ai colleghi salivano e scendevano per quella discesa di fango che aveva travolto tutto. Entravano nelle case, aiutavano le persone a lasciare quel posto pericoloso con il cuore in gola, senza sapere cosa stava succedendo e se la situazione poteva peggiorare. "Ho preso in braccio la bimba di quattro anni – continua il racconto – ha capito, era impaurita ma si è stretta a me e l’ho portata giù. Sono un tipo abbastanza coriaceo, duro, ma vivere di persona situazione del genere spezzano il cuore a tutti".

"La gente era in pigiama, con le pantofole, qualcuno era riuscito a mettersi addosso quello che trovava – continua Gravina – abbiamo portato giù i più anziani che non camminavano bene. Una tragedia comunque, al posto di un parcheggio e di una strada di collegamento con un dislivello di quattro metri c’era solo fango", ha concluso. La sua foto con la bambina in braccio è un’altra delle immagini indelebili della tragedia di Ischia ma anche del coraggio e della speranza.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Sono il padre e la madre dei fratellini e il compagno della prima vittima. Frana a Ischia, trovati i corpi di Gianluca, Salvatore e Valentina: si cerca Maria Teresa. Rossella Grasso su Il Riformista l’1 Dicembre 2022

A Ischia si continua a scavare e a cercare i dispersi. Giunti al sesto giorno altri tre corpi sono stati individuati e estratti dalla morsa del fango che ha invaso Casamicciola. Si tratta di due uomini le cui salme sono state individuate nella zona di via Celario e via Santa Barbara e una donna.  Sono Gianluca Monti, 38 anni e Salvatore Impagliazzo, 30 anni. A confermare la loro identità è la prefettura di Napoli. Secondo quanto riportato dall’AdnKronos è stata identificata l’undicesima vittima rinvenuta nel primo pomeriggio di oggi. Si tratta di Valentina Castagna la mamma dei tre fratellini morti nella frana. La donna è stata identificata dai suoi familiari. Si aggiorna il bilancio delle vittime dopo la frana che ha colpito Casamicciola, a Ischia il 28 novembre. Sono 11 le vittime, manca all’appello una donna dispersa, Maria Teresa Arcamone, 31 anni. Ma sull’isola si continua a scavare.

Il primo corpo ad essere stato estratto è stato quello di Gianluca Monti, giovane tassista ischitano, papà dei tre bambini trovati morti nel fango, Michele, 15 anni, Francesco, 11 anni e Maria Teresa, 6 anni. Si cerca ancora la mamma dei bambini, Valentina Castagna. Il secondo corpo è quello di Salvatore Impagliazzo, marinaio, compagno di Eleonora Sirabella, la prima vittima accertata della frana. È stata identificata l’undicesima vittima rinvenuta nel primo pomeriggio di oggi. Si tratta di Valentina Castagna la mamma dei tre fratellini morti nella frana. La donna è stata identificata dai suoi familiari

I soccorritori continuano senza sosta le ricerche anche con l’ausilio dei cani molecolari. Bisogna fare presto perché già da venerdì sarebbe in arrivo una nuova perturbazione che renderebbe ancora più difficoltose le ricerche con il rischio di doverle sospendere. Inoltre, è stato anche predisposto, in caso di allerta meteo, un piano di evacuazione per circa 300 famiglie che si trovano all’interno del perimetro della zona rossa. "Non possiamo escludere nuovi smottamenti", ha detto il ministro Nello Musumeci. Che intervenendo alla Camera dei deputati ha anche confermato che sono circa 900 gli edifici da controllare perché a rischio.

"All’ultimo aggiornamento disponibile, sono circa 290 le persone che hanno trovato sistemazione presso strutture alberghiere o altre soluzioni autonomamente individuate". Questo uno dei passaggi dell’informativa urgente che il ministro per la Protezione Civile e le Politiche del mare, Nello Musumeci, sta facendo alla Camera sulla tragedia di Ischia. Il bilancio registra "il decesso di 8 persone, quattro dispersi e cinque feriti, di cui uno in modo grave e attualmente ricoverato presso l’ospedale Cardarelli di Napoli".

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui "Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale", menzione speciale al Napoli Film Festival.

L’isola paga l’inerzia dell’amministrazione. Strage di Ischia, una tragedia figlia di omissioni e ritardi. Felice Laudadio su Il Riformista l’1 Dicembre 2022

Sono giorni di dolore per le vittime della frana che ha devastato abitazioni ed esistenze dei cittadini di Casamicciola. Si imputano gli abusivisti; si chiede il carcere per i sindaci dell’Isola Verde. Di certo, il costruttore abusivo ha gravi responsabilità e le leggi vigenti prevedono sanzioni idonee a reprimere gli abusi. Si contesta che le stesse non vengono applicate, per negligenza e, forse, per collusioni tra abusivisti e amministratori. È semplicistico e non identifica la gravità e complessità dei rapporti con la necessaria, approfondita analisi.

La questione è più grave e non si risolve con analisi sulla superficiale imputazione di responsabilità e sulla richiesta di sanzioni penali per gli amministratori. Sono antichi e diffusi tanto l’abusivismo quanto l’omissione di interventi imposti dalla legge, essenziali alla repressione degli abusi e alla prevenzione del diffondersi dell’illecito utilizzo del territorio. La responsabilità generalizzata deborda nella impunità personale di eventi delittuosi. Non è il momento di proclami mediatici sulla gente di Casamicciola colpita nei suoi affetti e sui suoi beni. Dov’è la vera, approfondita analisi della situazione, delle cause e dei rimedi? Si resta stupiti, anzi sconcertati dalle, generiche asserzioni del ministro dell’Ambiente. È doveroso valutare nel suo complesso le cause, le omissioni da parte delle P.A. competenti.

Una prima considerazione. Dal 2010 si doveva progettare e realizzare un progetto di regimentazione delle acque provenienti dall’Epomeo. Dopo dodici anni… niente, neanche un progetto. È diritto dei cittadini conoscere pienamente le ragioni della radicale, cronica inerzia degli enti e dei soggetti responsabili della mancata realizzazione di un’opera finanziata e rimasta "lettera morta". Deve rispondere di omissioni chi aveva la competenza alla gestione degli alvei presenti lungo le pendici dell’Epomeo mai puliti e ostruiti da alberi, da pietre e da rifiuti, come si auspica che venga accertato dalle indagini in corso.

Devono rispondere anche solo sul piano politico e morale gli amministratori locali e per l’omessa repressione degli abusi e per l’omessa pianificazione, oggi, governo del territorio, che avrebbe indicato le zone di inedificabilità assoluta, perché soggette a vincolo paesaggistico e idrogeologico. Si è rilevata da media e dai giornali la pendenza di ventisettemila procedimenti di condono, taluni risalenti al 1985 e a oggi non conclusi. È fuorviante pertanto imputare solo all’abusivismo la tragedia di Casamicciola. È derivata la permanenza degli edifici abusivi, a prescindere dall’analisi doverosa della possibilità di sanatoria prevista da tre leggi dello Stato ovvero del diniego in assenza dei requisiti e della conseguente applicazione delle misure demolitorie. Si sarebbe applicata la legge e sarebbero state demolite le costruzioni non suscettibili di sanatoria.

È omissione ultratrentennale illegittima che ha ruolo di concausa dell’evento calamitoso. Ritorna in tutta la sua gravità il problema dell’efficienza dell’amministrazione italiana, in particolare di quella campana. L’esperienza di ogni cittadino che abbia rapporti con l’amministrazione. È innegabile la gravità delle inerzie, di ritardi che affliggono il cittadino che è obbligato a chiedere il rilascio di un atto. È avvilente il rimpallo di competenze, derivante dalla "selva selvaggia" di leggi, regolamenti, circolari. È indifferibile una svolta dell’azione amministrativa collegata a una profonda semplificazione legislativa, che fissi, pena la responsabilità dei dirigenti competenti, il rispetto dei termini inderogabili di conclusione dei procedimenti e che elimini la polverizzazione degli enti comunali. E ciò se si vuole evitare che l’inefficienza amministrativa sia concausa prevalente di eventi drammatici come quelli dell’Isola di Ischia. Felice Laudadio

Sempre lo stesso dramma: l'incuria. Frana di Ischia, di chi sono le responsabilità e come si poteva evitare. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista l’1 Dicembre 2022

Sarà coincidenza, ma da quando sabato sera allo speciale del Tg2 ho evocato l’alluvione di Ischia di oltre un secolo fa (che avevo rintracciato negli archivi storici del Cnr mentre mi documentavo per la trasmissione), su tanti quotidiani sono scomparsi i riferimenti al 2009 e l’attenzione si è spostata all’ottobre del 1910. E ne sono molto contento, perché la storia dell’incuria e dello stupro del territorio ha origini lontane e questa ne è solo un’ulteriore testimonianza. Di che sto parlando?

112 anni fa, Casamicciola fu devastata da una frana di cui non abbiamo immagini distinte, ma che, sulla base delle cronache dell’epoca, possiamo definire molto simile a quella attuale. Il re accorse ad Ischia per arrecare sollievo alle popolazioni colpite e porgere i sensi della vicinanza dei fratelli continentali della nuova Italia. Si parlò della spaventevole flussione di fango e di pietre che, precipitando con furia calamitosa senza alcun rattento, percosse l’abitato e comportò distruzione e rovina laddove si imbattè. La commissione di inchiesta, istituita dall’allora governo Luzzatti, dolorosamente constatò la vacanza di opere di presidio idraulico, la manchevole irreggimentazione delle acque dilavanti e l’esorbitante disboscamento alle pendici dei colli. A parte la sovrabbondanza di aggettivazione, potremmo usare le medesime espressioni per descrivere lo stato attuale.

Con due aggravanti, anzi tre. Primo, che le opere di presidio idraulico, -cioè sbarramenti per contrastare il fiume di fango- e l’irreggimentazione delle acque -ovvero lo scavo di canali nei quali far confluire la corrente, onde evitare che investa le abitazioni- sono più carenti oggi di ieri. Nelle foto d’epoca si vedono infatti canali, per quanto insufficienti a convogliare tutte le acque, e terrazzamenti per diminuire la velocità di scorrimento. Di queste opere oggi non c’è quasi più traccia. Per non parlare poi del disboscamento: per far posto all’espansione abnorme dei centri abitati (60mila residenti sull’isola, senza contare le case di villeggiatura di chi non vi risiede), la superficie boschiva è stata drasticamente ridotta. E, come se non bastasse, si aggiungono gli incendi dolosi.

L’ultimo, di vaste dimensioni, risale a soli tre mesi fa, subito dopo Ferragosto. Gli alberi sono l’antidoto delle frane. Intendiamoci, non sempre possono prevenirle, perché se si liquefa una intera collina come a Maierato  anche gli alberi vengono trascinati via. Ma nella grande maggioranza dei casi il contrasto degli alberi alle frane e alle colate di fango è molto efficace. La prima ragione è la più nota ed evidente: la matassa delle radici imbriglia la terra e le impedisce di scivolare. Le altre sono meno considerate, ma non meno rilevanti. La chioma si oppone alla caduta violenta della pioggia, che tende a smuovere il terreno, infiltrandosi più facilmente. Ed infine i tronchi che, ostacolando lo scorrimento dell’acqua e del fango, e il trascinamento dei massi, riducono velocità e forza d’impatto.

Veniamo alla terza aggravante. Il nuovo regime climatico. Quante volte ne ho parlato in televisione e scritto sulle pagine del Riformista? Troppe per poterle contare. Sembravano esercizi teorici, divagazioni da scienziato perditempo. Un po’ come lo spillover, il salto dei virus da una specie all’altra, una stravaganza dei microbiologi. Ma quando è arrivato il Covid 19, si è capito che era una spada di Damocle che pendeva da lungo tempo sulle nostre teste e che il sottile capello con cui era sospesa aveva ceduto all’improvviso. Nel 1910 la frana che sconvolse Casamicciola era l’effetto di lunghi giorni di pioggia battente che aveva investito l’isola. Stavolta, invece, tutto si è consumato nel giro di poche ore. È stata una flash flood, un’alluvione lampo. In una notte è caduta dal cielo la quantità di acqua che solitamente precipita in diversi mesi. Non c’è stato tempo per lanciare l’allarme, il dramma si è consumato durante il sonno; il fango e i massi sono arrivati prima dei soccorsi.

Ischia è un territorio intrinsecamente fragile e vulnerabile. Non è un caso che si verifichino nello stesso piccolo posto terremoti e frane. Il motivo è che hanno una causa comune, il vulcanesimo. Ischia è una delle isole Flegree, cioè il prodotto di uno dei fenomeni vulcanici estremi presenti sulla superficie terrestre, il Supervulcano dei Campi Flegrei. I Campi Flegrei appartengono infatti a un gruppo molto ristretto, che conta dieci, dodici membri al massimo, tra cui il famoso Yellowstone, nel Wyoming. Sono quei vulcani con caldere gigantesche che, in caso di eruzione, potrebbero sconvolgere il territorio circostante in un raggio di centinaia di km e alterare il clima del loro continente.

L’eruzione di Toba, sull’isola Sumatra, in epoca geologicamente recente (circa 70 mila anni fa), gettò l’intero pianeta in un inverno vulcanico durato un decennio. Ecco perché solo 5 anni fa avevamo già parlato di Ischia per i danni e le vittime di un terremoto. Ed ecco perché le frane sono così frequenti: le ceneri, i lapilli e le pomici eruttate si depositano sul sostrato roccioso, senza aderirvi tenacemente, come la polvere domestica sui mobili, che può essere asportata passandoci sopra un panno morbido. Insomma. Perché è accaduto? Per predisposizione geologica e per la leggerezza delle amministrazioni, per disinteresse e per smemoratezza, per antico fatalismo e per le nuove insidie del clima. È un cocktail micidiale, di cui nessuno degli ingredienti è salutare.

Ah, avrete notato che non ho parlato degli abusi edilizi. Dicono che questo è il momento del lutto e del raccoglimento e non della polemica. E sia. Ma voglio solo far notare che la palla da bowling non colpisce i birilli quando è lanciata da un giocatore scarso come me, perché cade nei solchi laterali. Ma se invece di metterli solo al centro, piazzate i birilli pure nei solchi… abile o no che sia il giocatore, qualcuno verrà abbattuto di sicuro…

Valerio Rossi Albertini

(ANSA il 29 novembre 2022) - "Siamo ancora in una fase di piena emergenza, si sta cercando innanzitutto, è questa la priorità, di recuperare i corpi di altri nostri concittadini che sono morti. Poi c'è l'altra emergenza che riguarda 230 famiglie che dobbiamo accogliere e ospitare. Il governo ha stanziato 2 milioni di euro, la Regione Campania 4 milioni di euro per la prima emergenza. Poi andrà affrontato il problema di fondo dell'assetto idrogeologico e dell'abusivismo". 

A dirlo, a margine di una inaugurazione di un centro antiviolenza a Salerno, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca sulla tragedia di Ischia. "L'assetto idrogeologico - ha aggiunto il governatore - presuppone un impegno straordinario del governo nazionale. Io sono tra quelli che non sopportano più questa litania sul Paese fragile.

Se sappiamo che il Paese è fragile occorre una politica di lungo periodo, un investimento di dieci anni per mettere in sicurezza il territorio. E occorrono tante altre cose che mancano. Istituzioni pubbliche che funzionano, comuni non svuotati di personale anche negli uffici tecnici, province distrutte, comunità montane inesistenti, luoghi istituzionali dedicati alle progettazioni. Abbiamo distrutto tutti gli apparati pubblici in Italia, poi parliamo di manutenzione del territorio. Ma chi la deve fare questa manutenzione? Demagogia a ruota libera".

(ANSA il 29 novembre 2022) - Con una lettera inviata a Palazzo Chigi, la Regione Campania ha espresso parere negativo sulla nomina da parte del Consiglio dei Ministri, di Simonetta Calcaterra a commissario per l'emergenza Casamicciola. Fonti della Regione confermano le indiscrezioni di stampa. La Calcaterra è da luglio scorso commissario straordinario del Comune di Casamicciola dopo lo scioglimento dell'ente per le dimissioni della maggioranza dei consiglieri. La nomina era stata decisa domenica dal Cdm ma il parere della Regione è vincolante.

(ANSA il 29 novembre 2022) - Sarà presto redatto un piano provvisorio di emergenza per il Comune di Casamicciola inquadrato in più ampio d'ambito. È quanto emerso dal vertice con i soccorritori che si è tenuto oggi con il prefetto di Napoli, Claudio Palomba. Il nuovo piano provvisorio va ad aggiornare dopo gli eventi alluvionali di sabato quello del Comune di Casamicciola ed è finalizzato a garantire assistenza alla popolazione in caso di nuove emergenze. Sarà comunque operativo prima del peggioramento delle condizioni meteo. Nel frattempo è prevista, da parte dei vigili del fuoco, una prima verifica a vista degli edifici che si trovano nell'area interessata. Al momento la verifica sarà effettuata su un migliaio di edifici.

(ANSA il 29 novembre 2022) - Proseguono da parte dei vigili del fuoco le attività di ricerca dei 4 dispersi dell'alluvione di Casamicciola. E' stato aperto un varco che consentirà ai mezzi di soccorso, con particolari attrezzature, di arrivare più agevolmente sull'area alta del paese dove proseguono le ricerche degli ultimi quattro dispersi, sottolinea Luca Cari, responsabile della comunicazione dei vigili del fuoco. L'attività procede senza sosta anche se al momento non si registrano novità. 

QUELL'APPALTO INTERMINABILE PER LA SICUREZZA DI CASAMICCIOLA FINANZIATO, LAVORI FERMI DAL 2010

Estratto dell'articolo di Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 29 novembre 2022.

Questa è la storia dell'appalto "di somma urgenza" più lungo del mondo: 12 anni e non si è mossa nemmeno una pietra, nonostante i fondi fossero in banca. Ed è la storia di una delle montagne più a rischio idrogeologico d'Italia piena di progetti e anche di fondi. Ma dove non si è mai vista una ruspa, se non per scavare dopo una tragedia. È una storia antica, come ricordano gli anziani di Casamicciola: «Qui dicono: uccidete i vecchi che sanno i fatti. E hanno ragione», una signora è curva mentre prova ad attraversare un mare di fango. «Le alluvioni, le frane ci sono sempre state. Ma prima la montagna la tenevano pulita, venivano gli "operai idraulici" della Forestale. E ora? Non viene più nessuno, se non per cacciarci dalle case nostre».

Per cominciare, mettiamo un punto. Febbraio del 2010. E un luogo: Haiti. Per accorgersi che poco meno dei due terzi di Casamicciola - i dati sono dell'Ispra, l'Istituto per la protezione e la ricerca ambientale - rischia di crollare e che è necessario intervenire al più presto, il governo italiano deve aspettare che un terremoto distrugga il paese caraibico, causando 220mila morti. 

È infatti in un provvedimento che si occupa di Haiti - "misure urgenti per il terremoto" - forse evocando la vecchia regola di Protezione civile che ricorda come la civiltà di un paese si misuri proprio dalla capacità di contenere i danni in casi di dissesti naturali (e l'Italia in questo è pessima), che il governo inserisce un finanziamento di "somma urgenza" per mitigare "il pericolo di ostruzioni degli imbocchi dei tratti tombati mediante opere trasversali di trattenuta del materiale di trasporto solido sugli alvei Senigallia, Negroponte, Fasaniello, Pozzillo, La Rita, Cava del Monaco" di Casamicciola. Sono i canali di scolo della città, quelli attraverso i quali dovrebbe defluire la pioggia e il fango. […]

Bene: nel 2010 il governo dice che bisogna pulirli immediatamente e per questo nomina un commissario straordinario. Ma il commissario non ce la fa a lavorare in "somma urgenza". E così ne viene nominato un altro: l'ingegner Edoardo Cosenza, allora assessore in Campania. Ma niente: nemmeno l'ingegnere. La direzione regionale dei Lavori pubblici nomina allora un responsabile del procedimento, siamo a luglio del 2011. Che però a settembre del 2012 viene sostituito. Sono passati due anni, Haiti si sta riprendendo con difficoltà. Ma i canali di Ischia, niente.

Arriviamo al 2014 e finalmente ecco il progetto: 180mila euro. Serve però un altro anno, siamo a novembre del 2015, per avere quello definitivo. Pronti? Macché. A maggio del 2016 si riunisce una Conferenza dei servizi ma i lavori vengono sospesi: serve un parere di una direzione generale sempre della Regione che però, nonostante sia alla porta accanto, arriva un anno e mezzo dopo, luglio 2017. 

Ci siamo? No. Perché il 4 agosto del 2017 viene indicato come soggetto attuatore dei lavori urgenti decisi sette anni prima il Comune di Casamicciola. Che però il 21 agosto viene travolto e sconvolto da un terremoto. Risultato: dei lavori da fare con somma urgenza nel 2010 si perdono, completamente, le tracce. […]

Casamicciola, il ministero dell’Ambiente aveva finanziato 12 anni fa interventi mai realizzati. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 29 novembre 2022

Lo ha detto il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin durante un’audizione alla Camera. E si giustifica per aver detto che i sindaci devono andare in carcere: «Sono stato vicesindaco, mio figlio è stato sindaco»

Il ministro dell’Ambiente e della sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha riferito alla Camera che a Casamicciola Terme, il comune ischitano travolto dal fango, nonostante fossero stati stanziati oltre tre milioni di fondi contro il dissesto idrogeologico non sono mai stati realizzati gli interventi necessari. E insieme all’imbarazzo dei mancati accorgimenti per la prevenzione, il giorno dopo che si è augurato il carcere per i sindaci si giustifica: lui è stato vicesindaco e suo figlio sindaco. 

IL CARCERE PER I SINDACI

Prima che passasse a illustrare la situazione di Casamicciola, il ministro ha ricordato senza ripeterla la frase che ha fatto discutere: «Secondo me basterebbe mettere in galera il sindaco e tutti coloro che lasciano fare. Che tutti facciano davvero il proprio dovere: da me all'ultimo amministratore», ha detto lunedì a Non Stop News, su Rtl 102.5.  Una presa di posizione che non è piaciuta al ministro dell’Interno Matteo Salvini e nemmeno alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni: «Quella del ministro Pichetto è stata un’espressione infelice».

Prima di partire con la consueta esposizione delle linee programmatiche, ha cercato di rettificare: «Mi preme in questa sede chiarire, anche per evitare ulteriori inutili polemiche dinanzi ad una tragedia di tali proporzioni e gravità, il senso delle mie parole pronunciate ieri nel corso di una intervista radio». Lui, ha specificato, è «stato vicesindaco, mio figlio è stato sindaco; per me il ruolo di primo cittadino è uno dei pilastri della democrazia rappresentativa». Ciò che «esattamente intendevo dire», ha proseguito, «è che non è più tempo di passare sopra a illeciti urbanistici che possono trasformarsi in elementi di nuove tragedie».

Chi ha compiti di vigilanza sul territorio, per il ministro deve evitare che si creino o aggravino situazioni di rischio. E ha invitato tutti a lavorare sul dissesto idrogeologico che «non è una battaglia di parte o una bandiera ideologica»

LA SITUAZIONE DI CASAMICCIOLA

Dopo la tragedia di Ischia il ministro ha dato ragione al suo predecessore Sergio Costa, pentastellato vice presidente della Camera. Anche Pichetto Fratin infatti ha detto che servono strutture per sostenere le spese dei comuni per il dissesto idrogeologico: «A Ischia, solo perché è l’ultima delle tragedie a cui stiamo assistendo, il 49 per cento del territorio dell’isola è classificato a pericolosità elevata e molto elevata per frane nei Piani di Assetto Idrogeologico e sono oltre 13.000 gli abitanti residenti nelle aree a maggiore pericolosità per frane».

Per la “messa in sicurezza della zona costiera” e per “la riduzione dell’erosione e la stabilizzazione dei versanti nel comune di Casamicciola” sono stati stanziati 12 anni fa dal Ministero dell’Ambiente complessivamente 3 milioni e 100 mila euro, ma gli interventi risultano ancora in fase di progettazione.

La difficoltà, ha detto, è «strutturale» e riguarda come vengono spese le risorse «un problema paralizzante che nasce da meccanismi autorizzativi farraginosi, dalla impossibilità di molte pubbliche amministrazioni, soprattutto delle più piccole di fare progettazioni di interventi importanti con le risorse umane e professionali di un comune di poche migliaia di abitanti». Difficoltà che derivano anche dalla stratificazione di strumenti, anche finanziari «spesso non coordinati e che si intralciano a vicenda».

E alla fine ha difeso i sindaci: «I buoni amministratori, lo ribadisco, vanno aiutati. E non caricati di adempimenti senza strutture tecniche e amministrative per farvi fronte».

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Ore frenetiche a Roma con la danza dei numeri sulla tragedia di Ischia. GIUSEPPE ALBERTO FALCI su Il Quotidiano del Sud il 27 Novembre 2022

Sono le 9 del mattino quando si diffonde la notizia che a Ischia c’è una frana. In quel momento Giorgia Meloni è a Palazzo Chigi. La prima telefonata è diretta al ministro per la Protezione Civile, Nello Musumeci, colui che ha in mano il dossier.

La presidente del Consiglio telefona poi al governatore della Regione della Campania, Vincenzo De Luca. Parla con il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi. Insomma, segue l’evoluzione dell’ondata maltempo che ha colpito Ischia. Il governo non perde tempo a esprimere vicinanza ai sindaci dei comuni dell’isola di Ischia e ringrazia i soccorritori impegnati nella ricerca dei dispersi.

Ed è proprio in quei minuti che Matteo Salvini, titolare del ministero delle Infrastrutture, ne combina una delle sue: «Sono otto i morti accertati per la frana a Ischia». E ancora: «Ci sono i soccorritori che lavorano in condizioni difficili – ha concluso – Se è curato e protetto questo è il Paese più bello del mondo».

Peccato che le parole del vicepremier non trovino conferma. Prima lo smentisce il prefetto di Napoli, Claudio Palomba: «Al momento non abbiamo morti accertati». Segue la dichiarazione del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che conferma le informazioni della prefettura: «Non ci sono morti accertati», aggiungendo di essere «in stretto contatto con la presidente Meloni. È una situazione molto grave, in evoluzione e che è da seguire». Concetto ribadito anche dal capo della Protezione civile, Fabrizio Curcio: «I numeri sono quelli del prefetto».

La fuga in avanti del vicepremier arriva anche sui media stranieri, oltre che sui social, dove si critica la ricerca di visibilità di Salvini nel pieno di un evento catastrofico. L’imbarazzo è tale per cui Antonio Tajani, vicepremier, prova a dissimulare: «Non ho parlato con Salvini, ma evidentemente c’erano numeri che qualcuno ha detto che venivano dall’isola, magari nella concitazione qualcuno ha riferito dei numeri al ministro Salvini, non ne so di più». Va da sé che le opposizioni prendono di mira il segretario della Lega.

A questo punto della giornata Meloni è da ore alla centrale della Protezione civile per ricevere aggiornamenti e rimanere in contatto con le sedi operative che stanno prestando soccorso a Ischia. Tajani mette a verbale che «serve un intervento per tutelare il tessuto idrogeologico del nostro Paese. Sono troppe le tragedie», sottolineando che «il governo è intervenuto con circa 400 milioni per sostenere le aree colpite nelle Marche, e non mancherà la solidarietà nei confronti del popolo di Casamicciola ad Ischia».

Il governo si dice pronto a fare la sua parte, i membri dell’esecutivo sono pre allertati perché il consiglio dei ministri si potrebbe riunire da un momento all’altro. Il focus si sposta sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. «Occorre mettere in sicurezza i nostri territori e possiamo farlo sfruttando anche le risorse disponibili grazie al Pnrr», sostiene il ministro degli Affari Regionali e Autonomie, Roberto Calderoli.

Ed è sul far della sera che viene diffusa la notizia di una telefonata del presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, a Giorgia Meloni. I due non si sono più sentiti, dopo l’incidente diplomatico sulla nave Ong Ocean Viking. Macron esprime il suo sostegno e la sua solidarietà dopo i drammatici eventi dell’isola di Ischia. Un segnale che Meloni apprezza e che può essere foriero del ripristino dei rapporti tra Francia e Italia. 

Quando il Nord è abusivo e la piaga è la burocrazia. Ivano Tolettini su L’Identità il 29 Novembre 2022.

Demolire un edificio abusivo è molto complicato nella pratica. A Ischia come nel profondo Nord. Dalla Campania al Veneto. Che a governare sia la destra oppure la sinistra. Anche quando l’illecito è in un’area a inedificabilità assoluta. Le scappatoie legali, nel Paese del diritto e del rovescio, sono così tante che se parlate con la maggior parte degli avvocati amministrativisti vi risponderanno che nella loro carriera di abbattimenti, anche nei casi conclamati, non ne hanno visti molti. Soprattutto se vi rivolgete al legale esperto. Costa, ma il risultato vale la candela. Pardon, la sopravvivenza dell’immobile. Del resto, una sentenza della Cassazione afferma che è possibile, con lo strumento dell’incidente d’esecuzione, vale a dire il procedimento che si utilizza nella fase esecutiva dei provvedimenti, opporsi in certi casi all’ordine di abbattimento provando i gravi pregiudizi che deriverebbero alla salute del cittadino abusivista nel caso in cui venisse privato della sua unica abitazione. Eh sì, non trovate molti Paesi al mondo in cui i bizantinismi si arrampicano a queste vette della logica di legittimità. Ecco perché viviamo in una Nazione in cui a volte anche il semaforo rosso è soggetto a interpretazioni cromatiche. Così può capitare che l’interesse pubblico – la ventilata prossima modifica dal sapore dell’abrogazione dell’abuso d’ufficio, anche perché così com’è qualificato già adesso è un reato per il quale pochi pubblici ufficiali sono condannati con sentenza definitiva – arretra davanti alla violazione di legge nel nome del cittadino, in questo caso pessimo, ma meritevole di una estrema tutela. È un caso limite, naturalmente, ma spiega perché dal fronte fiscale a quello edilizio chi pratica l’illegalità ha buone probabilità di farla franca. Sotto qualsiasi governo. La storia della Repubblica è lì a ricordarcelo. In questi giorni in cui purtroppo è stata Ischia ad essere martoriata dal maltempo per le troppe vittime e gli ingentissimi danni causati dall’immancabile emergenza che ne è conseguita per l’abusivismo selvaggio che l’ha innescata – nulla è più puntuale come il recente caso umbro ha certificato il nostro dissesto idrogeologico alimentato dalla mano dell’uomo – ci sono casi paradigmatici. Prendete quello di una villetta costruita ex novo in un quartiere di Vicenza, a Ospedaletto, in zona a vincolo di inedificabilità assoluta perché nella pertinenza di una dimora storica, come hanno stabilito prima i giudici del Tar Veneto nel 2015 e poi i colleghi del Consiglio di Stato nel 2017, ordinando l’abbattimento dopo avere annullato i titoli edificatori. Era successo che i coniugi Naclerio, il cui figlio sarebbe diventato nel 2018 consigliere comunale della maggioranza di centrodestra guidata da Francesco Rucco e avrebbe dovuto abitare in quell’immobile, dopo che il Comune, all’epoca però guidato dal Dem Achille Variati, aveva respinto la richiesta di permesso di costruire del 6 marzo 2012 e della Dia del 4 ottobre 2012, il 22 ottobre sempre del ’12 la coppia aveva beneficiato di un’ulteriore Dia che consentiva loro di accendere le ruspe, affrancando la villetta con una successiva Scia in variante per avvalersi del cosiddetto “Piano Casa” votato dalla Regione Veneto. A muovere battaglia, in questo caso, era stata un’altra coppia che aveva acquistato una dozzina d’anni prima un pezzo della vecchia stalla di Cà Latina ristrutturandola e spendendo un sacco di soldi sul presupposto che nessuno avrebbe mai potuto costruire lì vicino. Anche perché, come un geologo di parte ha verificato, in caso di forte pioggia a causa della modifica del piano campagna l’abitazione ristrutturata rischierebbe di venire allagata. Per farla breve, nonostante tutti i ricorsi presentati dai Naclerio, spalleggiati anche dal Comune in taluni passaggi processuali, i giudici amministrativi hanno sempre dato loro torto e nel 2020 l’edificio è stato acquisito al patrimonio municipale. Partita chiusa? Neanche per sogno. I ricorsi sono continuati, il Comune non è stato ritenuto inerte e non è stato nominato il commissario ad acta per la demolizione. Lo scorso luglio, dulcis in fundo, l’asta pubblica per incaricare un’impresa a demolire il fabbricato è andata deserta. “Col rischio – spiega l’avvocato Dario Meneguzzo che ha seguito il caso – che la vittima dell’abuso rischia di trasformarsi in carnefice per il solo fatto di chiedere il ripristino della legalità”. Per ottenere la quale sono stati spesi un sacco di soldi. E dieci anni dopo la villetta abusiva è ancora su. Grazie alla burocrazia. A Vicenza come Ischia.

L’Italia dei condoni. Redazione L'Identità il 29 Novembre 2022

L’Italia è malata di abusivismo edilizio. Ce ne ricordiamo soltanto in occasione di quelli che ogni sindaco, fosse pure quello del Comune più piccolo del Paese, ha imparato da tempo a definire “eventi metereologici calamitosi imprevedibili”, per scrollarsi di dosso le eventuali accuse. Perché, ce ne stiamo accorgendo ogni volta di più, alla fine ci scappa il morto. Anzi, i morti, come sabato ad Ischia.

Il problema che si ripete

Un viaggio che parte proprio da Ischia ci restituisce la fotografia di un fenomeno diffuso e costante, pur nell’evidenza di un divario tra Nord e Sud, che però non esclude dalle regioni del Centro Nord un dato evidente, che si collega all’altrettanto storico ciclo dei condoni edilizi, dal primo del 1985. E se non governato dalla raffica di richieste di condono che si abbatte sui Comuni, gestito durante gli anni dalla pressione politico-elettoralistica sulla realizzazione e sul mantenimento del bene primario delle famiglie, la casa.

ISCHIA DOCET

Ischia è la maggiore delle isole nel golfo di Napoli, Campania. Una regione dove in 10 mesi si sono registrati 18 eventi climatici estremi, 6 solo nel mese di novembre. E dove 100 sono stati i fenomeni del genere dal 2010 fino a oggi: tra questi, 38 allagamenti e alluvioni e 4 frane da piogge intense. Come quella di sabato mattina. Qui sono 600 le case abusive colpite da ordinanza definitiva di abbattimento. Ed è di 27mila il numero delle pratiche di condono presentate: a Forio 8530, 3506 a Casamicciola e 1910 a Lacco Ameno. Mentre, dopo il Decreto Genova del 2018 che includeva un condono per la ricostruzione post terremoto di Ischia, il numero di fabbricati danneggiati inseriti nelle richieste di sanatoria è salito a 1000.

Il quadro di legambiente

Ma se Ischia è oggi un caso nazionale, l’intero Stivale non è un bel vedere, a sentire Legambiente che da qualche anno raccoglie i dati intervistando i Comuni: “Dal 2004 al 2020, in tutta Italia, è stato abbattuto solo il 32,9% degli immobili colpiti da un provvedimento amministrativo”. Certo, l’abusivismo è diffuso nelle 4 regioni del Mezzogiorno (Campania, Sicilia, Puglia e Calabria), peraltro quelle ove è nata e prospera l’economia criminale delle 4 mafie del Paese e ove si concentra il 43,4% degli illeciti nel ciclo del cemento registrati in Italia nel 2019. Qui sono state emesse 14.485 ordinanze di demolizione (con la Campania a guidare la classifica nazionale con 6.996 provvedimenti di abbattimento) e ne sono state eseguite appena 2.517, pari al 17,4%. Insomma, 5 volte su 6 l’abusivo può confidare di coronare con l’impunità il suo abuso.

Abusi a go go lungo le coste italiane: se si esaminano i Comuni litoranei, la percentuale nazionale di abbattimenti scende a 24,3%.Ma gli illeciti edilizi sono bandierine sui territori di tutte le regioni, anche in Veneto – ove impera il microabusivismo edilizio – e in Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta, Provincia autonoma di Bolzano, Lombardia, Piemonte, Liguria e Toscana, le regioni che dichiarano di aver demolito il 40% degli immobili o degli interventi abusivi colpiti da ordinanza di abbattimento. A significare che il territorio rimane comunque macchiato dal persistere di un cancro di fronte al quale, da oltre 30 anni, si è scelta la strada del condono, piuttosto che quella di un contrasto deciso al fenomeno.

L’impatto del condono

Quasi un paradosso, poi, che gli abusi edilizi, oltre che finire in poderose ricerche economiche incentrate sull’impatto dei condoni sul tessuto sociale ed economico, siano diventati uno dei dodici Indicatori del “Benessere Equo e Solidale” cui lavorano da anni Cnel e Istat e che dal 2013 fornisce una relazione al Parlamento, in allegato al Def, per valutare il progresso della nostra società non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto l’aspetto sociale e ambientale, per rendere efficaci gli strumenti di programmazione e valutazione della politica economica nazionale. L’ultimo dato individua 17 abitazioni illegali ogni 100 costruzioni autorizzate dai Comuni, in contrazione dal 2018. Alla fine, gli abusi edilizi frenati solo dalla pandemia, dal fermo del settore dell’edilizia e dalle proroghe emergenziali. Una magra consolazione. Sullo sfondo, un anno fa, una macchina degli abbattimenti inceppatasi dopo il via libera alle prefetture per sostituirsi ai Comuni negli abbattimenti. Un cancro diffuso in tutto il Paese, di fronte al quale negli anni è stata scelta la strada facile dei condoni invece di una manovra complessiva che provasse ad eliminarlo. 

Il ministro abusivo. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 29 Novembre 2022

Con le operazioni di soccorso ancora in atto dopo la tragedia di Ischia, con otto persone morte sotto una colata di fango, le parole inopportune del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin sui sindaci che andrebbero arrestati scatenano un putiferio fuori e dentro la maggioranza.

E a dire che pochi giorni fa la premier Giorgia Meloni aveva incassato una standing ovation all’assemblea dell’Anci a Bergamo quando aveva promesso di voler cambiare la legge sull’abuso d’ufficio. Ora, dopo l’improvvida uscita di Pichetto Fratin, sindaci e governo sono ai ferri corti. Lo scontro è sull’abusivismo edilizio nell’isola campana e la mancanza di controlli efficaci. “In galera il sindaco e chi lascia costruire”, dice il titolare dell’Ambiente. “Un amministratore oggi – aveva detto Meloni all’assemblea Anci – non sa se il suo comportamento domani verrà giudicato come criminoso.

La statistica è drammatica: il 93% delle contestazioni di abuso d’ufficio si risolve con assoluzioni o archiviazioni. Non possiamo arrenderci perché la paura della firma inchioda una nazione che invece ha un bisogno disperato di correre e di liberare le sue energie”, aveva sottolineato la premier.

Il commento dell’esponente di FI a capo del dicastero dell’Ambiente manda su tutte le furie il presidente Anci e sindaco di Bari Antonio Decaro: “È di una volgarità inaccettabile e denota una grave ignoranza dell’argomento”. Mentre nella maggioranza è evidente l’imbarazzo, con il ministro per gli Affari europei e il Pnrr Raffaele Fitto che nicchia dicendo che non ha sentito le parole del collega all’Ambiente, il dem Decaro va all’attacco: “Liquidare la questione scaricando tutta la responsabilità sui sindaci, addirittura auspicando che vengano messi in galera, è l’opposto di quello che un rappresentante delle istituzioni dovrebbe fare: ora dal ministro aspettiamo delle scuse verso i sindaci italiani”. Il numero uno dell’Anci spiega che “da anni, in tutti gli incontri e in tutte le occasioni, sosteniamo con forza la necessità di varare un piano straordinario per la manutenzione del territorio, nell’interesse esclusivo e primario dei nostri concittadini”.

Il ministro della Protezione civile e del mare Nello Musumeci intanto prova a difendere Pichetto: “Può capitare a tutti di essere fraintesi”. Di tutt’altro tenore il commento del vicepremier e ministro dei Trasporti e delle infrastrutture Matteo Salvini, che difende i sindaci. “C’è qualcuno che vorrebbe arrestare i sindaci, mentre io li vorrei proteggere e liberare dalla burocrazia”, afferma il leader della Lega.

Se andiamo a vedere qualche altra uscita infelice del neoministro, alla sua prima uscita pubblica in Ue, il forzista, che peraltro non è proprio un esperto di tematiche ambientali, ha esordito con una gaffe, facendo confusione sui temi da discutere con i suoi nuovi colleghi europei. “A seguito del Consiglio d’Europa di qualche giorno fa, in cui stato raggiunto un accordo tra i ministri…”, esordisce Pichetto Fratin.

Il vertice a cui fa riferimento, però, non è affatto il Consiglio d’Europa – organizzazione internazionale fondata nel 1949 per evitare un ritorno della guerra – ma il Consiglio europeo, il vertice che riunisce i leader dei 27 Paesi Ue per definire l’agenda politica dell’Unione. “Uno degli obiettivi – prosegue il forzistaù – è superare l’attuale sistema del Tte”. Anche in questo caso, però, Pichetto Fratin fa confusione. L’acronimo a cui si riferisce è il Ttf, che sta per Title Transfer Facility e indica il mercato all’ingrosso del gas naturale – con sede a Amsterdam – che rappresenta il principale riferimento sui prezzi del metano per l’Italia e il resto dei Paesi europei.

Sempre a Bruxelles, il gaffeur ne ha fatta un’altra, immortalata da un video virale sui social. Fraintendendo una domanda formulata da un giornalista olandese in inglese, durante l’incontro con la stampa al termine del Consiglio europeo straordinario sull’energia. “Pensa che sarà possibile trovare un compromesso (sul price cap, ndr)?”. Compromesso, in inglese “compromise”, che Pichetto Fratin deve aver interpretato come “ompliments”, tanto da rispondere un po’ perplesso: “Complimenti… eh, insomma. Dopo qualche istante di imbarazzo è intervenuto un giornalista italiano che, riformulando la stessa domanda, ha permesso al ministro di rispondere correttamente. Per carità, se si pensa a “First reaction, shock” di Matteo Renzi, non possiamo dire che i problemi con le lingue straniere siano un ostacolo – il leader di Iv è diventato un oratore in lingua inglese, ormai.

«Ho pagato sulla mia pelle il dramma di un’alluvione: non lasciate soli i sindaci». Intervista a Marta Vincenzi, ex sindaco di Genova, condannata a tre anni per l'alluvione del 2011: "Le scuse di Pichetto Fratin non bastano, liscia il pelo al peggior qualunquismo forcaiolo". Valentina Stella il 30 Novembre 2022 su Il Dubbio.

Parla Marta Vincenzi, ex sindaco di Genova. A ottobre ha finito di scontare, con la messa a disposizione presso i servizi sociali, il primo anno di tre, a cui è stata condannata, con l’accusa di omicidio colposo, per la gestione dell’alluvione di Genova del novembre 2011.

Cosa ha pensato quando ha visto cosa stava accadendo a Ischia?

Essendo passata attraverso un disastro, anche se di altro tipo, ogni volta mi immedesimo, è un dolore che si ripete. Il mio pensiero va alla popolazione e agli amministratori che si trovano a dover fronteggiare queste situazioni. Provo anche rabbia.

Perché?

Questo nostro territorio ha tanti problemi di tipo idrogeologico, è così fragile ma allo stesso tempo viene maltrattato o poco curato.

Dopo il disastro, nessuno sembra esserne responsabile.

Premesso che ogni situazione deve essere analizzata nel dettaglio, in generale vorrei che tornasse l’attenzione sul fatto che è lo Stato nelle sue diverse articolazioni a doversi interrogare sul perché queste cose continuino ad accadere. E in particolare sul sistema della Protezione civile. L’impostazione sistemica data da Zamberletti pian piano si è andata perdendo, soprattutto negli ultimi decenni. La Protezione civile è una struttura della Presidenza del Consiglio che si dirama in articolazioni che devono essere fatte vivere nei tavoli soprattutto in tempo di pace, non solo in tempo emergenziale. Dovrebbe avere gli strumenti e le informazioni per sapere quali sono le situazioni dove è meglio concentrarci e prevenire: questo è andato perduto in un insieme di rivoli di responsabilità plurime, a volte definite dalla ‘legge X’ ma contraddette dal ‘decreto Y’ approvato dopo, a volte bizantineggianti o troppo generiche. È il caso dei sindaci.

Ci spieghi.

Si dice che il sindaco è di per sé il responsabile della Protezione civile, però non si chiarisce come e di cosa sia responsabile, e in che modo questa responsabilità è fatta vivere insieme a quelle di tutti gli altri soggetti. Dov’è stato il coordinamento di tutti questi livelli? Inoltre bisognerebbe evitare sul piano culturale che soprattutto da parte dei cittadini, appena dopo la tragedia, si vada alla ricerca del colpevole, visto che non si conoscono i vari livelli e le gradazioni delle responsabilità all’interno dell’apparato statale. Anche per questo le affermazioni del Ministro Pichetto Fratin sono pericolose.

Ha fatto un passo indietro: “Non posso avercela coi sindaci […] La mia dichiarazione di ieri è stata un po’ forte quando ho detto che bisognerebbe arrestare”

Quella frase è stata davvero brutta, non basta fare un passo indietro. Non si può semplificare una questione complessa. Occorre capire cosa c’è all’origine di quella affermazione.

E cosa c’è?

Mancanza di cultura e consapevolezza rispetto al tema di cui si sta parlando. Innanzitutto è sbagliato lisciare il pelo al peggior qualunquismo forcaiolo che si trova nell’opinione pubblica. Io purtroppo questo l’ho vissuto sulla mia pelle. È grave che lo abbia fatto un ministro il quale, in pochissimo tempo, ha fatto indagine, processo e spedito in carcere il colpevole, bypassando tutto il lavoro della magistratura. Mancava solo che dicesse ‘buttiamo via la chiave’. Poi non è proficuo ragionare in termini di categoria. Come ha sbagliato Pichetto Fratin a dire che è tutta colpa dei sindaci, allo stesso modo ha sbagliato Salvini a dire che occorre difendere i primi cittadini in quanto tali.

Cosa avrebbe dovuto invece dire Pichetto Fratin?

Avrebbe dovuto enunciare il suo impegno nel capire cosa non ha funzionato, delineare le linee di miglioramento, iniziando una interlocuzione con le istituzioni sul territorio, con l’Anci, anche con le Prefetture per ragionare in tempo di pace e non in tempo di emergenza. Quindi capire non come mandare in galera i sindaci ma come poter aiutare gli amministratori locali che poi, se sbagliano, ne renderanno conto alla magistratura e ai propri cittadini.

Questione condono: anche qui è un rimpallo di responsabilità.

I partiti dovrebbero mettere in fila le cose fatte e quelle non fatte in questi decenni per aiutare gli elettori a sapere chi potranno votare nel futuro in virtù delle azioni o delle omissioni. È facile dire ‘siamo accanto alla popolazione’: siamo stufi di questo parlar a vuoto. C’è bisogno della concretezza dei numeri, dei fatti, delle decisioni assunte o non assunte. Io vorrei sapere veramente cosa c’era scritto negli atti che Conte ha firmato e in che modo può aver rallentato un processo già attivato e in che modo tutti gli altri se ne sono o non se ne sono occupati. Politicamente sarebbe utile.

Questione elettori. Innanzitutto i partiti ambientalisti non fanno breccia nel cuore degli italiani. Inoltre in noi predomina spesso una sfida al destino: ‘intanto a noi non succede’.

C’è una responsabilità anche nostra, nel senso che la nostra formazione da cittadini non contempla questi aspetti come priorità, a differenza degli altri Paesi. Per quanto ho vissuto io, posso dirle che l’idea di vivere in zone a rischio idrogeologico non entra nella memoria collettiva. Nell’alluvione del 2011 i comportamenti individuali erano molto diversi tra le persone che avevano ricordo dell’alluvione del 1992-93 e quelle che non l’avevano vissuta, a cui mancava l’automatismo nei comportamenti. Lo Stato deve porsi il problema della prevenzione come educazione al rischio ambientale. Non bastano i messaggini che ti avvisano dell’allerta. Purtroppo ci sono delle resistenze fortissime, perché mettere nero su bianco che una zona è a rischio vuol dire abbattere il valore delle abitazioni.

A proposito di abitazioni, ad esempio, tantissime case sono costruite ai piedi del Vesuvio. Pannella fece una battaglia politica già negli anni 90 contro l’abusivismo in quelle zone. Ma tanti dicono: come lo vado a dire all’elettore che gli devo abbattere la prima casa?

Non c’è altra soluzione. Ci vuole naturalmente un progetto prima che dica dove poter trasferire le persone. E ha ragione Renzo Piano quando dice che i territori vanno ‘rammendati’, vanno ripensati. Vita e sicurezza sono la priorità, non sono negoziabili. Certo qui in Italia elettoralmente abbattere non paga. Io sono stata parlamentare europea: un grande esempio di saggezza che viene dalle istituzioni europee è quello per cui le decisioni che si prendono hanno una tempistica che non coincide mai con quella della durata del mandato in corso. Casomai sette anni sono considerati lunghi ma vi si succedono più amministrazioni e la responsabilità è condivisa.

A proposito di sindaci, invece, si parla anche di rivedere la norma sull’abuso di ufficio.

Non sarei per l’abolizione tout court. Bisogna affrontare la questione con cautela.

Che è la posizione del Partito democratico.

Io non sono più nel Pd ma spero che si rifondi. E vorrei contribuire al dibattito.

Adesso fa politica?

In altro modo, come si può fare sempre, in mezzo alle persone e nelle associazioni. È dai tempi del renzismo che non sono più iscritta al Pd, con cui ero arrivata già con molta sofferenza. Adesso vorrei poter ancora dare il mio contributo di idee e partecipazione ma al momento non si capisce come e dove farlo.

Chi vedrebbe come nuovo leader?

Al momento non saprei. Sono rimasta un po’ all’antica e vorrei vedere i programmi di chi si candida.

Durante la sua vicenda giudiziaria il Pd le è stato accanto?

Il Pd è scappato, sparito, ma non è per questo che non ho preso la tessera.

«Abbiamo le mani legate dai lacci della burocrazia: lo Stato aiuti noi sindaci». L’appello di Riccardo Gullo, sindaco delle Eolie: «Il sistema va rivisto: le cose devono funzionare in maniera molto diversa rispetto a quanto accade attualmente». Giuseppe Bonaccorsi il 30 Novembre 2022 su Il Dubbio.

«I primi cittadini hanno le mani legate da lacci e lacciuoli della burocrazia». Mentre nel governo dopo il disastro di Ischia c’è uno scontro a distanza tra il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin che ha dichiarato a Radio24 che i sindaci che si voltano dall’altra parte sull’abusivismo andrebbero arrestati – e il vicepremier Matteo Salvini – che al contrario ha detto che «piuttosto che parlare di arresti i sindaci andrebbero sostenuti nella loro azione» -, nella polemica si inserisce il sindaco delle Eolie, Riccardo Gullo.

Il primo cittadino di sei delle sette isole patrimonio dell’Unesco, riferendosi al nubifragio abbattutosi qualche mese fa a Stromboli, rincara la dose a difesa dei suoi colleghi e riferendosi al Piano di emergenza annunciato dal ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, ex presidente della regione Sicilia, dopo il disastro di Ischia, dichiara senza fraintendimenti: «Noi abbiamo già pronto un Piano di emergenza per l’isola di Stromboli dopo il disastroso incendio di maggio, con la distruzione del polmone verde delle pendici, e a settembre, con la conseguente alluvione, quando solo un miracolo ha evitato vittime».

«Siamo stati molto previgenti e quello che adesso per Ischia ha detto il ministro noi lo abbiamo pianificato per tempo. Il documento è stato già da noi inviato alla Protezione civile e attendiamo che venga approvato. Si tratta di un piano da 21 milioni di euro per mettere in sicurezza l’abitato e tutta l’isola. Quando sono stato nominato commissario per l’emergenza dal governo – ha proseguito il primo cittadino eoliano – non abbiamo perso un attimo, lavorando dalle 8 del mattino sino a sera. Adesso però attendiamo ancora che il documento venga approvato, perché senza il via libera non possiamo fare nessun intervento. Stiamo parlando di pulizia di tutti i torrenti e consolidamento di quelle aree delle pendici che rischiano di franare a valle».

Il sindaco Gullo, riferendosi anche a un’altra emergenza che lo assilla sulle isole, quella della frazione di Lipari di Acquacalda, interessata ogni anno da violente mareggiate da nord che mettono a rischio gli abitanti che abitano a pochi metri dal mare, è tornato sulla piaga della burocrazia.

Nel 2019 la violenza del mare, con onde alte anche sei metri, distrusse buona parte del lungomare e mise a rischio numerosi abitanti. Ancora oggi il sindaco combatte con pareri che talvolta contrastano tra loro: «Stiamo lavorando alla pianificazione del progetto con tutti i maledetti pareri che dovrebbero essere eliminati in questi casi di emergenza. Stiamo cercando nel frattempo di effettuare un intervento immediato nella parte più pericolosa del litorale, ma per tutto il progetto ci scontriamo con disposizioni che purtroppo le norme richiedono e che non è facile portare a termine anche per varie norme tirate fuori pure dalla Regione, su pareri ambientali e paesaggistici e commissioni. Noi sindaci siamo invischiati in un ginepraio spaventoso che dobbiamo ogni volta dipanare, con continui elaborati in più richiesti, da elaborare, da approfondire… Ma così non si va da nessuna parte e i cittadini rischiano. Per questo il sistema va rivisto: le cose devono andare in maniera molto diversa rispetto a quello che attualmente devono ogni giorno affrontare tutti i sindaci della penisola» .

L’isola di Stromboli venne interessata da un violento incendio, causato molto probabilmente ma sono ancora in corso le indagini della procura di Barcellona Pozzo di Gotto – da una troupe cinematografica che stava girando sull’isola una fiction, ironia della sorte chiamata “Protezione civile”. Gli addetti alle telecamere dovevano effettuare alcune riprese e accesero un fuoco ‘”pilotato” a quota 400 metri, nel pieno della riserva naturale, che sfuggì immediatamente di mano a causa del forte vento di scirocco che spazzava l’isola. Venne distrutto tutto il polmone verde riserva naturale delle pendici del vulcano e soltanto il tempestivo intervento dei cittadini evitò che alcune case venissero raggiunte dalle fiamme.

Qualche mese dopo, durante un violento nubifragio un mare di fango e detriti invase l’abitato trascinando a mare tutto quello che incontrava sul suo cammino. Per fortuna non ci furono vittime perché le piogge furono copiose soprattutto di notte. Dal rogo al nubifragio nessun ente si occupò di bonificare quantomeno i letti dei torrenti da enormi quantità di arbusti bruciati. Anche sull’alluvione la procura barcellonese ha aperto un secondo filone di indagine sulla mancata bonifica. 

Disastro a Ischia, gli isolani: "Dopo anni di sacrifici ci vengono a dire che è colpa dell’abusivismo". Storia di Redazione Tgcom24 l’1 dicembre 2022.

"Mattino Cinque News" mostra la disperazione dei cittadini nel quartiere di Casamicciola a Ischia. Dopo l'alluvione del 26 novembre che ha provocato otto morti, quattro dispersi e centinaia di sfollati, una nuova ondata di maltempo potrebbe colpire tra qualche giorno l'isola. Nel frattempo, le squadre di soccorso stanno lavorando al ritrovamento dei corpi dei quattro dispersi mentre gli isolani cercano di mettere in sicurezza quello che si può, convincendo i residenti ad abbandonare la propria casa e a mettersi al sicuro. "Se non ci danno un'abitazione facciamo la fine dei terremotati. Ci spostano in albergo e poi? Che fine facciamo?" commenta un cittadino.

"Le vittime vivevano tutte in zona bianca: significa che si poteva costruire". “Basta sciacallaggio, la frana di Ischia non è colpa dell’abusivismo”: i sindaci contro i giornalisti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Novembre 2022

Non ci stanno i sindaci di Ischia: dicono basta e lanciano un appello ai giornalisti, ai media. I primi cittadini di Lacco Ameno e Forio d’Ischia Giacomo Pascale e Francesco De Deo chiedono “silenzio e di smettere di fare sciacallaggio, quanto accaduto a Casamicciola non è colpa dell’abusivismo”. Perché “le vittime vivevano in zona bianca e la frana ha colpito per lo più una zona classificata come bianca: significa che si poteva costruire”, ha detto De Deo al termine del vertice del Centro coordinamento di soccorso a Casamicciola. Il sindaco ha comunque sollecitato: “Facciamo quello che dobbiamo fare e in fretta. Perché non è possibile che questa isola debba sprofondare per calamità naturali, prima il terremoto, poi l’alluvione, nel giro di 5 anni”.

Parole destinate a far discutere visto che da cinque giorni, dalle abbondanti precipitazioni tra venerdì e sabato che hanno causato la frana del monte Epomeo, si parla proprio di abusivismo. Cinque giorni di ricerche e si continua a scavare per trovare i dispersi, che sono ancora quattro. Otto i morti della strage. Le probabilità di trovare in vita i dispersi ridotte al lumicino. È una corsa contro il tempo: le previsioni anticipano abbondanti precipitazioni anche nei prossimi giorni. E le operazioni diventerebbero ancora più difficili.

Non sono escluse nuove evacuazioni, come anticipato dal prefetto di Napoli Claudio Palomba al vertice di ieri al Centro delle operazioni a Casamicciola. 280 al momento gli sfollati. Un decreto con aiuti alle aree colpite dovrebbe essere varato domani dal consiglio dei ministri. Le scuole resteranno chiuse fino a sabato. La Regione Campania intanto ha posto il veto sulla Commissaria prefettizia Simonetta Calcaterra, indicata dal governo come Commissario straordinario all’emergenza. Polemiche avevano scatenato le parole del ministro Pichetto Fratin sulle responsabilità degli amministratori: “Contro l’abusivismo edilizio basterebbe mettere in galera il sindaco e tutti quelli che lasciano fare perché i sindaci non devono lasciare costruire”.

Il fascicolo per disastro colposo al momento è contro ignoti. La Procura indaga sui progetti anti-dissesto avviati dopo la frana del 2009 e mai realizzati e sugli allarmi inascoltati lanciati tramite 23 mail con pec dall’ex sindaco di Casamicciola Giuseppe Conte. “Avevo scritto al prefetto di Napoli, al commissario prefettizio di Casamicciola, al sindaco Manfredi e alla Protezione Civile Campania. Nessuno mi ha risposto. A seguito dell’allerta meteo arancione, avevo segnalato il pericolo per la popolazione della zona e chiesto la loro evacuazione”.

L’ex sindaco segnalava la necessità di “intervenire immediatamente su tutti gli alvei” della città “onde evitare di correre il rischio che ci si possa trovare nuovamente di fronte a una situazione simile a quella dell’alluvione del 1910, quando morirono 15 persone a causa di un’alluvione”. Legambiente ha stimato che sono 600 le case abusive colpite da ordinanza definitiva di abbattimento. Le pratiche di condono presentate tramite le tre leggi nazionali ammontano invece a 27mila, di cui 8.530 istanze negli uffici tecnici del Comune, 3.506 a Casamicciola e 1.910 a Lacco Ameno.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

DISASTRO CASAMICCIOLA, IL SINDACO FRANCESCO DEL DEO: “BASTA FARE SCIACALLAGGIO PER CREARE ASCOLTI, LE CASE DELLE VITTIME ERANO SITUATE IN ZONA BIANCA”. Da nuvola.tv il 29 Novembre 2022

Lo sciacallaggio mediatico purtroppo è stato uno dei principali protagonisti di questo grave evento che ha colpito l’isola d’Ischia. Le testate giornalistiche nazionali, infatti, hanno definito la nostra isola “isola dell’abusivismo”. “E’ il momento del dolore, non è il momento per fare sciacallaggio. La stampa la smettesse di parlare di abusivismo solo per fare ascolti. Le case delle vittime erano situate in zona bianca, quindi, potevano essere costruite”, queste le parole di Del Deo.

GIACOMO PASCALE ATTACCA TRAVAGLIO E LA SUA VIGNETTA: “QUERELIAMO IL FATTO E TUTTI COLORO CHE CI RIEMPIONO DI FANGO”. Da nuvola.tv il 29 Novembre 2022

Questa mattina è stato diffuso sulle piattaforme web una vignetta realizzata da Mario Natangelo per il Fatto Quotidiano, testata nazionale diretta da Marco Travaglio. Una vignetta ritraente la lava di fango che sabato si è imbattuta su Casamicciola e la morte accompagnata dall’immancabile falce. Un’immagine del tutto fuoriluogo che non è passata inosservata. Ai nostri microfoni ha rilasciato una dichiarazione sull’argomento il sindaco di Lacco Ameno, Giacomo Pascale.

La polemica. La vignetta del Fatto sulla strage di Ischia e la rabbia del sindaco: “Offende chi sta spalando fango”. Redazione su Il Riformista il  29 Novembre 2022

“Questa vignetta è una vergogna inaudita che offende Ischia, offende i nostri morti, offende la gente che in queste ore sta spalando il fango che ha strappato le vite dei nostri concittadini. Insieme agli altri sindaci dell’isola abbiamo dato mandato ai legali per verificare se ci sono le condizioni per querelare il Fatto Quotidiano che oggi l’ha pubblicata”, afferma Giacomo Pascale, sindaco di Lacco Ameno, riferendosi alla vignetta pubblicata in prima pagina nell’edizione cartacea odierna del quotidiano.

Nel lavoro del disegnatore Natangelo si vede la morte con la falce in mano davanti ad uno scorcio di montagna fangosa con un cartello stradale che indica la località di Casamicciola Terme. Nel ‘baloon’, da una voce fuori campo: “Come mai di nuovo ad Ischia?” e la morte risponde: “Per i fanghi, come sempre”. Il lavoro del vignettista satirico ha destato scalpore sull’isola, dove in molti l’hanno ritenuta irriguardosa nei confronti delle vittime. Pascale ha annunciato inoltre di non volersi fermare solo ad una eventuale azione legale relativa a questo episodio: “Stiamo raccogliendo una rassegna stampa completa, non tollereremo sciacallaggi dei media ai danni della immagine della nostra isola che ci danneggino oltre il dramma che stiamo già vivendo in queste ore”.

“La satira termina quando 3 metri di fango seppelliscono il corpo di una creatura di 20 giorni – aggiunge Pascale su Facebook -. La satira deve far riflettere, si dirà. Bene, io davvero ci ho riflettuto e trovo questa vignetta offensiva. Offensiva verso chi ha perso i propri familiari, offensiva verso un’intera comunità, offensiva per i nostri morti. Ci penserà la Magistratura a ‘far riflettere’, a far luce sulle responsabilità. Ma fino a quel momento, pregherei di non giocare coi nostri nervi, che sono molto tesi”.

“Che la libertà di stampa non sia un paravento, dietro cui celare un’informazione alla ricerca di share: a costo di mettere in campo i migliori legali, non vi consentiremo più di monetizzare col sangue dei nostri cari, non vi consentiremo più di associare la nostra immagine a quella di un’isola criminale, non vi consentiremo più di fare vignette che ledono la dignità di un’isola che, di fatto, è stata la culla dell’Occidente. Ora basta.”, conclude il primo cittadino.

Sulla vicenda è intervenuto anche Marcello Lala, portavoce regionale della Campania di Italia viva: “Non è satira né cronaca. E’ soltanto un’offesa al dolore di una comunità, al dolore delle famiglie e al dolore dei parenti delle vittime”. “Il dolore non può mai essere ridicolizzato – aggiunge – soprattutto nel momento in cui le operazioni di soccorso, per estrarre altri corpi, sono tuttora in corso”.

ISCHIA. ALLUVIONE DI CASAMICCIOLA, AL CONDUTTORE GIUSEPPE BRINDISI: BASTA FALSITA’! DI ALDO PRESUTTI. Da Redazione il 28 Novembre 2022 su teleischia.com.

Aldo Presutti titolare dell’Hotel Solemar, interviene stigmatizzando il comportamento Giuseppe Brindisi, conduttore di Zona Bianca, nonchè di molte televisioni nazionali, per come viene affrontato l’argomento alluvione e soprattutto la tragedia che ha colpito Casamicciola Terme e l’isola d’Ischia.

Ecco la lettera aperta:

Come ormai accade sempre, la stampa, informazioni televisiva, ma in particolare i programmi come zona bianca condotta dal Sig. Brindisi, non sanno fare altro che dare delle informazioni errate in una circostanza drammatica come quella accaduta a Casamicciola Terme a Ischia.

The show must go on.

Parlare stupidamente che questa tragedia naturale, possa essere causa dell’abusivismo e pura follia e demagogia.

Inoltre parlare di 28 mila richieste di condono, come ci fossero 28 mila case costruite senza licenze e pura demagogia propagandistica.

Di questi 28 mila richieste in sanatoria, il 95% si tratta di piccoli lavori e modifiche alle case, come un allargamento di una finestra o altre piccole modifiche.

Inoltre il sistema politico e burocratico italiano in particolare nel mezzogiorno, non esiste un piano regolatore che consente modificare e migliorare case, alberghi e altro.

Noi italiani abbiamo due gravi difetti: mancanza del proprio amore per il nostro paese e parlarne male in giro.

Concludo: invito agli vari Sig.ri Brindisi e conduttori italiani, di smettere di usare drammi, per aumentare l’audience dei loro programmi.

Sono indignato e schifato di tale propaganda squallida.

Faccio i mie complimenti al Sindaco di Lacco Ameno Giacomo Pascale, che malgrado l’atteggiamento puerile e vigliacca di Brindisi ieri sera nel suo programma Zona Bianca e riuscito a mantenere la calma, cercando di fare chiarezza.

ISCHIA. ALLUVIONE CASAMICCIOLA. SANNINO: “SMETTETELA DI PARLARE DI ABUSIVISMO, ABBIATE RISPETTO PER LE VITTIME”.  Da Redazione il 28 Novembre 2022 su teleischia.com.

La notizia dell’alluvione a Casamicciola sta provocando molte reazioni, così sui social il cantante Andrea Sannino:

Nemmeno 24 ore da una tragedia, nemmeno il tempo di recuperare vittime,

uomini, donne, bambini, nemmeno il tempo rintrovarle tutte….

E voi cosa fate ?

Avete il barbaro coraggio di andare in Tv

su tutte le emittenti nazionali

a parlare …sempre e solo “parlare”

di abusivismo, di illegalità nell’edilizia

e bla bla bla..

In qualsiasi altra parte del mondo una montagna frana e si parla di calamità naturale accade ad Ischia ed è subito colpa degli ischitani?! Non dico nemmeno che non sia cosi, c’è abusivismo?

Ok! Ma vi sembra logico e opportuno parlarne quando ancora sotto al fango ci sono bambini.

Ma la prima cosa che dovreste fare, non sarebbe di precipitarvi li per aiutare a spalare o magari attivarvi per far si che arrivino subito aiuto e sostegno ??

Poi ricordate, che dove c’è abusivismo, c’è stato al 100% un politico che ha mangiato!!

e adesso andate in Tv a fare tutti i MORALISTI !!

E CHE CAVOLO!!! Io non sono di Ischia, ma non riesco a non schierarmi a favore di questa gente che vive un dramma e magari da ieri, se mai hanno avuto il tempo, vi vede in tv e si deve pure sentire in colpa senza alcun motivo !!!

PORTATE RISPETTO PER GLI ISCHITANI!!

RISPETTO PER ISCHIA!!

AVETE ROTTO LE SCATOLE,

TACETE …e FATE QUALCOSA !!!”

Nello Trocchia per editorialedomani.it l’1 Dicembre 2022.

Dopo la frana che ha colpito l'isola di Ischia c’è un sindaco che difende il suo territorio e, sui giornali e in televisione, si batte contro l’idea diffusa di addebitare ogni colpa dell’ennesima tragedia all’atavica e irrisolta questione dell’abusivismo edilizio.

«Quando ci sono tragedie al nord si parla di abusivismo? Stiamo parlando di un pezzo di montagna che si è staccato ed è arrivato a valle, una cosa mai vista», dice. Si chiama Giacomo Pascale e in famiglia ha avuto un problema: la casa della madre era abusiva e ha ottenuto, nel 2021, il permesso di costruire in sanatoria.

Da chi? Dal comune di Lacco Ameno, settore urbanistica ed edilizia, comune dove il figlio è sindaco. Il tutto rispettando le norme e le leggi vigenti.

«Se il ministro Gilberto Pichetto Fratin si riferisce a quanto accaduto a Casamicciola credo che non sappia di cosa stiamo parlando. Se il discorso è in generale faccia una legge che prevede l’arresto dei sindaci. Se pensa che così risolve il problema proceda subito», ha detto Pascale, nelle scorse ore, replicando al ministro dell’Ambiente che ha evocato le manette per i sindaci.

La storia di famiglia tiene dentro vent’anni di condoni e articoli inseriti in decreti, come quello Genova che risale al primo governo Conte, quello con Di Maio e Salvini a fare i burattinai dell’esecutivo.

La pratica della signora risale addirittura all’anno 2003, quando al governo c’era Silvio Berlusconi che regalava all’Italia il terzo condono, il primo lo aveva firmato l’amico Bettino Craxi e il secondo sempre lui, l’allora cavaliere di Arcore.

La madre dell’attuale sindaco richiedeva così la concessione edilizia in sanatoria proprio ai sensi della legge 326 del 2003, appena approvata, per gli interventi abusivi consistenti «nella realizzazione di un’unità immobiliare ad un livello destinata a uso residenziale», si legge nella pratica.

Una casa a un piano, a Lacco Ameno, e Di Costanzo faceva legittimamente richiesta secondo la legge che premiava gli abusivi del mattone.

La storia era ancora aperta, nel 2019, quando la proprietaria presentava a integrazione della domanda di condono edilizio un’autocertificazione ai sensi delle norme, regionali e nazionali, che si erano susseguite negli anni.

«Nel 2017 c’era stato un terremoto e la cosa era stata colpita dal sisma, mia madre è una terremotata», racconta il sindaco Pascale che non si sottrae alle domande.

Quell'area ricade nella zona dei vecchi centri urbani adiacenti ad aree di interesse ambientale, la pratica è stata accolta perché ha ottenuto nel 2019 dalla commissione locale per il paesaggio un parere favorevole perché non ostruisce punti panoramici.

L’autorizzazione, firmata dall’architetto Alessandro Dellegrottaglie, ripercorre le leggi in materia fino al decreto Genova, con l’articolo 25 nel quale vengono definite le istanze di condono «relativi agli immobili distrutti o danneggiati dal sisma del 21 agosto 2017», come la casa dei genitori del sindaco.

Nell’articolo c’era scritto che le procedure sono definite previo rilascio del parere favorevole da pare dell’autorità preposta alla tutela del vincolo paesaggistico. Un parere che è arrivato nel novembre 2019.

Così la storia si è chiusa, nel 2021, a distanza di 19 anni dalla richiesta di condono con tanto di pubblicazione del permesso nell’albo pretorio dell’ente.

Il comune è guidato da Giacomo Pascale dal 2015, riconfermato nel 2020 quando ha battuto un potente ras di Forza Italia, Domenico De Siano, ex coordinatore del partito azzurro in Campania e già deputato, oggi nel terzo polo renziano. Una volta vicini poi avversari.

«Il condono per mamma'», titolava il quotidiano dell’isola Il Dispari lo scorso anno raccontando la storia. Ma perché per gestire la pratica ci sono voluti 19 anni?

«Questa pratica di condono era assoggettata alla 326 (il condono del 2003) e non era stata esaminata nei tempi dovuti. È stata esaminata perché la casa è stata colpita dal sisma, dovrebbe entrare nel piano di ricostruzione, la pratica sarà valutata dalla struttura commissariale».

È servito l’articolo 25? «Sotto questo aspetto, sì, ma non si può dire che non sarebbe rientrata comunque», dice prima di difendere quella norma, fortemente attaccata dalle associazioni ambientaliste.

«È stata fatta perché quando abbiamo avuto il terremoto il 99 per cento del patrimonio edilizio poteva rientrare nelle tre leggi di condono, le cui pratiche erano ancora inevase. Il legislatore è intervenuto per fare rientrare i proprietari nello status di terremotato».

Proprio come la casa della madre del sindaco, ma quello era un abuso di necessità? «Dentro ci sono i sacrifici dei miei genitori, quella zona non ha vincoli. Una storia comune, comunque alla fine mia mamma ha pagato 50mila euro di oneri», conclude. E l’abuso non c’è più.

Gimmo Cuomo per corriere.it il 6 dicembre 2022.

È stato trovato il corpo della dodicesima vittima dell’alluvione di Ischia: il cadavere è stato recuperato dai vigili del fuoco nella zona del parcheggio del Rarone, ai piedi di via Celario, dove è confluita gran parte della frana staccatasi dal monte Epomeo. Il corpo è di Maria Teresa Arcamone. Gli ultimi tre corpi erano stati ritrovati il 1 dicembre. 

Funerali in forma privata

E intanto l’estremo saluto ai familiari vittime della frana avverrà senza la solennità del funerale pubblico. Un rifiuto che suona come uno schiaffo alle istituzioni che non hanno evitato il disastro. La decisione è maturata lunedì pomeriggio, nel corso di una riunione nella basilica di Santa Maddalena, la chiesa della zona di Casamicciola maggiormente colpita dalla frana.  

Il «Corriere del Mezzogiorno» aveva anticipato il «no» ai funerali di Stato da parte della signora Angela Senese, la cognata di Nicolinka Blagova, la donna bulgara che proprio qualche giorno prima della disgrazia aveva ricevuto la cittadinanza italiana. «Non vogliamo i funerali di Stato e soprattutto non vogliamo che i politici vengano in chiesa». Un messaggio chiarissimo.

Tre distinte cerimonie

Funerali dunque in forma privata, e ogni famiglia darà l’addio ai propri cari in un momento diverso. È la scelta dei familiari delle vittime della frana di Casamicciola: il primo rito funebre a essere celebrato, mercoledì a Lacco Ameno, sarà quello di Eleonora Sirabella e Salvatore Impagliazzo. Eleonora fu la prima delle persone sepolte dalla lava di fango ad essere ritrovata dai soccorritori, il giorno dopo l’alluvione. Per questo funerale i familiari hanno chiesto di proteggere il riserbo del proprio dolore non ammettendo cronisti e fotografi in chiesa. 

Il sindaco Pascale ha proclamato il lutto cittadino e ha chiesto ufficialmente agli organi di informazione di «tenere spente le telecamere e ai fotografi di non scattare foto, nel rispetto di quanti piangeranno i propri cari. Domani la professione deve cedere il passo al rispetto e al dolore di quanti hanno rifiutato i funerali di Stato proprio per stringersi in forma più ristretta».  

Si terranno sabato ad Ischia Porto le esequie di Gianluca Monti, della moglie Valentina e dei tre figli Francesco, Michele e Mariateresa. Venerdì invece si svolgeranno, sempre ad Ischia Porto, quelli di Maurizio Scotto Di Minico, della moglie Maria Giovanna Mazzella e del piccolo Giovanni (di appena 21 giorni). Tutte le cerimonie religiose saranno celebrate dal vescovo di Ischia e Pozzuoli, monsignor Gennaro Pascarella.

R-Ischia. Report Rai.PUNTATA DEL 05/12/2022 di Manuele Bonaccorsi 

Collaborazione di Federico Marconi

Frana a Ischia: vittime e dispersi. Disposto lo stato di emergenza.

Ischia 27 novembre: 12 morti. Politici e giornali hanno puntato il dito contro l’abusivismo che peró non sarebbe il vero vulnus di questa vicenda. La frana, che si è generata in un posto non edificato e si è scaricata sulle abitazioni di via Celario nel comune di Casamicciola, ha investito alcune case abusive ma regolari: in base alle carte non si trovavano in una zona a rischio idrogeologico. Quanto sono attendibili questi documenti?

R-ISCHIA Di Manuele Bonaccorsi Collaborazione Federico Marconi Immagini Carlos Dias Montaggio Riccardo Zoffoli

VOLONTARIO È l’inferno sotto, è l’inferno. Noi dovremmo essere più coscienziosi del territorio dove cui viviamo, dobbiamo cercare di capire il nostro territorio, come gli animali.

VOLONTARIO Sono le prime terme di Ischia, sotto Fernandino II.

MANUELE BONACCORSI È una struttura antica, vedo.

PROPRIETARIO TERME Antichissima, 1854, i primi stabilimenti a nascere sull’isola. Sorti su una sorgente che è al piano di sotto.

MANUELE BONACCORSI Quale epoca?

PROPRIETARIO TERME Epoca Borbonica. Re Ferdinando II, è venuta giù questa valanga di fango, acqua, pietre e ha inondato tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’isola votata come la più bella al mondo quest’anno ne esce sfregiata. Ecco, politici e giornali hanno puntato il dito contro l’abusivismo. Il ministro dell'Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha dichiarato che avrebbe voluto il carcere per «i sindaci e chi lascia costruire». Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, gli ha risposto. «Io i sindaci li vorrei proteggere e liberare dalla burocrazia». Ha risposto anche in modo molto ruvido l'Anci, l'associazione dei comuni, che ha definito «di una volgarità inaccettabile – le parole del ministro - e che denotano una grave ignoranza dell’argomento». Sulle responsabilità istituzionali invece è intervenuto con tweet il sentare Matteo Renzi, ha ricordato il condono contenuto nel "Decreto Genova", ha risposto però l’ex premier Giuseppe Conte, ha detto che il “Decreto Genova” non contiene alcuno condono, semmai c’erano delle regole per snellire le procedure per quelle 27mila richieste fatte, presentate in occasione dei veri condoni:1985 legge Craxi-Nicolazzi, 1994 governo Berlusconi, 2003 ancora governo Berlusconi. Ecco, quelle regole avrebbero consentito a chi aveva fatto richiesta, una volta ottenuto il condono di poter accedere ai fondi per la ricostruzione post terremoto del 2017. Ora la notizia è che l’abusivismo, seppur bruttissima cosa, in questa vicenda non c’entra. La frana si è staccata dal monte in un punto dove non si era edificato, e si è scaraventata su un centro abitato, quello di Casamicciola, del comune di Casamicciola, in via Celario dove sostanzialmente c’erano delle abitazioni abusive sì, ma anche quelle regolari, in una zona dove le mappe escludevano rischio idrogeologico e il rischio di frana. Ma quelle mappe erano attendibili? Il nostro Manuele Bonaccorsi.

MANUELE BONACCORSI FUORI Il fiume di argilla che ha invaso Casamicciola viene dall’alto. Il 26 novembre, in seguito a una forte pioggia, a 650 metri di altezza un pezzo del monte Epomeo si stacca dalla cima e cade verso il basso a grande velocità. Decine di migliaia di metri cubi di fango precipitano su un gruppo di case a via Celario, nella zona superiore del paese. Sono le cinque del mattino. Per gli abitanti non c’è scampo.

MANUELE BONACCORSI Lei, un geologo?

GEOLOGO ANONIMO Sono un volontario dell’ordine dei geologi.

MANUELE BONACCORSI Questa roba qui la doveva capire il piano di assetto idrogeologico, ho capito bene?

GEOLOGO ANONIMO Sì.

MANUELE BONACCORSI E che diceva su queste zone qui?

GEOLOGO ANONIMO Vedi le carte e capisci, io non ti posso dire niente.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO I piani di assetto idrogeologico sono i documenti che mappano il rischio frana di tutto il Paese. Redatti dopo la tragedia di Sarno del 1998, quando l’Italia si accorse di quanto fosse grave il rischio idrogeologico, il loro aggiornamento è curato dalle Autorità di Bacino.

MANUELE BONACCORSI Il vostro Comune era a conoscenza che le zone quelle dove la frana, la furia della frana, ha sbriciolato le case, era una zona a rischio dal punto di vista idrogeologico?

GIOVAN BATTISTA CASTAGNA - SINDACO CASAMICCIOLA TERME 2014-2022 No, perché in sostanza la prima zona colpita dove c'erano le prime abitazioni, è zona bianca, quindi non porta nessun rischio idrogeologico. Quello che sta a monte, a 650 metri, sì.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Questa è la mappa di Ischia. L’intero monte Epomeo è zona rossa, rischio massimo. Il quartiere di via Celario, quello distrutto dalla frana che si trova subito sotto la montagna, è di colore bianco. Nessun rischio.

MANUELE BONACCORSI Come si spiega questa cosa qui?

GIOVAN BATTISTA CASTAGNA - SINDACO CASAMICCIOLA TERME 2014-2022 È chiaro che oggi con l'accaduto si mette tutto in discussione.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Enzo Di Noto, geometra da vent’anni lavora nell’ufficio tecnico del comune di Casamicciola.

MANUELE BONACCORSI Questi immobili che sono venuti giù erano regolari o no?

ENZO DI NOTO - GEOMETRA COMUNE CASAMICCIOLA TERME Erano regolari perché hanno l'istanza di condono. Il fabbricato nello specifico del povero Monti Gianluca, è un fabbricato oggetto di 724, secondo condono. Le mappe che noi abbiamo, gli strumenti che ci hanno dato in mano sono quelle che ci dicono che là è zona bianca.

MANUELE BONACCORSI Quello era un immobile che avrebbe raggiunto la sanatoria?

ENZO DI NOTO - GEOMETRA COMUNE CASAMICCIOLA TERME Per come stanno i piani sì. Però le dico anche un'altra cosa. Sono stati sono state fatte molte richieste di definizione di fabbricati che ricadono a vincolo idrogeologico. Noi in ufficio li teniamo tutti fermi. Non è stato rilasciato nessuno a vincolo idrogeologico.

MANUELE BONACCORSI Se il piano del rischio idrogeologico avesse messo quegli appartamenti in zona rossa, sarebbero stati gli appartamenti sicuramente a demolire?

GIOVAN BATTISTA CASTAGNA - SINDACO DI CASAMICCIOLA TERME 2014 - 2022 Sicuramente da demolire, cioè che non potevano appunto essere legittimati.

MANUELE BONACCORSI C'erano decreti di abbattimento che riguardavano quella zona?

ENZO DI NOTO - GEOMETRA COMUNE CASAMICCIOLA TERME Ce n'è stato uno in linea d'aria distante un centinaio di metri, che è stato demolito dalla Procura. Non ricordo bene due o tre anni fa.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO I livelli di rischio indicati nel Piano di assetto idrogeologico sono molto importanti: definiscono le zone in cui si può costruire oppure no. Le case abusive che possono essere sanate e quelle che invece dovrebbero essere invece abbattute. E sulla base del Piano si definiscono anche gli interventi di messa in sicurezza del territorio. A Casamicciola erano previste opere di mitigazione del rischio per oltre 4 milioni di euro.

MANUELE BONACCORSI Questi lavori erano stati finanziati molti anni fa, ma ancora non erano stati appaltati o sono stati appaltati molto recentemente. Se questi lavori fossero stati fatti speditamente questa frana sarebbe stata meno grave?

GIOVAN BATTISTA CASTAGNA - SINDACO CASAMICCIOLA TERME 2014-2022 No, assolutamente no. Riguardava tutta un'altra zona che non certamente era la zona Celati dove si è originata appunto la frana.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO A gestire il Piano di assetto idrogeologico sono le autorità di bacino, enti pubblici sottoposti al ministero dell’Ambiente. La zona di Ischia dipende dal Distretto dell’appennino meridionale, diretto dalla geologa Vera Corbelli.

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE Allora quel piano è stato redatto nel 2002.

MANUELE BONACCORSI Mi perdoni, scusi, quindi vuol dire il piano di Ischia in questo momento risale al 2002, a vent’anni fa.

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE No, è stato aggiornato scusi.. forse non … 2010, 2010.

MANUELE BONACCORSI Senza modificazioni particolari, a quanto mi hanno detto.

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE No, alcune modificazioni ci sono state.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Con l’aiuto di un tecnico abbiamo verificato le diverse versioni delle mappe riguardanti Ischia. Dopo quella del 2002 e l’aggiornamento del 2010 ne è stata rilasciata un’altra nel 2015. Sono tutte perfettamente identiche. Gli aggiornamenti, secondo le relazioni di accompagnamento, sono avvenuti “senza il ricorso a nuove indagini di campo”

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE Con le valutazioni che furono fatte all’epoca, risultavano zone che non erano, non potevano essere invase da flusso. Io ho cercato di capire anche chi ha elaborato quel piano, persone preparate. E l’hanno fatto con metodi geologico, geomorfologico, scientificamente basate.

MANUELE BONACCORSI Ma in questi vent’anni c’è un geologo, un tecnico, un esperto che è salito in quella montagna a verificare che le condizioni erano rimaste uguali, o se qualcosa si era modificato e quindi era il caso di modificare la mappa?

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE Allora dottore, lei pensi quanti territori abbiamo in Italia con quella pericolosità e rischio. Vede quanti tecnici di cui sono dotati le autorità di bacino e anche le Regioni? Bene, qua bisogna fare uno sforzo in più. MANUELE BONACCORSI Quanto personale lei è in grado di muovere per andare a verificare i costoni di montagna, come quello del monte Epomeo, che in tutto il sud d’Italia potrebbero franare con le piogge da un momento all’altro? Quanti? Il numero.

VERA CORBELLI - SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE Noi di tecnici che fanno rilievi geologici ne abbiamo circa 70.

MANUELE BONACCORSI 70 per quanti chilometri quadrati di territorio di territorio da controllare?

VERA CORBELLI, SEGRETARIA AUTORITA’ DI BACINO DISTRETTUALE DELL’APPENNINO MERIDIONALE 68mila km quadrati, quindi parecchi.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Ogni tecnico dovrebbe quindi controllare circa 1000 km quadrati. Ma il problema è che negli ultimi anni le conoscenze scientifiche e gli strumenti tecnologici si sono evoluti, mentre i piani di assetto idrogeologico sono rimasti gli stessi.

VITTORIO BOVOLIN – DIPARTIMENTO INGEGNERIA CIVILE UNIVERSITA’ DI SALERNO Chi ha realizzato queste carte le ha fatte con l'idea che poi ci sarebbe stato un secondo e un terzo passo.

MANUELE BONACCORSI cioè continuare ad approfondire, a studiare il territorio?

VITTORIO BOVOLIN – DIPARTIMENTO INGEGNERIA CIVILE UNIVERSITA’ DI SALERNO Assolutamente. È un piano dinamico, deve essere continuamente aggiornato Se la domanda è: ma queste carte sono adeguate? La mia risposta è: sì, sono adeguate per il momento e le conoscenze con cui sono state redatte.

MANUELE BONACCORSI Sono carte adeguate per il 2002 e non per il 2022.

VITTORIO BOVOLIN – DIPARTIMENTO INGEGNERIA CIVILE UNIVERSITA’ DI SALERNO Non hanno tenuto conto di tutti gli approfondimenti scientifici.

MANUELE BONACCORSI FUORI CAMPO Il problema è che queste vecchie mappe sono confluite in quelle del commissario Giovanni Legnini, ex deputato, ex sottosegretario del governo Renzi, ed ex vicepresidente del Csm e commissario per la ricostruzione dopo il sisma di Ischia del 2017. Aveva preparato un piano di ricostruzione, che prevedeva anche la demolizione delle case giudicate a rischio. Il piano è ancora inedito, ma noi siamo riusciti a ottenere una bozza datata 11 novembre 2022. Legnini conosce bene il territorio, per questo il primo dicembre è stato nominato anche commissario di governo per la frana.

MANUELE BONACCORSI Come può essere che nel Piano di ricostruzione la zona di via Celario risultava bianca, tranquilla, non a rischio.

GIOVANNI LEGNINI – COMMISSARIO DELEGATO DI GOVERNO PER LA FRANA DI ISCHIA Quello non è il piano di ricostruzione, quella è la carta del Pai.

MANUELE BONACCORSI Anche nel piano di ricostruzione…

GIOVANNI LEGNINI – COMMISSARIO DELEGATO DI GOVERNO PER LA FRANA DI ISCHIA Ma il piano di ricostruzione si basa sulla carta del Pai.

MANUELE BONACCORSI Quindi è il piano di assetto idrogeologico il baco di questa situazione qui, la parte che non ha funzionato.

GIOVANNI LEGNINI – COMMISSARIO DELEGATO DI GOVERNO PER LA FRANA DI ISCHIA Non so se definirla così. È chiaro che gli studi geologici disposti dalla Regione per la redazione del piano, si basano, partono da quelle carte lì. L’ingegner Loffredo, le spiega con precisione tutto.

MANUELE BONACCORSI Però a ragion veduta, questo era un errore, lei che ne pensa da tecnico?

GIANLUCA LOFFREDO – SUBCOMMISSARIO STRAORDINARIO RICOSTRUZIONE SISMA 2016 Bisognerà approfondire.

MANUELE BONACCORSI Dopo quello che è successo voi il piano lo dovrete modificare?

GIANLUCA LOFFREDO – SUBCOMMISSARIO STRAORDINARIO RICOSTRUZIONE SISMA 2016 Vabbe’ questa è una bozza, è evidente, ci sarà uno studio da fare approfondito. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Italia ci si muove sempre solo dopo le tragedie. È successo anche dopo Sarno 1998, dove sono morte 160 persone. Il giorno dopo si è corsi a redigere i piani di assetto geologico, ma sono state fatti con mezzi poveri, mezzi di allora, senza rilevazioni satellitari, e per mancanza di risorse non vengono neppure aggiornati neppure difronte a eventi atmosferici sempre più violenti, neppure per quelle zone considerate a rischio come Ischia. Insomma, lì è stato aggiornato nel 2010 però insomma mettendo insieme le mappe si vede che sono simili a quelle precedenti del 2002, non vorrei che avessero fatto come il piano pandemico sul mancato aggiornamento. Fatto sta che su quelle carte quella zona dove si è staccata la frana, è precipitata la frana è considerata zona bianca, non a rischio idrogeologico, mentre il monte dove si è staccata è zona rossa. Ecco questa anomalia emerge anche dalle carte che sono in possesso del commissario Legnini, che è stato incaricato dopo il terremoto del 2017, di ricostruire e di abbattere le case a rischio. Quelle case dove si è abbattuta la frana, non erano considerate a rischio l’abbiamo visto dalle carte che ha recuperato il nostro Manuele Bonaccorsi. Ora Legnini ha detto probabilmente modificheremo le mappe, sono errate. Ma oramai è tardi, ora non ci rimane che due possibilità. O continuare lo sterile cinguettio o mettere in atto delle soluzioni per salvare vite umane, ci sarebbero 774 abitazioni che sono in zone considerate a rischio, da abbattere. Ma qualcuno avrà il coraggio di farlo?

Uski Audino per “La Stampa” il 29 novembre 2022.

Tra chi piange per la tragedia di Ischia c'è anche un'affezionata frequentatrice, l'ex cancelliera Angela Merkel. «È con grande sgomento che seguo le notizie del disastro del maltempo e delle relative frane a Ischia» ha reso noto in una dichiarazione pubblicata sulle pagine del suo sito ufficiale l'ex cancelliera. 

«Conosco bene l'isola, mi sono affezionata a lei e alla sua gente. Sono in lutto con loro per le vittime e il mio pensiero va alle famiglie, a tutte le persone colpite dal disastro e ai soccorritori» ha aggiunto la cancelliera che per decenni ha frequentato l'isola insieme al marito Joachim Sauer.

La coppia per anni è stata ospite fissa durante le vacanze di Pasqua dell'Hotel Miramare di Sant' Angelo a Ischia. Amante delle acque termali e delle passeggiate nella natura del monte Epomeo, Merkel ha sempre difeso la sua privacy confondendosi tra i turisti, con scarpe da trekking e anonime giacche a vento. 

Da qualche giorno invece, dopo mesi di ritrovato e agognato anonimato, Merkel è tornata nel cono di luce della pubblica opinione. Nel corso di un'intervista a Spiegel - che sta facendo discutere - la cancelliera sostiene di aver intuito la pericolosità di Vladimir Putin già a giugno del 2021 e di aver tentato di intervenire senza averne più avuto la forza «perché tutti sapevano che me ne sarei andata in autunno». 

Nell'ultima visita al Cremlino, Putin le ha fatto capire con chiarezza di non ritenerla più un'interlocutrice. «Per Putin conta soltanto il potere», chiosa Merkel. Ieri dalle pagine di Bild le ha risposto seccato il consigliere di Zelensky, Mykhailo Podolyak: «Perché dice solo a fine cancellierato che Putin capisce solo il potere? Non era chiaro?».

Demagogia fa molti più danni...Frana a Ischia, se succede in Germania è disastro ambientale se succede in Italia è colpa dell’abusivismo. Paolo Liguori su Il Riformista il 29 Novembre 2022

Siamo un Paese condannato dalla demagogia, dal populismo, dalle frasi fatte e dal puntare l’indice sempre sugli altri. Qualche anno fa in Germania c’è stata un’alluvione spaventosa con oltre duecento morti, la colpa di quell’alluvione era il riscaldamento climatico. A Ischia è avvenuto uno dei tanti dissesti idrogeologici ma la colpa è l’abusivismo!

E poi bisogna cercare i responsabili dei condoni. Si affastellano così l’una sull’altra, le indicazioni di colpevolezza e di responsabilità. Alla fine tutti siamo responsabili, nessuno escluso. Ma soprattutto da un’incuria territoriale su cui noi non c’entriamo perché è dai tempi degli antichi romani che si costruisce su zone vulcaniche e a rischio geologico. Qualcuno avrebbe il coraggio di abbatterle? Si, c’è l’abusivismo storico.

Poi c’è il discorso della speculazione degli abusi e dei condoni, una balla tra le più demagogiche e le più clamorose. Il problema vero del condono non è che si fa il condono ma che ci sono migliaia di pratiche ferme che nessuno ha il coraggio di deliberare distinguendo tra quelli stupidi e quelli gravi che non si dovrebbero fare. I condoni per pollai, stie, pensiline, piccole terrazze restano affastellate perché i funzionari hanno paura di assumersi la responsabilità di firmare e sottoscrivere il condono.

La televisione fa vedere le case sospese nel vuoto e quelle case crollate a Ischia. Se non ci fosse stato il condono qualcuno sarebbe andato ad abbatterle? Qualcuno sarebbe andato con le ruspe? (Cosa che non hanno fatto neppure con i Casamonica a Roma), oppure mi chiedo: Forse non sarebbero crollate se non fossero state condonate? Questa discussione ex post, fatta a buoi già scappati, serve solo a fare politica, a scaricare le responsabilità e fare una grande demagogia.

In Germania è il riscaldamento climatico, in Italia l’abusivismo. Da noi non sono le emissioni a produrre il riscaldamento – produciamo sempre meno -, sono il terreno vulcanico, il terreno franoso. Non bisognerebbe costruirci, certo, ma qualcuno vuole abbattere tutto quello che è costruito? Nessuno avrebbe il coraggio di farlo. Allora dicono ‘arrestate i sindaci’, e perché non i segretari comunali o i vigili? Questa è la demagogia italiana che fa molti più danni dell’abusivismo (presunto o vero), delle frane, degli smottamenti e dei terremoti. Paolo Liguori

Da iltempo.it il 5 dicembre 2022.

“L’abusivismo, pur se brutta cosa, non c’entra con la frana e i morti”. Ad occuparsi della frana di Ischia è il programma Report, condotto da Sigfrido Ranucci, che nell’edizione del 5 dicembre approfondisce le cause che hanno portato alla tragedia per la quale c’è ancora una donna dispersa oltre ad undici morti: “La frana si è schiantata su una zona dove oltre a quelle abusive c’erano anche case regolari e che era considerata zona bianca secondo i Piani di Assetto Idrogeologico. Ora la notizia è proprio questa, come mai era considerata zona bianca e cosa ha comportato?”.

 “Le mappe per i piani di assetto idrogeologico, realizzate dopo la tragedia di Sarno del 1998, dove sono morte 160 persone, sono state fatte nel 2002 ma andavano aggiornate - si osserva nel corso della trasmissione di Rai3 - Anche in virtù del territorio notoriamente a rischio e soprattutto perché negli anni gli eventi atmosferici sono cambiati e diventati più violenti. Ufficialmente, le mappe di Ischia sarebbero state aggiornate nel 2010 e poi ancora nel 2015, ma abbiamo capito che sono sostanzialmente la fotocopia di quelle vecchie. Nessuno è andato a verificare con strumenti adeguati la zona”.

La denuncia di Ranucci prosegue: «Si tratta di un ‘copia e incolla’ come per il piano pandemico sul Covid... Ora, il problema è che quelle mappe sono confluite nelle carte di Giovanni Legnini, nominato nel 2017 commissario per la ricostruzione del terremoto di Ischia”. Report ha potuto vedere le abitazioni distrutte dalla frana, che erano considerate sicure: “Se quelle di Casamicciola sono giudicate sicure, perché lo indicavano le mappe, ce ne sarebbero 774 da abbattere perché collocate in zone a rischio. Ma visto che ora si sono resi conto che le mappe potrebbero essere non corrette perché realizzate 20 anni fa, con strumenti inadeguati, è probabile che le rivedranno, così almeno dice lo staff di Legnini. Ma come si fa allora a procedere all’abbattimento delle case a rischio? Oltre a cinguettare sui social avranno il coraggio di farlo?”.

Giulia Merlo per editorialedomani.it il 5 dicembre 2022.

La frana di Ischia, non si è schiantata solo su edifici abusivi, ma anche su case edificate regolarmente in un’area che era contrassegnata come bianca per il rischio idrogeologico, secondo il Piano di assetto idrogeologico (Pai), una mappatura che non è stata più aggiornata dal 2015 e che è confluita anche nel piano per la ricostruzione del terremoto. 

Da qui parte la puntata di Report di oggi su Rai3 alle ore 21.30, nella quale Manuele Bonaccorsi ha indagato se davvero fosse imprevedibile non tanto la frana, quanto la distruzione delle case costruite in quel punto.

All’origine di ogni valutazione, ha verificato Report, ci sono le mappe per il piano di assetto idrogeologico. L’interrogativo, quindi, è come e quando siano state redatte. E, alla luce di quanto è successo, le mappe che vengono oggi utilizzate in tutta Italia per i pericoli idrogeologici sono da considerarsi attendibili?

I piani di assetto idrogeologico, realizzati dopo la tragedia di Sarno del 1998 che è costata la vita a 160 persone, mappano il rischio frana di tutto il Paese e il loro aggiornamento è curato dalle autorità di Bacino. Le mappe definiscono i livelli di rischio: le zone in cui si può costruire perchè non rischiose oppure no; le case abusive che possono essere sanate perchè non si trovano in punti del territorio pericolosi dal punto di vista idrogeologico e quelle che invece dovrebbero essere abbattute perchè si trovano nelle cosiddette zone rosse, dove il rischio di catastrofi come quella di Ischia è altissimo.

Queste mappe risalgono al 2002 e sono state aggiornate nel 2010 e di nuovo ancora nel 2015, ma l’aggiornamento specifica che non ci sono «nuovi rilevamenti sul campo». E avrebbero dovuto essere aggiornate di nuovo, visto che il territorio di Ischia e non solo è notoriamente a rischio. 

Formalmente, secondo Report che ha potuto visionare in esclusiva le carte, il piano aggiornato nel 2010 sarebbe, in buona sostanza, una fotocopia di quello precedente: nessuno si sarebbe preoccupato di verificare con strumentazione adeguata come i cambiamenti climatici hanno impattato sulla zona, modificando le condizioni di rischio. Infatti, i piani nazionali non sarebbero stati aggiornati con rilevazioni da effettuare con le nuove tecnologie disponibili e più accurate nella valutazione dei rischi. Per quanto riguarda Ischia, le mappe aggiornate nel 2010 e visionate da Report avrebbero solo poche modifiche per quel che riguarda l’isola e nessuna che riguardi la zona di Casamicciola.

Report ha intervistato Vera Corbelli, direttrice dell'Autorità di Bacino distrettuale dell'Appennino meridionale, che ha competenza sul Piano. Corbelli ha ammesso le difficoltà da parte dell'autorità che guida ad aggiornare le mappe: il Distretto meridionale, copre dal basso Lazio alla punta della Calabria e ha a disposizione soltanto 70 geologi per un territorio di 68 mila chilometri quadrati. Un geologo ogni mille chilometri quadrati.

Il piano di assetto idrogeologico è stato copia-incollato anche nel piano di ricostruzione redatto da Giovanni Legnini, ex vicepresidente del Csm e sottosegretario del governo Renzi, commissario per la ricostruzione dopo il terremoto sull’isola del 2017 e ora per la frana di Ischia. Report si è procurato una bozza inedita dell’11 novembre 2022, che definisce quali immobili di Casamicciola vanno ricostruiti e quali no. Questo piano mostra che la zona di via Celario, dove sono morte le persone nella frana della scorsa settimana, era ritenuta zona bianca anche dal Piano di Ricostruzione redatto dalla Regione Campania e in fase di approvazione da parte di Legnini. Il commissario, intervistato da Report, ha specificato che «il piano di ricostruzione si basa sul piano di assetto idrogeologico»  e che serviranno nuovi rilievi per modificare la mappa del rischio.

L’anomalia sulle mappe individuata da Report, quindi, chiarisce quale potrebbe essere il cortocircuito: continuando a utilizzare il piano di assetto idrogeologico attuale anche per il piano di ricostruzione, si imporrebbe l’abbattimento di molte abitazioni abusive, ma probabilmente non si tratterebbe di quelle che oggi davvero si trovano in zone ad alta pericolosità. Con il risultato che, pur facendo opera di eliminazione degli edifici non costruiti secondo le regole e nei luoghi in cui l’edificazione è permessa, non si eviterebbero comunque nuove tragedie come quella della settimana scorsa. «Per ora c’è solo una bozza, ci sarà da fare uno studio approfondito», ha ammesso alle telecamere di Report l’ingegner Loffredi, che fa parte della struttura di Legnini come commissario del governo.

Barbara Gerosa per milano.corriere.it il 9 dicembre 2022.

Una frana di grosse dimensioni si è staccata nel primo pomeriggio di venerdì in provincia di Lecco. Dal Pizzo d’Erna e si è riversata sulla carreggiata della nuova Lecco-Ballabio, la diramazione della superstrada 36 che porta in Valsassina. I macigni hanno colpito un furgoncino andato completamente distrutto. Il materiale roccioso ha ostruito l’ingresso della galleria Giulia, all’altezza di Versasio. Sul posto i vigili del fuoco e il personale sanitario. La circolazione è stata interrotta in entrambi i sensi di marcia. 

Le due persone a bordo del furgoncino sono riuscite a uscire autonomamente dai finestrini, miracolosamente illese. Si tratta di due fruttivendoli, zio e nipote di 66 e 24 anni, di Introbio (Lecco). Sotto choc, sono stati presi in consegna dagli operatori sanitari del 118 e accompagnati al pronto soccorso all'ospedale Manzoni di Lecco. Non hanno ferite. Ai soccorritori hanno detto: «Siamo vivi per miracolo».

Trombe d'aria e maremoti. Il maltempo senza tregua mette in ginocchio il Sud. Frane in Puglia e Calabria, via all'unità di crisi. Curcio: Italia fragile. Onde anomale a Stromboli. Tiziana Paolocci il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Nubifragi, bombe d'acqua, trombe d'aria e neve. L'Italia anche ieri ha vissuto una domenica di maltempo, particolarmente severa al sud. Il capo della Protezione civile Curcio ieri mattina ha riunito l'unità di crisi. «Una notte intensa per piogge che sono cadute nel Catanzarese, nel Messinese e parte della Puglia - ha detto Curcio -. La situazione attuale è lo specchio di un Paese fragile. La perturbazione ha lasciato il Sud del Paese. Ma potrebbero arrivare perturbazioni sulla parte tirrenica a Nord».

Questo weekend di pioggia ha causato diversi problemi. Sabato notte un violento acquazzone si è abbattuto sul Catanzarese, soprattutto sulla fascia ionica. La pioggia intensa ha provocato l'allagamento di strade e scantinati. In località Martelletto è esondato il fiume Fallachello e i vigili del fuoco hanno avuto un bel da far per aiutare i cittadini bloccati in casa e nelle auto. Il sindaco di Catanzaro ha annunciato che chiederà lo stato di calamità. «È stata una notte di grande trepidazione e angoscia - ha detto il sindaco -. La bomba d'acqua che ha colpito la nostra città non era stata prevista da nessun bollettino meteorologico e non era stata preceduta da nessuna allerta». Una cinquantina nel pomeriggio le abitazioni allagate nel comune di Cutro a causa dell'esondazione del fiume Tacina che scorre al confine tra le province di Crotone e Catanzaro. Sei nuclei familiari sono stati evacuati e ospitati in un ostello. I cittadini di Steccato di Cutro in alcuni casi hanno dovuto utilizzare delle barche per poter raggiungere le case e soccorrere le persone che vi erano bloccate all'interno. Il sindaco di Capo Rizzuto, colpito nella notte da una tromba d'aria, ieri ha invitato i cittadini a non uscire di casa e a stare lontani da tetti e pali dell'illuminazione pubblica. Diverse anche le auto trascinate via dall'acqua. Un vecchio traliccio dell'energia elettrica si è abbattuto su un'abitazione in località Le Cannella sfondando il tetto e finendo nel bagno di una casa.

A Simeri Crichi, le squadre hanno aiutato una donna travolta dall'acqua all'interno della sua abitazione. Preoccupante anche la situazione nel Salento, dove è stata diramata l'allerta arancione. I comuni maggiormente colpiti sono stati quelli di Ugento, Lequile, San Pietro in Lama, Carmiano e Novoli, dove si è staccata la copertura impermeabilizzante del lastricato solare di una Rsa. Una tromba d'aria ha causato diversi danni anche in provincia di Lecce, dove gli alberi sono crollati su case e auto in sosta. Anche la linea ferroviaria regionale è stata danneggiata: sospesi i collegamenti tra Catanzaro lido e Crotone e tra Catanzaro lido e Lamezia Terme mentre a Simeri Crichi diversi metri di rete ferroviaria risultano appesi nel vuoto.

A Napoli nella notte c'è stata una forte grandinata e i parchi cittadini sono rimasti chiusi mentre a Roma sabato la pioggia non si è fermata un attimo. A Ischia, invece, è stata un'altra notte fuori casa per gli sfollati, ma si cerca di tornare alla normalità. Riprenderanno oggi le lezioni per la scuola dell'infanzia, la primaria e per le scuole medie di cinque comuni di Ischia ad esclusione di Casamicciola. Mercoledì, invece, riprenderanno anche quelle degli istituti superiori di tutti i comuni mentre per Casamicciola si saprà oggi. Il Messinese, invece, ha dovuto dare la conta dei danni, per i torrenti tracimati sabato. Gli acquazzoni avevano preso in ostaggio molte famiglie, allagando case e cantine. I problemi più seri a Milazzo, Terme Vigliatore e Barcellona Pozzo di Gotto, dove i vigili del fuoco hanno lavorato anche ieri insieme alla Protezione civile regionale, e hanno potuto contare su pompe idrovore e mezzi, provenienti da Palermo, Caltanissetta, Enna e Catania. Sono crollati anche muri e porzioni di strade. Qualcuno è rimasto bloccato anche in auto e in un centro commerciale. A Milazzo il sindaco Pippo Midili parla di danni per almeno un milione di euro. «Non ci sono vittime, ma una famiglia è stata sfollata perché è crollato il tetto dell'abitazione - ha sottolineato -. Un'altra donna è stata salvata: era uscita dalla sua auto ma era rimasta bloccata per oltre un'ora in mezzo nell'acqua». Infine ieri pomeriggio due frane di lava sulla Sciara del Fuoco a Stromboli sono cadute in mare, sollevando le onde e provocando uno tsunami di circa un metro e mezzo. Immediatamente sono suonate le sirene d'allarme e non vi sono danni o feriti.

Senise come Ischia, Lucia salva per miracolo dalla frana che cancellò la sua famiglia. L’eco della devastazione di Ischia riaccende in lei il ricordo del crollo di un intero rione nel 1986. Mariapaola Vergallito su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Dicembre 2022

È un terribile gioco del destino quello in cui moltissimi elementi della tragedia di Ischia appaiono come l’esatta fotocopia di quella che sconvolse Senise, con la frana di collina Timpone. In entrambi i casi la terra è scivolata a valle all’alba, il 26 del mese (a Senise era il luglio del 1986); la storia del cane che cerca disperatamente la sua famiglia che non tornerà più (ad Ischia un lupetto bianco finito chissà come nell’auto e a Senise il cane color sabbia che vagava sulla terra arida sotto il sole di quell’estate). Su tutto, però, le vittime: tra le otto di Senise c’erano tre fratelli e una neonata. Come a Ischia. Giovan Giuseppe (21 giorni) come Francesca (32 giorni). Le vittime più piccole. «Ho pensato subito a quello che è accaduto a noi. Sinceramente non sono riuscita a guardare le immagini in televisione, perché erano le stesse che ho rivisto, anni dopo, nei filmati che raccontavano la frana di Senise. Troppo dolore».

A parlare è Lucia Formica, la più piccola tra i sopravvissuti del terribile smottamento lucano. Aveva 4 anni e sopravvisse miracolosamente assieme ai cuginetti, i fratellini Gianni e Francesco. Perirono i loro genitori, i tre fratellini Durante Maria, Maddalena e Giuseppe. E Francesca, appunto, la sorellina di Lucia. La raggiungiamo a casa sua e...

DISSESTO IDROGEOLOGICO. Potenza, la frana cade sulla Statale 18 e finisce sulla spiaggia di Castrocucco. Paura ma nessun ferito. Il governatore Bardi: «Il mio impegno per la comunità di Maratea. Salvini in contatto con l'Anas. L'assessore alle Infrastrutture: «Domani in Regione il tavolo emergenziale». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Novembre 2022.

MARATEA (Potenza) L’assessore regionale della Basilicata alle Infrastrutture, Donatella Merra, ha convocato per domani mattina, alle ore 9.30, un tavolo emergenziale «per valutare i danni e le immediate misure di contenimento da assumere dopo la frana che ha colpito Maratea nelle prime ore di questa mattina, provocando la caduta a valle dei detriti sulla strada statale 18 sino alla spiaggia».

Lo ha reso noto l’ufficio stampa della giunta lucana, specificando che al tavolo, che si riunirà negli uffici dell’assessorato regionale, parteciperanno anche il sindaco di Maratea, Daniele Stoppelli, e dirigenti di Anas, Protezione Civile.

«La Ss 18 - ha aggiunto Merra - è un’arteria fortemente condizionata dai fenomeni di caduta massi in tutta la sua estensione soprattutto per questo sono stati avviati e procedono celermente i necessari lavori, per complessivi 47 mln di euro, della variante alla ss 18 secondo il cronoprogramma prefissato. Si tratta, in particolare, della realizzazione di due tratti in galleria che - ha proseguito - risolveranno definitivamente queste criticità ma nel frattempo fronteggeremo con tutte le risorse a nostra disposizione l’annoso problema della caduta massi che compromette la sicurezza viaria della comunità di Maratea e di tutti gli utenti che utilizzano quel percorso. Dopo l'incontro di domani saranno forniti ulteriori aggiornamenti sulle decisioni adottate. La Regione - ha concluso l’assessore - come già avvenuto per gli eventi calamitosi di metà ottobre scorso che colpirono le frazioni Castrocucco e Contrada Marina, è al fianco della Comunità marateota scossa da questi infausti eventi e la sosterrà sia in termini di interventi e finanziamenti che con tutta la solidarietà umana necessaria». 

E' di queste ore la notizia del tavolo emergenziale, dopo che stamattina la pioggia incessante e un territorio già fragile causano una frana che si è staccata stamani, prima dell’alba, a Castrocucco di Maratea (Potenza), da un costone roccioso che sovrasta la strada statale 18, chiusa al traffico in entrambe le direzioni. Secondo le prime verifiche, il crollo non ha coinvolto persone. 

La frana ha ricoperto e danneggiato circa 100 metri della strada, dove i carabinieri sono intervenuti per bloccare la circolazione automobilistica: con l’arrivo sul posto dei Vigili del fuoco e di personale dell’Anas, la strada è stata chiusa e il traffico è stato deviato su un percorso alternativo. Stamani nella zona sono cominciati «approfonditi sopralluoghi», ai quali partecipano tecnici della Protezione civile della Regione Basilicata, per stabilire «la reale entità dei danni, che al momento appaiono ingenti».

Non si tratta di un episodio isolato. Già in passato ci sono state frane in quella zona, nonostante gli interventi di consolidamento del costone che si sono effettuati, ma inutilmente. Il problema delle frane resta una ferita aperta, per tutti i disagi che ne conseguono, non solo in termini di sicurezza ma anche di viabilità. 

Vito Bardi, presidente della Regione Basilicata, ha già fatto sapere che «La Regione è impegnata ad affrontare tutte le emergenze che si stanno verificando in queste settimane a causa del maltempo, a partire da quella di Maratea». Bardi ha continuato sostenendo che «il mio pensiero e il mio impegno» sono rivolti alla comunità di Maratea. Nella stessa nota, il governatore ha sottolineato l'impegno della giunta regionale per contrastare le conseguenze del dissesto idrogeologico, «nell’ambito delle proprie competenze e nei limiti delle disponibilità finanziarie previste». 

Anche il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini è in stretto contatto con i tecnici Anas per la frana che ha interessato il Comune di Maratea. Lo fanno sapere fonti del ministero. L’obiettivo è ripristinare la circolazione in condizioni di totale sicurezza nel più breve tempo possibile.

La frana ha messo in movimento circa 400 metri cubi di rocce, che hanno danneggiato oltre 100 metri della strada, ora del tutto chiusa al traffico.

Lo ha reso noto l’Anas, spiegando che «l'energia potenziale del materiale roccioso e l’acclività del versante ha consentito alla frana di raggiungere il mare sottostante la strada statale».

I sopralluoghi in corso hanno l’obiettivo di «stimare l'entità dei danni verificatisi, in particolare al corpo stradale, valutare le prime soluzioni tecniche di intervento e stabilire i tempi di ripristino della circolazione interrotta». Intanto, sono stati individuati i percorsi alternativi consigliati agli automobilisti, mentre «sul tema è già stato aperto un tavolo di confronto tecnico con tutti gli Enti e le Istituzioni interessate». 

La lezione (inascoltata) di Sarno dopo 24 anni: dobbiamo imparare a proteggerci dalla natura. Serve realismo: più che abbattere i centri abitati abusivi bisogna metterli in sicurezza.Pier Luigi del Viscovo su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

Un'altra montagna è franata provocando 137 vittime. È successo a Sarno nel maggio del 1998. Ora, dopo un quarto di secolo, la magistratura ha scritto la parola fine. Già nel 2013 il sindaco Gerardo Basile venne condannato a cinque anni per disastro colposo, per non aver ordinato l'evacuazione dei luoghi. Adesso quella omissione è stata ritenuta sufficiente dalla Suprema Corte per ritenere il Comune responsabile dei fatti. Pertanto i soldi che lo Stato centrale ha erogato alle vittime dovranno esser ripagati dall'ente locale. Sì, una disputa tra la mano destra e la mano sinistra, ma sorvoliamo.

Impiegare un quarto di secolo per chiudere una vicenda giudiziaria meriterebbe attenzione, se non fosse inutile prestargliela, poiché come sappiamo non c'è alcuna volontà né forza né coraggio per riformare dalle fondamenta il più malandato e improduttivo dei poteri dello Stato. Quindi, mettiamoci comodi da qui al 2046 per le sentenze su Ischia e occupiamoci delle cose reali, partendo da una domanda: se la sentenza di Sarno avesse impiegato non 24 anni ma 24 mesi, le povere vittime di Ischia avrebbero avuto una chance di salvarsi? Purtroppo no. Quel sindaco è stato condannato nove anni fa per omissione di evacuazione. Eppure un altro ex sindaco ha tempestato di PEC le amministrazioni su Ischia ed è rimasto inascoltato. Questo la dice lunga sulla sensibilità degli amministratori ai segnali deboli (ma anche fastidiosi, ammettiamolo). Non diversa da quella dimostrata da chi, alle prime avvisaglie di Covid, passeggiava sui Navigli o chiudeva la stalla non prima di aver consentito a migliaia di prendere un treno per andare a infettare le famiglie.

Tornando alle calamità idrogeologiche, cos'abbiamo davvero imparato dalla tragedia di Sarno? Cosa vogliamo imparare da Ischia? C'è il solito tormentone sull'abusivismo, con la vaga idea che coincida con la casa di proprietà, quindi poco popolare, e con la cementificazione, dunque poco ambientalista. Forse per questo viene cavalcato tanto dai rossoverdi, i quali faticano a capire che la casa di proprietà in Italia è popolare, molto popolare, e che molti abusi sono la finestra in più o la stanzetta nel sottotetto.

A parte questo, il nulla. Eppure, proprio in questi giorni stiamo festeggiando il successo di una grande opera, il Mose, creata per proteggere dalla natura il più bello e prezioso insediamento umano. Sì, proteggere dalla natura. Dirlo non è una bestemmia. Siamo umani e viviamo in edifici. Non possiamo tornare su alberi e palafitte né farci trascinare da acqua e fango ogni volta che al meteo gli garbi di farlo.

Ma c'è di più. Realisticamente, se una casa è in luogo a rischio, discuti della casa, ma se a rischio c'è un intero insediamento, come a Casamicciola o alle pendici del Vesuvio, discuti del rischio. Seriamente, non puoi spostare un paese. Allora lo devi proteggere. Rafforzando il terreno? Piantando alberi, non perché siano green ma perché frenano gli smottamenti? Alzando barriere e formando invasi? Con altre opere, per quanto ciclopiche? Noi italiani siamo orgogliosi della nostra ingegneria, che negli anni Sessanta ha letteralmente sollevato i templi di Abu Simbel in Egitto, per non farli sommergere dalle acque della diga di Assuan, che ha prodotto l'energia per modernizzare il Paese. Allora impiegammo quattro anni. Oggi, gli ambientalisti scenderebbero in piazza contro quella diga.

Polesine, novembre 1951, settant’anni fa l’alluvione che travolse il Veneto. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2021. Cento morti e un esodo di sfollati che non si arresta: così la piena del fiume segnò la regione, e l’Italia, a pochi anni dalla fine dell’incubo della guerra. «L’acqua saliva sempre. Sul camion c’era tutto il gruppo. Io ero un po’ più in alto perché ero sulla sponda. Avevo stretto col braccio sinistro tre miei figli, e mia moglie con l’altra figlia sulle spalle, dall’altra parte. L’acqua arrivava, continuava a salire, era quasi alla gola. Io continuavo a tenermi stretto... Sono passate molte ore… Tutti piangevano. Io non resistevo più. Ma non potevo decidermi a lasciare questo o quel braccio che sarebbero andati sotto i miei figli e mia moglie. Non potevo decidermi...». Finché Giovanni Bellinello, come raccontò giorni dopo a «L’Unità», non riuscì più a resistere lì in piedi sul pianale, appoggiato alla cabina del vecchio Alfa Romeo 85/C del 1937 che aveva già fatto una guerra e 14 passaggi di proprietà prima che l’acqua gli bloccasse il motore quella notte su uno dei tanti rettilinei del Polesine, a Frassinelle. Gli mancarono le forze. Cedette: «Ho pensato di unirci tutti e di andare sotto tutti insieme…». E insieme andarono sotto, nell’acqua che inghiottiva il camion fino al tettuccio, la moglie Valentina, cinque figlioletti, il fratello Mario, sua moglie Nazzarena e i bambini loro e altri padri, altre madri, altri figli per un totale di ottantaquattro persone. La gran parte delle vittime dell’alluvione, un centinaio…Lui, Giovanni Bellinello, portato via esausto dalla corrente, si ritrovò aggrappato a una balla di paglia, sbattuto contro un salice, raccolto infine semisvenuto da una barca dei soccorsi. Vivo, ma spezzato dentro per sempre. Col magone di aver sbagliato a lasciare la casa dove erano rifugiati per salire tutti, pigiati all’inverosimile, su quel camion requisito dal prefetto per distribuire viveri e ora diretto a Rovigo, ma subito bloccato dall’acqua. Invano, scriverà anni dopo Pietro Radius su «Famiglia Cristiana», il padrone del mezzo Attilio Baccaglini «suonò il clacson finché la batteria resistette. Invano qualcuno accese una fiaccola con una camicia immersa nel serbatoio. Nessuno poteva giungere in soccorso. Peggio ancora: nessuno sapeva». «Mano a mano che l’acqua saliva, un’acqua freddissima e sporca, qualcuno, specie i bambini e i vecchi, moriva», scriverà Gian Antonio Cibotto nelle strepitose Cronache dell’alluvione raccogliendo le parole di un amico sopravvissuto: «Era una morte sempre uguale, silenziosa: un fiotto di sangue dalla bocca e poi via, trascinati dalla corrente. I corpi sparivano, riapparivano, sparivano ancora per sempre...». Era la notte tra il 14 e il 15 novembre 1951. E quella tragedia del «camion della morte», dentro l’alluvione del Po più grave di tutti i tempi, fu per l’Italia intera, uscita solo sei anni prima dalla guerra, la traumatica interruzione di un sogno. Quello di anni finalmente sereni e spalancati a un futuro migliore. Le foto dell’epoca dicono tutto: una sagra paesana, un palo della cuccagna, una corsa coi piedi in un sacco ed erano tutti allegri. Anche in quel Polesine affondato nella povertà. Tra la foce del Po di Levante e quella del Po di Goro, scrive l’ingegnere agricolo Alfredo De Polzer in un rapporto del 1950, l’anno prima della piena, ci sono una dozzina di villaggi appartenenti tutti a pochi latifondisti, dove i seimila abitanti non posseggono nulla, vivono in «costruzioni senza mattoni, salvo focolaio e camino, cioè recinti chiusi con pertiche e coperti di canna palustre, detti casoni, divisi di solito in due vani privi di pavimentazione; mentre all’esterno le pareti sono intonacate di calce, all’interno sono tappezzate da fogli di giornali illustrati». Di più: «Nella stagione invernale le case sono circondate da fanghiglia nella quale si affonda spesso fino al ginocchio...». In ogni stanza vivono mediamente in quattro ma spesso in otto, le donne partoriscono in media 9 o 10 volte ma non sono rari i casi di 18 parti anche se poi molti dei bimbi muoiono infanti, bevono l’acqua dai canali, mangiano quel che pescano e il riso delle risaie padronali dove lavorano tutti dai nove anni in su «mentre i bambini, anche quelli in tenerissima età, restano abbandonati a se stessi» e «l’analfabetismo è al 90%»...

È su quest’umanità dolente che in quel novembre del ’51 s’avventa la grande piena. I veneziani sapevano quanto il Po potesse essere pericoloso. E nel 1600, temendo che il fiume dopo il terremoto di Ferrara spingesse troppo verso nord, avevano deciso di fargli «un salasso come si dovrebbe fare a un corpo infermo, che per sanarlo conviene fare un diversivo degli umori sovrabbondanti». Quattro anni di lavori e, «con il favor del Signor Dio», il Taglio largo all’inizio 167 metri, era già finito. E per tre secoli e mezzo, come spiega il professor Fabio Luino, tra i massimi esperti del tema, autore del saggio Le inondazioni storiche del fiume Po (in L’Italia dei disastri, a cura di Emanuela Guidoboni e Gianluca Valensise, Bononia University Press, 2014), evitò davvero gran parte dei disastri. Quel mese d’autunno, però…«In cinque giorni, dall’8 al 12 novembre 1951, sull’intero bacino del Po precipitarono circa 17 miliardi di metri cubi d’acqua, pari alla quantità che solitamente cade in sei mesi», scrivono ne L’alluvione: il Polesine e l’Italia nel 1951 (Metauro, 2014) gli storici Mihran Tchaprassian e Paolo Sorcinelli, «a questa già notevole massa d’acqua si aggiunsero le abbondanti precipitazioni che avevano colpito la stessa area nell’agosto e nell’ottobre precedente, e che avevano ridotto al minimo le capacità di assorbimento del terreno». Non solo, la subsidenza aveva causato un abbassamento del fondo marino del Delta, aggravato a partire dagli anni Trenta dall’estrazione nel sottosuolo di acque metanifere. Fatto è che quando la grande piena ruppe gli argini a Occhiobello, spiega Luino, «furono allagati circa 100.000 ettari di terreno, i due terzi della provincia, con altezze variabili intorno a 2 metri con punte fino a 5-6. E non meno di 8 miliardi di metri cubi d’acqua inondarono il Polesine». «Una superficie più grande del lago di Ginevra», denunciò la Croce rossa internazionale. Quasi doppia. La tivù non c’era ancora ma le prime pagine dei giornali e i filmati dei cinegiornali, ora a disposizione di tutti grazie all’archivio dell’Istituto Luce, si conficcarono negli occhi e nella memoria di tutti. Le famiglie infagottate sui tetti delle case. Il gatto in cima a un albero. Le cronache epiche su Paride Fabbris, che da Arquà Polesine «senza esitare, si tuffò nell’acqua gelida, cosparsa di carogne, e via a nuoto» per dare l’allarme a Rovigo. E poi la donna impegnata a far bollire sull’argine un brodo di gallina annegata. Le vacche mugghianti strattonate via con la testa a pelo d’acqua. L’arrivo claudicante del presidente Einaudi. E i pompieri, vigili, poliziotti e carabinieri e volontari coinvolti in una straordinaria operazione di salvataggio e consolidamento degli argini... Era l’Italia che, dopo la guerra civile strascico avvelenato del conflitto mondiale, riscopriva la necessità di stare insieme. Ricominciare. Ripartire. Non tutti però poterono farlo lì, in Polesine. Perso tutto, almeno 116.569 polesani furono costretti ad andarsene per «catàr fortuna» altrove. Soprattutto restando legati al «loro» fiume, ma dalle parti in cui il Po nasce, in Piemonte. Molti si sono affermati, altri meno. Tutti sono pieni di nostalgia. Anche quelli che, come Galliano Dalpasso, di Lama Polesine, baffoni e cappello di paglia calcato in testa, hanno memoria della fame: «Ricordo una vacca morta, dicevano, di difterite. Il veterinario ordinò di abbatterla e seppellirla. In realtà la carne, sottobanco, fu venduta. E la testa seppellita nel nostro letamaio. La notte però mio papà Felicino venne a svegliarmi: “Shhh! Non far rumore, alzati, dammi una mano” Tirò fuori la testa dal letame, le diede con mia mamma una bella lavata e la misero in pentola. Era la vigilia di Pasqua del 1955. E quella fu la nostra Pasqua. Miseria era. Tanta». Settant’anni dopo i polesani restano ancora meno di quanti erano la notte in cui il Po li tradì. «Arriviamo in vista del fiume. Sembra il mare. Corre lento, gonfio, terroso, portandosi dietro migliaia di relitti che vengono a urtare contro la riva girando come trottole». Nei giorni dell’alluvione del 1951, Gian Antonio Cibotto (Rovigo, 1925-2017), giornalista e critico, è nel Polesine: racconterà la tragedia in un libro, «Cronache dell’alluvione», che segna il suo debutto letterario, nel 1954. Un diario che La nave di Teseo riporta in libreria dall'11 novembre in una nuova edizione arricchita dai testi di Gian Antonio Stella, Cesare De Michelis, Vittorio Sgarbi ed Elisabetta Sgarbi (pp. 144, euro 16). L’uscita segna l’avvio della ripubblicazione delle opere di Cibotto. Oltre che per il Polesine, dice Elisabetta Sgarbi, Cibotto «ha fatto molto per la letteratura. Dimenticarlo sarebbe come perdere una parte di noi».

Alluvioni Germania: cronache di una morte annunciata. Piccole Note il 24 luglio 2021 su Il Giornale. Sono circa 180 le vittime nelle inondazioni che hanno colpito la Germania occidentale, l’Olanda e il Belgio il 14 e 15 luglio, bilancio destinato a salire perché tanti sono ancora i dispersi. La catastrofe ha dato nuovo alimento alla spinta per contrastare il cambiamento climatico, centro e motore della politica del pianeta. Tale emergenza è stata anche al centro dei commossi interventi di Angela Merkel, che governa il Paese più colpito, la quale ha potuto così eludere la mannaia del famoso detto “piove, governo ladro”, troppo spesso applicata con leggerezza. E richiami a tale emergenza hanno accompagnato la narrazione mediatica globale, dato che è il tema del momento, anzi di stretta attualità, visto che era prossimo il vertice del G-20 sul clima, fissato per il 22 e 23 luglio a Napoli. Vertice che si è chiuso con un accordo quasi totale, mancando ancora solo l’intesa per fissare una scadenza per l’eliminazione del carbone dal novero delle risorse energetiche, obiettivo sul quale però c’è unanime consenso.

Tutto previsto nel dettaglio. Eppure, nel caso delle alluvioni tedesche, l’emergenza climatica può forse spiegare cose, ma non tutto, dato che la catastrofe era stata prevista e l’allarme lanciato. Riportiamo l’incipit di un articolo del Wall Street Journal. “Il primo preciso avvertimento che la Germania stava per essere colpita da una violenta tempesta che avrebbe potuto scatenare un’alluvione potenzialmente mortale è arrivata al servizio meteorologico del Paese nelle prime ore del 12 luglio, quasi tre giorni prima che si verificasse il disastro” . “Era lunedì mattina e il supercomputer di questa agenzia governativa, una macchina delle dimensioni di una pista da hockey, aveva appena generato un modello di previsione che prevedeva con oltre il 90% di certezza e una precisione fino a 2 chilometri quadrati che una serie di comunità della Germania occidentale sarebbe stata probabilmente colpito da gravi inondazioni entro la fine di mercoledì”. “L’allarmante previsione […] è stata rilevata dal meteorologo di turno dell’agenzia che alle 6 del mattino ha prontamente attivato il sofisticato sistema di allarme alluvione del Paese, avvisando immediatamente il governo, i servizi di emergenza, la polizia e i principali media della catastrofe incombente”.

Allarmi inascoltati e vittime eccellenti. Allarmi rimasti per lo più inascoltati, riferisce il giornale, al netto dell’attivazione di alcune – poche – autorità locali, che hanno provato ad avvertire la popolazione interessata, con scarso successo. Il climate change consensus ha così evitato imbarazzi alle autorità tedesche, anche se hanno dovuto registrare una vittima illustre tra le proprie fila, il leader dei cristiano democratici Armin Laschet, pescato a scherzare durante la visita ai luoghi del disastro. Successore designato della Cancelliera, dovrà fare altro. L’alluvione tedesco ha così alimentato l’urgenza del climate change, perno centrale della politica globale la cui narrativa si alimenta di un po’ di tutto, a volte anche in maniera strumentale e sempre in modalità enfatica. Questo, ad esempio, un titolo: “Alluvione Germania: scienziati scioccati per l’entità del disastro” (non ce ne voglia il sito, che fa un ottimo lavoro).

Luglio 1342: l’alluvione che sommerse l’Europa. Così riferiamo, anche qui a titolo di esempio, quanto scritto da Andrea Giuliacci, meteo-expert, sulle “immani alluvioni del nel luglio del 1342, quando un vortice di bassa pressione incredibilmente attivo e insistente si stabilì sul cuore del continente e per diversi giorni consecutivi e portò piogge battenti su gran parte dell’Europa Centrale; in alcune regioni, in pochi giorni, cadde più della metà della pioggia normalmente attesa in un anno intero”. “Le conseguenze furono devastanti: i corsi d’acqua si ingrossarono sempre più finché, intorno al 20-22 di luglio, quasi tutti i principali fiumi europei esondarono allagando un’enorme fetta di territorio. La grande alluvione colpì con particolare durezza Francia, Germania, Austria, Ungheria, l’odierna Repubblica Ceca, Slovacchia e Nord Italia, lasciando dietro di sé migliaia e migliaia di morti”. “L’alluvione fu talmente violenta e straordinaria, da cambiare persino la geografia stessa dell’Europa: lungo il bacino del Danubio, per esempio, la piena fu così impetuosa e potente che in pochi giorni vennero trascinati via dalla forza dell’acqua oltre 10 miliardi di metri cubi di terreno, dando così vita a un fenomenale processo erosivo, paragonabile a quanto solitamente si compie in circa 2000 anni”.

Relativizzare e diversificare. Non citiamo l’esperto o il caso specifico per derubricare il climate-change a sciocchezza, ma solo per osservare che se è un bene che si affronti la criticità, è però un male che essa sia l’unico tema del dibattito globale, obliterando altri altrettanto urgenti. Basti pensare alla “fame del mondo”, tema centrale del dibattito globale per anni e ora praticamente scomparso, nonostante resti drammaticamente attuale. Oppure la tragica sperequazione economica del pianeta, con i magnati che vanno nello spazio e le moltitudini in affanno. O lo strapotere delle Big Tech, privati più potenti di Stati che pure partecipano al G-20, o quello parallelo delle Big Pharma, altri privati che presiedono alla vaccinazione pandemica, dettando legge. Sarebbe bene che il G-20 o altri summit dedicassero qualche minuto di riflessione anche a tali tematiche, cosa che non avviene proprio a causa dell’enfasi totalizzante sul clima. Infine, nel dibattito sul climate-change interpella certa deriva fondamentalista, che a volte conferisce alla dottrina ambientalista i caratteri di una religione. Nel caso specifico, la definizione della religione come oppio dei popoli potrebbe risultare niente affatto indebita.

 La vergogna della giornalista: il gesto prima della diretta. Gerry Freda il 24 Luglio 2021 su Il Giornale. La giornalista, che era stata inviata nella Renania settentrionale-Vestfalia, è stata sospesa per il suo tentativo di rendere "più autentico" il servizio. Si è abbattuta una vera e propria tempesta di polemiche ai danni della telegiornalista di un'emittente privata tedesca; la donna in questione è accusata di essersi "cosparsa apposta di fango" prima di una diretta dalle zone recentemente alluvionate del Paese. La cronista incriminata è la 39enne Susanna Ohlen, finora in servizio presso il canale privato Rtl.de. Nel dettaglio, la giornalista, questo lunedì, era stata inviata a Bad Münstereifel, nella Renania settentrionale-Vestfalia, ossia uno dei territori maggiormente funestati dalle letali alluvioni della scorsa settimana; nel proprio servizio, la Ohlen doveva raccontare, su decisione della redazione del programma Guten Morgen Deutschland, la sofferenza dei residenti, ma, sostengono i suoi detrattori, la stessa, per rendere "più autentico" il servizio, avrebbe deciso di fare finta di avere "attivamente aiutato" i residenti nel lavoro di pulizia e di essere stata a stretto contatto con le macerie melmose. Di conseguenza, lei si sarebbe messa a "sporcarsi apposta i vestiti" e, quale prova del suo tentativo di ingannare i telespettatori, vi è un video che sta impazzando sul web. La cronista è stata infatti filmata mentre, prima del collegamento, si spalma intenzionalmente del fango sulla canotta bianca e sul viso, per fingere di essere appena stata in mezzo ai detriti a prestare assistenza ai cittadini in difficoltà; dopo la pubblicazione in rete del clip, Rtl.de ha deciso di sospendere la 39enne per "comportamento non etico". Quest'ultima, dopo l'esplosione dello scandalo, ha ammesso di essersi sporcata in maniera intenzionale per fare finta di avere aiutato la popolazione alluvionata. Lei, tramite un messaggio-confessione apparso ieri sul suo profilo Facebook, ha appunto rivolto le proprie scuse ai telespettatori ingannati e ha contestualmente provato a spiegare il suo gesto: "Lunedì ho commesso un grave errore nell'area alluvionata, di fronte alle telecamere di 'Guten Morgen Deutschland'. Dopo aver già aiutato privatamente i soccorsi nella regione colpita dall'alluvione nei giorni precedenti, quella mattina mi sono vergognata, davanti agli altri aiutanti, di stare davanti alla telecamera con addosso un top pulito. Poi, senza pensarci due volte, ho spalmato fango sui miei vestiti. Da giornalista, non sarebbe mai dovuto succedere. Come persona che ha a cuore la sofferenza di tutte le persone colpite, è successo a me. Scusatemi".

Gerry Freda. Nato ad Avellino il 20 ottobre 1989. Laureato in Scienze Politiche con specializzazione in Relazioni Internazionali. Master in Diritto Amministrativo. Giornalista pubblicista. Collaboro con il Giornale.it dal 2018.

Germania, la strage per le alluvioni: Merkel "sconvolta". Morti e dispersi, mai vista una roba simile: clima impazzito, il legame col Canada in fiamme. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. La strage del maltempo mette in ginocchio la Germania: una catastrofica alluvione ha provocato almeno una sessantina di morti e un migliaio di dispersi di cui non si riesce ad avere alcuna notizia nella regione di Ahrweiler, ma il bilancio è assolutamente provvisorio vista la drammaticità della situazione e la difficoltà nei soccorsi. Centinaia di abitazioni sono pericolanti, interi villaggi sono stati spazzati via dalle esondazioni dei fiumi, regioni collinari sono rimaste senza via di comunicazione fisiche e digitali e i soccorritori sono costretti a entrare nelle case e salvare gli abitanti uno ad uno. Uno scenario apocalittico, che la cancelliera Angela Merkel ha commentato su Twitter con parole emblematiche: "Sono sconvolta". Secondo il sito Die Welt, sono interrotte anche le forniture di energia elettrica per almeno 165mila persone. I video che arrivano dalla Renania-Palatinato e dal Nord Reno-Wesfalia, Land della Germania occidentale, mostrano strade trasformate in fiumi, auto capovolte, abitazioni sventrate. I meteorologi hanno già definito la sciagura figlia del surriscaldamento globale, un clima impazzito che lega con un inquietante filo rosso quanto accaduto alcune settimane fa in Nord America e in Canada in particolare, flagellato dagli incendi per i picchi di calore, e quello che sta colpendo ora l'Europa, Germania ma anche Belgio. Almeno sei morti per il maltempo, con la città di Liegi che ha invitato tutti i residenti ad andarsene. Precipitazioni record sono cadute in alcune parti dell'Europa occidentale, causando lo strappo degli argini dei grandi fiumi. Nei Paesi Bassi danneggiati molti edifici nella provincia meridionale del Limburgo. Alcune case di cura sono state evacuate. Prima il caldo record, poi le bombe d'acqua: no, non è solo un caso.

Alluvioni in Germania, frana gigantesca in Vestfalia: altre decine di morti, la foto che sconvolge il mondo. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. La tragedia della Germania continua: una nuova impressionante frana in Vestfalia ha letteralmente inghiottito case e auto. Ancora incerto il bilancio delle vittime: si parla di altri 20 morti, che si aggiungono agli almeno 93 provocati dalle devastanti alluvioni e le bombe d'acqua che hanno colpito e messo in ginocchio gli stati del Nord. Le immagini della frana, provenienti da Erftstadt-Blessem, stanno facendo il giro del mondo. "Nessuno può dubitare che questa catastrofe dipenda dal cambiamento climatico", ha denunciato il ministro dell'Interno Horst Seehofer, parlando allo Spiegel. "Un'alluvione con così tante vittime e dispersi io non l'ho mai vissuto prima". Nelle ore del dramma, la cancelliera Angela Merkel si è detta "sconvolta" per il disastro, con 1.300 persone ancora disperse. Molte di loro non sono raggiungibili perché in molti villaggi della Germania occidentale i collegamenti fisici sono interrotti così come le comunicazioni via telefonino. I soccorritori sono costretti a raggiungere le abitazioni pericolanti e salvare gli abitanti uno a uno con ogni mezzo, dagli elicotteri ai gommoni utilizzati nelle stradine trasformatesi in fiumi di fango e detriti, fino alle boe galleggianti usate come scialuppe di salvataggio assolutamente d'emergenza. La paura, non detta, è che si arrivi sui luoghi inondati in ritardo, esponendo gli abitanti ad altre ore di stenti e pericolo. Il bilancio di queste ore continua non a caso a salire. Le regioni più colpite sono la Renania-Palatinato con 50 morti e il Nordreno Vestfalia con 43. Un bilancio purtroppo ad aggiornarsi tragicamente con il passare delle ore, nonostante i messaggi di speranza delle autorità.

La cancelliera tedesca Merkel in visita nelle zone devastate. “Scende l’acqua, affiorano i morti”, oltre 180 le vittime delle alluvioni in Germania e Belgio. Vito Califano su Il Riformista il 18 Luglio 2021. È attesa oggi, nelle zone devastate dalle alluvioni dei giorni scorsi, la cancelliera tedesca Angela Merkel. Il bilancio delle vittime è salito in Germania ad almeno 156 vittime, 27 in Belgio. Quindi più di 180. E sono ancora centinaia i dispersi. Merkel nei giorni scorsi aveva parlato di “catastrofe, si può parlare di una tragedia” e si era detta “sconvolta dalle notizie in arrivo. Sono ore in cui parlare di una forte pioggia e di alluvione descrive la situazione in modo insufficiente. È davvero una catastrofe”. La cancelliera visiterà oggi la località di Schuld, prima di recarsi ad Adenau con Malu Dreyer, il premier della Renania-Palatinato, dove si sono verificate almeno 110 vittime. È il land più colpito con il Nord Reno-Vestfalia, messo in ginocchio da piogge torrenziali e disastrose inondazioni di fiumi e canali artificiali. Il bollettino della polizia tedesca riporta inoltre almeno 670 feriti e decine di sfollati. Più di centomila case sono senza elettricità. Martedì il Belgio osserverà una giornata di lutto nazionale per le vittime. 103 i dispersi. Danni e allerta anche in Olanda. Il premier olandese Mark Rutte ha parlato chiaramente di disastro dovuto al cambiamento climatico. Almeno 77 miliardi di euro di danni hanno causato dal 1995 al 2017 le alluvioni, le tempeste, la siccità e i terremoti secondo il progetto di ricerca Titan del programma europeo Espon. È quindi corsa contro il tempo per soccorrere e salvare i superstiti. Si cerca sotto le macerie degli edifici, si scava. È sceso in campo l’esercito. Il distretto più colpito è quello di Ahrweiler, in Renania Palatinato, 98 lee vittime. 43 nel Nord Reno-Vestfalia. Decinee di persone risultano ancora disperse. Troppo presto per quantificare i danni economici, che avranno proporzioni enormi. Le piogge si sono intanto spostate nella zona orientale della Germania, verso la Sassonia. E già sono caduti fino a 100 litri d’acqua per metro quadro. A preoccupare è anche la tenuta della diga di Steinbach, nel distretto di Euskirchen. L’amministrazione del distretto di Colonia ha fatto sapere ieri che potrebbe ancora cedere. Dovrebbe essere svuotata per due terzi entro oggi pomeriggio. Il ministro dell’Interno della Renania-Palatinato Roger Lewentz ha riferito che “quando svuotiamo le cantine dall’acqua continuano ad affiorare vittime”. Nella sua zona sono caduti fino a 150 litri di pioggia per metro quadrato in 24 ore. Una zona turistica, famosa per le colline e il vino, devastata, inondata e quindi minacciata dalle frane. Ieri a Erfstadt le visite del Presidente della Repubblica Federale Frank-Walter Steinmeier e il ministro Presidente del Nord Reno-Vestfalia Armin Laschet. Quest’ultimo è finito però nella bufera dopo le immagini che lo hanno ripreso, in gruppo con il Presidente e le autorità locali, mentre rideva. Lo stesso ministro che aveva parlato di “disastro del secolo” si è dovuto scusare. È il candidato cancelliere della Cdu alle prossime elezioni ed è spesso criticato per le sue posizioni sull’ambientalismo, meno propenso di altri a riconoscere il superamento dell’energia fossile e la riduzione delle emissioni di gas serra. Il Reno in questi giorni ha intanto raggiungo un’altezza di 8 metri superiore al suo libello abituale: 8,06 metri a Colonia. Il servizio meteorologico tedesco ha spiegato che la devastante ondata di piogge è stata causata da un’area di bassa pressione che ha occupato la Germania occidentale che è stata affiancata su tutti i lati da aree di alta pressione.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

Elena Tebano per il Corriere.it il 18 luglio 2021. «Bisogna vedere se la diga di Steinbach regge, dipende tutto da quello. La stanno svuotando per ridurre la pressione, ma ci vuole tempo». Volkert Kremer è un pompiere esperto, arrivato a Erfstadt per dare una mano ai colleghi del posto, dopo che una frana ha portato via tre case e un pezzo dello storico castello nella frazione di Blessem, e ora minaccia di inghiottire altri edifici («Ho fatto anche l’alluvione del 2002, ma una cosa così non l’avevo mai vista», dice). Fa caldo, ci sono quasi trenta gradi e il sole che illumina campi e strade non tradisce niente di quello che è successo solo due giorni prima. «Ma adesso iniziano a venir fuori tutti i danni strutturali, il terreno è intriso d’acqua, instabile» spiega Kremer. Quello a cui guarda con più preoccupazione è proprio la diga, qualche decina di chilometri più a sud, nel distretto di Euskirchen. Ieri mattina sembrava che la situazione fosse migliorata, poi nel pomeriggio, dopo i controlli, l’amministrazione del distretto di Colonia ha comunicato che può ancora cedere. I vigili del fuoco pompano migliaia di litri d’acqua all’ora, ma per metterla in sicurezza devono svuotarla per due terzi, e non ci riusciranno prima di oggi alle 15. Se va tutto bene. Per questo altri residenti della zona sono stati evacuati. Nessuno vuole pensare a cosa potrebbe succedere se venisse giù. A Erfstadt la gente continua a passare sul ponte dell’Erf, incredula: è pieno fino all’orlo di acqua marrone, ma anche così non supera i venti metri di larghezza. Se quello che è poco più di un canale ha trascinato con sé mezza collina, figurati cosa può fare la diga. La zona della frana intanto è transennata e sorvegliata dagli elicotteri, molte strade sono state bloccate, è crollato un pezzo di autostrada, in tutto il distretto si circola solo sulle vie secondarie. Ieri sera le autorità hanno dovuto ribadire ai residenti della frazione di Blessem il divieto di avvicinarsi alle loro case: il fronte della frana è ancora attivo, troppo pericoloso. Kremer con la sua squadra, che è addetta a mettere in sicurezza strade e abitazioni, in meno di quattro ore ha fatto tre interventi, tra cui uno per fermare una fuga di gas causata dagli smottamenti e l’altro per evacuare una casa di riposo che rischia di crollare. Poco più in là i blindati dell’esercito hanno portato via i camion e le auto accartocciate che erano rimasti nel fiume e incastrati sotto un ponte. Erano vuote, ieri pomeriggio non risultavano vittime. Con il bilancio provvisorio dell’alluvione di giovedì salito a 156 morti confermati solo in Germania, tra cui quattro vigili del fuoco (oltre ai 27 in Belgio), sembra un miracolo, e tutti sperano che rimanga tale. Ieri a Erfstadt sono arrivati anche il presidente della Repubblica federale Frank-Walter Steinmeier e il ministro presidente del Nord Reno-Vestfalia, Armin Laschet. «Molte persone in queste regioni non hanno più nulla se non la loro speranza. E noi non dobbiamo deludere questa speranza. Il loro destino ci strappa il cuore» ha detto Steinmeier con tono grave davanti al quartier generale dei soccorritori. «È un momento di bisogno e in questo momento il nostro Paese sta insieme». Più che le sue parole, però, a colpire i tedeschi è stato il volto di Laschet, che rideva alle sue spalle, circondato dalle autorità locali. Una reazione a qualcosa che gli era stato detto, ma la sua risata è stata rimandata all’infinito da siti e tv, con sdegno. Tanto che poi si è scusato. Davanti ai microfoni aveva parlato di «disastro del secolo», espresso ammirazione per i soccorritori, promesso ai cittadini che arriveranno aiuti diretti «in modo molto poco burocratico». Laschet, oltre che premier del Land, è il candidato cancelliere della Cdu alle prossime elezioni. E ieri i media tedeschi hanno commentato che «Angela Merkel non lo avrebbe mai fatto». Laschet ha già molto da farsi perdonare sul clima, è il candidato che frena di più sul superamento dell’energia fossile e la riduzione delle emissioni di gas serra, portati in primo piano nel dibattito politico proprio da questo disastro (per gli scienziati non ci sono dubbi che sia una conseguenza del surriscaldamento globale). Negli ultimi due giorni è stato molto presente nei luoghi dell’alluvione. Il cancelliere (o aspirante tale) «in stivali di gomma» è una figura retorica molto amata nella politica tedesca da quando il socialdemocratico Gerhard Schröder si fece riprendere nel fango durante l’alluvione del fiume Elba, nell’agosto 2002, secondo alcuni assicurandosi così la rielezione. Ma ora la risata di Laschet dà forza a chi ritiene che la sua sia strategia politica, più che interesse per i cittadini. Quelli di Erfstadt ieri avevano altre priorità. Molti erano in fila di fronte al centro per gli aiuti. «Casa mia è in piedi, si è allagata solo la cantina. Ma siamo da tre giorni senza elettricità e quindi senza cibo. Tutti gli apparecchi elettrici sono rotti» dice Nicole Kuhnke, 37 anni. Beate Recht cerca soprattutto informazioni: «Sono qui con mio figlio Fabian, è in attesa di un trapianto di reni — spiega —. Giovedì abbiamo fatto in tempo a fare l’ultima visita necessaria all’autorizzazione, poi hanno evacuato l’ospedale. Ora non so più che fine hanno fatto i documenti, se li hanno inoltrati a chi di dovere». In molte altre zone la situazione è ancora più grave. Il distretto di Ahrweiler, in Renania-Palatinato, è il più colpito: ieri sera contava 98 vittime accertate (sono 43 quelle nel Nord Reno-Vestfalia). Si cercano ancora i dispersi, con poche speranze di trovarli in vita: si scava «negli edifici, sotto le montagne di masserizie ammucchiate, nei veicoli e in altre cose portate via dalla massa d’acqua» ha fatto sapere la polizia. Mancano all’appello oltre 370 persone. Poi ci sono i danni economici, che nessuno ha ancora provato a stimare. A Schuld, dove oggi arriverà Angela Merkel, gran parte delle case sono distrutte, l’odore di fango marcio e carburante invade le strade. L’intera cittadina è senza gas e ci vorranno settimane se non mesi prima che sia ripristinato. Il centro di Bad Münstereifel è pieno di sampietrini divelti. «Irriconoscibile», secondo la gente del posto. Non lontano, nella cittadina termale di Bad Neuenahr, il capoluogo del circondario, l’alluvione ha distrutto insieme a molte strutture ricettive anche i vigneti. «Non si riconosce il paesaggio» dice Michael Lang, il proprietario dell’enoteca del paese. Sono tutte località turistiche, meta estiva richiesta per le terme, la natura e il buon vino. Questa estate doveva garantire la ripresa a un settore duramente provato dalla pandemia. L’alluvione segna un altro colpo pesantissimo. Intanto le piogge si sono spostate nella zona orientale della Germania, in Sassonia. Ieri alcune cittadine —Neustadt, Sebnitz, Bad Schandau, Reinhardtsdorf-Schöna e Gohrisch — non erano più accessibili e il Centro di sorveglianza delle acque del Land ha lanciato l’allarme per il rischio inondazioni. Sarebbero caduti fino a 100 litri d’acqua per metro quadrato. La paura è che l’incubo si ripeta. 

Dal Corriere.it il 18 luglio 2021. Bufera sul candidato per la Cdu alla successione della cancelliera tedesca Angela Merkel, il governatore del Nord Reno-Vestafalia Armin Laschet. Durante il discorso tenuto dal presidente Frank-Walter Steinmeier a Erftstadt, una delle più colpite dalle alluvioni che hanno causato oltre 160 morti in Germania, lo si vede ridere e scherzare con alcuni politici locali: proprio mentre Steinmeier parla, con il volto serio, del disastro che ha colpito il Paese. Il video è diventato subito virale e ha scatenato rabbia e polemiche: molti hanno criticato il cinismo dell’uomo politico, tanti lo hanno dichiarato inadatto a un compito così prestigioso come la successione della Merkel. Laschet è stato costretto a scusarsi: «Mi sono comportato in modo inappropriato, sono desolato». Per Laschet non si tratta della prima gaffe: due giorni fa ha chiamato «ragazza» una giornalista che lo stava intervistando sulla tv locale WDR. I cristiano democratici restano comunque in testa nei sondaggi per le elezioni del 26 settembre.

Giampaolo Cadalanu per Repubblica il 18 luglio 2021. Fra la disperazione di chi ha perso i suoi cari e le lacrime di chi rimane senza casa dopo le inondazioni nell’ovest della Germania, c’è lo spazio per una riflessione cinica: che succederà alle elezioni di settembre? Il tema dei cambiamenti climatici è da sempre il cavallo di battaglia dei Grünen. Ma il partito ecologista attraversa un momento delicatissimo, con Annalena Baerbock, co-presidente e candidata alla Cancelleria, al centro delle polemiche per la presunta copiatura di parti del suo libro “Jetzt”, “Adesso”. Le precipitazioni eccezionali che hanno sconvolto NordReno-Westfalia e Renania-Palatinato, più che una conferma degli allarmi ecologisti, potrebbero sembrare quasi un regalo della sorte per i Verdi. Ma sarebbe un regalo elettorale maledetto, perché il maltempo ha preteso vite umane e ha causato danni immensi. E nella sede di Platz vor dem Neuen Tor hanno capito subito che il rischio era altissimo: l’idea di una strumentalizzazione avrebbe spazzato via ogni speranza per il partito. Così l’ordine di scuderia era chiaro, guai a chi si azzarda a dire: «Noi l’avevamo previsto». Robert Habeck, il filosofo che guida il partito assieme ad Annalena Baerbock e vanta un’esperienza da ministro dell’Ambiente nello Schleswig-Holstein, ha scelto di non avvicinarsi nemmeno alle zone colpite. «So per esperienza diretta che i politici in visita, quando non sono specialisti, danno solo fastidio ai soccorritori», ha detto Habeck. La Baerbock ha voluto vedere da sé i danni, ma senza pubblicizzare il viaggio e senza portare giornalisti al seguito, limitandosi a twittare che i suoi pensieri erano «con la gente che ha perso la casa». Konstantin von Notz, membro del Bundestag, si è lasciato scappare un tweet polemico, per poi cancellarlo subito. E anche la capogruppo Katrin Göring-Eckardt, dopo aver definito la catastrofe «una chiamata al realismo», è tornata al silenzio. Non è ancora il momento di incassare il credito politico conquistato in decenni di campagne contro il riscaldamento globale: verrà più avanti, suggerisce la stampa tedesca. Ma se le inondazioni in Renania potranno influire nel voto, per ora non è semplice valutare quanto e come. In realtà paradossalmente la coscienza ecologica è così radicata in Germania che potrebbe persino non costituire un vantaggio per i Verdi alle urne, perché il tema del clima non è più loro esclusiva. Lo dimostrano le dichiarazioni di Angela Merkel e del ministro per gli Interni Horst Seehofer, considerati poco entusiasti sui problemi ambientali ma ora favorevoli a interventi rapidi. Lo dimostra la decisione con cui Armin Laschet, candidato alla Cancelleria per la Cdu e ministro-presidente del NordReno-Westfalia, ha subito attribuito il disastro al clima reso folle dall’uomo. Laschet in realtà doveva rimediare alla goffaggine con cui aveva risposto sul tema in un’intervista in tv. «Non si cambia la politica per una giornata come questa», aveva detto: una frase che sicuramente lo perseguiterà nei giorni a venire, scrive Der Spiegel. Ma le gaffe del candidato cristiano-democratico sono proseguite: ieri Laschet è stato immortalato in un video mentre rideva e scherzava spensierato a Erftstadt, città colpita dal disastro, mentre il capo dello Stato parlava delle vittime dell’alluvione. Il filmato è stato diffuso online, suscitando polemiche violente. Eppure Laschet non è un politico inesperto, che sottovaluta il valore delle immagini. Nei giorni scorsi, visitando le zone delle inondazioni, indossava stivali di gomma. In Germania tutti ricordano la campagna elettorale del 2002, quando il ciclone Jeanett aveva colpito la parte est della Repubblica federale, uccidendo 12 persone. Allora Gerhard Schroeder aveva strappato la conferma alla Cancelleria presentandosi in stivali di gomma davanti alle tv e comparendo «alla guida» delle operazioni di soccorso. Conscio dell’effetto che avrebbe fatto l’accusa di approfittare della tragedia recitando lo stesso copione vincente di allora, davanti alle telecamere il candidato cristiano-democratico è tornato ai mocassini. 

Alluvioni in Germania, Federico Rampini a L'aria che tira: "No all'ambientalismo apocalittico, ecco le vere ragioni". Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. "Un disastro": Federico Rampini ha commentato così le alluvioni in Germania e in Belgio in collegamento con L'Aria che tira. Il giornalista ha spiegato di trovarsi proprio a Bruxelles in questo momento: "Sono nel secondo Paese più colpito da questo disastro alluvionale. Qui abita mia madre e spero di portarla in Italia per una vacanza". Parlando della catastrofe causata dal maltempo, l'ospite del talk di La7 ha detto la sua sul tema del "climate change": "Se mi calo nei panni di un abitante del Bangladesh dico che preferirei essere un tedesco quando arrivano queste catastrofi". Rampini poi ha spiegato la sua affermazione dicendo: "La cura è più sviluppo economico, non meno sviluppo economico: più i Paesi sono ricchi, più hanno gli strumenti per difendersi. Se la Germania fosse un Paese molto povero, le case sarebbero ancora più fragili, sarebbero state travolte molte più abitazioni e saremmo di fronte a un bilancio ben più spaventoso di vittime. Non bisogna propugnare un ambientalismo pauperistico e apocalittico, bisogna avere tante risorse e investirle nelle tecnologie giuste". Il giornalista, però, ha anche detto che secondo lui nessuno sta ignorando la questione del clima al momento: "Non credo che siamo in assenza di una consapevolezza del problema. Biden ha subito deciso di rientrare negli Accordi di Parigi, di cui è entrata a far parte anche la Cina nel 2015 con una svolta politica. Le cose stanno cambiando in meglio nel senso della consapevolezza".

Germania e alluvioni, Mario Tozzi: "Cambiamento climatico anomalo e accelerato. Sono gli ultimi avvisi prima del disastro". Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Dietro al caldo record del Canada, allo scioglimento dei ghiacciai e da ultimo le alluvioni della Germania, scrive il geologo Mario Tozzi in un inquietante articolo su La Stampa, c'è il cambiamento climatico. "A guardare quanto sta accadendo in Germania sembra di essere in Italia: alluvioni come mai viste da tre secoli, decine di vittime, case e infrastrutture distrutte, ponti crollati e villaggi sommersi. In poche ore sono caduti fino a 250 litri di pioggia per metro quadro, in un quadro tipico di flash flood, alluvioni istantanee che ormai flagellano non solo il nostro martoriato territorio. E che si accoppiano con le temperature estreme registrate in Canada, con la fusione dei ghiacciai polari e con l'innalzamento del livello dei mari". Tutto questo, continua Tozzi, "ha un nome e un cognome e si chiama cambiamento climatico, che è anomalo e accelerato rispetto al passato e che, diversamente dai secoli scorsi, dipende esclusivamente dalle attività produttive dei sapiens che vomitano in atmosfera milioni di tonnellate di gas clima alteranti derivati dalla combustione e dall'uso improprio del territorio". Insomma è ormai evidente a tutti, anche agli scettici, che "questi fenomeni sono legati dal minimo comune denominatore dell'estremizzazione del clima, il fenomeno ambientale più grave non tanto per il pianeta quanto per il benessere e, in casi sempre più frequenti, per la vita dei sapiens", osserva il geologo. "Non volendo tornare sulle cause ormai arcinote, e sapendo benissimo che l'unica cosa da fare nell'immediato è azzerare le emissioni clima alteranti, esattamente come prevede l'Unione Europea nelle sue ultime proposizioni, possiamo domandarci come evolverà la situazione climatica nei prossimi tempi". "Che scenario possiamo immaginare?", si chiede Tozzi. Risposte certe non ce ne sono "ma i modelli meteorologici finora affinati hanno anticipato molto bene la realtà: le perturbazioni a carattere violento saranno più frequenti, più potenti, fuori stagione e anche fuori dalle regioni normalmente coinvolte. Tutto questo se l'incremento di temperatura dell'atmosfera si limiterà al massimo a due gradi, perché se sarà maggiore le conseguenze saranno catastrofiche e irrimediabili. Sono reversibili queste tendenze? La risposta è no, non lo sono in tempi brevi, anzi peggioreranno senz' altro perché l'atmosfera ha un'inerzia spaventosa". Insomma è già troppo tardi secondo il geologo: "Se azzeriamo di colpo tutte le emissioni, prima di vedere scendere la curva delle temperature dovremmo aspettare un tempo che non possiamo permetterci". Possiamo però "rendere più lento il surriscaldamento dell'atmosfera e limitarlo dentro i due gradi, agendo prima di tutto sulle cause, cioè levando ogni forma di sovvenzione ai petrocarbonieri, evitando di cercare e trivellare nuovi giacimenti e ricorrendo alle fonti rinnovabili". Sono "gli ultimi avvisi di disastro", conclude amaro.  

Germania, il paese simbolo della manutenzione del paesaggio è vittima dei cambiamenti climatici: ecco perché accade. Luca Mercalli su Il Fatto Quotidiano il 16 luglio 2021. Il territorio della Germania occidentale è un’icona della buona manutenzione del paesaggio: colline e vallecole con campi coltivati alternati a boschetti, centri abitati lindi e ordinati con le tipiche case a graticcio. Ma soprattutto un ottimo servizio meteorologico nazionale, una proverbiale organizzazione di protezione civile e un grande senso civico dei cittadini. Tutto ciò non è bastato a impedire una catastrofe alluvionale con decine di vittime ed enormi danni agli abitati e alle infrastrutture. Segno che l’evento meteorologico ha passato la misura, ha assunto intensità eccezionali, giudicate dai climatologi tedeschi come possibili non più di una volta al secolo. Il problema è che ormai l’evento eccezionale – definito tale quando confrontato con i dati del passato – sta diventando la nuova normalità per il clima contemporaneo. Normalità statistica, non sociale. Perché al fango in salotto non potrai mai abituarti, e meno ancora alla sofferenza per la perdita di una persona. Sono caduti sulla regione che comprende Germania, Belgio e Olanda, circa 150 mm di pioggia in una giornata, dopo settimane di pioggia precedente che avevano già saturato i suoli. Lo scroscio aggiuntivo ha innescato l’onda di piena e il trasporto di detriti che ha invaso i paesi e abbattuto le case sfondando le pareti o erodendone le fondazioni. Questi episodi intensi sono sempre più causati dalla persistenza per giorni sulle stesse aree geografiche di grandi strutture meteorologiche lente a muoversi. In questo caso si è trattato della depressione “Bernd”, così denominata dall’Università di Berlino, bloccata nel suo movimento da due anticicloni, a est e a ovest. Così la pioggia insiste continuamente sui medesimi luoghi aumentando il rischio di dissesti. D’altra parte il tempo caldo e asciutto che si instaura sotto gli anticicloni persistenti alimentati da aria tropicale è la ragione di altri estremi, come i 49,6 gradi di fine giugno in Canada o i 34,3 gradi nel nord della Norvegia, ben oltre il Circolo Polare Artico. Perniciose alternanze che con sempre maggior evidenza vengono attribuite al rallentamento della corrente a getto polare: come un fiume quando perde velocità in una piatta pianura produce ampi meandri, così il fiume d’aria ad alta quota tende a produrre vaste e lente ondulazioni all’interno delle quali ristagna aria ora calda ora fresca. Se sei nella cresta dell’onda calda vai a fuoco come a Lytton, se sei nel cavo fresco vai a bagno come a Schuld. E perché la corrente a getto polare rallenta? Molto probabilmente perché la banchisa artica si sta riducendo e l’oceano Artico si sta riscaldando, così diminuisce la differenza di temperatura tra Equatore e Polo Nord e si affievolisce per così dire il “tiraggio” delle correnti atmosferiche che regolano il clima, da cui il mutamento dei loro percorsi millenari sui quali abbiamo calibrato la nostra civiltà. Tutto è legato in atmosfera. Ciò che succede in remote regioni disabitate si riflette poi nel cielo sopra Liegi. Ma sono le emissioni del petrolio bruciato a Liegi, a Milano o a Pechino a causare il riscaldamento globale che amplifica e rende più frequenti gli eventi meteorologici distruttivi. Di cronache come queste ne abbiamo già scritte tante, e sempre avviene che dopo qualche giorno, ripulito il fango e fatti i funerali delle vittime ci si dimentica di tutto e si torna a vivere come prima al grido di “crescita, crescita!”. Bisognerebbe una volta per tutte mettere in relazione queste catastrofi climatiche con il nostro stile di vita e con la nostra economia insostenibile. Da un lato i politici costernati dicono che bisogna occuparsi del clima, dall’altro invocano proprio quella crescita economica, che – come ha affermato anche la Agenzia Europea dell’Ambiente – è la causa dell’inquinamento e del riscaldamento globale. E se vengono annunciate nuove misure di contenimento e tassazione delle emissioni come ha fatto un paio di giorni fa la Commissione europea, tutti pronti a protestare per i costi aggiuntivi. Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca. Lo vieta la termodinamica. Se vogliamo proteggere il nostro presente e soprattutto il futuro dei giovani da una crisi climatica sempre più severa e pericolosa, occorre saper rinunciare a qualcosa del nostro attuale stile di vita energivoro e dissipativo. Il tentativo di dare una mano di vernice verde al business-as-usual non può funzionare. La transizione ecologica è come una dieta ferrea, va percorsa con convinzione e con determinazione, non è e non sarà una passeggiata. Però se pilotiamo noi il processo invece che lasciar fare alle mazzate climatiche, avremo ancora la possibilità di tagliare il superfluo per garantirci il necessario. Altrimenti, quando il placido torrente decide di entrarti in casa, non chiederà permesso e si porterà via tutto.

Nubifragi estremi. La causa delle alluvioni in Germania e nel Nord Europa (e come evitare che accada in Italia). Riccardo Liguori il 17 Luglio 2021 su l’Inkiesta.it. Nella parte ovest della Germania, è partita una corsa contro il tempo per scongiurare la morte di centinaia di cittadini a causa delle incessanti piogge che continuano a sferzare l’area. Anche questa volta centra il cambiamento climatico così come le strategie di adattamento e mitigazione. Dalla Svizzera ai Paesi Bassi, passando per il Lussemburgo e il Belgio fino alla Germania occidentale si abbattono con violenza intensi nubifragi che hanno innescato l’esondazione di fiumi, lo sradicamento delle fondamenta di diverse case – obbligando molti cittadini a cercare rifugio sui tetti – causando oltre 100 morti e centinaia di dispersi nei Länder di Renania-Palatinato e Nord Reno Westfalia. Come riporta l’Agi, nella sola città di Ahrweiler sono stati recuperati almeno 18 corpi; più a nord, nel distretto di Euskirchen, le vittime sono state 15. A sud di Bonn, nel comune di Schuld, sei case sono state spazzate via dalla furia delle acque e quattro persone sono morte, mentre diversi corpi sono stati rinvenuti nelle cantine. Berlino ha dispiegato 400 soldati per aiutare nelle operazioni di ricerca e soccorso, mentre decine di migliaia sono rimaste senza elettricità. Nella provincia di Limbourg, nei Paesi Bassi, che confina con la Germania e il Belgio, diverse strade e un’autostrada sono state chiuse per il rischio di allagamenti dovuti alle esondazioni. «Quello accaduto in Germania e in Belgio è un vero disastro climatico, dove in pochi giorni è caduta la pioggia che un tempo scendeva in due mesi. Nemmeno la Germania, che da anni ha avviato politiche per ridare spazio ai fiumi, è al sicuro dalle conseguenze peggiori del cambiamento climatico», ha dichiarato a Greenkiesta Andrea Agapito Ludovici, responsabile acque del Wwf Italia. «Nei giorni precedenti a questo disastro l’Europa è stata interessata da un anticiclone che ha portato a un riscaldamento della terra – ha spiegato a Linkiesta il fisico del clima Antonello Pasini – A questo si è aggiunta una grande massa di aria fredda che è rimasta per molto tempo sulla Germania, provocando precipitazioni forti, ma soprattutto persistenti. Il fatto che gli eventi estremi di questo tipo rivelino una “deriva climatica” violenta, e in qualche caso anche una maggiore frequenza, dipende in gran parte dal riscaldamento causato dall’uomo, a causa del quale aumenta la temperatura media e dunque, mediamente, l’energia incamerata in atmosfera che poi viene scaricata violentemente sui territori. Dall’altro lato, cambia anche la circolazione dell’aria, con forti correnti calde da sud e infiltrazioni fredde da nord che creano alluvioni, enormi grandinate e in generale disastri come quelli che abbiamo visto negli ultimi giorni». La cancelliera Angela Merkel si è detta «sconvolta» dalla catastrofe e dal «disastro umanitario» e ha parlato di «tragedia» per la nazione mentre Armin Laschet, candidato Cancelliere per la Cdu alle prossime elezioni e governatore del Nord Reno-Westfalia, ha chiamato in causa il climate change, chiedendo di accelerare gli sforzi globali per contrastarlo. Su richiesta della Commissione europea, si è messa in moto la macchina dell’assistenza internazionale europea: un team della Protezione civile e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco ha già raggiunto Liegi e da Venezia è partito un volo C-130 dell’Aeronautica militare, specializzato nel supporto della ricerca e soccorso in contesti alluvionali. Oggi un elicottero della Difesa raggiungerà il Belgio per supportare le attività di ricerca dei dispersi. Guardando a quanto accaduto in Germania, il Wwf Italia ha chiesto di avviare un grande piano di ripristino ambientale, come prevede anche la Strategia Europea per la Biodiversità che impegna gli Stati a rinaturalizzare e riconnettere almeno 25000 km di fiumi entro il 2030.  Secondo l’associazione ambientalista «non c’è più tempo e l’azione climatica va accelerata a ritmi esponenziali se vogliamo evitare le conseguenze più pericolose e ingestibili. L’azzeramento delle emissioni – la mitigazione – va attuato nel più breve tempo possibile, ben prima del 2050, e vanno parallelamente messe in campo davvero le politiche di prevenzione. In Italia, per esempio, il Piano di adattamento è ancora fermo e non è mai passato alla fase attuativa. Pensando a quanto successo in Germania, dobbiamo immediatamente rendere operativa una politica basata sul ripristino degli ecosistemi fluviali e sul recupero degli spazi che abbiamo rubato ai fiumi. Dal dopoguerra aa oggi, nel nostro Paese, abbiamo tolto ai fiumi circa 2000 chilometri quadrati, un’enormità di spazio e le conseguenze di questo sono e saranno sempre più devastanti». Secondo la meteorologa e climatologa Serena Giacom proprio l’adattamento, che insieme alla mitigazione rappresenta lo strumento principale per affrontare la crisi climatica, può giocare un ruolo importante anche in situazioni meteorologiche estreme come queste. «Si tratta non solo di rendere i territori più resistenti ma anche i cittadini più consapevoli e informati. A tal fine diventa fondamentale la corretta comunicazione tra mondo scientifico e mondo dell’informazione». Quello che ha interessato il Nord Europa è un evento critico cui dobbiamo prestare grande attenzione, come ha sottolineato il fisico Pasini. «Il fenomeno preoccupa perché crea fenomeni violenti su territori densamente modificati dall’uomo e urbanizzati, dunque su suoli fragili e vulnerabili alle precipitazioni intense e persistenti. Il fatto che il riscaldamento globale di origine antropica stia facendo espandere verso nord la circolazione equatoriale e tropicale pone la nostra Italia a rischio ondate di calore e siccità, ma soprattutto dal nord Italia in su il rischio di questi eventi di precipitazioni estreme aumenterà ancora se non faremo nulla per mitigare il clima».

Tutte le bufale green dopo le alluvioni in Germania.  Franco Battaglia il 20 Luglio 2021 su Nicola Porro.it e su Il Giornale. Una delle frasi più cattive è «chi è causa del proprio mal… etc.». E, pensando ai disastri in nord Europa per le alluvioni, noi non diciamo quella frase. Anche perché la causa del male non sono gli europei, ma è l’Unione europea. Con, al primo posto, quella che, senza una vena di rossore sul volto e con non poco cinismo, ha dichiarato: «L’intensità e la durata di questi eventi sono favoriti dal riscaldamento globale», sottintendendo – va da sé – che le misure da prendere son quelle da essa stessa proposte, e cioè il riversamento di 1500 miliardi del denaro dei contribuenti nelle tasche di chiunque sia coinvolto, o perché fabbricante o perché venditore o installatore, di turbine eoliche, parchi fotovoltaici e automobili elettriche. Costei è la tedesca commissaria della Ue. Da manicomio: se io gestissi le finanze di casa mia come costei il denaro dei cittadini della Ue, sarei proposto dai miei più stretti parenti per l’interdizione. Così accadrebbe se io, avendo impegnato in un progetto le risorse finanziarie di casa mia, e dopo averle perdute una volta, riproponessi il progetto per la seconda volta, e poi, dopo il secondo insuccesso, per la terza volta. All’inizio del millennio, la Ue per diversi anni infastidì il mondo intero inducendolo ad approvare il Protocollo di Kyoto, che si proponeva di ridurre le emissioni, entro il 2012, di circa il 5% rispetto a quelle del 1990. Quando nel 2008 era evidente che quel proposito era niente più che una pia illusione, visto che quell’anno le emissioni, lungi dal mostrare una pallida riduzione, erano invece aumentate del 40%, orbene nel 2008 la Ue approvò il pacchetto 20-20-20: le emissioni, la cui riduzione del 5% si rivelava impossibile, dovevano essere ridotte del 20% entro il 2020. Da manicomio. I fiumi di denaro continuarono a scorrere verso l’insano progetto anche quando, nel 2012, anno-obiettivo del Protocollo di Kyoto, si poteva benissimo costatare che le emissioni, anziché diminuire del 5%, erano invece aumentate del 50%. Giunti al fatidico 2020, si dovette costatare che le emissioni, anziché diminuire del 20%, erano aumentate del 60% rispetto ai livelli del 1990. Cionondimeno, questa signora dai biondi capelli sulla zucca, ma con, sembrerebbe, non molto sale dentro, insiste. Il suo Paese ha installato, più di tutti al mondo, oltre 50 gigawatt fotovoltaici e oltre 60 gigawatt eolici. E, ci fanno sapere, e case automobilistiche tedesche sarebbero pronte a immettere sul mercato auto full-electric. All’uopo, e con la promessa che servivano per proteggersi dai cambiamenti climatici avversi, dalle tasche dei cittadini tedeschi saranno stati prelevati, a occhio e croce, euri 300 miliardi, a tenerci bassi. Il clima è rimasto insensibile alla mossa geniale. La recentissima alluvione ha fatto cadere 200 mm di pioggia in un giorno. Ma, non dobbiamo dimenticare, nel novembre 1951 vi fu un’alluvione peggiore nel Polesine, con oltre 1500 mm di pioggia in quattro giorni, oltre 100 morti e quasi 200 mila senza tetto. E nel settembre del 1868 ce ne fu una altrettanto devastante in Svizzera, con 1120 mm di precipitazioni in una settimana, oltre 50 morti e immensi danni economici. In quell’anno, il lago Maggiore raggiungeva i 200 metri di profondità. Ma, a dispetto dei pensieri geniali che passano per la tua testa, cara Ursula, nel 1951 s’era in pieno global cooling. E nel 1868 le attività umane presunte climalteranti erano assenti. Quei pensieri che attraversano la tua graziosa testolina sono un pericolo per l’intera Unione europea. La quale farebbe bene a rispedirli alla mittente, e allocare le proprie risorse per proteggersi da eventi coi quali, fin dai tempi di Noè, l’umanità deve imparare a convivere e dai quali deve imparare a difendersi. Franco Battaglia, 20 luglio 2021

Il disastro di 100 anni fa che sconvolse l'Europa centrale. Paolo Mauri il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. La tragica alluvione che ha colpito la Germania, il Belgio e l'Olanda causando più di cento morti e migliaia di dispersi non è affatto un evento eccezionale. “Una vasta area della Sassonia è sott'acqua; si pensa che siano perite centinaia di persone e i danni causati dall'inondazione successiva alla tempesta di sabato sono incalcolabili. Le acque hanno invaso la valle raggiungendo un'altezza tra i cinque e i sette piedi, trascinando tutto con sé”. No, non è l'incipit di un articolo inerente alla tragica alluvione che ha colpito Germania, Belgio e Olanda lo scorso 15 luglio che ha causato più di 100 vittime e un numero impressionante di dispersi (circa 1300), bensì l'inizio di un articolo del New York Times del 24 luglio 1927. Un evento catastrofico, avvenuto il 10 luglio di quell'anno, che ai tempi era stato definito “il peggiore in 50 anni” e che ebbe ripercussioni anche in Italia, con effetti definiti “particolarmente distruttivi” al centro e al nord. Le similitudini tra i due fenomeni non si limitano all'arco temporale in cui sono avvenuti (la parte centrale del mese di luglio): entrambi sono stati preceduti da una forte ondata di calore. Sempre nel Nyt di quel luglio 1927 si legge che “gli esperti attribuiscono il fenomeno catastrofico all'usuale ondata di caldo avvenuta in Germania nei giorni precedenti” che, scontratasi con una zona di bassa pressione artica, ha causato la genesi di violente tempeste. Qualcosa che ricorda molto quanto accaduto nei giorni scorsi e che ha causato la distruzione nella Renania-Palatinato. Un fatto “usuale” secondo gli esperti dell'epoca, dovuto alla particolare geografia dell'Europa Centrale, dove non ci sono alte catene montuose a proteggere il territorio dalle incursioni di aria fredda artica, che quando si scontra con quella calda e umida delle estati continentali può dare luogo a fenomeni meteorologici molto intesi, perfino disastrosi. Nihil sub sole novi quindi, pur nella sua tragicità. Occorre quindi fare una riflessione su quanto accaduto e sulla narrazione che se ne sta facendo, pur con la consapevolezza che, in questo momento, ci sono persone che hanno perso tutto, anche la vita. Partiamo da un presupposto: i cambiamenti climatici sono un dato di fatto. Le temperature medie dell'emisfero boreale sono aumentate, il ghiaccio ricopre per meno giorni l'anno le distese del Mar Glaciale Artico rendendolo navigabile per più tempo (da qui la corsa alla Northern Sea Route). Che ogni evento atmosferico catastrofico sia però da attribuire ai cambiamenti climatici in atto non è corretto, ed è un facile paravento per celare la propria memoria corta. Sì, perché se c'è una cosa che l'uomo proprio non è capace di fare è quella di ricordarsi degli eventi storici, anche se non sono così lontani nel tempo come la disastrosa alluvione dell'Europa Centrale del 1927. Lo vediamo ad ogni terremoto: dopo la distruzione e la morte, il sentore comune è sempre quello dello stupore per il verificarsi di un evento così catastrofico. Eppure la terra ha sempre tremato, così come i vulcani hanno sempre eruttato, e le tempeste violente ci sono sempre state, e basterebbe guardarsi indietro per capire che certi fenomeni hanno un tempo di ritorno che si può quantificare, più o meno, e che ogni lustro o decennio di ritardo nel loro ripresentarsi è solo tempo guadagnato al disastro. Disastro. Sì. Perché se c'è un'altra cosa che l'uomo non impara mai è rimediare ai propri errori. L'ultima eruzione del Vesuvio, uno dei vulcani più pericolosi del mondo, è del 1944, eppure nel secondo dopo guerra nessuno ha pensato che si dovesse evitare di costruire selvaggiamente sulle sue pendici. Nessuno pensa, dopo le alluvioni o le esondazioni dei fiumi, che i corsi d'acqua, piccoli o grandi che siano, hanno bisogno di evolversi, di muoversi, di trovare il loro equilibrio e pertanto necessitano di una fascia di rispetto. Nessuno mai pensa che se un terremoto ha distrutto Messina nel 1908 (con tanto di maremoto), quest'evento particolarmente violento, sebbene eccezionale, può ripresentarsi dopo un certo lasso di tempo (stimabile tra i 100 e i 200 anni): quello che, come detto, viene definito “tempo di ritorno”. Più un evento è violento, in linea di massima, più ha un tempo di ritorno lungo – misurabile in decenni, secoli, perfino decine di migliaia di anni per certi eventi geologici particolarmente catastrofici – ed è proprio questo il guaio: il suo ricordo svanisce nel tempo, restando affidato solamente alla memoria scritta e polverosa di qualche cronaca del medioevo o di qualche quotidiano del secolo scorso. Il cambiamento climatico non può essere il capro espiatorio per qualsiasi pioggia torrenziale, siccità o inondazione. Non possiamo ciecamente pensare che tutto sia causato dalla modificazione del clima (di origina antropica o meno, non è questo il punto) e quindi dimenticarci che certi fenomeni ci sono sempre stati e che quindi bisogna coesistere con essi, il che significa coesistere con l'ambiente che ci circonda, quindi trovare un equilibrio tra la presenza umana e i normali, ciclici, eventi naturali. Diffondere la cultura ambientale non significa scendere in piazza come delle pecore ammansite per Greta Thunberg e “per il clima”, significa conoscere il territorio in cui si vive, conoscerne le dinamiche di corto, medio, lungo e lunghissimo periodo, per capire quello che si può fare ma soprattutto quello che non si può fare: chi costruisce una casa sulla golena di un fiume, o sulla sabbia in riva al mare, non deve poi stupirsi quando le acque gliela porteranno via, non deve lamentarsi per “i cambiamenti climatici”. Il cambiamento climatico, come già detto, non deve essere il paravento dietro il quale nascondiamo la nostra memoria corta e la nostra ignoranza ambientale, un'ignoranza che, peraltro, i nostri nonni e bisnonni mostravano spesso di non avere. 

Paolo Mauri. Nato a Milano nel 1978 trascorro buona parte della mia vita vicino Monza, ma risiedo da una decina d’anni in provincia di Lecco. Dopo il liceo scientifico intraprendo studi geologici e nel frattempo svolgo il servizio militare in fanteria a Roma. Ho scritto per Tradizione Militare, il periodico dell’Associazione Nazionale Ufficiali Provenienti dal Servizio Attivo

L’Italia del dissesto idrogeologico. Eugenio Melotti il 27 Ottobre 2017 su aulascienze.scuola.zanichelli.it. Frane e alluvioni sono fenomeni ben noti nel nostro Paese. Ogni anno si ripetono con drammatica regolarità, provocando vittime e danni ingenti. Sappiamo che gran parte del territorio italiano è a rischio idrogeologico. Un po’ per la sua natura prevalentemente montuosa, ma soprattutto a causa delle attività umane. Il dissesto idrogeologico è figlio dell’incuria e della cattiva gestione del territorio. I costi ambientali, sociali ed economici sono elevatissimi, ma gli interventi per la messa in sicurezza sono spesso bloccati dall’inerzia della politica e dalle lungaggini burocratiche. Cerchiamo allora di analizzare il problema, evidenziando criticità e suggerendo buone pratiche, in un’ottica di maggior rispetto e tutela dell’ambiente. 

Che cos’è il dissesto idrogeologico?

Con il termine “dissesto idrogeologico” si intendono tutti quei processi che hanno un’azione fortemente distruttiva sul suolo. Alcuni si manifestano in modo più graduale e prolungato nel tempo, come l’erosione superficiale, legata principalmente all’azione delle acque meteoriche e alla natura dei suoli. Altri possono essere improvvisi e catastrofici, come le frane e gli smottamenti che si verificano nei terreni montani e collinari, e le alluvioni che inondano quelli pianeggianti.

Come accade nel caso dei terremoti, gli effetti del dissesto idrogeologico sono meno evidenti in aree naturali o poco antropizzate, mentre possono assumere connotati drammatici quando colpiscono abitazioni, infrastrutture e coltivazioni. 

Piogge torrenziali e bombe d’acqua, sempre più frequenti a causa del cambiamento climatico, stanno rendendo più frequenti frane, smottamenti e alluvioni.

Quali sono le cause del dissesto?

Non è sbagliato associare il dissesto idrogeologico allo zampino umano. Esistono fattori naturali che contribuiscono al rischio idrogeologico, come condizioni meteorologiche estreme (piogge particolarmente abbondanti), geomorfologia del territorio (pendenza dei versanti o caratteristiche del bacino idrico) e variazioni climatiche (repentini aumenti della temperatura).

In un ambiente integro, tuttavia, il loro impatto è trascurabile. Inoltre alcuni di questi, come le anomalie climatiche, sono in realtà favorite dal riscaldamento globale di origine antropica. Il principale responsabile del dissesto idrogeologico, quindi, è l’uomo. Le attività umane che vi contribuiscono maggiormente sono la deforestazione, l’eccessivo consumo di suolo e la cementificazione. Analizziamole in dettaglio una alla volta. 

In che modo la vegetazione riduce il rischio di frane?

Il primo beneficio della copertura vegetale, ancor più della produzione di ossigeno (il maggior contributo viene dal fitoplancton) è il consolidamento del suolo. Con le loro radici, le piante trattengono il terreno impedendo il suo dilavamento, cioè l’erosione provocata dalle piogge e dal ruscellamento. Inoltre, assorbono una parte consistente dell’acqua piovana, e ne smorzano la violenza, favorendo al contempo la sua penetrazione in profondità. 

Il 28 luglio del 1987, dopo piogge eccezionali un’enorme frana di 40 milioni di metri cubi travolse la Val Pola, una valle laterale della Valtellina, creando una diga alta 50 metri che sbarrò il fiume Adda. Tra frane ed esondazioni 53 persone persero la vita, e i danni furono ingentissimi (immagine: Wikimedia Commons) 

Dove la copertura vegetale viene eliminata a causa del pascolo eccessivo, degli incendi o della deforestazione, le piogge (e in misura minore il vento) asportano rapidamente il suolo più superficiale, fertile e ricco di humus. Il fenomeno è particolarmente evidente nelle aree tropicali deforestate, dove i violenti acquazzoni stagionali dilavano rapidamente il sottile strato fertile. In pochi anni, erosione e alterazione del ciclo dell’acqua – la stessa foresta produce il 50% della pioggia che la bagna – possono trasformare ciò che un tempo era bosco o foresta in una distesa arida e brulla.

Nelle zone temperate, invece, il rischio maggiore non è rappresentato tanto dalla desertificazione (comunque presente nel sud d’Italia e nelle isole maggiori), quanto dalle alluvioni e dagli smottamenti. L’acqua non più assorbita dalle radici e dal terreno ingrossa torrenti e fiumi facendoli esondare, mentre dai versanti disboscati di montagne e colline si staccano più facilmente frane.

Un pendio boscoso, dove le radici degli alberi trattengono il suolo, è molto più stabile di uno disboscato. Questo è quello che purtroppo hanno drammaticamente sperimentato gli abitanti di Sarno e Quindici, due Comuni campani in provincia di Salerno e Avellino. Le colline circostanti, private della copertura vegetale che teneva ancorati gli antichi depositi piroclastici del Vesuvio, non ressero alle piogge particolarmente abbondanti e tra il 5 e il 6 maggio del 1998 provocarono il distacco di una grande frana. Due milioni di metri cubi di fango e detriti piombarono sui due paesi sottostanti, travolgendo ogni cosa e provocando 160 vittime.

Da che cosa sono provocate le alluvioni?

Altre cause del dissesto direttamente riconducibili a un’errata gestione del territorio sono gli interventi per regolare il flusso di fiumi e torrenti. Il rapporto dell’uomo con l’acqua è antichissimo. I primi insediamenti stabili, a partire da circa 12 000 anni fa, erano costruiti lungo le sponde di laghi e fiumi o presso le foci. L’acqua infatti è sempre stata indispensabile per dissetare umani e bestiame, coltivare i campi, cucinare e per tutti gli usi quotidiani. Lo è ancora oggi, anche se la tecnologia ci consente di costruire città in pieno deserto, come Las Vegas, con tutti i problemi ecologici che ciò comporta.

Il rovescio della medaglia di risiedere vicino all’acqua è il rischio di alluvioni. Un incubo ricorrente, specialmente da quando abbiamo smesso di vivere sulle palafitte. Lungo le sponde del Nilo, in realtà, le esondazioni annuali erano attese e festeggiate dagli antichi Egizi perché apportavano limo fertile ai campi coltivati. Ma gli Egizi conoscevano bene il loro fiume e sapevano gestire le sue piene. 

Vale la pena ricordare che molte grandi pianure, compresa la Pianura Padana, si sono formate grazie ai sedimenti trasportati e accumulati dal Po e dai suoi affluenti. Nelle aree pianeggianti, i corsi d’acqua tendono ad avere alvei pensili. I sedimenti trasportati alzano progressivamente il letto del fiume finché il cedimento di un argine lo fa esondare. L’alluvione allaga vaste aree, depositando ciottoli, sabbia, limo e argilla, strato dopo strato.

In condizioni naturali, tutti i fiumi cambiano il proprio corso nel tempo. Quelli che hanno un alveo pensile, dopo una grande esondazione non possono rientrare nel vecchio letto, ma devono scavarsene uno nuovo, come testimoniano i paleoalvei ancora oggi visibili nelle foto aeree dei campi. Di solito, però, le alluvioni catastrofiche sono eventi eccezionali. Infatti le golene, vaste aree comprese fra le rive e gli argini del fiume, fungono da invasi di emergenza dove il fiume può espandersi in caso di piene eccezionali, senza esondare. 

Anche la vegetazione spontanea che cresce nelle aree golenali è utile, perché rallenta notevolmente la velocità della corrente. Purtroppo oggi molte golene sono occupate da coltivazioni (per esempio pioppeti), se non addirittura da abitazioni e infrastrutture. Una pratica dannosa ma ancora molto diffusa è la cosiddetta “pulizia degli alvei”, cioè la rimozione periodica della vegetazione ripariale, cui partecipano con entusiasmo i volontari della Protezione Civile.

Una golena coltivata a pioppeto e invasa dall’acqua. La rimozione della vegetazione ripariate, oltre a creare danni ecologici, è un fattore di rischio idrogeologico perché aumenta la potenza delle piene

Vivendo da millenni lungo i fiumi, dovremmo avere acquisito una profonda conoscenza, anche empirica, della loro ecologia, e saper prevenire per contenere la loro periodica esuberanza. Purtroppo è vero il contrario. L’intensa urbanizzazione e il consumo di territorio negli ultimi 50 anni hanno assediato i fiumi, ridotto il loro spazio vitale e aumentato la loro pericolosità. Costretti entro angusti argini e privati delle aree golenali, molti grandi corsi d’acqua, come l’Arno e il Tevere, sono diventati protagonisti in passato di catastrofiche alluvioni. E alcuni rischiano di esserlo anche in futuro.

Il 4 novembre 1966, dopo un’eccezionale ondata di maltempo, l’Arno straripò provocando una delle più devastanti alluvioni della storia italiana. Non solo Firenze, ma anche Pisa e gran parte della Toscana furono sommerse. In alcuni punti, il livello dell’acqua superò i 5 metri, provocando 35 morti e danni irreparabili a capolavori dell’arte fiorentina. È passato più di mezzo secolo, ma sul fronte della prevenzione si è fatto ben poco. Anzi, recenti simulazioni hanno mostrato che se oggi dovesse ripetersi un’alluvione come quella del 1966, con le stesse modalità, l’acqua supererebbe di due metri i livelli raggiunti allora. Come se non bastasse, molte aree che all’epoca erano disabitate o coltivate oggi sono quartieri industriali o densamente popolati.

Perché è importante frenare la cementificazione selvaggia?

Negli ultimi decenni, la pressante richiesta di nuovi terreni da coltivare e spazi per costruire strade, case e infrastrutture ha provocato una sconsiderata cementificazione di molti corsi d’acqua. Gli alvei sono stati rettificati, ristretti, imbrigliati e ingabbiati entro sponde di cemento che hanno trasformato fiumi e torrenti in canali. Oltre alle gravi ripercussioni sugli ecosistemi fluviale e ripariale, completamente stravolti, questi interventi aumentano il rischio di alluvioni, perché l’acqua non trova ostacoli e scorre più impetuosa. 

Il torrente Ausa prima attraversava il centro di Rimini, ma ai primi del ‘900 fu deviato nel fiume Marecchia tramite un canale di cemento e trasformato in uno scarico fognario della città

È quello che succede, in Liguria, a Genova, dove diversi torrenti sono stati a tratti intombati, cioè coperti di cemento e costretti a scorrere in tubature. Alcune case si trovano proprio sopra i torrenti e nel loro alveo. Basta che una piena improvvisa crei un tappo di rami e detriti, per far finire sott’acqua interi quartieri della città. Anche la Sardegna, in particolare la zona di Olbia, rivive periodicamente l’incubo delle alluvioni. 

Durante l’alluvione di Genova del 4 ottobre 2010 sono straripati diversi torrenti, tra cui il Molinassi che ha allagato Sestri Ponente

L’impermeabilizzazione del suolo nelle aree urbane è un altro fattore di rischio, perché l’acqua non può penetrare nel terreno e tende a ruscellare, provocando allagamenti. Un fenomeno che a causa del riscaldamento globale sarà sempre più frequente. L’aumento delle temperature infatti aumenta la probabilità di nubifragi, e quindi anche di fenomeni di piena. Secondo il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, in Italia nel 2016 sono stati costruiti 17 000 nuovi immobili abusivi, in media circa 46 al giorno. Quotidianamente, vengono impermeabilizzati da cemento e asfalto 75 ettari di suolo.

Per approfondire il tema dei reati ambientali legati al consumo del territorio, dall’abusivismo edilizio al business del cemento, si può leggere il Rapporto Ecomafia 2017 di Legambiente, scaricabile da questo sito o acquistabile in libreria.

Quali sono i numeri del dissesto in Italia?

Un rapporto del Ministero dell’Ambiente pubblicato nel 2008 rivela che sono a elevato rischio idrogeologico l’82% dei Comuni italiani, e 5,8 milioni di persone. Le regioni più colpite sono Campania, Calabria, Piemonte, Sicilia e Liguria. Un altro rapporto, redatto nel 2012 da Ance (Associazione Nazionale costruttori edili) e Cresme (Centro ricerche economiche sociali di mercato per l’edilizia e il territorio), denuncia che sono a rischio 6250 scuole, 550 ospedali e circa 500 mila aziende.

Se si aggiungono appartamenti e case residenziali, si arriva a un totale di 1,2 milioni di edifici. Dal 1900 a oggi, in Italia si sono verificate 486 mila frane; nel resto d’Europa sono state 214 mila. Date queste premesse, non sorprende che nello stesso lasso di tempo le vittime del dissesto idrogeologico siano ben 12 600.

Sul sito dell’ISPRA, l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale, si trovano altre mappe della popolazione a rischio idrogeologico in Italia, separate per frane e alluvioni.

Per quanto riguarda i costi, sconforta lo sperpero di denaro pubblico. Nel solo biennio 2010-2012 sono stati spesi 7,5 miliardi di euro in risarcimenti e ricostruzioni. Per i 65 anni precedenti la spesa (fatte le debite conversioni) sale a 54 miliardi di euro. Nel suo rapporto del 2008, il Ministero dell’Ambiente ha stimato che con 4,1 miliardi di euro si potrebbero mettere in sicurezza le zone più a rischio su tutto il territorio italiano. Evitando futuri sprechi e tante vittime.

In un documento dell’Anbi (Associazione nazionale delle bonifiche, delle irrigazioni e dei miglioramenti fondiari) del 2012, i costi per gli interventi salgono a 6,8 miliardi di euro. Si tratta comunque di una cifra minima rispetto all’enorme spesa per tamponare i danni, senza contare che un piano nazionale di questa portata creerebbe 44 000 nuovi posti di lavoro. 

Che cosa si può fare per ridurre il rischio idrogeologico?

Il modo migliore per prevenire le frane è fermare il disboscamento nelle aree a rischio e non concedere l’edificabilità sui pendii instabili. Dove il danno è già stato fatto, bisogna intervenire per consolidare e stabilizzare i versanti con rimboschimenti e sostegni come muri, gabbioni o reti metalliche. Sarebbe auspicabile un regolare monitoraggio per verificarne la stabilità.

Sul fronte delle alluvioni, invece, la strada giusta è la rinaturalizzazione dei corsi d’acqua rettificati, imbrigliati e cementificati. Ovviamente, va impedita la costruzione di abitazioni nelle aree golenali e sui torrenti intombati. Un esempio virtuoso ci viene dalla Germania, che sta progressivamente smantellando le sponde di cemento. Dove possibile vengono ripristinate le golene e sulle rive sono piantati alberi d’alto fusto.

Anche le briglie, sbarramenti che dovrebbero correggere la naturale pendenza dell’alveo e smorzare la forza dell’acqua, spesso si sono rivelate controproducenti e andrebbero rimosse. Trattengono infatti i sedimenti a monte e aumentano i fenomeni erosivi più a valle, accelerando le piene.

Le casse di espansione rappresentano una possibile alternativa alle aree golenali, laddove sono state rimosse, per contenere le piene. A volte assumono anche una certa importanza naturalistica come zone umide. Per saperne di più sulle buone pratiche legate al dissesto idrogeologico si può leggere questo vademecum scaricabile in formato pdf. Una pubblicazione recente sul tema è Il dissesto idrogeologico. Previsione, prevenzione e mitigazione del rischio, di Giuseppe Gisotti, Dario Flaccovio Editore, 2012. Tra i siti che si occupano di dissesto idrogeologico ci sono isprambiente.gov.it, legambiente.it, ideegreen.it. 

Da Ansa il 29 agosto 2022.

Migliaia di persone che vivono vicino ai fiumi nel nord del Pakistan, colpito dalle inondazioni, hanno ricevuto l'ordine di abbandonare le proprie case mentre il bilancio provvisorio delle vittime delle devastanti piogge monsoniche si avvicina a quota mille. 

Molti fiumi a Khyber Pakhtunkhwa hanno rotto gli argini, demolendo decine di edifici tra cui un hotel di 150 camere, che si è sbriciolato sotto la forza dell'acqua di un torrente in piena. Secondo funzionari locali, le inondazioni monsoniche di quest'anno hanno colpito più di 33 milioni di persone - un pachistano su sette - distruggendo o danneggiando gravemente quasi un milione di case.

Da Ansa il 29 agosto 2022.

Le piogge che hanno colpito il Pakistan in questi giorni sono "senza precedenti negli ultimi 30 anni": lo ha detto il premier del Paese, Shehbaz Sharif.

Le piogge monsoniche che hanno causato massicce inondazioni in tutto il Pakistan, uccidendo almeno 1.061 persone, sono "senza precedenti negli ultimi 30 anni", ha dichiarato Sharif.

Le inondazioni sono "come un oceano, c'è acqua dappertutto", ha aggiunto il capo del governo nel corso di una visita alle regioni settentrionali del Paese duramente colpite dalle precipitazioni, dove sono proseguono le operazioni di soccorso.

(ANSA il 16 settembre 2022) - Il nubifragio che ha colpito le Marche è stato il più intenso degli ultimi 10 anni nella Regione: lo indicano i dati registrati dai sistemi di monitoraggio delle precipitazioni della rete pluviometrica nazionale dell'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Irpi). In particolare il pluviometro di Cantiano, uno dei comuni marchigiani più colpiti, tra le 17,00 e le 21,00 ha registrato 265 millimetri di precipitazioni, con un picco di 90 millimetri all'ora tra le 20.00 e le 21.00.

Analizzando un periodo temporale più ampio e su scala nazionale, nei 22 anni tra 2000 e 2021 le regioni con il più alto numero di vittime per fenomeni di inondazione risultano essere la Toscana (con 27), la Sicilia (25), la Sardegna e la Liguria (entrambe con 24). 

Durante lo stesso periodo, la regione Marche ha subito vari eventi alluvionali che hanno in totale causato 7 vittime. Il catalogo degli eventi di frana e inondazione con danni alle persone, realizzato da Cnr-Irpi, evidenzia che nelle aree interessate dalla perturbazione del 15 settembre si sono in più occasioni registrate vittime a causa delle esondazioni dei fiumi: ne è un esempio l'evento del 2014, quando nei territori di Senigallia e Ostra Vetere (in provincia di Ancona) si registrarono 3 vittime.

La banca dati contiene anche le informazioni sulle modalità con cui uomini e donne perdono la vita a causa degli eventi geo-idrologici: analizzando i dati degli ultimi 50 anni, si riscontra che a perdere la vita a causa delle inondazioni sono in maggioranza gli uomini (61%) e che le persone decedute all'aperto sono tre volte quelle al chiuso. Viaggiare in auto lungo le strade allagate costituisce una condizione di pericolo, soprattutto per gli uomini, mentre le persone che rimangono bloccate nei locali posti al pianterreno e nei seminterrati sono in maggioranza donne adulte ed anziane.

(AdnKronos il 17 settembre 2022) - Anche l'ultima vittima rintracciata dai vigili del fuoco è stata identificata: si tratta di uno dei DISPERSI che il personale impegnato stava cercando di rintracciare. Il bilancio complessivo pertanto è di undici persone decedute e due dispersi per i quali continuano le operazioni di ricerca. Il centro coordinamento soccorsi della Prefettura di Ancona continua a riunirsi interfacciandosi con la sala operativa unificata della Regione MARCHE in raccordo con il presidente della Regione e con il Dipartimento Nazionale della Protezione Civile.

Sono attualmente impiegati sul territorio centinaia di uomini delle forze dell'ordine fra vigili del fuoco, carabinieri, polizia di Stato e guardia di finanza anche con compiti di antisciacallaggio. E' stato disposto sul territorio l'arrivo dei reparti di sommozzatori delle forze di polizia e dei vigili del fuoco. Sono in arrivo rinforzi delle Squadre Operative di Intervento dei Carabinieri, la Polizia di Stato ha ottenuto l'intervento del Reparto Anticrimine e del Reparto mobile di Senigallia. La Guardia di Finanza, come i Vigili del Fuoco e i Carabinieri, ha messo a disposizione elicotteri per il sorvolo delle zone interessate dall'alluvione che potranno essere messi in campo non appena le condizioni meterorologiche attualmente ancora avverse lo consentiranno.

Bomba d’acqua nelle Marche. Otto morti, fra i dispersi una mamma e due bambini. Il Domani il 16 settembre 2022

Esonda il fiume Misa, il sindaco di Cantiano Alessandro Piccini a Radio24: «L’alveo era stato ripulito, era al massimo della capienza. È accaduto l’inimmagginabile». Caduti 400 mm di pioggia in tre ore, l’equivalente della metà di un anno. Sindaco Barbara: «Dio ci aiuti». Il presidente Acquaroli in contatto con la protezione civile

Immagini apocalittiche, sale a otto il numero delle vittime e quattro dispersi nelle Marche colpite nella notte da una bomba d’acqua: oltre 400 millimetri di pioggia in tre ore, l’equivalente di metà anno.

Due dei dispersi sono bambini travolti insieme alla mamma.  Una delle donne è stata salvata. 

La Protezione civile ha difficoltà a raggiungere tutte le zone alluvionate. Coinvolti venti comuni e tre province, è esondato anche il fiume Misa nell’area di Senigallia: «L’alveo era stato ripulito, era al massimo della capienza. È accaduto l’inimmaginabile», ha detto il sindaco di Cantiano, Alessandro Piccini, a Radio 24. I sindaci con i loro comuni sommersi dall’acqua cercano di quantificare i danni delle scorse ore e chiedono ai cittadini di non lasciare le loro case e stare ai piani alti: «Che Dio ci aiuti», ha scritto il sindaco di Barbara, Riccardo Pasqualini in un messaggio sull’account del comune.

09:55 – Sale a otto vittime e 4 dispersi il bilancio dell'alluvione che ha colpito nella notte le Marche. Questo quanto ha comunicato la prefettura di Ancona alla sala operativa del Dipartimento della Protezione Civile.

09:37 – Arriva la puntualizzazione del sindaco di Barbara: «Al momento sono dispersi una madre con una figlia di circa 8 anni che cercavano di scappare. E in un’altra situazione scappavano sempre una madre e un figlio: in questo caso la mamma si è salvata» ha detto Riccardo Paqualini, che ha fatto il bilancio dei dispersi del nubifragio.

08:32 – Ha 8 anni il bambino disperso a Barbara, in provincia di Ancona. La sua mamma, secondo quanto riferito dai Vigili del fuoco, è stata salvata nella notte dai soccorritori, ma del bambino, al momento, non vi è alcuna traccia. Mamma e figlio erano in auto, nel tentativo di fuggire dall'acqua che ha allagato la cittadina. 

07:56 – Si registra un’altra vittima, a Bettolelle, parte del comune di Senigallia. Sono sette in tutto: «Voglio sperare che il bilancio delle vittime sia definitivo, al momento non ci sono, per fortuna, altre vittime», ha detto a Rainews24 Stefano Aguzzi, assessore alla protezione civile della Regione Marche.

07:20 – L'energia elettrica non è stabile. Problemi anche per le linee telefoniche e le reti idriche, in alcuni casi è stata staccata la rete gas. Il sindaco di Barbara ha firmato un'ordinanza, che prevede per oggi la chiusura di tutte le scuole. Analoga decisione in diversi altri centri colpiti, come Sassoferrato, Senigallia, Serra de' Conti, Cantiano.

Il presidente della Regione, Francesco Acquaroli, ha detto che c’è estrema preoccupazione: «Sto seguendo dalla sala della Protezione civile regionale, insieme a tutte le altre autorità l'evolversi della gravissima crisi meteorologica che si è abbattuta sulla nostra regione e l'azione di soccorso di tutti gli operatori. Sono momenti di estrema apprensione».

Cantiano, paese di duemila abitanti al confine tra le province di Pesaro-Urbino e Ancona, invaso da acqua e fango, con i cittadini al buio e i telefoni in tilt e diverse auto che galleggiano nella piazza del centro e residenti che in alcuni casi hanno cercato scampo sui tetti dal fiume d'acqua e detriti.

Senigallia, in provincia di Ancona, alle prese con la piena del fiume Misa, già vissuta il 3 maggio del 2014, quando causò 4 vittime. Il sindaco ha ordinato ai cittadini di non lasciare le abitazioni, ha chiuso tutti i ponti del centro attraversati dal Misa e chiesto alle forze dell'ordine di presidiarli.

Nell'Alto Pesarese, tutt'intorno al Monte Catria, risultano isolati il monastero di Fonte Avellana, un agriturismo e due frazioni di Cantiano, Chiaserna e Pontericcioli, mentre è impossibile passare dalla provincia di Pesaro-Urbino a quella di Perugia: chiusa la Flaminia, impraticabile il passo della Contessa.

Il maltempo ha colpito anche Cagli e il fiume Burano è esondato in diverse località.

06:59 – Quattro corpi sono stati recuperati a Pinaello di Ostra, a quanto si apprende all'interno di un garage; uno a Trecastelli.

Il piccolo comune di Barbara registra una vittima e tre dispersi, tra i quali una madre col figlio, trascinati dalla furia di acqua e fango con l'auto vicino Molino Marian. Nella notte il sindaco ha chiesto di non uscire se non necessario.

Si è trattato in alcuni casi di 300 millimetri d’acqua in mezz’ora.

Marche, i fondi stanziati nell’86: tutto fermo ancora oggi. Così il fiume Misa è rimasto area a rischio. Rinaldo Frignani su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

Tre alluvioni in 16 anni. Un solo cantiere aperto ma non è a regime. Per mettere in sicurezza gli argini servono vasche di contenimento. Non sono mai state realizzate per la burocrazia e per l’impatto ambientale. 

Trentasei anni per assistere impotenti ad almeno tre alluvioni, costate una ventina di morti e danni per milioni di euro, e a una miriade di episodi minori collegati comunque a ondate di maltempo che non sono stati sufficienti per spingere chi avrebbe dovuto a mettere in sicurezza il fiume Misa. Un corso d’acqua «a carattere torrentizio» che — come l’ingegner Alessandro Mancinelli, già consulente del comune di Senigallia aveva spiegato tempo fa in una sua relazione sul Piano straordinario di individuazione delle aree a rischio idraulico — è capace «di portate nulle nel regime di magra e di piene di centinaia di metri cubi». Anche senza bombe d’acqua, evidentemente.

I lavori bloccati

È in particolare dal 1986, quando sono stati stanziati miliardi per la messa in sicurezza degli argini del Misa con i Fondi per gli investimenti e l’occupazione (Fio), che si comincia a parlare di cantieri da aprire a Senigallia per evitare le alluvioni che si sono susseguite numerose fin dal 1765: solo dal Novecento sono già state 13, le ultime tre in soli 16 anni. Tutto ruota attorno alla creazione delle aree di laminazione, che servono a invasare le acque della piena e impedire che escano dagli argini e vengano mandate a valle. «Si tratta di milioni di metri cubi d’acqua», spiega Erasmo D’Angelis, ora segretario generale dell’Autorità di bacino del Tevere ma che nel 2014 — proprio all’indomani dell’alluvione del 3 maggio che ha colpito sempre Senigallia provocando quattro morti — era il coordinatore della struttura di missione di Italia sicura, il programma del governo Renzi che aveva stanziato 45 milioni di euro degli otto miliardi complessivi, proprio per la costruzione della cassa di espansione per il Misa.

Il progetto fermo

«Immensi contenitori, vasche enormi — spiega D’Angelis — che servono a immagazzinare l’acqua per frenarla. Il governo Conte ha cancellato Italia sicura e quel progetto, ma analoghe iniziative già finanziate a Genova e Firenze sono andate avanti». Anche questa avrebbe seguito la stessa strada, se tutto non si fosse fermato nel settembre 2020. «Per una questione di espropri — aggiunge — la procedura si è bloccata ancora per un anno e solo nel febbraio scorso, dopo le pressioni dei sindaci del territorio, c’è stata la consegna dei lavori, ma ancora non è partito nulla. Sono state sistemate solo alcune arginature».

Il tempo perduto

Già il progetto del 1986 della Regione Marche non aveva visto la luce perché bocciato in quanto prevedeva un enorme cassone in cemento armato che, non solo era stato considerato dagli esperti un errore dal punto di vista idraulico, ma avrebbe anche avuto un impatto negativo sull’ambiente. Il successivo progetto, che prevedeva l’impiego di altri materiali, con la terra battuta, era stato invece inserito nel piano di Italia sicura. «Vi avevano partecipato tutti, dall’Autorità di bacino alla Protezione civile, e poi il Comune e la Regione — ricorda D’Angelis — non se n’è fatto nulla, ma quel progetto non era politico ma una necessità per il territorio, come si vede oggi. Le casse di espansione, due delle quali sono già state progettate, erano necessarie. In questo campo il tempo fa la differenza, se lo butti corri rischi».

Primo cantiere nel 2022

Senza contare che già nel 2009 la Regione aveva avviato gare per i lavori di messa in sicurezza del fiume perché ritenute «urgenti e prioritarie» ma anche in questo caso, nonostante i fondi fossero a disposizione, solo una minima parte degli interventi sul Misa è stata portata a termine. Un caso di mala-burocrazia che si è trascinato fino al 2018 con i primi bandi, gli appalti assegnati ma solo per un tratto di Misa, con il blocco dei lavori a causa di problemi collegati alla valutazione di impatto ambientale. La modifica del progetto è durata altri tre anni, fino al 2021 quando finalmente i 900 mila euro stanziati per il posizionamento delle vasche di espansione hanno un loro utilizzo in un cantiere che viene aperto, appunto, pochi mesi fa. In questo caso in località Bettolelle.

La pulizia del fiume

Eppure sono state proprio le Marche a considerare il Misa un’area «a rischio idrogeologico molto elevato» (R4) nel Piano di assetto idrogeologico regionale. L’alluvione del 2006 ha portato alla progettazione di interventi con il posizionamento di casse di espansione in vari punti del fiume, come nel bacino del rio Scaricalasino. Ma a tutt’oggi gli interventi hanno riguardato, solo quando è stato possibile, la bonifica del letto del fiume e il dragaggio per cercare di rimuovere i detriti dell’alluvione del 2014. Troppo poco, evidentemente. Senza contare il nodo della pulizia dei terreni colpiti dall’ondata di siccità di quest’estate, che non hanno opposto resistenza all’acqua uscita dagli argini, come evidenziano ancora oggi dalla Protezione civile, che fa notare anche l’importanza fondamentale di mantenere i fiumi puliti e che le abitazioni non si trovino proprio a ridosso dei corsi d’acqua già a rischio.

Alluvione nelle Marche: il rosario di vittime e nessun colpevole. La «solita» tragedia. Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 17 Settembre 2022.

Quando si arriva nel fango e tra le macerie soltanto nomi, cognomi e volti dei morti sono inediti. Il resto è già visto e sentito in altre sciagure

C’è stata un’alluvione, una tempesta nelle Marche, ci sono morti, feriti e dispersi, e allora il giornale ti chiama, ti chiede di andare, capire, raccontare. Ma poi quando arrivi nel fango e tra le macerie, e annusi, butti le prime occhiate, prendi i primi appunti, subito ti accorgi che, come sempre, di nuovo puoi trovare solo il rosario delle vittime. Soltanto i loro nomi e cognomi, i loro volti, le loro storie private sono inedite. Il resto sarà già stato visto e sentito in altre sciagure, perché il nostro è un tragico Paese dove periodicamente la terra trema e i fiumi esondano, vengono giù scuole, interi pezzi di montagne, slavine di neve, e tutto finisce — regolarmente — dentro la consueta narrazione.

Con la gente che ti viene incontro, facce stravolte dalla rabbia e dalla paura, per dirti che il pericolo era stato completamente ignorato: e stavolta — lì tra Cantiano e Pianello di Ostra — insieme agli abitanti ci sono persino i sindaci che descrivono questa storia di tremenda sottovalutazione, avevano ricevuto appena un allarme giallo, generico, basso, stupido, e niente più. C’è pure sempre qualcuno che vaga in pigiama, con la vestaglia, le ciabatte nella melma, i capelli arruffati, bianchi di polvere, e allarga le braccia, ti guarda rassegnato, mortificato, perché va bene che siamo una piccola frazione, però, insomma, i ritardi dei soccorsi — scrivetelo — ci sono stati.

I vigili del fuoco fingono di non ascoltare e si spaccano la schiena, e rischiano la pelle persino per riprendergli il gatto che è andato a nascondersi in soffitta. A questo punto, puntuale, parte la rituale batteria di notizie: proclamati due giorni di lutto, bandiere a mezz’asta negli uffici istituzionali, la Procura locale che annuncia di aver aperto un’inchiesta contro ignoti, il governatore (in questo caso, Francesco Acquaroli di Fratelli d’Italia) che fa sapere di seguire costantemente la situazione, e di essere in contatto con la Protezione civile. Poi però scopri che a straripare è il fiume che tutti conoscono, un fiumaccio che si gonfia facile, scorre davanti alle case, sotto le case, e così ecco comparire il geologo di turno, per la lezioncina che ormai tutti dovremmo sapere a memoria. E cioè che la natura va rispettata, curata, assecondata. E qui invece se ne sono fregati, il letto del fiume Misa era pieno di tronchi secchi, vecchi cessi, carcasse rugginose di motorini: perciò quando la pioggia ha ingrossato le acque, tutto è finito sotto il ponte, che si è chiuso, tipo tappo.

C’è sempre qualche anziano sopravvissuto che ti spiega, con semplicità, come la tragedia si sarebbe potuta evitare. E c’è sempre qualche anziano che invece è morto in solitudine. Poi ci sono le mamme che piangono e urlano e si preparano alle piccole bare bianche. I preti che benedicono. E le luci dei tigì collegati in diretta. Per raccontare agli italiani che c’è stata un’altra tragedia. La solita tragedia. Con molti cadaveri e nessun colpevole.

Fabrizio Caccia per corriere.it il 17 settembre 2022.

«Mattia era tornato indietro per darmi un bacino», dice nonna Marisa pensando all’altra sera, quando ha visto il nipote di 8 anni per l’ultima volta. E adesso questo bacino la tormenta, sente la guancia fredda come ghiaccio. Lei — racconta — gli aveva preparato «il petto di pollo per cena», poi avevano atteso insieme l’ora di chiusura della farmacia comunale che sta lì a pochi metri. La mamma di Mattia, Silvia Mereu, è la farmacista di Barbara, 1.500 anime in provincia di Ancona. Giovedì si era scambiata il turno con la collega Laura Patrignani, che adesso in negozio piange dietro la mascherina anti Covid: «Silvia diceva sempre: Mattia è la mia luce. Ora come farà ad andare avanti?».

Il bambino, figlio unico, risulta ancora disperso e papà Tiziano e nonno Vladimiro, ingegnere in pensione, sono giù a Contrada Coste a seguire le ricerche in mezzo al fango che ha sepolto tutto. «Speriamo che lo ritrovino», sospira la nonna dietro al cancello. Senza aggiungere altro. Quando Silvia giovedì sera ha chiuso il negozio erano le 19.30 passate, è salita sulla sua Mercedes bianca e ha raggiunto la casa dei genitori di Tiziano Luconi, il papà di Mattia, che fa l’assistente sociale. 

Un saluto veloce e poi via verso San Lorenzo in Campo, dove il mattino dopo il bimbo, un bel moretto con gli occhioni neri, sarebbe tornato in classe felicissimo. Da due giorni faceva la terza elementare ed era tutto un sorriso coi compagni. Ma ecco che prima di andare, lui è sceso dalla macchina ed è corso a salutare la nonna, insegnante d’inglese in pensione, ora confortata in casa dalla sorella Maria. Sulla strada del ritorno, dopo la curva di Ripalta, verso Arcevia, è arrivata la bomba d’acqua.

«Uno tsunami», raccontano i sopravvissuti di Contrada Coste. Un muro di acqua e fango alto 5 metri. Quello che è successo dopo lo sa solo Silvia, che ora è ricoverata a Senigallia sotto choc. Di sicuro davanti a quell’onda gigantesca la farmacista deve aver pensato che fosse meglio uscire dall’auto per non farsi travolgere, ha preso Mattia in braccio ma la forza dell’acqua glielo ha strappato come una piuma. E lui è andato giù. 

 Lei invece si è aggrappata a una pianta e lì è rimasta fino all’arrivo dei soccorsi, in un grave stato di ipotermia. C’è un paese intero adesso che piange e prega per il bimbo scomparso. Don Paolo, il parroco della chiesa di Santa Maria Assunta, se potesse tornare indietro gli farebbe accendere tutte le candele della chiesa. Mattia ci è sempre andato pazzo. Entrava e cominciava a spingere tutti i bottoni della pulsantiera, in preda alla più pura meraviglia.

Nonna Marisa non vuole parlare al passato, lei dice che al nipotino «piace accendere le candele in chiesa e così si fa dare sempre le monetine dal papà, ma soprattutto ama andare in motoretta con Tiziano, loro due col casco in giro per il paese», tutti i pomeriggi, aspettando l’orario di chiusura della farmacia. Già. 

Tutti i pomeriggi, padre e figlio facevano sempre lo stesso percorso: prima un salto al Barbara Bar a fare merenda, a mangiare la crostata e le patatine che gli offrivano Giorgia e Arianna, seduto buono buono vicino ai pensionati impegnati nel tressette e nella briscola. Poi un saluto al fotografo Angelo, a Daniela la parrucchiera e un bacino anche ad Angela Antonucci del negozio di alimentari (che lo descrive come «un folletto, un tesoro di bambino»). Ecco: anche questo gli è sempre piaciuto fare. Mandare bacini a tutti.

Il giro poi terminava puntuale davanti alla farmacia, Tiziano suonava il clacson e Silvia si affacciava a salutarli. «Se non avessimo cambiato il turno, l’altro giorno, ora sotto il fango ci sarei io», dice la dottoressa Patrignani, la collega di Silvia, che non può ancora avvisare la sua famiglia perché a Barbara come altrove da ore è saltato tutto: luce, telefono, internet. Non funziona più niente. Era un mondo felice. Ora è solo buio.

Il papà di Mattia, bambino disperso: «La sua felpa era vicino al ponte. Cercatelo lì, è tutta la mia vita». Fabrizio Caccia, inviato a Barbara (Ancona) su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2022.

«Devo ritrovarlo, comunque vada». Tiziano Luconi, 38 anni, è un educatore. Ha salutato il bambino poco prima che venisse travolto dall’acqua mentre si trovava in braccio alla madre 

«In tre giorni ho dormito un’ora e mezza, ma dovessi ribaltare ogni tronco che c’è laggiù, fino all’ultimo filo d’erba, io Mattia lo devo ritrovare. Comunque vada, poi sarà con me. La sera di giovedì quando sono corso la prima volta al ponte di mattoni a cercarlo, un carabiniere mi gridava: “Che fai Tiziano, sei matto? Così rischi di perdere la vita”… Diluviava. Gli ho risposto: “Ma che ho più da perdere, maresciallo? La mia vita è lui”».

Tiziano Luconi, 38 anni, è il papà del bambino ancora disperso a Contrada Coste. Fa l’educatore alla Casa della Gioventù di Senigallia, si occupa di minorenni stranieri non accompagnati. Con i bambini ci ha sempre saputo fare, ha un’enorme sensibilità.

Ci ha aperto la porta di casa, a 20 passi dal municipio di Barbara, con lui ci sono anche i suoi genitori, Marisa e Vladimiro. Ci sediamo tutti in salotto e notiamo subito un brandello di stoffa verde poggiato sul tavolino basso. È sporco di fango. Nonno Vladimiro ogni tanto lo prende in mano e l’accarezza.

Che cos’è, Tiziano, quel pezzo di stoffa?

«Ce lo ha portato questa mattina un soccorritore, l’ha trovato scavando vicino alla casetta degli animali. Potrebbe essere un brandello della felpa gialloverde con l’elefantino che Mattia indossava proprio quella sera, è la stessa che indossa in questa foto, vedete? Finora l’hanno cercato coi droni, con gli elicotteri, niente da fare. Faccio un appello: perché non provare anche con i cani molecolari?».

Ce la fa a raccontarci di quella sera?

«Erano le 20.05, chissà perché ho guardato l’orologio. Silvia (la mamma di Mattia, ndr) aveva appena chiuso la farmacia ed era venuta a prenderlo per portarlo a casa a San Lorenzo in Campo, perché il mattino dopo doveva andare a scuola. Pioveva a dirotto, allora mio padre, Vladimiro, ha preso l’ombrellone grosso da mare e siamo andati tutti insieme fino alla Mercedes di Silvia. Mattia era in braccio a me, mi baciava in continuazione, io l’ho messo seduto in macchina, l’ho salutato, lui ha dato un ultimo bacino alla nonna. E sono partiti. E sa che ha fatto Mattia?»

Cosa?

«Si è girato verso di noi e dal vetro ha cominciato a salutarci con la manina. Non ha più smesso, finché la macchina non è sparita dietro la curva».

Poi che è successo?

«Alle 20.39 squilla il telefono, è mio cognato che mi dice: scusa Tiziano, ma Silvia qui a casa non è ancora arrivata… Non era normale, ci vogliono pochi minuti da qui a San Lorenzo. E allora sono uscito e ho fatto la stessa strada, ma quando sono arrivato al ponte di mattoni ho visto tutti quei tronchi enormi sulla carreggiata, c’era un mare di fango».

Il bimbo era in braccio a Silvia quando l’onda glielo ha strappato. Ha parlato con lei in ospedale a Senigallia?

«No, meglio di no. I medici dicono che è ancora sotto choc».

Non è facile chiederglielo: lei, Tiziano, cosa pensa sia accaduto a suo figlio?

«Quando ripenso a quei tronchi giganteschi mi crolla ogni speranza. Laggiù è come ci fosse stato un bombardamento. Domani alle 21 (stasera, ndr) don Paolo, il parroco della chiesa di Santa Maria Assunta ha organizzato una veglia di preghiera. Io però lo sento che Mattia è lì, dove hanno trovato la felpa, tra il ponte di mattoni e la casa degli animali. Chissà forse però è solo svenuto o si è nascosto, mio figlio ha una forma grave di autismo ma è intelligentissimo».

In paese tutti stravedono per Mattia.

«Eh già. Sapete quanti chilometri ho fatto in giro con Mattia con la mia motoretta? Esco un attimo a controllare…». Tiziano esce in giardino, guarda il contachilometri, rientra.

Quanti?

«4.264 in un anno. Perché una volta un medico mi disse: chi è affetto da autismo fatica a socializzare, a relazionarsi. Io allora decisi in quel momento di fargli fare tutto, qualunque cosa, nuotare, disegnare, stare in mezzo ai compagni di classe e andare in giro in lambretta, anche se non era omologata per girare in due, lui col casco da ciclista proibitissimo. Ma nessun vigile di Barbara ci ha mai fatto una multa. E così vagavamo insieme per i paesi, ore e ore, fino all’ultimo pit-stop serale davanti alla farmacia di mamma: noi suonavamo il clacson, Silvia usciva e ci salutava».

Don Paolo, il parroco di Barbara, è innamorato di suo figlio.

«Avrò speso mille euro in monetine per far accendere a Mattia ogni giorno per anni tutte le candele elettriche della chiesa. È un gioco che l’ha sempre divertito tanto. Lui non parla, ma si fa capire coi gesti. Un colpetto su una coscia se vuole le patatine, una mano sulla bocca se vuole l’acqua. E gli altri bambini hanno imparato perfettamente il suo linguaggio: alla mensa un giorno voleva il formaggio e ha messo una mano sul tavolino. Un compagno ha capito e l’ha subito accontentato. Altro che fatica a socializzare. Lui è, era, il mio orsacchiotto. Mattia mi ha riempito la vita».

Il corpo di Mattia trovato in un campo Il papà: «Ci speravo, ma adesso è finita». Fabrizio Caccia e Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 24 Settembre 2022.

Ancona, il bimbo trascinato dal fiume per 13 chilometri. Ieri pomeriggio è stato ritrovato per caso in una zona non ancora battuta dalle squadre di ricerca. 

Per una settimana oltre un centinaio tra vigili del fuoco, carabinieri, uomini del Soccorso Alpino lo ha cercato setacciando palmo a palmo il corso del fiume Nevola. Sono stati impiegati droni e cani molecolari, ma di Mattia nessuna traccia. Ieri pomeriggio, come capita spesso, è stato ritrovato per caso in una zona non ancora battuta dalle squadre di ricerca.

Il fango

Il corpo, ormai irriconoscibile, era parzialmente coperto dal fango in un podere a 150 metri dal corso del fiume Nevola, in territorio di Trecastelli. La dipendente di un piccolo asilo di campagna lo ha notato e ha avvertito il proprietario del terreno, Alessandro Bedetta, che a sua volta ha telefonato ai carabinieri. « Ho capito subito che era il bambino che tutti stavano cercando — racconta —. In questi giorni ho sentito più volte gli elicotteri sorvolare. Mi aspettavo che lo cercassero anche in questa zona, ma non di trovarlo proprio qui». Crollano così tutte le speranze dei genitori, e in particolare del papà Tiziano Luconi che fino all’ultimo ha voluto credere che il piccolo potesse essere ancora vivo, «magari nascosto da qualche parte». «Ho sperato fino all’ultimo — ha detto dopo aver saputo del ritrovamento —. Ma a un certo punto ho cominciato a sperare che non lo trovassero più». Poi si attacca ai momenti felici trascorsi con il figlio e sul suo profilo Facebook pubblica la foto di loro due in vespa. «Torneremo a girare in vespa e a tirare baci — scrive il papà—. Mattia saluta tutti. Vi vogliamo bene». Chiusa nel dolore la mamma, Silvia Mereu. Giovedì sera, dopo essere uscita dall’ospedale, si era fatta accompagnare lungo il corso del Nevola per tornare sul luogo della tragedia e guardare da vicino le squadre impegnate nelle ricerche, chiedendo loro di non fermarsi per alcuna ragione. Ma con la consapevolezza di dover recuperare solo un corpicino da piangere. «So che trovarlo in vita è impossibile — aveva detto—, ma almeno voglio una tomba sulla quale piangere».

Il Dna

Ancora manca il riconoscimento ufficiale di Mattia, che probabilmente avverrà questa mattina ad Ancona con la comparazione del Dna. Sul fatto che sia proprio lui ci sono pochi dubbi. Il particolare che porta a confermarne l’identità è la maglietta, ben visibile nonostante fosse coperta di fango. È gialla e verde, come quella che indossava quella tragica sera quando è sfuggito alla presa della madre ed è stato trascinato dalla furia del fiume Nevola. Il punto in cui è stato recuperato il corpo è quasi 14 chilometri più a valle. Ieri mattina, quando era ritornata sulle sponde del Nevola, la mamma di Mattia aveva rivissuto quella tragica sera. «Ricordo l’auto piena d’acqua e io col braccio fuori dal finestrino per tentare di telefonare e prendere il segnale — ha raccontato—. Ho slacciato la cintura di Mattia e sono uscita dal finestrino, tenendo stretto a me». Poi tutto diventa confuso. «C’erano lampi, tuoni. Ho solo dei flash. L’ultima immagine che ho è di Mattia attaccato a un tronco che tende la mano, urla, piange. Poi ho perso i sensi e non l’ho più visto. Ricordo di essermi attaccata a una pianta. Mi sono arrampicata, urlavo, piangevo, mi sbracciavo, e qualcuno ha sentito da una casa poco distante. Dopo circa una o due ore sono arrivati i soccorsi e non capisco ancora come sia riuscita a salvarmi». Grande il dolore anche nel paese del piccolo, San Lorenzo in Campo. «Ciao Mattia, ora potrai giocare in cielo, assieme agli altri angeli», scrive il sindaco Davide Dellonti. Con Mattia sono 12 le vittime dell’alluvione. Ancora dispersa Brunella Chiù, 56 anni, di cui è stata recuperata l’auto accartocciata su cui viaggiava.

Bomba d'acqua nelle Marche, è strage. 8 morti, tra cui una donna e il suo bimbo. Francesca Galici il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

La forte ondata di maltempo che ha colpito il centro Italia ha causato vittime nelle Marche. Alluvione a Senigallia. Allagamenti anche in Toscana

Tragedia nella notte a Senigallia e nelle Marche, dove un'alluvione ha causato morti e dispersi. La bomba d'acqua ha colpito l'alto pesarese nella giornata di ieri al confine con l'Umbria, e in particolare il comune di Cantiano, dove un fiume d'acqua ha invaso le strade, trascinando via alcune auto e allagando i piani terra delle abitazioni. È di 8 vittime al momento il bilancio della terribile ondata di maltempo: quattro sono a Ostra, una a Trecastelli e una Barbara. La prefettura di Ancona riferisce che i dispersi sono 4. Una mamma e suo figlio erano a bordo della loro auto quando sono rimasti bloccati dal fiume di acqua e fango. Secondo quanto ricostruito al momento dai soccorritori, la donna sarebbe riuscita a lasciare l'auto con il bambino in braccio ma sarebbe poi stata nuovamente travolta. Lei è stata salvata a Castelleone di Suasa dai vigili del fuoco: l'hanno rintracciata aggrappata al tronco di un albero ma del piccolo non c'è traccia.

L'allarme è scattato nel tardo pomeriggio di ieri: "Una bomba d'acqua si sta abbattendo su Cantiano. Diversi fiumi sono straripati. L'acqua ha invaso le vie centrali del Paese. Diverse zone sono già sommerse. La viabilità comunale è interrotta in diversi tratti. Chiusa la statale direzione Gubbio. Invitiamo la cittadinanza a mantenere la calma ed evitare situazioni di rischio". Così il sindaco di Cantiano, Alessandro Piccini, ha cercato di mantenere la calma tra i suoi cittadini nel corso della serata. Nella zona pioveva fin dal mattino e il blackout elettrico e i difficili collegamenti telefonici hanno fatto temere che alcuni cittadini fossero dispersi. "La situazione è drammatica, tragica e stiamo facendo la conta dei danni. Fortunatamente a Cantiano non abbiamo al momento notizie di persone coinvolte, non ci sarebbero dispersi, ma il paese è completamente disastrato e il centro storico non esiste più", ha detto Piccini questa mattina, prima di aggiungere: "Ci sono auto accatastate, la zona industriale è completamente allagata, con imprese colpite e macchinari da buttare - racconta il primo cittadino - Parte del paese è ancora senza elettricità ed è stato sospeso il rifornimento del gas perché sono saltate alcune condotte".

Massimo Olivetti, sindaco di Senigallia, questa mattina ha fatto il punto su quanto accaduto nella sua città: "Combattiamo da stanotte, è stata una notte difficile e stamattina la situazione è peggiorata perché altre zone si sono allagate. Il fiume è tornato alla normalità, ma ulteriori aree si sono allagate e principalmente i piani bassi".

Ludovico Caverni, sindaco di Serra Sant'Abbondio, ha chiesto ai cittadini di non uscire di casa e di rifugiarsi ai piani più alti delle abitazioni. I soccorsi sono stati coordinati dalla prefettura di Pesaro-Urbino, che sta ancora operando in condizioni estremamente complesse: vigili del fuoco, carabinieri e volontari della protezione civile sono al lavoro da tutta la notte, con il primo obiettivo di verificare l'esistenza di dispersi. Il capo della protezione civile, Fabrizio Curcio, in queste ore è in partenza per le Marche.

L'ondata di maltempo "non era prevista a questi livelli, non avevamo livelli di allarme. E l'esondazione del Misa, in particolare, è stata repentina e improvvisa". Lo dice all'Ansa l'assessore regionale alla Protezione civile Stefano Aguzzi. In alcune località, "non c'è stato tempo di intervenire, ci sono persone che magari erano in strada o sono uscite non rendendosi conto del pericolo". Anche in queste ore, i vigili del fuoco hanno messo in salvo alcune persone, tra cui anziani, con gommoni da rafting: nel centro di Senigallia si segnalano anche blackout. Nelle Marche stanno operando anche rinforzi dei vigili del fuoco provenienti da altre regioni tra cui Lombardia, Abruzzo ed Emilia Romagna. 

Tra i dispersi un bimbo che era in braccio alla madre. Tra i dispersi nell’alluvione c’è anche un bambino di 8 anni che si trovava in auto con la sua mamma. La donna è stata salvata dai soccorritori, ma del figlio, trascinato via dalla corrente, non c’è traccia. Valentina Dardari il 16 Settembre 2022 su Il Giornale.

A Barbara, tra i dispersi nell'alluvione che ha interessato nella notte le Marche c’è anche un bambino di 8 anni di Castelleone di Suasa, che si trovava in auto con la sua mamma. I due sono rimasti bloccati dall’acqua nella loro vettura nell’Anconetano. Da quanto ricostruito fino a questo momento dai soccorritori, mamma e figlio sono stati trascinati dalla corrente nei pressi di Mariano Mariani. La donna, secondo quanto reso noto dall’agenzia di stampa Ansa, sarebbe riuscita a uscire dalla macchina con il figlio in braccio, ma poco dopo sarebbe stata nuovamente travolta dalla forza della corrente e avrebbe perso la presa del bambino. I vigili del fuoco sono riusciti a mettere in salvo la donna, ma del figlio per il momento non c’è alcuna traccia.

Del bambino non c'è traccia

Luigi d’Angelo, responsabile delle emergenze del dipartimento della protezione civile, ha spiegato che in meno di tre ore si sono abbattuti circa 420 millimetri di pioggia. Si è trattato di un evento molto intenso, basti pensare che questa quantità di acqua registrata corrisponde alla metà di pioggia che nella Regione solitamente cade nell'arco di un anno. Intanto, dopo il ritrovamento del corpo di un uomo che è stato recuperato questa mattina a Bettolelle di Senigallia, una delle zone che sono state maggiormente colpite da maltempo, il bilancio delle vittime dell'alluvione è salito a sette. Dalla scorsa notte proseguono gli interventi dei vigili del fuoco: sono in 180 gli uomini al lavoro nelle zone colpite, ovvero quelle tra le province di Ancona e Pesaro-Urbino. Continuano le ricerche per ritrovare il bambino al momento disperso.

Sale il numero dei morti

Nell'area di Senigallia, sempre in provincia di Ancona, si è registrato il più alto numero di vittime della bomba d'acqua che si è abbattuta sulle Marche questa notte. Quattro corpi sono stati ritrovati in un garage a Pianello di Ostra, uno a Trecastelli, uno a Barbara e uno, l'ultimo che è stato recuperato in ordine di tempo, a Bettolelle. "Se ce ne fosse bisogno, la situazione, sia lato Castelleone che lato Serra de Conti è veramente drammatica e tragica. Invito, se non assolutamente urgente e necessario, di non uscire e di non utilizzare la macchina, è troppo pericoloso e a rischio vita... Tutte le forze disponibili sono all'opera, protezione civile, carabinieri e vigili del fuoco. Che Dio ci aiuti....", ha scritto su Facebook Riccardo Pasqualini, il sindaco di Barbara. Nelle Marche sono in arrivo e anche già al lavoro rinforzi dei vigili del fuoco provenienti anche da altre regioni tra le quali la Lombardia, l’Abruzzo e l’Emilia Romagna.

Mattia in braccio alla mamma, nonno Nando e Noemi 17enne. Le vite spezzate dal nubifragio. Giuseppe e Andrea Tisba, papà e figlio, intrappolati in garage. La ragazza travolta davanti al fratello mentre tenta di scappare con l’auto. Maria Sorbi il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Per una madre non c'è incubo peggiore che non riuscire a proteggere il proprio bambino. Silvia Mereu, la farmacista di Barbara, vicino a Senigallia, dovrà convivere con quel dolore lancinante, e probabilmente cercherà di ripescare nella mente il momento esatto in cui il suo piccolo Mattia, 8 anni, le è stato strappato via dalle braccia dalla violenza dell'acqua. Una frazione di secondo. Terribile. Si dirà in continuazione «Dovevo tenerlo più stretto» ma la colpa non è sua. Forse la colpa non sarà mai di nessuno. Anche se lo stesso torrente qualche anno fa era già straripato ed aveva già ucciso quattro persone. Anche se forse nel frattempo si poteva pure fare qualcosa per impedire nuove tragedie. Invece Silvia è rimasta appesa a un albero ed è stata salvata dai vigili del fuoco e suo figlio no. Troppo per una mamma.

Il bilancio dell'alluvione nelle Marche è di 10 morti accertati. Ma i dispersi sono ancora tre e sicuramente nelle prossime ore alle loro famiglie non arriveranno buone notizie.

Tra le vittime più giovani c'è anche Noemi Bartolucci, che nemmeno aveva computo 18 anni. Il suo corpo non è ancora stato recuperato. Stava cercando di scappare dall'ondata d'acqua e la sua auto - su cui c'era anche la madre Brunella Chiu (56 anni) - è stata spazzata via in un attimo. Una scena agghiacciante, avvenuta sotto gli occhi del fratello Simone, che è riuscito a cavarsela solo perchè la sua di auto è stata trascinata vicino a un ramo a cui è rimasto aggrappato per due ore. «Ho visto il fiume trascinare via la macchina di mia mamma e mia sorella. E io non potevo fare nulla», racconta il ragazzo, vivo per miracolo.

Giuseppe Tisba, 60 anni, era consigliere comunale di Pianello e suo figlio Andrea, 25 anni, si era laureato ma non lavorava ancora. Era appassionato di sport e nel suo profilo di Facebook aveva pubblicato foto dei campioni del basket. Sono rimasti intrappolati in garage. Erano scesi dal loro appartamento a vedere com'era la situazione e a recuperare l'auto ma sono rimasti bloccati e travolti dall'ondata. Così come Diego Chiappetti, titolare di un'impresa idraulica che alla famiglia ha detto «Torno subito». Lascia due figli di 16 e 20 anni e la sua compagna, Romina. L'esondazione del torrente ha ucciso anche un cittadino italiano di origine marocchina, Mohamed Enaji, 42 anni. Gino Petrolati, ancora disperso, è rimasto intrappolato nella sua auto ed è stato sommerso in una manciata di secondi. Ferdinando Olivi è invece rimasto bloccato nella sua casa. Nonno Nando era molto conosciuto a Pianello, dove aveva lavorato come commerciante, come ristoratore e dove aveva dato lezioni di guida ai ragazzi del paese. Ieri notte suo nipote, disperato e impotente, ha anche lanciato un appello su Facebook: «Aiutate mio nonno, vi prego, è intrappolato al piano terra e noi siamo intrappolati in casa».

L'elenco delle vittime comprende anche Rina Febri, 75 anni, morta a casa sua mentre cercava di chiudere le finestre per ripararsi da tutta quell'acqua. Un gesto quotidiano, semplice, di protezione, che chissà quante volte avrà compiuto durante grandinate o giornate di vento. «Vieni via, lascia stare, andiamo su» le urlava il suo compagno assieme al nipote e alla sua fidanzata. Ma lei niente. Voleva proteggere il suo piccolo regno. Poi l'acqua è arrivata tutta in una volta. Marialuisa Sereni invece aveva 72 anni ed era di Trescalli. La sua famiglia si è messa in salvo ma lei è rimasta indietro e non è riuscita a fuggire.

Le falle nel sistema di allerta e i limiti della protezione civile. Il responsabile regionale: "I modelli matematici ci davano fenomeni in attenuazione". Curcio: "Dovremo approfondire". Enza Cusmai il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Sto male dall'altra sera, quando ho seguito l'evoluzione dei fenomeni temporaleschi anche se non ero di turno. Sono profondamente rammaricato. Con il senno del poi avrei potuto dare un'allerta arancione ma non avevo indicazioni dai modelli matematici che mi suggerissero di alzare l'asticella del pericolo». Marzo Lazzeri, è il meteorologo del Centro funzionale della regione Marche che il 14 settembre ha diramato l'allerta gialla per il giorno seguente nei territori travolti poi dall'acqua e dal fango. Allerta che i sindaci hanno contestato perché troppo «blanda» rispetto ai morti e al disastro ambientale provocato dell'alluvione che si è abbattuta l'altra notte nelle province di Ancona, Pesaro e Urbino. In effetti, nel bollettino della Protezione civile, si prevedevano solo «precipitazioni da sparse a diffuse, anche a carattere di rovescio o temporale, su Marche e Umbria, in estensione al Lazio». Un annuncio che non ha messo in allarme i sindaci delle zone più colpite. Che ora scatenano uno scarica barile di responsabilità.

Ci stati morti e anche grosse difficoltà nei soccorsi e i primi cittadini sostengono che è soprattutto colpa della fuorviante allerta diramata dalla Protezione Civile: fino a poco prima del violento temporale non evidenziava elementi di criticità in quelle zone poi pesantemente martoriate. Racconta Maurizio Greci, sindaco di Sassoferrato, comune in provincia di Ancona, tra i più colpiti dal nubifragio della scorsa notte: «Non avevamo ricevuto nessuna avvertimento particolare, soltanto un'allerta gialla della Protezione civile per vento e pioggia. Niente che potesse far presagire un disastro del genere». «Tutto è accaduto nell'arco di un'ora. È una situazione apocalittica, una cosa che in tanti anni non ho mai visto aggiunge Carlo Manfredi, sindaco di Castellone di Suasa, piccolo comune in provincia di Ancona piante e alberi trasportati come fuscelli».

Dunque, qualcosa è andato storto nella catena di comando. Lo ammette anche Fabrizio Curcio. All'uscita dalla sala operativa, spiega che sul tema dell'allertamento «bisognerà certamente approfondire. È un dato di fatto - ha aggiunto che l'evento, per come si è sostanziato, è stato molto, molto peggiore rispetto a quello che in qualche modo era stato previsto. Questo è evidente e influisce sulla catena di allertamento». Ma nonostante le perplessità dei vertici, nessuno, durante la riunione nella sala operativa della Protezione civile, ha puntato il dito contro il meteorologo che ha firmato il bollettino di allerta gialla. Il tempo delle accuse arriva dopo. Forse. Ora, dice Curcio «le priorità sono le persone e il ripristino dei territori per le utenze anche di acqua e gas».

Ma il tema della responsabilità resta. E Lazzeri spiega al Giornale come è arrivato alla conclusione di sottoscrivere un'allerta gialla. «Io e il mio collega abbiamo analizzato informazioni provenienti da modelli di previsione numerica, che davano fenomeni di attenuazione dal tardo pomeriggio e non segnalavano i fenomeni di persistenza, quelli che poi hanno causato l'enorme accumulo di precipitazioni. Per questi motivi ho dato l'allerta gialla per le zone interne della provincia di Pesaro e Ancona dove si prevedevano temporali intensi che comunque posso comportare criticità, come esondazioni locali».

Quello che non era stato previsto, ammette il meteorologo, era la diffusione dei fenomeni «nella bassa zona collinare e in quella costiera». È stato fatto un errore di valutazione? «No, le informazioni dei modelli di previsione numerica ci davano un altro quadro si difende Lazzeri - Purtroppo le previsioni sono una sfida. I modelli si basano sulle leggi della fisica: più il fenomeno è breve e localizzato, più è difficile prevederlo. A Cantiano sono scesi oltre 400 millimetri d'acqua in quattro ore, la metà delle precipitazioni in un anno. Un evento eccezionale».

I morti del fango sono 11. Piccoli centri ancora isolati "E manca l'acqua potabile". Dopo il giovedì della sorpresa e il venerdì delle lacrime è stato il sabato della paura nella provincia di Ancona che non trova pace. Andrea Cuomo il 18 Settembre 2022 su Il Giornale. 

Dopo il giovedì della sorpresa e il venerdì delle lacrime è stato il sabato della paura nella provincia di Ancona che non trova pace. Il maltempo è tornato a visitare la provincia marchigiana, mentre ancora soccorritori e volontari lavoravano senza posa per liberare le case, le cantine, le strade dal fango che le aveva imprigionate.

Vento e pioggia hanno sferzato l'area senza pietà. Certo non il fortunale di giovedì, che in poche ore ha rovesciato su Ostra, su Senigallia, su Trecastelli, su Barbara, la quantità di acqua che cade normalmente in quattro mesi, ma abbastanza da ostacolare e in qualche caso fermare l'opera di soccorso e da spingere tutti a guardare con timore il livello dei fiumi per la paura che possano esondare di nuovo. Osservato speciale in particolare il Misa, che giovedì sera aveva invaso con le sue acque le strade di Senigallia. Il comune ha ieri emanato un allerta per tutta la popolazione che trova eco in quello della Protezione, che ha invitato la popolazione a «evitare spostamenti e uscire solo per effettive necessità. In caso di allagamenti si invita la popolazione a salire ai piani superiori delle abitazioni».

I soccorsi sono comunque andati avanti, pur tra mille difficoltà. «La situazione degli sfollati è in continuo divenire - dice il direttore della Caritas Caritas italiana, don Marco Pagniello -. Ci sono piccoli e medi centri non raggiungibili a causa della viabilità compromessa. L'acqua potabile scarseggia o manca del tutto in alcune zone, nelle case e anche negli ospedali». La Caritas sta in queste ore predisponendo una mappatura dei bisogni e delle priorità «soprattutto per i paesi più isolati. Si tratta di accompagnare le famiglie e di fare in modo che nessuno sia escluso dagli aiuti». Aiuti che arrivano anche dalla Protezione civile: firmata ieri da Fabrizio Curcio l'ordinanza che fissa i contributi per l'autonoma sistemazione delle famiglie temporaneamente senza casa: chi non verrà ospitato negli alloggi gratuiti messi a disposizione dalle amministrazioni locali, potrà godere di un contributo mensile da 400 euro (per un solo componente) a 900 (per i nuclei con cinque o più membri) che sarà aumentato di 200 in caso di persone di età superiore ai 65 anni o disabili). Da oggi, quando il maltempo dovrebbe finalmente lasciare in pace le Marche, inizierà la conta dei danni alle abitazioni, alle tante piccole e medie imprese che rappresentano il polmone economico del territorio e al patrimonio artistico.

Ieri è stato anche un altro giorno di ricerche dei dispersi. Nella tarda mattinata è stato trovato l'undicesimo corpo, ritrovato nella zona di Serra de' Conti. Si tratta di un uomo di 47 anni, Michele Bompezzi, fratello di Andrea, ex sindaco di Arcevia. Era alla guida della sua Opera Corsa che è stata travolta da acqua e fango, e successivamente ripescata vuota nel fiume Misa. Si aggiunge ai dieci morti identificati venerdì, l'ultimo dei quali, in serata, era stato un anziano di 80 anni ripescato nel fiume Esino nella frazione Angeli di Rosora, impigliato in uno sperone di un ponte e visto da un passante che ha avvertito le forze dell'ordine. Mancano ancora all'appello in due: Brunella Chiù, 56 anni, trascinata dalle acque mentre a Barbara cercava a bordo di un'auto di mettersi al riparo assieme al figlio e alla figlia: quest'ultima, Noemi Bartolucci, 17 anni, è morta e il cadavere è stato riconosciuto dal fratello di 23 anni. E poi Mattia, un bambino di 8 anni strappato dalle braccia della madre mentre questa stava cercando di portarlo in salvo dopo aver dovuto abbandonare l'auto a Castelleone di Suasa. Su tutti i cadaveri non sarà comunque effettuata un'autopsia ma ci si limiterà a una ispezione esterna; lo ha disposto la Procura di Ancona. Intanto il fascicolo aperto rimane per omicidio colposo plurimo e inondazione colposa, ancora a carico di ignoti. Al procuratore aggiunto Valentina D'Agostino è stata affiancata per coordinare le indagine del Nucleo Investigativo dei carabinieri anche la pm Valeria Cigliola. Ieri i Carabinieri si sono recati negli uffici della Protezione Civile e in altri della Regione Marche per acquisire documenti che saranno utili alle indagini sull'alluvione. Si tratta di una prassi quando si deve valutare la correttezza dell'operato da parte delle autorità. Al momento non sembrano esserci i presupposti per sequestri.

I tour del macabro e l'ira dei sindaci: "Troppi qui in giro a fare fotografie. Non venite da noi". Il primo cittadino di Barbara: "Ho chiuso le strade, non è un museo". Rabbia pure a Pesaro: "Intralciate i soccorsi, trovatevi un hobby!". Matteo Basile il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

È successo dopo il disastro della Costa Concordia. È capitato dopo i delitti di Cogne e di Avetrana. Anche per il crollo del ponte Morandi a Genova e di recente per la tragedia della Marmolada. Capita ogni volta che una qualsiasi autostrada sia bloccata a causa di un incidente. File di curiosi, gruppi di turisti, addirittura comitive organizzate e visite guidate. Armati di telefonini e di malsano voyeurismo, si va in cerca del luogo della tragedia con malsana curiosità. Fa tristezza, ma non solo. In casi come quello della Marmolada prima e quello dell'alluvione che ha devastato le Marche adesso, oltre a essere molto discutibile è anche dannoso. Tanto da costringere i sindaci e gli enti locali a dire basta: state a casa, non venite a scattare foto nei luoghi delle tragedie se non fate parte della macchina dei soccorsi. Oltre a essere sgraditi sarete di intralcio. Sembra quasi assurdo ma è stato ed è necessario che qualcuno lo ricordasse e lo dicesse. Con forza.

E così in diversi comuni è stato necessario l'intervento diretto delle istituzioni, con tanto di divieti ad hoc. Tra i più duri Riccardo Pasqualini, sindaco di Barbara, piccolo comune in provincia di Ancona devastato dall'alluvione, ha scritto sui social dell'ente: «La zona non è un museo, né un'attrazione turistica». E ancora, segnalando le chiusure alla viabilità di diverse strade, «se non coinvolti con i soccorsi e aiuto alle persone, siete pregati, anzi siete obbligati a non frequentare la zona, così da lasciare spazio a chi opera nei soccorsi. Oltretutto anche per non incorrere in problemi che possono causare rischi alla vostra incolumità. Confidiamo sul vostro buonsenso e collaborazione». Tanto semplice quanto ovvio da sembrare superfluo. Eppure, proprio il buonsenso in questi casi rasenta lo zero. Troppa voglia di vedere dal vivo quello che si è visto in tv, troppa foga di esserci e magari di scattare un selfie ricordo. Chissà come senza provare un minimo di vergogna. Stessa cosa a Pesaro, dove il sindaco Matteo Ricci denuncia: «Troppe persone in giro a scattare foto, la situazione è seria». E il suo vice Daniele Vimini va oltre: «Invito i curiosi del temporale che si stanno riversando nel lungomare a fotografare gli alberi spezzati a tornare a casa (e trovarsi un hobby in generale). Intralciano il lavoro non facile e con il temporale in corso rischiano anche un ramo in testa o sull'auto... Non ci vuole molto, dai!». Eppure, è il caso di sottolinearlo, quasi di chiederlo per cortesia. Come disse solo un paio di mesi fa il governatore del Veneto Luca Zaia di fronte ai curiosi che affollarono la Marmolada subito dopo la tragedia. «No al turismo del macabro. Non ha nessun senso andare lì su a fotografare».

Perché non si tratta di un fenomeno episodico. Dalle tragedie naturali, ai drammi di cronaca fino ai fatti che si sono tinti di giallo per arrivare al banale tamponamento in autostrada. È quello che i sociologi chiamano dark tourism o turismo dell'orrore, ovvero la ricerca di quei luoghi in cui si sono consumati tragedie o delitti o di quei contesti in cui sono maturati eventi drammatici. Il piacere di visitare luoghi associati alla morte e alla sofferenza e a qualcosa di macabro, meglio se di vasta portata anche mediatica. Sembra un fenomeno di nicchia ma sono tanti i turisti del macabro, i morbosi della tragedia. Quelli che non vedono l'ora di scattare una foto della devastazione, di immortalare il luogo della tragedia, di vantarsi di essere testimoni dell'orrore. Anche a costo di mettersi a rischio in prima persona o, come in questo caso, di ostacolare i soccorsi. Se è vero che la mente umana è contorta per natura, può andar bene essere inutili. Ma dannosi anche no.

Pale e stivali di gomma Gli "angeli del fango" arrivati da tutta Italia. "Ma serve una mano". Un milione da Della Valle. Decine di volontari sui luoghi del disastro: "Aiutateci o non finiremo mai". L'Abi: "Mutui sospesi nelle aree colpite dall'alluvione". Messaggio di vicinanza della Cei, minuto di silenzio negli stadi. Daniela Uva il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

Volontari in arrivo da tutta Italia, banche e imprenditori pronti a sostenere famiglie e aziende, appelli e vicinanza dal mondo della politica, dello sport e della chiesa. A due giorni dall'alluvione che ha causato la morte di 11 persone nelle Marche non si ferma la gara di solidarietà. Che ha soprattutto il volto di decine di ragazze e ragazzi instancabili, al lavoro per scavare, cercare i dispersi, liberare le strade dai detriti. Sono già stati ribattezzati «angeli del fango», proprio come gli indimenticabili coetanei arrivati a Firenze da tutto il Paese per aiutare la città a rialzarsi dopo la tragica alluvione del 1966. Gli angeli marchigiani si sono mobilitati in massa, «armati» di stivali e pale sono scesi nelle strade di Ostra, Sassoferrato, Barbara e molti altri Comuni della provincia di Ancona messi in ginocchio dalla forza dell'acqua. Con loro ci sono centinaia di altre persone, che progressivamente stanno accorrendo da Regioni vicine e lontane, dal Veneto come dalla Puglia. «È nostro dovere aiutare in questi momenti, le nostre case e le nostre vite sono state invase dall'acqua e dal fango, ma noi non ci arrendiamo e vogliamo tornare quanto prima alla normalità», raccontano.

«Noi - prosegue una comitiva di cinque giovani - abitiamo a Ostra paese, dove non ci sono stati danni, ma qui a Pianello abbiamo tanti amici e quindi abbiamo ritenuto opportuno scendere e venire ad aiutarli». Poi promette una ragazza, senza paura: «Noi da qua non ci muoviamo e saremo qui a spalare anche domani e nei prossimi giorni». Le fa eco un altro giovane: «Restiamo qui, ma abbiamo bisogno di essere aiutati, così non finiremo mai». L'appello di questi adolescenti, che scavano e rimuovono il fango senza fermarsi mai, non è rimasto inascoltato. Già nelle ore successive all'alluvione il governatore del Veneto, Luca Zaia, ha assicurato «tutto il supporto necessario ai molti cittadini e alle istituzioni locali. Anche i nostri volontari della Protezione civile regionale si mettono a disposizione del coordinamento nazionale per dare il supporto necessario ai soccorritori».

Mentre dalla Puglia sono partiti i volontari della fondazione delle Misericordie di Andria, Canosa, Molfetta e Borgomezzanone per aiutare gli uomini della protezione civile. Instancabili sono anche i cittadini marchigiani. Come gli abitanti di Pianello di Ostra, fra i più colpiti dalla furia dell'acqua. Ieri, già dalle prime luci dell'alba, gli abitanti si sono messi al lavoro per salvare il salvabile dall'interno delle abitazioni e rimuovere i detriti nelle strade, ridotte a uno scenario catastrofico nel quale tutto è andato distrutto. E di fronte al quale banche e colossi economici non possono restare indifferenti. Così il gruppo Bper Banca ha annunciato una serie di interventi straordinari, con prestiti fino a 20mila euro per i consumatori e 100mila euro per le imprese, di durata fino a 36 mesi e con il tasso zero per importi entro i diecimila euro. In più l'Abi ha invitato le banche a sospendere i mutui delle popolazioni colpite dal disastro. Mentre uno degli imprenditori simbolo delle Marche, Diego della Valle, ha messo a disposizione della Regione un milione di euro a sostegno delle popolazioni, facendo appello a tutto il mondo delle imprese per sostenere «e aiutare in tutti i modi possibili le persone e i territori che sono stati duramente colpiti».

In queste ore anche il mondo della politica, dello sport e della chiesa sono vicini a questi territori. In tutti i campi di calcio è stato osservato un minuto di silenzio, mentre il Parma ha affrontato l'Ascoli in casa con il lutto al braccio. Il presidente della Cei Matteo Zuppi ha espresso «tanta vicinanza e tanta solidarietà per le Marche. Vicinanza oggi nell'emergenza, ma anche l'invito a saper fare tesoro di questo perché il dolore non sia invano. Significa fare delle scelte concrete per evitare altre sofferenze».

Anziani e disabili. Ora è il dramma degli sfollati "Il fiume si è preso la nostra vita". I racconti di chi è stato accolto nel centro Caritas di Senigallia "Ora è come nel 2014, l’odore del fango non te lo levi più di dosso". Maria Sorbi il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

E da dove riparti quando il fango si è prende casa tua? Quando il letto galleggia in mezzo alla stanza e capisci che tutti gli oggetti della tua vita sono irrecuperabili? Riparti da un pasto e da una coperta calda. Perché quell'umidità è insopportabile dopo qualche ora. Ti infradicia abiti e anima. «È lo stesso odore di terra dell'altra volta, non te lo levi più di dosso» è rassegnato Giovanni, 60 anni, che aveva già vissuto l'alluvione del 2014.

Gli sfollati accolti dal centro della Caritas di Senigallia hanno gli sguardi smarriti, sono spaesati e parlano a fatica. Soprattutto i più anziani, tra cui anche tanti disabili. Aspettano in un angolo di essere chiamati per una stanza in albergo o per essere accompagnati alla Rsa. Fisicamente stanno bene ma hanno il cuore a pezzi. A 80 anni restringi il perimetro della tua vita a un paio di stanze e a quattro vie del tuo quartiere. Non te la senti proprio di rivoluzionare tutto. Eppure.

Lucia, 81 anni, si presenta da don Davide Barazzoni con addosso solo una vestaglia bagnata e le pantofole da strizzare. «Non sapevo dove andare - racconta un po' smarrita e con la cadenza marchigiana d'altri tempi - Ma in casa non potevo proprio stare. Con me i volontari sono stati così carini. Mi hanno anche lavato i piedi con l'acqua calda». Nel pomeriggio arriva a prenderla una parente, che non vedeva da anni e che ora si occuperà di lei.

Pietro e Carla, 80 anni abbondanti, sono fidanzati da quando di anni ne avevano 15. Sono scappati per tempo. Non appena a Senigallia è scattato l'allarme, sono usciti dalla loro casa (a ridosso del fiume) con quattro cose. Arrivano al centro sfollati con un sorriso delicato: «In fondo ce l'abbiamo fatta, e siamo ancora assieme. Certo è un peccato - scherza lei - avevamo appena cambiato i mobili di casa». Nelle prossime ore si trasferiranno in qualche Rsa della zona: «Ovunque - chiedono - ma vi prego, lasciateci assieme».

Tra le persone soccorse ci sono anche Annamaria e Alessandro, sulla sedia a rotelle, una coppia sulla quarantina. «Vai pure» la guarda lui. E lei gli dà un bacio e si mette all'opera, aiutando le infermiere e le volontarie ad accudire i più anziani e ad apparecchiare la tavola. «Non riesco a stare ferma - dice - e quel poco che posso fare lo faccio. Sa, l'unica cosa bella di questi giorni è che siamo molto solidali tra di noi. È la nostra forza». E allora anche le famiglie più isolate si sentono parte di un gruppo e sono meno impaurite. È quel che è capitato a Elena e Valerio, genitori di due bimbi, di 8 mesi e di 3 anni. «Ci siamo trasferiti da poco, qui non conosciamo nessuno e non sappiamo dove andare».

A parte loro, tutti hanno già vissuto l'alluvione del 2014 e sanno bene cosa vuol dire: «Le case sono perse, la muffa non se ne va più dai muri e, anche dopo mesi, il fango esce dappertutto, anche dal forno» racconta una volontaria. Memori del disastro di otto anni fa, stavolta molti hanno messo in salvo le auto. «A Senigallia l'allerta è arrivata per tempo e la gente ha spostato l'auto dai garage. Nei paesi invece non è arrivato l'allarme e l'ondata è stata improvvisa. Ci aspetta un inverno davvero duro e i negozianti non sanno nemmeno se riapriranno». «Fino all'altro giorno ero in ansia per la bolletta della luce e del gas - riflette amaro Giovanni, 60 anni, seduto mesto su una sedia per non disturbare il via vai dei soccorsi - Ora non ho più né lampadario, né fornello. E nemmeno la cassetta della posta dove ricevere la bolletta».

“Urlavo ma non mi sentivano”. Così l’alluvione ha ucciso padre e figlio. Adriana Pianelli ha visto morire sotto i suoi occhi un figlio e il marito durante l'alluvione di giovedì 15 settembre: "Come uno tsunami..." Francesca Galici il 17 Settembre 2022 su Il Giornale.

Con la freddezza di chi ancora non si è resa conto della tragedia che si è abbattuta sulla sua vita, Adriana Pianelli racconta quei momenti drammatici in cui la furia dell'acqua le ha strappato il marito e un figlio di 25 anni. "Nulla faceva presagire una roba del genere ma i 3/4 minuti io non so quello che è successo. Io stavo di sopra, l'acqua da 50 cm è cominciata salire a 2 metri. Si è inoltrata ed è andata giù dove erano parcheggiate le macchine. Come uno tsunami, io una roba così non l'ho vista mai", dice Adriana ai microfoni di Pomeriggio 5. Lei è la madre di Andrea Tisba e la moglie di Giuseppe Tisba, morti mentre cercavano di salvare la loro autovettura che si trovava parcheggiata nel garage sotterraneo. Sono due delle dieci vittime della tragedia che ha scosso ancora una volta il Paese.

Il nonno, i bimbi, un padre e il figlio: ecco chi sono le vittime dell'alluvione

"Terra, acqua, detriti, macchine, cocci... Di tutto e di più. Quello che trovava lungo il percorso e insomma è andato tutto lì. Sta di fatto che io non ho visto più mio marito e mio figlio. Io ho urlato 'venite su, venite su' ma la forza dell'acqua... E più che altro la terra, che fa da cemento. Non sono riusciti... Sono tornata dentro casa, perché io abito al secondo piano per fortuna. La prima rampa era già allagata e io sono salita. 'Venite su', gridavo", prosegue la donna durante l'intervista a Barbara d'Urso. Nel suo racconto, Adriana Pianelli sembra rivivere davanti ai suoi occhi quei momenti terribili che hanno per sempre cambiato la sua vita. Ricorda i dettagli e ogni secondo dell'inferno di acqua e fango che in pochi attimi ha spazzato via tutto.

"Non so quante chiamate ho fatto ai vigili del fuoco e alla protezione civile. Anche la signora di sotto ha perso il marito, sempre per tirare fuori la macchina. Diego Chiappetti, poverino. È morto anche lui come mio marito e mio figlio. Non si può morire per questo", ha detto prima di lasciarsi andare al pianto. Andrea Tisba era uno studente di ingegneria meccanica che da poco si era iscritto al quarto anno dopo aver conseguito la laurea triennale. Lavorava e studiava per non gravare troppo sui genitori e giovedì sera stava guardando una partita di calcio in tv, sua grande passione, quando con la madre si sono accorti di quanto stava accadendo là fuori, anche se nulla lasciava immaginare una tragedia simile. Giuseppe Tisba, invece, era un operaio. Quella sera era al circolo del paese per incontrarsi con gli amici dopo il lavoro, prima di rincasare. Quando si è reso conto della pioggia battente è corso a casa e ha provato ad aiutare suo figlio a portare fuori l'auto dal garage. Ma l'acqua li ha sorpresi e intrappolati, senza dare loro via d'uscita.

Il Misa mai ripulito e i fondi non spesi: "Tragedia evitabile". Il blitz in Regione. Le indagini sulla sicurezza del fiume e sugli stanziamenti dopo la piena del 2014: acquisiti documenti. Il nodo dell'allerta mancata. Massimo Malpica il 18 Settembre 2022 su Il Giornale. 

Con la conta dei morti ancora in corso e mezza regione coperta dal fango, l'alluvione che ha ferito le Marche solleva interrogativi. Come può il maltempo, per quanto intenso e violento, provocare tanti danni? Qualcosa non ha funzionato. E da subito, infatti, la procura di Ancona ha aperto un fascicolo di inchiesta per omicidio colposo e inondazione colposa a carico di ignoti. È presto per capire se ci sono e dove siano le responsabilità, ma i magistrati - l'aggiunto Valentina D'Agostino e la pm Valeria Cigliola - sono al lavoro per provare a far luce su quanto accaduto, affidando le indagini ai carabinieri. Che ieri sono andati negli uffici della Protezione civile e della Regione Marche per acquisire documenti considerati «utili alle indagini», ossia per comprendere come si è mossa, o perché non si è mossa, la macchina della prevenzione.

Prevenzione sotto due punti di vista: sia quello della messa in sicurezza del territorio dal rischio idrogeologico - visto che già nel 2014 il Misa era esondato facendo tre morti e danni per milioni nel Senigalliese, mentre nel 2011 altre due vittime erano state mietute dall'Ete in provincia di Fermo - sia quanto al mancato allarme della Protezione civile, con la sola allerta gialla diramata e solo per il maltempo, mentre le criticità idraulica e idrogeologica erano considerate «assenti».

Il primo fronte fa già discutere. Dopo l'alluvione del 2014 era arrivata un'altra pioggia, ma di milioni, dal Governo. Destinata a mettere il Misa in sicurezza: tra tagli di nastri e dichiarazioni rassicuranti, i politici locali si dicevano certi che le emergenze sarebbero diventate un ricordo. «Ora abbiamo una programmazione più agevole spiegava per esempio l'ex governatore Luca Ceriscioli nel 2018 visitando un cantiere per il rinforzo degli argini del Misa e non progetti che finivano a tempo indeterminato nei cassetti».

Ma come i fatti hanno mostrato, la messa in sicurezza non è andata a buon fine. Ieri il leader di Italia Viva Matteo Renzi ha definito «uno scandalo totale» il ritardo dei lavori. «Quando c'era stata l'alluvione stanziammo 45 milioni», ha spiegato l'ex premier, rimarcando i ritardi nell'avvio dei cantieri: «I soldi il governo Renzi li ha messi nel 2014, se avessimo fatto le opere immediatamente, oggi non piangeremo la situazione com'è», ha continuato, concludendo: «Noi siamo gli unici ad aver messo i soldi che loro non hanno speso, è uno scandalo totale. La trovo una cosa scandalosa».

Resta da capire anche se sul fronte della manutenzione «ordinaria« tutto è stato fatto bene, e qualche dubbio è legittimo se meno di un mese fa, il 20 agosto, a Casette d'Ete è bastato un temporale ad allagare le strade, ed è servito l'intervento dei cittadini che hanno aperto e disostruito «in proprio» i tombini che nessuno aveva pensato di pulire per tempo.

L'altro punto delicato che i magistrati dovranno chiarire è quello del «mancato» allarme. Se è vero che non è semplice prevedere dove e quando un temporale colpirà con precisione, e se è vero che la quantità d'acqua scaricata dal cielo sulle province di Ancora e Pesaro-Urbino è stata decisamente fuori dall'ordinario (oltre 42 centimetri in poco più di 6 ore), e che parte della violenza è dovuta al tipo di perturbazione (il «temporale autorigenerante v-shaped»), colpisce comunque, visto l'esito drammatico, l'ottimismo del bollettino della Protezione civile del giorno prima. Su quel «giallo», ossia allerta ordinaria, lo stesso numero uno Fabrizio Curcio d'altra parte è stato chiaro, spiegando che la questione «sarà da approfondire». Un altro lavoro per carabinieri e toghe marchigiane. Che intanto, ieri, oltre a ricevere l'esposto del Codacons che chiede di accertare, appunto, le eventuali responsabilità di istituzioni ed enti locali, hanno ordinato Tac ed esame esterno sui corpi delle vittime già recuperate, per accertare se la causa della morte è l'annegamento.

Ecco le mappe dell'allerta che anticipavano il disastro (e dimenticate per 4 mesi). Maria Sorbi il 19 Settembre 2022 su Il Giornale.

Vallo a dire alla mamma di Mattia, 8 anni, che una mappa segnava in rosso acceso la zona della loro casa. Vallo a dire alla famiglia di Noemi, 17 anni, che quella mappa era in mano a Comuni, Regione, Protezione civile

Vallo a dire alla mamma di Mattia, 8 anni, che una mappa segnava in rosso acceso la zona della loro casa. Vallo a dire alla famiglia di Noemi, 17 anni, che quella mappa era in mano a Comuni, Regione, Protezione civile.

Tutti erano a conoscenza del rischio di alluvione ma tutti avevano lasciato quella cartina chiusa nel cassetto. «Lungaggini burocratiche» è la spiegazione. Un alibi che in Italia va sempre bene a coprire inefficienze e, forse, irresponsabilità. Fatto sta che quel documento, tecnicamente chiamato Pai (piano di assetto idrogeologico), era stato steso già nel 2004, poi aggiornato nel 2016 e infine approvato lo scorso maggio. Circolava da un'infinità di mesi ma da un'infinità di mesi è rimasto carta morta. Ignorato. Anzi, nel frattempo le Marche hanno fatto in tempo a finire sott'acqua per un'altra alluvione, nel 2014, oltre a quella della scorsa settimana.

Stendere e aggiornare le cartine del rischio idrogeologico è un obbligo di legge dal 1998, cioè dall'alluvione di Sarno e Soverato in Campania, proprio per evitare stragi senza preavviso come in quell'occasione, quando ci furono 161 vittime.

«Qui ogni vallata è a rischio - ammette Daniele Mercuri, consigliere nazionale marchigiano dei Geologi - Non a caso dagli anni Settanta a oggi, siamo stati colpiti da oltre dieci eventi di questa portata. L'aggiornamento della mappa del rischio idrogeologico è un lavoro molto impegnativo, per quello non viene fatto così di frequente, gli aggiornamenti sono soggettivi da comune in comune». A Senigallia il piano c'era ed era anche parecchio preciso. Ma è rimasto teoria.

Le zone colorate in rosso sulla cartina corrispondono perfettamente a quelle dei paesini in cui nemmeno è stato lanciato l'allarme alluvione: Pianello di Ostra (dove le vittime sono state 5), Barbara (2 vittime e un disperso), Trecastelli (una vittima). E, cosa che stupisce ancora di più, coincide con le zone in cui mai è stato organizzato un corso per spiegare agli abitanti cosa fare in caso di esondazione dei fiumi. Altrimenti le persone non sarebbero scese in garage per salvare l'auto o, se avessero cercato di fuggire in macchina, almeno avrebbero saputo che strada imboccare per non finire sott'acqua.

«Risulta evidente che siano necessari diversi interventi per potere mettere in sicurezza il fiume Misa, in particolar modo all'interno dell'abitato di Senigallia e poco a monte dello stesso» si legge nell'assetto di progetto per la media e bassa valle del Misa. Un documento datato 2016. Per ridurre «il più possibile la portata di picco che attraversa il centro di Senigallia - si legge - bisogna intervenire mediante «laminazione e aumentare il più possibile la capacità di deflusso». Un testo che fa male letto ora, quando altro non si può fare che la conta dei danni e dei morti.

Non solo. A Senigallia a gennaio l'esecutivo aveva finalmente approvato i lavori per le vasche di contenimento, concludendo un iter burocratico che andava avanti da anni, tra espropri, polemiche e chissà cos'altro. Ad aprile erano anche stati consegnati i lavori: 510 giorni di cantiere per mettere in sicurezza il fiume. Ora ci vorranno altro che cinquecento giorni. I soldi c'erano, stanziati dal 1986.

«È stato fatto poco» spiega il sindaco di Senigallia Massimo Olivetti. Nel 2018 le prime gare d'appalto, con la realizzazione dei lavori solo in un tratto di fiume e poi il blocco per problemi di valutazione di impatto ambientale. Nel 2021 il progetto viene rimodulato per utilizzare gli oltre 900mila euro già stanziati e solo lo scorso aprile viene consegnato il cantiere per le vasche di espansione in zona Bettolelle, la stessa dove l'altra sera è morto un anziano intrappolato in casa dall'esondazione. «Nel 2015 abbiamo fatto un lavoro di ricognizione delle risorse, mettendo insieme quelle delle Province, statali, regionali e anche fondi Ue - spiega l'ex presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli -, non abbiamo mai tolto un euro per quell'intervento, anzi li abbiamo aggiunti. Ma la verità è che in Italia è impossibile fare lavori, c'è troppa burocrazia».

Spesi 20 miliardi per i danni. Per prevenirli dieci volte meno. Conto choc per alluvioni e frane tra il 2013 e il 2019: il 90% a carico delle Regioni. Solo briciole in salvaguardia. Francesco Giubilei il 19 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'immagine del ponte romano di Cantiano con duemila anni di storia che resiste alla devastazione dell'alluvione delle Marche, è un monito della solidità delle infrastrutture nell'Antica Roma e, se negli ultimi anni avessimo ascoltato la saggezza latina, probabilmente si sarebbero evitate numerose tragedie. «Praestat cautela quam medela» affermavano gli antichi romani, meglio prevenire che curare, l'opposto di quanto ha fatto lo Stato italiano per il dissesto idrogeologico.

Secondo quanto emerge dal dossier di Greenpeace «Quanto costa all'Italia la crisi climatica? Focus su eventi estremi come alluvioni e frane», a fronte di oltre il 90% dei comuni italiani a rischio frane e alluvioni (12% della popolazione), gli investimenti dello Stato in prevenzione sono del tutto insufficienti. Greenpeace calcola che dal 2013 al 2019 il danno economico provocato da frane e alluvioni in Italia sia stato pari a 20,3 miliardi di euro, per una media di quasi 3 miliardi l'anno. La regione più colpita è l'Emilia-Romagna a cui seguono Campania, Toscana, Abruzzo e Liguria. Nello stesso periodo, i fondi spesi in prevenzione sono stati solo 2,1 miliardi di euro, un decimo dei danni causati dai fenomeni estremi. Uno squilibrio enorme reso ancor più allarmante dall'importo trasferito dallo Stato alle regioni per risarcire i territori colpiti da alluvioni e frane pari a soli 2,4 miliardi di euro.

Il costo dei disastri ambientali rimane così in larga parte sulle spalle dei cittadini e delle imprese anche perché le polizze contro i rischi catastrofali, mancando un mercato calmierato, coprono solo il 4,5% degli immobili dalle calamità naturali (frane, alluvioni, terremoti). In una nazione come l'Italia con un territorio morfologicamente fragile e naturalmente predisposto a fenomeni franosi e alluvionali (il 75% del nostro suolo è montano e collinare), con una media di consumo del suolo dal dopoguerra più alta di quella europea, i disastri ambientali non sono purtroppo una rarità. Se è vero che gli effetti dei cambiamenti climatici generano un aumento della frequenza degli eventi meteorologici estremi, è altresì vero che, limitandosi alla storia repubblicana, negli ultimi decenni il nostro Paese è stato martoriato da numerose catastrofi ambientali.

Oltre alle risorse insufficienti, la prevenzione si scontra con i tempi di attuazione delle messe in sicurezza. Secondo un rapporto Ispra, la durata media delle opere è di quasi cinque anni con un 10% di casi considerati critici poiché si protraggono oltre i dieci anni a causa della «complessità di intervento, difficoltà di progettazione, legislazione complessa».

L'aspetto più drammatico è il costo umano delle tragedie ambientali come riportano i dati di Greenpeace: «Dal 2015 al 2019, più di 28 mila persone sono state evacuate a seguito di frane e inondazioni; in molte hanno visto distrutte le loro abitazioni, 89 hanno perso la vita. Se si allarga l'analisi agli ultimi cinquant'anni, dal 1970 al 2019, i morti per frana e inondazione sono stati 1.670, più di 320 mila gli evacuati».

Alla luce di questi numeri, è lecito chiedersi perché si investa così poco in prevenzione, i motivi sono molteplici. Anzitutto per questioni di bilancio, il ragionamento è tanto cinico quanto miope: meglio sostenere una spesa ipotetica in futuro che una spesa sicura nel presente. In secondo luogo, da un punto di vista di consenso politico, la prevenzione non paga poiché si tratta di interventi che in tempi ordinari spesso i cittadini non vedono. In sostanza, si preferisce dedicare le risorse necessarie per il dissesto idrogeologico ad altri ambiti di spesa con il risultato che tante tragedie che si sarebbero potute evitare continuano ad avvenire. Il paradosso è che, all'indomani di ogni disastro, si ripetono sempre le stesse promesse poi puntualmente non mantenute fino al verificarsi di una nuova catastrofe.

Da sinistra fango su fango "L'alluvione? Colpa di Fdi". Accuse al governatore Acquaroli, ma il Pd ha guidato le Marche per decenni. La bufala sui ritardi. Francesco Boezi il 18 Settembre 2022 su Il Giornale.

Cinquant'anni di giunte regionali di centrosinistra per poi provare a scaricare almeno una parte delle responsabilità degli effetti dell'alluvione abbattutasi nelle Marche all'amministrazione guidata da Francesco Acquaroli, che governa solo dal settembre 2020: in questa campagna elettorale abbiamo assistito anche a questo. Il tutto pur di provare a mettere in discussione il «modello Marche», che è riconducibile al leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni (Acquaroli è un esponente di punta di Fdi ) e al centrodestra tutto. E che quindi può e anzi dev'essere sottoposto al fuoco di fila, secondo i dettami della strategia comunicativa di Enrico Letta e dei suoi.

Succede così che l'ex assessore regionale Angelo Sciapichetti, che è del Partito Democratico, citi dalle pagine di Repubblica due «vasche» - quelle di seminazione, che servirebbero a contenere le esondazioni del Misa - che l'ex Giunta di centrosinistra aveva «finanziato». Un progetto a cui Acquaroli non avrebbe dato seguito con celerità, stando a quanto sostenuto dal dem. Sempre Repubblica, però, spiega come di quelle vasche si parli «da trent'anni». Gli stessi in cui nelle Marche ha sempre governato il centrosinistra. Lo stesso che oggi, certo non senza faccia tosta, accusa Acquaroli, che dimora in Piazza Cavour da soltanto un biennio. Un tempo attraverso cui si può di sicuro fare molto ma che non è paragonabile a quello avuto dal Pd.

Poi c'è il dato scientifico, con il comunicato diramato dal Centro funzionale multirischi della Protezione civile regionale, che spiega quali fossero le reali possibilità d'intervento: «Un fenomeno meteo impossibile da prevedere nella sua intensità e sviluppo con le attuali conoscenze disponibili», viene premesso. E ancora: «Caratteristica dei temporali auto - rigeneranti viene annotato - è quella della stazionarietà: il temporale continua a riformarsi sempre nello stesso punto e va a interessare sempre le stesse zone, anche per alcune ore. Sono fenomeni la cui previsione è estremamente difficoltosa, sia perché sono molto rari e sia perché le dinamiche che li generano implicano spesso la presenza di configurazioni a scale molto piccole di difficile individuazione». Il proseguo non ha bisogno di commenti: «In questo caso, gli elementi previsionali per stimare un'estensione e persistenza di fenomeni così intensi sono stati del tutto assenti. Anche nella vigilanza, a livello nazionale, tali fenomeni non sono stati assolutamente segnalati», si legge. Fonti del Giornale ci hanno inoltre spiegato come il quantitativo di pioggia caduto corrisponda a quello che ci si aspetterebbe in sei mesi. La conclusione del medesimo comunicato del Centro funzionale multirischi riguarda l'allerta, un altro tema centrale di questa fase in cui qualcuno cerca di distribuire responsabilità politiche: «Sostanzialmente quello che doveva essere uno scenario da allerta gialla per temporali (effetti localmente intensi e rapidi, ma di estensione limitata), si è invece evoluto in uno scenario più complesso e diffuso sul territorio».

La smentita politica spetta all'Assessore Stefano Aguzzi, di Forza Italia, che ha la delega alle Infrastrutture: «L'allerta era stata rilasciata con la giusta tempistica e anche con la corretta individuazione delle aree. Il problema è che tra la realtà e le previsioni possono esistere differenze. Questa volta è successo qualcosa fuori criterio. Nelle Marche non aveva mai piovuto in modo così repentino e forte. 48 cm in due ore e mezza: siamo quasi a mezzo metro d'acqua. E, sempre in due ore, una quantità d'acqua incredibile si è riversata a valle». E le accuse mosse sul Misa? «Nell'ultimo anno è stato ripulito, almeno vicino Senigallia - ricorda Aguzzi - . E sono stati fatti interventi importanti, sempre vicino Senigallia. Le aree del cantiere di Bettolelle, che noi abbiamo appaltato ad aprile dopo quarant'anni di chiacchiere, sono state inondate. Per noi è una beffa. Siamo stati noi a finanziare l'opera e ad intervenire. Ma questa piena avrebbe sommerso anche il Po», conclude.

Da blitzquotidiano.it il 21 settembre 2022.

I sommozzatori dei vigili del fuoco, carabinieri e guardia di finanza si stanno per calare di nuovo nelle acque del torrente Nevola, dal punto in cui è stata trovata l’auto di Brunella Chiù, nel territorio di Corinaldo, in località San Domenico. Qui l’obiettivo è ritrovare la 56enne travolta dall’alluvione nella sera del 15 settembre, insieme alla figlia di 17 anni Noemi Bartolucci. Il cadavere della ragazza è stato rinvenuto nei giorni scorsi. Altre squadre di soccorritori sono già in azione per cercare il piccolo Mattia, di 8 anni, in un’altra area.

A Corinaldo la zona che sarà scandagliata palmo a palmo sarà quella che, partendo dal punto del ritrovamento della macchina, ‘scivola’ in direzione del mare. Intanto, un elicottero delle Fiamme Gialle è in volo sull’intera area per una nuova mappatura della zona alluvionata e nel tentativo di individuare Brunella e Mattia. I vigili del fuoco sono, invece, pronti a far volare l’ennesimo drone negli anfratti difficili da raggiungere. 

L’auto di Brunella Chiù, ritrovata ieri sera dai carabinieri nel torrente Nevola, è un ammasso di lamiere che si è fermato in prossimità di una sorta di passaggio a guado che collega la campagna di Corinaldo a ridosso del fiume. Una Bmw Serie 1, bianca e irriconoscibile, che l’alluvione del 15 settembre ha trascinato via per circa 7 chilometri assieme a Brunella e alla figlia.

Estratto dell'articolo di Lorenzo Sconocchini, Valeria Di Corrado per il Messaggero il 21 settembre 2022.

Mentre i soccorritori continuano a cercare senza tregua il piccolo Mattia, i carabinieri Forestali hanno acquisito i tabulati telefonici di 5 funzionari della Regione Marche per capire quando è scattata l'allerta e cosa non ha funzionato nel sistema di comunicazioni tra Protezione civile regionale e Comuni. La Procura di Ancona sta indagando, al momento contro ignoti, per omicidio colposo plurimo e inondazione colposa in seguito all'alluvione che ha causato almeno 11 vittime e danni per miliardi di euro.

[...] Da quello che risulta finora, l'allarme dato dalla Protezione civile regionale ai sindaci per l'onda di piena che stava montando sul bacino idrografico del fiume Misa è partito soltanto dopo le ore 22 di giovedì 15 settembre, quando i territori della media valle erano semi sommersi da acqua e melma, la gente scappava ai piani alti o si aggrappava ai rami per non essere trascinata via, e già si contavano i primi dispersi. […]

[…] Quel che è certo è che la violenta perturbazione è stata sottovalutata dagli esperti. Nel messaggio di allertamento emesso mercoledì 14 settembre, alla vigilia del cataclisma, si inserivano in zona gialla, per vento e temporali, solo i quadranti 1 e 3 delle Marche, vale a dire l'entroterra montano e alto collinare delle province di Pesaro Urbino e Ancona, lasciando in verde tutto il resto della regione. Compresi i Comuni come Ostra, Castelleone di Suasa, Barbara, Trecastelli, Ostra Vetere e Senigallia, dove lo tsunami del fiume straripato ha causato 11 vittime, annegate nel fango, e due dispersi.

«Penso che se un meteorologo avesse in mano le carte anche oggi rifarebbe la stessa previsione», taglia corto il responsabile del Centro funzionale multirischi della Protezione civile regionale Paolo Sandroni. […] Secondo Sandroni si tratta di «uno degli eventi più difficili da prevedere»: una «cellula temporalesca autorigenerante» ha scaricato quasi 400 millilitri d'acqua a terra, «quantitativi inimmaginabili».

«Con i nostri modelli previsionali eravamo confidenti che il codice giallo fosse il più idoneo», ha ribadito l'esperto. I fiumi Misa e Nevola, esondati giovedì scorso, «erano in condizioni di magra per la siccità degli ultimi mesi. Ma nell'arco di poche ore le precipitazioni piovose hanno riversato sul territorio il doppio dell'acqua rispetto al record registrato negli ultimi 100 anni». Precipitazioni talmente intense che «hanno fatto aumentare in due ore il livello dei fiumi di sei metri». […]

"L'allarme ai Comuni lanciato solo dopo le 22". Ricostruzione della responsabile della Protezione civile. Acquisiti i tabulati telefonici. Stefano Zurlo il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Due miliardi di danni. È il prezzo che la comunità marchigiana dovrà pagare per le devastazioni portate dai fiumi nella notte fra giovedì e venerdì. Le case distrutte, gli sfollati, le aziende aggredite dall'acqua, l'economia in tilt. La portata del disastro è ancora tutta da stimare, ma l'idea che i tecnici si stanno facendo dello scempio, fra un sopralluogo e l'altro, va in quella direzione. «Non sarà un miliardo - la prende alla larga il governatore delle Marche Francesco Acquaroli - e forse non saranno nemmeno dieci». Calcoli ancora ballerini, con il fango, ancora da togliere, e due vittime da ritrovare.

Due miliardi e altri due per mettere in sicurezza il territorio, come si predica dal 1986 quando furono stanziati i primi fondi per irrobustire gli argini del Misa a Senigallia.

Tre alluvioni dopo, tocca, come sempre in Italia alle procure cercare di capire cosa non ha funzionato. Ancona e Urbino sono al lavoro su una serie di reati che fanno paura anche solo a nominarli: omicidio plurimo colposo e inondazione colposa. Ad Ancona si passa alla moviola la catena della comunicazione: la Regione non ha messo in guardia i comuni, nè prima, quando si pensava a possibili perturbazioni in Umbria, nè dopo, quando arriva il finimondo.

In realtà, come emerge da una prima ricostruzione di quelle drammatiche ore, le telefonate ci fu sono ma partono dopo le 22. A chiamare é un operatore, il solo presente nella sala operativa, perché l'allerta era giallo. E le norme regionali dicono che con quel colore una persona nella cabina di comando è più che sufficiente. Fra le 21,30 e le 22 la situazione precipita e l'operatore si mette al telefono: chiama i comuni, non i sindaci, e prova a lanciare l'allarme ma ormai è tardi. «Dal punto di vista della dinamica degli eventi - afferma ai microfoni del tgr Marche il procuratore capo di Ancona Monica Garulli - quello che si riscontra in questo momento è che non c'è stato un allerta da parte della Regione Marche nei confronti dei Comuni». Una frase che sembra indicare almeno un sospetto, se non una colpa e che peró viene mitigata dalle successive parole: «Le indagini sono in una fase molto iniziale. Tutte le ipotesi ricostruttive sono prese in considerazione». «Si è trattato - è la replica della Protezione civile regionale - di un fenomeno meteo impossibile da prevedere nella sua intensità e sviluppo».

È facile immaginare che su questioni così spinose si svolgerà nei prossimi mesi una guerra di perizie e controperizie. Per ora i Carabinieri forestali acquisiscono tutti i dati meteo sulle precipitazioni previste alla vigilia dell'uragano, i tabulati telefonici di tutti i soggetti interessati ai bollettini meteo e quelli relativi alle, chiamate di soccorso arrivate al 112. C'è poi tutto il tema delle opere finanziate e mai realizzate. «Servono risorse e un piano nazionale per la manutenzione» è l'appello di Acquaroli. Vero e peró le risorse e i piani c'erano già, addirittura da più di 35 anni, ma non sono mai diventati realtà.

E qui l'inchiesta, già difficile, si fa se possibile ancora più complessa. Bisogna orientarsi nel labirinto delle competenze e della burocrazia italiana per capire quello che la vox populi sa già benissimo: in Italia è quasi impossibile realizzare opere di interesse pubblico in modo lineare e chiaro.

Per paradosso si fatica ad individuare un colpevole perché nel caos normativo ce ne potrebbero essere tanti, ovvero nessuno. Un ragionamento che vale per inondazioni, crolli e pure per la,pandemia. La mancata istituzione della zona rossa in provincia di Bergamo è al centro di un'indagine articolata che cerca di scovare incolpevole nei continui rimpalli fra Roma e Milano. La ricerca delle responsabilità non sarà facile nemmeno a Senigallia

Sull'alluvione nelle Marche si scoprono i No degli ambientalisti ai lavori sul Misa. Linda di Benedetto su Panorama il 20/09/22. L'inchiesta della magistratura ha portato alla luce anche alcuni episodi davvero inspiegabili sui ritardi e gli stop ai lavori, ma i diretti interessati si difendono: «quanto successo non è prevedibile ed arginabile»

Nelle Marche si continua a scavare nel fango, cercando di recuperare nei comuni colpiti quel poco che è rimasto dopo l’alluvione costata la vita ad 11 persone. In questa regione non è la prima volta che si deve ricostruire quello che è stato spazzato via della violenza dell’acqua infatti siamo alla terza alluvione, l’ultima avvenuta nel 2014. Ma solo oggi mentre si cerca il piccolo Matteo di 8 anni ancora disperso è caccia ai responsabili con l’inchiesta aperta dalla Procura di Ancona dove i carabinieri forestali stanno acquisendo testimonianze e documenti. Tra le varie cause dalle carte in mano alla magistratura si scoprono anche alcuni stop ai lavori di sistemazione del corso del Misa dovuti ai ricorsi presentati al Tar ed in procura da alcuni singoli cittadini o da associazioni per di più ambientaliste; non si può ignorare che ci fosse un progetto rimasto nel cassetto dal 1982. Si tratta di una cassa di espansione per limitare la pressione del fiume nei tratti cittadini mai realizzata da tre milioni cubi di capacità che i comitati e i sindaci hanno osteggiato sin dall’inizio. 

C’è chi vi ritiene responsabili di aver fermato la cassa di espansione. Cosa può dirci?

«Noi siamo un comitato e non abbiamo alcun potere per fermare nulla - dice Paolo Turchi Comitato vasche di espansione Bettolelle e Coordinamento alluvionati - Ora vogliono scaricare addosso a noi la responsabilità di quanto è accaduto ma è solo della politica. Le nostre osservazioni sul progetto era riferite al fatto che la cassa che volevano costruire non era utile perché avrebbe contenuto poca acqua. Così con l’aiuto di tecnici specializzati abbiamo analizzato il progetto e ci siamo resi conto che le vasche non erano poi così sicure, perché tra le varie criticità c’erano gli argini di contenimento che prevedevano un restringimento da 80 a 16 metri dell’alveo del fiume e questo comporta un innalzamento del livello dell’acqua di un metro».

Quali sono i punti critici?

«Il fiume ha rotto l'argine sia nel 2014 che ora nell'ansa antistante l'area dell'invaso. Nel 2014 non però non c’era l'opera, con gli argini in parte completati. Noi vogliamo opere per la messa in sicurezza del Misa che siano utili, efficaci e che non creino ulteriore pericolosità. Le case abitate a ridosso del lato est dell'invaso sono 3.Io e la mia famiglia per queste pericolosità abbiamo scelto di risiedere da un’altra parte».

E cosa avete fatto?

«Come comitati abbiamo fatto varie richieste e petizioni perché non era una vasca ma una bagnarola e poi il progetto all’interno del “Contratto fiume” ormai era andato. Si perché il primo progetto come previsto dalla legge Merloni è stato cambiato perché era troppo vecchio e prevedeva tra le altre cose l’esproprio delle case a ridosso del fiume. Comunque ora la realizzazione della cassa è partita ma ribadisco la responsabilità del ritardo è tutta politica delle varie amministrazioni che si sono succedute e invece i giornali scrivono che è colpa nostra. In più c’è il Consorzio bonifiche che si occupa della manutenzione dei fossi e del fiume che ha fatto solo interventi tampone su 4 chilometri di arginatura invece andava fatto su tutto il fiume ma i fondi non sono mai sufficienti. La cosa assurda è che il Misa è stato anche premiato come fiume più sicuro d’Italia nel 2011 con il bollino della Protezione Civile».

«Abbiamo fatto spesso interventi di manutenzione ordinaria - aggiunge Luciano Montesi presidente Associazione Confluenze - e negli ultimi anni abbiamo formato associazione di scopo con una cooperativa e due aziende agricole. Quando la regione ci ha incaricato della manutenzione ordinaria durante l’ultimo intervento abbiamo notato in punto nel corso d’acqua a Borgo Bicchia, una delle zone più colpite anche dall’alluvione del 2014, una strozzatura naturale agli argini e l’abbiamo segnalata con dei comunicati stampa. Questo fiume è lungo 40 chilometri ed ha bisogno di molta manutenzione lo diciamo da 27 anni ma i fondi per questo tipo di interventi sono sempre pochi e si opera solo in urgenza con il “Contratto fiume” siglato per i territori del Misa e del Nevola fra i sindaci dell’area, la Regione, il Consorzio di bonifica, le associazioni ambientaliste e altri enti».

Che può dirci del progetto della cassa di espansione?

«Sulla cassa di espansione si è dibattuto molto soprattutto sul fatto che potesse creare problemi e degli eventuali espropri dove molti non si sentivano remunerativamente tutelati. Forse fatta meglio avrebbe potuto essere la soluzione perché il fiume come abbiamo visto il suo spazio se lo riprende da solo».

Com’è stata l’alluvione del 2014?

«Non era la stessa cosa, mai visto niente del genere. Nel 2014 erano già due settimane che pioveva e la bomba d’acqua è arrivata tra il 3 e il 4 maggio quando la terra ormai non assorbiva più e gli argini si sono rotti in 20 punti. L’uomo ha fatto l’errore storico di costruire case a pochi metri dal fiume».

Estratto dall'articolo di Romina Marceca per repubblica.it il 30 settembre 2022.

Il dolore per le vittime inghiottite dal fango e la disperazione per le cittadine sfregiate dall'alluvione del 15 settembre non hanno fermato le mani degli sciacalli tra Senigallia e le contrade vicine. I ladri non conoscono la pietà. C'è chi ha rubato auto, moto, attrezzi agricoli, bici, coperte, elettrodomestici e anche una collezione di trenini di un appassionato di modellismo. 

Mentre c'era chi davvero affondava pale e mani nel fango e si è offerto di aiutare i senigalliesi per liberare le abitazioni dalla melma, c'è stato anche chi si è finto volontario, in alcuni casi anche della Caritas, o dipendente del Comune, portando via tutto ciò che poteva. [...]

Il sindaco di Senigallia, Massimo Olivetti, ha diffuso un aler attraverso i social. "Si comunica di fare attenzione alle persone che chiedono di entrare in casa per verificare i danni. Comunicare alle forze dell'ordine qualsiasi richiesta in tal senso. Nessun ente ha dato incarico per svolgere questo tipo di sopralluoghi", è il testo con tanto di segnale di pericolo.    

E adesso una delle vittime lancia un appello da Senigallia. "Riportatemi la mia collezione di trenini, l'ho realizzata in trent'anni di vita", dice Luigi Montesi, 65 anni. Un ladro travestito da volontario è riuscito a arrivare al suo garage e tra melma e acqua alle caviglie, vicino largo Boito, è fuggito via con un sacco nero pieno di 53 modellini che riproducono i vagoni delle Ferrovie realizzati da Roco, Lima e Rivarossi. Un piccolo tesoro che per gli esperti del settore vale 10mila euro. […]

I militari del nucleo operativo e radiomobile di Senigallia in questi giorni hanno denunciato due uomini e una donna che su un furgone avevano caricato mobili, ferro e alcune suppellettili. I tre non sono riusciti a giustificare cosa ci facessero a Senigallia, visto che risiedono a Macerata, e sono stati denunciati per gestione di rifiuti non autorizzata 

Alluvione, morti e feriti nelle Marche. Ecco cosa prevedevano i bollettini meteo poche ore prima del disastro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Settembre 2022

Gli amministratori dei Comuni colpiti dal maltempo denunciano il ritardo nell’annunciare l’arrivo del pesante maltempo. Il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza per la Regione Marche . Il premier Draghi si reca a Pianello di Ostra

Scene apocalittiche con muri d’acqua che hanno fatto vivere dei veri “momenti di terrore” come li ha definiti il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio. Un vero e proprio disastro che ha causato morti e feriti, distruggendo vaste zone delle Marche. Ed ora arrivano le denunce per il ritardo con il quale è stato annunciato il maltempo. La domanda che molti si fanno, a partire dai sindaci dei comuni colpiti è: era prevedibile una situazione così pesante ? Difficile, quando i quantitativi sono così ingenti e concentrati in zone molto ridotte di un territorio.

Il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio è nelle Marche per coordinare gli interventi di soccorso. Poi ci sarà un sopralluogo nelle aree colpite nelle province di Ancona e Pesaro Urbino. “Ci sono stati momenti di terrore, con quantitativi di acqua veramente straordinari e peggiore di quello che era stato previsto“, ha detto Curcio dopo la riunione alla quale hanno partecipato anche i vertici dei vigili del fuoco, il capo dipartimento Laura Lega e il capo del corpo Giorgio Parisi. Nei prossimi giorni “è atteso un peggioramento meteo, ma siamo al lavoro per essere pronti“. 

“L’allerta meteo era gialla per le zone appenniniche e del Pesarese e del Fabrianese, un’allerta normale ma la portata non era assolutamente prevista. Non è stata tanta l’acqua caduta sul nostro territorio ma quello che il torrente Meola ha portato giù dal monte. Il problema sono terra e fango venuti giù dall’Appennino“. Ad affermarlo in un collegamento con Rai News 24 è Carlo Manfredi, sindaco di Castellone di Suasa, centro in provincia di Ancona, che ha aggiunto “ll problema sono i corsi d’acqua, al momento non abbiamo possibilità di attraversamento della vallata, non abbiamo modo di raggiungere Barbara“.

Questa è però soltanto una delle tante voci che a disastro consumato, denunciano il ritardo nell’annunciare un evento meteorologico che si è dimostrato di proporzioni ben più grandi di quelle che in realtà tutti avevano annunciato. Infatti la Protezione Civile delle Marche annunciava nei propri avvisi del 15 settembre a mezzanotte, una “allerta gialla” solo in due delle macrozone in cui la regione viene divisa. Possibile? Ma come mai non è stato annunciato, invece, con un minimo di anticipo l’arrivo di una perturbazione che poi si è rivelata disastrosa? “Assolutamente difficile da prevedere“ spiega Daniele Cat Berro, meteorologo della Società meteorologica italiana. “Stiamo parlando di un sistema autorigenerante. Sono eventi difficili da inquadrare anche a poche ore. Oltretutto avvenuto in una zona sulla quale solitamente non si abbattono questi quantitativi di pioggia“. Ancora una volta degli eventi estremi come quelli verificatisi lo scorso 18 agosto in Toscana, dove ci furono altri morti e feriti. 

Possibile avere previsioni più attendibili ? Sarebbe stato il caso di annunciare, per le aree tra Marche e Umbria colpite dall’alluvione un’allerta rossa? “L’allerta gialla non esclude eventi estremi localizzati – dice Cat Berro –. Una allerta rossa, invece, si lancia solo quando viene colpita un’area molto vasta. Capisco lo sconcerto, ma davvero, era una situazione difficile da prevedere“. Ma cosa dicevano i bollettini nelle ore precedenti al disastro? Tra Senigallia, Otra, Barbara e Trecastelli soltanto un’allerta gialla.

Addirittura soltanto verde nella Zona 2 dove, comunque, il maltempo ha picchiato duro. I sindaci continuano a citare il fatti che nessuno li abbia avvisati. “La situazione è precaria, non abbiamo né luce né acqua, una situazione uguale a quella di questa notte. Quanto alll’allerta meteo, le Marche erano escluse dalle previsioni”. L’assessore regionale delle Marche alla Sanità, Filippo Saltamartini, intervenendo nel programma “The Breakfast Club” su Radio Capital sottolinea: “L’allerta meteo era soltanto gialla? Purtroppo ci sono meccanismi automatici. Ma non è questo il momento di affrontare un simile argomento: noi ora – spiega l’assessore – stiamo cercando di salvare i dispersi e di curare tutti. Soltanto dopo parleremo delle eventuali responsabilità“. Sempre Saltamarini ha definito “la provincia di Ancona la le aree più colpite“. che in Zona 4 per la Protezione civile, non aveva nemmeno l’allerta gialla. 

La Croce Rossa Italiana è operativa sin dalla notte con 60 uomini e 23 mezzi a supporto dei soccorsi alla popolazione colpita dal maltempo nelle Marche. Idrovore e soccorritori sono partiti dal Centro Operativo Emergenze di Avezzano e dal Centro Operativo Nazionale Emergenze di Roma per raggiungere il punto di smistamento a Cesano di Senigallia e supportare il Centro Operativo delle Marche.

Sono 400 gli interventi finora effettuati dai Vigili del Fuoco tra le province di Ancona e Pesaro Urbino flagellate dal maltempo. Oltre 300 i vigili impegnati. Nel Pesarese, a Serra S.Abbondio, un elicottero del Corpo ha soccorso 5 persone in difficoltà; altre due sono state soccorse sul monte Catria.

Sono 10 i morti, tutti identificati, e 3 le persone ancora disperse nell’alluvione che ha colpito le Marche. Lo ha reso noto la Prefettura di Ancona, che aggiorna il bilancio delle vittime. Il Centro di coordinamento soccorso continua a essere costantemente convocato presso la Sala operativa unificata permanente della Regione Marche in raccordo con il coordinamento della Protezione civile. E sono circa 150 i soggetti sfollati che, allo stato dei dati, non possono rientrare nelle proprie abitazioni; la maggior parte di queste persone si trova nel Comune di Senigallia, ma il numero è in crescita.

Al riguardo sono stati predisposti dalle forze di Polizia dedicati servizi di prevenzione e controllo sugli immobili evacuati. “Altre situazioni di possibile evacuazione sono attualmente all’esame“, spiega ancora la prefettura, che aggiunge: “Per la giornata di sabato è prevista allerta gialla per rischio idrogeologico ed idraulico. Si raccomanda l’adozione di comportamenti esternamente prudenti“. 

“E’ un disastro. Un disastro che bisogna affrontare. La sindaca mi ha detto che sono sicuri che ce la faranno, è determinata. Tutti sono con lei”, ha detto il premier Mario Draghi durante la visita a Pianello di Ostra, accompagnato dal capo della Protezione civile Curcio e alla presenza della sindaca Farnese e del governatore Acquaroli. “Il governo stamattina in Consiglio dei ministri ha assicurato i primi fondi, ci vorrà molto di più. Ho già parlato con il Presidente della Regione, faremo tutto quello che è necessario” ha aggiunto il Presidente Draghi, ricordando che “oggi in Cdm sono già stati stanziati 5 milioni ma è solo l’inizio. Ho assicurato al presidente Acquaroli, ai sindaci e alle autorità che ho incontrato e ringrazio che tutto quel che è necessario per riavviare le attività produttive, ricostruire le case distrutte, riaprire le scuole, verrà fatto. In altre parole il governo non risparmierà alcuno sforzo per aiutare famiglie e imprese” delle aree colpite.

Rispondendo alla domanda di un giornalista, Draghi ha sottolineato che esiste “un problema idrogeologico” e che “il Pnrr lo affronta”. Draghi ha poi assicurato che “ci saranno tutte le indagini per accertare le responsabilità”. “Occorre ricostruire, riavviare le attività produttive e riaprire le scuole – ha detto ancora il premier – Ora c’è la tragedia personale, c’è il lutto. Su questo le parole possono poco, la mia presenza è una presenza di affetto, di solidarietà, di vicinanza a chi ha perso i propri cari e per i feriti. Ma occorre fare di più per affrontare il rischio idrogeologico o sarà difficile ricostruire la fiducia delle persone. E’ un rischio diffuso, ma quella che era una fragilità che ci portiamo dietro è diventata una emergenza con il cambiamento climatico. Quindi occorre affrontare il rischio idrogeologico, che significa prevenzione, investimenti, infrastrutture ma significa anche affrontare i cambiamenti climatici“.

Draghi ha poi preso parte in Municipio, alla riunione operativa con il coordinamento dei soccorsi e le autorità locali. “Vi abbracciamo tutti, vi siamo vicini e contate su di noi”, ha concluso rivolgendosi ai presenti.

In mattinata il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, aveva chiamato il governatore Francesco Acquaroli esprimendogli “solidarietà e gratitudine a tutti quanti stanno instancabilmente lavorando per i soccorsi”.

Imprevedibili e disastrosi: gli eventi meteo estremi sono l'altra faccia della crisi climatica. Cristina Nadotti su La Repubblica il 16 Settembre 2022. 

L'esperta del Cnr spiega l'importanza delle allerte: "Impossibile prevedere un nubifragio come quello che si è scaricato in Centro Italia in queste ore: serve più consapevolezza e attenzione da parte della politica verso adattamento e mitigazione"

Marina Baldi, climatologa Cnr, prima di tutto vuole parlare delle vittime del nubifragio nelle Marche: "Il nostro lavoro vorrebbe prevenire proprio disastri come questo - dice - e di fronte a tragedie di questo tipo oltre alle considerazioni scientifiche c'è il pensiero per le persone che hanno perso la vita e le famiglie in difficoltà". 

Ecco, le previsioni: si poteva immaginare che il fenomeno estremo fosse di questa entità?

"Seguivamo una situazione di grande instabilità con diverse celle temporalesche che si stavano muovendo da Occidente, alimentate da temperature molto elevate sul Mar Tirreno, che quest'anno ha registrato temperature record. Di solito questo temporali si scaricano sul versante delle coste tirreniche, perché vengono fermate dai rilievi dell'Appennino, ma era stata diramata comunque un'allerta meteo molto ampia. Purtroppo siamo in grado di seguire e prevedere lo spostamento di queste celle temporalesche, ma non di prevedere dove scaricheranno, è l'incertezza dei modelli che si usano oggi. I modelli si nowcasting si avvalgono di strumenti radar per seguire i percorsi, ma, ripeto, non il momento in cui queste grandi quantità di acqua si riversano a terra".Da quanti giorni seguivate questo fronte?

"Gli esperti di previsioni sono in grado di rilevare e interpretare spostamenti nel giro di poche ore. Poi è molto importante il lavoro svolto dai servizi meteo regionali, che conoscendo le caratteristiche del territorio e le sue vulnerabilità indicano le zone più ad alto rischio e vulnerabili". 

Che cosa rende un territorio a più alto rischio?

"La densità di popolazione è un elemento fondamentale, nel nostro caso le aree delle coste tirreniche sono appunto le più popolate. Ci sono poi situazioni conosciute di dissesto idrogeologico o di aree cementificate ad alto rischio perché si sono tombati fiumi e si è costruito sui loro argini. Non a caso in passato eventi disastrosi si sono avuti a Olbia, Genova dove c'erano situazioni di questo tipo".

La siccità dei mesi scorsi può aver avuto un ruolo nel disastro?

"Di sicuro, perché la dove comincia a piovere in modo così violento il terreno non è in grado di recepire acqua e si verifica il fenomeno del ruscellamento: l'acqua che non viene assorbita dal suolo reso impermeabile da mesi di siccità continua a scorrere".  

I fenomeni estremi dovuti al cambio climatico sono ormai continui. Siamo indietro nella mitigazione e nell'adattamento?

"Per quanto riguarda l'adattamento è chiaro che se si contano oltre dieci vittime nonostante sia stata diramata un'allerta per tempo non si è abituati a seguire le indicazioni. Dovrebbe esserci una coscienza maggiore da parte di tutti, bisognerebbe insegnare nelle scuole cosa significa allerta gialla e che ci sono delle piogge e possono esserci nubifragi. Spesso vengono sottovalutati gli appelli dei sindaci, invece se li fanno vuol dire che hanno partecipato a tavoli con esperti. Dal punto di vista della mitigazione è chiaro che nonostante la politica europea e i passi italiani si sta facendo ancora troppo poco per ridurre le emissioni:  la crisi climatica dovrebbe essere la priorità e invece vediamo che è fuori dall'agenda politica o trattata in maniera superficiale".

Alluvione Marche, i tre dispersi non si trovano: c'è anche Mattia, il bimbo di 8 anni. Oltre al piccolo, mancano all'appello la 56enne Brunella Chiù e un uomo di Arcevia. La Repubblica il 17 Settembre 2022.

Sono continuate tutta la notte, nel Senigalliese, le ricerche delle tre persone che ancora risultano disperse (Mattia, 8 anni, la 56enne Brunella Chiù e un uomo di Arcevia).

Al momento, secondo le prime informazioni, non vi sarebbero novità da ieri sera: vigili del fuoco - che provengono anche da Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Abruzzo - protezione civile e altri soccorritori sono al lavoro incessantemente anche per fornire aiuti a sfollati e persone che hanno subito danni o hanno avuto case inagibili a causa dell'acqua e del fango. Starebbe invece tornando parzialmente attivo il servizio idrico all'interno di case e attività che era stato interrotto in varie zone da ieri mattina.

Intanto è salito a 10 il numero delle vittime per l'alluvione che ha interessato il centro-nord delle Marche: vivevano tutte lungo la vallata dei fiumi Misa e Nevola, in provincia di Ancona.

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha espresso "angoscia" per la tragedia, mentre il premier Mario Draghi ha fatto visita alle zone colpite portando il sostegno del governo. "E' un disastro, faremo tutto il possibile", ha detto cercando di rincuorare i cittadini che hanno lamentato di non essere stati allertati in tempo. Ma, nonostante una giornata senza pioggia, le Marche continuano a restare con il fiato sospeso, in attesa dell'allerta gialla prevista per le prossime ore. E l'attenzione è rivolta anche ad altre quattro regioni per le quali la Protezione Civile ha emesso un'allerta arancione. Si tratta di Umbria, Campania, Basilicata e Calabria.

In un solo pomeriggio le Marche sono state travolte dalla quantità di pioggia che solitamente cade in sei mesi. Si tratta, secondo i dati diffusi dal Cnr, del nubifragio più intenso degli ultimi 10 anni causato, con ogni probabilità, dal caldo eccezionale dell'estate. "E' piovuto in qualche ora un terzo di quello che normalmente piove in queste zone in un anno" dice il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio. 

(Adnkronos il 23 settembre 2022) - Il corpo di un bambino, verosimilmente Mattia di 8 anni disperso nell'alluvione delle Marche, è stato ritrovato dai carabinieri nel corso delle ricerche partite subito dopo la bomba d'acqua che ha colpito molti paesi marchigiani giovedì scorso. A quanto si apprende, non c'è ancora l'ufficialità visto che sarà necessario aspettare gli accertamenti medico-legali, ma tutto fa pensare che si tratti proprio del piccolo. Il corpo è stato ritrovato in zona Trecastelli (Ancona). 

Mattia Luconi ritrovato a Trecastelli: la lunga attesa dei paesi dove viveva con mamma e papà. Romina Marceca su La Repubblica il 23 Settembre 2022.

A Barbara abita il padre, mentre e San Lorenzo in Campo il piccolo viveva con la madre. Dopo 8 giorni di ricerche e il ritrovamento del corpo senza vita del bambino, sui due centri è calato un clima surreale

Due paesi, Barbara e San Lorenzo in Campo, in ansia per 8 giorni per quel bambino che era conosciuto da tutti. Un bambino speciale Mattia, si faceva capire a gesti e con i suoi sorrisi birichini. A Barbara tutti i commercianti, dalla parrucchiera al bar e fino alla farmacia dove lavora la mamma di Mattia, in vetrina hanno esposto un gattino in legno.

Alluvione Marche, Mattia trascinato per 13 chilometri. “Vivremo per realizzare il suo sogno”. Romina Marceca su La Repubblica il 23 Settembre 2022. 

Trovato il bambino: è la dodicesima vittima. Il papà: "Una fattoria a Barbara porterà il suo nome"

Un carabiniere si avvicina a Tiziano Luconi, in disparte gli sussurra la verità che quel papà di 38 anni non vuol sentire: "Abbiamo trovato Mattia, a 13 chilometri da qui. Purtroppo è morto". Sono le 16,15, otto giorni dopo l'alluvione che ha seminato morti e terrore nelle Marche. 

Pochi secondi e Tiziano, il papà di Mattia, 8 anni, incrocia lo sguardo dell'ex moglie.

Alluvione Marche, un cavillo burocratico bloccò il cantiere sul Misa. "L'esondazione si poteva evitare ma il fiume è stato abbandonato a se stesso". Romina Marceca su La Repubblica il 22 Settembre 2022. 

Il presidente del Consorzio, Claudio Netti, che ora deve affrontare anche un processo per presunte autorizzazioni non richieste: "Fa rabbia pensare a quello che è successo". E spunta una foto scattata prima del 15 settembre dove si vede bene la situazione disastrosa del corso d'acqua

Un tentativo per salvare il Misa da un'esondazione devastante, come quella del 2014 e quella del 15 settembre scorso, era stato messo a punto dal Consorzio Bonifica delle Marche. Un progetto presentato nel 2019, approvato nel 2020 e bloccato nel 2021. Tempo e soldi sprecati per un cavillo legato alla natura dei materiali da estrarre dal fiume.

Marche, i dimenticati dell'alluvione: "Sommersi dal fango e ignorati dallo Stato". Romina Marceca su La Repubblica il 23 Settembre 2022. 

Undici frazioni al confine con l'Umbria sono state tagliate fuori dagli aiuti per calamità naturale e ora lottano per avere riconosciuto lo stato di emergenza

Sono i dimenticati dell'alluvione, sommersi dal fango e ignorati dallo Stato. Undici frazioni sul confine tra Marche e Umbria tagliate fuori dagli aiuti per calamità naturale che lottano per avere riconosciuto lo stato di emergenza. Le loro case sono state spazzate via dall'esondazione del fiume Burano, la stessa che ha cancellato Cantiano. Ma si trovano in Umbria per 600 metri e lì lo stato di emergenza non è stato riconosciuto.

 Alluvione nelle Marche, la politica non ha voluto evitare la tragedia. In Parlamento è stata ferma per mesi una proposta di legge mossa da ActionAid per il Codice della Ricostruzione, che alla fine non è stata approvata. E di fronte all’ennesimo disastro climatico la mancanza di attenzione sul tema da parte di deputati e senatori è ancora più imperdonabile. Gloria Riva su L'Espresso il 16 Settembre 2022.

Non chiamatela fatalità. Perché l'alluvione che ha colpito le Marche nelle ultime ventiquattro ore non lo è. Ancora non è certo il numero dei morti e l'entità della devastazione, ma quel che è chiaro è che si tratta dell'ennesima tragedia annunciata, legata al maltempo, ma soprattutto all'assenza di prevenzione e coordinamento fra chi si occupa di tutela del territorio, emergenza e urgenza e protezione civile.

Quel che vedremo sono i candidati al Parlamento che andranno ad aiutare la popolazione in difficoltà. Ascolteremo le promesse dei politici. E molti di loro sono gli stessi che hanno fatto cadere il governo prima che riforme importanti, anche per la tutela del territorio, andassero a buon fine. Perché dopo l'ennesima tragedia delle Marche è ancora più imperdonabile la mancanza di attenzione da parte di Senatori e Deputati alla legge delega per il Codice della Ricostruzione, che da mesi giace in Parlamento. E che non è stata approvata. Ma andiamo con ordine.

ActionAid nel 2019 si è fatta promotrice della campagna #Sicuriperdavvero, attivando oltre 400 persone e realtà organizzative di vario tipo per portare al centro dell'attenzione pubblica la fragilità del territorio italiano per chiedere una politica nazionale di riduzione del rischio, di attenzione alla prevenzione, per le ricostruzioni materiali e socioeconomiche dei territori colpiti da sisma e alluvioni e per il coinvolgimento diretto della popolazione colpita.

L'iniziativa partiva dai dati Ispra, l'Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale, che confermano come gli eventi climatici estremi sono ormai una realtà con cui il nostro Paese deve confrontarsi. L’Italia è costantemente colpita da fenomeni di origine naturale (terremoti, frane, alluvioni) ed il suo territorio è soggetto a innumerevoli rischi naturali ed antropici. In base all'ultimo rapporto Ispra il 93,9 per cento dei comuni italiani, cioè 7.423 municipi, è a rischio frane, alluvioni ed erosione costiera. Complessivamente 1,3 milioni di abitanti sono a rischio frane - di cui il 13 per cento sono giovani con età inferiore ai 15 anni, il 64 per cento sono adulti tra 15 e 64 anni e 23 per cento ha più di 64 anni - e 6,8 milioni di abitanti sono a rischio alluvioni. Tutti i dati sono in aumento rispetto a quelli raccolti nel precedente rapporto datato 2018.

L'intenzione di ActionAid era quella di colmare un vuoto normativo vista l'assenza di politiche di medio-lungo periodo per contrastare e far fronte alle crisi, per la messa in sicurezza del territorio. Da qui nasce la pubblicazione “Linee Guida per una politica nazionale sulla prevenzione e la ricostruzione” dove si individua la necessità di politiche integrate di lungo periodo, accompagnate da stanziamenti certi per la messa in sicurezza del territorio, richieste che nascono dall'esito di un lungo percorso di partecipazione condotto con cittadine/cittadine, esperte ed esperti e referenti istituzionali.

Tra le richieste emerse dal percorso #Sicuriperdavvero c'è anche quella di dare vita a una normativa organica per disciplinare le ricostruzioni e coordinare il lavoro pre e post evento. E che fine ha fatto questa proposta di legge? Inizialmente questa istanza ha trovato una forte convergenza con la proposta del governo Draghi sulla Legge Delega per il Codice della Ricostruzione, un passo necessario e fondamentale per il riconoscimento dei diritti delle popolazioni colpite da catastrofi, per ricostruzioni più eque e celeri.

«Il 21 gennaio 2022, il Consiglio dei Ministri ha approvato il Disegno di Legge Delega per dotare finalmente l’Italia del Codice della Ricostruzione. Tuttavia, l’iter per l’adozione di questo istituto legislativo si è scontrato con l’interruzione della Legislatura, e il provvedimento non ha potuto compiere i dovuti passaggi che avrebbe portato verosimilmente alla sua approvazione in Parlamento. Il rischio è che il percorso verso il Codice della Ricostruzione, per cui tanto si è lavorato in questi ultimi mesi, non arrivi mai a suo compimento. L’ennesima tragedia di queste ore ci mostra quanto invece sia urgente e necessario uno sforzo collettivo perché il tema della prevenzione e della ricostruzione conquisti uno spazio nel dibattito pubblico e ci sia un impegno effettivo nella prossima Legislatura verso le persone colpite e le tante altre comunità che in Italia abitano territori a rischio. Il Paese non può più attendere», commenta Patrizia Caruso di ActionAid.

Maltempo, ecco come funziona il sistema di allertamento. Redazione Cronaca su La Repubblica il 16 Settembre 2022. 

Le indicazioni dai Centri funzionali delle Regioni: ci sono 4 colori per allertaSpetta ai Centri funzionali decentrati in ogni Regione valutare le indicazioni meteo e il possibile evolversi della situazione e sono loro a comunicarlo al Centro funzionale centrale che emette un Bollettino di vigilanza metereologica nazionale. Il Centro funzionale nazionale a Roma è operativo 24 ore al giorno e si articola in un settore meteo e in uno idrogeologico e idraulico: ha il compito di elaborare previsioni meteo a fini di protezione civile, vale a dire previsioni sui fenomeno meteorologici che possono avere un impatto sul territorio o sulla popolazione. Il Bollettino che giornalmente viene prodotto è un documento che segnala le situazioni in cui si prevede che uno o più parametri meteorologici supereranno determinate soglie di attenzione o di allarme. Quando le previsioni segnalano fenomeni di rilevanza sovraregionale, il settore meteo emette un Avviso nazionale, preso atto delle valutazioni dei centri funzionali decentrati.Spetta infatti a questi ultimi effettuare una valutazione "del possibile verificarsi, o evolversi, di effetti al suolo (frane o alluvioni) a seguito di eventi meteorologici previsti o in atto". Anche queste valutazioni confluiscono in un Bollettino di criticità realizzato dal Centro nazionale che è poi messo a disposizione dei Centri locali e dei ministeri dell'Interno, delle politiche agricole, dei Trasporti e dell'Ambiente affinché questi comunichino alle loro  strutture operative.

Quanto alle tipologie di allerte e delle criticità meteo-idrogeologiche un documento della Protezione Civile del 2016  si poneva come obiettivo "l'omogeneizzazione dei messaggi del sistema di allertamento nazionale", poiché non esiste un unico sistema. Quattro sono i colori: verde, giallo, arancione e rosso. Il verde indica "assenza di fenomeni significativi prevedibili anche se non è possibile escluderli a livello locale", il giallo prevede invece che vi possano essere "fenomeni localizzati" come caduta massi, frane superficiali, colate di fango e esondazione improvvisa dei corsi d'acqua. Già con l'allerta gialla si registra un "occasionale pericolo per la sicurezza delle persone con possibile perdita di vite umane per cause accidentali". L'allerta arancione prevede invece "fenomeni diffusi" con danni ad edifici, centri abitati, attività produttivi, argini e ponti, inondazione delle aree golenali.

L'ultimo scenario di allarme, quello rosso, indica "fenomeni numerosi e/o estesi" con "grave pericolo per la sicurezza delle persone con possibili perdite di vite umane". Lo scenario prevede frane profonde e di grandi dimensioni, cedimento di ponti, allagamenti di aree anche lontane dai corsi d'acqua, variazione dei corsi dei fiumi.

Cani molecolari in azione: dopo 96 ore le speranze che siano vivi sono minime. Mattia e Brunella dispersi dopo l’alluvione, il papà del bimbo: “Spero di ritrovarlo nascosto da qualche parte”. Redazione su Il Riformista il 19 Settembre 2022 

Dopo quasi quattro giorni di ricerche, è stato ritrovato solo lo zainetto che il piccolo Mattia Luconi, 8 anni, usava per andare a scuola. Del bimbo strappato dalle braccia della madre Silvia Mereu dalla furia del fiume Nevola, durante il violento nubifragio che ha sconvolto le marche il 15 settembre scorso, non c’è ancora nessuna traccia. Lo zainetto, riconosciuto dai familiari, è stato trovato nella giornata di domenica 18 settembre a circa 8 chilometri di distanza dal punto in cui il piccolo Mattia era stato travolto dall’acqua, insieme alla mamma, lungo la strada tra Ripalta di Arcevia e Castelleone di Suasa, nella provincia di Ancona.

I soccorritori stanno aumentando la presenza di escavatori per accelerare la rimozione degli enormi mucchi di vegetazione varia, tra cui anche interi alberi e tronchi, che sono stati trasportati nella zona tra il ponte adiacente alla Corinaldese e l’azienda agricola Patti Vanocci, in territorio di Castelleone di Suasa (Ancona), nei cui terreni era stata trovata l’auto Mercedes Classe A su cui viaggiavano Silvia e il figlio Mattia, travolti dalla furia del fiume nella serata del 15 settembre.

La donna, che lavora come farmacista nel piccolo comune di Barbara, era stata recuperata viva in quella zona e adesso è ricoverata all’ospedale di Senigallia. Di Matti dopo quasi 96 ore non c’è nessuna traccia. Una delle ipotesi è che la corrente impazzita del fiume possa aver trasportato per diversi chilometri anche il piccolo Mattia.

Le ricerche sono condotte dai vigili del fuoco che stanno utilizzando anche unità cinofile per setacciare l’area. Ai cani è stato fatto fiutare anche lo zainetto di Mattia ritrovato nelle scorse ore a ben otto chilometri di distanza rispetto a dove è stata travolta l’auto che guidava la mamma. Mattina la sera del 15 settembre non indossava lo zainetto che si trovava in auto.

“Il ritrovamento dello zaino di Mattia? Una stilettata, un fulmine a ciel sereno”. Sono le parole di Tiziano Luconi, padre del bimbo di otto anni. L’uomo continua a nutrire speranze di ritrovare vivo il figlioletto. “La speranza non la lascio mai, anche oggi anche se il tempo non è dei migliori, spero di ritrovarlo magari svenuto, nascosto perché si è impaurito ed è fuggito da qualche parte, io continuerò sempre, tornerò in quell’inferno ma lo trovo vivo”.

Oltre al piccolo Mattia, risulta dispersa da quasi quattro giorni anche Brunella Chiù, 56enne di Barbara trascinata dal fiume Nevola mentre lasciava la casa in auto con la figlia Noemi Bartolucci, la 17enne ritrovata morta, e l’altro figlio Simone che è riuscito a salvarsi aggrappandosi a una pianta.

Le vittime accertate restano undici, tra Pianello di Ostra, Senigallia, Barbara, Trecastelli, Serra de’ Conti, Rosora. Previsto per oggi il sopralluogo del Capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio alle zone più colpite. Partirà dalla provincia di Pesaro (Cantiano, Serra Sant’Abbondio, Frontone, Pergola), per poi passare in quella di Ancona. Nel pomeriggio Curcio dovrebbe partecipare ad una riunione presso il Centro Coordinamento Soccorsi (Ccs) presso la Protezione civile regionale delle Marche. Una cinquantina i feriti, circa 150 gli sfollati, i danni restano incalcolabili.

Procede intanto l’inchiesta della Procura di Ancona tra verifiche, ispezioni aeree, acquisizioni e prime audizioni informali dei testimoni. L’associazione Conofluenze, ambientalisti, lo scorso 28 marzo aveva segnalato alla Regione una strozzatura naturale del corso d’acqua a Borgo Bicchia. La zona era stata tra le più colpite anche dall’alluvione del 2014. I comuni della zona avevano firmato nel 2015 il “Contratto di fiume” per i territori del bacino idrografico del Misa e del Nevola, siglato tra sindaci, Regione, Consorzio di bonifica, associazioni ambientaliste e altri enti.

L’alluvione ha causato “una devastazione che ha colpito soprattutto le infrastrutture, alcune già fragili, e ovviamente i collegamenti con gli altri paesi, gli acquedotti, le fogne”. Queste le parole di Fabrizio Curcio parlando con i giornalisti dopo aver incontrato il sindaco di Barbara, Riccardo Pasqualini. Per il capo del dipartimento nazionale della protezione civile, “tutto quello che riguarda le infrastrutture è sicuramente un tema cruciale che va affrontato”.

Alluvione Marche, il saluto straziante del padre del piccolo Mattia: “Torneremo a girare in Vespa”. Vito Califano su Il Riformista il 24 Settembre 2022

Strappa le lacrime il messaggio che Tiziano Luconi ha scritto al figlio Mattia, il bambino di otto anni scomparso nella violenta alluvione che la scorsa settimana ha colpito le Marche causando almeno undici vittime. Il corpo che dovrebbe essere del bambino è stato ritrovato ieri immerso nel fango in un terreno agricolo nel comune di Trecastelli, provincia di Ancona, a tredici chilometri da dove era stato travolto.

Il padre ha pubblicato una fotografia con poche righe. “Torneremo a girare in vespa e a tirar baci, Mattia saluta tutti. Vi vogliamo bene”, ha scritto l’uomo. Lo scatto ritraeva proprio i due, padre e figlio, a bordo della Vespa, sorridenti. Il bambino è stato strappato dalle braccia della madre, che ha provato a salvarlo, dalla furia del fiume in piena. Il cadavere rinvenuto ieri è stato trasportato questa mattina all’ospedale di Senigallia. Sarà sottoposto a ispezione cadaverica al termine della quale si deciderà se sarà necessario procedere con l’autopsia. 

Per identificare il corpo potrebbe essere necessario l’esame del dna. Nel momento in cui la salma sarà ufficialmente identificata il bollettino delle vittime salirà ufficialmente a dodici con una persona ancora da rintracciare. Il bambino era affetto da una grave forma di autismo.

“Una volta un medico mi disse: chi è affetto da autismo fatica a socializzare, a relazionarsi – aveva raccontato Tiziano Luconi al Corriere della Sera nei giorni delle ricerche – allora decisi in quel momento di fargli fare tutto, qualunque cosa, nuotare, disegnare, stare in mezzo ai compagni di classe e andare in giro in Lambretta, anche se non era omologata per girare in due, lui col casco da ciclista proibitissimo. Ma nessun vigile di Barbara ci ha mai fatto una multa. E così vagavamo insieme per i paesi, ore e ore, fino all’ultimo pit-stop serale davanti alla farmacia di mamma: noi suonavamo il clacson, Silvia usciva e ci salutava”.

La persona che risulta ancora dispersa è Brunella Chiù, 56enne di Barbara, in provincia di Ancona. È stata ritrovata l’auto della donna, una Bmw serie 1. La notte dello scorso 15 settembre la donna stava provando ad allontanarsi in auto dalla sua abitazione di Contrada Coste con i figli Simone e Noemi quando la vettura è stata colpita da un’ondata di fango e detriti. La ragazza è stata ritrovata senza vita mentre il ragazzo è riuscito a salvarsi. Le ricerche proseguono per il nono giorno consecutivo tra Corinaldo e Senigallia, nell’area dove il Nevola e il Misa si congiungono, dove la stanno cercando anche oggi con squadre di subacquei e personale a terra.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Tra disastri e opere ferme. Alluvione nelle Marche, 40 anni di ritardi e opere incompiute per proteggersi dal fiume Misa. Redazione su Il Riformista il 18 Settembre 2022 

Undici morti, due ancora dispersi con ricerche che ad oggi non hanno dato esito, tra cui il piccolo Mattia, bambino di 8 anni strappato dalle braccia della madre per la violenza dell’onda di acqua e fango che li ha travolti.

Ma nelle Marche colpite da una pesante alluvione non è solo il tempo del lutto, è anche quello delle polemiche. Bisognerà fare chiarezza infatti su quanto accaduto giovedì dove nessuno ha comunicato per tempo al dipartimento della Protezione Civile che si stava per riversare su Senigallia e dintorni una tempesta tropicale di proporzioni ciclopiche. I satelliti militari, in particolare quelli in dotazione al servizio meteorologico dell’aeronautica, hanno fotografato la situazione per tempo? Possibile che non si è potuta accertare l’inusuale densità delle nubi in movimento, sia pur veloce? Se sì, quali campanelli di allarme non sono scattati?

Ma le polemiche più forti arriva da Senigallia e in particolare dal Misa, il fiume che si era già reso protagonista di almeno tre alluvioni, l’ultima nel 2014, costate la vita a oltre venti persone con danni milionari per la città, oltre ad altri episodi ‘minori’.

Eppure, come ricordano oggi Corriere della Sera e Repubblica, poco o nulla è stato fatto per la messa in sicurezza. Come la cassa di espansione posizionata fuori città, a otto chilometri dalla foce del Pisa, rimasta un progetto. Studiata nel 1982, è rimasta solo sulla carta. Eppure era una opera fondamentale dato il carattere torrentizio del fiume, come scrisse nella sua relazione sul Piano straordinario di individuazione delle aree a rischio idraulico l’ingegnere Alessandro Mancinelli, già consulente del comune di Senigallia: ciò vuol dire che il fiume è capace “di portate nulle nel regime di magra e di piene di centinaia di metri cubi”, come nel caso di giovedì.

DI quella cassa di espansione da tre milioni cubi di capacità, con 4 miliardi di lire messi sul tavolo concretamente nel 1985, non se ne fece nulla: colpa anche dei comitati cittadini contrari a colate di cemento, col risultato di trasferire quei soldi alla Provincia di Ancona, cui nel frattempo venne data la delega alla difesa del suolo: il risultato finale fu che tutti si dimenticarono dell’unica opera pubblica capace quanto meno di limitare possibili disastri come quelli avvenuti nei giorni scorsi.

Un secondo progetto per l’area arriverà soltanto nel 2014, ai tempi del governo Renzi e della sua missione ‘Italia Sicura’, poi cancellata dall’esecutivo Conte: 85 milioni degli otto miliardi complessivi per la costruzione della cassa di espansione per il Misa, all’indomani dell’alluvione del 3 maggio che ha colpito sempre Senigallia provocando quattro morti.

Anche qui tutto si ferma nel 2020, spiega al Corriere Erasmo D’Angelis, ora segretario generale dell’Autorità di bacino del Tevere ma che nel 2014 era il coordinatore della struttura di missione di Italia Sicura: “Per una questione di espropri — spiega — la procedura si è bloccata ancora per un anno e solo nel febbraio scorso, dopo le pressioni dei sindaci del territorio, c’è stata la consegna dei lavori, ma ancora non è partito nulla. Sono state sistemate solo alcune arginature”.

Ritardi su ritardi anche per i piani regionale. Nel 2009 erano state avviate gare per i lavori di messa in sicurezza del Misa perché ritenute “urgenti e prioritarie”. Risultato? Come ricorda il Corriere, nonostante i fondi a disposizione solo una minima parte degli interventi sul fiume verrà realizzata, con i primi bandi appaltati nel 2018 solo per un tratto del fiume, ma con lavori bloccati per problemi legati alla Via, la valutazione di impatto ambientale. Il progetto viene modificato, si ‘sprecano’ altri tre anni fino a quando nel 2021 i 900 mila euro stanziati per il posizionamento delle vasche di espansione hanno un loro utilizzo in un cantiere che viene aperto pochi mesi fa in località Bettolelle.

Flavia Amabile per “la Stampa” il 19 settembre 2022.

Per il pomeriggio di giovedì 15 settembre era stata diramata un'allerta verde, il pericolo poteva al massimo essere di qualche raffica di vento più forte di altre. È arrivata una massa di acqua pari a sette mesi di pioggia. Ha provocato undici morti, due dispersi e migliaia di case e attività allagate. Non è la prima volta che il sistema si rivela inefficace e ora sindaci e tecnici si chiedono se sia arrivato il momento di sostituirlo o almeno integrarlo con qualcos' altro. 

Il primo a chiederlo è Maurizio Greci, sindaco di Sassoferrato. «In caso di fenomeni estremi bisogna attivare un sistema diverso di monitoraggio in modo tale che, se qui i fiumi esondano e abbiamo le persone intrappolate negli edifici allagati, ci deve essere una segnalazione agli altri comuni a valle che, nel giro di poco tempo, tutto questo si scaricherà verso la costa».

Sassoferrato si trova in collina, a 400 metri sul livello del mare, a 50 chilometri da Senigallia. I Vigili del fuoco hanno iniziato a ricevere le prime chiamate per liberare persone rimaste bloccate già intorno alle sei e mezza-sette della sera, la protezione civile locale è stata messa in allerta subito dopo. La prima esondazione a Sassoferrato è avvenuta alle 19.15. La prima esondazione nel centro storico di Senigallia, l'ultimo centro dove si è scaricata l'onda di acqua partita dall'alto, è avvenuta quattro ore dopo.

«In quattro ore un sistema di protezione civile efficace come il nostro è in grado di evacuare intere città o, comunque, le zone dove il rischio è maggiore», spiega Maurizio Greci. «Non importa che i fiumi di Sassoferrato non siano gli stessi che arrivano a Senigallia - spiega.- Quello che conta è far capire che in montagna sta avvenendo qualcosa che in qualche modo provocherà danni più in basso».

Più o meno nello stesso momento in cui travolge Sassoferrato l'ondata di acqua investe Cantiano, in linea d'aria una ventina di chilometri di distanza, ancora più verso l'interno. Alle 19.55 il sindaco lancia l'allarme su Facebook. «Diversi fiumi sono straripati. L'acqua ha invaso le vie centrali del paese. Diverse zone sono già sommerse», scrive. E invita i cittadini alla calma ma a non uscire. A quell'ora Riccardo Pasqualini, sindaco di Barbara, una trentina di chilometri a valle di Sassoferrato, è ancora in Comune. 

«Ho guardato fuori dalla finestra, pioveva da quattro ore con una sequenza di fulmini mai vista prima. Eravamo senza corrente e senza linea telefonica, totalmente isolati», racconta. Rientra a casa alle nove. A tratti arriva il segnale del cellulare e le notizie. In uno di quei momenti di linea attiva, su whatsapp lo avvertono che ci sono auto trascinate via e persone disperse. Sono le 21.15, l'ondata di acqua sta scendendo.

Sulla costa il sindaco di Senigallia Massimo Olivetti ha da poco ricevuto un video e una telefonata da un amico che vive a Serra de' Conti, a sette chilometri da Barbara. Ricordando l'inondazione e i morti di otto anni prima, decide di lanciare l'allarme. Mancano due ore all'arrivo dell'ondata di acqua in città. A Senigallia vengono sospesi gli eventi, chiusi gli esercizi pubblici e gli abitanti invitati a tornare a casa. Si salvano tutti. Grazie a un messaggio di un amico del sindaco.

«Ero anche io a Senigallia per un evento in corso in città - racconta Stefano Aguzzi, assessore alla Protezione civile delle Marche -. Ho parlato con il sindaco, mi ha raccontato dell'allarme ricevuto da Serra de' Conti, ho provato anche io a fare qualche telefonata. Il sindaco di Cantiano non rispondeva. Da Cagli mi hanno confermato che stava piovendo molto. Poi ho chiamato la Protezione civile, mi hanno detto che la situazione in alto era complessa. A questo punto, visto come sono andate le cose, sostengo anche io che il meccanismo di allerta vada rivisto per capire se si può fare di meglio», afferma Aguzzi.

È quello che pensano in tanti. Il sistema di allerta attuale sembra sempre più spesso spiazzato di fronte al clima che cambia, incapace di cogliere gli eventi estremi. Leonardo Catena è sindaco di Montecassiano, un comune in provincia di Macerata. «Riceviamo da parte della Regione Marche almeno un'allerta meteo a settimana, se non di più, e ne diamo sempre comunicazione sui social e sul sito del comune. Spesso in quei giorni neanche piove. Invece giovedì sera ci sono stati allagamenti e smottamenti in diversi Comuni, con diversa intensità ma non avevamo ricevuto alcun messaggio di allarme.

Non voglio dare la colpa a nessuno, ci sono di sicuro dei motivi tecnici validi, ma così non si può andare avanti. Questa violenza di eventi è nuova e va affrontata con mezzi nuovi. Nel mio comune abbiamo attivato un meccanismo via whatsapp per avvertire le famiglie del territorio ma, se manca la comunicazione dall'alto, serve a poco». 

 «Un sistema diverso per dare gli allarmi è ormai necessario - conferma Riccardo Picciafuoco, architetto paesaggista, vicepresidente del Parco del Conero - basterebbe anche servirsi dei cellulari con un messaggio quando c'è un rischio concreto come quello che si è manifestato a monte di Senigallia. Dovrebbe essere l'abc della gestione delle emergenze, in questo caso avrebbe potuto salvare delle persone». 

«Lascia preoccupati e perplessi che una situazione di allerta sia stata affrontata da un singolo sindaco soltanto attraverso il buonsenso», sostiene Andrea Dignani, geologo, consulente scientifico del Wwf e profondo conoscitore della situazione idrogeologica delle Marche, riferendosi al video ricevuto da Massimo Olivetti.

«Mi sembra giusto a questo punto pensare di attivare nuove forme di monitoraggio. Come accade per le frane, si può pensare a un allarme automatico quando il livello dei fiumi supera una certa soglia. Oppure si possono aggiungere all'allerta attuale le previsioni di scenario, un manuale di istruzioni per ogni comune su quali parametri definiscono una situazione di allarme per una piena e come affrontarla». Se possibile prima del prossimo mancato allarme.

Pioggia e fango. Un’alluvione del genere a Senigallia non si era mai vista, dice lo chef Uliassi. Alessandro Balbo su L'Inkiesta il 16 Settembre 2022.

«Io sono qui da 32 anni, ma una bomba d'acqua come quella di stanotte non me la ricordo. Si è riversata tutta verso il mare. Locali e alberghi nella fascia di 5-600 metri sono rimasti tutti intrappolati con 60 cm di acqua» racconta a Linkiesta il ristoratore stellato. 

Al momento sono dieci le vittime dell’alluvione che ha colpito le Marche la scorsa notte. Ad esse si aggiungono almeno cinquanta persone in ospedale e centinaia di sfollati, oltre a quattro dispersi, due dei quali minorenni. Nella notte sono state decine le persone rifugiatesi sui tetti delle abitazioni, sugli alberi, con oltre 150 interventi dei Vigili del Fuoco. Il capo della protezione civile Fabrizio Curcio ha affermato come la quantità di acqua sia stata «peggiore di quanto previsto», mentre il Consiglio dei ministri ha deliberato lo stato di emergenza per la regione, approvando subito un primo finanziamento di cinque milioni.

Il territorio più colpito è stata l’area di Senigallia, dove il fiume Misia è esondato allagando buona parte della città. Nel centro sono visibili i danni procurati da detriti, rami, fango trascinati dal torrente. Le strade sono state inondate, ed è stata interrotta una linea ferroviaria. Incalcolabili i danni, che hanno colpito indistintamente tutte le attività produttive della zona, tra cui gli esercizi nel settore della ristorazione.

«Io sono qui da 32 anni, ma un’alluvione come quella di stanotte non me la ricordo» racconta Mauro Uliassi, chef da tre stelle Michelin e relatore nei più importanti congressi internazionali di gastronomia, che ha aperto nel 1990 il suo ristorante nel centro di Senigallia. «Stanotte è stato gigantesco: una bomba d’acqua partita 30-40 km più a nord, nell’entroterra. Il fiume, alle 9, era proprio a zero, ci saranno stati 30 cm di acqua. C’erano perciò argini e margini di almeno 4 metri sopra. A mezzanotte già era pieno, e veniva giù di tutto, anche se era lento. Ci potevi camminare, sulle cose che c’erano. L’acqua ha spostato un ponte proprio davanti al nostro ristorante» continua, «poi è arrivata l’onda che ha esondato, che ha portato il fiume fuori dagli argini, quindi è arrivato almeno a 5 metri. Quando esonda e supera gli argini la città rimane tutta sotto. Poi l’acqua si è riversata verso il mare. Locali e alberghi nella fascia di 5-600 metri sono rimasti tutti intrappolati con 60 cm di acqua».

Per una questione di fortuna, sono rimaste indenni due eccellenze ristorative della città, il due stelle Michelin Madonnina del Pescatore e il bistrot di proprietà della famiglia Cedroni, Anikò, proprio in centro a Senigallia. Senza danni anche il ristorante dello chef Uliassi: «Noi siamo stati fortunati» continua, «abbiamo il fiume a 5 metri, ma solitamente rimane molto basso e non è successo nulla. In centro, locali anche vicino a noi hanno subito anche grossi danni. Sono cose con cui non si fanno mai i conti. Se entra l’acqua in un ristorante, va in cantina, nei frigoriferi, si allaga il sistema elettrico, e non di acqua ma di melma».

I cittadini da ore stanno spalando fango e rimuovendo i detriti che hanno travolto abitazioni, negozi e capannoni. «Ci predisponiamo a emanare per domani una nuova allerta. Credo che a questo punto sia su tutto il territorio marchigiano. Non sono previste precipitazioni così cruente, però dobbiamo far conto che c’è un suolo che è già provato, al contrario rispetto a quello che era nei giorni scorsi» ha affermato l’assessore alla Protezione civile della Regione Marche, Stefano Aguzzi.

Per Massimo Olivetti, sindaco di Senigallia, uno degli aspetti più critici è la mancanza di previsione adeguata, più che di prevenzione. «Ieri non siamo stati allertati, non ne sapevamo nulla» ha dichiarato a Radio24. «Intorno alle 20 abbiamo avuto notizia che nei paesi vicini c’era una bomba d’acqua. Abbiamo allora subito chiesto ai cittadini di salire ai primi piani e di non girare per la città. Intorno alle 23.30 i fiumi si sono molto ingrossati e a quel punto siamo andati molto in pressione, quindi il fiume Misia è esondato in diversi punti della città». E parla della pulizia del fiume: «Anche se avessimo avuto un alveo pulito, la situazione si sarebbe verificata ugualmente, perché la quantità d’acqua che è arrivata e la rapidità erano eccezionali».

«Noi oggi siamo chiusi, riapriremo domani» dice Uliassi, «ma per capire qualcosa ci si metterà una settimana due. Le conclusioni sono facilmente intuibili: oltre il terremoto e la pandemia, ci metti la guerra, poi l’alluvione, la seconda in otto anni. Una situazione drammatica».

Un fiume di grandine e pioggia lungo la via del paese, in provincia di Parma. Da lastampa.it il 18 agosto 2022.

Una violenta grandinata si è abbattuta questa mattina in varie località dell'appennino parmense. Nelle immagini girate da un cittadino e postate sui social si vede la via principale del paese di Bardi invasa da pioggia e chicchi grandine. La perturbazione arriva dopo un lungo periodo di siccità che ha colpito anche il Parmense, dalla montagna alla Bassa lungo il fiume Po. Per la giornata odierna è stata diramata una allerta gialla.

Da lastampa.it il 18 agosto 2022.  

Morti, feriti, danni ingentissimi ad abitazioni e alla viabilità. E' questa la triste eredità lasciata da questa ondata di maltempo estivo che continua ad abbattersi sulla penisola. Ma cosa ha generato queste violente perturbazioni? Che origini hanno le alluvioni e i nubifragi? Prova a rispondere Giampiero Maggio, giornalista de La Stampa.

MALTEMPO - LE CABINE DELLA RUOTA PANORAMICA DI PIOMBINO VOLANO VIA. Da lastampa.it il 18 agosto 2022.  

Impressionante immagine da Piombino, dove il maltempo ha colpito la cittadina tirrenica. Nel video postato sui social, vediamo il vento che soffia sulla ruota panoramica e le cabine "volare" per la forza dell'evento atmosferico

Estratto dell’articolo di Agostino Gramigna per corriere.it il 18 agosto 2022.

Trentasei ore di clima estremo, che hanno già provocato due morti (in Toscana) e diversi feriti. Con nubifragi e tempeste violente al Centro-nord e, all’opposto, caldo estremo al Sud, con picchi anche di 43 gradi. A Venezia, le raffiche di vento hanno anche provocato il distacco di frammenti di mattoni dalla torre del campanile di San Marco: la zona è transennata. 

Una divaricazione tale, tra le diverse realtà della Penisola, da fa dire agli esperti del sito iLMeteo.it che «quello che succederà nelle prossime 36 ore è un paradigma dei mutamenti climatici». Perché raramente si sono vissuti in Italia «momenti meteo così estremi, con — nelle stesse ore — temperature eccezionali e sole soffocante al Sud e supercelle temporalesche a settentrione». Un tale scenario, inserito nel quadro generale di geo-fragilità del nostro Paese, rende l’allerta meteo delle prossime 36 ore ancora più preoccupante. […]

Le previsioni

I problemi maggiori si sono verificati, come previsto, al Centro-Nord con temporali violenti associati a fortissime raffiche di vento (fino a 140 km/h in Toscana), grandinate e precipitazioni abbondanti. I fenomeni più intensi si sposteranno lentamente verso Est: il fronte temporalesco è partito dalla Corsica (dove il vento ha raggiunto i 220 km/h) e la Toscana, dove un pesante «downburst» si è abbattuto anche su Firenze. 

Al Sud, invece, dopo le alte temperature intorno ai 40 gradi già registrate ieri, si potrebbe verificare un’ulteriore impennata del termometro. Picchi di 43 gradi all’ombra si attendono in Sicilia. Il ciclone atlantico rischia di appesantire così il pesante bilancio accumulato in questo mese, come effetto di alluvioni sempre più frequenti. Solo dall’inizio di agosto, si ricorda quelle del Trentino Alto Adige (5 agosto), di Monteforte Irpino (9 agosto), di Stromboli (12 agosto) e quella di Ferragosto nella zona sud di Firenze. 

(LaPresse il 18 agosto 2022) – «Dopo tutto il lavoro, tutto quello che facciamo, la tromba d'aria è arrivata sul Twiga. Tutto distrutto, tutto crollato. Non ho parole per esprimere il mio stato d'animo». Il maltempo che ha colpito la Versilia si è abbattuto anche sul Twiga di Forte dei Marmi e Daniela Santanchè, proprietaria dello stabilimento insieme a Flavio Briatore, ha affidato a i social il suo sfogo in seguito ai danni riportati dalla struttura.

La bufera che si è abbattuta sulla Toscana nella mattinata di giovedì 18 agosto ha colpito duramente la zona nord: a Massa, a Carrara e in Versilia si sono registrati i danni maggiori. In un altro video la Santanchè fa la conta dei danni nel parco della Versiliana: «Un albero è caduto proprio fuori da casa nostra. Un altro ostruisce il passaggio. Purtroppo la perturbazione non è finita, stasera è previsto altro maltempo»

Da liberoquotidiano.it il 18 agosto 2022.

Flavio Briatore non le manda a dire. 

L'imprenditore e proprietario del Twiga, un lido di lusso in Versilia, con un video al veleno commenta quanto accaduto oggi nella zona di Forte dei Marmi a causa del maltempo. 

Come abbiamo ricordato, la Toscana è stata investita da una serie di bombe d’acqua violente e da qualche ora è nella morsa del maltempo come tutto il Nord Italia. 

E una tromba d'aria, come racconta lo stesso Briatore, ha colpito proprio il suo lido e numerose strutture su tutto il litorale. 

Ma in tanti sui social hanno fatto festa, come afferma lo stesso imprenditore, godendo per le sventure del Twiga.

La risposta non si è fatta attendere: "In tanti hanno festeggiato. Leggendo i commenti sui social abbiamo fatto felice un mucchio di persone". 

La tromba d'aria ha distrutto mezzo Twiga e allora Briatore rincara la dose: "Io non riesco a capire in che Paese di sfigati e di rancorosi viviamo. 

Il Twiga dà lavoro a 150 persone e dà anche un indotto milionario a tutta la zona". Ma non finisce qui. 

Briatore ha poi voluto mandare un messaggio a chi come è lui ha dovuto fare i conti con i danni dopo il maltempo: "Mando tutto il mio sostegno a tutti coloro che dovranno ricostruire i bagni dopo questa tromba d'aria. 

Ci rimboccheremo le maniche e riapriremo". L'ultima parola è però per chi ha festeggiato sui social: "Siete delle m...". 

Da lastampa.it il 18 agosto 2022.

Due morti e 18 feriti. È questo il primo, drammatico bilancio del maltempo nel centro Nord d’Italia che è alle prese con alluvioni, nubifragi, raffiche di vento a quasi 90 chilometri orari e termometro in picchiata. Anche la Corsica è stata flagellata dal maltempo, con venti a oltre 200 chilometri orari. Per ora il bilancio ha registrato tre vittime e 12 feriti. 

Venezia, caduti frammenti dal campanile S.Marco

La bufera di vento e pioggia che ha colpito Venezia ha provocato il distacco di frammenti di mattoni dalla torre del campanile di San Marco. Non vi sarebbe alcun pericolo, e si sta cercando di verificare da quale punto sia avvenuto il crollo.

 I turisti che si trovavano ancora in visita al monumento sono stati fatti uscire, e la zona transennata. Alla base del campanile sono visibili alcuni pezzi di mattone rosso, staccatisi dall'alto. Nella zona dei Giardini il vento ha divelto e fatto volare il chiosco di un'edicola. Due, tra cui un ragazzino, le persone rimaste leggermente contuse, una al Lido e una a San Marco. 

Toscana, allerta gialla prolungata fino a domani

L'ondata di maltempo che ha investito questa mattina gran parte della Toscana è destinata ad avere una coda anche nelle prossime ore. La protezione civile della Regione Toscana ha infatti deciso di estendere «fino alle ore 20 di domani, venerdì 19 agosto, il codice giallo già attivo per rischio idrogeologico-idraulico del reticolo minore e per temporali forti». L'allerta riguarda tutta la regione. 

«Le previsioni per oggi - prosegue la nota - indicano condizioni di forte instabilità con possibilità di temporali frequenti. Per la giornata odierna sono attesi forti temporali, possibili su tutta la regione. Fenomeni, localmente anche intensi, più probabili tra il tardo pomeriggio e la sera-nottata. Per domani, venerdì, precipitazioni a carattere più localizzato, con temporali localmente anche forti, più frequenti nella notte e nel pomeriggio; lenta attenuazione dei fenomeni in serata. Possibili forti colpi di vento e grandinate sia oggi che domani». 

Circa 100 persone sfollate a Massa e Carrara

Sono circa 100 le persone evacuate dalle loro abitazioni per i danni nel maltempo nei comuni di Massa e Carrara: circa 30 a Massa e 70 a Carrara. Lo comunica la Regione Toscana, spiegando che la protezione civile sta allestendo un riparo per la notte nelle scuole e nelle palestre messe a disposizione dai comuni.

Danneggiato “Maserati”, trimarano di Giovanni Soldini. Era in cantiere Spezia

Maserati Multi 70, il trimarano con cui il velista Giovanni Soldini ha firmato tante imprese sportive negli ultimi anni, è stato danneggiato dal maltempo che si è abbattuto sulla provincia spezzina questa mattina. «Il vento ha sollevato Maserati facendola uscire dall'invaso e l'ha scagliata a terra a metri di distanza - ha raccontato lo stesso Soldini sui social -. Stiamo ancora verificando l'entità dei danni subiti, domani con una gru rimetteremo la barca sulle selle e inizieremo delle analisi con ultrasuoni per trovare i punti che hanno subito degli urti». 

L'imbarcazione, lunga 21 metri e dislocante oltre 6 tonnellate, si trova ospitata presso il cantiere Metalcost lungo il fiume Magra in vista della prossima stagione di competizioni. «Questi eventi meteorologici così violenti, che causano danni gravissimi, sono collegati alla temperatura elevata dell'acqua del Mediterraneo e sono sempre più frequenti - sottolinea Soldini -. L'emergenza climatica è sotto gli occhi di tutti, per limitare le conseguenze dobbiamo agire ora».

Liguria, ripresa la circolazione treni Chiavari-Sestri Levante

È ripresa alle 13.40, su un binario a senso unico alternato con rallentamento di velocità, la circolazione ferroviaria tra Chiavari e Sestri Levante interrotta stamattina a causa dei detriti rovesciati da una tromba d'aria sulla linea ferrata. Sono infatti terminati gli interventi di ripristino della linea ferroviaria Genova - La Spezia, tra le stazioni di Chiavari e Sestri Levante. 

I tecnici di Rete Ferroviaria Italiana hanno liberato la linea dove il forte vento ha riversato materiale, anche di grosse dimensioni, proveniente dalle spiagge e dalle zone limitrofe e hanno riparato i danni alla linea di alimentazione elettrica dei treni. Il secondo binario rimane interrotto per consentire gli interventi delle squadre dei Vigili del Fuoco in corso nelle aree limitrofe la linea ferroviaria. Durante l'interruzione, Trenitalia ha attivato un servizio bus nel tratto interrotto tra le stazioni di Chiavari-Lavagna-Cavi- Sestri Levante e potenziato il personale dedicato all'assistenza.

A Milano parchi chiusi dal Comune e inviti a prudenza

Parchi recintati chiusi e l'invito ai cittadini di non sostare in auto o a piedi sotto gli alberi, in prossimità delle impalcature dei cantieri, di dehors e tende e di mettere in sicurezza oggetti e vasi su davanzali, balconi e spazi all'aperto. Lo ha deciso il Comune di Milano in via cautelativa per l'allarme meteo in corso da ieri. Al momento, nonostante il cielo plumbeo che ha rovesciato pioggia da stamattina con brevi pause, non si registrano particolari disagi in città. 

Liguria, 20 sfollati nel Levante

«Continuiamo a monitorare costantemente l'evoluzione del maltempo in Liguria. L'allerta gialla che doveva concludersi oggi alle 15 è stata prolungata fino alla mezzanotte di questa sera e solo al termine potremo valutare l'ammontare dei danni».

 Lo afferma il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti in merito all'ondata di maltempo di queste ore in Liguria. «Secondo gli ultimi aggiornamenti - ha aggiunto - ci sono alcuni feriti, fortunatamente tutti lievi. Circa 20 persone hanno dovuto abbandonare la loro casa tra Chiavari, Cogorno e Lavagna per tetti scoperchiati. Per coloro che invece non hanno ancora trovato una sistemazione, i Comuni si stanno già attivando con eventuali strutture alberghiere e i Coc». 

L’Emilia Romagna dichiarerà lo stato di crisi, avviata la conta dei danni

Avviata, la conta dei danni del maltempo che ieri sera ha colpito la Bassa Modenese e il Ferrarese mentre questa mattina, si registrano danni in provincia di Parma a causa della grandine in particolare nell'Alta Val Taro. E' quanto comunica la Regione Emilia-Romagna che, nei prossimi giorni, conta di dichiarare lo stato di crisi regionale. Domani mattina il presidente Stefano Bonaccini incontrerà il sindaco e le autorità locali a Bondeno, il territorio più colpito dagli eventi delle ultime ore, in Municipio, dove sarà fatto il punto della situazione.

Poi si terrà un sopralluogo alla presenza del direttore dell'Agenzia regionale per la Sicurezza territoriale e la Protezione civile. Da questa mattina l'Agenzia sta partecipando alle riunioni dei Centri operativi comunali. In collaborazione con le amministrazioni locali, sta intervenendo per il ripristino della normalità e ha avviato un primo censimento delle criticità e dei danni a privati, imprese e patrimonio pubblico. Questo, viene spiegato, servirà per procedere, nei prossimi giorni, a dichiarare lo stato di crisi regionale e avviare il percorso amministrativo per l'accesso al Fondo re 

Da lanazione.it il 18 agosto 2022.

Il Maltempo si è abbattuto con violenza sulla Toscana creando morte e danni ingenti. Due le vittime registrate finora: si tratta di un uomo e una donna, uno deceduto a Lucca e l'altra a Carrara. Nella mattinata sono state almeno una ventina le persone soccorse perché ferite a causa degli eventi atmosferici che si sono abbattuti in varie parti della regione. 

Due morti e diciotto feriti: il tragico bilancio in Toscana

I vigili del fuoco sono a lavoro per interventi legati ai danni provocati dall'ondata arrivata dalla costa. Problemi anche alla viabilità: rallentamenti sono stati segnalati sulla strada di grande comunicazione FI-PI-LI tra Ginestra e Montelupo Fiorentino in direzione Livorno.

Problemi anche a Pistoia con alberi caduti in strada: uno ha bloccato un conducente all'interno del suo camion, l'uomo è stato poi estratto dal mezzo dai vigili dle fuoco. Sempre a Pistoia il forte vento ha danneggiato parte del mercato, così come è a Empoli. Paura in Versilia dove il vento ha creato molti disagi negli stabilimenti balneari e, anche qui, gli alberi caduti in strada, hanno interrotto la circolazione. 

La perturbazione si è spostata rapidamente dalla costa tirrenica verso l’interno della regione. Decine di richieste di intervento dei vigili del fuoco: alle 13 erano 41 a Lucca, 28 a Massa Carrara, 20 a Livorno, 47 a Pisa, 51 a Firenze, 24 ad Arezzo, 14 a Siena, 1 a Grosseto, 23 a Pistoia, 22 a Prato.

Le zone maggiormente colpite sono Massa e Lucca, dove vi sono numerosi interventi per tetti divelti, alberi caduti, che richiedono una tempistica di risoluzione importante. Per questo, sono state richieste squadre provenienti da fuori regione. Sono circa 100 le persone evacuate dalle loro abitazioni nei Comuni di Massa (30) e Carrara (70). La protezione civile sta allestendo un riparo per la notte nelle scuole e nelle palestre messe a disposizione dai comuni. 

Massa Carrara

Tragedia a Carrara dove una donna è deceduta sotto il peso di un albero caduto a causa del maltempo. Altre quattro persone sono rimaste ferite: una è in codice rosso. Decine gli interventi sulla viabilità interrotta in diverse strade a causa degli allagamenti e dei rami caduti. Una pineta è stata abbattuta dal vento: decine i pini caduti. 

Lucca

A Lucca, sulla via di Sorbano del Giudice, un uomo di 54 anni chiamato a tagliare un albero in una proprietà privata è morto travolto da un altro albero che è caduto.

I vigili del fuoco del comando di Lucca, sono intervenuti nel comune di Barga nella frazione di Fornaci di Barga in via della Repubblica, per il soccorso a persona, dove l’autovettura in transito è stata colpita da una porzione di tetto divelto a seguito di una tromba d’aria. 

 All’arrivo sul posto il personale sanitario aveva già preso in carico gli occupanti del veicolo. I vigili del fuoco hanno messo in sicurezza l’autovettura. Sul posto i Carabinieri.

Sempre in provincia di Lucca i vigili del fuoco del comando di Lucca, sono intervenuti per il crollo di un tetto di un condominio in viale Roma a Pietrasanta. Sul posto una squadra con mezzo aereo per la messa in sicurezza. 

Pistoia

L'improvviso nubifragio ha fatto cadere alberi sulle strade e divelto le bancarelle del mercato. Grazie all'intervento dei vigili del fuoco un uomo è stato estratto da un camion sul quale si è abbattuto un grosso albero. Molta paura, ma le condizioni dell'uomo non sono apparse gravi. 

Livorno

Una bufera di pioggia e vento si è verificata a Livorno con allagamenti e alberi caduti. 

In Versilia

Bufera anche in Versilia, con caduta di alberi e pioggia e vento intensissimi. A Lido di Camaiore tronchi finiti sulle strade e sopra le auto parcheggiate. Strade inagibili e interventi delle forze dell'ordine per arginare il caos provocato dalla bomba d'acqua. 

Firenze

Maltempo anche nell'interno con pioggia su Firenze e vento forte. A Firenze, invece, ferma la linea 1 della tramvia per Scandicci per la caduta di un albero dentro il Parco delle Cascine: la pianta ha colpito un tram, non risultano passeggeri feriti, ma è stato danneggiato il pantografo.

Sul posto i vigili del fuoco. Autolinee Toscane ha approntato bus navetta durante le operazioni di ripristino. Il temporale si è abbattuto anche nelle zone già colpite dal nubifragio di Ferragosto nel comune di Bagno a Ripoli dove in diverse case è saltata l'elettricità. Nel pomeriggio, secondo l'allerta gialla diramata ieri, 17 agosto, è atteso un ulteriore peggioramento. 

Siena

Piazza del Campo allagata, come già accaduto il 16 agosto quando il maltempo ha imposto lo slittamento del Palio al giorno successivo. Lo scroscio d'acqua ha lavato via il tufo e messo in fuga i tanti turisti a passeggio

Pisa

A causa della caduta di alberi e rami sulla carreggiata a seguito del maltempo, provvisoriamente chiuso al traffico un tratto della strada statale 439"Sarzanese Valdera", in entrambe le direzioni, all'altezza del km 88 a Lajatico in provincia di Pisa. Lo rende noto Anas. Sul posto sono presenti le squadre Anas e le Forze dell'Ordine per la gestione della viabilità e per ripristinare la circolazione il prima possibile.

Empoli

Paura e danni ingenti anche nell'Empolese Valdelsa. A Empoli il vento ha distrutto il mercato settimanale che viene allestito, come da tradizione, ogni giovedì. Allagamenti e alberi caduti in strada. La zona più colpita è stata quella di via dei Cappuccini

(Adnkronos il 18 agosto 2022) - "Pantelleria brucia. Dopo ore di interventi, 30 persone evacuate e a cui si è trovata sistemazione per la notte, dobbiamo dire un grazie a Vigili del fuoco, Protezione Civile, Corpo Forestale, Croce Rossa, Capitaneria di Porto, Carabinieri, Carabinieri Forestali per lo sforzo messo in campo. Solidarietà a quanti hanno subito danni e choc e sono dovuti evacuare da Gadir, biasimo e infamia per chi ha fatto tutto questo. 

Questa mattina ci apparirà chiara tutta la devastazione e i danni fatti. Se qualcuno sa parli, perché questo scempio è una ferita per tutta l'isola". E' quanto si legge sulla pagina Facebook del Comune di Pantelleria dopo il vasto incendio che ieri ha colpito l'isola.

Caterina Stamin per lastampa.it il 18 agosto 2022.

Pantelleria a fuoco. Due incendi sono divampati nell’isola siciliana, quasi “tagliandola” a metà. Le fiamme sono partite nel tardo pomeriggio dalle località di Khamma e Gadir e hanno divorato ettari di vegetazione, mettendo in pericolo diverse abitazioni che sono state evacuate. 

«Il fuoco è stato appiccato in modo scientifico in due posti diversi di Pantelleria – ha spiegato il capo della Protezione civile regionale –, a favore di vento, approfittando dello scirocco». Si tratta, ha aggiunto, di «un tipico scenario da incendio doloso». Per domani mattina la protezione civile ha programmato l'invio dei Canadair che «di notte non si possono muovere per spegnere l'incendio». Intanto, sul posto i vigili del fuoco, aiutati da volontari, che hanno dichiarato che «non risultano persone o abitazioni coinvolte».

In arrivo intanto sull'isola una squadra di pompieri trasportata dall'aeroporto di Trapani Birgi da un elicottero dell'Aeronautica, mentre altro personale con mezzi al seguito si sta imbarcando per raggiungere Pantelleria via mare. E' previsto all'alba l'impiego di mezzi aerei. Fuggiti i turisti tramite le barche, ma sono state sgomberate anche le ville dei ‘vip’, tra cui ci sarebbero quella dello stilista Giorgio Armani, fuggito assieme ad alcuni amici che stava ospitando, del giocatore Marco Tardelli e di Myrta Merlino. 

Il sindaco: rogo arginato, danni ingenti vegetazione

«Pantelleria brucia. Dopo ore di interventi, 30 persone evacuate e a cui si è trovata sistemazione per la notte, dobbiamo dire un grazie a Vigili del fuoco, Protezione Civile, Corpo Forestale, Croce Rossa, Capitaneria di Porto, Carabinieri, Carabinieri Forestali per lo sforzo messo in campo. 

Solidarietà a quanti hanno subito danni e choc e sono dovuti evacuare da Gadir, biasimo e infamia per chi ha fatto tutto questo. Questa mattina ci apparirà chiara tutta la devastazione e i danni fatti. Se qualcuno sa parli, perché questo scempio è una ferita per tutta l'isola». È quanto si legge sulla pagina Facebook del Comune di Pantelleria, il testo è stato scritto dal sindaco Vincenzo Vittorio Campo.

«Musumeci: l’origine del rogo è dolosa»

«Sono in costante aggiornamento con il capo della Protezione civile regionale Salvo Cocina. Sul posto lavora senza tregua la nostra Forestale, assieme ai Vogili del fuoco ed ai volontari. L'origine sembra dolosa, è un colpo durissimo per l'isola e per tutti noi». A sostenerlo è il governatore siciliano Nello Musumeci. 

Le testimonianze

«Tutte le case nell'area sono state evacuate», ha spiegato Sebastiano Mazzarino, guida ufficiale del parco nazionale isola. L'incendio ha distrutto anche dei pali della luce, dunque c'è stato un black out in alcune zone dell'isola. In diversi punti è stata interrotta la strada principale diretta a Kamma e Tracino. «La situazione è molto grave. Siamo spaventati e preoccupati. le lingue di fuoco rischiano di raggiungere le abitazioni», hanno dichiarato alcuni abitanti. «Le immagini sono raccapriccianti - ha aggiunto un testimone, Angelo Casano -. Un ringraziamento a tutti i volontari, vigili del fuoco, forestali, protezione civile per quanto stanno facendo in queste ore. Rimane sempre la solita domanda: Chi? Chi può spingersi fino a tanto?». 

Il sindaco

Solo verso la mezzanotte «la situazione è migliorata, speriamo che prosegua in questo modo», ha dichiarato il sindaco di Pantelleria, Vincenzo Vittorio Campo. «Le fiamme con lo scirocco sembrano andare verso il mare – ha aggiunto -, ma vi sono ancora dei focolai difficile da raggiungere. L'area è sicuramente più circoscritta rispetto a prima. Non vi sono stati feriti, ma molta paura». 

Attorno alle 23 i Vigili del fuoco in un aggiornamento avevano dichiarato che «la situazione appare migliorata grazie all'azione di contrasto favorita da una diminuzione del vento, che aveva reso più difficoltose le prime fasi delle operazioni di soccorso» 

Sette roghi nel Palermitano

È stato una giornata difficile anche nel palermitano, con sette roghi nella zona di Partinico, Misilmeri, nel parco dei Sicani. Fiamme sono divampate a Casale Belmonte Mezzagno, Pizzo Garibaldi ad Alia e contrada Marino a Prizzi.

Da ragusanews.it il 18 agosto 2022.  

Panico a Pantelleria per l'incendio scoppiato sull'isola. Fra i tanti turisti evacuati a causa delle fiamme, anche personaggi famosi del calibro di Giorgio Armani. Chi era con lui racconta: «Ci siamo ritrovati il fuoco dentro casa. Stanno evacuando tutti, ma c'è così tanta ressa che la gente non rIesce a entrare a Gadir. Molti sono in difficoltà, soprattutto anziani». 

Pantelleria, la fuga di Giorgio Armani

E sulla fuga dello stilista Giorgio Armani: «L'ho aiutato personalmente a scappare, per fortuna sta bene. Quando ho visto le fiamme che si avvicinavano gli ho detto che dovevamo abbandonare la casa». Armani adesso si trova al sicuro sulla sua barca, dove ha dato ospitalità anche a Marco Tardelli e Myrta Merlino.

Armani stava ospitando alcuni amici quando ha dovuto abbandonare di gran corsa la sua dimora, a bordo di suv per raggiungere la costa e salire sulla barca. La Capitaneria di porto ha fatto salire sulle proprie motovedette alcuni turisti in fuga. 

Palermo, incendi in città: gli abitanti scappano in auto. La Stampa il 18 Agosto 2022 

Bruciano la provincia di Palermo e il capoluogo siciliano. Le fiamme sono divampate in zone vicine a delle abitazioni del quartiere popolare di Borgo Nuovo, a nord della città. Alcuni residenti hanno abbandonato le loro case per precauzione. Tra loro anche le suore minori di San Francesco che hanno una sede in via Bronte. Sono intervenuti i vigili del fuoco e stanno operando dall'alto per lo spegnimento anche degli elicotteri. Sui social sono diventate virali le immagini e le foto delle fiamme che si alzano alte vicino ai palazzi e la notevole nube di fumo che ha avvolto le abitazioni della zona. Molte persone hanno messo in sicurezza le auto spostandole velocemente e nei video si nota la 'colonna' di vetture che si sposta velocemente mentre vigili del fuoco, polizia e carabinieri bloccano l'acceso alla strada interessata dal rogo. Sono stati gli abitanti del rione a lanciare l'allarme segnalando che "la situazione è drammatica" e chiedendo di "intervenire presto: sappiamo che ci sono altre situazioni pericolose oggi, ma qui è davvero un dramma. Abbiamo visto tanti lasciare le case: fate presto". Sono diversi gli incendi divampati in centri della provincia alimentati dal vento di scirocco con un ''bollettino' lunghissimo di interventi per vigili del fuoco e forestali per fare fronte a decine di roghi. I canadair insieme alle squadre antincendio sono interventi a Bolognetta, Montemaggiore Belsito in contrada San Giovanni, a Portella della Ginestra a Piana degli Albanesi. Incendi anche a Piano dell'Occhio e Valle Presti Monreale, a monte San Calogero a Caccamo, Belmonte Mezzagno e Calcerame a Montelepre. A Misilmeri ha preso fuoco un serbatoio Gpl. Altri incendi sono stati registrati sulla Palermo-Sciacca, nella zona di San Giuseppe Jato, e lungo l'autostrada Palermo-Catania, all'altezza di Villabate, dove sono andate a fuoco le sterpaglie che costeggiano l'autostrada. Per un'ora l'autostrada è rimasta chiusa.

I DISASTRI DEL CAMBIAMENTO CLIMATICO. Maltempo, a Monteforte Irpino le strade diventano fiumi di acqua e fango. Il Domani il 10 agosto 2022

In provincia di Avellino i forti temporali hanno generato frane e il fango ha invaso le strade trascinando ogni cosa incontrata lungo il suo passaggio. Si lavora per mettere tutto in sicurezza, prima che possa riprendere a piovere

La situazione alluvioni a Monteforte Irpino, comune alle porte di Avellino, rimane critica. Da ieri pomeriggio il paese è stato interessato da violenti piogge cominciate poco dopo le 16.30. Le strade sono state invase da un fiume d'acqua che ha travolto ogni cosa incontrata al suo passaggio: tavoli e sedie che si trovavano all’esterno dei bar, cassonetti della spazzatura. Sono esplosi tombini e numerose auto in sosta sono state trascinate per diversi metri.

I video postati sui social testimoniano i fiumi di acqua provenienti dalla zona alta del paese. Riempiono le strade del centro e portano una colata di acqua, fango e detriti.

La situazione è ancora critica e anche se sembra non ci siano feriti, ci sono molti danni. Le squadre dei vigili del fuoco hanno tratto in salvo una decina di persone, soprattutto anziani e disabili, che erano rimasti bloccati all’interno delle abitazioni a causa dell’acqua e del fango.

CONTINUA L’ALLERTA

Anche oggi rimane in vigore l’allerta meteo, e Costantino Giordano, sindaco di Monforte Irpino, scrive ai suoi cittadini: «Fate massima attenzione: uscite soltanto se è indispensabile!».

La Protezione civile della regione Campania ha emanato un nuovo avviso di criticità meteo per piogge e temporali, che sarà valido nella giornata odierna dalle ore 12 alle 21, sull’intero territorio regionale. Si prevedono ancora temporali con rischio di frane.

I SOCCORSI

I soccorsi sono coordinati dalla Protezione civile che, insieme alle associazioni operanti sul territorio, ha impiegato complessivamente 70 volontari, con mezzi speciali, 12 idrovore e torri faro. La Protezione civile della regione Campania ha comunicato che si tiene «in stretto contatto con la Prefettura di Avellino e le autorità locali».

Il sindaco Monforte Irpino ha attivato il centro operativo comunale per valutare la situazione ed avviare immediatamente il ripristino di quelle strade non hanno subìto particolari danni, anche se sono state invase dal fango. Il prossimo passo, molto complesso, sarà riuscire a mettere in sicurezza la zona franata.

È pronta a intervenire anche Sma Campania, una società che si occupa di ambiente e dissesto idrogeologico. Il direttore generale della Protezione civile regionale, Italo Giulivo, fa sapere che «tiene costantemente informato il presidente Vincenzo De Luca che segue l’evolversi della situazione».

Dagospia il 12 agosto 2022. CRONACA DI UN DISASTRO ANNUNCIATO - UN TEMPORALE HA MESSO IN GINOCCHIO STROMBOLI: CASE ALLAGATE, STRADE SOMMERSE DAL FANGO E CITTADINI EVACUATI - A MAGGIO, LA PRESIDENTE DELLA PROLOCO AVEVA RICHIESTO INTERVENTI URGENTI DOPO CHE UN INCENDIO AVEVA DISTRUTTO PARTE DELL'ECOSISTEMA DELL'ISOLA E MESSO IN PERICOLO PERSONE E ABITAZIONI - "AVEVAMO SCRITTO IL 31 MAGGIO CIÒ CHE SI SAREBBE POTUTO VERIFICARE, ORA CHE SI STA ASPETTANDO? I MORTI? LA REGIONE BATTA UN COLPO..."

LA RICHIESTA INTERVENTI URGENTI E IMMEDIATI ISOLA DI STROMBOLI DEL 31 MAGGIO

Stromboli li 31.05.2022

Oggetto: richiesta interventi urgenti e immediati isola di Stromboli.

Il recente incendio che ha distrutto una notevole parte dell'ecosistema dell'isola di Stromboli ed ha messo in pericolo persone ed abitazioni, ha portato alla luce gravi carenze nella tutela del territorio. 

Il numero degli addetti alla protezione ambientale demandato al Corpo Forestale Regionale si riduce ad un solo addetto che saltuariamente si reca nell'isola di Lipari, mentre nessun presidio vi e sull'isola di Stromboli, sebbene essa sia una riserva naturale orientata.

I sentieri di accesso alle alture non sono oggetto di alcuna sistematica manutenzione, lo stesso dicasi per le linee tagliafuoco del tutto inesistenti. 

A seguito dell'incendio, si corre ora il rischio che il terreno di natura friabile e sabbioso, possa dilavare a valle a seguito delle prime piogge, con grave danno per l'incolumità degli abitanti.

Vi e quindi l'urgenza di mettere in sicurezza la zona incendiata, cosi come occorrerà al più presto predisporre un intervento di bonifica a tutta l'area, liberandola dai detriti dell'incendio.

Sara, ulteriormente, necessario eseguire una perizia sulle condizioni delle abitazioni, che sebbene non distrutte dal fuoco, a causa dell'eccessivo calore, potrebbero presentare potenziali pericoli di tenuta. I danni arrecati alle abitazioni ed al comparto turistico dovranno essere oggetto di un sostegno economico, al pari di una calamita naturale, anche se non e questa la fattispecie, ma sicuramente ne sono stati gli effetti.

Tutto questo va eseguito con somma urgenza perchè la popolazione non può attendere che, a motivo di quanto evidenziato, la situazione degeneri in ulteriori danni e disagi.  Senza alcuna polemica, riteniamo siano doverosi, da parte delle Autorità preposte, una serie di interventi immediati che vadano a sanare, oltre ai danni provocati dal tragico evento, l’evidente stato di abbandono in cui l'isola in questi anni e stata lasciata. 

La scrivente associazione si riserva di promuovere ogni azione giudiziaria contro tutti coloro che hanno causato il disastro tesa al risarcimento dei danni causati all’isola di Stromboli ed alla sua comunità. 

Fiduciosi in un favorevole riscontro alla presente si porgono distinti saluti.

La Presidente (Rosa Oliva)

(Adnkronos il 12 agosto 2022) - Il temporale di stanotte ha messo in ginocchio l'isola di STROMBOLI, nelle Eolie. Strade e case allagate, motorini sommersi dal fango. Alcuni cittadini sono stati evacuati mentre volontari della protezione civile e vigili del fuoco stanno lavorando senza sosta per liberare dal fango case e strade.

Da notiziarioeolie.it il 12 agosto 2022.

Stromboli - Rosa Oliva, presidente della Pro Loco "Noi avevamo scritto il 31 maggio ciò che si sarebbe potuto verificare, ora che si sta aspettando???? Forse i morti??? Siamo indignati per i necessari ed urgentissimi interventi mancati. La Regione batta un colpo..."

Da corriere.it il 12 agosto 2022.

Ancora due giorni di piogge, anche intense, al Centro e al Sud. Poi da domenica, 14 agosto, il tempo dovrebbe migliorare, anche se per il giorno di Ferragosto piogge sparse potranno interessare soprattutto il nord Italia. Ecco (grazie a iLMeteo.it), cosa ci aspetta nel fine settimana e all’inizio della prossima. 

La prima a pagare i danni del maltempo nel pomeriggio di venerdì è stata la Calabria. Scilla, nel reggino, finita sotto una bomba d’acqua e teatro di una «alluvione lampo»: le strade si sono in breve trasformate in fiumi di fango che hanno trascinato via le auto. «La situazione è complessa ma sotto controllo» ha detto ol governatore della Calabria Roberto Occhiuto. 

Nel pomeriggio di venerdì le zone più colpite dal maltempo saranno il Triveneto, il Basso Tirreno, Lazio, Abruzzo; al Sud temporali e grandinate a carattere sparso un po’ ovunque. Sabato gli acquazzoni continueranno a interessare il Sud, mentre domenica sarà una bella giornata di sole anche con temperature superiori ai 34-35 gradi centigradi, in particolare in Val Padana e nelle zone interne del Centro; residui temporali al mattino tra Puglia, Calabria e Sicilia ionica, con successivo miglioramento.

Lunedì, giorno di Ferragosto, vedrà il passaggio di una perturbazione atlantica al Nord con qualche pioggia più probabile tra Piemonte, Valle d’Aosta e Lombardia; qualche nuvola potrebbe stazionare in Liguria, Toscana e Triveneto, mentre sul resto dell’Italia splenderà il sole. Dopo il 15 di agosto, è prevista invece la sesta ondata di caldo africano con valori termici oltre i 35-36 C e alta umidità.

Lidia Ravera per “La Stampa” il 13 agosto 2022.

Una pioggia insistente, battente, esagerata. Gocce grosse, sonore, fredde. Ci si è ormai abituati, la si chiama «bomba», si smadonna, si ride: «Anche la pioggia non è più quella di una volta». 

Ma questa notte a Stromboli, nella casa appoggiata sugli scogli, non si è trattato del solito e sempre più frequente «evento raro», no, questa notte ho visto la morte vicina come mai nella mia lunga vita: dalla portafinestra davanti alla mia camera da letto è entrata una gigantesca lingua di fango e acqua, dotata di una forza oceanica. Ho pensato subito allo tsunami, non potevo immaginare che tanta violenza fosse un effetto collaterale del maltempo. 

Poi non ho più pensato: in una delle due stanze affacciate sul vicolo e situate fuori dal corpo centrale della casa, dormivano la figlia più grande di mia nuora con un'amichetta, nell'altra mio figlio con sua moglie e la mia nipotina di sedici mesi. L'ho scoperto dopo che la porta di quella stanza era bloccata dal fango, che dalla finestra sul vicolo entrava un fiume in piena, che un muretto era stato sradicato e ostruendo la strada aveva invaso le nostre case, la mia, quella della mia vicina.

 Ci siamo cercati nel buio, calpestando pezzi di mobilio spaccati, cercando di uscire da quella trappola infernale. L'ho scoperto dopo che mio figlio aveva frantumato con i gomiti la parte di vetro della portafinestra della sua stanza, mettendo in salvo mamma e bambina. Ho visto la mia morte e ho immaginato la loro. Ho visto mio figlio coperto di sangue.

Ci siamo chiamati gridando. Non so come sono riuscita a uscire, camminando su ogni arredo affiorato dall'acqua, qualsiasi superficie che non mi facesse sprofondare. Ci siamo ritrovati al piano di sopra, dove abitano i nostri amici, abbiamo picchiato contro la loro porta e ci hanno accolti, scaldati, vestiti. 

Poi abbiamo cercato di portare mio figlio alla guardia medica. Le strade erano impraticabili anche per chi non aveva le piante dei piedi coperte di tagli. Non so come sia riuscito, mio figlio, a camminare per un chilometro e mezzo, ma ci è riuscito. La disperazione, l'adrenalina, il sollievo nel vedere la sua bimba addormentata nel letto grande dei vicini di casa, hanno funzionato come stupefacenti. Un elicottero l'ha portato a Messina, dove è stato ricucito con cura.

La casa è perduta. Gli unici due vigili del fuoco arrivati sul luogo del disastro hanno guardato le porte divelte, i due metri di fango nero, i sassi, gli alberi sradicati sdraiati sul terrazzo e hanno sentenziato: «Non si tratta di giorni o settimane, qui ci vorranno dei mesi». I carabinieri: «Ringraziate che siete tutti sani e salvi». I vigili del fuoco: «È meglio che ve ne andiate perché dovrebbe esserci un altro nubifragio e allora restate isolati. Chi viene più a salvarvi». Se ne sono andati, i vigili del fuoco. Me ne sono andata anche io, acqua e fango fin sopra le ginocchia, tutte le strade bloccate, voragini da attraversare. Un'amica mi ha trovato una stanza nel suo albergo, era tutto esaurito ma qualcuno ha disdetto. Un disastro per l'economia dell'isola. 

Eppure si sapeva che sarebbe accaduto. Quando, alla fine di maggio, per un fuoco acceso contro il vento di scirocco da una troupe che filmava una fiction sulla protezione civile, è andata a fuoco l'isola, la gente di qui ha lavorato di pala e pompa per salvare case e giardini. Ce l'hanno fatta, con l'energia sprigionata dagli sforzi collettivi. Quando hanno, a incendio spento, analizzato la catastrofe, hanno scritto a tutti quelli a cui dovevano scrivere: state attenti, non c'è più la barriera della vegetazione, alle prime piogge verrà giù la montagna. È andata esattamente così. Perché non hanno lavorato per impedirlo se lo sapevano? Che cosa fa la protezione civile, a parte ispirare qualche virtuosa serie televisiva in cui i buoni spengono gli incendi e salvano i bambini? Stromboli è bella, affascinante e delicata, quando impareranno a prendersene cura?

La differenza tra la pioggia e il monsone di Seul. SELVAGGIA LUCARELLI su Il Domani il 10 agosto 2022

Sono abituata alle incognite del mese di agosto in oriente, ho sempre tirato ai dadi col meteo: Cina, Thailandia, Giappone, Myanmar, India, il mio dado è sempre stato quello col numero più alto.

Poi è arrivato l’8 agosto 2022 a Seoul, in cui mi trovo in vacanza. Una giornata insospettabile, di quelle che poi ripercorri all’indietro per cercare l’ombra di qualche presagio.

Tutte le mattine mi sveglia un messaggio broadcaster sul telefonino da parte della città metropolitana di Seoul in cui mi si avvisa di eventuali pericoli o mi si invita ad avere comportamenti prudenti, come non nuotare in canali e fiumi inquinati.

Chi non ha mai cercato riparo da un monsone non ha mai cercato riparo dalla pioggia. Quella vera. Potente. Che cala dall’alto come mannaia liquida, pesante. E che ho visto martedì, per prima volta nella sua versione più implacabile, a Seul.

Sì, avevo vissuto una giornata di monsone arrogante a Yangoon, in Myanmar, qualche anno fa, ma in poche ore la città era tornata asciutta ed ero riuscita perfino a visitare la pagoda Shwedagon Paya senza impermeabile.

Sono abituata alle incognite del mese di agosto in oriente, ho sempre tirato ai dadi col meteo: Cina, Thailandia, Giappone, Myanmar, India, il mio dado è sempre stato quello col numero più alto. Poi è arrivato l’8 agosto 2022 a Seul, in cui mi trovo in vacanza. Una giornata insospettabile, di quelle che poi ripercorri all’indietro per cercare l’ombra di qualche presagio.

La giornata era grigia, ma perfino meno di altri giorni. Il solito caldo che increspa i capelli non appena si apre la porta dell’hotel, i vestiti incollati alla schiena, la mascherina (qui obbligatoria al chiuso e sui mezzi pubblici) che fa boccheggiare.

Le previsioni meteo non erano particolarmente infami. Sì, era prevista pioggia, ma qui a Seul da una settimana la pioggia è prevista quasi tutti i giorni e poi magari non cade una goccia. Il governo, poi, sugli allarmi meteo e sulla sicurezza dei cittadini è rigorosissimo.

Tutte le mattine mi sveglia un messaggio broadcaster sul telefonino da parte della città metropolitana di Seul in cui mi si avvisa di eventuali pericoli o mi si invita ad avere comportamenti prudenti.

Per esempio, mi si chiede di non nuotare in canali e fiumi inquinati, di non lasciare soli i bambini, si danno suggerimenti di buonsenso.

Ammetto che i primi giorni, quando leggevo sul display del cellulare “avviso per la sicurezza pubblica” (in italiano, non chiedetemi come sia possibile) pensavo a un missile in arrivo dalla Corea del Nord, poi piano piano ho iniziato a capire che erano i consigli della nonna. I coreani sanno essere avvolgenti, protettivi, accoglienti.

SEUL CHE AFFOGA 

Martedì il governo non ha inviato alcun messaggio allarmante. Il solito: non affogare e non far affogare i tuoi figli, più o meno. Non avevano capito che di lì a poche ore sarebbe affogata Seul. Quindi, nonostante la leggera pioggia mattutina, ho rispettato i piani della giornata, con la massima serenità: io e il mio fidanzato saremmo andati al grande mercato alimentare Gwangjang, mentre mio figlio e la sua fidanzata sarebbero andati in un grande negozio manga oltre il fiume.  Insomma, ci saremmo separati per la prima volta dall’inizio della vacanza.

Al mercato alimentare ho imparato la prima lezione: quando è ora di mangiare, cioè sempre per i coreani, non c’è pioggia che tenga.

Il mercato era pieno di gente, l’acqua si infilava tra le fessure del grande tetto del mercato coperto, pioveva sui banconi, sulle tonnellate di cibo esposto, nei pentoloni di kimchi, pioveva sulle nostre teste, quelle dei (pochi) turisti curiosi e affamati e insomma, tutta questa cantilena dannunziana per dire che sì, era una giornata uggiosa, ma sembrava una giornata uggiosa come tante, figuriamoci in vacanza quando si hanno i giorni contati e l’entusiasmo della scoperta.

Consumati i nostri tteokbokki (gnocchi di riso con salsa piccante) nel chiosco di una anziana signora pragmatica (un rotolo di carta igienica al posto dei tovaglioli e finito l’ultimo boccone subito fuori dalle balle), i nostri programmi hanno iniziato a cambiare.

Dovevamo andare lungo il fiume a fare una passeggiata, ma continuava a piovere. Mio figlio, intanto, sarebbe andato a fare un giro nel quartiere universitario. “Ma non piove?” gli ho scritto io. “Pochissimo”, mi ha rassicurata.

Io e il mio fidanzato allora ci siamo diretti in uno dei tanti spettacolari centri commerciali di Seul. Mentre eravamo in taxi ha iniziato a piovere più forte. Sul telefono nessun messaggio dal servizio di sicurezza nazionale.

Pioveva sempre più forte. “Vabbè i monsoni sono così, ora sono secchiate d’acqua, tra un’ora c’è il sole”, ci siamo detti. Abbiamo fatto shopping, aspettando che spiovesse, ma ormai erano le sei del pomeriggio e pareva un monsone piuttosto resistente, per cui siamo usciti dal centro commerciale per tornare in hotel.

Apriti cielo, si dice in questi casi. Ecco, in effetti il cielo si è aperto – squarciato direi - per rovesciarci addosso una quantità d’acqua tale che in cinque secondi netti sembravamo due naufraghi recuperati col gancio dell’elicottero nell’oceano Atlantico.

Tra parentesi, i coreani hanno uno strano rapporto con la pioggia, nel senso che non sono evidentemente abituati ad associarla alla parola “commercio”.

Mentre in qualunque parte del mondo alla prima goccia d’acqua inciampi in qualcuno che vuole venderti un ombrello, un impermeabile, un tetto in vetroresina, a Seul è praticamente impossibile trovare un k-way. Uno che domani apre un negozio di k-way a Myeondong, nel centro di Seul, diventa il nuovo Bill Gates. 

L’ASSALTO DEL MONSONE 

In compenso, se nessuno vuole venderti un sistema per ripararti dalla pioggia, c’è chi vuole regalartelo: eravamo in condizioni talmente pietose che, nel mezzo della tempesta, mentre cercavamo un taxi, un ragazzo coreano che stava rientrando in ufficio ci ha fermati per regalarci il suo ombrello. Lì abbiamo capito che la situazione era seria.

I taxi vagavano impazziti e i tassisti, appena sentivano dove dovevamo andare, andavano via senza neppure risponderci. Abbassavano il finestrino, ci guardavano come se fossimo deturpati da pustole di vaiolo delle scimmie, e scappavano senza proferire parola. Uber era in tilt, il primo autista disponibile si trovava più o meno a Taiwan. La metropolitana era lontana.

Ci siamo rifugiati sotto la tettoia di un grande hotel e lì abbiamo guardato il monsone aggredire la città in tutta la sua maestosa tracotanza. Non c’era modo di opporsi, eravamo arresi all’acqua sulle strade, sui vestiti, sulla faccia. 

Pioveva a vento, un vento che era in tutte le direzioni e non lasciava scampo. Dopo un’ora e mezzo di tentativi disperati di salire su un taxi, implorando i dipendenti del grande hotel di aiutarci a tornare nel nostro quartiere con promesse di case intestate in Italia e un posto a Sanremo giovani, mentre le persone si avventavano sui pochi taxi liberi con la ferocia di chi punta alla sopravvivenza durante una carestia, ci siamo buttati sotto l’acqua, vinti, verso l’unica via di salvezza possibile: la metropolitana.

Mio figlio intanto mi mandava video su whatsapp della pioggia sul tetto del tunnel sotto al quale si era riparato. Sembrava una raffica di mitra. A Seul, ormai lo sospettavamo, stava piovendo come mai era successo negli ultimi ottanta anni. In dodici ore è piovuta l’acqua che solitamente piove in tutto il mese di agosto.

Nel giro di pochi minuti sui social sono diventate virali foto di strade sotto un metro d’acqua, di tombini che vomitavano acqua, di quartieri come Gangnam completamente allagati, di cittadini appena usciti dall’ufficio, in giacca e camicia, seduti sui tetti delle macchine, con l’acqua fino ai finestrini.

Finalmente i messaggi di pubblica sicurezza hanno smesso di essere i consigli della nonna e sono diventati preziose indicazioni per conoscere le aree della città più colpite dagli allagamenti. Il telefono ha vibrato ininterrottamente per ore, indicando le criticità e le zone di Seul più colpite e a rischio.

SENZA FINE  

Noi siamo riusciti a tornare in hotel e così anche mio figlio, ma in molti sono rimasti bloccati su autobus allagati e stazioni della metropolitana invase dall’acqua. Sto scrivendo più di 48 ore dopo l’inizio del monsone e posso dire che la pioggia non si è mai fermata. Stamattina sul mio display appariva la scritta: è consigliato rimanere a casa.

I tg coreani mostravano immagini apocalittiche di mezza Seul sotto l’acqua e la notizia di morti e dispersi era ormai sui siti di tutto il mondo.

Qui non è un avvenimento considerato normale, specie ad agosto, specie con esiti così catastrofici.

Non siamo spaventati, questo no, ma senz’altro impressionati. Soprattutto perché veniamo da un paese in cui da mesi parliamo di siccità e ci troviamo di fronte a quello che qualcuno definirebbe “problema opposto”, ma che forse opposto non è. 

Perché mentre le previsioni meteo quest’estate sbagliano in tutto il mondo, c’è una previsione universale che pare di un’esattezza impressionante, negli ultimi tempi: una bottiglietta di plastica buttata in mare in Salento, provoca un uragano dall’altra parte del mondo. Magari in Corea. E domani chissà.

SELVAGGIA LUCARELLI. Selvaggia Lucarelli è una giornalista, speaker radiofonica e scrittrice. Ha pubblicato cinque libri con Rizzoli, tra cui l’ultimo intitolato “Crepacuore”. Nel 2021 è uscito “Proprio a me", il suo podcast sulle dipendenze affettive, scaricato da un milione di persone. Ogni tanto va anche in tv.

Lungo il cuore ferito del Po: «Oggi fa paura, non è mai stato così basso». Chi abita sul fiume ne conosce segreti e pene. Scafi che galleggiano sulla melma, isole di sabbia e ghiaia, pontili sorretti da ciambelle ormai inutili. «In passato gli agricoltori si sono lamentati senza motivo, ora però hanno ragione. L’acqua oggi c’è, ma nei prossimi anni come si fa?» (foto di Alessandro Penso). Tommaso Giagni su L'Espresso il 9 Agosto 2022

Rino detto Ramon sta in piedi sulla sabbia, con una sedia e un secchio vicini, dove dovrebbe scorrere l’acqua. Pesca a ridosso di un ponte che traversa il Po e insieme il confine tra Lombardia ed Emilia. Chi vive sul fiume abita sempre una frontiera. Lui ha scelto 23 anni fa di trasferirsi in una roulotte nell’ultimo tratto di terra mantovana, sotto pioppi e robinie e aceri che ha piantato di persona. «Il sindaco di Viadana mi ha offerto una casa in paese, senza affitto. Ma non c’è la sabbia, là, non posso pescare, allora ho rifiutato. Qui sto da dio». Conosce i fiumi più importanti d’Europa, dice che il Po è il più bello. L’ha percorso tutto: dalla fonte fino a Torino a piedi, poi in barca fino alla foce. «Per me è come un figlio».

Si chiama Luigi Pezzali, il nome «Ramon» l’ha preso durante un lavoro in Argentina. È stato anche saldatore in Iraq negli anni Ottanta, ha fatto i marciapiedi vicino al porto di Amburgo. Ma è sempre tornato qui. «Il ponte l’hanno costruito i miei fratelli. Quando la legna venuta giù col fiume si arenava contro i piloni, mio padre andava a toglierla e la rivendeva». Mentre parla, con la canna tira su un pezzo di plastica: «Un tempo non ce n’era, l’acqua la bevevo. Poi per tanti anni è venuta marrone». Negli ultimi dieci, quindici anni, lo stato dell’inquinamento è migliorato di molto grazie ai depuratori. «Posso farci il bagno, perché so cosa c’è dentro. Porto regolarmente ad analizzare campioni d’acqua». E davvero entra a farsi il bagno. Ha cominciato a nove anni, ora va per i settantasei. «In questo punto non tocco, vedi? La situazione è strana», urla: «Ma non grave come dicono i giornali. Fu basso così anche nel 1965. Però sì, la situazione è strana. In alcuni tratti si può attraversare a piedi senza nemmeno nuotare». Dice Ramon che la navigazione in questo momento è solo per esperti, il rischio di arenarsi è serio. Accanto alla roulotte ha una barca piatta, un battello: «Quello dei pescatori del Po di una volta», dice: «Ora però ci tengo le rane. È troppo pesante per portarlo al fiume e navigarci, aspetto che il fiume salga».

Lo stesso battello, nel pavese lo chiamano «barcè». Risalire dal basso mantovano fino alla Lomellina significa percorrere il cuore del Po. E il cuore è ferito, spiega chi conosce il fiume come nessuno, chi veramente ci vive. Nel tempo della grande siccità, incontriamo di continuo scafi che galleggiano su poca acqua melmosa, isole di sabbia e ghiaia, pontili con ciambelle galleggianti ormai inutili. A Isola Serafini, nel tratto piacentino, la centrale idroelettrica è chiusa per l’emergenza. La diga ha due paratoie aperte su undici, per bilanciare l’acqua da trattenere a monte e quella da mandare a valle. Sulla sponda cremonese, a Isola Pescaroli, un cartello scritto a mano dice: «Tutti insieme ce la faremo!». Intanto due trattori e una motopompa del Consorzio di Bonifica Navarolo raccolgono acqua dal fiume e attraverso grossi tubi riempiono una vasca per irrigare. Poche centinaia di metri all’interno, le zone secche nei campi di mais avvolgono in una stretta quelle verdi.

«Qui mancano tre metri d’acqua», spiega Alberto Preto, 74 anni, sulla sua casa galleggiante in provincia di Pavia, sotto il ponte della Becca. La trasformazione gli sembra riguardare, più che un’emergenza di questi mesi, una tendenza degli ultimi dieci anni. Da almeno il doppio («Venti, venticinque, ho perso il conto») lui abita da solo nel punto in cui il Ticino si immette nel Po. Una scelta, dopo una vita a Milano dove aveva uno studio e restaurava il legno. Prosegue a farlo sulla casa galleggiante, picchiettata di segatura, ingombra di seghe circolari e tavoli Luigi XVI. «Potrei vivere con la pensione, ma di lavoro ne ho». Alberto indica tra le assi: «Stamattina qui sotto avevo un luccio di tre chili. Io non pesco, ho quattro o cinque canne mai usate, e i cacciatori mi odiano perché quando arrivano inizio a fischiare». Non ha barca, non ha auto. La sua vita è un inno ecologista, ma non rivendica una teoria e dice d’aver fatto quel che si sentiva e basta. «Ho sempre avuto un rapporto speciale col fiume, un’esigenza, diciamo, di stare col culo in acqua. Siamo in pochi a vivere con il fiume. A fonderci». Esce quasi solo per la spesa. «Le persone mi guardano come lo strano, allora le avvicino per spiegare la mia scelta di avere un piede in acqua e uno a terra». In effetti incontriamo sempre un imbarazzo, nei bar di paese e per le strade assolate, quando chiediamo informazioni su dove trovare chi vive sul fiume.

«Non cala, non può calare più di così», mostra ottimismo Italo Fornasari. Dal 2016, appena pensionato, è andato ad abitare in golena nei pressi di Cremona, in una casetta con giardino che affaccia sul Po ed era di suo nonno. Dell’intera vita da fabbro ha tenuto solo l’incudine, l’ha messa in giardino, accanto al tavolo dove si diverte a creare sculture. Oggi ha 66 anni, una conchiglia portafortuna al collo e un’ancora tatuata sulla spalla, e il fiume in questo stato non l’ha mai visto. Lo conosce più che bene: ha iniziato nel 1971 a percorrerlo in canoa, la sua passione, una volta arrivò a Venezia in tre giorni. Lo conosce e ne ha un rispettoso timore: «Mai dargli confidenza, è imprevedibile».

Italo non ha mai visto il fiume così, la lingua di sabbia che si vede da casa è anomala, ma sulla siccità ha la posizione più serena che incontriamo. «A me preoccupano le piene, non le magre. Il fuoco lo fermi, l’acqua no. Da queste parti le barche vanno, con attenzione. Gli animali ci sono ancora tutti, i pesci e gli uccelli sono quelli, ci sono le lepri, c’è una volpe qui dietro. Offro una cena a chi mi mostra dove attraversare il Po a piedi». In particolare è polemico con l’allarme lanciato dagli agricoltori: «Sono amico di molti di loro ma hanno esagerato a sfruttare i campi e a usare fertilizzanti. Il primo raccolto gli è andato benissimo, ora si lamentano per il secondo. Da qui a Brescia ho visto due campi di mais rovinati, e li ha rovinati la grandine». Lungo il Po, i sovvenzionamenti per i danni agli agricoltori sono controversi. La situazione dell’estate 2022, in questi territori, ha sollevato questioni complesse e aperto conflitti. Se il livello macro è il cambiamento climatico, si discute sulle responsabilità di gestione delle risorse da parte della politica locale. Se l’emergenza tocca l’agricoltura, in luoghi dove l’agricoltura è molto, l’ombra dei razionamenti cala su tutti.

Si può attraversare in Lomellina, per esempio, spiega Claudio Bompan, muovendo un braccio col pesce tatuato, perché c’è la ghiaia invece della sabbia. Dove il livello è sottile sulla ghiaia, si dice che l’acqua rida. «Mi considerano il matto del Po», scherza Claudio, che ha 70 anni e a quattordici usò i soldi degli straordinari per comprare il primo motore della barca. Nei dintorni in verità è un’istituzione, la gente domanda a lui come sta davvero il fiume. E a noi risponde che poca acqua così non ne ha mai vista: «Mai, in sessant’anni che viaggio in barca. Qui siamo giù di 3,80 metri, quasi la metà del normale», indica il battente sui ripari di cemento, il segno che fa capire dove il Po dovrebbe essere. Claudio abita da nove anni in una casetta su una lanca, un meandro acquitrinoso e separato dal Po, circa 30 km a ovest di Pavia. L’appartamento che ha ricavato dà proprio sull’imbarcadero da dove porta i turisti sul fiume. Portava, perché adesso non ha lavoro: quando c’era l’acqua non era stagione e adesso che è stagione manca l’acqua. Da un anno vive della pensione da operaio ed esce in solitaria, coi rischi che si corrono a navigare sul fiume in queste condizioni («Ho spaccato due motori»). Accenna al tratto che scivola sotto il ponte della Gerola: «Il Po è tutto lì. Un fosso. In dieci anni sarà sceso dell’80 per cento. Io non ho mai avuto paura del fiume, ma questo fa paura. Secondo me non c’è più niente da fare. Di chi è la responsabilità? Il clima», alza un dito al cielo. «In passato gli agricoltori si sono lamentati senza motivo, ora però hanno ragione. L’acqua per arrangiarsi coi campi oggi c’è, ma nei prossimi anni come si fa?».

Claudio è arrivato in Lomellina da piccolo, con i genitori sfollati dal Polesine alluvionato. Il fiume è nella sua vita dall’inizio. «Io ragiono in termini di Po, quindi Torino mi è più vicina di Pavia. Perché la gente del Po è tutta uguale, col valore della solidarietà: se qualcuno si ferma, lo aiuti anche se non lo conosci. Il mare non mi piace, giusto quello di Venezia. Odio il casino, quando vedo un’autostrada mi volto». E il Po gli svela tesori: negli anni Claudio ha trovato una mascella di mammut, un’anfora etrusca, un elmetto nazista. «Da qui sono arrivato a Venezia tre volte, e la prima cosa che ho fatto è stata andare dove sono nato». Punta le dita verso l’acqua stanca, lungo la riva si rincorrono i suoi cani, uno si chiama Fiume. Sulla stessa sponda, poco lontano, c’è una piccola Madonna nella roccia. È stata messa lì per proteggere dalle alluvioni, i fiori finti la invocano accanto al fiume mezzo vuoto.  

Siccità, le città senza fiumi: dal Brenta al Tevere i corsi d’acqua prosciugati. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022 

Il Bacchiglione senz’acqua a Padova. Il Tevere che, con la portata ridotta, restituisce le antiche vestigia del Ponte Neroniano. E il cuneo salino non riguarda più solo il Po. 

Certe foto valgono più delle parole. Per esempio quella scattata ieri pomeriggio, nel centro di Padova, da una ragazza lungo la suggestiva Riviera Paleocapa che costeggia il Bacchiglione. L’alveo dell’affluente del Brenta è praticamente sparito, il livello è sceso di circa un paio di metri — «una roba mai vista», dicono in città — trasformando il corso in un rigagnolo. Scena eloquente che si registra in tante città dove fa davvero impressione vedere i fiumi privi d’acqua e con i fondali visibilissimi ricoperti di ogni genere di ingombri.

L’effetto della siccità che affligge l’Italia si mostra in modi differenti. A Roma anche il Tevere boccheggia, la portata rispetto alla media consueta si è ridotta tra mezzo metro e un metro e proprio per questo il «Biondo fiume» ha regalato, giorni fa, il ritrovamento delle vestigia del Ponte Neroniano, riaffiorate davanti a Castel Sant’Angelo. Ma, soprattutto al Nord, le «istantanee» sono diverse, drammatiche. L’emergenza non riguarda solo il Po, dove in un tratto — a Pontelagoscuro, nel Ferrarese — la portata registrata è stata poco sopra ai 100 metri cubi al secondo. Ovvero meno della metà del record di portata minima mensile che venne registrato nel luglio 2006 e che allora fu di 237 metri cubi al secondo. I fiumi «spariti», con letti ridotti a fanghiglia e lunghe distese di sabbia, non si contano.

Il Sangone, torrente solitamente rigoglioso di 47 chilometri che scende nell’omonima valle (tra la Val di Susa e la Val Chisone) per confluire nel Po, quasi non esiste più. Stessa cosa per Trebbia ed Enza, che scendono dall’Appennino attraversando il Piacentino (il primo) e il Parmense e il Reggiano (il secondo). Il Reno (siamo in Romagna) è così basso che le autorità hanno sospeso il servizio di traghetto che collega Ravenna e Argenta. Poi il cuneo salino: del Po sappiamo che la risalita-record è di circa 40 chilometri, ma il gravissimo problema, che può portare all’«avvelenamento» delle falde potabili, riguarda anche — è il recente allarme dell’Anbi, l’autorità dei consorzi di bonifica — i tratti terminali della gran parte dei corsi settentrionali: Brenta, Adige, Tagliamento e Livenza.

 La siccità arriva in tv, vi spiego i trucchi del come vivere senz'acqua. Ci si lamenta della mancanza di liquido nel settentrione. Ma già cinquant'anni fa nel Meridione si chiudevano i rubinetti per ora, si razionava e l'approccio col sacrificio con la scarsità di potabile era uno sorta di metronomo sociale.

Francesco Specchia Libero Quotidiano l'11 luglio 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

a sensazione di stare in un libro di Rudyard Kipling -con tutto il suo carico di facce sbrecciate dal sole, di pozzi di liquame scavati nella roccia, di arsure letterarie- arrivava la mattina presto.

Alla mattina, la realtà ti prendeva alla gola. Perché tu, appena sveglio, dimentico degli avvisi comunali di blocco idrico del giorno prima (da nordico, le ritenevi usanze barbare) in mutande, con gli occhietti cisposi, la bocca intasata di dentifricio e i cappelli di shampoo, scivolavi all’improvviso nell’abisso. In quel preciso momento, in bagno, ti rendevi conto del silenzio sepolcrale dello sciacquone, e del gorgoglio dell’ultimo tubo, e del rubinetto che strozzava l’ultimo filo d’acqua nel rantolo di un demone del deserto. Non usciva più una goccia a pagarla. E a quel punto, potevi solo urlare, elevare agli dei le imprecazioni più creative. E sperare nella riserva dell’autoclave che, quasi sempre, ti eri naturalmente dimenticato di accendere la sera. Ecco. Per chi, da ragazzino, non ha vissuto il razionamento dell’acqua nel Meridione d’Italia della fine degli anni 70, l’emergenza idrica di oggi può apparire come un’esagerazione, una precauzione eccessiva plasmata sulla weltanschauung ecologica che va così di moda. Eppure, ora che il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio intervistato da SkyTg24 avverte che «in alcune zone d’Italia sicuramente non è escluso il fatto che il razionamento dell’acqua porti a una chiusura temporanea anche nelle ore diurne»; be’, ecco riapparire uno dei miei incubi peggiori. 

Ormai emerge da ping speciale tg possibile (specie quelli del Tg1) . Curcio ha ricordato che il Nord (il Sud lo davo per scontato), adesso è stato colpito da una forte siccità e in alcuni territori non piove da 110 giorni; che l’unica possibilità è lo stop all’erogazione, che dovrebbe riguardare 125 comuni, secondo specifica richiesta di Utilitalia, la federazione che riunisce le aziende distributrici di acqua potabile. Certo, poi uno si può tranquillamente lamentare della dispersione idrica, del 40%-50% dell’acqua che non arriva mai a destinazione come lamenta il ministro Cingolani ; della situazione disastrosa delle condutture che fotografa lo sperpero supremo. Trattasi d’una quantità tale di “oro blu” che basterebbe a soddisfare le esigenze annue di una popolazione di oltre 44 milioni di abitanti. Per non dire dei fondi del Pnrr preposti -900 milioni su 14 miliardi necessari- anch’essi affogati tra i marosi della burocrazia. Ma quello è solo il piano politico della faccenda. Il vero problema sta sull’orizzonte perduto della pratica quotidiana, sta nell’educazione civica e nel rispetto delle risorse naturali. La percezione del valore dell’acqua, in realtà è un metronomo sociale. Connota la vera differenza tra le popolazioni del nord e del sud Italia, il loro modo di affrontare il quotidiano. L’attribuzione, da parte del sud, di vitale importanza a cose che al nord si danno per scontate, come un getto d’acqua potabile, non è un vezzo. E’ una questione culturale. Al nord si è sempre convissuto con la possanza del Po, col capriccio dei mille fiumi, col catino infinito dei grandi laghi. Al sud giravano i rabdomanti.

Solo da pochi anni a Milano, per esempio, le fontanelle hanno smesso di sgorgare a flusso continuo; io, a osservarle, impazzivo. E c’è voluto più di un secolo per applicare dei banali rubinetti, su quei maledetti scrosci che alluvionavano i marciapiedi, tipo gli idranti impazziti nella Harlem degli anni 20. Lo stesso vale per la fontana della Madonna Verona nella piazza Erbe scaligera della mia infanzia: buttava tanta acqua in una piscinetta d’alabastro che ci si poteva allenare Paltrinieri. Ad osservarla, provavo un fastidio innaturale. L’acqua, al nord, è come l’aria: quando c’è non te ne accorgi. Al sud, invece la coscienza comune è attraversata dalla paura ancestrale della siccità.

E’ stata una sorta di educazione sentimentale, la mia. Da piccolo, durante i mesi in vacanza in Puglia, ero costretto ad apparecchiare una coscienza idrica. Nella provincia di Bari ci un periodo, quarant’anni fa, in cui il razionamento diurno era così feroce da creare emergenze perenni. Toglievano l’acqua dalle 9 di mattina fino al pomeriggio. Lì è nato il mio rapporto burrascoso con l’ Acquedotto pugliese.

Se non ricorrevi allo stoccaggio fai-da-te eri fottuto. Le file alle fontane pubbliche si affollavano sin dall’alba, erano un ricettacolo di sorrisi smorzati e  espressioni cupe: evocavano le file per il pane durante la guerra. Si percepiva lo stato di calamità, ma anche -oserei- un senso di comunanza con le popolazioni assetate del mondo.

Ricordo decine di taniche immacolate, di damigiane e bottiglioni riempiti nottetempo e assiepate negli angoli più impensati della casa, come se fossero le riserve di gas dell’Eni. Ricordo mio nonno che mi propinava raccomandazioni che neanche Fulco Pratesi: tirare lo scarico solo se strettamente necessario, fare la doccia se ti lavi per meno di 8 minuti, altrimenti puntare al bagno e riempire massimo metà vasca (massimo); utilizzare la lavatrice e la lavastoviglie a pieno carico; non buttare l’acqua già utilizzata, conservarla per innaffiare l’orto, i fiori o le piante; lavarsi i denti tenendo il rubinetto serrato; raccogliere l'acqua piovana dai terrazzi (tuttora non si arriva al 17% dell'invaso) . Si stava attenti perfino a sudare nelle ore giuste. Per non dire del rumore stridente dell’autoclave che indicava l’incedere faticoso delle riserve e che ci ammoniva d’aver consumato troppo. Anni fa, Renzo Arbore mi sfidò a fare abluzioni mattutine con un unico secchio d’acqua, ma io conoscevo già la lezione. Che è la stessa di Kipling e che ricordo ai miei figli: il cuore è acqua che corre…

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” il 24 agosto 2022.

La siccità quest' anno ha raggiunto nel mondo livelli mai visti prosciugando fiumi e laghi, facendo crescere l'allarme per i raccolti e causando problemi alla navigazione. Gli scienziati dicono che potrebbe essere la peggiore degli ultimi 500 anni. Ma la diminuzione dei livelli dell'acqua ha fatto riemergere reperti storici ormai dimenticati. 

Tra queste la Stonehenge spagnola, come è stata soprannominata, è apparsa nel bacino idrico di Valdecanas, nella provincia centrale di Caceres, che ormai è sceso al 30% della capienza. Il nome ufficiale è Dolmen di Guadalperal e si ritiene che il cerchio di pietre risalga al 5000 a.C. Scoperta nel 1926 l'area fu allagata nel 1963 per un progetto di sviluppo rurale. Da allora i blocchi megalitici sono stati visibili solo quattro volte.

Quando appaiono è sempre un brutto segno: parliamo delle «pietre della fame», incise durante i periodi di siccità come avvertimento alle generazioni future dell'arrivo di un momento difficile. La maggior parte sono ricomparse sulle rive del fiume Elba, che scorre dalla Repubblica Ceca attraverso la Germania e raggiunge il Mare del Nord vicino ad Amburgo. Una di queste, che fu scolpita per la prima volta nel XV secolo, emerse anche nel 1616, quando i locali vi incisero le parole «se mi vedi, piangi». Molte pietre sono tornate visibili nel 2018 quando la mancanza di pioggia ha colpito l'Europa centrale in modo molto forte.

I resti di alcune navi abbandonate dai nazisti in fuga dai sovietici durante la seconda guerra mondiale sono riaffiorati in Serbia, vicino a Prahovo, grazie ai bassi livelli del Danubio. Le imbarcazioni erano ancora cariche di esplosivo ed è stato necessario far intervenire gli artificieri. Ordigni inesplosi sono stati trovati anche nel fiume Po, in Italia. 

A luglio circa 3.000 persone sono state evacuate da un villaggio vicino a Mantova, mentre gli esperti hanno rimosso e fatto esplodere una bomba della seconda guerra mondiale. Sempre nel Po è emersa anche la chiatta Zibello usata dai tedeschi e affondata nel 1943. Lunga una cinquantina di metri e con una portata di oltre 5.000 quintali, l'imbarcazione era stata costruita nel cantiere della Giudecca a Venezia, col metallo donato dall'Austria come debito di guerra, e serviva per trasportare cereali e idrocarburi all'epoca.

Spostiamoci nella splendida Galizia, in Spagna, dove all'inizio dell'anno è ricomparso Aceredo, un villaggio al confine con il Portogallo che era stato sommerso dalle acque del fiume Lima nel 1992 quando era stata completata la costruzione della diga di Alto Lindoso. 

Trent' anni dopo il borgo è tornato visibile grazie al fatto che il bacino è sceso al 15% della sua capacità e, inevitabilmente, ha attratto i turisti, tra cui alcuni ex residenti, incantati dallo spettacolo di un posto in cui la vita si è fermata 30 anni fa, anche se da una fontanella sgorga ancora acqua e in un bar si vedono delle bottiglie di birra.

L'apparire dei resti di alcuni alberi a Bodmin Moor, in Cornovaglia è il segno di quanto la siccità minacci la sempre piovosa Inghilterra. I livelli dell'acqua del lago Colliford, il più grande bacino idrico della regione, sono diminuiti drasticamente, rivelando un paesaggio dimenticato che non si vedeva dal 1995.

Siccità, i fiumi e i laghi restituiscono monumenti spariti. Monica Ricci Sargentini il 23 agosto 2022 su Il Corriere della Sera.

La Stonehenge spagnola. La siccità quest’anno ha raggiunto nel mondo livelli mai visti prosciugando fiumi e laghi, facendo crescere l’allarme per i raccolti e causando problemi alla navigazione. Gli scienziati dicono che potrebbe essere la peggiore degli ultimi 500 anni. Ma la diminuzione dei livelli dell’acqua ha fatto riemergere reperti storici ormai dimenticati. Tra queste la Stonehenge spagnola, come è stata soprannominata, è apparsa nel bacino idrico di Valdecanas, nella provincia centrale di Caceres, che ormai è sceso al 30% della capienza. Il nome ufficiale è Dolmen di Guadalperal e si ritiene che il cerchio di pietre risalga al 5000 a.C. Scoperta nel 1926 l’area fu allagata nel 1963 per un progetto di sviluppo rurale. Da allora i blocchi megalitici sono stati visibili solo quattro volte.

Il villaggio di Aceredo. Spostiamoci nella splendida Galizia, in Spagna, dove all’inizio dell’anno è ricomparso Aceredo, un villaggio al confine con il Portogallo che era stato sommerso dalle acque del fiume Lima nel 1992 quando era stata completata la costruzione della diga di Alto Lindoso. Trent’anni dopo il borgo è tornato visibile grazie al fatto che il bacino è sceso al 15% della sua capacità e, inevitabilmente, ha attratto i turisti, tra cui alcuni ex residenti, incantati dallo spettacolo di un posto in cui la vita si è fermata 30 anni fa, anche se da una fontanella sgorga ancora acqua e in un bar si vedono delle bottiglie di birra.

Gli alberi morti. L’apparire dei resti di alcuni alberi a Bodmin Moor, in Cornovaglia è il segno di quanto la siccità minacci la sempre piovosa Inghilterra. I livelli dell’acqua del lago Colliford, il più grande bacino idrico della regione, sono diminuiti drasticamente, rivelando un paesaggio dimenticato che non si vedeva dal 1995.

La chiatta Zibello. Nel Po è emersa la chiatta Zibello usata dai tedeschi e affondata nel 1943. Lunga una cinquantina di metri e con una portata di oltre 5.000 quintali, l’imbarcazione era stata costruita nel cantiere della Giudecca a Venezia, col metallo donato dall’Austria come debito di guerra, e serviva per trasportare cereali e idrocarburi all’epoca.

Le navi dei nazisti. I resti di alcune navi abbandonate dai nazisti in fuga dai sovietici durante la seconda guerra mondiale sono riaffiorati in Serbia, vicino a Prahovo, grazie ai bassi livelli del Danubio. Le imbarcazioni erano ancora cariche di esplosivo ed è stato necessario far intervenire gli artificieri. Ordigni inesplosi sono stati trovati anche nel fiume Po, in Italia. A luglio circa 3.000 persone sono state evacuate da un villaggio vicino a Mantova, mentre gli esperti hanno rimosso e fatto esplodere una bomba della seconda guerra mondiale.

Le pietre della fame. Quando appaiono è sempre un brutto segno: parliamo delle «pietre della fame», incise durante i periodi di siccità come avvertimento alle generazioni future dell’arrivo di un momento difficile. La maggior parte sono ricomparse sulle rive del fiume Elba, che scorre dalla Repubblica Ceca attraverso la Germania e raggiunge il Mare del Nord vicino ad Amburgo. Una di queste, che fu scolpita per la prima volta nel XV secolo, emerse anche nel 1616, quando i locali vi incisero le parole «se mi vedi, piangi». Molte pietre sono tornate visibili nel 2018 quando la mancanza di pioggia ha colpito l’Europa centrale in modo molto forte.

Lucia Landoni per repubblica.it il 5 luglio 2022.

La siccità che tanti problemi sta creando in Lombardia riserva anche grandi sorprese dal punto di vista archeologico e paleontologico: dopo i resti di animali di circa 180mila anni fa rinvenuti nel Po nei mesi scorsi e oggi custoditi al Museo naturalistico paleoantropologico di San Daniele Po (nel Cremonese), è la volta dei resti di un sistema di palafitte risalenti probabilmente all’Età del Bronzo (dal 2300 al 700 a.C.), emersi dal fiume Oglio in secca nella zona tra Canneto sull’Oglio e Calvatone (fra le province di Mantova e Cremona).

Quelli che a un occhio disattento possono sembrare dei banali paletti di legno infissi nel letto del fiume non sono passati inosservati ai membri del gruppo Klousios – Centro studi e ricerche del Basso Chiese, che si occupa di archeologia di superficie. Dopo la loro segnalazione è intervenuta la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio di Cremona, Lodi e Mantova, che ha subito fatto transennare la zona del ritrovamento in collaborazione con i carabinieri.

Attualmente l’area è costantemente pattugliata dalle forze dell’ordine, per evitare che qualche curioso comprometta gli antichi resti prima che gli esperti abbiano modo di completare un’approfondita indagine, necessaria anche per stabilire con precisione la datazione. Per ora è certo che quei resti erano già stati rivelati dalla secca del fiume risalente a un’altra estate di caldo record, ovvero quella del 2003. Stavolta però la visibilità è migliore, perché il livello dell’acqua è addirittura più basso rispetto a 19 anni fa.

I pali delle palafitte si trovano in un’ansa che con ogni probabilità un tempo era morta, cioè sostanzialmente priva di corrente: questo spiegherebbe anche perché fosse stata scelta per costruire un insediamento abitativo. Informazioni più attendibili in merito potranno essere però fornite solo dalle ricerche della Soprintendenza, che per il momento mantiene il più assoluto riserbo e anzi scoraggia il più possibile la diffusione di notizie relative ai resti. 

I curiosi che negli ultimi giorni si sono avvicinati troppo al sito sono già stati segnalati ai carabinieri. I lavori degli esperti dovrebbero concludersi tra un paio di settimane.

Paolo Boccacci per repubblica.it il 6 luglio 2022.

La pioggia che manca. Il Tevere che si abbassa, addirittura fino a pescare solo un metro e dodici centimetri. Ed ecco che sotto ponte Vittorio Emanele II si materializza un pezzo di storia antica che ciclicamente, ad ogni secca, riemerge con il suo carico di memoria. 

E così, in una città che di sorprese archeologiche è ricchissima, sono riapparse dal fiume le fondamenta di un antico ponte, di solito impossibili da vedere perché sempre sommerse.

Un ponte che rimanda all'imperatore romano Nerone, che dominò la Città Eterna nel I secolo, tra il 54 e il 68 d.C, e che superava con un'arcata il fiume accanto a quello che ora unisce Corso Vittorio con Castel Sant’Angelo e il Lungotevere Vaticano. 

Però è anche possibile che non sia stato Nerone a ordinarne la costruzione, ma il suo predecessore Caligola, per collegare il Campo Marzio a un suo Circo personale che si trovava vicino a dove oggi c’è il Vaticano. Ma Nerone lo aveva rinnovato, e usato come parte della Via Trionfale.

Il ponte, con gli archi ornati di statue e trofei, era infatti dedicato al passaggio dei vittoriosi in guerra, degli Imperatori e dei Generali, ma meritava il Trionfo solo chi avesse vinto una gloriosa battaglia contro nemici molto pericolosi o se fosse riuscito a vincere con poco dispendio di uomini e di denaro. 

La fine? Fu demolito probabilmente nella prima metà del V secolo d.C., ai tempi della  Guerra Gotica. E da allora ha dormito sotto le acque del Tevere, riemergendo solo in rare occasioni, quando il fiume della città raggiunge livelli troppo bassi, molto lontani dai soliti cinque o sei metri.

In realtà la storia dell'antico ponte è complessa. Come dicevamo una delle ipotesi degli archeologi è che sia stato fatto costruire direttamente da Nerone sul tracciato della via Trionfale nel I secolo, per migliorare i collegamenti con quelli che erano i suoi poderi sulla riva destra del fiume e in particolare con la villa della madre Agrippina. Ma si è pensato pure ad un intervento successivo sulla base di un altro di Caligola. 

E anche sull'epoca della sua distruzione molte sono le ipotesi. Forse andò già in disuso in occasione della costruzione delle Mura Aureliane, nelle quali sembra mancare una porta in corrispondenza del ponte, anche a causa della vicinanza del ponte Elio. Potrebbe tuttavia essere contato tra i tredici ponti menzionati da un'iscrizione del IV secolo. Certamente non doveva più essere utilizzabile alla fine del V secolo d.C. 

Mentre gli ultimi resti dei piloni furono demoliti nell'Ottocento per facilitare la navigazione. Ma a volte, nei periodi di secca, ritornano.

Lomellina all’ultima goccia: nelle campagne intorno a Vigevano è «la guerra dell’acqua». Davide Maniaci su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022. 

Le accuse ai consorzi di Novara: «Chiudono e deviano i canali». I novaresi: «La Lomellina purtroppo è spacciata, lasciateci l’acqua e salviamo almeno i nostri campi». Una situazione mai così difficile da 150 anni

L’ultima carta per salvare il raccolto è la richiesta lanciata lunedì sera dai consorzi agricoli Est Sesia, Ovest Sesia e Villoresi: «Vogliamo la riduzione del deflusso minimo vitale al 10 per cento e fare arrivare l’acqua dalle dighe delle montagne di Piemonte e Valle D’Aosta fino in pianura». Appello inoltrato a Regione Lombardia e Regione Piemonte, oltre che al Governo. La risposta è attesa ad ore. L’assemblea straordinaria delle scorse ore cercava di far cessare la «guerra dell’acqua» scoppiata nei giorni scorsi tra le zone agricole al confine tra Lombardia e Piemonte. Proteste, manifestazioni e accuse reciproche. Il bilancio di Alberto Lasagna, direttore provinciale di Confagricoltura Pavia, è cupo. Una siccità che va avanti da inizio anno, acuita da alcune dispute tra vicinato.

La Lomellina, terra agricola di riso e mais, è a valle della provincia di Novara. I canali irrigui che si diramano dal canale Cavour sono gli stessi, in direzione nord-sud, e di acqua per tutti non ce n’è. Entrambe le zone situate tra Sesia e Ticino sono gestite dal Consorzio irriguo Est Sesia, che la scorsa settimana, per qualche giorno, ha chiuso le bocche del canale Cavour e del Quintino Sella per fare arrivare acqua anche in Lomellina, dove ormai è compromesso il 30 per cento dei raccolti. Scontri feroci sul confine, prima della tregua di ieri. I novaresi: «La Lomellina purtroppo è spacciata, lasciateci l’acqua e salviamo almeno i nostri campi». Una tesi sostenuta anche dai vertici regionali piemontesi e culminata in una manifestazione durante un’assemblea di Est Sesia. Così i dirimpettai lombardi: «L’acqua è di tutti, la paghiamo come voi e il Consorzio è unico: ben venga la turnazione». «Est Sesia — prosegue Lasagna — non conosce confini amministrativi. La Lomellina ha patito oscillazioni di portata, date dalla mancanza di neve in montagna. Una situazione mai così difficile da 150 anni. Ritengo che anche i danni vadano ripartiti in modo equo. Non ha senso, tra membri di uno stesso Consorzio, decidere chi deve morire. Navighiamo a vista, giorno per giorno, le decisioni non sono sempre facili da prendere. Senza ristori sarà comunque durissima nei prossimi mesi: la richiesta di aprire le dighe, che speriamo sarà accolta, è davvero l’ultima speranza».

Per Est Sesia, il cui territorio è per il 60 per cento in Lombardia, parla Andrea Girondini, responsabile per la zona di Vigevano. «Il fondo è ancora da toccare perché la siccità va peggiorando, ma ritengo quelle polemiche da Novara strumentali. La situazione dei campi è identica di qua e di là per via dei picchi idrici sempre più bassi. Sarà un’estate durissima, e senza risarcimenti molte aziende agricole non riapriranno: affrontano il rincaro dei consumi, le tasse da pagare e nessun introito dal raccolto. Per il futuro bisognerà agire in modo diverso, senza guardare soltanto al proprio… orticello. E non significa che si debba morire uniti, ma spartire quel che c’è per salvare ognuno il salvabile». Perché il rischio estremo è che non ci sia proprio più acqua da disputarsi.

Intanto sul Sesia, mai così asciutto, Edison ha bloccato la centrale idroelettrica di Palestro. Le acque troppo basse non permettono di alimentarla. Il poco prezioso liquido rimasto, inoltre, serve ai terreni e all’alimentazione del roggione Sartirana. Rifornisce di acqua tutta la Lomellina occidentale. L’altezza della falda nei pressi, rispetto a 12 mesi fa, è diminuita di 54 centimetri, pari, nell’ultimo mese, a quasi il 40 per cento in meno di ricarica della falda.

C'è la siccità e il Nord subito batte cassa per un'emergenza che al Sud è endemica. In molti al di sopra della Linea Gotica non sanno che la situazione che loro ritengono assolutamente eccezionale e drammatica è una di quelle evenienze che al Sud fa parte di una quasi normalità. Pietro Massimo Busetta su Il Quotidiano del Sud il 30 giugno 2022.

Chi è sazio non crede alle sofferenze di chi è a digiuno. Così recita un noto proverbio. Lo riporto perché bisogna averli i problemi per crederci. Ha fatto riflettere infatti la grande allerta che il Paese tutto sta lanciando per un problema che sta diventando sempre più cogente e che riguarda la siccità che sta colpendo il nord del Paese. Raccolti che si perdono o che diminuiscono nella loro resa, fino ad arrivare ai problemi di approvvigionamento idrico per gli usi civili ed industriali.

Quindi un problema serio che se non ricomincia a piovere creerà danni non indifferenti. Tanto che il sindaco di Castenaso, vicino a Bologna, che conta 16.000 abitanti, ha chiesto ai parrucchieri di fare un risciacquo in meno perché lui sostiene non sia indispensabile.

“Oggi firmo un’ordinanza per l’emergenza nazionale, prima Regione a farla, per chiedere al Governo 32 milioni di euro per diversi interventi – ha spiegato Bonaccini – autobotti nel parmense, interventi su canali di manutenzione nel piacentino e nel ferrarese”.

Ovviamente Bonaccini, per la regione Emilia-Romagna, è sempre pronto a trovare ragioni per chiedere l’intervento dello Stato ed ulteriori risorse, ma a parte questo il tema che si propone è estremamente serio. Ecco forse adesso anche il Nord capirà il Sud.

Infatti la riflessione che mi viene da fare riguarda la comparazione tra i territori, perché forse in molti al di sopra della linea gotica non sanno che la situazione che loro ritengono assolutamente eccezionale e drammatica è una di quelle evenienze che al Sud fa parte di una quasi normalità.

Nel Mezzogiorno vi sono molti comuni che soffrono per le carenze idriche e certamente non perché non vi sia sufficiente pioggia che cada dal cielo quanto perché non vi sono invasi, non sono stati rinnovate le reti idriche, per cui la maggior parte dell’acqua si disperde a mare.

Il primo risultato è che moltissimi terreni vengono coltivati a piantagioni non irrigue, con conseguente rendimento di gran lunga inferiore rispetto alle potenzialità che i terreni avrebbero.

Si pensi ad un terreno che viene coltivato a grano in modo estensivo quando potrebbe essere probabilmente dedicato a vigneti, a frutteti o a coltivazioni in serra. È chiaro che questa è una perdita per tutto il Paese e che il valore dei terreni è di gran lunga inferiore a quello che potrebbe essere. Senza parlare poi delle esigenze idriche per le attività civili, a cominciare dalle attività imprenditoriali; si pensi ai bisogni degli alberghi, molti dei quali si riforniscono di acqua pagandola a caro prezzo a fornitori che la portano con le autobotti, che magari hanno pozzi privati e che spesso hanno collegamenti con la criminalità.

Si pensi ai privati che spesso, considerato che la distribuzione idrica avviene anche una volta la settimana soltanto, hanno recipienti a casa quando non sono costretti a utilizzare la vasca da bagno per fini impropri, perché essa diventa un contenitore disponibile. Ma non è qualcosa che riguarda soltanto l’acqua, tale problema è presente anche nella fornitura di energia.

In questi giorni moltissimi comuni meridionali sono rimasti senza energia elettrica, perché la fornitura in periodi di grande richiesta di energia dovuta all’aumento delle temperature non corrisponde ai bisogni. Con conseguenze prevedibili rispetto per esempio al mantenimento delle derrate alimentari che erano nella catena del freddo.

La mancanza di infrastrutturazione del Mezzogiorno non riguarda soltanto l’alta velocità ferroviaria piuttosto che le grandi reti di comunicazione autostradali, ma riguarda anche molte delle utilities necessarie come l’energia o l’acqua, o di servizi indispensabili come la raccolta dei rifiuti, che attanaglia molte delle città anche grandi a cominciare da Napoli, Palermo e Catania.

Su quest’evidenza non si troveranno molti a dissentire perché il fenomeno è conosciuto in tutta Italia. Non si fa il passaggio successivo però, quello che tali mancanze sono costi che vengono gravati sulle famiglie meridionali, che devono provvedere autonomamente spesso per esempio ad avere dei generatori che evitino i danni causati dall’interruzione di energia, oppure costruire, sia a livello di condominio che a livello di singole case private, dei contenitori che consentano di raccogliere l’acqua che non essendo continua evidentemente ha bisogno di recipienti.

Così come è evidente che laddove i servizi pubblici non funzionano l’esigenza del mezzo privato diventa cogente, per cui se è pensabile di non avere auto a Milano non lo è assolutamente né a Napoli né a Palermo. Nel costo della vita che molti calcolano per dire che quello del Mezzogiorno è più basso di quello del Nord tali voci sono comprese?

E quando qualcuno dice che i 60 miliardi, che dovrebbero essere dati al Mezzogiorno come ristoro per avere un pro capite uguale tra le varie parti del Paese, non sono tali perché vi è un diverso costo della vita nelle due parti, ha tenuto conto di questi costi sommersi?

Mi pare proprio di no ed allora ben venga che ci si preoccupi di quello che sta accadendo nel nord del Paese, con una crisi idrica che non ha pari e con un abbassamento del livello del Po che anche i più anziani non ricordano, ma senza dimenticare che la problematica dell’approvvigionamento idrico non è stata risolta in tutto il Paese e che vi sono molte parti a rischio desertificazione e che non hanno hanno ancora completato gli impianti per l’approvvigionamento idrico civile, mentre alcune delle dighe già completate non hanno avuto quel collaudo che serve per metterle in funzione.

E speriamo che questa crisi reale non si risolva attingendo a quelle risorse del PNRR che invece erano destinate a diminuire i divari e che sarà facile che funzionino da bancomat per le tante esigenze che man mano si vanno manifestando.

Daniela Uva per “il Giornale” il 30 luglio 2022.

Il mare è entrato per oltre trenta chilometri nel Po. Non era mai accaduto nella storia e la colpa è della siccità, che imperversa da Nord a Sud nonostante le piogge delle ultime ore. 

La situazione più critica si registra proprio lungo il fiume, il cui livello è al minimo mentre il cuneo salino ovvero la presenza di acqua salmastra dall'Adriatico si sta progressivamente estendendo anche per via della mancata contrazione dei prelievi.

A lanciare nuovamente l'allarme è l'Osservatorio sul Po tornato a riunirsi ieri. L'ente mette bene in chiaro che occorre rispettare «le misure decise», ovvero la diminuzione del prelievo idrico del venti per cento. 

Anche perché le cinque stazioni di monitoraggio delle quote idrometriche del fiume restano ancorate al livello di «siccità grave». I dati delle portate in metri, rispetto alla media, dicono che a Piacenza si registrano meno 0,88 metri, a Cremona meno 8,20, a Boretto meno 4,37, a Borgoforte meno 3,83 e a Pontelagoscuro addirittura meno 7,16 metri.

I temporali delle scorse ore hanno migliorato leggermente la situazione, soprattutto sui rilievi e sulle colline di Piemonte e Liguria e in misura minore su Emilia, Lombardia e Veneto dove «le piogge hanno toccato anche i 58/60 millilitri, incrementando i livelli del grande fiume che in poche ore sono passati, in prossimità della foce a Pontelagoscuro nel Ferrarese, da 161 a 200 metri cubi al secondo». Un incremento di portata che però «non risolve il problema del pesantissimo deficit esistente ma, di fatto, lo sposta in avanti di una decina di giorni».

Insomma, il paventato stop ai prelievi di acqua per il momento è scongiurato, a patto che si rispetti la decisione di ridurli del 20 per cento. Nel frattempo i territori più coinvolti cercano di mitigare i danni. 

L'Emilia Romagna ha ufficializzato la richiesta al governo dello stato di emergenza nazionale attraverso il presidente della Regione, Stefano Bonaccini. 

«Sale a 36 milioni 700mila euro la stima delle risorse necessarie per fronteggiare le criticità: una cifra - spiega - comprensiva degli interventi più urgenti da mettere in campo con immediatezza e delle opere da attuare nel medio termine».

Ad Arezzo, invece, il sindaco Alessandro Ghinelli ha firmato l'ordinanza che regola, limitandolo, l'uso dell'acqua potabile fino al 30 settembre. La norma di fatto vieta tutti gli usi non essenziali della risorsa proveniente dal pubblico acquedotto, impedendo l'utilizzo per scopi diversi da quelli igienico-domestici e prevedendo, in caso di violazione, multe da cento a 500 euro. E in questa direzione va anche la Regione Marche. 

Ma non sono solo le temperature record di queste settimane a preoccupare. La carenza di acqua è causata anche dalle perdite idriche, che interessano moltissimi territori. «Ci sono aeree del Paese dove le perdite di acqua sono al 70 per cento, spesso a causa di allacci abusivi che portano allo spreco della risorsa idrica non perché ci siano buchi fisici nella rete - conferma il ministro delle Politiche agricole Stefano Patuanelli - Per questo serve un piano strutturale che ci consenta di captare l'acqua piovana».

Contro la crisi idrica per Patuanelli occorre anche realizzare invasi, dove servono, programmando interventi e strumenti per diminuire lo spreco della risorsa in agricoltura. 

«Penso all'agricoltura di precisione dove si può arrivare fino al 70 per cento di risparmio idrico - dice - Abbiamo messo in campo molte progettualità con il Pnrr, con la meccanizzazione, e la possibilità per l'agricoltura di accedere a Industria 4.0». 

Intanto però proprio i campi subiscono il colpo più grave. Solo nel territorio di Siena la Cia registra un calo del raccolto di grano pari al trenta per cento, spiegando che al momento anche la produzione di olio è fortemente a rischio. 

Siccità, la battaglia dell'acqua: le Regioni e i Comuni chiudono i rubinetti. Fiammetta Cupellaro su La Repubblica il 23 Giugno 2022.

Sindaci e governatori costretti a muoversi in anticipo con misure straordinarie. In alcuni Comuni vietato l'impiego di acqua potabile per usi non domestici. Le decisioni della Protezione civile e la battaglia tra i territori per l'uso dei bacini e invasi.

Sindaci che chiudono le fontane, vietano il lavaggio delle auto e di innaffiare orti e giardini, tagliano l'erogazione dell'acqua potabile dalle 23 alle 6. Governatori di Regione che proibiscono di usarla per fini diversi da quelli igienici e domestici, mentre sulle spiagge si transennano le zone docce e i gestori dei parchi acquatici chiedono di poter riempire le piscine con l'acqua di mare. 

L'Italia, dopo mesi senza precipitazioni e alle prese con picchi di calore, comincia a chiudere i rubinetti. In attesa del decreto sulla siccità, a Roma si susseguono gli incontri per trovare una soluzione e affrontare la stagione estiva che rischia di aggravare una situazione già drammatica. 

Dopo l'incontro tra il capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e gli assessori regionali all'ambiente con il presidente della Conferenza delle Regioni Massimiliano Fedriga, presidente del Friuli Venezia Giulia, dalle amministrazioni locali arriva chiara la richiesta della messa a disposizione dei fondi del Pnrr per la realizzazione di nuovi invasi e per ammodernare gli impianti già esistenti per "sprecare meno". 

Tutti sono poi concordi, al di là dei partiti politici, di chiedere al governo di emanare un decreto ad hoc. Nel frattempo, però, i sindaci e gli stessi governatori cominciano a fare da soli per evitare di trovarsi a secco. 

E mentre tra qualche regione comincia la battaglia dell'acqua, l'Anbi (l'Associazione italiana consorzi di bacino) fornisce un quadro dei rischi della desertificazione in Italia. 

Le Regioni fanno da sole

Il primo a prendere l'iniziativa è stato Stefano Bonaccini, presidente dell'Emilia Romagna, non a caso la regione che ha sul suo territorio il simbolo di questa crisi idrica, il fiume Po. Qui l'Autorità del bacino ha chiesto un calo del 20% di prelievi per continuare l'irrigazione e quindi portare a compimento il raccolto. E già tutti i Comuni sono stati invitati a emettere ordinanze per ridurre l'utilizzo dell'acqua potabile nei servizi non indispensabili, come lavare le auto o innafiare gli orti e riempire le piscine private. Iniziativa che tra l'altro sta prendendo piede anche in Toscana. Il sindaco di Livorno, ieri ha aggiunto anche una sanzione dai 100 ai 500 euro per chi viene sorpreso ad usare l'acqua potabile non per usi domestici.

In Lombardia il presidente Attilio Fontana ha chiesto ai cittadini di "fare uso parsimonioso dell'acqua" e dopo la riunione con il capo della Protezione civile, Curcio ha commentato: "Stiamo vivendo una situazione eccezionale, di una gravità che non si era mai verificata in questi anni". L'assessore all'agricoltura della Lombardia, Fabio Rolfi ha annunciato un tavolo per studiare le possibilità di recuperare le acque reflue per irrigare i campi. Le scorte d'acqua al momento sono quasi nulle e la Confagricoltura parla già di 2 miliardi di danni. 

Difficile la situazione in Piemonte una delle regioni più colpite dalla siccità, dove gli invasi sono ai minimi storici, con una riduzione in media del 50% e le acque del Po mai così basse da 70 anni. Senza contare che le sorgenti di montagna stanno registrando tra il 50 e il 90% in meno di portata d'acqua. L'allerta riguarda 145 Comuni soprattutto nel Novarese e nell'Ossolano, dove il Lago Maggiore è sceso di un metro.

Risultato? Circa il 10 % dei Comuni del Piemonte ha emanato ordinanze per ridurre gli sprechi d'acqua. E ieri il governatore Alberto Cirio ha lanciato un appello al governo, mentre quello del Veneto Luca Zaia ha scritto direttamente al presidente del Consiglio Mario Draghi sollecitando la dichiarazione dello stato di emergenza: "Con l'escalation di siccità che si sta registrando in questi giorni, ogni minuto è sempre più prezioso. Non si può più aspettare; la situazione deve essere affrontata con massima velocità anche dal governo". 

Preoccupazione per tutta l'area del delta del Po tra Veneto e Emilia: meno acqua nella parte finale del fiume, significa più entra acqua salata, spiegano gli esperti creando problemi all'ecosistema e agli impianti di irrigazione.

Chiusi i rubinetti di notte

Ma è il Trentino ad emettere una delle ordinanze più complesse: il sindaco di Ronzo-Chienis ha chiuso i rubinetti di acqua potabile dalle 23 alle 6. A Tesimo, in Alto Adige, il Comune ha vietato l'utilizzo dell'acqua per orti e piscine. 

Difficile credere poi quanto sta succedendo in Val d'Aosta, dove è pronta una campagna di informazione per turisti e residenti per limitare l'uso dell'acqua. La mancanza di neve - mai così poche precipitazioni dagli ultimi 60 anni - ha fatto calare invasi e bacini. Nei giorni scorsi la prima ordinanza a La Salle, dove il sindaco ha disposto il razionamento per l'acqua potabile per uso non domestico.

La battaglia dell'acqua

In Val d'Aosta la situazione è talmente difficile che ha detto "no" al Piemonte che chiedeva aiuto per evitare i danni all'agricoltura. Il governatore Erik Lavevaz è stato chiaro con il collega del Piemonte: "Con i nevai già sciolti come fossimo ad agosto e le temperature alte anche a 4 mila metri, ci troveremo tutti a dover fare i conti con una carenza idrica importante".

"La Val d'Aosta a rischio con i suoi ghiacciai, ma le risorse non bastano"

Dunque il Piemonte dovrà fare da solo. Ma questa è solo una parte della battaglia dell'acqua che sta nascendo tra i territori alle prese con la siccità. Perché vista la situazione di emergenza tendono tutti a trattenere per sé le risorse idriche in vista di mesi che rischiano di aggravare un quadro già drammatico. 

Un'altra battaglia dell'acqua si sta scatenando a Nord-est dove il Veneto aveva chiesto al Trentino di aumentare la portata del fiume Adige per irrigare i terreni agricoli

 In Toscana, dove si registrano livelli di allerta pari a quelli delle regioni del Nord  il governatore Eugenio Giani sta cercando di elaborare uno studio per varare una legge regionale per la realizzazione di nuovi bacini, invasi e punti di raccolta dell'acqua. Le zone più colpite sono la Maremma, l'isola d'Elba la Versilia e al Lunigiana. 

Non va meglio nel Lazio. Il governatore Nicola Zingaretti ha già dichiarato lo stato di calamità e ha scritto a tutti i sindaci della regione chiedendo di adottare provvedimenti preventivi per il risparmio idrico. 

In Sicilia si vive una siccità prolungata, secondo l'Anbi in Italia: il 70% della superfice della Sicilia presenta un rischio medio alto di desertificazione. Seguono il Molise (58%), la Puglia (57%), Basilicata (55%). In Sardegna invece il comitato istituzionale dell'Autorità di bacino dell'isola ha previsto, almeno per il  momento un'estate senza restrizioni - gli invasi sono ancora all'80% di un volume complessivo di 1.480 miliardi di metri cubi - ma oltre al problema dell'invasione di cavallette ormai arrivate fino ai centri abitati, resta alto il rischio di incendi in tutta la regione.

Decisive le prossime due settimane

Le prossime due settimane saranno cruciali per salvare l'agricoltura e i posti di lavoro in alcuni settori del turismo. Nel frattempo alla fine dell'incontro tra la Conferenza delle Regioni e il capo della Protezione civile solo un laconico comunicato "Sullo stato di emergenza nazionale ci stiamo confrontando con la Protezione civile, penso che su questo, arriveremo a una soluzione nella quale si individuino in modo puntuale i criteri per la dichiarazione dello stato di emergenza e soprattutto gli interventi che si possono fare. C'è totale sintonia tra Conferenza delle Regioni e Protezione civile", ha detto il presidente Fedriga. Intanto i sindaci chiudono i rubinetti. Da Nord a Sud.

Siccità, gli acquedotti in Italia perdono il 42% dell’acqua. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 24 Giugno 2022

La statistica elaborata dall’Istat: gli spechi corrispondono al fabbisogno di 44 milioni di abitanti. Ma la mappa è molto diversificata: Milano perde il 18%, Catania oltre il 54%. Nel 2019 - senza siccità - il razionamento scattò in 9 capoluoghi. 

Esiste una siccità indotta da eventi atmosferici difficili da prevedere e da governare; ed esiste un problema idrico indotto da scelte sbagliate o da negligenze che potevano essere evitate. La crisi dell’acqua che sta caratterizzando l’estate italiana 2022 è in parte anche una «crisi annunciata»: illuminanti, a questo proposito un report pubblicato dall’Istat secondo il quale ogni 10 litri d’acqua potabile immessi in rete, oltre 4 si perdono prima di arrivare ai rubinetti delle nostre case. Sprechi che, se eliminati, renderebbero meno sofferente la mancanza di pioggia che perdura dallo scorso inverno e che ci ha portati a un passo dalla dichiarazione dello stato di emergenza.

L’Italia, in base ai dati elaborati dall’istituto di statistica, risulta essere innanzitutto il Paese europeo che consuma più acqua, dopo la Grecia: il fabbisogno pro capite per noi è di 153 metri cubi all’anno, contro i 157 dei greci. Una classifica che vede gli altri Stati dell’Unione fortemente staccati: «La maggior parte degli Stati membri (20 paesi su 27) ha prelevato tra 45 e 90 metri cubi di acqua dolce per persona per l’approvvigionamento pubblico. Malta si contraddistingue per il volume più basso, solo 30 metri cubi annui a persona» scrive l’Istat. Diversi fattori incidono sui consumi: la domanda, le modalità di prelievo, il clima il tipo di attività agricole e industriali. Ma anche condizioni specifiche «tra queste il sistema delle infrastrutture e l’entità delle perdite nella rete idrica».

E questo è il punto nevralgico: l’Italia smarrisce per strada quai la metà delle sue risorse idriche. Qui i numeri forniti dall’Istat sono inequivocabili: « Nel 2018 sono immessi in rete 8,2 miliardi di metri cubi, a fronte dei 4,7 erogati per usi autorizzati. La percentuale di perdite idriche totali della rete nazionale di distribuzione dell’acqua potabile è del 42,0%: ogni 100 litri immessi nel sistema, ben 42 non sono consegnati agli utenti finali. Per le cattive condizioni dell’infrastruttura idrica si disperdono 3,4 miliardi di metri cubi: le perdite potrebbero garantire le esigenze idriche di circa 44 milioni di persone in un anno».

Se da un lato le perdite in rete sono in crescita dal 2008, la mappa degli «acquedotti colabrodo» è assai differente da zona a zona: prendendo in esame le città metropolitane, Milano spreca solo il 18% delle sue risorse idriche, Catania oltre il 54%. In assoluto i territori meno efficienti sono Frosinone e Latina, la prima addirittura spreca otto litri su dieci.

L’effetto di tale situazione è facile da immaginare: nel 2019 - dunque quando non si parlava di siccità - nove capoluoghi di provincia hanno dovuto fare ricorso provvedimenti di razionamento dell’acqua. Agrigento ha dovuto mantenere in vigore ordinanze restrittive per l’intera durata dell’anno, sospensioni a singhiozzo sono state patite dal 18% degli abitanti di Palermo, Cosenza e Reggio Calabria hanno dovuto fare ricorso all’erogazione a giorni alterni

La rete idrica è un colabrodo. Persi 40 litri ogni cento "Gravi ricadute ambientali". Francesco Giubilei il 24 Giugno 2022 su Il Giornale.

Impianti vecchi, contatori sbagliati e allacci abusivi. Il dossier Istat: "Importanti ripercussioni soprattutto per gli episodi di scarsità idrica". Il caso limite di Frosinone: gli sprechi al 78%

Per giustificare il rischio di una nuova emergenza idrica che si sta abbattendo sull'Italia, nelle ultime settimane si punta il dito contro l'assenza di precipitazioni e un inverno povero di nevicate che ha impedito l'accumulo di acqua sulle Alpi con un effetto domino. Si tratta senza dubbio delle principali motivazioni della situazione che stiamo vivendo ma c'è un aspetto altrettanto importante che non viene tenuto in doverosa considerazione e riguarda gli sprechi connessi alla rete idrica italiana. Tra scarsa manutenzione, tubature vecchie di decenni, burocrazia, una miriade di società deputate alle gestione dell'acqua, la nostra rete idrica è a tutti gli effetti un colabrodo. I dati Istat che prendono in considerazione gli anni dal 2019 al 2021 ci consegnano un quadro impietoso: «Oltre un terzo dell'acqua immessa nella rete di distribuzione va perduto. Nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi al giorno per km di rete nei capoluoghi di provincia/città metropolitana, il 36,2% dell'acqua immessa in rete». Una percentuale che sale al 40% secondo il «Blue Book» della Fondazione Utilitas, ciò significa che ogni 100 litri immessi nella rete di distribuzione, 40 sono persi e non arrivano ai rubinetti delle case.

Nonostante da anni l'Istat metta in guardia sul pericolo della dispersione idrica, la situazione continua ad essere critica e peggiora in assenza di precipitazioni: «Le perdite totali di rete hanno importanti ripercussioni ambientali, sociali ed economiche, soprattutto per gli episodi di scarsità idrica sempre più frequenti. Sono da attribuire a fattori fisiologici presenti in tutte le infrastrutture idriche, alla vetustà degli impianti, prevalente soprattutto in alcune aree del territorio, e a fattori amministrativi, riconducibili a errori di misura dei contatori e ad allacci abusivi, per una quota che si stima pari al 3% delle perdite».

Basti pensare che in più di un capoluogo su tre si registrano perdite superiori al 45% con una situazione particolarmente preoccupante nell'Italia centrale e meridionale dove la provincia di Frosinone è fanalino di coda con una dispersione pari al 77,8% secondo i dati del dossier «Acqua in rete» di Legambiente seguita da Latina al 70,3%. La cattiva gestione della rete idrica ha portato nel 2020 ben undici comuni capoluogo di provincia del Mezzogiorno ad adottare misure di razionamento nella distribuzione dell'acqua potabile disponendo la riduzione o sospensione dell'erogazione idrica.

Al tempo stesso, se è vero che il consumo giornaliero di acqua in Italia per ogni abitante è superiore alla media europea (236 litri contro 125), nel nostro paese gli investimenti in manutenzione delle infrastrutture è meno della metà che nel resto d'Europa (49 euro per abitante contro 100 euro in Europa) con un crollo a 8 euro per abitante al sud Italia. La Fondazione Utilitas punta il dito proprio sul gap Nord-Sud con grandi differenze tra le due aree del paese sia per la manutenzione della rete idrica sia per la gestione delle infrastrutture con il servizio idrico al Sud Italia gestito in prevalenza dalle amministrazioni locali.

Pensare che nel 2011 gli italiani hanno avuto l'occasione di cambiare le cose con il referendum sulla privatizzazione della rete idrica che è stato però presentato come un voto «sull'acqua pubblica». Così è prevalso un sentimento di scetticismo verso i privati nonostante gli enti pubblici si siano dimostrati incapaci di gestire la rete di distribuzione. Ora non resta che sperare i 4,4 miliardi previsti nel Pnnr per la tutela del territorio e della Risorsa idrica siano investiti correttamente per manutenzione e ammodernamenti anche se, ancora prima di partire, rischiano di essere insufficienti a fronte dell'immobilismo degli ultimi decenni.

Zappa sui piedi. Non si parla abbastanza dell’inefficienza della rete idrica italiana. Fabrizio Fasanella su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.

In Italia sprechiamo il 36,2% dell’acqua immessa nelle tubature, e il 60% delle infrastrutture è stato messo in posa più di 30 anni fa. Questi problemi risultano molto più evidenti durante la crisi climatica, ma c’è chi ancora si concentra solo sulla responsabilità individuale

Con l’attuale crisi idrica dovuta alle scarse precipitazioni e alle temperature sopra la media del periodo (tutte conseguenze della crisi climatica), sui social e sul web serpeggiano post, video e articoli ricchi di dritte – utili o meno – per non sprecare acqua nel quotidiano. Tra questi contenuti figura anche un’intervista sul Corriere della Sera al presidente onorario del Wwf, Fulco Pratesi, che ha ammesso di aver fatto la sua ultima doccia completa quando era giovane e giocava ancora a rugby e di cambiare le mutande «in maniera molto ecologica, ogni due-tre giorni, ma a volte di più». 

La responsabilità individuale è un tema importante e da non sottovalutare, tuttavia non deve trasformarsi in una retorica così ingombrante da oscurare alcune questioni cruciali, spesso dimenticate in un angolo remoto del panorama informativo italiano. Una di queste riguarda il pessimo stato della rete idrica italiana, che è un vero e proprio colabrodo: perde (tanta) acqua preziosa a causa dell’obsolescenza degli impianti, degli scarsi investimenti e di una manutenzione sporadica. Soprattutto nelle regioni del sud, come spiegheremo più avanti. E più acqua pubblica si spreca, più i prezzi salgono: secondo Cittadinazattiva, nel 2021 la bolletta media dell’acqua in Italia è risultata più cara del 2,6% rispetto al 2020. 

Obsolescenza, scarsa manutenzione e pochi investimenti 

Guardando le statistiche dell’Istat, notiamo che – nei capoluoghi di provincia/città metropolitana – nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi d’acqua per chilometro di rete idrica: parliamo del 36,2% dell’acqua immessa nel sistema. «In questo dato sono racchiuse le perdite reali, che derivano magari dai classici fori, e quelle apparenti, dette anche amministrative. Queste ultime non sono connesse a una perdita fisica di volume d’acqua, ma in termini economici danno origine a sprechi di risorse. Parliamo, per esempio, di volumi non quantificati in modo corretto per errori di misura da parte dei contatori», ci spiega Domenico Pianese, professore di Costruzioni idrauliche e marittime e idrologia all’Università degli Studi di Napoli Federico II. 

Quell’inquietante 36,2% è la conseguenza del pessimo stato del nostro sistema idrico, anche in questo caso confermato da numeri emblematici. Stando al report sul servizio idrico di Cittadinanzattiva, il 60% delle infrastrutture (il 70% nei centri urbani) è stato messo in posa più di 30 anni fa, e il 25% (40% nei centri urbani) supera i 50 anni di età: «Considerando che la vita utile di una struttura idrica è di 50 anni, stiamo parlando di condotte non giovani», afferma Maurizio Giugni, Commissario straordinario unico per la depurazione. Come se non bastasse, sottolinea il professor Pianese, in Italia «non si realizzano nuove opere che possono far convogliare le acque verso i destinatari finali». 

Il 13 giugno il ministero per le Infrastrutture ha annunciato di aver ricevuto 119 proposte di interventi per aumentare l’efficienza delle reti idriche italiane. Questi progetti rientrano tra le opere del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), che per questo ambito prevede investimenti complessivi di 900 milioni di euro, con una prima tranche da 630 milioni. In generale, per raggiungere l’obiettivo della “Garanzia della sicurezza dell’approvvigionamento e gestione sostenibile ed efficiente delle risorse idriche lungo l’intero ciclo”, il Pnrr stanzierà un totale di 4,38 miliardi. Risorse importanti, ma probabilmente insufficienti, per provare a compensare un ritardo infrastrutturale dovuto (anche) a una grave carenza di investimenti e interventi manutentivi. 

«Per ridurre le perdite d’acqua si può intervenire anche senza rifare le condotte, sfruttando tecniche innovative. Ma quando il sistema invecchia, c’è poco da fare. Serve una manutenzione programmata, e questo comporta degli investimenti», sottolinea Giugni. Negli ultimi anni, specifica Cittadinanzattiva, in questo settore gli operatori industriali hanno investito 44 euro annui per abitante. Da una parte c’è stato un incremento del 30% rispetto a sette anni fa. Dall’altra, però, bisognerebbe salire ad almeno 80 euro per rimanere in linea con gli standard europei. 

Il “water service divide”

Parlando di qualità del sistema idrico, si evidenzia un netto divario tra nord e sud. Anche dal punto di vista della manutenzione ordinaria, straordinaria e preventiva (per evitare problemi durante l’esercizio del sistema).

«Il parametro delle perdite va a incrementarsi quando ci spostiamo verso sud. I dati peggiori si notano in Sicilia, in Calabria e in parte in Campania, che sta però recuperando il terreno perduto. In questi territori il servizio idrico integrato è molto articolato, e manca un gestore affidabile che faccia manutenzione sulle parti più vecchie. La stragrande maggioranza di interventi, i due terzi, dovrebbe avvenire in Sicilia, e gli altri in Calabria e Campania», ci spiega Giugni, che ha ricordato l’importanza di colmare il cosiddetto “water service divide”.

Mentre nelle Regioni del nord-est e del nord-ovest viene disperso (e quindi sprecato) rispettivamente il 38,9% e il 32,2% dell’acqua immessa nella rete idrica, nel resto l’Italia la situazione è decisamente più drammatica: 49,4% al centro e 51,3% nel sud e nelle isole. «In Italia, gli investimenti nel sistema idrico sono decisamente aumentati negli ultimi dieci anni, toccando anche i 49 euro per abitante ogni anno. Questo dato, però, scende a 35 per abitante ogni anno nel mezzogiorno», aggiunge Giugni. Nel 2018, sempre secondo Cittadinanzattiva, in Abruzzo c’era una dispersione idrica del 55,6% e in Basilicata del 45,1%, in Lazio del 53,1% e in Sardegna del 51,2%, contro il 22,1% della Valle d’Aosta, il 29,8% della Lombardia e il 31,2% in Emilia-Romagna. 

«C’è una scarsa percezione delle reti idriche, perché la stragrande maggioranza dei manufatti è sotto terra, chi non lavora nel settore non sa esattamente di cosa parla», ricorda il professor Giugni. In Italia, ormai da anni, c’è una sottovalutazione sistematica dei problemi a livello di rete idrica e di approvvigionamento idrico: due temi che dovrebbero essere prioritari, ma che hanno spesso occupato le posizioni finali della “to do list” di governi e amministratori locali. Il risultato? La siccità e le temperature attuali stanno avendo conseguenze molto più traumatiche del previsto, e diverse Regioni rischiano il razionamento dell’acqua. 

Grazia Longo per “la Stampa” il 24 giugno 2022.

La Coldiretti lancia l'allarme incendi: l'Italia brucia con i roghi triplicati nell'ultimo anno rispetto alla media storica, più di un rogo ogni due giorni dall'inizio del 2022 in un'estate che arriva dopo una primavera che si è classificata come la sesta più calda di sempre sul pianeta. Questa la fotografia offerta dalle elaborazioni Coldiretti su dati Effis (l'European forest fire information system) in riferimento all'ultima ondata di caldo con temperature oltre i 40 gradi portate dall'anticiclone Caronte sull'Italia dove si moltiplicano i roghi dalla Liguria alla Sardegna, dalla Toscana alla Puglia.

Le Regioni sono in allerta: l'Emilia Romagna farà scattare, da sabato al primo luglio, lo «stato di grave emergenza» per rischio incendi boschivi in cinque province, col divieto assoluto di accendere fuochi, mentre la Protezione civile regionale alza il livello di allerta in Sicilia. 

Oltre a fare i conti con la grave siccità, è emerso durante l'incontro tra i presidenti di Regione e il capo dipartimento della Protezione civile Fabrizio Curcio, il rischio è andare incontro a un'estate segnata dagli incendi.

«Le alte temperature e l'assenza di precipitazioni - sottolinea Coldiretti - hanno inaridito i terreni nelle aree più esposte al divampare delle fiamme. Una situazione drammatica spinta dal cambiamento climatico che favorisce incendi più frequenti e intensi, con un aumento globale di quelli estremi fino al 14% entro il 2030 e del 50% entro la fine del secolo secondo l'Onu. Una situazione devastante con un 2021 che in Italia ha visto ben 150 mila ettari di territorio da nord a sud del Paese inceneriti da 659 tempeste di fuoco».

E anche i vigili del fuoco rimarcano il problema, nonostante al momento non sia ancora esplosa l'emergenza: nella prima settimana della campagna antincendi, iniziata lo scorso 15 giugno, sono 4 mila i roghi domati contro i 4.400 dello stesso periodo di un anno fa. Ma il timore è che sia solo questione di giorni: a breve, considerato che non è prevista pioggia, la situazione potrebbe peggiorare drasticamente perché con la siccità diffusa le fiamme si propagano molto più rapidamente ed è più difficile domarle.

Il prefetto Laura Lega, capo dipartimento Vigili del fuoco, Soccorso pubblico e Difesa civile osserva: «L'azione di prevenzione e contrasto degli incendi di vegetazione è una priorità per il Paese. Ogni anno creano un danno ambientale ed economico enorme, un fenomeno in crescita esponenziale. L'impegno del Dipartimento è massimo, con il rafforzamento del sistema d'intervento, grazie all'intensificazione dell'uso dei droni, all'apertura dei presidi rurali, che forniranno una risorsa e un ulteriore dispiegamento di mezzi a disposizione, e con il complessivo potenziamento delle risorse a disposizione».

 Importante, inoltre, è che i cittadini adottino atteggiamenti responsabili contro il rischio incendi. Per questo i Vigili del fuoco hanno realizzato un Vademecum insieme ad Anci, favorendone la diffusione in tutti i Comuni. 

E sulla collaborazione con l'Anci insiste anche la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese: «Quella degli incendi boschivi è una questione di assoluta rilevanza, non dimentichiamo i morti dell'anno scorso in Calabria, Sicilia, Basilicata. C'è bisogno di fare squadra anche con la protezione civile e con i Comuni, la prevenzione è prioritaria». 

Il «fare squadra» peraltro è un imperativo categorico anche per i Vigili del fuoco: durante il periodo estivo, per fronteggiare l'emergenza incendi, intensificano i turni dei pompieri per aiutare i Comuni con maggiore difficoltà. L'organico è di 30 mila Vigili del fuoco operativi (hanno una carenza d'organico di 3 mila unità) e ogni giorno sono in servizio circa 5 mila uomini. Ma per aiutare laddove è più necessario crescono fino a oltre 7 mila al giorno.

Ogni anno, in determinati periodi, le Regioni dichiarano lo stato di grave pericolosità per gli incendi boschivi, emanando specifiche norme di protezione, rinforzando le attività di contrasto: prima di questi periodi sarebbe opportuno aver già effettuato la valutazione del rischio per le proprie abitazioni e intrapreso le misure più idonee per contenere o eliminare i possibili danni causati dall'incendio di vegetazione. L'opuscolo è destinato a tutti coloro che vogliono valutare la sicurezza della propria abitazione rispetto agli incendi.

Crisi siccità, gli agricoltori si rubano l'acqua: il dramma nel pavese. Federico Garau il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.

Si parla di danni per oltre 2 miliardi di euro: il presidente Fontana potrebbe richiedere presto lo stato di calamità.

La grave crisi idrica che sta vivendo l'intera area del Po a causa del prolungato periodo di siccità sta portando al verificarsi di episodi particolarmente spiacevoli. A subire maggiormente gli effetti di tale situazione sono soprattutto gli agricoltori, i quali tentano in ogni modo di salvare i propri raccolti per non subire un irreversibile tracollo economico.

Un esempio di ciò che sta accadendo arriva dalla provincia di Pavia, uno dei centri di produzione di riso più importanti d'Europa. Si parla di una vera e propria "guerra dell'acqua", con gli agricoltori disposti a sottrarsela pur di non correre il rischio di perdere l'unica fonte di guadagno e quindi di dover chiudere la propria azienda. Durante la notte, coloro i quali si trovano a monte prelevano l'acqua dai canali tramite idrovore, mettendo quindi in gravissima difficoltà quanti invece operano più a valle.

Il caso di Bereguardo

Nelle ultime ore, come riportato da Ansa, un agricoltore 43enne di Bereguardo (Pavia) è stato denunciato dai carabinieri proprio per aver effettuato un'operazione del genere con lo scopo di portare una maggior quantità di acqua nel canale d'irrigazione che alimenta la propria azienda. La manomissione di una delle paratie del naviglio di Bereguardo aveva portato un'ulteriore penuria di risorse idriche agli agricoltori più a valle. Gli uomini dell'Arma sono intervenuti prontamente, grazie a una denuncia inoltrata dal Consorzio di bonifica Est Ticino Villoresi, ripristinando le condizioni iniziali e ponendo quindi un lucchetto alla paratia. Tutto inutile, dato che il 43enne ha forzato la chiusura per sottrarre altra acqua, costringendo il Consorzio a chiedere un nuovo intervento alle forze dell'ordine. In attesa di chiarire l'entità del furto d'acqua, l'uomo è stato denunciato per appropriazione indebita e danneggiamento.

La crisi

Coldiretti Pavia denuncia una "situazione apocalittica": si parla di danni per oltre 2 miliardi di euro e, ciò che è peggio, del rischio concreto di "non avere il risotto l'anno prossimo", una situazione che costringerebbe a importare il bene affrontando spese superiori per approvvigionarsi di un cereale di qualità inferiore.

"Enti preposti, attivatevi, fate qualcosa per salvare i raccolti, siamo in ginocchio", chiede tramite una disperata delibera il sindaco di Robbio Roberto Francese, "l'ultima acqua disponibile per provare a salvare il salvabile è quella accumulata nei serbatoi idroelettrici". L'appello del primo cittadino è dunque finalizzato a ottenere l'apertura delle dighe, ma una soluzione del genere non trova accordo tra i tecnici di settore, che paiono più orientati a realizzare bacini di accumulo dell'acqua.

Le piogge delle scorse ore non sono state sufficienti, né hanno sortito al momento effetto i gruppi di preghiera organizzati dai sacerdoti della zona. Fabio Rolfi, assessore regionale all'Agricoltura, ha fatto appello al governo per "indirizzare verso l'innovazione in campo irriguo i fondi del Pnrr dedicati alla meccanizzazione agricola, 500 milioni per razionalizzare le risorse ed efficientare l'uso dell'acqua". Prende sempre più corpo, nel frattempo, la possibilità che il presidente della regione Lombardia Attilio Fontana richieda lo stato di calamità.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 21 giugno 2022.

Una società italiana, anzi romana la Webuild, come dal 2020 si chiama il gruppo Salini Impregilo ha risolto il problema della mancanza di acqua. Non in Italia, ma in Tagikistan nell'Asia centrale, costruendo la diga più alta del mondo per imbrigliare le risorse dei fiumi Amu Darya e Syr Darya. A Las Vegas dove sempre più scarsa arriva l'acqua del Colorado la stessa società ha realizzato un tunnel idraulico di 30 chilometri che parte dal Lake Mead.

Due soluzioni locali con know how italiano - a un problema globale. La siccità è, infatti, un fenomeno drammatico che secondo l'Onu - vede 2 miliardi di persone a rischio entro il 2025, causato in primo luogo dal surriscaldamento del pianeta. Ma le soluzioni vanno adottate localmente. L'esempio più lungimirante è quello di Israele che ha affrontato il problema sia dal punto di vista legislativo che tecnologico. 

«In Israele l'acqua è un bene pubblico - afferma Yacov Tsur, della Hebrew University di Gerusalemme - non può essere dei privati, è interamente posseduta e gestita dallo Stato, che ne decide il prezzo. L'acqua non può essere soggetta alle dinamiche di mercato». Le esperienze israeliane sono l'oggetto della stretta collaborazione in atto tra Confagricoltura e le autorità di Tel Aviv.

Nel Paese, in gran parte desertico, l'innovazione tecnologica ha permesso di risparmiare acqua con gli impianti goccia a goccia per l'agricoltura, mentre per gli usi domestici e industrialo si ricorre alla desalinizzazione dell'acqua del mare che oggi copre il 60% dei consumi. Nel mondo 17 mila impianti di desalinizzazione danno acqua a 300 milioni di persone. In Sardegna è da poco attivo l'impianto di Sarroch, vicino Cagliari, capace di fornire 12 mila metri cubi di acqua dolce al giorno (con un investimento di 22 milioni di euro).

Altro sistema che si sta rivelando valido è la creazione di acqua dall'aria, sfruttando le turbine eoliche che spingono l'area verso uno scambiatore di calore che la raffredda, recuperando le gocce di umidità (non tanto diverso da ciò che avviene con i condizionatori d'aria di casa). Nelle campagne israeliane si recupera pure il 50% di acqua delle città. «E' come se un litro d'acqua ad uso domestico spiega Tsur - valesse in realtà un litro e mezzo, perché la metà di quell'acqua viene riutilizzata negli impianti di irrigazione».

Detto così - Recycled Wastewater nulla di inquietante, se non fosse per le lobby private che gestiscono alcuni impianti nel mondo che parlano invece di Poop-Water (acqua dalla cacca) per dissuadere gli interventi pubblici. Il riutilizzo dell'acqua di scarto civile per uso industriale e agricolo è comunque un altro obiettivo primario. Altrettanto urgente, in Italia, la criticità delle reti colabrodo a tutti nota ma sempre sottovalutata: il 37,3% dell'acqua degli acquedotti va dispersa (fonte Istat).

Altri studi parlano di 41,3 litri persi ogni 100 distribuiti con punte in alcune zone del sud e in Sicilia del 70%. La colpa è degli impianti vecchi, delle frequenti rotture di tubature e tema sottovalutato degli stress ai contatori che vanno in tilt per i troppi allacci abusivi alla rete. Grazie al Pnrr sono già disponibili 800 milioni di euro, gran parte dei quali serviranno ad ammodernare le reti. «Poca cosa denuncia il presidente di Cia Agricoltori Italiani Cristiano Fini perché in Italia stiamo pagando 20 anni di ritardi».

 Una delle idee del mondo agricolo è la bacinizzazione del Po, con tanti piccoli invasi per contenere l'acqua e gestirla nei momenti di siccità. «Si fa nel Nord Europa dice Fini il Belgio è un esempio virtuoso». Laghetti utili in tutte le regioni. «Da 30 anni denuncia Remo Parenti, presidente di Confagricoltura Viterbo ne sento parlare senza che accada nulla. Eviterebbero di far perdere l'acqua piovana, già scarsa».

Non è insomma più tempo di progettare un nuovo acquedotto romano l'Aqua Appia è del 312 a.C. ma almeno di buon senso. Quello che manca a molti di noi: l'Italia ha il record europeo di maggiore consumatore di acqua (419 litri al giorno per abitante, superiore del 66% alla media mondiale). Avere comportamenti responsabili nell'uso (e abuso) dell'oro blu è sicuramente un dovere civico, non aiutato probabilmente dal costo del metro cubo di acqua: in Italia circa 2 euro, contro i 5 della Germania e i 6 della Francia.

Riccardo Bruno per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.

Non c'è scampo per chi vuole sfuggire al caldo. Sabato scorso, alle due del pomeriggio, sul Col Major, poco sotto la vetta del Monte Bianco, la colonnina è salita a 10,4 gradi.

Considerando che eravamo a quota 4.750 metri, è facile capire la portata dell'ondata bollente che sta investendo tutta l'Italia e non solo. 

Il dato più allarmante è che ormai da diverse settimane le temperature rimangono sopra la media e in più arrivano dopo un inverno mite e poco piovoso, soprattutto al Nord. Il risultato è una condizione di siccità che si trascina da mesi e fa temere il peggio.

Razionamenti

Per questo le Regioni hanno rotto gli indugi e si stanno muovendo rapidamente, intanto per chiedere lo stato di emergenza (il Lazio ha annunciato che domani decreterà quello di calamità), ma anche per uniformare le decisioni su tutto il proprio territorio. 

Le ipotesi a cui si sta lavorando riguardano nell'immediato la riduzione dello spreco, con il razionamento fino allo stop dell'erogazione durante la notte, dando priorità all'uso per fabbisogni primari (ad esempio vietando di riempire le piscine).

Sono provvedimenti che già in molti Comuni sono stati presi. Almeno in una decina in Piemonte, dove da giorni si ricorre alle autobotti e alle chiusure notturne della distribuzione. E ancora nelle province di Savona e di Imperia, o a Tesimo, in Alto Adige, dove il sindaco ha disposto che l'acqua si possa «usare per bere e fare la doccia» ma non per innaffiare i giardini. 

Laghi e il Po

La situazione è particolarmente difficile in circa 145 centri del Novarese e dell'Ossolano, ma anche in provincia di Bergamo e nell'Appennino Parmense. E lungo tutta la Pianura Padana. «Il Po è un rigagnolo, quelli che venivano chiamati fiumi ora li chiamo torrenti» è l'amara considerazione di Alessandro Folli, presidente lombardo dell'Anbi (l'Associazione nazionale bonifiche irrigazioni e miglioramenti fondiari). Sul Delta, il cuneo salino (l'acqua del mare che risale lungo il fiume) è arrivato a raggiungere i 21 chilometri. 

A Pontelagoscuro, nel Ferrarese, la portata è scesa a 180 metri cubi al secondo, cifra più consona a un piccolo corso d'acqua che non al Grande fiume. I laghi del Nord Italia non stanno meglio: quello Maggiore ha un riempimento al 20%, quello di Como al 18% con un livello di meno 9 centimetri rispetto allo zero idrometrico.

Non è ancora in emergenza il lago di Garda, con un riempimento al 60%, mentre il lago di Bracciano, nel Lazio, è a meno 25 centimetri rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso.

Desertificazione L'ultimo bollettino dell'Osservatorio siccità del Cnr, pubblicato il 10 giugno, mostra gli effetti soprattutto sul settore agricolo, con oltre il 40% dei terreni irrigui interessato da siccità severa o estrema nel medio e lungo periodo (ultimi sei mesi/un anno). Con una fascia di popolazione esposta a queste condizioni limite che è raddoppiata passando dal 14 al 30%. 

Proprio sabato scorso, Copernicus, il servizio dell'Unione europea che effettua il monitoraggio del territorio, ha rilevato in Sardegna il record della temperatura del suolo con ben 51 gradi. 

Mentre l'Ispra (l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale) avverte su un altro rischio, quello della desertificazione. «Interessa già un quarto del suolo italiano, ma la situazione può peggiorare a causa della siccità, soprattutto se persiste» ha spiegato Francesca Assennato, coordinatrice dell'Area monitoraggio integrato suolo e territorio dell'istituto.

Altra conseguenza non trascurabile sono gli incendi, triplicati dall'inizio dell'anno rispetto alla media storica secondo uno studio della Coldiretti. 

La guerra dell'acqua

L'acqua è poca, e chi ne ha un po' di più se la tiene stretta. Appena è stata ventilata l'ipotesi di aiutare il Po ricorrendo al Garda, la Comunità del lago, presieduta dalla ministra Mariastella Gelmini, ha subito protestato. Netto rifiuto anche del presidente della Regione Valle d'Aosta, Erik Lavévaz, alla richiesta del collega piemontese Alberto Cirio ha risposto che «anche noi abbiamo gravi criticità».

Le previsioni

Il meteo delle prossime settimane non incoraggia. Isolati temporali, anche a partire da oggi, soprattutto sull'arco alpino, non cambieranno il quadro generale. «Al momento, per i prossimi 10-15 giorni, non sono previste variazioni significative - spiega Mattia Gussoni, meteorologo del sito iLMeteo.it -. Perdurerà la presenza dell'anticiclone africano che staziona di fatto da inizio maggio, con temperature fino a 6/7 gradi oltre le medie climatiche di riferimento; questo si tradurrà verosimilmente in nuove ondate di caldo con punte massime verso i 38-40 gradi sulle pianure del Nord, nelle zone interne della Puglia e delle due isole maggiori».

Non si può ancora prevedere con certezza cosa accadrà dopo, ma meglio non contare troppo sul clima. Aggiunge il meteorologo: «La tendenza a livello europeo è che la situazione rimanga immutata, anche a luglio e agosto con valori sopra la media del periodo».

Dal Nord al Sud, i problemi dell'Italia senz'acqua Regione per Regione. Redazione Tgcom24 il 21 giugno 2022. 

Un inverno con poche precipitazioni e piogge scarse da settimane: la combinazione micidiale sta mettendo a dura prova il nostro Paese, tra fiumi in secca, campagne assetate e raccolti a rischio. E così, tutte le Regioni si stanno confrontando con la siccità. Emilia Romagna verso lo stato d'emergenza. Ecco la mappa dei disagi, da Nord a Sud.  

Tra le Regioni più colpite c'è il Piemonte: in oltre 200 Comuni l'acqua è razionata. Gli invasi sono al loro minimo storico, con una riduzione media tra il 40 e il 50%. Il Lago Maggiore ha perso un metro in tre giorni: il livello è passato da 193,89 metri a 192,83. Le acque del Po non sono mai state così basse da 70 anni.

In Valle d'Aosta i nevai sono già sciolti come accade normalmente ad agosto, e la portata della Dora Baltea è quasi dimezzata rispetto a un anno fa: solo 135 metri cubi al secondo a fronte dei 243 di allora. L'acqua conservata nel manto nevoso rispetto alla media storia è in calo del 40-50% (il dato peggiore dal 2002). 

In Veneto, è nella provincia di Verona che si fa sentire maggiormente l'emergenza: 40 Comuni hanno adottato il razionamento idrico. Anche qui il Po mostra segni di sofferenza e l'Adige e il Piave sono ai livelli negativi di guardia. Precipitazioni inferiori del 40% rispetto al 2021.

I problemi principali in Lombardia riguardano l'agricoltura, con stime di danni per due miliardi di euro. La Regione invita i cittadini a consumare l'acqua con moderazione. "Per ora la situazione della Lombardia è sotto controllo", assicura il presidente Attilio Fontana.

Critica ma non allarmante la situazione in Liguria, che fornisce infatti acqua all'Emilia per l'agricoltura. Se nel 2021 la portata degli invasi in questo periodo era di circa 36 milioni di metri cubi, oggi siamo a 28.5. La situazione più difficile è nella zona di Imperia, con 13 Comuni che hanno ordinanze restrittive. 

Primi razionamenti d'acqua, in Friuli Venezia Giulia, lungo il fiume Meduna. La situazione resta di emergenza, con le riserve d'acqua che si stanno prosciugando. 

In Trentino Alto Adige, la portata del fiume Adige è più bassa del 24% rispetto alla media. Nel Comune di Ronzo-Chienis è stata sospesa la fornitura di acqua alla popolazione tra le 23 e le 6. 

L' Emilia Romagna va verso lo stato d'emergenza. Il caldo record, con temperature più altre di 3 gradi rispetto alla media, e le precipitazioni inferiori del 62%, hanno messo in ginocchio la Regione, con acqua quasi del tutto assente nei terreni e agricoltura particolarmente in sofferenza. Primi stop per la produzione idroelettrica. Desta preoccupazione la risalita del cuneo salino, arrivata 21 km dalla foce del Po. Misure emergenziali per l'acquedotto di Ferrara.

Le piogge scarse sono insufficienti in Toscana a ricaricare le falde sotterranee che alimentano i pozzi, specie sulla costa, ma non si registrano situazioni di grave crisi idrica. 

La portata dei fiumi è ai minimi storici nelle Marche per la carenza di precipitazioni, -53% rispetto alla media degli ultimi dieci anni. Osservati speciali i fiumi Esino e Misa, Metauro e Chienti.

Primi problemi per l'agricoltura anche in Abruzzo, con una riduzione di produzione delle coltivazioni in campo come il grano di almeno il 15%, secondo Coldiretti. 

In Molise la situazione è tranquilla, con il livello dell'acqua all'invaso della diga del Liscione (116 metri) che è di un metro superiore a quello dell'anno scorso. Qualche sofferenza si registra alle colture cerealicole sulla fascia costiera. 

Zingaretti ha annunciato in Lazio lo stato di calamità naturale. Servirà ad adottare misure di risparmio idrico anche a Roma. La situazione più grave è nel Viterbese. Soffrono Tevere e Lago di Bracciano: il fiume ha un calo di portata preoccupante, il lago è a -107 centimetri, considerato un livello critico. 

E' sceso di tre centimetri il livello del lago Trasimeno e di sei quello del fiume Tevere in soli 4 giorni in Umbria: il Trasimeno ha perso un metro e 23 centimetri all'isola Polvese, mentre il livello del Tevere è di un metro e 12 centimetri (anziché tra i 4,50 e i 5,70). 

In Campania i livelli dei fiumi scendono ma gli invasi per ora non sono sotto il livello di guardia: quello della diga di Piano della Rocca sul fiume Alento contiene il 64% della sua capacità.

Nessuna emergenza per ora in Basilicata: negli invasi lcuani ci sono circa 408 milioni e 300mila metri cubi di acqua.

Scattata in Puglia la fase di pre-allarme. Grazie alle piogge invernale negli invasi la situazione è simile o in alcuni casi migliore dell'estate scorsa. i timori riguardano il settore agricolo.

In Calabria i timori riguardano soprattutto la coltura delle olive. L'aumento delle temperature mette a repentaglio la produzione di fiori e frutti, con una media del danno che si attesta al 10%, oltre il 60% sulla costa jonica.

Nelle 25 dighe su tutto il territorio della Sicilia l'acqua supera i livelli dell'anno scorso con volumi d'acqua pari a 572,85 milioni di metri a fronte dei 477,09 del 2021. Ma l'Isola resta la Regione italiana con maggior rischio di desertificazione, di valore medio-alto, pari al 70%.

Nonostante il calo delle precipitazioni, in Sardegna, con punte del -30% da metà dicembre a marzo, la siccità non fa paura: grazie a un maggiore accumulo dovuto alle scorte, nelle dighe è presente l'80% dell'acqua invasabile. 

Po mai così secco da 80 anni. L’allarme di Coldiretti: rischiamo di non avere il riso in tavola. Davide Maniaci  su Il Corriere della Sera il 18 giugno 2022.

Il livello idrometrico del fiume Po al Ponte della Becca, presso Pavia, è sceso a -3,7 metri. Ricorso alle autobotti, razionamenti e misure restrittive anche per innaffiare orti e giardini. Situazione tragica per le risaie

«Risotto amaro» è un termine ormai abusato dai media, ma rimane efficace: l’ambientazione è sempre quella delle risaie, e in questo periodo il titolo del film col Silvana Mangano viene declinato in modo ancora più tragico. Perché di acqua nei campi non ce n’è più, e l’anno prossimo rischiamo seriamente di non avere più il risotto in tavola. Oppure di pagarlo il doppio usando materia prima estera, più cara ma di qualità inferiore. Alcuni anziani nei paesi stanno già facendo le provviste, comprando chili e chili di riso al supermercato o dalle scorte dei produttori «perché poi costerà il triplo».

La situazione drammatica dell’agricoltura italiana, nel «cuore europeo del riso» – il Pavese – è testimoniata dai dati. Le previsioni del tempo dicono sole, sole, sole, neanche una nuvola. Neanche un rovescio. Il livello del Po non è mai stato così basso a memoria d’uomo, da almeno 80 anni: senza pioggia, tutto è destinato a peggiorare ancora. Il livello idrometrico del fiume Po al Ponte della Becca, presso Pavia, è sceso a -3,7 metri. Lo scorso anno nello stesso periodo era un metro più alto. I dati sono di Coldiretti. In sofferenza anche i grandi laghi, come il Maggiore, sceso al minimo storico con on un grado di riempimento del 22%, mentre quello di Como è al 25%. Una situazione «drammatica», secondo Coldiretti, in un 2022 segnato fino ad ora da precipitazioni praticamente dimezzate, con la mancanza di pioggia che in alcune zone dura da quasi tre mesi con il ricorso alle autobotti, razionamenti e misure restrittive anche per innaffiare orti e giardini. Alcuni Comuni dell’Oltrepò pavese stanno razionando l’acqua.

Ma se non piove, e non pioverà a giugno probabilmente, finirà anche la poca che rimane. «Non ha nevicato d’inverno, non c’è stato un accumulo sulle montagne e in alcune zone non piove seriamente da inizio dicembre: la falda acquifera è talmente bassa – è l’analisi apocalittica di Stefano Greppi, presidente di Coldiretti Pavia – che ormai non si può attingere nemmeno da lì. Si parla di danni pari a due miliardi di euro, in Italia. Nella nostra zona c’è il rischio di perdere l’intero raccolto: proprio giugno è il periodo in cui c’è maggiore necessità di acqua per i campi, e nemmeno tramite le turnazioni si riesce a permettere un’adeguata irrigazione non solo del riso, ma anche del mais». Se manca l’acqua davvero non si può fare niente: alcuni sacerdoti di campagna stanno improvvisando «danze della pioggia», ma probabilmente nemmeno loro pensano davvero che sia utile. Viene fatto, e basta, come sorta di «rito» per riunire i fedeli e forse farli pensare ad altro. «Deve piovere, non c’è un piano B – prosegue Greppi – e certo aprire le dighe in montagna (come sento proporre) sarebbe una misura palliativa che aiuterebbe solo per alcuni giorni. Il futuro prossimo rischia di vedere l’importazione di prodotti meno buoni e “curati” dall’estero, spendendo di più».

Ne risentirà anche l’allevamento: alcuni lavoratori saranno costretti a scegliere se nutrire gli animali a peso d’oro, acquistando il mais carissimo da chissà dove, o se abbatterli. Molte aziende agricole chiuderanno: i costi di produzione sono aumentati anche del 300 per cento nei mesi scorsi per via dei rincari delle materie prime, e ci sono imprenditori che hanno già speso e non avranno alcun ritorno economico. Per questo fissando il Po ridotto ormai a rigagnolo, con la ghiaia infinita dove un tempo scorrevano le acque, e osservando con sgomento il caldo, un caldo afoso e atroce col cielo azzurrissimo senza nuvole, c’è davvero da aver paura.

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 17 giugno 2022. 

Eccolo: il futuro è adesso. Acqua razionata in 125 Comuni della Valle del Po. Acqua a ore alterne. Acqua contesa. Perché manca l'acqua e potrebbe non bastare per l'estate. «In alcune zone non piove da 110 giorni consecutivi, non è caduta neppure una goccia in tutto questo tempo. In diversi paesi già sono in azione le autobotti per l'approvvigionamento» dice Meuccio Berselli, segretario generale dell'Autorità distrettuale del Po. E quindi: bisogna andare a prendere l'acqua da bere con le taniche e con le bottiglie, in quei comuni. Come dopo i terremoti. Come dopo le sciagure.

Il Grande Fiume sta patendo la peggiore secca degli ultimi settant' anni. È tutto collegato: pochissima neve sulle montagne d'inverno, niente rifornimento agli affluenti durante il disgelo, falde prosciugate, agricoltura a rischio, acquedotti in crisi. Soffre la natura, soffrono le bestie. Adesso tocca agli esseri umani, alle donne, agli uomini e ai bambini della Valle del Po: dei 125 comuni colpiti dal provvedimento, 100 sono piemontesi e 25 lombardi. Ma l'arsura si sta allargando a tutto il Nord Italia, verso est: nel ferrarese è stato chiesto di usare meno acqua possibile. Solo un invito, per il momento. Ma tutti sanno che questa del 2022 rischia di essere un'estate senza precedenti.

Manca l'acqua. È un fatto algebrico. Concreto. Sta mancando adesso. Il primo ad accorgersene era stato il comune di Palazzo Canavese, 850 abitanti vicini al Lago di Viverone. La decisione fu presa all'inizio di maggio: chiudere i rubinetti dalle 23 alle 6 di mattina. E cioè: niente doccia, niente caffè, niente irrigazione degli orti, niente acqua per cuocere un piatto di spaghetti. «Abbiamo iniziato molto presto a razionare l'acqua e siamo stati anche criticati per questa scelta», spiega la vice sindaca Amanda Prelle.

«Ma la nostra acqua è sorgiva. Arriva per caduta della serra morenica. Per colpa di questa fortissima siccità che va avanti dall'autunno, le falde si sono quasi prosciugate. Quindi per garantire un servizio efficiente durante il giorno, abbiamo dovuto chiudere durante la notte. Qualcuno è venuto a protestare, non sempre in modo costruttivo. Ma dobbiamo fare i conti con la realtà. L'acqua è un bene primario. Le nostre scelte sono importantissime. In un momento come questo dobbiamo accettare un prato ingiallito e fare a meno di riempire le piscine».

Torino è il centro esatto del disastro in corso: giornate con 35 gradi e vento caldo stanno asciugando le ultime gocce d'acqua rimaste nel suolo. Dal primo dicembre a oggi è caduta un quarto della pioggia attesa. È stato il semestre più siccitoso dal 1817. Ognuno può vederlo da sé, e mentre lo guarda l'arsura si è già estesa.

Il livello del Lago Maggiore è 20 centimetri sotto lo zero idrometrico, record assoluto. Nel 2022 in Lombardia si è registrata una riduzione delle precipitazioni del 59%, con conseguente contrazione delle produzioni idroelettriche del 32%. Manca l'acqua anche per raffreddare gli impianti che producono energia, il che li rende inutilizzabili. Nelle campagne della Toscana soffrono le coltivazioni di girasole, mais e grano.

La frutta si stacca prematuramente dalle piante. «Manca l'acqua per l'irrigazione» dice il presidente di Coldiretti Toscana, Fabrizio Filippi. È una catena di conseguenze. Le Alpi senza il bianco della neve: le montagne brulle. L'università di Basilea ha appena documentato la lenta e inesorabile estinzione dei ghiacciai su tutto l'arco alpino. Su quello della Marmolada le anomalie di accumulo sono pari al 50%. La neve caduta sul Gran Paradiso non era mai stata così poca da quando sono incominciate le misurazioni.

E per chi pensasse che questo Nord italiano possa essere un futuro circoscritto, ecco le cronache di questi giorni dalla California, dal Nevada e dall'Arizona negli Stati Uniti: record di 49 gradi nella Death Valley, a Las Vegas 42 gradi, stress elettrico, problemi con i condizionatori, limiti e regole sul consumo, incendi su larga scala, malori e morti, inviti a stare in casa rivolti alla popolazione. Vietato uscire per il troppo caldo.

Il Po è stato prosciugato dal clima e dal federalismo. DARIO BALOTTA su Il Domani il 28 marzo 2022.

Dopo quasi tre mesi senza una goccia, a primavera iniziata la pioggia sul nord Italia, e quindi sul Po, non è ancora arrivata.

Il 2022 è il settimo anno di secca per il Po nell’arco di appena due decenni. Il Nord della penisola, infatti, è una delle aree del continente europeo dove gli effetti dei cambiamenti climatici sono più visibili.

Dietro gli allarmi apocalittici di questi giorni non c'è la volontà di impostare una risposta unitaria ma solo quella di continuare a suddividersi le prebende pubbliche. DARIO BALOTTA Analista dei trasporti

L'Italia a secco: rischi ed effetti dopo oltre tre mesi senza piogge. Cristina Nadotti su La Repubblica il 29 Marzo 2022.

Ramona Magno, coordinatrice dell'Osservatorio Siccità dell'Ibe-Cnr fa il punto sulla situazione in Italia e propone azioni per la mitigazione: "Serve un approccio integrato per gestire il rischio e non agire soltanto nel mezzo della crisi".

Il livello del Po basso come a fine luglio, Milano che per 39 giorni non ha visto una goccia di pioggia, al Centro giusto qualche piovasco e al Sud rovesci  che non riescono a dissetare la campagna e alimentare i bacini. L'autunno e l'inverno non hanno portato le piogge necessarie a ristabilire l'equilibrio dopo un'estate calda: è corretto dire che l'Italia attraversa un periodo di siccità? Da metà settimana sono previste piogge, serviranno a porre rimedio ai mesi senza pioggia? A rispondere a queste domande e fare il punto sugli interventi per mitigare gli effetti della diminuzione delle precipitazioni è Ramona Magno,  ricercatrice del Cnr e responsabile dell'Osservatorio Siccità dell'Ibe-Cnr, Istituto per la BioEconomia.

Che cosa è la siccità

"La siccità è il decremento dell'acqua disponibile in un particolare periodo e per una particolare zona e secondo questa accezione si presenta, quindi, come un fenomeno sporadico che può colpire anche aree non aride", spiega Magno, che poi distingue tre tipi fondamentali di siccità.

La siccità meteorologica, quantificata in base ai millimetri di pioggia caduti rispetto alla media del periodo

La siccità agricola, quando le piogge non sono sufficienti a rendere umido il terreno e a fornire l'acqua per la crescita delle piante

La  siccità idrologica, quando l'assenza di pioggia prolungata causa una scarsità di acqua nelle riserve superficiali come fiumi e laghi, e pian piano intacca anche le riserve idriche sotterranee.

Flash drought

"Negli ultimi anni, inoltre, è stato coniato un nuovo termine, flash drought cioè la siccità veloce, che si sviluppa in poco tempo ed in momenti particolari dell'anno, ovvero in primavera-estate. Per questo le flash drought interessano il comparto agricolo: l'assenza di pioggia anche soltanto per due/quattro settimane, ma nel periodo fondamentale per lo sviluppo di una coltura, può arrecare danni irreparabili e riduzione dei raccolti", spiega ancora la ricercatrice.

La siccità in Italia negli ultimi anni 

In questo momento in Italia si comincia a parlare di crisi idrica proprio perché fiumi e laghi sono ridotti nella loro capienza. "Lo storico degli ultimi anni ci dice che dal 2000 a oggi abbiamo avuto ogni tre o quattro anni una siccità importante. - continua l'esperta - Il primo importante periodo siccitoso lo abbiamo avuto nella  primavera-estate 2003, poi nel 2006-2007, nel 2011-2012. Secondo uno studio recente i danni economici delle siccità in questi periodi sono stati stimati rispettivamente in 1,75, 0,92 e 0,56 miliardi di euro. C'è stato poi un ulteriore periodo di siccità nel 2016-2017"

Il Piave è irriconoscibile per la siccità.

"Per quanto riguarda il periodo attuale, secondo i dati del 2021-2022, le regioni che stanno soffrendo di più sono il Centro e il Nord. Un esempio su tutti: nella zona del Nord Ovest, in Piemonte e Val d'Aosta non piove da oltre 100 giorni. A peggiorare la situazione l'aver avuto un'estate molto calda e inverno e autunno con temperature sopra la media, fattore che aumenta il processo di evapotraspirazione e dissecca il suolo e la vegetazione. Anche il Sud non se la passa bene: le uniche regioni che in inverno hanno avuto un po' più di pioggia sono Calabria e Sicilia e non c'è stata neve nel Nord: il quadro è drammatico". 

Come sono cambiate le precipitazioni

Ad aggravare la situazione non soltanto la mancanza di pioggia, ma il mutamento delle precipitazioni. "Sta cambiando la distribuzione delle piogge, - continua Magno - non rileviamo una tendenza negativa significativa della loro quantità annuale, osserviamo invece che si alternano periodi di piogge brevi ma intense, a sempre più lunghi periodi in cui le piogge sono scarse o assenti. Allo stato attuale, per risanare il deficit di pioggia che si è creato dovrebbe piovere a lungo, in maniera più costante e con quantitativi regolari, in pratica servirebbero precipitazioni per buona parte di aprile e maggio".

Gli scenari da qui a tre mesi

Come sappiamo le previsioni meteorologiche a lungo termine non sono attendibili come quelle fino a un massimo di tre giorni, ma gli esperti a livello europeo sono concordi nel ritenere che nei prossimi mesi continuerà a fare caldo e le piogge saranno sotto la media, seppur con dei possibili passaggi di perturbazioni. In pratica, le condizioni drammatiche di risorse idriche come il Piave, buona parte dei grandi laghi, il lago di Ceresole e quello di Bracciano sempre più bassi potrebbero non cambiare: "Il perpetuarsi di piogge sotto la media non potrà che aggravare ulteriormente una situazione già critica in diverse zone", dice l'esperta.

Lamberti e Spinelli, un video di 100 secondi per capire che la siccità del Po è un problema reale

Gli effetti immediati

L'impatto maggiore, che già si deve affrontare, è sull'agricoltura, come spiega Magno, ma ci sono altri settori a forte rischio se lo scenario dovesse peggiorare:

L'impatto sull'agricoltura: per alcune colture, come il grano, la stagione è già partita e c'è bisogno di irrigare costantemente: tuttavia per irrigare servono riserve idriche, che si stanno esaurendo.

Conflitti tra gli utenti, in primis gli agricoltori: gli scenari non sono drammatici soltanto perché saranno danneggiate colture fondamentali, ma anche perché tra uno o due mesi sorgeranno conflitti tra chi deve prelevare l'acqua da fiumi, laghi o bacini idrici. 

Le centrali idroelettriche: c'è un problema energetico perché già adesso al Nord alcune centrali sono ferme perché non hanno acqua per far girare le turbine.

La disponibilità per usi civici. Il verde urbano, la pulizia delle strade, l'acqua nelle abitazioni consumano risorse idriche, bisognerà pensare a una razionalizzazione per risparmiare.

Cosa succede se pioverà nei prossimi giorni

"Le piogge attese nei prossimi giorni allevieranno questa situazione drammatica solo se saranno distribuite in maniera uniforme, costante e non saranno solo eventi temporaleschi di breve durata, perché con il terreno molto secco l'acqua non riesce a penetrare, ma ruscella, scivola via e invece che far bene può impoverire il suolo - avvisa l'esperta -. Inoltre, un suolo secco, sui rilievi, se interessato da piogge considerevoli in un breve periodo di tempo pùo innescare fenomeni erosivi anche importanti".

Po, la siccità è sempre più grave: le immagini aeree mostrano un paesaggio spettrale

Quali sono le azioni per mitigare la siccità

"Il nostro lavoro di ricercatori è fornire dati e scenari per essere di supporto alle decisioni - osserva Magno - e la prima cosa da fare sarebbe passare da una gestione della crisi a una gestione del rischio, cioè non agire dopo quando la crisi è già in atto, ma cercare di trovare soluzioni proattive per ridurre il rischio". Eccone alcune:

Favorire l'agricoltura di precisione, che grazie alla tecnologia adotta soluzioni che fanno risparmiare acqua: ci sono strumenti che consentono di  studiare dove e quando l'acqua è veramente necessaria alla pianta, in modo da irrigare in maniera mirata.

Migliorare la gestione idrica delle risorse superficiali e sotterranee, perché diventi più sostenibile, con interventi strutturali che riducano le perdite. "Uno dei maggiori problemi - dice l'esperta - è che il 40% dell'acqua erogata non arriva dove deve arrivare, ma si disperde lungo il tragitto".

Incentivare il trasferimento della conoscenza e informare il pubblico, favorire un approccio partecipativo alle soluzioni per evitare i conflitti

A livello nazionale incrementare la ripresa di piccoli bacini utili in periodo di crisi idrica. "È però una soluzione parziale - avverte Magno - va bene se la siccità non è prolungata. Pur se dobbiamo puntare sulla tecnologia, alcune tecniche tradizionali, come l'abitudine di convogliare l'acqua piovana e le vecchie pratiche di stoccaggio e raccolta dell'umidità atmosferica sono utili".

Diffondere l'uso del biochar o carbone vegetale: se mescolato al terreno, in quanto molto poroso, trattiene l'umidità e le sostanze nutritive più a lungo.

In ambito urbano per ridurre i consumi ripensare le aree verdi. "Piante e alberi sono fondamentali per ridurre l'effetto "isola di calore" - spiega la ricercatrice - ma vanno progettate non soltanto su criteri estetici, vanno scelte specie che siano adatte ad alte temperature e non richiedano grandi quantità di acqua".

Adottare un approccio multisettoriale. Su questo la coordinatrice dell'Osservatorio sulla siccità insiste: "Servono processi di pianificazione che non devono essere separati uno dall'altro. La siccità è un problema complesso che ha bisogno di integrazioni perché tocca moltissimi aspetti, e le azioni di contrasto ed adattamento al fenomeno richiedono sinergia nelle politiche legate alla risorsa idrica, l'agricoltura, l'ambiente, l'urbanistica e l'energia".

A queste azioni vanno aggiunte le misure legate ad un settore particolare, quello turistico in ambiente montano, che risentirà, e sta già risentendo, degli effetti dei mutamenti climatici e degli eventi estremi in particolare. Questa condizione ha già determinato l'adozione di nuove opzioni di adattamento, come ad esempio l'uso di impianti per la produzione di neve artificiale o l'impiego di miscele che ghiacciano a temperature superiori che però, se da un lato possono compensare la riduzione o il ritardo delle nevicate autunnali, dall'altro determinano nuove forme di pressione sull'ambiente montano. L'utilizzo di queste tecniche, infatti, porta un aumento dell'uso della risorsa idrica, anche in momenti in cui essa scarseggia. Più sostenibili, invece, risultano le azioni di differenziazione turistica che implicano investimenti in attività non direttamente collegate con la pratica dello sci. È in costante aumento, infatti, il mercato di turisti non sciatori che vivono la montagna sotto altri aspetti, anche d'inverno, come riportano recenti studi.

Elisabetta Fagnola per “la Stampa” il 28 marzo 2022. 

Piovono ordinanze anti spreco nei comuni fiaccati dalla siccità, nell'Italia senza precipitazioni da oltre cento giorni: c'è chi chiude le fontane pubbliche, chi raziona l'acqua di notte, sempre più sindaci dispongono l'obbligo di usare la potabile solo per lo stretto necessario, igiene e alimenti, vietato innaffiare giardini e orti, vietato riempire piscine o lavare l'auto, pena multe che arrivano fino a 500 euro.

Accade non nelle pianure d'agosto spaccate dal sole, ma allo scadere dell'inverno in un Nord Italia in secca, a ridosso di montagne a corto di neve, dal Trentino alla Valsesia piemontese, dall'entroterra ligure alla Valcamonica, dove gli acquedotti si mostrano in difficoltà in anticipo sui tempi, molto in anticipo sull'estate. A volte sono consigli e inviti al risparmio affissi nelle bacheche comunali, più spesso vere e proprie ordinanze: «Una situazione del genere nessuno se la ricorda, non a fine inverno» racconta Francesco Pietrasanta, sindaco di Quarona.

In Valsesia, dopo l'allarme lanciato dalla società che gestisce l'acquedotto in questa fetta di Piemonte tra Biella e Vercelli, oltre una decina di sindaci già un mese fa ha firmato ordinanze anti spreco a tempo indeterminato: «Abbiamo imposto che la potabile venga usata solo per ragioni di stretta utilità, l'igiene, il cibo - spiega Pietrasanta - ma ci prepariamo al peggio. I pozzi non riescono a star dietro ai prelievi, in alcune zone iniziano ad esserci diminuzioni di pressione, ma non possiamo chiudere le condutture la notte, rischiano di gelare. Potremmo attingere dai torrenti, ma l'acqua non sarebbe potabile. L'unica soluzione oggi è sprecarne il meno possibile».

E poi bisognerà «ragionare a livello politico, costruire nuovi pozzi, intervenire sugli sprechi delle condutture» spiega nei giorni in cui il fiume Sesia mostra gran parte del suo greto. Ora si spera nelle piogge annunciate mercoledì mentre l'osservatorio Anbi snocciola dati: nell'Italia settentrionale tra settembre 2021 e marzo 2022 le piogge sono calate dal 50 al 90% e il Po registra la magra invernale più grave degli ultimi 30 anni.

In provincia di Trento il comune di Dro, a Nord del Garda, ha deciso di chiudere le fontane, mentre un'ordinanza vieta l'uso dell'acqua potabile per innaffiare orti e giardini, o lavare le auto, pena multe da 50 a 300 euro, perché l'assenza di pioggia ha ridotto la portata delle sorgenti. Così anche nel vicino Vallarsa: «Viviamo un periodo straordinario di siccità - spiega il sindaco Luca Costa da una casa affacciata sulle montagne, intorno i prati ancora gialli -, quando si hanno reti inefficienti, se ci sono rotture l'acqua rimane in natura, ma se ce n'è poca non arriva nei serbatoi».

 È il paradosso dei paesi di montagna, racconta, «noi abbiamo l'acqua, serviamo le città, ma se non siamo in grado di trattenerla va persa. C'è un problema oggettivo dovuto al clima, ma senza infrastrutture si sente di più. Però le fognature non fanno voti e quando piove ci si dimentica». Accade anche in Valcamonica: Darfo Boario Terme è stato tra i primi a firmare l'ordinanza anti spreco con multe da 100 a 500 euro per i trasgressori e anche il Comune di Borno impone limiti e invita a bollire l'acqua se usata per gli alimenti.

Nella Valle del Chiampo, nel Vicentino, il gestore dell'acquedotto chiude le fontane, in Pianura padana i consorzi di Piacenza e Parma raccomandano l'uso attento in l'agricoltura, in particolare per la coltivazione del pomodoro. E in Liguria l'allarme rimbalza da settimane ormai tra i piccoli comuni, lungo le valli dei torrenti in secca: nell'Imperiese il sindaco di Bajardo chiude i rubinetti la notte nelle frazioni in difficoltà, a Cisano sul Neva, alle spalle di Albenga, «a guardare il torrente sembra estate» racconta il sindaco Massimo Niero.

Anche qui, l'ordinanza è stata scritta in anticipo: «La situazione è abbastanza grave su due sorgenti, non piove da oltre cento giorni e siamo solo a marzo, si immagini questa estate, bisogna partire presto a fare sensibilizzazione». Ringrazia di avere acquedotti irrigui per l'agricoltura, «ma domenica scorsa qui vicino, a Zuccarello, sono dovuti salire con le autobotti. D'ora in avanti dovremo affrontare questo tema con un'attenzione che non c'è mai stata: la piana di Albenga è sempre stata piena d'acqua, tra le più fertili, non ci siamo mai preoccupati se non di proteggerci dalla furia delle acque. Ora dovremo far diventare quelle piogge una risorsa».

Lombardia senza pioggia, emergenza siccità: dal lago di Como al Po, mancano tre miliardi di metri cubi d’acqua. Fabrizio Guglielmini su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.

Nell’ultimo inverno caduti in Lombardia caduti solo 65 millimetri di pioggia, l’82% in meno rispetto al 2021. A Milano non piove dal 15 febbraio. Agricoltura in crisi, incendi da Lecco a Varese. Imbersago, fermo il traghetto leonardesco. Dal Po nel Mantovano affiorano i mezzi della seconda guerra mondiale.

Da tutta la Lombardia arriva l’allarme siccità che riduce le produzioni agricole, alza il rischio di incendi e mette a dura prova le riserve idriche regionali. Secondo Arpa, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente, rispetto al primo trimestre dell’anno scorso mancano tre miliardi di metri cubi d’acqua, un 57% per cento in meno delle risorse disponibili. Sempre Arpa indica che durante l’inverno appena trascorso sono caduti in Lombardia solo 65 millimetri di pioggia, l’82% in meno rispetto al 2021. «Il periodo di siccità prolungato è un fenomeno reale e grave — dice Pamela Turchiarulo, meteorologa dell’Osservatorio Meteorologico Milano Duomo — Su Milano città non piove dal 15 febbraio, un periodo di 39 giorni a cui va aggiunta una durata analoga fra gennaio e la prima parte di febbraio. Le ultime precipitazioni abbondanti risalgono alla seconda metà di novembre». Riflessioni preoccupate anche dal vicepresidente di Coldiretti Lombardia Paolo Carra: «Poco freddo e ora la siccità. Fenomeni che ritardano o danneggiano le produzioni e le semine, visto che abbiamo vissuto l’inverno più mite e secco degli ultimi trent’anni». Un segnale positivo arriva da Mm: «Nel Parco Sud serviamo circa cento fattorie con le acque dai depuratori di Nosedo e San Rocco — dice Andrea Aliscioni, direttore del Servizio idrico integrato — e abbiamo ancora margini per aumentare le forniture».

I segnali d’allarme

Da ogni provincia i segnali sono gravi e inequivocabili: il livello del lago di Como è vicino ai minimi storici, con - 31 centimetri sotto lo zero idrometrico. Nella zona del Tempio Voltiano e dei giardini a lago è emersa una spiaggia che si estende per diversi metri in uno spazio abitualmente occupato dall’acqua: le conseguenze più gravi riguardano la tenuta delle rive e delle darsene di Como. Altissima l’allerta per il rischio incendi, in particolare nella zona dell’Altolago. Il grande malato di siccità è il Po all’altezza del ponte della Becca, presso Pavia, in una situazione peggiore rispetto all’estate scorsa e con minimi trentennali di portata. Gli affluenti, come il Ticino, sono in secca ma non in modo così drammatico, potendo contare su risorgive naturali.

Isole, dighe e reperti bellici

A Lecco il record negativo in assoluto: non piove da più di cento giorni e l’isola Viscontea, all’imbocco cittadino, è ormai quasi raggiungibile a piedi. La diga di Olginate riesce ancora a garantire il deflusso minimo vitale agli impianti a valle ma la fotografia delle sponde erose è impietosa: i bordi del fiume sono in parte crollati e dall’Adda in secca sono riemerse le fondamenta di un ponte romano e due bombe della Seconda guerra. In Brianza, a Imbersago, il traghetto leonardesco è fermo da giorni. Anche nel mantovano «il livello del Po è basso come alla fine di luglio — spiegano dall’Autorità Distrettuale del fiume — e le ripercussioni sono evidenti sull’agricoltura». Nei giorni scorsi, la secca ha fatto riaffiorare, nel tratto del Po tra Pomponesco (Mantova) e Gualtieri (Reggio Emilia), un’imbarcazione affondata dai nazisti nel 1945 e a Sermide un mezzo cingolato delle truppe tedesche abbandonato durante la ritirata. Il mezzo è stato scoperto dal direttore del Museo della Seconda guerra mondiale del fiume Po, Simone Guidorzi: «Stiamo tentando di recuperalo vista l’opportunità praticamente unica».

La «magra» da record

Su un altro fronte importante, quello del Lago Maggiore, Claudio Perozzo ha la responsabilità di monitorare dalla centrale della Protezione civile di Laveno Mombello i livelli del lago: «È una delle “magre” più lunghe degli ultimi anni, una situazione davvero preoccupante perché in un lago così basso, quando si alza il vento, le onde si infrangono alle basi dei muraglioni e rischiano di danneggiare le infrastrutture». Nel frattempo la Gestione navigazione laghi ha ridotto il peso massimo del carico dei traghetti per via della riduzione dei fondali nei punti di attracco. E se sul lago la siccità si nota a vista d’occhio — con l’abbassamento dei livelli e l’allungamento delle spiagge — nel Varesotto l’attesa per la pioggia è diventata spasmodica: le montagne delle Prealpi sono colpite da diversi incendi che obbligano i vigili del fuoco a un super lavoro. Roghi circoscritti ma che nell’ultima settimana si sono sviluppati in zone diverse: nei boschi sul Campo dei Fiori fra Luvinate e Velate (alle porte di Varese) in una zona tristemente famosa per il grande incendio dell’autunno 2017, poi nel Luinese a Montegrino Valtravaglia; solo sabato altri tre roghi boschivi si sono sviluppati a Vergiate, Casale Letta e Tradate. I fuochi all’aperto sono proibiti e la Protezione civile regionale ha diramato numerosi aler, l’ultimo venerdì che ha messo in «zona rossa» Verbano, Lario, Pedemontana Occidentale, Prealpi bergamasche e Bresciano, mentre rimane in allarme il resto del territorio regionale. Un periodo di siccità che potrebbe aver fine verso la metà della prossima settimana quando il Centro geofisico prealpino di Varese segnala il probabile arrivo di «alcune precipitazioni, a carattere nevoso oltre i 1.300 metri».

(hanno collaborato Anna Campaniello, Andrea Camurani, Barbara Gerosa, Davide Maniaci e Giovanni Vigna)

Francesca Morandi per corriere.it il 27 aprile 2022.

Reperti di rinoceronti, mammut, lupi, bisonti. L’eccezionale secca del Po sta restituendo molte pagine di storia millenaria. L’ultimo è una testa di megalocero, noto come megacero o cervo gigante. Il grande cranio è spuntato da uno degli spiaggioni di Isola Serafini, isola fluviale del Grande Fiume, situata a cavallo del territorio dei comuni di Spinadesco (Cremona), Castelnuovo Bocca d’Adda (Lodi) e Monticelli d’Ongina (Piacenza).

Il cervo megacero

Nonostante sia spesso conosciuto anche con il nome di alce irlandese, il cervo megacero ha popolato un’area molto vasta che va dall’Europa all’Asia centrale: i più antichi ritrovamenti di questa specie sono databili anche a 400 mila anni fa. 

«Le condizioni di magra eccezionale naturalmente favoriscono questi ritrovamenti grazie alla maggiore esposizione delle barre fluviali. Però l’assidua ricerca sul territorio ha ormai esaurito i ritrovamenti e senza una piena in grado di rimescolare le sabbie del Po, a breve non si troverà più nulla», spiega Davide Persico, professore all’Università di Parma, dove si occupa di ricerca Palebiologica e micropaleontologica in relazione ai cambiamenti climatici, già direttore e curatore del Museo naturalistico Paleontologico di San Daniele Po, paese nel cremonese di cui è sindaco.

«Questi resti fossili — prosegue l’esperto — sono ossa fossilizzate appartenenti a grandi mammiferi che vivevano in Pianura Padana nel tardo Quaternario (fino a 180 mila anni fa) e che oggi si possono rinvenire disarticolati semplicemente passeggiando sulle spiagge, in particolare nelle aree appena lasciate libere dall’abbassamento del livello delle acque». 

I mezzi militari «usciti» dal 1945

Nelle ultime settimane, con il Po ai livelli minimi per l’emergenza siccità, sono riemersi dall’acqua un semicingolato tedesco della seconda guerra mondiale a Sermide e Felonica, nel Mantovano (il mezzo dell’esercito nazista «Sd.Kfz.11» era stato fotografato per l’ultima volta dalla Raf il 25 aprile 1945), e una grande imbarcazione affondata dalle bombe del Reich (una «betta» usata per il trasporto merci) tra Pomponesco (Mantova) e Gualtieri (Reggio Emilia).

Dal Po in secca affiora un semicingolato tedesco della seconda guerra mondiale: sarà restaurato. Giovanni Bernardi su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

La scoperta a Sermide e Felonica, nel Mantovano. Il mezzo dell’esercito tedesco «Sd.Kfz.11» era stato fotografato dalla Raf il 25 aprile 1945. Visibile fino al 1947, era stato poi coperto da una piena del Po. 

Lo sapevano che era lì, nascosto sotto la sabbia da poco meno di ottant’anni. E nel pomeriggio del 25 marzo ai soci del Museo della Seconda guerra mondiale del fiume Po, che ha sede a Sermide e Felonica in provincia di Mantova, è bastato un attimo per rendersi conto che ce l’avevano fatta. Dalla sabbia del Po, che da settimane sta attraversando un periodo di eccezionale secca, stava infatti iniziando a spuntare un pezzo di metallo: il primo indizio che quel semicingolato dell’esercito tedesco risalente alla seconda guerra mondiale era lì.

Il ritrovamento

A scoprirlo è stato Samuele Bernini, uno dei più attivi soci del museo felonichese dei cui reperti è anche restauratore. La voce si è sparsa nel giro di breve tempo e i soci si sono messi subito al lavoro: nella serata e fino alla tarda notte di venerdì, prima con vanghe e badili, e poi con un escavatore che però è in parte sprofondato ed è stato recuperato solamente nella giornata di sabato. E poi ancora avanti, fino a quando domenica mattina, con due escavatori e con l’aiuto della società archeologica Sap di Quingentole, sempre in provincia di Mantova, i soci del museo nel giro di brevissimo tempo sono riusciti a liberare il mezzo da guerra dalla sabbia e dall’acqua del Po. «Si tratta — spiega il direttore e curatore del museo Simone Guidorzi — di un semicingolato tedesco Sd.Kfz.11, già presente nell’alveo del Po nelle foto di ricognizione aeree Raf del 25 aprile 1945. Tra l’altro ci sono anche testimonianze di gente della nostra zona: proprio in quella zona in molti facevano il bagno e il mezzo è rimasto visibile fino al 1946 o 1947, dopodiché è stato coperto da sabbia e acqua in occasione di una piena del fiume: da allora non è più stato visibile.

Il relitto

Il recupero è avvenuto dopo due giorni di operazioni molto complesse dovute al fatto che gli escavatori si trovavano su un terreno inconsistente rappresentato dal letto del Po. Il relitto del veicolo cingolato tedesco presenta caratteristiche di grande interesse per rarità e stato di conservazione, presentando ancora la targa, il cruscotto, tracce di vernice e gran parte dell’abitacolo e motore. Ora il semicingolato sarà sottoposto a un attento restauro e studio da parte del nostro staff e quindi reso visibile ed esposto quanto prima al pubblico». Solamente la scorsa settimana tra Pomponesco, in provincia di Mantova, e Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia, la secca del Po ha fatto riemergere un’imbarcazione italiana per il trasporto merci che era stata affondata al culmine di uno scontro avvenuto nel 1945, sul finire della Seconda guerra mondiale. L’assenza di piogge che dura ormai da settimane infatti ha fatto abbassare il Po a livelli da record in negativo, e da sotto sabbia e acqua qui e là sta riemergendo la storia.

Dal fiume Po in secca riemerge l’imbarcazione affondata dai nazisti. Giovanni Bernardi su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2022.

Il natante, usato per il trasporto merci, venne colpito nel 1945. Si tratta di una «betta», una tipica chiatta della zona tra Mantova e Reggio Emilia. 

Dai fondali del Po riemerge il relitto di una grande imbarcazione che venne affondata dai bombardamenti nazisti sul finire della Seconda guerra mondiale, nel 1945.

La barca è emersa tra Pomponesco, in provincia di Mantova, e Gualtieri, in provincia di Reggio Emilia. Lunga una quindicina di metri, si tratta di una «betta»: una particolare imbarcazione lunga e poco profonda che viene usata sul Po per il trasporto delle più diverse merci. Del natante, rimasto sui fondali del fiume per circa 80 anni, alcune parti erano emerse nel corso del tempo. Ma il periodo di particolare secca del Po sta rendendo l’imbarcazione visibile nella sua interezza.

L’imbarcazione si trova a poca distanza da quella che viene comunemente chiamata Isola degli internati. È questo un lembo di terra nel territorio di Gualtieri che il Comune reggiano, appena conclusa la Seconda guerra mondiale, concesse in uso ad un gruppo di ex prigionieri militari italiani che per un periodo si occuparono della vendita di legna che veniva recuperata dal fiume o dalla vegetazione circostante. Il Comune di Gualtieri prese tale decisione come tentativo di rilanciare l’economia locale segnata dalla guerra che si era appena conclusa. L’imbarcazione riemersa non è mai stata rimossa sia per la valenza storico-sociale che conserva, sia per gli elevati costi che l’operazione di recupero e smaltimento comporterebbe.

L’alluvione (1951) nel Polesine torna. nei cinegiornali di cinque operatori. Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2022.

Il documentario «Po», in arrivo nei cinema, prodotto dall’Istituto Luce sulla tragedia che costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case. I ricordi dei sopravvissuti. 

Non ci sono solo le guerre a sconvolgere la vita dei popoli. A volte è la Natura che distrugge ma i risultati sono simili perché trasformano gli abitanti in profughi, costretti a cercare altri spazi per vivere. È il messaggio che ci lascia il bel documentario «Po», in arrivo nei cinema, realizzato da Andrea Segre e Gian Antonio Stella e prodotto dall’Istituto Luce sull’alluvione che nel novembre 1951 costrinse 100mila polesani a lasciare le proprie case, sommerse dall’acqua. Allora non avevano la tv ma cinque operatori documentarono i fatti per quello che allora era il mezzo di comunicazione di massa, il cinema, e i suoi cinegiornali restituirono a tutto il Paese la dimensione immane di quella tragedia. Riprese che Segre e Stella hanno recuperato (e restaurato) per accompagnare i ricordi di chi allora era bambino e subì sulla propria pelle il destino del profugo. Oggi hanno tutti più di settant’anni, alcuni anche ottanta ma il ricordo di quei giorni non si è mai cancellato perché, se la logica dei soccorsi era quella di salvare prima i bambini, molti furono presi e separati dai genitori, rimasti ad aspettare i soccorritori successivi. Finendo spesso per dover aspettare anche un mese prima di poter essere ricongiunti a mamme e papà. Sempre che non fosse successo come a quelle 84 persone che salite su un camion per fuggire furono travolte da un’improvvisa onda di piena, annegando. E i ricordi di un figlio (vivo perché separato dai genitori e portato via prima) sono tra i momenti più strazianti del film: «Nessuno mi diceva niente, si vergognavano anche a parlarmi pur di non dovermi dire quello che era successo». Segre e Stella non fanno domande, lasciano che la memoria faccia il suo compito, aiutando lo spettatore con gli estratti dai cinegiornali i cui commenti stridono con il dolore dei volti muti. C’è chi ricorda anche con allegra impertinenza il braccio di ferro per un piatto di minestra col parroco anticomunista che l’aveva sentita cantare Bandiera rossa con le amiche. Ma c’è anche chi non ha dimenticato la fame della sua condizione di «emigrato» in Piemonte o il disprezzo nemmeno tanto mascherato di chi li chiamava con il nome del loro paese e non con quello di battesimo. Tutti accomunati da un destino di «profughi» che non si è mai cancellato.

La siccità (e non il freddo) costrinse i Vichinghi a lasciare la Groenlandia. Matteo Marini La Repubblica il 23 Marzo 2022.  

Un nuovo studio analizza le tracce lasciate dal clima nel 1500. I norreni, dopo 500 anni di presenza, dovettero abbandonare l’isola a causa di un lungo periodo di aridità.

Sotto un cielo avaro di pioggia, dunque senza foraggio per il bestiame in una terra assediata dal ghiaccio. Fu così che la siccità più del freddo respinse i Vikinghi dalle coste della Groenlandia. Dopo quasi cinque secoli, in cui il popolo norreno aveva abitato le coste dell'isola, all'improvviso gli insediamenti e i coloni sparirono attorno al 1500. Finora l'opinione, più o meno condivisa dagli storici, era che le tenaglie del freddo della "Piccola era glaciale", che iniziarono a stringersi proprio sul finire del Medio Evo, costrinsero le popolazioni nordiche ad abbandonare una terra già ai confini dell'orizzonte abitabile. Un nuovo studio, pubblicato su Science Advances, analizza i sedimenti di un lago nei pressi delle fattorie costruite dai coloni, e propone dunque una spiegazione inedita che potrebbe riscrivere uno dei capitoli della storia europea.

Vivere in Groenlandia

Alla fine del I millennio d.C., gli scandinavi colonizzarono molte delle isole del Nord Atlantico, stabilendosi nelle Fær Øer, nelle Shetland, in Islanda e anche in Groenlandia e nell'attuale Canada. In quelle regioni, molto marginali per un'economia agricola, sopravvissero soprattutto grazie allevando bovini, pecore, capre, maiali. E cacciando foche e trichechi per la carne e l'avorio da commerciare con l'Europa. Fu particolarmente il caso della Groenlandia, dove arrivarono nel 986 d.C., lì le condizioni favorevoli sussistevano soprattutto tra i fiordi della costa sud-occidentale, l'"Insediamento orientale"). Poche migliaia di abitanti, in una terra ai margini del mondo in cui, comunque, col tempo, si costruirono chiese e si costituirono diocesi.

Tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo, però, queste zone furono abbandonate molto velocemente. Alcuni dipinti di qualche decennio più tardi (uno dei più famosi è il Paesaggio invernale con pattinatori e trappola per uccelli di Pieter Bruegel il Vecchio) ritraggono folle di pattinatori che scivolano sulla superficie di fiumi ghiacciati nelle Fiandre. Persino il Tamigi, nel XVII secolo, si congelò. Si pensò dunque che la Piccola era glaciale avesse spezzato il delicato equilibrio che aveva permesso per quasi mezzo millennio di abitare la Groenlandia. Questo fino a quando i ricercatori della University of Massachusetts Amherst non hanno, letteralmente, rimestato nel torbido per tirare fuori nuove verità.

Nel fango l'archivio dei millenni

Il team del professor Raymond Bradley della UMass Amherst, in tre anni ha scavato il fondale del lago 578, uno specchio d'acqua che si trovava molto vicino a uno dei più grandi gruppi di fattorie norrene. Le ispezioni hanno portato alla luce sedimenti accumulatisi per circa due millenni. Lì dentro erano rimaste impresse, come in un archivio da sfogliare, le tracce che aveva lasciato il clima del passato. "Prima di questo studio - spiega Bradley - non c'erano dati provenienti proprio dal sito in cui si erano stabiliti i Vikinghi. Ed è un problema. Noi volevamo studiare come il clima era cambiato vicino alle fattorie norrene". Le temperature storiche, notano gli scienziati, erano infatti state dedotte con indagini in un luogo lontano circa 1.000 chilometri e a 2.000 metri sul livello del mare. 

Nei sedimenti hanno quindi trovato due "marker", sostanze che fanno da indicatori per parametri come temperatura e umidità e li conservano lungo i secoli. Il primo ha un nome difficile: BrGDGT (Branched Glycerol dialkyl glycerol tetraether), lipidi che si trovano nei batteri che vivono nei sedimenti. La loro composizione è influenzata dalla temperatura media annua e sono usati per ricostruire le variazioni nel corso dei secoli passati, depositati strato su strato. L'altro invece è un derivato della sostanza che rivestiva le foglie, e dà un'idea della velocità a cui i vegetali perdevano acqua a causa dell'evaporazione. E quindi se ci fossero o meno condizioni di siccità. "Quello che abbiamo scoperto - dice Boyang Zhao, dottorando e primo autore dell'articolo - è che, mentre la temperatura è cambiata a malapena nel corso dell'insediamento nordico della Groenlandia meridionale, il clima è diventato costantemente più secca nel tempo". 

Anche se ridurre tutto a questo potrebbe essere una semplificazione, gli autori dell'articolo fanno notare che a una comunità che contava poche migliaia di persone, distante migliaia di chilometri dal resto del mondo civilizzato, e che affidava quasi tutta la propria sussistenza all'allevamento, l'inaridimento del clima deve essere costato caro. Buona parte di quello che il clima permetteva di coltivare era destinato a sfamare il bestiame. Il foraggio doveva essere raccolto e stoccato per l'inverno, cioè nel periodo in cui neve e ghiaccio si impossessavano di tutto. Una siccità prolungata deve aver significato carestia, e la scomparsa definitiva dei norreni da quella che l'esiliato Erik il rosso, 500 anni prima chiamò, con grande speranza, l'"Isola verde".

Elisabetta Fagnola per “la Stampa” il 22 marzo 2022.

Se volessimo trovare una chiave per capire le conseguenze del riscaldamento globale, si legge nell'ultimo rapporto del Wwf, se ancora avessimo bisogno di prove, quella chiave è proprio l'acqua. I livelli dei fiumi al minimo, la grande sete che affligge le campagne, la carenza di piogge, gli eventi meteorologici estremi. 

«Si stima che circa 4 miliardi di persone su 7,8 miliardi sperimentino già una grave carenza d'acqua per almeno un mese all'anno» recita il dossier «L'ultima goccia», che il Wwf diffonde oggi nella Giornata mondiale dell'acqua sottolineando come «la popolazione globale esposta a siccità estrema ed eccezionale aumenterà dal 3% all'8% nel 21° secolo», ricordando l'impatto sull'agricoltura che solo in Italia assorbe il 60% della domanda d'acqua, sottolineando quanto sia determinante rispettare gli accordi di Parigi sul clima, invitando a rivedere il sistema di concessioni per garantire un uso sostenibile dell'acqua, progettando interventi con le autorità di bacino.

E ancora, a ridurre gli sprechi che ieri ha tracciato anche il «Blue Book», il dossier sull'Italia dell'acqua stilato dalla Fondazione Utilitatis con Istat e Cassa depositi e prestiti: nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi al giorno per ogni chilometro di condutture, il 36,2% dell'acqua immessa in rete, parlando di capoluoghi di provincia e città metropolitane. Nonostante «episodi di scarsità idrica sempre più frequenti - sottolinea l'Istat - oltre un terzo dell'acqua immessa nella rete di distribuzione, in Italia, va perso». 

Un dato lievemente inferiore a quello del 2018 (era il 37,3%) ma comunque indicativo della necessità di interventi sulle reti. Qui gli investimenti, rispetto al 2017, sono aumentati del 22% e di oltre il 47% rispetto al 2012, con una quota di 49 euro pro capite, che scende però a 35 al Sud. Un progresso, ma un dato ancora basso se si pensa che la media europea è di 100 euro pro capite. «C'è ancora da recuperare molta strada rispetto ai Paesi europei più avanzati, ma la presenza di operatori che si occupano del ciclo idrico integrato e il sostegno dal Pnrr consentono di avviare un percorso per colmare il divario» ha spiegato Stefano Pareglio, presidente della Fondazione Utilitatis, presentando il dossier.

Nel Pnrr ci sono 4,4 miliardi per la tutela del territorio e delle risorse idriche, di cui 3,5 per le aziende del servizio idrico integrato. E sono già stati finanziati 75 progetti di manutenzione straordinaria per 2 miliardi e assegnati 300 milioni per ridurre le perdite di rete nel Sud Italia, dove si trovano anche gli undici comuni che, secondo il dossier, hanno dovuto adottare politiche di razionamento.

Due miliardi e 700 milioni di euro, ha confermato il ministro per le Infrastrutture Enrico Giovannini, il pacchetto di fondi che si potranno spendere in futuro per le infrastrutture idriche sulla base dei progetti delle regioni, «è una delle grandi priorità dei prossimi anni. È evidente - ha spiegato - che alcune aree del Paese sono particolarmente a rischio, quelle nelle quali si è investito di meno e dove abbiamo problemi seri sia in termini di qualità degli acquedotti che della gestione in generale delle risorse».

Resta il tema dei consumi, dove gli italiani sono tra i meno virtuosi in Europa: il consumo pro capite di potabile nelle città è di 236 litri contro la media di 125 nell'Ue, mentre l'Istat certifica che il 28,5% delle famiglie italiane dichiara di non fidarsi a bere l'acqua del rubinetto, con punte del 60% in Sicilia e del 50% in Sardegna. Ma il Wwf sottolinea anche che in Europa «almeno un terzo delle risorse idriche è destinato all'agricoltura», un dato che sale al 60% in Italia dove gli usi civili rappresentano solo il 15%. 

L'agricoltura che si prepara ad affrontare un'altra annata in salita: «La siccità nella Pianura Padana - lancia l'allarme Coldiretti - minaccia oltre il 30% della produzione agricola nazionale e la metà dell'allevamento». Dopo cento giorni senza pioggia nel distretto del Po, i livelli del fiume nel primo giorno di primavera sono quelli di luglio 2021, ma a campagna irrigua ancora da iniziare.

Mirko Polisano Chiara Rai per “il Messaggero” il 22 marzo 2022.

Poca pioggia nei primi tre mesi di questo 2022 e dopo il nord Italia anche il Lazio è a rischio siccità. Il lago di Bracciano, la riserva idrica di Roma, è in sofferenza e le sue acque rischiano di perdere anche le caratteristiche qualità di trasparenza e purezza. Il livello delle acque del lago è monitorato con attenzione: una «fase di allerta» per i geologi che vedono con preoccupazione questi oltre cento giorni di assenza di piogge, considerato che in estate il lago si conserva.

L'allarme siccità è dato dai numeri: appena una settimana fa, la quota del livello dell'acqua è arrivata sotto i 104 centimetri. Il dato è calcolato sullo zero idrometrico fissato a 163,04 metri sul livello del mare che è il limite per lo sversamento naturale del lago nel fiume Arrone. I rilievi sono stati effettuati in piazza del Molo ad Anguillara Sabazia dal geologo Alessandro Mecali, consulente del Parco regionale di Bracciano - Martignano. 

«Il livello è basso dice Mecali - nonostante le captazioni siano bloccate, l'allerta è alta e se fino a giugno le piogge saranno scarse la situazione potrebbe peggiorare. Saranno, dunque, decisivi i prossimi mesi. Questo significa che lo stato della flora e la fauna potrebbe compromettersi oltremodo, ad esempio le alghe fondamentali per la loro funzione di autodepurazione».

Ma Bracciano rappresenta soprattutto la riserva di acqua potabile di Roma, essendo un lago di falda ha un rapporto diretto con le piogge e con le sorgenti sotterranee. Se non piove il livello non cresce. Se nei prossimi mesi il bacino dovesse abbassarsi di altri 10 centimetri (condizione purtroppo possibile con l'arrivo della stagione estiva), si toccherebbero i 161,90 metri sul livello del mare, ciò significa che si andrebbe abbondantemente sotto lo zero idrometrico e quindi ancora sotto il limite fissato per le captazioni (161,90 metri).

Si teme il ritorno all'anno più nero, il 2017, quando il livello del lago ha raggiunto valori record avvicinandosi ai 2 metri al di sotto del valore dello zero idrometrico: «Negli ultimi cento anni si è registrata rarissime volte la diminuzione di un metro e mezzo. Ma prendiamo ad esempio i valori da gennaio dello scorso anno a gennaio 2022 e vediamo che il bilancio idrologico è uguale a zero, questo significa che il livello del lago non è cresciuto anziché aumentare di almeno 20 centimetri l'anno per raggiungere uno stato di salute. Insomma il lago di Bracciano continua ad essere in sofferenza».

 C'è anche un altro dato ancora che fa capire la situazione sul lago di Bracciano: a marzo del 2017, il lago si trovava sotto i 112 centimetri mentre oggi è al di sotto dei 104, poco meglio dell'anno più buio per il bacino. L'anomalia è palese. «Le captazioni dal lago sono interrotte dal 2017 ma il lago che segue naturalmente il classico andamento con picchi massimi e minimi, sale di livello in inverno e scende dalla primavera all'estate, mantiene un saldo pari a zero - conclude il geologo - Di questo passo quindi la curva della crescita è piatta. Se il livello si mantiene stabile con il segno meno, il suo processo di guarigione potrebbe diventare un miraggio». Nel frattempo Roma continua a intervenire in maniera incisiva sulle dispersioni idriche, oggi intorno al 28 per cento rispetto al 40 di qualche tempo fa.

Non solo il lago. Anche i fiumi, a Roma e in tutta la regione, sono in sofferenza. «Nel Lazio - dice Angelo Ruggeri, meteorologo Ampro - i fiumi sono in crisi gravissima di risorsa. Il Tevere, ad esempio, mostra una situazione in linea con gli inverni più siccitosi, ed anche i suoi affluenti presentano un livello basso per il periodo». Nella Capitale, l'allarme siccità preoccupa gli agricoltori, già da metà febbraio, tanto da spingere i Consorzi di Bonifica dell'agro romano ad anticipare l'apertura degli impianti di irrigazione nei campi.

«I tempi ormai vengono sistematicamente anticipati - rivela Andrea Renna, direttore del Consorzio - Si è passati, nell'area romana e del litorale, dal primo aprile al primo marzo e, come quest' anno, a fine febbraio. D'altronde le disponibilità idriche in un inverno finora avaro di piogge significative, indispensabili per riempire i bacini necessari a soddisfare le esigenze irrigue del periodo primaverile-estivo, non poteva non prevedere questa decisione». Gli impianti del Consorzio garantiscono la fornitura di acqua per 26.500 ettari dall'area romana di Maccarese e Fiumicino alla piana di Tarquinia.

La siccità spaventa anche l'agro pontino e il viterbese: un solo giorno di pioggia a febbraio, cinque dall'inizio dell'anno. «Un'anomalia responsabile della quale è il cambiamento climatico ha spiegato Giuseppe Nascetti, professore ordinario di Ecologia del Dipartimento di Scienze Ecologiche e Biologiche dell'Università della Tuscia -. Eventi del genere non sono nuovi ma è cambiata la frequenza con la quale si verificano».

Po, cento giorni senza pioggia. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 20 marzo 2022.  

Il Grande Fiume in crisi: riserve idriche dimezzate e pesci in agonia nelle anse. Allarme per l’agricoltura: «Danni per un miliardo». 

Le foto, angoscianti, restituiscono scenari che paiono provenire da un deserto. Distese di sabbia sulla quale a tratti si può addirittura camminare, terra crepata da un argine all’altro. Qui e là, ansa dopo ansa, compaiono relitti di vecchie barche e muriccioli che forse una volta erano approdi improvvisati. In qualche pozza s’ammassano agonizzanti carpe, carassi, pescegatti, persino qualche pesce siluro un po’ più grosso. È il fiume Po che sta boccheggiando. Da cento giorni non piove — «colpa dei cambiamenti climatici» dicono gli esperti — e le autorità regionali che governano la salute del Grande Fiume lanciano allarmi che sono già bollettini di guerra. Se ansima il Po ansima pure l’agricoltura.

Tre miliardi di metri cubi di acqua in meno

Per dare un’idea: in Lombardia — sono i dati Arpa — mancano all’appello 3 miliardi di metri cubi di acqua rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, una quantità pari al 56,8% in meno rispetto all’ammontare medio delle riserve idriche. Dagli affluenti Adda e Ticino, pure questi simili a torrentelli esangui, le portate si sono ridotte del 75%. Sulla sponda destra del Po la situazione non cambia: in Emilia gli affluenti Trebbia, Secchia e Panaro sono ai minimi storici dal 1972. Poco più che un rigagnolo è anche la Dora Baltea che nasce in Val d’Aosta, scende tra un canyon e l’altro per il Canavese sfociando nel Vercellese, a Crescentino. E se dove il Po ha la sorgente, nel Monviso, gli impianti sciistici di risalita a circa 1.800 metri di quota sono chiusi dall’inizio dell’anno perché la neve non si vede, nel Delta, tra Romagna e Veneto, il problema è un altro: la portata del fiume è così bassa che l’Adriatico entra negli alvei, risale dalla foce e s’insinua all’interno per chilometri e chilometri. Per l’agricoltura la conseguenza è devastante: il sale si infiltra negli argini, penetra nei campi e da queste parti non crescerà più niente.

I danni per l’agricoltura

Dai sindaci vengono preoccupazioni angosciate. Quello di Ferrara Alan Fabbri l’altro giorno ha postato l’immagine di un canale d’irrigazione completamente a secco, ricolmo di conchiglie. «Non si registrano piogge importanti da novembre: è un disastro» sintetizza il primo cittadino. Parla di «condizioni di estrema severità idrica» Meuccio Berselli, segretario generale dell’«Autorità di bacino Distrettuale del Fiume Po» preoccupato perché «fra poco inizia la stagione dell’agricoltura in cui dobbiamo prelevare acqua e distribuirla». Cosa fare, allora? «Occorre istituire dove possibile le deroghe per consentire il prelievo di acqua. Prelievo che per le coltivazioni e la produzione di energetica idroelettrica, in difficoltà vista la carenza, ha una valenza imprescindibile». Sono in sofferenza frutta, verdura, grano. Il presidente di Coldiretti Ettore Prandini prova a stimare le perdite: «Circa un miliardo di euro». Le previsioni meteo non incoraggiano: almeno per un’altra settimana non pioverà.

Flavia Amabile per “la Stampa” il 2 marzo 2022.  

Siamo in ritardo. Dalle ondate di caldo a siccità e inondazioni, incendi, perdita di vite umane e di biodiversità, innalzamento dei mari, danni alle infrastrutture, l'elenco di eventi meteorologici estremi è lungo e ormai non esiste area del mondo dove non si siano abbattuti provocando danni. L'ennesimo allarme è contenuto nelle oltre 3mila pagine del rapporto «Cambiamento climatico 2022: impatti, adattamento e vulnerabilità» approvato dai 195 Paesi dell'Onu, 270 scienziati da 67 Paesi esperti del settore (Ipcc).

 È un'analisi sulla salute del Pianeta a distanza di otto anni dal precedente Rapporto di valutazione, un lasso di tempo che consente di cogliere in pieno la gravità della situazione. «Alcuni impatti sono già irreversibili poiché hanno spinto i sistemi naturali e umani oltre la loro capacità di adattamento» sostiene il rapporto. Impatti «a cascata, sempre più difficili da gestire» e che hanno «esposto milioni di persone anche a una grave insicurezza alimentare e idrica, soprattutto in Africa, Asia, Centro e Sud America, nelle Piccole Isole e nell'Artico».

 Si stima che nel mondo fra 3,3 e 3,6 miliardi di persone vivano in contesti «altamente vulnerabili ai cambiamenti climatici», quasi la metà della popolazione. I progressi nelle azioni di adattamento al cambiamento climatico «non sono uniformi», avverte il rapporto, osservando che «i divari più grandi sono tra le popolazioni a basso reddito». Per l'Europa ci sono 4 rischi-chiave: ondate di calore, rischi per la produzione agricola, scarsità di risorse idriche e inondazioni.

Ai capitoli su Europa e Mediterraneo e siccità e risorse idriche hanno contribuito anche scienziati italiani del Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici. In Europa, nel lungo periodo, l'aumento del rischio di siccità emerge in tutti gli scenari, con un incremento particolarmente rilevante per l'area del Mediterraneo. Con riscaldamento di 3°C sopra i livelli preindustriali, si stima che 170 milioni di persone saranno colpite da siccità estrema. 

 Contenendo il riscaldamento a 1,5°C, la popolazione esposta a queste condizioni scenderebbe a 120 milioni. Nell'Europa meridionale il numero di giorni con insufficienti risorse idriche (disponibilità inferiore alla richiesta) e siccità aumenta in tutti gli scenari di riscaldamento globale. Nelle prospettive di un aumento della temperatura globale di 1,5°C e 2°C la scarsità idrica riguarda, rispettivamente, il 18% e il 54% della popolazione.

Analogamente, l'aridità del suolo aumenta con l'aumentare del riscaldamento globale: in uno scenario di innalzamento della temperatura di 3°C l'aridità del suolo risulta del 40% superiore rispetto a uno scenario con innalzamento della temperatura a 1,5°C. Realizzare un modello di sviluppo in grado di resistere e adattarsi al clima è già adesso, agli attuali livelli di riscaldamento globale, una sfida complessa.

L'obiettivo sarà ancora più difficile da raggiungere se l'aumento della temperatura dovesse superare i +1,5 gradi, in alcune regioni sarà impossibile se dovesse superare i +2 gradi. Secondo gli esperti che hanno redatto il rapporto «è urgente un'azione ambiziosa e accelerata per adattarsi ai cambiamenti climatici, con più fondi, riducendo nel contempo in modo rapido e profondo le emissioni di gas serra», causate dall'uomo e all'origine del riscaldamento globale.

E avvertono che «qualsiasi ulteriore ritardo farà perdere una finestra di tempo, breve e che si chiude rapidamente», e con essa «un futuro vivibile». Anche stavolta il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha usato parole forti contro i vertici mondiali per «l'abdicazione criminale» nella lotta al riscaldamento globale rispetto alla «sofferenza dell'umanità». Il numero uno dell'Onu ha definito la pubblicazione «un atto d'accusa schiacciante del fallimento dei leader» e «perdere tempo vuol dire morire».

Per l'attivista Greta Thunberg «questa abdicazione alla leadership è criminale. I maggiori inquinatori del mondo sono colpevoli di dare fuoco alla nostra unica casa». E i colpevoli sono anche in Italia secondo Alessandro Gianni, direttore delle campagne di Greenpeace Italia. «Questo rapporto - afferma - è un avvertimento serio che si scontra con la finzione ecologica in voga in Italia. Le rinnovabili sono bloccate e si continua a puntare sul gas fossile, che oggi è la principale fonte di emissioni, o addirittura a ipotizzare di riaccendere le centrali a carbone. Una trappola».

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 2 marzo 2022.

La motonave Beatrice è in vendita, non naviga più perché si incaglia. Il comandante Carlo Alberto Favarelli si è arreso dopo questo inverno senza nemmeno una goccia di pioggia. «Era una promessa fatta in punto di morte a mio padre Dante, gli avevo giurato che saremmo tornati sul Po. Lui faceva il pontiere quando il ponte di Spessa, il paese in cui siamo nati, era fatto di chiatte legate strette. E prima di lui ci aveva lavorato mio nonno Paolo, mutilato nella prima guerra mondiale. Anche io ho lavorato per trent' anni alla cava di sabbia, sempre nel Po. Il grande fiume per noi è sempre stato come un parente. Noi diciamo così: vado a trovarlo. E tutti capiscono di chi stai parlando. Vai al Po. Vai a controllare la portata, vai a perlustrare le sponde. Vuoi sapere come sta. Ecco, il Po sta malissimo. Mai visto niente di simile in vita mia».

Nata in un cantiere navale di Mantova e varata nella primavera del 2016, la motonave passeggeri Beatrice, in onore della figlia del comandante, era stata progetta sul modello delle imbarcazioni fluviali del Reno per navigare in poca acqua: a pieno carico pesca al massimo settanta centimetri. Trecentomila euro di battello per stare nel Po, seguire e risalire la corrente fino alla zona di Piacenza, portare i turisti e intanto mantenere quella promessa fatta a un padre che aveva sempre vissuto nel fiume.

«Ma lo vedete oggi? Il Ticino alla confluenza ha 40 centimetri d'acqua, forse meno. Dove andiamo? E qui a Spessa, l'idrometro del ponte Alcide De Gasperi segna -2 metri e 12 centimetri. Record negativo di sempre. Visto che supera il -2 metri e 10 centimetri del terribile luglio 2019. Ci abbiamo provato, per noi finisce qui». Il comandante Favarelli lascia il Grande Fiume, ma in realtà è il fiume che sta lasciando noi.

«Questa condizione di siccità idrologica invernale è la più grave degli ultimi 30 anni», dice Andrea Gavazzoli, responsabile delle relazioni Istituzionali dell'autorità di bacino del fiume Po. «Abbiamo -34% sulle portate mensili di gennaio e febbraio. A Pontelagoscuro siamo oltre -40%, cioè quasi alla soglia di allerta. Ma è la sezione di Piacenza a essere quella con i valori più negativi». La catena di approvvigionamento è unica. Come è unica la sorte di questa immensa pianura.

Senza la neve sulle montagne, senza la pioggia e senza la nebbia, senza l'umidità, il fiume si svuota e la terra inaridisce. L'idrometro al Ponte della Becca, all'altezza di Pavia, racconta un mondo che non esiste più. Sta piantato nella sabbia e nell'erba. A centro metri dall'acqua. Come un errore. Eppure era proprio lì che arrivava il fiume, un tempo. Ecco il pensionato Luciano Bellan, durante la passeggiata pomeridiana: «Mai visto il fiume così basso, peggio di così muore».

In certi tratti si vede nitidamente il fondale: ecco una vecchia sedia, ecco una griglia da campeggio. Le piccole barche con la chiglia piatta e metallica stanno ormeggiate all'imbarcadero. Nei giorni di splendore, che sono sempre quelli di acqua abbondante, da qui si può navigare fino a Venezia. «Voi giornalisti vi interessate al Po solo nei casi estremi, per la siccità e per le alluvioni». Difficile dare torto a Simone Calatroni, che gestisce il rimessaggio.

«Indubbiamente il livello idrometrico è cambiato, c'è meno acqua. Ma la domanda è questa: cosa è stato fatto negli ultimi cinquant' anni? Il fiume sembra non interessare a nessuno, non ci sono punti di attracco. Non c'è cura. Non ci sono progetti. Ogni sforzo viene punito, invece che incoraggiato. Faccio un esempio: qui davanti si trattava di sostituire un tetto di amianto con un tetto di pannelli fotovoltaici. Il progetto è stato bloccato perché c'era un nido di pipistrelli. Tutte le storie del Po sono così. Nessuno riesce a prendersene cura». Il Po di Mario Soldati.

 L'autore del primo viaggio enogastronomico della storia: «Ecco la salama da sugo che si può mangiare soltanto a Ferrara, con dentro il vino e il cognac». Italia, 1957. Oggi resiste un solo pescatore di professione lungo tutto quel tratto di fiume. Si chiama Enrico Orsi, già figlio di Dante e nipote di Erminio, pescatori a loro volta. Ma resiste a Roncarolo, dopo la diga della centrale elettrica, perché lì la portata dell'acqua deve sempre essere alta. «È il punto più profondo del Po, arriva a 25 metri. Ma purtroppo di barbi e pescegatto ce ne sono sempre meno».

Lungo il fiume viene coltivata ogni tipo di verdura, dal radicchio al pomodoro, dalla barbabietola alla cipolla. Non c'è un'altra zona d'Italia con una così alta concentrazione di biodiversità. Il riso, il frumento. L'aglio, gli asparagi, le ciliegie. Sono tutte forme di vita che dipendono dall'acqua. È da questo fiume che taglia l'Italia da Ovest e Est che si vede bene il futuro. Chi prende l'acqua per primo e chi per secondo? Con quali regole? Con quali limitazioni?

«Bisogna ragionare in termini di sussidiarietà. Dal Po ogni anno vengono prelevati 20 miliardi di metri cubi d'acqua per l'industria, per l'energia e per l'agricoltura», dice ancora Andrea Gavazzoli. «Ebbene. Questa è la quarta emergenza idrica negli ultimi dieci anni. Ma per la prima volta siamo preoccupati che l'acqua poterebbe non bastare per tutti. Anche la falda sotterranea è scarica. Il vento caldo ha fatto danni. È mancata la neve, il fiume è scarico e anche il terreno è arido. Ora iniziano le irrigazioni delle campagne. Quando durerà la scorta d'acqua del Po?».

Se il Piemonte è a secco, soffrono la Lombardia, il Veneto e l'Emilia Romagna. Nessuno può fare a meno del bene primario. Ma il comandante Favarelli non crede più ai miracoli: «Sono andato a parlarne ovunque, ti ascoltano per cortesia e poi nessuno fa niente. Per esempio, là sotto, sulla sponda destra, ci sono centinaia di quintali di legnami fermi, impantanati. Ostruiscono metà del tratto navigabile, sono lì da mesi o anni. Oppure i tre attracchi, gli unici tre attracchi di questa parte del fiume, a Rea, Frega e Parpanase: sono abbondanti. Io non so perché il fiume non interessi a nessuno, non l'ho mai capito. Ma so che in settant' anni il Po così secco non l'ho mai visto».

Avevano scelto un posto vicino alla pista ciclabile che unisce Torino a Venezia. Sognavano di essere un po' come sul Reno oppure come in Olanda, ma senza per questo tradire loro stessi. Da qui mollava gli ormeggi la motonave Beatrice: «Gratis i bambini fino a 10 anni». Musica da ballo e navigazione lenta, vino e specialità culinarie. Solo che manca l'acqua. Nel giro di otto anni il fiume non è più navigabile.

«Siamo riusciti a fare l'ultima gita con dei turisti a maggio del 2019. Adesso la motonave Beatrice è ferma all'ormeggio, vado a guardarla ogni giorno come una mucca nella stalla». Quello che vede l'ex comandate Favarelli è la diretta conseguenza di quanto sta succedendo a Pian del Re, alla sorgente del Po, trecento chilometri più a Ovest. «Quest' anno è stato l'ennesimo anno anomalo. Sia per le precipitazioni, sia per le temperature. L'inverno più caldo degli ultimi sessant' anni».

Stefano Fenoglio è un professore dell'Università di Torino specializzato nello studio dei fiumi di montagna, vive su quelle montagne che originano il grande fiume: «Non piove dall'Immacolata. Da tre mesi non abbiamo precipitazioni significative. A dicembre la temperatura è stata di un grado superiore alla media, quasi due gradi a gennaio. Tutto questo si traduce nel fatto che la neve è evaporata. I versanti delle montagne esposti a Sud sono brulli, sembrano montagne afghane. E a Pian del Re, dove nasce il Po, la sorgente si è spostata di cento metri a valle per trovare la forza». Così cambia la geografia, e così cambiano i destini delle persone. Quando cambia il clima.

Alberto Fraja per “Libero Quotidiano” il 29 dicembre 2021. Non c'è fenomeno atmosferico più desiderato, invocato, percepito, ma pure maledetto, dannato e caricato d'ogni vituperio della pioggia. Dai tempi di Noè, che di acquazzoni s'intendeva, al diluvio di previsioni meteo in rete o in tv. 

Perché l'acqua che cade dal cielo «fa sì viaggiare l'anima», ma rende anche impraticabili i percorsi dei cavalieri erranti, complica le guerre, fa ritardare gli amori. Invocata in tempi di siccità, essa provoca anche la paura dell'eccesso, delle alluvioni e dei diluvi. 

Alain Corbin nel suo Breve storia della pioggia (Marietti, 80 pagine, 9 euro) ci disvela in poche ma gustosissime pagine un fenomeno a cui sono state dedicate poesie, pensieri, dipinti ma anche complicati significati politici. 

La pioggia è una straordinaria fabbrica di emozioni. Si chiede l'autore: «In quale momento della storia si individua l'evento di un io meteorologico sensibile a tutte queste variazioni? Fino a che punto i modi di provarle si sono trasformati con il tempo? Come si sono evolute le forme di attenzione, rappresentazione, desiderio, piacere e avversione suscitate dalle meteore, fino a giungere, oggi, a un bisogno quotidiano di sapere e, talvolta, a un vero e proprio disturbo psichiatrico?».

Corbin prova a fornire alcune risposte non prima di aver ricordato che è solo dalla fine del XVIII secolo che, da un lato, si intensifica la sensibilità individuale ai fenomeni meteorologici, dall'altro si affina la retorica per descrivere l'effetto delle meteore nell'animo di scrittori e intimisti. Quella dello storico francese è, insomma, una accurata rassegna delle reazioni più diverse indotte dalla pioggia. 

Già Plinio raccontava che un console romano «quando pioveva, faceva alzare il suo letto sotto le fitte frasche di un albero, per sentir fremere le gocce della pioggia e addormentarsi al loro mormorio».

Per gli artisti del Rinascimento la pioggia è prima di tutto quella del Diluvio, vale a dire la precipitazione di un'acqua violenta, che sorge sotto forma di tromba, forgiata dal vento, che sommerge, che spaventa e che anima gli incubi notturni. 

Leonardo da Vinci, in una pagina dei suoi Diari, immagina le precipitazioni del Diluvio: «L'aria è oscurata a causa della pioggia che, cadendo obliqua, ribattuta dall'assalto trasversale dei venti, forma delle onde come la polvere, a differenza del fatto che questa inondazione è come striata da linee di gocce d'acqua che scorrono».

Sono diverse le reazioni degli animi sensibili verso acquazzoni o semplice pioggerelline di marzo. Stendhal, per esempio, detestava gli scrosci d'acqua. Nei suoi scritti intimi, se la prende con veemenza con «le piogge continue, eterne, villane, infami, abominevoli». 

Al contrario Baudelaire ne faceva una componente essenziale dello spleen mentre i diaristi la intrecciavano con le lacrime.

Nell'opera di Verlaine, la pioggia si accorda con la «malinconia» mentre Victor Hugo non dimenticherà il primo abbandono di Juliette Drouer, sotto l'albero presso cui gli amanti si erano rifugiati per ripararsi dal temporale. 

L'acquazzone, secondo Debussy, racconta «la malinconia e la delicatezza, la dolcezza e la quiete» mentre André Gide, nel suo Journal, non cessa di esprimere la sua avversione verso le gocce cadute dal cielo.

E fin qui siamo alla storia della valutazione intima e individuale della pioggia. Perché esiste anche una dimensione pubblica del maltempo gravida di conseguenze. «Tanti avvenimenti importanti hanno tracciato la figura politica della pioggia» scrive l’autore.

La festa della Federazione, tenutasi a Parigi il 14 luglio del 1790 per celebrare l'anniversario della presa della Bastiglia - tanto per dire - fu rovinata da un vero e proprio nubifragio.

Per il piacere della stampa contro-rivoluzionaria che si dilettò nel descrivere il disordine, la confusione, la ressa, la fuga degli spettatori verso le gallerie, il sublime spettacolo degli indumenti femminili che aderiscono al corpo rivelandone alla vista «i contorni». 

Il libro di Corbin indaga anche sugli effetti prodotti dalla pioggia sulla guerra. Dalle strade rese impraticabili dalla pioggia che impediscono ai cavalieri erranti dei romanzi di Chrétien de Troyes di andare alla pugna alle orribili sofferenze causate dal maltempo nelle trincee durante la prima guerra mondiale.

C'è infine un ultimo aspetto da valutare. Quello relativo al desiderio della pioggia nei periodi di siccità e al terrore ispirato dalle precipitazioni eccessive, dalle piogge interminabili e, primo fra tutti, dalla grandine.

Ossessioni collettive rinvenibili in molte zone del pianeta e che hanno dato origine a un numero infinito di rituali dal profondo significato antropologico. Siamo all'origine dei tempi, quando è agli eventi celesti e marini che si attribuiscono le precipitazioni. 

Nuvole e temporali sono nelle mani delle divinità. Ma Giove e Nettuno non sono soli. Il Dio della Bibbia è anche più severo. Poi la società si laicizzò. E ora, se piove, è perché il governo è ladro.

La foto del Po in secca, cosa succede con la siccità al Nord. IVANA MINGOLLA su Il Domani il 07 febbraio 2022.

A Cremona, il fiume ha raggiunto il livello più basso degli ultimi 16 anni, sette metri sotto il livello medio: il problema è soprattutto la mancanza di neve

Copernicus, il programma di osservazione satellitare dell’Unione europea, ha fotografato il fiume Po in una situazione di grave siccità. La zona del fiume ripresa da uno dei satelliti Sentinel 2 si trova nei pressi di Cremona ed è stata fotografata venerdì. Le parti bianche sono le secche del fiume, osservate in questi giorni, in cui il livello dell’acqua si è abbassato in modo consistente, in alcuni punti, come come non avveniva da 16 anni.

Secondo l’osservatorio dell’Anbi, l’Associazione nazionale dei consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue, citato anche da Copernicus, a Cremona si è registrato un livello dell’acqua di quasi 7 metri al di sotto del valore medio di questo periodo dell'anno.  

LA MANCANZA DELLA NEVE IN MONTAGNA

Ma cosa sta succedendo nel Nord Italia? Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia ha spiegato a Domani che quest’anno indubbiamente il livello dell’acqua del Po  è «davvero molto preoccupante». Però, c’è da dire che «se d’inverno non piove molto, è normale che la portata dell’acqua dei fiumi» diminuisca. In generale «dicembre e gennaio non sono dei mesi molto piovosi al nord», però sono mesi solitamente nevosi. Quest’inverno, però, oltre alla pioggia è mancata la neve e sulle montagne non si è potuta accumulare quella riserva d’acqua, sotto forma di ghiaccio, che poi con il disgelo va a confluire nei fiumi e nei laghi, creando riserve d’acqua per le irrigazioni.

«Il problema non è che non ha piovuto –  sottolinea Di Simine – ma che mancano le riserve: quelle lacustri, quelle idroelettriche, cioè le acque contenute nelle dighe, e quelle nivali. È l’assenza della neve in montagna il grande problema».

LA SCARSITÀ DELLE RISERVE IDRICHE

Secondo gli ultimi dati di Arpa Lombardia, al 30 gennaio 2022, nella regione si sarebbero dovuti avere a disposizione oltre tre miliardi di metri cubi di riserve idriche complessive, stando alla media osservata dal 2006 ad ora. Invece, i metri cubi di riserve d’acqua attualmente disponibili sono meno di un miliardo e mezzo. In particolare, quelle di neve sarebbero dovute ammontare a quasi due miliardi di metri cubi, mentre sono meno di seicento milioni.

Il mancato accumulo di neve in montagna è una conseguenza del surriscaldamento climatico. A causa dell’aumento della temperatura, non solo il giaccio delle Alpi si scioglie, ma non nevica e non si rinnova la riserva di ghiaccio sui monti. La riduzione dei ghiacciai si riverbera poi sulla portata di fiumi e laghi, con la conseguenza che diminuisce anche l’acqua accumulata nei bacini idroelettrici, da cui normalmente, durante la stagione irrigua, viene prelevata l’acqua per l’agricoltura.

IL DATO STATISTICO INGANNEVOLE DELLE PRECIPITAZIONI

«Se non c’è neve in montagna e poi è difficile avere acqua per irrigare», sintetizza Lorenzo Bazzana, il responsabile economico nazionale di Coldiretti. «È chiaro che prima o poi pioverà, grosso modo le precipitazioni sono sempre le stesse. Il problema è come sono distribuite». Bazzana evidenzia che statisticamente a livello nazionale le precipitazioni risultano mediamente stabili su base annua. Ma quelle statistiche comprendono le piogge torrenziali come quelle che si sono avute in Sicilia, che fanno da contrappeso quantitativo alla siccità sofferta dalle regioni del nord.

IL DRAMMA PER I COLTIVATORI

Oltre alle scarse precipitazioni, c’è il problema delle alte temperature. Nel mese di gennaio in Lombardia si si sono toccate punte di temperatura massima tra i 18 e i 20 gradi. Questo è un problema per le coltivazioni, perché porta le piante, spiega Bazzana, a «una forte traspirazione che non trova compensazione nell’acqua del terreno» non irrigato dalla pioggia.

Tutto questo comporta, per gli agricoltori che, «nel migliore dei casi, chi ha possibilità di irrigare con pozzi, può intervenire con l’irrigazione di soccorso; mentre, nel peggiore dei casi, può esserci la situazione in cui la pianta secca, e si è costretti ad arare tutto», con una perdita totale delle colture.

L’IRRIGAZIONE DI SOCCORSO

L’irrigazione di soccorso è quella a cui si ricorre utilizzando l’acqua dei pozzi oppure l’acqua proveniente dai canali del consorzio di irrigazione. In entrambi i casi si tratta di sistemi di riserve d’acqua cui normalmente si attinge nella stagione calda. Pertanto anche essere costretti ad anticiparne l’uso diventa un problema per le aziende. Soprattutto in vista del fatto che anche i pozzi, di cui non tutti dispongono, risentiranno della siccità complessiva.

Se infatti non piove quelli che raccolgono acqua piovana non si riempiono, ugualmente quelli che tirano su l’acqua dalla falda si troveranno in una condizione di penuria di riserva acquifera. A ciò è poi da aggiungere il costo del gasolio per attivare questi pozzi, che con il caro dell’energia di questi periodi, diventa un’ulteriore spesa da sostenere in una stagione in cui non sarebbe stato previsto. «Quindi si rischia di produrre di meno e con un aggravio dei costi».

IL PROBLEMA DELLE PIOGGE TORRENZIALI E DEL GELO

Un altro problema per i coltivatori è quello di trovarsi a fronteggiare il fenomeno della concentrazione di forti piogge che spesso si verificano quando non piove per molto tempo e poi in pochi giorni si realizza un eccesso di precipitazioni, tale da annegare le piante, che muoiono «per asfissia radicale», spiega ancora Bazzana.

Si spera nel meteo delle prossime settimane. E si spera anche che non avvenga come l’anno scorso, «quando il 7 aprile, un irrigidimento climatico di meno 6 gradi nel bel mezzo della primavera, gelò i fiori delle pere, facendo precipitare del 70 per cento la produzione» di questo frutto.

IVANA MINGOLLA. Classe 1984. Pugliese, si è laureata in relazioni internazionali alla Sapienza di Roma e ha conseguito un master di II livello in politica internazionale alla Lumsa. Ha studiato giornalismo di guerra, all'Institute for Global Studies di Roma, e giornalismo d'inchiesta, alla Scuola di giornalismo della Fondazione Lelio Basso. Ha lavorato per Teleambiente, oggi scrive per Domani

·        Lo Spreco dell’acqua.

Oltre metà delle acque italiane contiene pesticidi: lo rivela un rapporto dell’ISPRA. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 26 ottobre 2022.

Più della metà delle acque superficiali italiane contiene pesticidi: è quanto rivela un recente rapporto dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), incentrato sul biennio 2019-2020. Dal documento infatti si apprende che, relativamente alle acque superficiali “sono stati trovati pesticidi nel 55,1% dei 1.837 punti di monitoraggio”. Numeri che inevitabilmente generano preoccupazione, soprattutto se si considera che oltre il 30% dei punti di monitoraggio ha “concentrazioni superiori ai limiti ambientali” e che tra le sostanze che più spesso hanno determinato tale superamento vi è il controverso erbicida glifosato ed il suo metabolita AMPA. Leggermente migliore la situazione delle acque sotterranee, contaminate nel 23,3% dei 2.551 punti di monitoraggio, con concentrazioni superiori ai limiti di legge in 139 punti, il 5,4% del totale. Anche in questo caso il glifosato è stato il contaminante chimico più trovato.

La presenza di pesticidi è risultata più elevata nel Nord Italia, arrivando a interessare il 67% dei punti delle acque superficiali e il 34% delle acque sotterranee. Ma questo, sottolinea il rapporto, è probabilmente dovuto al fatto che le indagini sarebbero state svolte più accuratamente: il monitoraggio, infatti, nel tempo si è concentrato in modo particolare nelle aree dove la contaminazione è più probabile, le quali sono presenti appunto nel Nord Italia. “La presenza di pesticidi, come già ampiamente segnalato negli anni precedenti, è più diffusa nelle aree della pianura padano-veneta“ – si legge nel rapporto – in cui viene sottolineato come “tale stato sia legato ovviamente alle caratteristiche idrologiche del territorio in questione e al suo intenso utilizzo agricolo, ma dipenda anche dal fatto, non secondario, che le indagini sono più complete e rappresentative nelle regioni del Nord”.

La buona notizia, però, è che “la frequenza di ritrovamento delle sostanze prioritarie della DQA (Direttiva Quadro Acque) ha un andamento crescente fino al 2018 sia nelle acque superficiali che sotterranee”, mentre nell’ultimo biennio vi è una tendenza decrescente. Quest’ultima, “si spiega probabilmente col fatto che gran parte dei pesticidi dell’elenco di priorità sono fuori commercio e quella misurata è il residuo di una contaminazione storica”. Al declino dei ritrovamenti totali, inoltre, “contribuisce la revoca nel 2020 di due delle sostanze fino a quella data ancora in vendita e tra le più ritrovate, clorpirifos e diuron”, oltre al fatto che dal 2011 al 2020 si è verificata una sensibile diminuzione delle quantità di prodotti fitosanitari messe in commercio, il che è indice di “un più cauto impiego delle sostanze chimiche in agricoltura, dell’adozione di tecniche di difesa fitosanitaria a minore impatto e dell’aumento dell’agricoltura biologica”.

Tuttavia, la situazione complessivamente non può dirsi positiva, visto che nelle acque sono in generale state trovate 183 sostanze diverse, rappresentate per la maggior parte da erbicidi, e che è lo stesso ISPRA a sottolineare come il risultato complessivo indichi “un’ampia diffusione della presenza di pesticidi”. Inoltre, l’ISPRA precisa anche che “le concentrazioni misurate sono in genere frazioni di µg/L (parti per miliardo), ma gli effetti nocivi delle sostanze si possono manifestare anche a concentrazioni molto basse”. A tutto ciò, infine, si aggiunga che “i dati di monitoraggio evidenziano la presenza di miscele nelle acque”, con “un numero medio di 4,3 sostanze e un massimo di 31 sostanze in un singolo campione”. “Si deve, pertanto, tenere conto che l’uomo e gli altri organismi sono spesso esposti a miscele di sostanze chimiche, di cui a priori non si conosce la composizione, e che lo schema di valutazione basato sulla singola sostanza non è adeguato”: questo si legge nel rapporto, in cui viene precisato come sia “necessario prendere atto di queste evidenze, confermate a livello mondiale, con un approccio più cautelativo in fase di autorizzazione”. In conclusione, dunque, si può affermare che seppur vi siano alcune note positive le condizioni in cui versano le acque italiane sono ancora tutt’altro che ottimali. [di Raffaele De Luca]

Negli ultimi 20 anni due miliardi di persone hanno ottenuto accesso all’acqua potabile. Gloria Ferrari il 25 ottobre 2022 su L'indipendente.

Negli ultimi vent’anni due miliardi di persone in più nel mondo sono riuscite ad usufruire, nelle proprie abitazioni, di acqua potabile e sicura. Sono i dati contenuti nel nuovo rapporto dal titolo The State of the World’s Drinking Water, pubblicato dalle Nazioni Unite. La popolazione mondiale che può bere e usare acqua pulita è infatti passata da 3,8 miliardi del 2000 a 5,8 miliardi nel 2020. Una notizia eccellente, che dimostra come a livello globale si muovano passi in avanti nel portare a un maggior numero possibile di persone un accesso ai bisogni minimi di base. Anche se, ovviamente, il problema non è ancora del tutto risolto e – se contestualizzato – mostra ancora dei punti deboli.

Ogni anno, secondo l’Istituto Superiore di Sanità, sono ancora quasi due milioni le persone che perdono la vita (solitamente di dissenteria) per aver ingerito acqua non potabile, su 4 miliardi di casi. Tra i morti ci sono almeno 300.000 bambini, di età inferiore ai cinque anni. «Nessun bambino dovrebbe essere costretto a scegliere tra acqua sporca da bere o intraprendere viaggi pericolosi per raccogliere acqua più pulita», ha detto Aidan Cronin, Direttore UNICEF ad interim per l’Acqua e i Servizi igienici e Clima, Ambiente, Energia e Riduzione del Rischio di Catastrofi.

Per chi sopravvive, invece, il rischio di ammalarsi rimane comunque molto alto, visto che milioni di bambini frequentano scuole senza acqua potabile (nel 2021 erano 546 milioni). In casi come questi – soprattutto se si tratta di neonati o persone con difese immunitarie molto basse – le diarree possono essere l’avvisaglia di malattie gravi, come la febbre tifoide e il colera. Quest’ultima colpisce ancora 3 milioni di persone all’anno, e causa morte rapida se non viene trattata in tempo. I rischi legati all’acqua sono nascosti ovunque. Si stima ad esempio che fino a 220 milioni di persone (94% in Asia) siano a rischio di esposizione a concentrazioni elevate di arsenico, contenuto nelle falde sotterranee.

Tutto questo accade soprattutto in specifiche aree della Terra. Le disparità geografiche sono infatti ancora molto marcate, non solo tra Paesi diversi: capita ad esempio che all’interno di una stessa città una fetta di popolazione non abbia accesso ad un’acqua sicura. A tal proposito i dati del 2020 hanno evidenziato che se in Europa la fornitura d’acqua potabile, in quell’anno, copriva il 96% del continente (lo stesso nel Nord America), nell’Africa sub-sahariana si arrivava solo al 30%. In queste terre, tra l’altro, è molto più forte il divario tra ricchi e poveri. Facendo un confronto tra il 20% della popolazione più ricca e più povera, è emerso che i più ricchi hanno il doppio delle probabilità di utilizzare fonti di acqua potabile. Differenze di questo tipo esistono anche in altri Paesi.

Queste percentuali fanno riflettere ancor più se associate ad altri dati, come questo: le stime, tra le altre cose, dicono che ogni giorno nel mondo vadano persi quasi 350 milioni di metri cubi di acqua per via della condizione delle reti di distribuzione. A quante persone avremmo potuto dare da bere?

Negli ultimi anni è inoltre entrato in gioco un altro fattore, che ha acuito il problema: il cambiamento climatico. «Fornire un più ampio accesso all’acqua sicura da bere ha salvato molte vite, la maggior parte bambini. Ma il cambiamento climatico sta intaccando questi risultati». Con queste parole Maria Neira, Direttore del Dipartimento Ambiente, Cambiamento Climatico e Salute dell’OMS ha espresso le sue preoccupazioni, sottolineando che «l’accesso adeguato ad acqua pulita da bere è un diritto umano, non un lusso».

Ma in che senso c’entra il cambiamento climatico? L’innalzamento delle temperature e il rapido scioglimento dei ghiacciai sta favorendo da una parte l’avanzamento della siccità e dall’altra inondazioni sempre più violente. Fenomeni così estremi come questi possono ad esempio danneggiare o interrompere totalmente le forniture di acqua e nel peggiore dei casi devastano comunità intere. I dati dicono che la popolazione globale esposta a siccità estrema è destinata ad aumentare dal 3% all’8%.

È un grosso problema, soprattutto se si considera che l’assenza di acqua, oltre ad aumentare la fragilità degli ecosistemi, accresce un fenomeno pericoloso: l’instabilità sociale. È importante, per questo, che i Governi intensifichino i loro sforzi soprattutto su certi fronti, tra cui “garantire la disponibilità di dati e informazioni rilevanti per comprendere meglio le disuguaglianze nei servizi di acqua potabile e prendere decisioni basate su dati concreti e incoraggiare l’innovazione e la sperimentazione attraverso politiche e normative governative di sostegno, accompagnate da un monitoraggio e una valutazione rigorosi”, come si legge nel report. [di Gloria Ferrari]

Dove sta l’acqua va l’altra acqua. La sete nel mondo ricco è antica perché è una sete maligna inestinguibile dai temporali perché è sete di giustizia. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Ottobre 2022.

Mio padre, citando suo padre, il quale, probabilmente, citava altri saggi di piazza grande o farmacia, sentenziava che «dove sta l’acqua va l’altra acqua». E non sentenziava in Italiano, ma in dialetto bitontino con quelle sonorità caratteristiche della parlata del mio paese che sembrano imitare una lenta e pigra risacca fiumarola nello scorrere della loquela pugliese così cantabile.

Io, bambino, pensavo che mio padre sentenzioso alludesse all’acqua «acqua», quella che cade dal cielo ed è pioggia o a quella, rara dalle nostre parti, dei fiumi o torrenti, o a quella capricciosa di onde arruffate del mio Adriatico domestico della placida radura marina che era, allora, Santo Spirito. I miei padri allegorizzavano e, per acqua, intendevano la ricchezza del denaro, quell’essere facoltosi che conferisce potere.

Volevano dire, rassegnati, che la ricchezza tende ad assommarsi e non solo per la rapacità esosa delle eredità famigliari così esclusive, ma anche per una sorta di fatalità che sembrava ispirarsi alla constatazione di Max Weber il quale intravedeva nel successo del capitalismo consolidato la dimostrazione che Dio è dalla parte di coloro che diventano ricchi, visto che elargisce fortuna e successo negli affari e nell’accumulazione di beni come prova della sua benevolenza. Gli increduli lettori potranno abbeverarsi, è il caso di dirlo, consultando il celebre saggio di Weber sull’etica del capitalismo e sul Protestantesimo.

Mio padre, forse, aveva letto il libro, mio nonno no di certo, ma s’erano trasmessi quella particola di saggezza: «Dove sta l’acqua va l’altra acqua». Oggi, l’altro ieri per chi mi legge, che l’acqua, quella reale, non l’acqua metaforica, scarseggerà drammaticamente per via della crisi economica e sociale dovuta alla guerra infame di Putin contro il mondo, guardo al tardivo temporale già perentoriamente autunnale e puntiglioso che sta inondando e, spero, solo benedicendo, gran parte d’Italia. Lo spio e m’incanto scrutando la bella forza naturale che dilaga sulla nostra terra meridionale sitibonda. Ecco: sitibonda. Dicevano proprio così i padri pensatori che mio padre leggeva: i Nitti, i Salvemini, i Di Vittorio i Tommaso Fiore. Gli stessi che rabbrividivano di sgomento e s’ostinavano ad indignarsi quando l’acqua, quella metaforica, l’allegoria del denaro e del potere, si studiava di assecondare il corso ingiusto del privilegio e dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo e impetravano da un cielo, che non poteva essere avaro, sfruttatore e Weberiano, più pioggia e più giustizia sociale. Dicevano «sitibonda» per radicare il linguaggio nella parlata colta, quella pensosa degli studiosi che si dissetano con l’ottimismo della volontà, pur bruciando nell’arsura del pessimismo della ragione.

Essi sapevano, come mio padre m’insegnò, che la sete della nostra terra non era stata una decisione di Dei esosi e incontentabili che avevano disertato le nostre contrade e i nostri mari, ma colpa di uomini avidi, ingiusti, accumulatori, dispendiosi del ben di Dio che c’è stato donato e che, per dirla con Dostoevskij, pur vivendo in un paradiso, non si curano di saperlo. La sete nel mondo ricco è antica, dunque, perché è una sete maligna, inestinguibile dai temporali, perché è sete di giustizia. È la conseguenza di soperchierie sugli uomini e di rapacità sulla natura sfruttata senza ritegno e senza alcuna prudenza. La disastrosa rapina e la meticolosa demolizione dell’ambiente, conseguenza, è solo una rudimentale constatazione, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, hanno massacrato anche la vita dell’acqua. Eppure la natura non era stata avara quando i progenitori avevano cominciato a dialogare in Greco con lei e a raccontarle di antichi eroi fondatori di città, cittadini coraggiosi e intraprendenti in grado anche di trapiantare l’ulivo della pace e della prosperità nella terra ospitale di là dal mare. Sono state le troppe età del ferro ad inasprire la terra e ad inaridire l’alleanza tra gli esseri umani.

La Puglia nostra, per esempio, diventa sitibonda quando i suoi abitanti devono constatare la metafora rassegnata dell’acqua della ricchezza che raggiunge fatalmente l’altra acqua stagnante dell’opulenza accumulata senza giustizia sociale. La tempesta climatica con cui stiamo pagando le conseguenze dei terribili danni al pianeta portati da una umanità che sembra ignorare la prudenza, i nubifragi che devastano intere regioni facendo ammutolire gli amministratori imbelli di questi tempi rinsecchiti e aridi non sono che l’ennesima, amara e rassegnata metafora. Piovere, deve piovere, ma deve essere un temporale armonico con la taciturna armonia del pianeta rispettato e custodito. “Scampato”, il temporale meteorologico, dispensiamo con saggezza l’acqua della giustizia sociale, sostanza delle democrazie che non si manifesta con subitanei e demagogici piovaschi. L’arsura delle disuguaglianze può lasciarci assetati. Proviamo una variante della metafora sociale: «dove c’è già l’acqua non occorre che ne piova altra».

Allerta siccità in California. Multe ai vip di Hollywood. "Sprecano troppa acqua". Redazione il 25 agosto 2022 su Il Giornale

Solo pochi giorni fa era toccato a Erin Brockovich, icona ambientalista da quando - correva l'anno 1993 - fece causa alla Pacific Gas & Electric per trent'anni di contaminazione delle acque della città di Hinkley, in California: multata di 1.700 dollari per non aver rispettato il limite nel consumo di acqua imposto dallo Stato del sole, questa estate alle prese con una crisi idrica ancora più grave rispetto agli ultimi anni. Ieri, invece, la polizia ha bussato nelle lussuose residenze di Kim Kardashian e della sorella Kourtney, milionarie influencer di calibro mondiale, anche loro accusate di aver sprecato acqua.

Mentre la California è alle prese con una delle peggiori siccità della sua storia, infatti, le sorelle Kardashian sono state segnalate per aver superato in diverse occasioni la loro quota mensile di acqua disponibile di oltre il 150%. Lo riporta il Los Angeles Times citando delle segnalazioni della autorità. Ma l'elenco dei divi di Hollywood poco inclini a rispettare i divieti e dall'indole tutt'altro che ambientalista non si esaurisce qui, alla faccia dell'altra grande stella del cinema, Arnold Schwarzenegger, che della California è stato governatore per due mandati e che nella sua carriera di politico ha rilanciato con forza il tema del riscaldamento climatico. Pizzicati a sprecare acqua, infatti, anche Kevin Hart, attore comico e produttore cinematografico, la stella del basket americano Dwane Wade, che ha casa (o per meglio dire, villa) a Miami, e anche il grande Sylvester Stallone.

L’allarme: il Sarno è il fiume più inquinato d’Italia ed è un pericolo per i cittadini. Lorenzo Fargnoli su L'Espresso il 2 Agosto 2022.  

Cento scarichi attentano al canale della Venezia del Sud. Ora però gli abitanti di Scafati lo vivono come un nemico. «Ho proposto a mio marito di scappare da qui anche perché adesso abbiamo una seconda figlia e abbiamo paura».

«Questo fiume lo abbiamo violentato per anni. Adesso è diventato il nostro peggior nemico». Sono le parole di Luigi Lombardi, un attivista del comitato cittadino Scafati in difesa del fiume Sarno. Mentre parla di come oramai gli scafatesi odino il loro fiume, tossisce ripetutamente. La cittadina campana infatti è invasa da un odore acre, un tanfo, che stringe come un nodo alla gola chi lo respira. Nonostante i quasi quaranta gradi, la maggior parte delle finestre dei palazzi sono serrate. L’odore è troppo forte e neanche la notte riesce a portare giovamento. Tutto questo per colpa del fiume. Il Sarno infatti è un corso d’acqua di appena 26 chilometri, tristemente famoso per essere tra i fiumi più inquinati del mondo. In una conferenza sui fiumi meno salubri del pianeta, tenutasi a New York nel 2018, è stato classificato al sesto posto in questa poco lusinghiera classifica. Per chi è così temerario da affacciarsi al di sopra dei suoi argini, si presenta con un colore marrone torbido, continuamente attraversato da filamenti gelatinosi e bolle di schiuma, che si formano e si distruggono con la forza quieta della sua corrente. 

Ad oggi l’unico tratto ad essere balneabile è quello dei primi 200-300 metri, praticamente solo la zona limitrofa alle sorgenti. Subito dopo le acque vengono irrimediabilmente contaminate dai quasi cento scarichi civili e industriali.

Luigi, schiaritosi finalmente la voce, continua spiegando che un tempo il fiume e i suoi innumerevoli canali venivano vissuti come parte integrante del tessuto urbano, tanto da far conoscere la città di Scafati come la “piccola Venezia”. «Tutta la vita della città in qualche modo girava attorno al fiume. Adesso tutto questo è andato perduto». 

Il Sarno paga il pesante tributo di percorrere un territorio altamente antropizzato. Attraversa, in uno spazio relativamente breve, tre poli industriali, una campagna intensivamente coltivata e 39 comuni con una densità abitativa superiore alla media di Paesi sovrappopolati come il Bangladesh. Anche per questo la portata d’acqua del fiume non risente, neanche in questa torrida estate, del grave periodo di siccità che sta colpendo il nostro Paese.

Gli scarichi fognari e pluviali di decine di comuni gonfiano la portata del fiume, portandolo ogni anno ad esondare nei mesi primaverili ed autunnali con gravi disagi per i cittadini e trasportando nelle campagne circostanti il suo limo inquinato. Per l’ingegnere civile Michele Russo quello del Sarno è un problema strutturale: un’area così densamente edificata e quindi impermeabilizzata, non riesce a drenare a sufficienza l’acqua piovana che viene così convogliata forzatamente nell’alveo del fiume Sarno. 

Ma la densità abitativa e la cementificazione selvaggia non sarebbero comunque sufficienti a spiegare i livelli di inquinamento a cui è sottoposto il fiume da almeno quarant’anni. Quasi un milione di persone vive attorno al suo bacino e, secondo le stime dell’Ente idrico campano, circa 500mila non sono ancora collegate ad un sistema fognario. Le loro acque nere vengono direttamente scaricate nell’alveo del fiume, trasformandolo in una fogna a cielo aperto. In una relazione del senatore Roberto Manzione, per la Commissione parlamentare d’inchiesta sulle cause dell’inquinamento del Sarno, si stima che sono stati sprecati ottocento milioni di euro dei contribuenti, senza migliorare significativamente la situazione.

Gran parte dei lavori, come la costruzione dei depuratori, alla fine fu completata, ma nessuno ha mai collegato le reti fognarie ai siti di depurazione. Da qualche anno però si tenta di intervenire per finire quello che era stato in qualche modo iniziato. La Gori, un’azienda a partecipazione privata, gestisce, per l’ente idrico campano, sia la distribuzione dell’acqua potabile sia tutte le reti fognarie del bacino idrografico del Sarno.

La società promette di collegare ai depuratori tutti gli scarichi fognari entro dicembre 2025. Alla Gori, sono così sicuri che Andrea Palomba, responsabile Gestione idrico e fognario dell’azienda, promette che il giorno della scadenza della mission aziendale farà il bagno dentro al fiume. Una promessa a cui i cittadini guardano con scetticismo, abituati ad anni di cantieri mai conclusi, fondi spariti e cattiva gestione di quello che è stato già costruito. Anzi, con un’iniziativa senza precedenti e nata dalla mobilitazione civile, le associazioni “Libera dalle mafie”, “Anpi” e “Legambiente” hanno chiesto agli attuali ministri della Salute, dell’Ambiente e del Lavoro l’apertura di un tavolo nazionale e il commissariamento della gestione della depurazione del fiume. Richiesta respinta al mittente dal ministro dell’Ambiente Roberto Cingolani. Ma qualora fossero risolti i problemi con gli scarichi fognari, rimarrebbe sempre da affrontare il grave problema degli agenti inquinanti e dei prodotti di scarto delle zone industriali: i metalli pesanti e gli agenti chimici delle concerie della cittadina di Solofra o delle tante piccole industrie che sorgono lungo il fiume e gli scarti delle industrie conserviere del pomodoro San Marzano.

Alcune di queste ultime, nonostante siano attive solo per 3 mesi, da luglio a settembre, immettono nel fiume la quantità di materiale biologico (scarti e bucce di pomodoro) che un depuratore di norma gestisce in un anno, compromettendone l’efficienza. In quei mesi il Sarno si tinge letteralmente di rosso.

Una condizione del fiume talmente compromessa da spingere i cittadini a temere per la loro salute e quella dei loro cari. Ma ad oggi è difficilissimo collegare i malati e i morti all’inquinamento, perché manca da almeno dieci anni un registro tumori della provincia, nonostante già nel 1997 l’Oms (Organizzazione mondiale della sanità) segnalasse una maggiore incidenza di cancro e leucemia proprio nel bacino del Sarno.

Quella della mancanza di dati epidemiologici è la battaglia di Alfonso Annunziata, un avvocato. Recentemente ha presentato un esposto alle procure di Torre Annunziata e di Nocera Inferiore per indagare le connessioni causa effetto fra la comparsa di un linfoma in un suo cliente e le sostanze inquinanti presenti nel fiume. Finché non si porterà avanti uno studio serio sulle conseguenze dell’inquinamento del Sarno sarà complicato trovare giustizia. E non c’è un registro tumori nonostante sia obbligatorio per legge.

Mentre l’avvocato parla, dalla maglietta aperta si intravede una vistosa cicatrice all’altezza del collo. Anche lui qualche anno fa si era ammalato di un tumore benigno alla tiroide. Adesso, dopo un intervento chirurgico, sta bene. Secondo lui è diventato un dato esperienziale di tutta la città che le persone si stiano ammalando. E alcune ricerche esistono e i dati sono molto preoccupanti.

Secondo uno studio, “Environmental pollution effects on reproductive health – Clinical-epidemiological study in Southern Italy”, pubblicato su Pubmed, i casi di malformazioni fetali nelle città attorno al Sarno sono quattro volte superiori a quelle del “Triangolo della morte” di Acerra-Nola-Marigliano, la terra dei fuochi. I medici li attribuiscono alla presenza di metalli e agenti inquinanti. Un inquinamento certificato anche dalle analisi dell’Arpac Campania. L’agenzia, grazie ai suoi tecnici, monitora continuamente la situazione del fiume, intervenendo in collaborazione anche con i carabinieri. Secondo le tabelle i valori di cromo disciolti nel fiume nei pressi di Scafati superano mediamente di tre volte la soglia consentita. A destare più preoccupazione è la contaminazione da “Pfos”, una sostanza utilizzata in ambito industriale, che può causare tumori, ritardi della crescita, alterazioni del sistema endocrino e mortalità neonatale. Le rilevazioni di questo agente chimico, effettuate dall’Arpac nel 2018, sono arrivate ad avere valori di ottomila volte superiori ai limiti. Per l’oncologo e farmacologo Antonio Marfella siamo arrivati ad un punto critico di avvelenamento della popolazione.

Oramai non si ammalano di tumore solo gli adulti ma anche i bambini nascono con malformazioni e malattie, poiché le sostanze tossiche hanno irrimediabilmente danneggiato i gameti dei genitori. Marfella, che è anche Presidente dei Medici per l’Ambiente di Napoli, mostra uno studio del 2015 dal nome “Distribution of toxic elements and transfer” che certifica il ritrovamento di mercurio e cromo, non solo dentro le verdure e i terreni coltivati nella piana del fiume, ma anche nei capelli dei cittadini dell’agro nocerino-sarnese.

Da quasi quarant’anni le persone che vivono attorno al Sarno vengono avvelenate da un mix letale di sostanze cancerogene e dannose per la salute. Dal fiume passano ai prodotti coltivati, alla catena alimentare animale, fino ad arrivare all’uomo. Qualcuno però per forza di cose non si può abituare a questa condizione e sono Lina e Patrizia le madri di due bambini, rispettivamente Valentina ed Achille. Negli anni scorsi i loro figli si sono ammalati di tumore e le loro prognosi hanno dato purtroppo esiti infausti. Si ritrovano nella chiesa di San Francesco di Paola con le foto dei loro figli strette fra le mani. Raccontano con dovizia di particolari tutto il calvario che hanno dovuto vivere insieme a tutta la famiglia. Il momento della diagnosi, i viaggi per le cure nelle città del nord e le difficoltà economiche. Patrizia si commuove di rabbia quando ricorda il colloquio con l’oncologo: «Ci ha detto che non avevano i fondi necessari per studiare le cause. Ho proposto a mio marito di scappare da qui anche perché adesso abbiamo una seconda figlia e abbiamo paura che possa accadere di nuovo, ma il suo lavoro è a Scafati. In quale altro posto potremmo andare?».

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 5 luglio 2022.  

Se i ghiacciai si sciolgono o se non nevica, c'è poco da fare: è colpa del cambiamento climatico e occorre un'inversione di tendenza a livello globale. L'Italia, però, ci mette del suo nel farsi del male da sola. 

È del tutto inutile convogliare milioni di litri di acqua potabile se gli acquedotti sono un colabrodo. È addirittura drammatica, infatti, l'ultima fotografia scattata dall'Istat. «Nel 2020 sono andati persi 41 metri cubi al giorno per ciascun km di rete nei capoluoghi di provincia o città metropolitane, il 36,2% dell'acqua immessa», scrivono. Attenzione alle statistiche, però, che non raccontano a fondo il dramma di alcuni acquedotti, in particolare i peggiori venti, dove il governo accorrerà con un commissario straordinario.

In un capoluogo su tre si registrano infatti perdite totali superiori al 45% dell'acqua immessa. In certi casi, si perdono addirittura i due terzi dell'acqua immessa. Le situazioni peggiori sono a Siracusa (67,6% di perdita), Belluno (68,1%), Latina (70,1%) e Chieti (71,7%). Impressionanti le perdite anche degli acquedotti di Potenza, Cagliari, Campobasso e L'Aquila, dove ci sono record negativi in metri cubi giornalieri persi per ogni km di rete.

Tanto sforzo per nulla. «La rete di distribuzione dei Comuni capoluogo - scrive l'Istat - si sviluppa su oltre 57mila chilometri di rete. I gestori hanno complessivamente immesso in rete 2,4 miliardi di metri cubi di acqua (370 litri per abitante al giorno) ed erogato 1,5 miliardi di metri cubi per usi autorizzati agli utenti finali, pari a 236 litri per abitante al giorno». Il resto, la differenza tra acqua captata e acqua consegnata, è quanto si perde.

Questi i dati riferiti a 109 città capoluogo, che per volumi di acqua rappresentano il 33% circa dei volumi complessivamente distribuiti sul territorio nazionale. Rispetto al 2018, però, le portate si sono ridotte di oltre il 4%. L'acqua potabile, insomma, sta diventando un bene sempre più prezioso. E i nostri acquedotti la sprecano inesorabilmente. Nel 2020 si calcola che siano andati dispersi 0,9 miliardi di metri cubi. 

All'opposto, ci sono Comuni molto più attenti al bene comune, con perdite idriche inferiori al 25%. Questi i sette migliori: Macerata (soltanto il 9,8% di perdita), Pavia (11,8%), Como (12,2%), Biella (12,8%), Milano (13,5%), Livorno (13,5%) e Pordenone (14,3%).

L'attenzione del Governo ovviamente va alle performance peggiori. Quei nove Comuni, ad esempio, tre del Centro e sei del Mezzogiorno, dove si registrano perdite superiori ai 100 metri cubi giornalieri per chilometro di rete, più del 50% dell'acqua immessa in termini percentuali. E non c'è da meravigliarsi se ben 11 Comuni capoluogo, localizzati tutti nel Mezzogiorno, nel 2020 hanno dovuto razionare l'acqua potabile. «Ciò a seguito della forte obsolescenza dell'infrastruttura idrica, dei problemi di qualità dell'acqua per il consumo umano e dei sempre più frequenti episodi di riduzione della portata delle fonti di approvvigionamento». 

È un bollettino della vergogna, il razionamento dell'acqua. Uno scandalo di cui poco si parla a livello nazionale: a Enna, Pescara, Cosenza e Reggio Calabria, l'acqua va e viene; le misure restrittive interessano circa 227mila residenti. A Catania la distribuzione dell'acqua è stata ridotta per fascia oraria per sei giorni nel mese di luglio. Ad Avellino e Palermo l'erogazione è stata sospesa nell'arco dell'anno, rispettivamente per 11 e 183 giorni, soprattutto nelle ore notturne, per consentire il riempimento delle vasche di alimentazione della rete.

A Caltanissetta, un quinto dei residenti è stato sottoposto a una riduzione o sospensione nell'erogazione per complessivi 211 giorni. A Ragusa si è fatto ricorso a turni di erogazione o sospensione dell'acqua per 75 giorni in alcune zone della città, interessando il 13,9% dei residenti. Le situazioni più critiche si registrano ad Agrigento e Trapani. Ad osservare sgomenti la triste fine di tanta acqua potabile raccolta in montagna, sono proprio i Comuni montani. Quelli che l'acqua la producono. 

Parliamo di 3.800 Comuni che magari contano poco in termini di popolazione, ma sono fondamentali per la gestione del territorio. A rappresentarli è l'Uncem, Unione nazionale Comuni montani. «Occorre subito efficientare - hanno scritto al governo - le reti idriche. Servono 5 miliardi di euro in 5 anni. Il Paese deve investire e mettere "in rete le reti" comunali che in moltissimi casi non sono in relazione per effetto di "campanilismi" da vincere».

Anche se meno di prima, a un certo punto le piogge arrivano. Ma noi lasciamo che l'acqua se ne vada via senza immagazzinarla nemmeno per l'agricoltura. Coldiretti e dell'Associazione nazionale delle bonifiche premono da anni perché si finanzi un piano di creare diecimila laghetti senza cemento, solo con terra e pietre. Chissà se stavolta sarà la volta buona -

Rinascita & Resilienza. Report Rai. PUNTATA DEL 27/06/2022 di Luca Chianca

Collaborazione di Alessia Marzi

Il livello del fiume Po è di 7 metri sotto quello abituale. 

La neve sulle Alpi è totalmente esaurita, e più di 125 Comuni rischiano di rimanere senza acqua: è la peggiore siccità negli ultimi 70 anni. C'è già qualche sindaco che ha vietato di innaffiare orti e giardini in città, lavare le macchine e riempire le piscine. Intere aree del nord Italia sono già da tempo a rischio desertificazione. L'agricoltura è in ginocchio, ma per fortuna l'Europa ci ha messo a disposizione un'occasione unica: 190 miliardi di euro per il Pnrr, Piano nazionale di ripresa e resilienza. E quanti soldi sono stati destinati al contrasto della siccità ormai nota da anni in Pianura Padana? Sul tema dell'acqua, con i soldi del Pnrr, il ministero dell'agricoltura ha lanciato un bando da 880 milioni per migliorare la gestione delle risorse irrigue ma di fatto il bando prevede solo di rendere più efficiente il sistema senza la costruzione di nuovi piccoli invasi o opere che servirebbero a contrastare il fenomeno della desertificazione. Altro grande tema del nuovo Piano nazionale di ripresa e resilienza è quello della next generation, dove la scuola assume un ruolo chiave e il Governo ci ha investito oltre 4 miliardi di euro mettendo tutto a gara. Da un lato si è puntato sulla costruzione di 216 nuovi edifici con i migliori sistemi di efficientamento energetico, dall'altro si è investito sull'apertura di nuovi nidi e nuove scuole dell'infanzia. Il problema è che la formula dei bandi e della concorrenza tra comuni rischia di accrescere i divari tra amministrazioni più attrezzate verso quelle più carenti, aumentando le differenze tra nord e sud del paese. E poi la grande incognita: riusciremo a costruire nuove scuole in solo 4 anni, entro il 2026? Un'opportunità senza precedenti che rischia però di travolgere il paese, perché, se non non si realizzano le opere, i soldi vanno restituiti.

Rinascita & Resilienza di Luca Chianca Collaborazione Alessia Marzi Immagini Alfredo Farina Montaggio e grafica Giorgio Vallati

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Se pensate che queste immagini siano state girate in piena estate, in un caldo e assolato campo agricolo del sud Italia, sbagliate di grosso perché in realtà sono dell'inverno appena trascorso, in Pianura Padana tra Padova e il fiume Adige. Un terreno così chiaro vuol dire che non ha sostanza organica.

PAOLO MINELLA – AGRONOMO COLDIRETTI - PADOVA Qua son tre mesi che non piove e qua non si può assolutamente seminare. Qua ci vuole lo schiacciasassi.

LUCA CHIANCA Cemento è diventato.

PAOLO MINELLA – AGRONOMO COLDIRETTI - PADOVA Cemento, quindi siamo a rischio desertificazione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Basta spostarsi di qualche chilometro e la situazione non cambia, come su questo terreno di erba medica che a marzo dovrebbe essere tutto verde.

NICOLA MENEGHESSO - VICE DELEGATO COLDIRETTI GIOVANI IMPRESAPADOVA Si è visto raramente un terreno del genere.

LUCA CHIANCA Qua l'Adige come sta messo?

NICOLA MENEGHESSO - VICE DELEGATO COLDIRETTI GIOVANI IMPRESA - PADOVA Bassissimo, sembrano delle pozzanghere, ci son proprio le dune.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ad essere colpite sono soprattutto le aree del nord che non avendo mai sofferto la siccità sono le più impreparate ad affrontare la desertificazione.

GIANCARLO MANTOVANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO DI BONIFICA DELTA DEL PO Trenta, quarant'anni fa pioveva e quindi chi coltivava i terreni non aveva bisogno di fare un'irrigazione spinta come quella che c'è oggi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa barriera sull'Adige è stata ideata una decina di anni fa. Blocca la risalita dell'acqua del mare evitando che il sale penetri ovunque.

LUCA MERCALLI - PRESIDENTE SOCIETÀ METEOROLOGICA ITALIANA Con l'aumento del livello dell'Adriatico causato dalla fusione dei ghiacciai a livello globale e con siccità di questo genere, l'acqua salata che entra nella falda idrica arriva a oltre 15-20 km nell'entroterra e quindi rende inadatte queste zone all'agricoltura. C'entrerà il mare in casa eh, fra 50 anni in quelle aree lì.

LUCA CHIANCA Questo il Pnrr neanche l’ha preso in considerazione?

LUCA MERCALLI - PRESIDENTE SOCIETÀ METEOROLOGICA ITALIANA Pensa che avremmo tutto questo nei cassetti dei ministeri perché già da molti anni esiste la strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, è nei cassetti di qualche ministero.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ogni cosa diventa urgente se aspetti abbastanza a lungo. Questo vale anche per i rifiuti di Roma dove chi deve ritirarli può decidere e incidere sulla vita o sulla morte di un sindaco, incidere anche sulla vita democratica della Capitale. Questo vale anche per la gestione del cambiamento climatico, dove sono decenni che gli scienziati avvertono il nostro governo, hanno anche elaborato delle strategie ma i documenti giacciono da decenni nei cassetti dei ministeri. Rincorriamo sempre le emergenze, ne diventiamo vittime, non so quanto inconsapevoli. Lo scenario che abbiamo davanti però è apocalittico. Il Po si è abbassato di 7 metri, ci sono 125 comuni che rischiano di rimanere senza acqua. È scattato il divieto di irrigare gli orti, i giardini, di lavare le auto, di riempire le piscine, e l’agricoltura è in ginocchio. Questo da una parte, dall’altra sta per arrivare il più grande finanziamento della storia del nostro Paese. Oltre 190 miliardi dal Pnrr, però lo diciamo subito, 160 andranno restituiti. Non solo, ci sono poi dei requisiti che ci chiede di rispettare l’Europa, per esempio fare 66 riforme, la giustizia, la fiscalità, il decreto concorrenza, e poi fare anche un po’ di spending review, inoltre ci chiede anche di fare 292 investimenti, cioè investire sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione della sanità, sull’energia pulita. Bisognerà rispettare anche un cronoprogramma. E proprio Bruxelles ogni sei mesi verificherà lo stato delle nostre riforme, se le abbiamo rispettate quelle scadenze erogherà la seconda rata. Sennò nulla, poi a tutti questo il Governo ha pensato di aggiungere altri miliardi, quelli del Fondo Complementare, parliamo di 30 miliardi, in totale 222 miliardi e oltre. Insomma, una montagna di finanziamenti che non ha precedenti nella storia del nostro paese però rischia anche di mettere in crisi la credibilità del nostro paese. Sapremo rispettare le scadenze, serviranno questi soldi a migliorare realmente il nostro paese, a soddisfare il fabbisogno, per esempio, per contrastare la siccità quanti euro sono stati investiti dal Pnrr? Un’inchiesta che è un viaggio verso il futuro ma con un occhio ai mali del nostro paese, quelli del passato. Il nostro Luca Chianca, in collaborazione con Openpolis.

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Qui praticamente siamo in pieno alveo del fiume, come potete vedere siamo arenati sulla sabbia, devo addirittura alzare il motore perché sennò la barca si fermerebbe.

LUCA CHIANCA Questa è un'isola in mezzo al fiume?

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Esatto. Questo è il punto più estremo, non c'è acqua da una parte all'altra del fiume.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Filiberto Raisi ha fatto del Po la sua seconda casa, da quando ha deciso di trasferirsi qui a Stellata, una frazione in Emilia-Romagna al confine con il Veneto e la Lombardia.

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Questo è uno dei tanti affluenti del fiume Po, è il Panaro che sfocia proprio in questo punto.

LUCA CHIANCA Questo arriva dall'Appenino vero?

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Questo arriva dall'Appenino emiliano e come potete vedere non c'è acqua che arriva dal fiume e va in Po.

LUCA CHIANCA È il Po che entra dentro il Panaro.

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Infatti, la corrente gira al contrario. Eccola.

LUCA CHIANCA È completamente fermo qua il fiume?

FILIBERTO RAISI – PROPRIETARIO CAMPO DA PESCA AL SILURO CLONK EXTREME Come un lago, completamente fermo e mano mano che cala il Po gli fornisce acqua.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Qui da ottobre dello scorso anno non vedono praticamente una goccia d'acqua. Risalendo il fiume arriviamo nel Mantovano agli inizi di marzo: questa è la situazione che si presenta nell'alveo del Po.

SIMONE MINELLI – CONSIGLIERE REGIONALE COLDIRETTI LOMBARDIA È una situazione che si vede per ferragosto.

LUCA CHIANCA Ma è diventata la regola o l'eccezione di questo periodo?

SIMONE MINELLI – CONSIGLIERE REGIONALE COLDIRETTI LOMBARDIA Direi una regola che peggiora anno in anno.

LUCA CHIANCA Voi dipendete molto, no, dalla neve delle montagne, delle Alpi?

SIMONE MINELLI – CONSIGLIERE REGIONALE COLDIRETTI LOMBARDIA Sì, infatti per noi il grande assente di quest'anno è la neve in montagna, la neve ha questa caratteristica: che si scioglie piano piano e quindi passa per il nostro fiume qui e questo ci garantisce acqua per le irrigazioni dei nostri campi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In provincia di Reggio Emilia la sabbia ha ostruito le idrovore dell'impianto di Boretto e per settimane hanno tentato di abbassare il livello dell'alveo del Po per cercare di pescare un po' d’acqua.

MEUCCIO BERSELLI – DIRETTORE DELL'AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE DEL FIUME PO E noi rischiamo e stiamo rischiando di non riuscire ad accendere le pompe e di non aver l'acqua disponibile all'agricoltura in una situazione geopolitica particolarmente delicata in cui noi diciamo di far partire tutte le deroghe possibili perché dobbiamo portare a compimento le coltivazioni così importanti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Con il nuovo piano di ripresa e resilienza che ha messo sul piatto però oltre 190 miliardi di euro non c'è un intervento che abbia messo al centro il tema della desertificazione e della siccità del bacino padano.

LUCA MERCALLI - PRESIDENTE SOCIETÀ METEOROLOGICA ITALIANA Oggi bisogna riflettere se investire in nuovi invasi per uso agricolo e potabile e lì c'è un dibattito importante perché i luoghi adatti per fare nuove dighe non ci sono più, quelle che si potevano fare sono state fatte, bisognerebbe cambiare filosofia: non grandi impianti ma tanti piccoli invasi locali distribuiti su un grande territorio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sul tema dell'acqua il Ministero dell'agricoltura ha lanciato un bando da 880 milioni di euro per migliorare la gestione delle risorse irrigue, a cui hanno risposto i consorzi di bonifica con domande che hanno superato il budget messo a disposizione, arrivando a un 1,6 miliardi di euro. Ma di fatto il bando prevede solo di rendere più efficiente il sistema senza la costruzione di nuovi piccoli invasi o opere che servirebbero per contrastare la desertificazione nel nord Italia.

MASSIMO GARGANO – DIRETTORE GENERALE ASSOCIAZIONE NAZIONALE BONIFICHE IRRIGAZIONI Nel Pnrr questo non c'è. Noi non potevamo oggettivamente seriamente parlare dieci anni fa di desertificazione in questo Paese, quindici anni fa non ne potevamo parlare.

LUCA CHIANCA Quindici no, ma due anni fa, un anno fa, quando è iniziato tutto il percorso del Pnrr, sì.

MASSIMO GARGANO – DIRETTORE GENERALE ASSOCIAZIONE NAZIONALE BONIFICHE IRRIGAZIONI Questo è un tema che va affrontato.

LUCA CHIANCA Tema che ancora non è ancora stato finanziato, questo è il punto, no?

MASSIMO GARGANO – DIRETTORE GENERALE ASSOCIAZIONE NAZIONALE BONIFICHE IRRIGAZIONI Tema che con le risorse comunitarie non è finanziabile, è scritto.

MEUCCIO BERSELLI – DIRETTORE DELL'AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE DEL FIUME PO Oggi il Pnrr finanzia solo ed esclusivamente progetti esistenti per la realizzazione e cantierabilità entro il 2026.

LUCA CHIANCA Però il rischio è che stiamo finanziando progetti vecchi.

MEUCCIO BERSELLI – DIRETTORE DELL'AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE DEL FIUME PO Stiamo mettendo dei soldi su interventi che dovevano esser fatti già in passato e non c'erano le risorse.

LUCA CHIANCA Dieci, vent’anni fa.

MEUCCIO BERSELLI – DIRETTORE DELL'AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE DEL FIUME PO Sì.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora primo pugno allo stomaco: non stiamo finanziando con il Pnrr progetti in base al reale fabbisogno del Paese, ma in base alla loro cantierabilità. Si tratta di progetti vecchi di 10-20 anni, che non sempre coincidono con quello che è il fabbisogno attuale o futuro del paese. Perché si finanziano con il Pnrr? Perché oggi ci sono i soldi, allora non c’erano, ma oggi non c’è il tempo per scrivere dei progetti nuovi perché bisognerà chiudere tutto entro il 2026, pena la restituzione dei soldi, quindi rischiamo di finanziare progetti vecchi, di non terminarli, di restituire i soldi e di lasciare poi in eredità il regalino alle future generazioni, ma Magari possiamo trasformarle in una pista per skateboard, comunque tornando alla siccità, il Pnrr non ha previsto un euro di investimento, nonostante gli specialisti abbiano da tempo evocato questo scenario, e abbiamo anche suggerito delle strategie ma nessuno ha pensato di investire nei piccoli invasi per esempio nella pianura padana, singoli invasi sparsi laddove c’è il polmone dell’agricoltura, dell’ortofrutta, dell’allevamento del nostro paese. Solo il ministero dell’agricoltura ha indetto un bando da 880 milioni di euro circa ma che riguarda l’efficientamento della rete irrigua, quella che porta l’acqua ai campi però anche lì se hai i fiumi a secco e non hai invasi, l’acqua da dove la prendi? E poi insomma siamo certi che in soli quattro anni riusciremo a presentare il progetto esecutivo, ad appaltare l’opera, a costruirla e a consegnarla, cosa ci insegna l’esperienza?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il sistema di invasi di cui si dovrebbe dotare tutta la Pianura Padana per raccogliere fino all'ultima goccia di pioggia, lo troviamo al sud. Siamo in Calabria, provincia di Cosenza, una delle zone a maggiore vocazione agricola di tutta la regione. La diga dell'alto Esaro è stata progettata negli anni '70 con i soldi dell'ex Cassa del Mezzogiorno. Nell'87, a causa di un dissesto idrogeologico, lavori sospesi e mai finiti. La diga del Votturino invece è in Sila. Progettata negli anni ‘60 è stata completata nel '73.

LUCA CHIANCA Qui doveva nascere un lago.

GIOVAMBATTISTA NICOLETTI – SEGRETARIO GENERALE FLAI CGIL - COSENZA Sì.

LUCA CHIANCA C'è stato per un po' di anni poi dal ‘92 qui l'acqua non è più arrivata.

GIOVAMBATTISTA NICOLETTI – SEGRETARIO GENERALE FLAI CGIL - COSENZA Vediamo solo un acquitrino, magari ci fossero le paperelle ma nemmeno quelle insomma vista la temperatura.

LUCA CHIANCA Siamo sul ponte, la diga.

GIOVAMBATTISTA NICOLETTI – SEGRETARIO GENERALE FLAI CGIL - COSENZA Siamo sul ponte, siamo sulla diga, sì.

LUCA CHIANCA Dietro di lei ci sono dei lampioni, siamo alle quattro di pomeriggio con tanta luce, stato di abbandono ma le luci sono sempre accese. GIOVAMBATTISTA NICOLETTI – SEGRETARIO GENERALE FLAI CGIL - COSENZA Sì, ci sono le luci accese, non c'è più un guardiano, tra l'altro non recintata nemmeno bene.

LUCA CHIANCA Ci sono le luci dentro accese, h 24.

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA Siamo nel momento di passaggio che l'impresa ha abbandonato e noi dobbiamo recuperare ‘sta cosa.

LUCA CHIANCA Però guardando a queste opere un po' di paura che i soldi che arriveranno dal Pnrr facciano quella fine c'è.

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA I consorzi di bonifica in dieci anni ha fatto quello che in trent’anni non hanno fatto altri.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E dopo dieci anni la diga ancora non entra in funzione. Però la Calabria ha sicuramente un merito: è stata una delle regioni con il maggior numero di progetti ammessi nel bando Pnrr lanciato dal Ministero dell'agricoltura per migliorare la gestione delle risorse irrigue. In tutta la Calabria sono stati ammessi progetti per ben 259 milioni di euro. Al momento quelli finanziabili sono solo cinque del valore 53 milioni di euro.

LUCA CHIANCA È stata organizzata una cabina di regia per individuare le priorità sul territorio?

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA No, ogni consorzio ha fatto le sue proposte.

LUCA CHIANCA Quindi ognuno a ordine sparso è andato?

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA Sì, però non ha senso perché ha ragione lei, cioè la politica dovrebbe assumersi il compito di individuare le priorità.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Alla fine, vince chi è più bravo a scrivere i progetti, non in base alle reali necessità del Paese. Comunque, tornando ai consorzi di bonifica, quelli calabresi hanno i bilanci in rosso. Nella piana di Sibari sono mesi che gli operai del consorzio di Leonetti non lavorano.

LUCA CHIANCA Quanti soldi devono prendere loro?

FEDERICA PIETRAMALA – SEGRETARIO FLAI CGIL POLLINO SIBARITIDE TIRRENO Loro avanzano 11 mensilità.

LUCA CHIANCA Quasi un anno.

FEDERICA PIETRAMALA – SEGRETARIO FLAI CGIL POLLINO SIBARITIDE TIRRENO Arretrato. OPERAIO E se ci fermiamo noi si ferma tutto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Perché sono loro a gestire l'acqua che poi gli agricoltori usano per innaffiare le nettarine, le pesche della zona che vengono vendute in tutto il mondo.

LUCA CHIANCA Bilanci non veritieri, disavanzi enormi, operai non pagati, richieste di pagamenti per servizi non dati, ma sono in grado di gestire i soldi che arrivano dall'Europa per il Pnrr questi consorzi?

GIANLUCA GALLO – ASSESSORE ALL'AGRICOLTURA E WELFARE REGIONE CALABRIA Senza dubbio … anche perché …ma le gare, attenzione, le gare saranno effettuate dalla stazione unica appaltante.

LUCA CHIANCA Però chi gestisce sul territorio? I consorzi.

GIANLUCA GALLO – ASSESSORE ALL'AGRICOLTURA REGIONE E WELFARE CALABRIA Lo gestiscono attraverso un controllo regionale L

UCA CHIANCA Però adesso già lo fate voi il controllo, eppure i bilanci sono in rosso, no per dire? Non è che cambia molto, gli operai non vengono pagati comunque…

GIANLUCA GALLO – ASSESSORE ALL'AGRICOLTURA E WELFARE REGIONE CALABRIA Si tratta però di esecuzione di lavori che sono per qualche milione di euro e sono lavori di reti irrigue, non sono lavori di grandissima complessità. LUCA CHIANCA Io sono preoccupato dei tempi perché poi dobbiamo chiudere tutta la partita entro il 2026 sennò i soldi neanche arriveranno, no?

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA Esattamente. Guardate il problema non è delle strutture, il problema è dell’Italia sulla legge dei lavori pubblici, qualcuno ha detto che in Italia lavorano più gli avvocati che i muratori e gli ingegneri. E così è.

LUCA CHIANCA Quindi lei è un po' preoccupato?

ROCCO LEONETTI – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE BONIFICHE IRRIGAZIONI - CALABRIA Sì. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo nel bel mezzo della diga di Blufi, nelle Madonie, una delle zone paesaggistiche più belle della Sicilia. Nel '90 iniziano i lavori per portare l'acqua ad Agrigento, Caltanissetta ed Enna. In pochi anni si ferma tutto dopo aver speso 260 milioni di euro. Giuseppe Rogato scopre questa diga nel 2007 per un progetto fotografico sulle opere pubbliche incompiute e lancia un'idea.

GIUSEPPE ROGATO – ARCHITETTO E FOTOGRAFO Io ho fatto questa proposta un po' pazza sulla realizzazione di uno skate park in questo luogo. Ovviamente è un'idea folle perché è un luogo molto difficile da raggiungere però naturalisticamente è un posto bellissimo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Altro monumento storico alle incompiute di questa regione è la diga di Pietrarossa in provincia di Catania. Ferma dalla seconda metà degli anni ‘90, nel 2018 viene finanziato il suo completamento per 60 milioni di euro. Oggi, dopo quattro anni, hanno concluso progetto esecutivo.

GIUSEPPE MISTRETTA – SINDACO DI MINEO (CT) Però mi auguro che in cinque anni si possa completare un lavoro di questo genere.

LUCA CHIANCA Tra l'appalto e la fine dei lavori?

GIUSEPPE MISTRETTA – SINDACO DI MINEO (CT) Io mi auguro di sì se non ci sono problemi perché no?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Noi facciamo il tifo per il sindaco perché qui un'opera del genere darebbe ossigeno a tutto il sistema agricolo per centinaia di chilometri fino alla piana degli agrumeti intorno a Lentini, tra Catania e Siracusa. Salvatore Ragazzi è uno storico coltivatore della zona che si è fatto il suo impianto irriguo con i pozzi.

SALVATORE RAGAZZI – IMPRENDITORE AGRICOLO Ma abbiamo tutta acqua nostra, acqua consortile qua non sappiamo che cos'è, pur essendoci state queste condotte che chissà che cosa saranno costate, chissà se c'è stata acqua mai in queste condotte.

LUCA CHIANCA Queste erano quelle che metteva il consorzio anni fa?

SALVATORE RAGAZZI – IMPRENDITORE AGRICOLO Sotto ci dovrebbero essere vecchi tubi del consorzio con le bocchette che adesso noi non vediamo più dove c'era la presa d'acqua.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ragazzi ci porta a vedere una struttura consortile nata per convogliare le acque di piena, ma che durante l'inverno non ha retto alle piogge.

SALVATORE RAGAZZI – IMPRENDITORE AGRICOLO E l'acqua è tracimata verso tutti gli agrumeti che lei vede qua attorno, adesso diciamo che è messo pulito, diciamo che è messo pulito.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I consorzi siciliani che gestiscono queste opere sono commissariati da anni dalla Regione. Partecipano anche loro al bando del ministero, presentano 31 progetti per oltre 400 milioni di lavori sulla rete irrigua siciliana. Risultato? Bocciate tutte le domande. Unico caso in Italia.

LUCA CHIANCA Lei come si è sentito da presidente di questa Regione a vedersi bocciare tutti quelli presentati.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA È normalissimo, è normalissimo che un ente non dotato di personale tecnico possa non adottare progetti alla perfezione, tanto è vero che riproponendo una parte di quei progetti sono stati approvati uno per 7 milioni 833 mila e l'altro per circa 10 milioni di euro.

LUCA CHIANCA Ma non sono soldi Pnrr?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA Come no?

LUCA CHIANCA Dove li ha presi ‘sti soldi?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA No, scusi alcuni sono fondi Fsc.

LUCA CHIANCA Ah, altro?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA Ma il problema è il fondo?

LUCA CHIANCA Beh no, però il Pnrr è andato buca.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA Ma no, assolutamente, i progetti di riqualificazione delle infrastrutture idriche in parte sono stati già approvati a prescindere dal Pnrr che deve essere necessariamente riadeguato alle esigenze delle regioni del sud.

LUCA CHIANCA Però il sud, lei parla di sud il problema è la Sicilia non è il sud, la Calabria è stata un'eccellenza.

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA Perfetto, il problema è la Sicilia.

LUCA CHIANCA E chi lo risolve, il governo centrale o lei che è il presidente della Regione?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA Dal 1991 non si fa un concorso, noi abbiamo 15 ingegneri nelle strutture tecniche e non si scandalizza?

LUCA CHIANCA Io mi posso anche scandalizzare, però lei a chi dà la colpa?

NELLO MUSUMECI – PRESIDENTE DELLA REGIONE SICILIANA E si scandalizzi pure. Naturalmente a chi ci ha preceduti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A causa della bocciatura siciliana sul bando dei sistemi irrigui, il sud non raggiunge la quota del 40 per cento di investimenti del Pnrr, clausola voluta dal governo per riequilibrare i rapporti tra nord e sud.

VINCENZO SMALDORE – RESPONSABILE CONTENUTI OPENPOLIS In molti bandi regioni e comuni del sud non hanno avuto la capacità progettuale e almeno un miliardo e mezzo è stato fondamentalmente perso, perché in quelle occasioni quando non arrivavano progetti dalle regioni del sud si scorrevano le graduatorie, assegnando risorse a progetti di altre regioni.

LUCA CHIANCA Voi avete scritto al governo per chiedere dati più concreti da analizzare per il lavoro che fate.

VINCENZO SMALDORE – RESPONSABILE CONTENUTI OPENPOLIS Assolutamente, noi ci siamo interfacciati con il Ministero dell'economia che è quello che ha la titolarità di questi aspetti.

LUCA CHIANCA Ha il portafoglio in mano.

VINCENZO SMALDORE – RESPONSABILE CONTENUTI OPENPOLIS Il Mef ci risponde così. Openpolis, tu mi hai chiesto una serie di dati che secondo te sono fondamentali per gestire il Pnrr, pubblico tutto quello che ho, vallo a vedere. Noi andiamo a vedere e diciamo: ma non c'è niente.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, secondo pugno allo stomaco. Come fai a gestire un meccanismo complesso di finanziamento come quello del Pnrr se non monitori, se non hai il polso della situazione, rischi il caos. Caso Calabria – Sicilia, tema i bandi per il sistema irriguo, ora i tecnici della Regione Calabria sono in gamba, masticano di finanziamenti pubblici, quindi scrivono i progetti bene, compilano adeguatamente tutta la documentazione e sostanzialmente aderiscono ai bandi del Pnrr. Incassano potenzialmente decine di milioni. Quelli della Sicilia sono solo 15 secondo Musumeci, non hanno neppure scritto bene i progetti quindi sono stati tutti bocciati, maglia nera dell’Italia. Però insomma secondo Musumeci non c’è problema, vuole tranquillizzare il nostro Luca dice, guarda vabbè ne abbiamo recuperati su 31, 3, e abbiamo recuperato 17 milioni di finanziamenti. Solo che dice, cosa cambia? Cambia perché intanto non sono i fondi del Pnrr, quelli li hai buttati, 400 milioni, poi come esempio prende un esempio forse sbagliato, clamorosamente sbagliato perché i fondi a cui attinge sono i fondi della programmazione di coesione che è un simbolo quasi del fallimento soprattutto per la Sicilia che pensate un po’ in 13 anni su 44 miliardi ne ha persi la metà. C’è poco da rallegrarsi. Ora però Sicilia e Calabria in comune hanno che spesso le opere le lasciano a metà, sono le eterne incompiute. Questo con il Pnrr non possiamo permettercelo. Perché dovremmo semmai anche restituire i finanziamenti. Non possiamo neanche contare sull’occhio vigile della Regione Calabria, sui consorzi di bonifica perché abbiamo visto insomma qual è l’andazzo. Ora però tra 30 secondi dopo il golden minute vedremo come funziona il Pnrr della scuola, e lì parliamo del nostro futuro.

PUBBLICITÀ SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati nel Pnrr, c’è una bella fetta di investimenti, predisposti, destinati alla Next Generation, alle nuove generazioni. Solo se riusciremo ad educare i figli meglio di noi, ad essere migliori di noi, riusciremo ad ambire ad un paese migliore. Ora, lo ha capito anche il governo che ha investito quattro miliardi di euro, dopo anni di tagli, ha messo già tutto a gara, vuole costruire 216 nuovi edifici scolastici super efficienti dal punto di vista energetico, si tratta di modelli veramente di scuola, poi punta anche a costruire nuovi asili nido, nuove scuole dell’infanzia. Tutto molto bello, ma con gli altri 40mila edifici scolastici come la mettiamo? Che fine faranno? Poi si riuscirà ad incidere realmente dove c’è bisogno?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Torino. Scuola media Enrico Fermi. Qualche anno fa il Comune, la fondazione Agnelli e la Fondazione compagnia di San Paolo hanno dato vita a un progetto unico di riqualificazione architettonica di questo edificio. L'idea di fondo è dare l'opportunità ai ragazzi e a chi ci lavora di vivere la scuola diversamente, a partire dalle aree comuni presenti ad ogni piano.

DAVIDE CICCONE – VICEPRESIDE SCUOLA MEDIA ENRICO FERMI - TORINO Per esempio adesso loro stanno preparando un lavoro per l'esame di terza media

LUCA CHIANCA Le aule sono aperte DAVIDE CICCONE – VICEPRESIDE SCUOLA MEDIA ENRICO FERMI - TORINO Sì. Perché l'idea è non far rimanere i ragazzi all'interno di aula di uno spazio chiuso, ma di dare l‘opportunità ai ragazzi di respirare, di vivere lo spazio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nella fase progettuale tutto è stato condiviso, con i docenti, i genitori e il quartiere. Per realizzare tutto il progetto ci sono voluti cinque anni, grazie al contributo della Fondazione Agnelli e la Fondazione Compagnia di San Paolo. Per accelerare i tempi, per un breve periodo, il comune ha passato la proprietà della scuola alla Fondazione Agnelli per evitare le gare.

FEDERICA PATTI – ASSESSORA ISTRUZIONE COMUNE DI TORINO 2016 -2019 Questa è stata un'invenzione amministrativa che ha permesso fondamentalmente di velocizzare e di svincolare diciamo l'edificio da tutta una serie.

LUCA CHIANCA Di lacci e laccioli tipici degli appalti pubblici.

FEDERICA PATTI – ASSESSORA ISTRUZIONE COMUNE DI TORINO 2016 -2019 Sì, in particolare dell'edilizia scolastica.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sulla scia di questo brillante esperimento il ministro dell'Istruzione Bianchi ha coinvolto rappresentanti delle due fondazioni, Agnelli e Compagnia di San Paolo, nel comitato che ha indicato le linee guida per la realizzazione delle nuove scuole, bando Pnrr da un miliardo 189 milioni per 216 nuovi edifici con i migliori sistemi di efficientamento energetico. In soli quattro anni si dovrebbe fare il concorso per i 216 progetti, le gare in una cornice totalmente pubblica, i lavori e la consegna.

LUCA CHIANCA Lei si immagini i ricorsi all'italiana, no?

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Se lei parte da questa idea noi saremo sempre sconfitti.

LUCA CHIANCA Sono andato a guardare un po' il modello da cui avete anche preso spunto che è, questi esempi di queste scuole torinesi e lì ci hanno messo 5 anni e sono andati spediti addirittura lì non hanno fatto la classica gara d'appalto perché hanno trovato l'escamotage per evitare di andare in gara e perdere ancora tempo. Cinque anni ci hanno messo e siamo a Torino ripeto non...

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE No, guardi noi non possiamo fare sempre la parte in Europa di quelli che non ce la fanno o degli ultimi. e noi dal nostro punto di vista li stiamo organizzando in maniera tale che tutti i comuni siano in grado di raggiungere il loro risultato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Al momento però ci sono soldi solo per 216 nuove scuole su circa 40mila edifici presenti su tutto il territorio nazionale per un valore di un miliardo 189 milioni di euro. Grazzanise, provincia di Caserta, ha sette mila abitanti. È una delle tante facce del nostro Paese che avrebbero bisogno di quei soldi.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Ecco là la chiesa vedi

LUCA CHIANCA Dove? Quella là?

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Eh.

LUCA CHIANCA Quella la chiesetta di Sandokan era?

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La tenuta Selvalunga apparteneva alla famiglia del capo dei Casalesi, Francesco Schiavone, detto Sandokan. Dove aveva fatto costruire anche una piccola chiesetta.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Ecco a voi.

 LUCA CHIANCA Ah, pure l’altare c’è.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Sì, sì.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Qui il boss allevava le sue bufale. Da oltre 10 anni in mano dello Stato, la tenuta è diventata una discarica a cielo aperto.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Viva la camorra! Vedi?

LUCA CHIANCA C'è scritto eh?

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Eh, vedi.

LUCA CHIANCA E il rischio è che rimanga tutto così però, se uno non fa progetti sul territorio.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Non c’hai progetti, non realizzi rimane così.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Appena il Ministero ha aperto il bando per la creazione di nuove scuole con i fondi Pnrr il sindaco ha presentato la domanda su questo bene confiscato per un progetto da 15 milioni di euro, ma all'uscita della graduatoria la brutta sorpresa. Primi tra gli esclusi.

LUCA CHIANCA Le scuole del paese sono vecchie.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Le scuole del paese sono vecchie ma sono soprattutto senza speranza, sono superate anche nelle caratteristiche architettoniche, quindi anche creare delle strutture che siano invitanti a studiare e stare bene sul territorio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Petrella le sta provando tutte e si butta su ogni bando Pnrr pur di raggranellare soldi da investire nel suo paese sperando di cambiare il trend di questa terra.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Questa difficoltà è un po’ diciamo una lotteria, cioè io partecipo a tutto…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Che cos’è che manca però in questa lotteria.

ENRICO PETRELLA - SINDACO DI GRAZZANISE (CE) Servirebbe una regia per capire su ogni zona cosa è opportuno realizzare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Come nel comune di Baronissi, provincia di Salerno, dove è stata presentata la domanda per costruire un nuovo edificio scolastico a impatto zero perché la vecchia scuola media, in questo quartiere, non c'è più da qualche anno.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) Chiusa a gennaio 2018 perché sismicamente insicura.

LUCA CHIANCA Cioè il rischio proprio è che venga giù tutto.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) Il rischio crollo, abbiamo in tutta la città fatto una verifica di vulnerabilità sismica sugli edifici e questo è risultato gravemente compromesso, chiuso ad horas.

LUCA CHIANCA Dal 2018 è rimasta così abbandonata.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) È rimasta così abbandonata, abbiamo trasferito la scuola in alloggi di fortuna.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Presentano così la domanda ma vengono fatti fuori anche perché nei bandi del Pnrr non vengono privilegiati i progetti presentati dalle scuole chiuse perché sismicamente vulnerabili.

LUCA CHIANCA Il paradosso è che ci sono scuole che vengono finanziate che sono però aperte.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) Credo di sì.

LUCA CHIANCA In questo caso abbiamo la scuola chiusa che non viene finanziata.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) Non viene valutata, non viene considerata dallo Stato.

LUCA CHIANCA Limite del Pnrr è che una cosa del genere, una scuola così rimarrà così.

GIANFRANCO VALIANTE – SINDACO DI BARONISSI (SA) Rimarrà così.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Chi in Campania è stato più fortunato è l'ex ministro Mastella, oggi sindaco di Benevento. Ha ottenuto 15 milioni di euro per abbattere e ricostruire una scuola. Ma adesso lo assilla un problema.

CLEMENTE MASTELLA – SINDACO DI BENEVENTO Poi ho pensato da qua a due anni io sarò messo in croce ed effigiato magari, bruciato vivo, perché io per abbattere e ricostruire dove ci stanno mille studenti che devo fare andare da un'altra parte, ma non ci sono possibilità dove portarli, se faccio il doppio turno la gente si incazza, se li mando da un’altra parte si incazza.

LUCA CHIANCA Dove li mette?

CLEMENTE MASTELLA – SINDACO DI BENEVENTO Eh, questo è, ora io l'assillo che ho in questi due anni è di vedere dove andarli a mettere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È la fotografia di un paradosso. Quando c'è di mezzo un bando, insomma da sempre chi sa scrivere bene un progetto incassa, gli altri sono tagliati fuori anche se sono quelli che magari ne avrebbero più bisogno. È un cane che si morde la coda. Ora a Roma c’è anche chi pensa che invece la competizione tra comuni sia proficua. Ed è una visione anche rispettabile, però insomma, se competizione deve essere che almeno sia leale, che tutti partano dallo stesso livello. Come fai con quelle aree che sono state abbandonate per decenni in mano alla criminalità organizzata, al dissesto idrogeologico, alla desertificazione anche culturale e della pubblica amministrazione? Questo lo sanno bene anche a Roma. Infatti, quando si è trattato di stabilire la destinazione, i finanziamenti del Pnrr in generale si sono decise le clausole di salvaguardia, cioè che almeno il 40 per cento vada al sud. Ora il ministro Bianchi dice che per quello che riguarda l’edilizia invece scolastica, gli asili nido, le scuole dell’infanzia, sono stati destinati su tre miliardi ben il 55% dei progetti al sud. Insomma, è ottimista il ministro Bianchi. Però dal dipartimento della coesione che è lo stesso dipartimento del governo, insomma ci fanno sapere che dai bandi fino a oggi elaborati, in generale insomma questa clausola di salvaguardia non sempre è stata rispettata. Si è sotto il livello del 40 percento e insomma si prevede anche di ricollocare quei finanziamenti per le regioni anche più abbienti. E che cosa è successo invece nella scuola? È successo che la Campania, con 213 milioni di euro di finanziamento, è la prima regione per importi finanziati, costruirà 35 nuove scuole, è un bene, ne aveva bisogno. Ma la seconda ad aver percepito più finanziamenti è l’Emilia-Romagna che già sta avanti a tutti, costruirà con 146 milioni di euro finanziati, 23 nuove scuole. Insomma, il timore è che poi si assista alla solita narrazione. Ma se a sud non sono capaci, insomma, la colpa di chi è se non loro? Però qualcuno è andato a vedere di cosa effettivamente avessero bisogno? Perché magari qualcuno ha detto per la nostra comunità al sud serve un bel centro polifunzionale, da Roma invece gli hanno detto no, i soldi te li do solo se costruisci un asilo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Castelnuovo Rangone, provincia di Modena, hanno da poco inaugurato un nido per bimbi da zero a tre anni ma senza l'utilizzo dei fondi Pnrr.

LUCA CHIANCA Questo è uno spazio nuovo?

FEDERICA GAZZOLI – COORDINATRICE ASP UNONE TERRE DI CASTELLI (MO) Uno spazio nuovissimo inaugurato a ottobre del 2021.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E come se non bastasse, il comune ha approfittato anche del nuovo bando Pnrr per costruire un nuovo nido.

MASSIMO PARADISI – SINDACO DI CASTELNUOVO RANGONE (MO) Noi vediamo che anno per anno fornendo più servizi ci sono più domande di servizi.

LUCA CHIANCA Questo viene sempre tralasciato, no? sembra come se noi dovessimo parcheggiare dei bambini per permettere ai genitori solo di andare a lavorare, in realtà è qualcosa di molto più importante.

ALESSANDRO ROSINA - PROFESSORE DEMOGRAFIA UNIVERSITÀ CATTOLICA - MILANO Esatto, di sviluppo umano dei bambini di rafforzamento delle capacità cognitive, delle competenze, poi se questo rilancio fa riferimento ai fondi Next generation Eu investirne per le nuove generazioni per i bambini è esattamente fedele ai principi che dovrebbe avere.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Nonantola, altro paese del modenese, hanno già gli standard richiesti dall’Europa, raggiungendo con i nidi esistenti oltre un terzo delle famiglie residenti, ma hanno deciso ugualmente di partecipare al bando per costruire un nuovo asilo.

ENRICO PICCININI – VICESINDACO COMUNE DI NONANTOLA (MO) Stiamo progettando la città dei prossimi 20 anni. Le attuali strutture hanno una possibilità di espansione limitata che sul breve periodo può soddisfare la domanda ma sul medio e lungo periodo potrebbero andare in crisi.

ALESSANDRO ROSINA - PROFESSORE DEMOGRAFIA UNIVERSITÀ CATTOLICA - MILANO Noi dobbiamo guardare alle migliori esperienze europee e allora per esempio Svezia e Francia hanno un tasso di copertura de servizi per l'infanzia che arriva a oltre il 50 percento per i bambini da 0 a 3 anni.

LUCA CHIANCA Noi?

ALESSANDRO ROSINA - PROFESSORE DEMOGRAFIA UNIVERSITÀ CATTOLICA - MILANO Noi arriviamo a mala pena al 25-26 percento ma ci sono alcune regioni che arrivano a mala pena al 5 percento soprattutto nel Sud Italia.

 LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Se il bando per costruire nuovi asili in provincia di Modena è stato un successo nel resto d'Italia, in particolare al Sud, alla scadenza di fine febbraio molti comuni non hanno presentato neanche la domanda. Tra le regioni che hanno presentato meno domande c'è la Basilicata.

ANTONIO GIANCRISTIANO – SINDACO DI BRIENZA (PZ) Stanno scrivendo che la Basilicata è una delle poche regioni che non c'ha gli asili nido che ha in percentuale ha pochi asili nido io lo voglio realizzare ma non me lo fanno realizzare.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo a Brienza, provincia di Potenza. 4000 abitanti, natalità in calo e i giovani vanno via. Il sindaco vuole trasformare il primo piano di un edificio in un nido, al secondo piano ha già attiva una scuola dell’infanzia. Partecipa con successo a un bando per la messa insicurezza degli edifici, poi lo stesso bando confluisce in quelli del Pnrr. Accade l’impensabile.

ANTONIO GIANCRISTIANO – SINDACO DI BRIENZA (PZ) Con il Pnrr…

LUCA CHIANCA Salta tutto.

ANTONIO GIANCRISTIANO – SINDACO DI BRIENZA (PZ) Questo edificio deve essere adibito soltanto ad asilo nido, non può essere un edificio misto.

LUCA CHIANCA Cioè non ci possono essere tutti e due?

ANTONIO GIANCRISTIANO – SINDACO DI BRIENZA (PZ) No.

LUCA CHIANCA Ma questo è assurdo.

ANTONIO GIANCRISTIANO – SINDACO DI BRIENZA (PZ) È assurdo come dicevo prima, sì sono arrabbiato forse non si vede nell'espressione ma sto incazzato nero.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Anche a Fiorenza 1800 abitanti, sempre in provincia di Potenza, lo scorso anno partecipano ad un finanziamento pubblico per centri polifunzionali.

LUCA CHIANCA Voi avete questa vecchia scuola elementare che è così abbandonata e che cosa avete pensato di fare?

FRANCESCO MASTRANDREA – SINDACO DI FORENZA (PZ) Abbiamo pensato di fare un centro polifunzionale per la famiglia che conteneva in sé anche l'asilo nido.

LUCA CHIANCA Quindi nido, infanzia.

FRANCESCO MASTRANDREA – SINDACO DI FORENZA (PZ) E poi servizi alla famiglia in generale, servizi medici, paramedici…insomma una struttura secondo me utilissima per questa comunità.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Fallito con il primo finanziamento. Provano con il Pnrr, Ma sono costretti a rinunciare al centro polifunzionale.

LUCA CHIANCA Che però non è quello che volevate e che vi serviva?

FRANCESCO MASTRANDREA – SINDACO DI FORENZA (PZ) Eh certo, noi volevamo un centro unico di prima accoglienza per tutto ciò che riguarda la famiglia.

LUCA CHIANCA Quindi adesso con il nuovo bando andate a mettere l'asilo da un'altra parte e questa rimane così?

FRANCESCO MASTRANDREA – SINDACO DI FORENZA (PZ) Questa rimane così perché non abbiamo i soldi per recuperarlo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa logica alla base dei finanziamenti del Pnrr è stata contestata da alcuni sindaci del sud, a partire da quello di Acquaviva delle Fonti.

DAVIDE CARLUCCI - SINDACO DI ACQUAVIVA DELLE FONTI (BA) Si è preferito fare bandi uguali per tutti come se tutti avessero bisogno della stessa cosa, cosa che non è. Questo secondo noi è l'errore alla base che sta rischiando di rendere inefficace il piano nazionale di ripresa e resilienza.

GIANFRANCO VIESTI – PROFESSORE DI ECONOMIA APPLICATA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI BARI Le risorse rischiano di andare verso le amministrazioni più attrezzate e non verso le amministrazioni più carenti. Quello che manca è che nel piano non c'è quella frasetta che mi sarebbe tanto piaciuta e cioè saranno realizzati tanti nuovi asili nido, ma non c'è scritto a partire dai comuni che non ce l'hanno.

LUCA CHIANCA Perché avete messo in concorrenza i comuni delle diverse zone d'Italia, regioni d'Italia.

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Perché siamo in quello che io chiamo la Repubblica delle autonomie e l'autonomia si esprime con delle assunzioni di responsabilità.

LUCA CHIANCA Ma se le formazioni, abbiamo le squadre di seria A e quelle di serie C è difficile partecipare nello stesso torneo questo è il punto.

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Ma no, lei ha visto benissimo i bandi tanto che abbiamo il risultato del 55 percento sui fondi non il 40, dato proprio al mezzogiorno.

LUCA CHIANCA Mi chiedo quanti Comuni sono comunque rimasti fuori di quelli a cui servivano questi nidi perché comunque sono proprio fatti fuori dal sistema.

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Lei mi apre un'altra questione che riguarda tutto il Paese e non solo l'istruzione, che è quella della frammentazione amministrativa del Paese, che magari può essere giustificata in termini storici non coincide con quel livello minimo di efficienza tale da garantire l'efficacia dei servizi questo è un problema vero.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ma per garantire l’efficienza e i servizi, ci vuole il personale. A Mola di Bari, il comune non ha risorse per gestire le pratiche di finanziamento. E si è limitato al recupero di una scuola per l’infanzia abbandonata al degrado da anni.

GIUSEPPE COLONNA - SINDACO DI MOLA DI BARI (BA) Al nostro comune spettavano da mesi due risorse dedicate specificatamente al Pnrr un rendicontatore e un tecnico che avremmo magari potuto destinare per candidarci come asili nido, ma al momento non è arrivato nessuno.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il sindaco Carlucci ha chiesto il finanziamento per un nuovo nido, ma già non ha soldi per sostenere i costi di quello che c'è già.

DAVIDE CARLUCCI – SINDACO DI ACQUAVIVA DELLE FONTI (BA) Io dovrei impiegare dai 6 ai 12 educatori, io ne ho soltanto due che stanno per andare in pensione e quindi come faccio?

LUCA CHIANCA Perché non potete assumere più personale.

DAVIDE CARLUCCI – SINDACO DI ACQUAVIVA DELLE FONTI (BA) Non possiamo assumere perché abbiamo un tetto nella spesa del personale.

STEFANO PISANI – COORDINATORE ANCI PICCOLI COMUNI - CAMPANIA Il mio comune ha una dotazione organica di dieci persone ne dovremmo avere 21. Brunetta bloccò le assunzioni nella pubblica amministrazione perché bisognava tagliare la spesa.

 LUCA CHIANCA Questo in passato?

STEFANO PISANI – COORDINATORE ANCI PICCOLI COMUNI - CAMPANIA In passato, adesso abbiamo bisogno di risorse umane competenti capaci, giovani in grado di portare avanti la sfida che è quella del Pnrr ma non arriva nulla.

LUCA CHIANCA Ministro sono Chianca di Report, di Rai3, buongiorno.

RENATO BRUNETTA – MINISTRO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Buongiorno.

LUCA CHIANCA Senta mi sto occupando di Pnrr.

RENATO BRUNETTA – MINISTRO PER LA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE Buongiorno, buongiorno, non parlo per strada, buongiorno.

LUCA CHIANCA Ho parlato con molti comuni mancano le risorse per scrivere i progetti, ministro. Il bando dei 2800 è andato molto male, la metà sono tutti posti vacanti. Ministro…

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Per fornire assistenza ai Comuni del Sud il ministro Brunetta nel 2021 ha promosso due concorsi pubblici ma a fine maggio c'erano ancora 1.321 posti vacanti, su 2800 messi a bando.

CLEMENTE MASTELLA - SINDACO DI BENEVENTO I bandi sono stati fatti ma hanno partecipato pochissimi perché chi vuole che va a tempo determinato a prendere poco e non si è tenuto conto in particolare al Sud, ci sono alcuni paesini, ad esempio, dove non hanno neppure l'uscere.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A fronte dei tre miliardi messi per i nuovi nidi e scuole dell'infanzia, nessuno ha pensato a un piano di investimento su chi poi dentro i nuovi nido dovrà formare i nostri bambini

EMANUELE PAVOLINI – PROFESSORE DI SOCIOLOGIA UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI MACERATA Se non vogliamo trovarci nel 2026-27 con nidi fatti e senza educatori. Noi come Alleanza per l'infanzia e l'educazione abbiamo stimato che ci servirebbero almeno 40mila 45mila educatori in più.

LUCA CHIANCA Andranno a regime i nuovi asili, si spera tra quattro anni, ma chi ci metto dentro?

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Ma perché lei continua a ragionare in termini di piani centralizzati vede lei come rimane centralizzato nella testa, le università sono autonome, le università hanno tutte le informazioni, hanno già le strutture funzionanti

LUCA CHIANCA C'è o non c'è questa cosa?

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Io le dico che ne abbiamo parlato, ne stiamo conversando, questo è un lavoro continuo, lo sto facendo con il ministro dell'Università

LUCA CHIANCA Ne state parlando, non c'è, ne state discutendo

PATRIZIO BIANCHI – MINISTRO DELL'ISTRUZIONE Non mi faccia dire quello che vuole, lei ancora una volta sta tentando di farmi dire delle cose che fanno rispondenza alla sua visione del mondo, il ministero dell'Università sta lavorando per quest'operazione ed è nella propria sua competenza.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il ministro è ottimista però insomma abbiamo capito anche che manca un piano serio, completo sulla formazione e su questo rischiamo anche di perdere la credibilità perché gran parte del Pnrr italiano è basato sul tema della Next generation. Ora, se vuoi far funzionare bene gli asili nido e le scuole dell’infanzia, le scuole materne, devi riempirle di personale che devi formare e devi anche fare presto a formarlo perché bisogna chiudere tutto entro il 2026. Però, insomma, un corso di laurea per un asilo nido dura tre anni, cinque per la materna poi manca anche una scuola per la pubblica amministrazione, per formare gli impiegati e i funzionari della pubblica amministrazione. Se non funziona quella si rischia che si infiltri il disservizio, la corruzione, lo spreco e anche aumenti, il senso di abbandono da parte di un cittadino verso lo stato. Ecco e poi ti manca quel personale che è in gamba, che magari è capace di scrivere un progetto, di adire a dei finanziamenti per recuperare il tempo perduto. Mentre in altre regioni ha invece, che sono già avanti, ha i funzionari in gamba, che scrivono bene il progetto, incassano i finanziamenti e sono anche in grado di progettare le città e le scuole dei prossimi vent’anni. Sono le stesse facce di un unico, le due facce di un unico paese e l’autonomia tanto sventolata dal ministro Bianchi dice Luca ma tu hai quella testa, pensi centralizzato, vabbè ma noi pensiamo così perché abbiamo anche alle spalle un’esperienza di autonomia che è già fallita. Pensiamo al federalismo fiscale, no? È fallito al sud perché è fallita anche l’applicazione dei livelli essenziali delle prestazioni in base al fabbisogno. Il ragionamento era tu al sud hai bisogno di poco e poco ti do. Si è commesso lo stesso errore con il Pnrr ecco perché è mancata la concertazione. Qualcuno è andato a parlare con i sindaci, quelli più virtuosi che non si rassegnano ad appartenere alla categoria dei vinti. Ecco sembra che sia, possa avverarsi l’ennesima occasione perduta ed una generazione di una parte del paese può essere condannata a non avere più neppure la speranza e tutto questo solo per un pregresso storico.

Il tubo rotto da 24 anni, persi oltre 10 milioni di litri di acqua. ANTONIO CORRADO su Il Quotidiano del Sud l'8 giugno 2022.

Era il lontano 1998, quando all’allora Consorzio di bonifica di Bradano e Metaponto, fu segnalato la prima volta che il grosso giunto lungo la condotta maestra, che porta l’acqua d’irrigazione da Senise alla parte terminale del Metapontino in contrada “Caramola” di Rotondella, era danneggiato perché vetusto e da sostituire. Una segnalazione passata allegramente in cavalleria. Così quella condotta del diametro di 1,2 metri, con una portata di circa 1.500 litri al secondo, continuò a “lavorare” nella precarietà e nel rischio. Il tubo parte dalla Sinnica, nei pressi di Senise, con una portata di ben 3.000 litri al secondo, quindi scende a valle, dove si sdoppia con una condotta più piccola ma parallela ed integrata, che fornisce l’acqua potabile ai comuni dell’alto Jonio calabrese, da Rocca Imperiale a Montegiordano e parte di Roseto Capo Spulico.

La condotta era originariamente dell’Ente irrigazione, il quale nel 1987-88 l’ha ceduta al Consorzio di bonifica, che ha la piena responsabilità di gestione e manutenzione, alimentando con essa i campi di Nova Siri e Rotondella, per poi recuperare una parte dell’acqua, da potabilizzare per la vicina Calabria. Il grosso giunto è un elemento nevralgico per il corretto esercizio della condotta, perché concepito con sistema “a cannocchiale”, ovvero in grado di restringersi o dilatarsi a seconda delle temperature e della pressione d’esercizio.

Un componente essenziale da non trascurare mai; tanto che a fine anni Novanta si sarebbe dovuto sostituire, ma evidentemente già allora il Consorzio di bonifica di Bradano e Metaponto navigava a vista. Infatti, si è preferito procedere con ciclici rattoppi, a cadenza massimo biennale, quando si manifestavano criticità. Il problema è probabilmente scaturito dall’ossidazione dei perni che uniscono le due calotte del giunto, dove si installa anche del materiale isolante, che probabilmente è stato consumato dal tempo.

La perdita che oggi fa zampillare circa 25 litri al secondo di acqua nel terreno sottostante la condotta, era stata quindi registrata tante volte, seppure non in maniera così vistosa, costringendo i tecnici del Consorzio ai periodici rattoppi. L’ultimo in ordine di tempo, risale al febbraio scorso, quando dal giunto iniziò a trafilare acqua; una perdita non particolarmente importante, che era difficilmente visibile anche dalla vicina Statale Sinnica. Il Consorzio di Basilicata, ha pensato bene di intervenire, ma sempre con il solito rattoppo, questa volta secondo indiscrezioni affidato ad operai non particolarmente esperti, che probabilmente si sono limitati a serrare i perni già vistosamente ossidati, mettendoli ulteriormente sotto stress. Tanto che, di lì a pochi giorni, il giunto ha iniziato a spruzzare acqua come lo vediamo oggi. Un danno che i bravi tecnici responsabili delle reti del Consorzio, non potevano non aver visto, nè è verosimile pensare che nessuno delle decine di agricoltori che lavorano in quella zona, non avesse notato quello zampillo scenografico.

·        Il Pozzo Artesiano.

Muore ballando al suo compleanno, Antonio Andreani cade nel pozzo alla festa. Vito Califano su Il Riformista il 3 Luglio 2022

È morto festeggiando i suoi quarant’anni. È successo a Erice, in provincia di Trapani. Vittima di un assurdo e tragico incidente Antonio Andreani, di Molfetta, provincia di Bari che aveva preso in affitto una villetta per festeggiare la cifra tonda con amici e familiari. Sul posto sono intervenuti i sanitari del 118, i Vigili del Fuoco e carabinieri.

Andreani stava ballando sulla copertura di un pozzo artesiano di 25 metri all’interno della villetta quando la lastra che lo copriva ha ceduto. L’incidente mortale, riporta l’Ansa, è avvenuto poco dopo la mezzanotte. Il corpo dell’uomo è stato recuperato soltanto introno alle quattro del mattino. Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco da Palermo del gruppo speleologico fluviale.

Andreani aveva una profonda ferita alla testa quando il cadavere è stato recuperato. Per lui non c’è stato niente da fare. Era manager di un’azienda che ha sede a Trapani. La salma è stata trasferita alla camera mortuaria di Marsala per l’autopsia disposta dalla Procura di Trapani.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da gds.it il 4 luglio 2022.

Undici anni fa era guarito da un tumore e quello di ieri non era un anniversario qualunque: per il suo quarantesimo compleanno Antonio Andriani voleva una grande festa che servisse a scacciare un brutto e lontano ricordo e indicare una felice prospettiva per il futuro, mentre si apprestava al giro di boa dei quaranta. 

Invece, nel bel mezzo dei balli, quando era circa mezzanotte, il festeggiato ha mosso qualche passo di danza su una lastra di cemento che copriva un pozzo artesiano, delimitato da un tubo in calcestruzzo un po' in rilievo rispetto al pavimento, quasi si trattasse di un piccolo palcoscenico. Ma la lastra ha ceduto e l’uomo è sprofondato per 25 metri in quel cilindro di cemento, per un terzo pieno d’acqua.

Per lui non c'è stato nulla da fare. Le decine di amici e parenti, in gran parte arrivati dalla Puglia (Andriani era originario di Molfetta) fino a Erice, sulle seducenti colline che sovrastano Trapani, sono passati dalla gioia alla disperazione. Chiamati i carabinieri, è stata subito chiara la gravità dell’incidente. Il corpo è stato recuperato dopo quattro ore ed è stato necessario l’intervento dei sommozzatori. Andreani è stato imbracato e tirato su.

Il medico legale parla di una profonda ferita alla testa, provocata dall’urto durante la caduta, e potrebbe essere questa la causa della morte, avvenuta prima che l’uomo arrivasse a contatto con l'acqua. La salma è stata portata all’obitorio dell’ospedale di Marsala, dove oggi si svolgerà l’autopsia. Il quarantenne - che da qualche anno viveva a Trapani, dove dirigeva con successo la sede di Biosalus, un’azienda che si occupa di depurazione d’acqua e di ambienti - aveva una passione per la musica e per Renato Zero e aveva organizzato diversi concerti. Recentemente aveva ricevuto un encomio dalla società per la quale lavora.

Secondo quanto hanno raccontato i testimoni ai carabinieri del Reparto operativo, coordinati dal colonnello Andrea Pagliaro, nel corso della serata gli invitati avevano pensato di mettere su un po' di musica e ballare nello spiazzo ben pavimentato davanti all’ingresso della villetta. Poco dopo è avvenuta la tragedia. Fa un certo effetto leggere le parole di sfida e di gioia scritte esattamente un anno fa da Andreani sul proprio profilo Facebook: «Oggi festeggio la vita, perché sì, ho avuto paura, ma ho combattuto con tutte le mie forze, e lo racconto. Accarezzo la vita, così come lei ha fatto con me. Nel frattempo, mi rimetto comodo e continuo a viaggiare. Il cancro si può sconfiggere». 

Chi era Antonio Andriani, il manager di Molfetta morto mentre festeggiava il suo 40esimo compleanno: 11 anni fa aveva vinto un tumore. La Repubblica il 3 luglio 2022.

L'uomo è precipitato in un pozzo artesiano di una villa a Erice, in provincia di Trapani, che aveva preso in fitto per la sua festa. Decine di invitati arrivati dalla Puglia. Il dolore sui social network.

Undici anni fa era guarito da un tumore e quello di ieri non era un anniversario qualunque: per il suo quarantesimo compleanno Antonio Andriani voleva una grande festa che servisse a scacciare un brutto e lontano ricorso e indicare una felice prospettiva per il futuro mentre si apprestava al giro di boa dei quaranta.

Invece, nel bel mezzo dei balli, quando era circa mezzanotte, il festeggiato ha mosso qualche passo di danza su una lastra di cemento che copriva un pozzo artesiano, delimitato da un tubo in calcestruzzo un pò in rilievo rispetto al pavimento, quasi si trattasse di un piccolo palcoscenico. Ma la lastra ha ceduto e l'uomo è sprofondato per 25 metri in quel cilindro di cemento, per un terzo pieno d'acqua. Per lui non c'è stato nulla da fare. 

Le decine di amici e parenti, in gran parte arrivati dalla Puglia (Andriani era originario di Molfetta) fino a Erice, sulle seducenti colline che sovrastano Trapani, sono passati dalla gioia alla disperazione. Chiamati i carabinieri, è stata subito chiara la gravità dell'incidente. Il corpo è stato recuperato dopo quattro ore ed è stato necessario l'intervento dei sommozzatori.

Andreani è stato imbracato e tirato su. Il medico legale parla di una profonda ferita alla testa, provocata dall'urto durante la caduta, e potrebbe essere questa la causa della morte, avvenuta prima che l'uomo arrivasse a contatto con l'acqua. La salma è stata portata all'obitorio dell'ospedale di Marsala, dove domani si svolgerà l'autopsia.

Il 40enne - che da qualche anno viveva a Trapani dove dirigeva con successo la sede di un'azienda che si ocupa di depurazione d'acqua e di ambienti - aveva una passione per la musica e per Renato Zero e aveva organizzato diversi concerti.

Recentemente aveva ricevuto un encomio dalla società per la quale lavora. Secondo quanto hanno raccontato i testimoni ai carabinieri del Reparto operativo, coordinati dal colonnello Andrea Pagliaro, nel corso della  serata gli invitati avevano pensato di mettere su un pò di musica e ballare nello spiazzo ben pavimentato davanti all'ingresso della villetta. Poco dopo è avvenuta la tragedia.

Esattamente un anno fa, sul proprio profilo Facebook Andreani scriveva: "Oggi festeggio la vita, perché sì, ho avuto paura, ma ho combattuto con tutte le mie forze, e lo racconto. Accarezzo la vita, così come lei ha fatto con me. Nel frattempo mi rimetto comodo e continuo a viaggiare. Il cancro si può sconfiggere".

Sui social network il dolore di amici e familiari. Come quello di Valentina Errera: "È assurdo, non voglio crederci. Ero lì a festeggiare i tuoi 40 anni... grazie per tutto quello che hai fatto per me. Grazie per il meraviglioso uomo e direttore che sei stato e che sempre sarai".

La caduta e il dramma vissuto in diretta. Cos’è un pozzo artesiano: 40 anni fa la tragedia di Alfredino Rampi a Vermicino. Vito Califano su Il Riformista l'11 Giugno 2021 

L’incidente del Vermicino, nel quale perse la vita Alfredo Rampi, è stato uno degli eventi più rilevanti e sconvolgenti della storia della Repubblica italiana. La caduta del bambino di sei anni in un pozzo artesiano in via Sant’Irineo, località Selvotta, piccola frazione di campagna vicino a Frascati, fu un fatto storico per la copertura mediatica, l’attenzione morbosa sulla tragedia vissuta in diretta, con la Rai sempre collegata durante le ultime 18 ore del caso. Furono tre notti di un’esperienza psicologica e sociale collettiva sconvolgenti, terribili, per molti l’inizio della televisione del dolore. Se n’è tornato a parlare e a dibattere in Italia e per via di una serie tv Sky Original – Alfredino – Una storia italiana – diretta da Marco Pontecorvo, e in prima Tv il 21 e il 28 giugno su Sky Cinema e in streaming su NOW TV.

Un mese prima l’attentato a Giovanni Paolo II. Lo stesso anno il ritrovamento degli elenchi della Loggia massonica P2. Dal 28 giugno il primo governo non a guida della Democrazia Cristiana con il repubblicano Giovanni Spadolini Presidente. Alfredino era magro, aveva sei anni, soffriva della Tetralogia di Fallot che causa una difficoltà di ossigenazione del sangue. Detta anche la “Sindrome del bambino blu”. Era il 10 giugno 1981.

La famiglia – il padre Ferdinando, la madre Francesca Bizzarri, la nonna paterna Veja e i figli Alfredo e Riccardo, di sei e due anni – era in vacanza nella loro seconda casa a Vermicino. Alfredo chiese al padre di poter tornare a casa da solo, attraverso i prati ma quando Ferdinando tornò a casa il bambino ancora non era arrivato. La prima a ipotizzare la caduta in un pozzo fu la nonna del bambino. Quel pozzo era stato recentemente scavato.

Un pozzo artesiano viene perforato per captare una falda acquifera sotterranea che scorre in pressione e per effetto della pressione idrostatica tende a salire fino a uscire. Sfrutta i naturali bacini artesiani, acquiferi in pressione, e permette di fare a meno dei sistemi di pompaggio. Il nome deriva dalla Regione nel Nord della Francia di Artois, dove le argille consentono la formazione di acquiferi multistrato confinati. Il primo sarebbe stato praticato nel 1126 da un gruppo di monaci. Il pozzo della vicenda – secondo la ricostruzione – era stato coperto, con una lamiera, perché il proprietario del terreno non si era accorto fosse caduto dentro il bambino. Il brigadiere Giorgio Serranti volle controllare. Il proprietario del terreno, Amedeo Pisegna, 44 anni, insegnante di applicazioni tecniche a Fascati, fu arrestato con l’accusa di omicidio colposo e con l’aggravante della violazione delle norme di prevenzione degli infortuni.

Su quello spiazzo si accalcano telecamere, giornali e giornalisti, televisioni. Le operazioni incontrano numerosi ostacoli. Una tavoletta alla quale Alfredo avrebbe dovuto aggrapparsi si incastra. Gli speleologi si calano a testa in giù. Con una trivella si scava un tunnel parallelo. Le dirette televisive proseguono senza sosta. Arriva anche il Presidente della Repubblica Sandro Pertini. Angelo Licheri riesco solo a sfiorare Alfredino a circa sessanta metri. Il cadavere fu recuperato 28 giorni dopo da tre squadre di minatori della miniera di Gavorrano l’11 luglio seguente, 28 giorni dopo la morte del bambino. “Si può andare sulla Luna, ma non si può salvare un bambino caduto in un pozzo. Si possono annientare milioni di vite umane in un attimo; non si riesce a salvarne una sola in trentasei ore … Lo spavento che provava Pascal di fronte al silenzio degli spazi infiniti noi lo sentivamo ora davanti a un pozzo da cui la voce di un bambino invocava la salvezza. Il pozzo era il nostro infinito”, scrisse lo scrittore siciliano Leonardo Sciascia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il dramma nazionale. Bambino caduto nel pozzo in Marocco, Rayan estratto dai soccorritori senza vita dopo 5 giorni. Redazione su Il Riformista il 5 Febbraio 2022. 

Il piccolo Rayan è stato estratto dal pozzo in cui era rimasto incastrato nel villaggio di Tamrout, nel nord del Marocco, cento chilometri da Chefchaouen sui monti del Rif, ma è morto per le ferite riportate. Lo ha annunciato in un comunicato il gabinetto della Casa Reale del Marocco: “Il bambino è morto a causa delle ferite riportate durante la caduta“, si legge nel comunicato citato dai media arabi

Il bambino di 5 anni era stato raggiunto dai soccorritori ed estratto dal pozzo dopo giorni di incessante lavoro di scavo, quindi portato in una ambulanza che lo aspettava a pochi metri: l’obiettivo era quello di farlo salire su un elicottero pronto a volare verso un ospedale, ma Rayan è morto per le ferite riportate nella caduta.

Un epilogo drammatico dopo le ore di grande attesa che ha vissuto il Marocco, che da giorni stava pregando per il piccolo Rayan, caduto martedì in un pozzo nel villaggio di Tamrout.

Da subito si era mossa la macchina dei soccorsi, che hanno scavato con sei grosse bulldozer un tunnel parallelo al pozzo profondo circa 30 metri. Una montagna è stata letteralmente sbancata per creare una voragine e raggiungere in parallelo il fondo del pozzo.

Il bambino da martedì ha trascorso oltre 100 ore in un ‘buco’ di una larghezza di circa 50 centimetri e ha riportato probabili fratture nella caduta. In questi Rayan tramite un tubo è stato rifornito di ossigeno, acqua e cibo.

I lavori di scavo nel tunnel sono proseguiti di centimetro in centimetro, anche perché il rischio crolli ha costretto gli operatori a lavorare con estrema cautela. “Ottanta centimetri ci separano da Rayan, i perforatori stanno lavorando minuziosamente per evitare qualsiasi errore“, aveva detto Mourad Al Jazouli, riferendosi a una progressione di 20 centimetri all’ora.

Rayan come Alfredino

La storia del piccolo Rayan ricorda quella di Alfredo Rampi, detto Alfredino, che il 13 giugno 1981 morì a Vermicino, nel Lazio, dopo aver trascorsi tre giorni in un pozzo artesiano di circa 60 metri di profondità.

Le operazioni di recupero, trasmesse in diretta tv per oltre 18 ore, paralizzarono l’Italia intera. Anche l’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini si precipitò sul posto. Una vicenda che resta dolorosa a distanza di oltre 40 anni.

·        Il Caldo.

Cop27, gli ultimi otto anni i più caldi di sempre: disgelo record sui ghiacciai alpini, inondazioni, incendi e oceani sempre più gonfi. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 6 Novembre 2022.

L’Organizzazione meteorologica mondiale anticipa con dati allarmanti per il 2022 il rapporto sul «Global Climate» alla Cop27

Caldo, sempre più caldo. Con i ghiacciai che quest’anno si sono sciolti a ritmi record, anche sulle Alpi, e il livello del mare che si innalza due volte più velocemente rispetto a trent’anni fa, minacciando regioni costiere e isole. È la drammatica fotografia scattata dall’Organizzazione meteorologica mondiale (WMO) all’apertura della Conferenza sul clima dell’Onu con il rapporto «The State of the Global Climate». «Con l’inizio di Cop27, il nostro pianeta sta inviando un segnale di soccorso. L’ultimo rapporto sullo stato del clima globale è una cronaca del caos climatico», ha commentato il segretario generale dell’Onu António Guterres. «Gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati, rendendo ogni ondata di caldo più intensa e pericolosa per la vita, soprattutto per le popolazioni vulnerabili. Ecco perché stiamo spingendo così tanto per i sistemi di allerta precoce universali entro cinque anni. Dobbiamo rispondere al segnale di soccorso del pianeta con l’azione: un’azione per il clima ambiziosa e credibile. Cop27 deve essere il luogo — e ora deve essere il momento».

Gli ultimi otto anni — dal 2015 ad oggi — sono stati i più caldi mai registrati nella storia da quando l’uomo ha cominciato a prendere la temperatura della Terra. Il 2022 si posiziona al quinto posto in questa classifica soltanto grazie all’influenza insolita, per il terzo anno consecutivo, del fenomeno oceanico di La Niña, che tende ad abbassare le temperature. «Ciò però non cambia una tendenza che appare irreversibile — sostengono i ricercatori del WMO —. È solo una questione di tempo prima che tornino anni ancora più caldi». Abbiamo già raggiunto una temperatura media della superficie terrestre superiore di 1,15°C a quella dell’era pre-industriale, ossia prima che l’uomo cominciasse ad immettere in atmosfera tonnellate di CO2 in più. Manca quindi poco prima di raggiungere gli 1,5° massimi di aumento stabiliti dall’Accordo di Parigi e dalla Cop26 di Glasgow lo scorso anno.

È dimostrato che ogni decimo di grado in più moltiplica e rende più intensi gli eventi meteorologici estremi come siccità, inondazioni o uragani. Le conseguenze più immediate di questa «febbre» si osservano a livello dei ghiacciai. Lo conferma il segretario generale di WMO Petteri Taalas: «Le concentrazioni di CO2 in atmosfera sono così elevate che l’ambizioso obbiettivo di +1,5°C risulta davvero molto difficile da raggiungere. È già troppo tardi per numerosi ghiacciai e lo scioglimento continuerà per centinaia o addirittura migliaia di anni, con gravi conseguenze per l’approvvigionamento idrico». Osservati speciali anche i ghiacciai delle Alpi che hanno registrato nel 2022 una perdita record di massa, con una riduzione di spessore tra i 3 e i 4 metri, ossia «molto più del loro precedente record nel 2003».

Tutto ciò, a catena, ha conseguenze anche sul livello degli oceani, principalmente a causa del disgelo delle calotte glaciali: dal 2020 ad oggi c’è stato innalzamento di 10 mm, «circa il 10% dell’aumento registrato dall’inizio delle misurazioni satellitari trent’anni fa». Un ritmo doppio rispetto al 1993 (5 mm all’anno contro 2,1 millimetri negli anni Novanta). Non solo. Il 90% del calore intrappolato sulla Terra finisce nell’oceano e i 2mila metri superiori dell’oceano si stanno riscaldando più velocemente. Il tasso di riscaldamento degli ultimi 15 anni è del 67% più veloce rispetto al 1971, afferma il rapporto. Quel calore oceanico «continuerà ad aumentare in futuro — afferma il rapporto —: un cambiamento che è irreversibile su scale temporali da centenario a millennio».

In conferenza stampa Taalas ha elencato la lunga serie di eventi estremi che hanno colpito il pianeta quest’anno. Dalle inondazioni senza precedenti in Pakistan, allorché un terzo del Paese è finito sott’acqua, alle ondate di calore e agli incendi devastanti che hanno soffocato l’Europa e la Cina, fino alla siccità estrema che ha messo in ginocchio e affamato il Corno d’Africa e gli uragani che hanno devastato i Caraibi. 

Canadair precipita sull’Etna: stava spegnendo un incendio. «Morti i due piloti». Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022.

Il velivolo è caduto in territorio di Linguaglossa. Sul posto carabinieri e 118. Dalle prime informazioni il Canadair sarebbe precipitato a seguito dell’urto della carena contro la costa della montagna

La tragedia è stata ripresa in diretta dagli uomini della Forestale che stavano filmando con un cellulare i lanci d’acqua sugli ultimi focolai dell’incendio che, da ieri, brucia il monte Calcinera, nel territorio di Linguaglossa, in provincia di Catania. Nel video si vede il Canadair 28 abbassarsi e urtare con la carena il costone della montagna. Poi un’esplosione e le fiamme.

Sono passate da poco le 15.30. I due uomini che si trovavano a bordo dell’aereo sono dispersi. I corpi non sono stati ancora recuperati, ma è impossibile che siano sopravvissuti allo schianto. Da ore i soccorritori dei vigili del fuoco, del 118 e della Protezione Civile perlustrano la zona. I rottami del canadair sono sparsi per centinaia di metri. «“Le mie squadre lo hanno visto precipitare, poi si è alzata una colonna di fumo – dice Salvatore Cocina, responsabile della Protezione Civile regionale –. L’aereo è completamente distrutto. Ci sono state diverse esplosioni dopo lo schianto, ora i vigili del fuoco stanno cercando i due piloti che sono della società Babcock che fornisce il servizio dei Canadair in Italia».

Il velivolo, partito da Lamezia Terme, lavorava da ore allo spegnimento del rogo che, dopo gli interventi di ieri, stamattina aveva ripreso forza. Si temeva potesse arrivare a valle, per questo erano ripresi i lanci di acqua. Anche un fotografo, Massimo Lo Giudice, ha assistito all’incidente. «Ho notato che l’aereo era molto basso, faceva dei giri abbassandosi per spegnere il rogo. L’ultimo scatto è datato alle 15 e 38: si vede quasi mezzo aereo dietro la collina. Dopo circa 30 secondi si è sentito uno scoppio sordo con una densa nube di fumo», ha raccontato a un sito locale.

Canadair precipitato, uno dei piloti rimasti uccisi si schiantò già nel 1997 (e nell’incidente morì il suo secondo). Lara Sirignano su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

L’incredibile destino di Matteo Pozzoli, 58 anni, che fu ritenuto responsabile della tragedia aerea del monte Lupone, dove morì il capitano Maurizio Poggiali. L’altra vittima sull’Etna è Roberto Mazzone, 62 anni, che lascia moglie e due figli: aveva compiuto un eroico ammaraggio a Salerno. I loro corpi trovati dilaniati

Uno lombardo di Erba, nel Comasco; l’altro campano, di Salerno. Stessa generazione, stesso amore per il volo: Matteo Pozzoli, 58 anni, e Roberto Mazzone, 62, legati da un tragico destino. Erano a bordo del Canadair precipitato a Linguaglossa, nel Catanese, dopo l’impatto contro un costone roccioso e poi esploso. I loro corpi sono appena stati trovati, praticamente distrutti.

Pozzoli, figlio dell’ex sindaco leghista di Erba, Filippo, viene dalla Aeronautica Militare. Nel 1997 scampò alla morte dopo essere precipitato con un SIAI 208 M sul monte Lupone, in provincia di Latina. Con lui c’era il capitano Maurizio Poggiali che nell’impatto perse la vita. Un episodio drammatico causato da una manovra azzardata di cui Pozzoli venne ritenuto responsabile e che gli costò due condanne ormai definitive: una penale a un anno e sei mesi per omicidio colposo e una della Corte dei Conti. La magistratura contabile che procedette per danno erariale scrisse che il pilota aveva «negligentemente omesso di seguire non solo le regole di volo in concreto impartite, ma anche le regole di comune prudenza e diligenza». I familiari della vittima hanno sempre duramente criticato la decisione dell’Aeronautica Militare di riammettere al volo il pilota che negli anni è diventato tenente colonnello.

«Stato e Aeronautica silenti»

Il fratello di Poggiali, Fabio, noto regista e attore di teatro dedicò al disastro del monte Lupone un monologo. Nel 2018 è morto suicida. Il padre del pilota condannato non ha mai accettato le ricostruzioni dei giudici. «Il tribunale ha condannato Matteo — scrisse l’ex sindaco nel 2017 — con la motivazione che essendo comandante dell’aereo non doveva sorvolare zone impervie. Domanda: ma un collaudo si fa su una bella pianura senza forzare l’aereo o bisogna vedere la rispondenza del mezzo anche in condizioni di criticità? Ora la corte dei conti obbliga il pilota a risarcire l’aeronautica del costo dell’aereo distrutto...Stato e Aeronautica silenti, prima lodano e poi fregano. Nonostante ciò Matteo continua a mettere la propria capacità a servizio del nostro Paese. Siamo orgogliosi di te, continua a volare».

Roberto Mazzone, «serio e capace di gesti eroici»

Schivo, riservato, serio e con una grande esperienza, così l’amico Gennaro D’Alessio descrive il collega disperso con Pozzoli, Roberto Mazzone. I due si sono conosciuti da adolescenti. Entrambi volontari nell’associazione Soccorso Amico, che gestisce un servizio gratuito di ambulanza. D’Alessio è un ex bancario, Mazzone ha fatto sempre il pilota. «È riuscito a fare della sua passione un lavoro», dice D’Alessio. «Era un uomo serio, con la testa sulle spalle, capace di gesti eroici», come quando, anni fa, per evitare che l’aereo su cui volava con un allievo, per una avaria precipitasse e uccidesse dei bambini, riuscì ad atterrare sul lungomare di Salerno. «Mezzora dopo aver saputo del terremoto dell’Irpinia eravamo insieme a prestare soccorso alla popolazione colpita — racconta —. Amava quel che faceva. E cercava di convincermi di quanto fosse naturale volare. Era una persona incapace di imprudenze». Mazzone lascia la moglie e due ragazzi.

Terza «ottobrata» in arrivo, con medie più alte di 10 gradi. Cnr: clima come a inizio luglio. Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Allo stesso tempo però, a causa del caldo accumulato, intense piogge stanno interessando le Alpi e localmente la Pianura Padana e la Liguria

Le «ottobrate» ormai non sono solo romane

Notti tropicali a Genova e Cagliari, minime all’alba di 16 gradi a Torino, Milano e Trieste: il caldo anomalo invade anche le notti italiane con uno scarto rispetto alla media del periodo di +10 °C. Un caldo - avverte il sito IlMeteo.it - che continuerà fino alla fine del mese e probabilmente anche per il Ponte di Ognissanti con la terza ottobrata portata da Scipione l’Africano. Allo stesso tempo però, a causa del caldo accumulato, intense piogge stanno interessando le Alpi e localmente la Pianura Padana e la Liguria. Fino a lunedì, al settentrione, prevarrà il sole ma non mancheranno locali precipitazioni, le temperature massime fino a 30 °C saranno in ulteriore aumento fino a 34 gradi a iniziare da domenica.

Precipitazioni ma anche temperature elevate

In sintesi, nelle prossime ore avremo piogge al Nord e localmente al Centro in Toscana, la domenica sarà caldissima ad eccezione del Nord dove avremo ancora qualche pioggia, il lunedì caldissimo con miglioramento anche al Nord, ed in seguito caldo e sole su tutto lo stivale salvo nebbie fitte in Pianura Padana nelle ore notturne. Nel dettaglio: - Sabato 22. Al nord: piogge anche forti sulle Alpi, moderate sulle Prealpi, possibili anche in pianura a nord del Po. Al centro: nuvoloso in Toscana con qualche pioggia; sole altrove, molto caldo in Sardegna. Al sud: tanto sole e clima molto caldo per il periodo. - Domenica 23. Al nord: piovaschi al Nord Ovest, più sole altrove. Al centro: soleggiato. Al sud: tutto sole e caldo. - Lunedì 24. Al nord: piogge sparse al Nord Ovest, variabile altrove. Al centro: bel tempo salvo nubi in Toscana. Al sud: ampio soleggiamento e caldo. Tendenza giorni successivi: ancora Anticiclone Scipione l’Africano con la Terza Ottobrata per tutta la settimana.

Cnr: come a inizio luglio

L’attuale situazione termica è «a livelli quasi estivi, da primi di luglio», secondo Bernardo Gozzini, direttore del consorzio Lamma che riunisce Regione Toscana e Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr). Il quadro generale presenta 4-7 gradi sopra la media stagionale e una temperatura del mare di 23-24 gradi, che si registra in genere tra fine giugno e primi di luglio. Lo zero termico è posizionato intorno a 2.700 metri e nei prossimi giorni supererà i 3 mila.

Cambiamenti climatici, il 2022 è solo un antipasto di quello che ci aspetta. Scenari, non previsioni, dicono già che il Mediterraneo è un hot spot del cambiamento. Dove la temperatura aumenta più rapidamente, quasi il doppio rispetto alla media globale. Marco Cattaneo su L'Espresso il 9 Agosto 2022

Eppure, era tutto già scritto. Bastava leggere le pagine sul Mediterraneo del sesto rapporto dell’Ipcc, oppure sfogliare gli scenari delineati dalla Fondazione Centro euro-mediterraneo sui cambiamenti climatici per il nostro Paese. Scenari, non previsioni, vale a dire futuri possibili anche in relazione alle azioni di mitigazione e adattamento che sapremo mettere in campo per limitare i danni.

In tutti questi documenti è già chiaro che l’area mediterranea è un hot spot del cambiamento climatico, vale a dire una delle regioni in cui la temperatura aumenta più rapidamente, quasi il doppio rispetto alla media globale. Le ragioni vanno dalle caratteristiche stesse del Mediterraneo, che essendo un mare chiuso si scalda più rapidamente degli oceani, ai complessi sistemi di circolazione atmosferica che trasferiscono aria calda dall’equatore verso le regioni tropicali. E che si stanno espandendo a latitudini sempre più elevate a causa del riscaldamento globale. È lì che ci siamo noi, per capirci.

Così, in una proiezione al periodo 2036-2065, dicono gli scenari, aumenteranno in tutta Italia i giorni con temperature massime superiori ai 35 gradi, e diminuiranno sulle Alpi quelli con temperature inferiori agli zero gradi, con ovvie conseguenze sulle precipitazioni nevose. Quanto alle piogge, si prevede che aumentino – sia pur di poco – al nord e che si riducano ulteriormente al centro-sud. Con un incremento, però, degli eventi estremi, vale a dire precipitazioni intense e violente di breve durata. Sappiamo, dunque, che in certe aree ci saranno periodi senza piogge più lunghi e scarsità di risorse idriche, oppure che arriveranno temporali disastrosi e inondazioni più frequenti, ma non possiamo dire a lungo termine – in senso climatologico, non meteorologico – quando si manifesteranno questi fenomeni.

In quest’ottica, il 2022 sembra essere solo un antipasto di quello che ci aspetta, con maggiore frequenza e intensità, nei decenni a venire. Dopo mesi di un inverno mite e senza neve, seguito da una primavera calda e secca, con l’inizio anticipato di un’estate fin qui torrida, il 22 luglio nella frazione di Pontelagoscuro, a Ferrara, l’autorità di bacino registrava una portata del Po di 114 metri al secondo, in costante diminuzione, appena il 10 per cento della media. E se esattamente un anno prima una tempesta di ghiaccio devastava un migliaio di ettari di frutteti e vigneti nel Trentino, oggi gli agricoltori della pianura mostrano pannocchie di mais e acini d’uva rinsecchiti, lontanissimi dalla maturazione.

È soprattutto per questo che i rapporti non si fermano alle conseguenze del cambiamento climatico, ma sottolineano l’urgenza di mitigazione e adattamento, vale a dire di azioni che da una parte riducano il nostro impatto sul clima con una graduale ma rapida rinuncia ai combustibili fossili e dall’altra ci permettano di affrontare il futuro limitando i danni.

A questo proposito, in qualche cassetto del ministero per la Transizione ecologica giace un Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici in attesa di approvazione della Valutazione ambientale strategica. Dal 2018. E, guarda caso, tra i punti più rilevanti ci sono indicazioni strategiche per attuare azioni di adattamento in un’area considerata di elevata priorità: il bacino del Po.

Infine, è arrivata la pioggia, almeno al Nord, attesa come una benedizione e accolta come un dono di divinità capricciose ma benevole, a giudicare dalle migliaia di post liberatori che si leggevano in questi giorni sui social network. Non possiamo sapere se basterà a salvare i raccolti e la vendemmia, ma dice molto di noi. E di come ancora siamo più inclini ad affidarci alla provvidenza anziché alla scienza.  

Si sciolgono i ghiacciai, emergono resti umani e relitti dimenticati da decenni. Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera il 10 Agosto 2022.

Sulle Alpi ricompaiono le tracce del passato: un proiettile a Cervinia, in Svizzera le ossa di scalatori e parti di un aereo precipitano nel 1968 

Aereo caduto nel 1968 recuperato nei giorni scorsi in Svizzera

Sulla Marmolada e sull’Adamello succede spesso: ogni anno dai ghiacciai compaiono resti e residui risalenti alla prima guerra mondiale. Ossa, bombe, brandelli di divise, scatolette arrugginite, proiettili: cose così. In questi mesi, però, con le alte temperature che hanno interessato tutto l’arco alpino - in Svizzera a fine luglio lo zero termico è arriva fin quasi a 5.200 metri - il fenomeno si è ripetuto e ampliato.

Italia

A Cervinia, a 3.090 metri di quota con la fusione del ghiacciaio del Ventina è comparso un proiettile d’artiglieria della seconda guerra mondiale. In parte ossidato, ha una lunghezza di 30 centimetri e un diametro di 5. È stato un cittadino a segnalare il ritrovamento nei giorni scorsi ai carabinieri, che hanno richiesto l’intervento degli artificieri dell’esercito. Il 23 luglio 2015 dai ghiacciai della val Malenco, in Lombardia, erano emersi resti umani a 3.100 metri di quota, forse appartenenti a un alpinista morto diversi anni fa senza escludere però che si tratti di un soldato della prima guerra mondiale.

Svizzera

In Svizzera tre ritrovamenti nel Cantone Vallese. Il 26 luglio, grazie alla fusione del ghiacciaio Stockji, nella valle di Goms, sono stati visti i resti mummificati di un alpinista morto da una trentina d’anni. Il cadavere era mummificato e leggermente danneggiato, «ma quasi completo». Il 4 agosto il ghiacciaio dell’Aletsch ha restituito alcune parti di un Piper Cherokee registrato come HB-OYL. L’aereo da turismo era precipitato il 30 giugno 1968, le tre persone a bordo erano morte ed erano state recuperate, l’aereo no. L’8 agosto due alpinisti francesi hanno trovato ossa umane scalando il ghiacciaio di Chessjen vicino a un sentiero non più usato da una decina di anni. Nei due casi di resti umani la polizia ha affermato che è in corso il tentativo di identificazione attraverso l’analisi del Dna. La polizia vallesana ha un elenco di circa 300 persone scomparse dal 1925, incluso il milionario della catena di supermercati tedeschi Karl-Erivan Haub, scomparso nella regione di Zermatt mentre si allenava per un’escursione sul Cervino con gli sci il 7 aprile 2018. Secondo gli organi d’informazione tedeschi il corpo scoperto sul ghiacciaio Stockji è quello di Haub. Ma uno degli escursionisti che hanno trovati i resti ha detto i vestiti erano «nello stile degli anni Ottanta». Nel 2018 sono comparsi i resti di un aereo americano C-53 Dakota caduto il 18 novembre 1946 mentre era diretto a Pisa dall’Austria. L’equipaggio perse la rotta e finì per schiantarsi sul ghiacciaio del Gauli, nelle Alpi bernesi. Gli otto passeggeri e i quattro membri dell’equipaggio sopravvissero all’impatto e furono salvati cinque giorni dopo, ma l’aereo era considerato perduto.

Matteo Basile per “il Giornale” il 10 agosto 2022.

La comunissima e abusata frase «si muore di caldo» non è più soltanto un trito e ritrito luogo comune. Nella torrida estate 2022, purtroppo, la realtà supera i luoghi comuni. Secondo il bollettino del sistema di sorveglianza sulle ondate di calore pubblicato dal ministero della Salute, dalla metà di maggio alla metà di luglio la mortalità a causa delle ondate di calore è cresciuta del 21%, con un totale di 733 decessi nelle 33 città italiane oggetto di monitoraggio. E a questo bollettino, già tragico di suo, mancano i dati dell'ultimo mese che viste le alte temperature, faranno schizzare sicuramente il dato dei decessi. 

Per capire quanto pesante sia stata l'ondata di calore che ha colpito il nostro Paese basta analizzare i dati relativi alle temperature: a partire dal mese di maggio infatti, in Italia si sono registrate temperature superiori alla media stagionale di ben +3,2°, con picchi più pesanti soprattutto nel Centro Italia.

Non a caso le città in cui si è registrato l'incremento maggiore dei decessi legati al caldo sono state Latina (+72%), Bari (+56%), Viterbo (+52%), Cagliari (+51%), Catanzaro (+48%). Solo nella prima settimana di luglio, i picchi di temperatura massima sono arrivati ad oscillare tra i 37 e i 40 gradi tanto che a fine estate sarà necessario rivedere i dati ed è praticamente certo che saranno ancora più pesanti. 

Anche considerando l'effetto dell'epidemia di Covid-19 sulla mortalità generale. Perché l'estate torrida sembra aver fatto quasi dimenticare il Covid, che non solo non è sparito ed anzi continua a colpire pesante e risulta particolarmente pericoloso per anziani e fragili con malattie croniche, le stesse categorie per cui il troppo caldo può risultare fatale. Ma a rischio sono considerati anche neonati, bambini, donne in gravidanza, e pure chi fa esercizio fisico o un lavoro intenso all'aria aperta.

E le previsioni sono in chiaroscuro. Se da una parte, nel breve termine, si può respirare almeno fino a ferragosto, dall'altra, i modelli puntano al pessimismo. Stop al caldo africano, temporali e aria più respirabile grazie all'arrivo di correnti più fresche che raggiungeranno l'Italia già da oggi. Il prezzo da pagare è un'elevata instabilità che significa forti temporali, grandine e colpi di vento soprattutto al Centro-Sud e sugli Appennini ma con possibili pericolosi sconfinamenti e inevitabili danni alle già sofferenti coltivazioni. Ma non è tutto. 

Perché se questa estate ha portato con sé un caldo record, aumento della mortalità e danni sparsi, il futuro rischia di essere ancora peggiore. L'Organizzazione mondiale della Meteorologia infatti ha spiegato come le ondate di calore che ci hanno accompagnato quest'estate saranno la nuova normalità. Anzi, saranno addirittura più frequenti, più lunghe ed intense, con un impatto sempre più rilevante sulla salute della popolazione esposta.

Le conseguenze? Gravissime, ovviamente. E non solo direttamente. Basti pensare che solo negli ultimi anni nelle regioni del bacino mediterraneo, è stata registrata la morte di massa di ben 50 diverse specie come coralli, spugne, macroalghe e pesci. Eh già, è tutto vero: si muore di caldo. E sarà sempre peggio.

Meteo, boom di morti per il caldo. I dati del ministero, numeri choc a Roma, Viterbo e Latina. Il Tempo il 09 agosto 2022

Come rilevato dal Cnr il 2022 finora è l'anno più caldo di sempre e l'estate in corso ha le carte in regola per essere considerata la più rovente, anche del 2003 quando in Europa di contarono decine di migliaia di morti. Le elevate temperature, superiori di 3 gradi centigradi rispetto alla media, e le ondate di calore che hanno interessato l’Italia a partire dal mese di maggio e fino alle prime due settimane di luglio sono ora state associate a un incremento della mortalità, soprattutto nelle regioni del centro sud maggiormente interessate per intensità e durata del fenomeno. I dato emerge dal Report mortalità e accessi in pronto soccorso estate 2022, curato dal ministero della Salute.

Nel dettaglio, a maggio la mortalità è risultata superiore del 10% con un eccesso registrato a Brescia, Roma, Pescara, Bari e Potenza, a giugno del 9% con incrementi a Torino (+11%), Roma (+13%), Napoli (+15%), Bari (+23%), Palermo (+19%), Catania (+32%), fino ad arrivare a un +21% a luglio (dall’1 al 15) con incrementi dei decessi (+733), in particolare a Brescia (+31%), Bologna (+22%), Firenze (+22%), Roma (+28%), Viterbo (+52%), Latina (+72%), Napoli (+27%), Cagliari (+51%), Bari (+56%), Palermo (+34%), Catania (+35%), Catanzaro (+48%). Anche a Torino si è registrato un eccesso di mortalità sebbene non si siano registrate condizioni di ondata di calore ma solo giorni isolati di caldo. 

Aumentano gli incendi, ma ci sono pochi vigili del fuoco. Il Domani il 26 luglio 2022

I vigili del fuoco hanno inoltrato una nota alla ministra dell’Interno in cui si chiede un piano triennale di assunzioni che incrementino l’organico.

«Siamo allo stremo, obbligati a a fare ricorso a turni extra che sono estenuanti»

In un periodo di caldo torrido, siccità e continui incendi in tutto il paese, i sindacati dei vigili del fuoco denunciano la mancanza di personale che gli rende impossibile svolgere tutti i compiti a cui sono chiamati. In una lettera inviata alla ministra dell’Interno Luciana Lamorgese, i rappresentanti sindacali nazionali di Fp Cgil Vvf, Fns Cisl e Confsal Vvf hanno scritto che è ora di intervenire per «incrementare il numero degli organici del Corpo dei vigili». Questa esigenza non può essere più rimandata; «sono in carenza sia nel settore operativo sia in quello del ruolo tecnico professionale». I sindacati hanno anche proclamato l’inizio dello stato di agitazione.

LE RICHIESTE

I rappresentati dei vigili del fuoco chiedono un piano triennale di assunzioni che colmi la differenza tra il numero di unità previste (39.500) e quelle che ci sono realmente (35mila). «Servono 4.500 unità soltanto per lavorare nell’ordinarietà e comunque in emergenza», è scritto nella nota. «Auspichiamo un potenziamento che possa contare almeno su 40mila unità operative e 5mila unità del ruolo tecnico professionale».

Oltre a questo, al centro dello stato di agitazione del corpo dei vigili, ci sono temi legati alle relazioni sindacali, all’organizzazione del lavoro, al tema della formazione e quelli relativi ai dispositivi di protezione individuale e alle questioni legate alla salute e alla sicurezza. 

SITUAZIONE ALLO STREMO

Non è la prima volta che i sindacati chiedono degli «stanziamenti specifici indirizzati a incrementare gli organici, ma oramai è improcrastinabile». Ad acuire la situazione e a rappresentare una condizione senza precedenti è «l’assenza di due direttori centrali, quello delle risorse umane e dell’amministrazione generale, oltre all’ormai prossima uscita per collocamento a riposo del direttore della difesa civile».

Le condizioni in cui si trova a lavorare il personale dei vigili del fuoco sono estreme, scrivono i sindacati: «In questi giorni di grandi emergenze, con grande sacrificio e senso di responsabilità bisogna sopperire alle carenze, facendo ricorso a estenuanti turni aggiuntivi mettendo a rischio la propria incolumità con l’unico scopo di garantire la tutela e la salvaguardia dei cittadini».

IL NUMERO DEGLI INTERVENTI

Tra i tanti interventi a cui sono chiamati i vigili del fuoco non ci sono solo incendi, ma anche i compiti più disparati, dall’apertura di una porta al salvataggio di animali hanno bisogno di personale addetto per essere effettuati. Sull’annuario delle statistiche ufficiali del corpo nazionale dei vigili del fuoco i dati mostrano come su 912.593 interventi di soccorso effettuati nel 2021, sono stati 264.664 quelli relativi a incendi ed esplosioni con il primato di Sicilia, Puglia e Lombardia. Soltanto nell’arco ultimo mese a Roma e provincia, i vigili del fuoco hanno eseguito 5.400 interventi; una media di 180 al giorno, con picchi fino a 300.

L’ondata di caldo di fine luglio ha portato a migliaia di morti in più in tutta Europa. STEFANO CHIANESE Il Domani il 05 agosto 2022

I dati preliminari di vari studi di statistica di diversi paesi europei mostrano un picco delle morti nella settimana tra il 18 e il 24 luglio che ha visto temperature record in tutta Europa. In Italia, secondo il Cnr, il 2022 rischia di essere l’anno più siccitoso di sempre. E in autunno c’è il forte rischio di «precipitazioni di eccezionale intensità»

Sarebbero decine di migliaia le morti in più registrate in tutta Europa durante la settimana di caldo record tra il 18 e il 24 luglio. A riferirlo è Politico che ha esaminato i dati raccolti da diversi uffici nazionali di statistica dei paesi europei. In Spagna, Portogallo, Paesi Bassi ma anche in Inghilterra e altri paesi europei, è ben evidente una curva verso l’alto della mortalità durante il picco di calore. 

Durante quei giorni sia la Francia sia il Regno Unito hanno raggiunto il loro record di temperatura registrata, con l’Inghilterra che ha per la prima volta superato i quaranta gradi. Secondo gli scienziati queste temperature sono una conseguenza dai cambiamenti climatici che rendono molto più probabile la creazione di fenomeni atmosferici estremi. Con il caldo è arrivata anche la siccità, è aumentato l’inquinamento atmosferico e sono divampati migliaia di incendi in tutta Europa, bruciando migliaia di ettari di terreno.

Secondo il Cnr, in Italia il 2022 è finora l’anno più siccitoso dal 1800 ad oggi, come ha detto all’Ansa il ricercatore Michele Brunetti. Con un rischio ulteriore in autunno: «preoccupa la temperatura della superficie del Mediterraneo che è estremamente elevata», ha detto sempre Brunetti, questa volta a LaPresse. «C’è il rischio in autunno di eventi e precipitazioni di eccezionale intensità».

STARE MALE PER IL CALDO

Diversi studi hanno certificato che l’esposizione al caldo eccessivo comporti un peggioramento delle patologie mediche già esistenti, in particolare quelle respiratorie e cardiovascolari, ma non solo. Il caldo peggiorerebbe anche malattie come l'Alzheimer. 

Lo stress da caldo e la disidratazione aumenterebbe anche il rischio di incidenti sul lavoro e nella vita di tutti i giorni. Il tema è stato sollevato anche dalla confederazione dei sindacati europei (Etuc) che ha chiesto alla Commissione europea di introdurre delle norme comunitarie per regolamentare il lavoro in caso di temperature eccessive. 

Ma l’Europa è impreparata a gestire questi fenomeni. Secondo l' Organizzazione Mondiale della Sanità, meno della metà dei 27 paesi dell'Unione europea ha piani d'azione per gestire gli impatti sulla salute del caldo estremo. Fra quelli che li hanno, più della metà non è finanziata a sufficienza.

Secondo i dati dell’Aea, l’agenzia europea dell’ambiente, il caldo è il disastro naturale più mortale d'Europa. Negli ultimi quattro decenni, tra le 76mila e le 128mila persone sono morte a causa delle ondate di caldo. 

GERMANIA

Secondo le statistiche rilasciate questa settimana dall’ufficio nazionale di statistica tedesco e inserite nel database europeo Eurostat, sarebbero circa 3mila le morti in più in Germania rispetto alla media, escludendo quelle causate da Coronavirus, registrate nella settimana a cavallo del 20 luglio. In quei giorni in diverse zone del paese si sono superati i 35 gradi e ad Amburgo si è arrivati fino a 40. 

Gli studiosi comunque precisano che correlare le morti in eccesso in maniera lineare all’aumento eccessivo delle temperature è difficile e potrebbe essere in alcuni casi fuorviante. Per stabilire in maniera precisa il numero di vittime causate del caldo sono necessari studi approfonditi di durata di alcuni mesi o anni. 

In Germania infatti queste morti non vengono registrate come causate dall’aumento della temperatura, a differenza della Spagna. Però è innegabile che che ci sia un trend di questo tipo, come sottolinea a Politico Stefan Muthers, del centro per la ricerca medica e meteorologica del Servizio meteorologico tedesco. «Il problema è che, a differenza del coronavirus, il calore non viene registrato come un fattore nella morte di una persona», spiega. Ma, secondo Muthers, coautore di un importante studio recente sulla mortalità correlata al caldo in Germania, è altamente probabile un legame tra l'aumento dei decessi del mese scorso e le temperature torride.

«Sono sicuro che un’analisi più dettagliata confermerà che i picchi di mortalità visibili in questo arco temporale sono chiaramente correlati all'ondata di caldo», dice. 

SPAGNA

La penisola iberica ha vissuto una fortissima ondata di caldo dall’11 luglio, con temperature anche oltre i 45 gradi per diversi giorni. Secondo le statistiche, escludendo il Covid, sarebbero 2.700 le morti in eccesso rispetto alla media. Di queste, 1.682 vengono registrate dagli uffici di statistica spagnoli come morti a causa delle temperature eccessive. 

In Spagna, a differenza di altri paesi, il tema è entrato maggiormente nel dibattito pubblico e quello politico, anche a causa di diverse morti sul lavoro. Per esempio a Madrid uno spazzino è morto accasciandosi per terra sfinito dal caldo. La Spagna è inoltre uno dei pochi paesi che ha già inserito il caldo eccessivo come causa di morte anche nel conteggio statistico. 

PORTOGALLO 

Situazione simile in Portogallo dove si sono registrate 662 morti in eccesso, sempre non dovute al coronavirus, nella settimana dell'11 luglio e 234 morti la settimana successiva. E dove si sono registrate centinaia di incendi come in Spagna. 

ll capo del servizio sanitario portoghese, Graça Freitas, ha detto che più di mille persone sono morte tra il 7 e il 18 luglio a causa del caldo e del cambiamento climatico.  

PAESI BASSI

L'istituto sanitario nazionale olandese Rivm ha parlato di «grave aumento» della mortalità a metà luglio. Durante i giorni più caldi di luglio, le autorità hanno registrato 559 morti in eccesso non dovute al coronavirus rispetto agli ultimi cinque anni. 

Ma l'eccesso di mortalità è stato elevato per mesi nei Paesi Bassi, l'ufficio statistico ha dovuto ammettere a giugno di non sapere perché, rendendo più difficile valutare l'impatto dell'ondata di caldo. 

REGNO UNITO 

Secondo i dati pubblicati martedì dall'Office of National Statistics (Ons) del Regno Unito, Inghilterra e Galles hanno registrato insieme 1.180 decessi aggiuntivi non correlati al coronavirus nella settimana in cui è stato battuto il record di calore di tutti i tempi. I numeri però eccedono quelli degli anni precedenti anche in diverse settimane di fine maggio e giugno, con temperature minori. Quindi stabilire una correlazione diretta risulta difficile. Anche se sono attesi studi a riguardo. 

L’ITALIA

I dati per Francia e Italia dovrebbero uscire a fine estate e saranno importanti per meteorologi, medici e altri scienziati che stanno conducendo ricerche per perfezionare lo studio di questa correlazione tra temperature eccessive e tasso di mortalità. 

In Italia comunque già si è previsto che sarà registrato un aumento delle morti in eccesso, come avvenuto nell’ultima fortissima ondata di caldo record del 2003. È quello che prevede anche una ricerca coordinata da Chiara Cadeddu, docente di Igiene e medicina preventiva della Cattolica e coordinatrice del dossier "Il cambiamento climatico in Italia", dell' Italian Institute for Planetary Health. 

Scatta la guerra del meteo: «Il mio caldo è più infernale del tuo». Michele Serra  su L'Espresso il 25 Luglio 2022. 

La rivalità nel torbido mondo delle previsioni del tempo si inasprisce. Da anni gang rivali si contendono i clic degli utenti a colpi di notizie spaventose e catastrofiche.

Il direttore di “Extreme Meteo”, Cirillo Supinis, è stato trovato senza vita, in una pozza di sangue, nel suo appartamento di Ladispoli. Il delitto sarebbe maturato nel torbido mondo della meteorologia, da anni terreno di scontro tra gang rivali che si contendono i clic degli utenti a colpi di notizie spaventose sulle ondate di caldo e di freddo che minacciano di falcidiare l’umanità entro le quarantott’ore.

Le indagini Il principale sospettato sarebbe Leonzio Pisquani, direttore di “Final Meteo” e tradizionale rivale di Supinis. La vittima gli avrebbe sottratto migliaia di clic da quando ha inserito, nelle sue previsioni meteo, anche la pioggia di rane e la strage dei primogeniti, incontrando grande favore di pubblico. «La pioggia di rane è una idea mia, era il tema della mia tesi di laurea», avrebbe confidato il Pisquani, molto amareggiato, ai suoi collaboratori. “Final Meteo” aveva cercato di contrastare il dilagante successo dell’agenzia concorrente aggiungendo alle sue previsioni anche gemiti umani, muggiti di animali morenti, rombo di frane e altri rumori sinistri, ma con scarsi risultati. Di qui la decisione di sopprimere lo storico rivale.

Il lato umano Vittima e assassino si conoscevano da molti anni. Avevano lavorato insieme a Cinecittà come esperti di effetti speciali nei film horror, tra i quali “Maciste contro le isobare” e “Cindy, la nuvola maledetta”, storia di un cumulonembo fuori controllo che distrugge la Terra. Da quelle prime, entusiasmanti esperienze la scelta di intraprendere la carriera di meteorologo, rivoluzionandola. Basta con la noiosa informazione scientifica, con le cartine geografiche, i disegnini, le musichette in sottofondo. Basta anche con le ragazze avvenenti che mostrano le nuvole mentre tutti guardano le tette.

La nuova era Il gioco si è fatto duro, il pubblico aveva bisogno di sensazioni più forti. Dopo una fase di transizione (nuvole a forma di tetta) si è capito che in una società decadente anche l’erotismo esercita un fascino limitato. La merce più richiesta, più in linea con lo spirito dell’epoca, è lo spavento. Ed ecco le perturbazioni dai nomi ferali, Caronte, Apocalisse (in arrivo Godzilla, Polifemo e Putin), ecco l’annuncio ininterrotto dei picchi di caldo record - ogni giorno un nuovo picco - che stanno spingendo migliaia di italiani a fare testamento, mettendo in seria difficoltà gli studi notarili, che con il personale in ferie faticano a fare fronte alle richieste.

La scienza Gli studiosi spiegano bene la differenza tra caldo reale e caldo percepito. Il caldo reale è quello indicato dal termometro, il caldo percepito è quello che avverti dopo avere letto sullo smartphone, o visto in tivù, un bollettino meteo. Sensazione di soffocamento, stati d’ansia e veri propri attacchi di panico, sudorazione che triplica in pochi istanti: sono gli effetti, molto apprezzati, che spingono gli utenti a preferire i siti meteo più terrificanti. Tra i più recenti “l’Ultimo Meteo”, che monitorizza il clima nelle principali città del mondo con una rete di web cam nei cimiteri, e il divertente “Meteo Crash”, con il conduttore che indossa il casco sotto una grandinata artificiale. Nella prossima stagione televisiva sono molti i talk-show che vogliono rimpiazzare i virologi, che hanno fatto il loro tempo, con i meteorologi. Molto richiesti il meteorologo negazionista, convinto che la volta celeste sia finta, come in Truman Show, e la meteorologa new age, che legge le previsioni del tempo sulla mano dei clienti.

Il concorso Messi di fronte a una stessa grandinata, aspiranti conduttori meteo, richiesti di descriverla, hanno dato luogo a una appassionante sfida. Il primo ha detto che i chicchi erano grandi come limoni, il secondo come meloni, il terzo come angurie, il quarto come la cupola del Brunelleschi. Ha vinto il quinto, dicendo che i chicchi di grandine erano grandi come pianeti, e forse erano proprio pianeti di un’altra galassia che stavano collassando sulla Terra.

L'Italia rovente. Matteo Basile il 23 Luglio 2022 su Il Giornale.

Previsto un picco di mortalità per il caldo come nel 2003. Allarme incendi, record europeo. Rotaie a 60° in Lombardia: treni fermi e metrò a rilento. A La Spezia deraglia un locomotore

Prima l'attesa del picco di contagi da Covid. Ora il conto alla rovescia per il picco dell'ondata di calore. Ormai siamo abituati a ragionare così: per cercare di stare meglio, dobbiamo necessariamente attendere il peggio. Non proprio l'epoca più rilassante della storia ma tant'è, in qualche modo bisogna cercare di sopravvivere. Per lo meno il tempismo aiuta: se gli esperti di virologia ci spiegano che ci siamo, il picco di Omicron è stato raggiunto, anche quelli di meteorologia fanno intravedere la luce (non diretta del sole, of course) oltre l'insopportabile canicola. Perché di quello si tratta: qualcosa di insostenibile, fastidioso ma anche molto molto pericoloso.

Ieri caldo infernale su tutta Italia, forse la giornata peggiore. Forse, perché con l'arrivo del weekend, se al Nord si attendono i primi temporali (ma non ovunque) ecco arrivare temperature folli. «Apocalisse» arriva al suo apice tra oggi e domani fino a toccare i 40 gradi in alcune zone della Pianura Padana, come in Emilia, Veneto e bassa Lombardia. Al Centro punte di 39 gradi a Firenze, Roma, in Umbria, su molte zone della Sardegna e delle Marche, così come al Sud. Insopportabili e tipiche dei climi tropicali anche le notti, con temperature vicine a i 30 gradi. Ieri a Rivoli, in provincia di Torino, un operaio è svenuto per il caldo ed è morto sbattendo la testa. La metropolitana e alcune linee ferroviarie di Milano hanno rallentato o sospeso i mezzi perché i binari sono surriscaldati. Nel porto della Spezia un convoglio è deragliato proprio per la deformazione dei binari L'asfalto cede ed è rovente. Saranno 16 le città da bollino rosso nel fine settimane, poi un po' di respiro. Fatti salvi i temporali già da oggi sull'arco alpino con possibili sconfinamenti, da martedì un flusso di aria più fresca dal Nord Europa potrebbe portare un po' di refrigerio. Festa? Neanche a parlarne. Perché lo scontro tra correnti potrebbe portare a temporali brevi ma di fortissima intensità, con il rischio concreto di danni non solo alle colture già allo stremo per la siccità, con grandinate e addirittura possibili tornado sulle città del Nord.

Almeno, pare, farà un po' meno caldo. E ci vuole davvero. Secondo uno studio dell'Università Cattolica di Milano «Viste le temperature estreme raggiunte quest'anno, i dati ci fanno ritenere che nel 2022 avremo un eccesso di mortalità dovuto al caldo, come avvenuto già durante l'estate del 2003», a maggior ragione considerato che negli ultimi 20 anni la popolazione anziana è aumentata nel nostro Paese. I dati riferiscono di 10mila morti all'anno a causa del calco. Anziani e fragili sono ad alto rischio. Anche qui, formula drammaticamente già sentita per colpa del maledetto Covid. Secondo lo studio l'Italia è il Paese europeo dove si è registrato negli ultimi anni un maggior innalzamento delle temperature con «un impatto allarmante sulla salute pubblica e mortalità giornaliera negli over 50 maggiore del 22% rispetto a periodi estivi normali». Non a casa i cardiologi italiani lanciano un appello affinché vengano controllate, e magari ricalibrate, le terapie in essere.

Non bastasse il caldo con i suoi problemi, gli incendi continuano a flagellare il Paese. Se nel 2021 l'Italia è stato il primo paese in Europa e il secondo al mondo per numero di incendi registrati, ben 1422, con un totale di 160mila ettari di superficie bruciati, quest'anno continua nella tendenza. I roghi sul Carso e in Toscana sembrano sotto controllo ma nuovi incendi sono divampati nel veronese e vicino L'Aquila mentre impressiona la situazione di Roma. La sala operativa dei vigili del fuoco solo ieri notte ha dovuto far fronte a circa 100 richieste di soccorso per incendi di auto, cassonetti e sterpaglie. Eh sì, c'è proprio bisogno di un bel po' di pioggia. Senza esagerare, però.

Renato Piva per corrieredelveneto.corriere.it il 21 luglio 2022.

«Sullo sfondo dell’attuale situazione meteorologica (caldo e mancanza d’acqua) e delle conseguenti limitazioni, abbiamo deciso di partire prima del previsto… Si prega di cancellare la junior suite con balcone e vista lago prenotata e di addebitarmi l’importo da pagare secondo le condizioni contrattuali. Organizzerà immediatamente il pagamento…». 

Parte del testo di una mail spedita dieci giorni fa da due turisti tedeschi al resort di Davide Bendinelli. «Me l’ha girata mia sorella e – dice il sindaco di Garda – lì per lì, non ci ho fatto caso. Poi, però…». Poi, l’ex consigliere regionale di Forza Italia ha accennato alla questione nella chat che raccoglie una settantina di albergatori gardesani, «ed è emerso che molti altri avevano ricevuto simili mail». 

La campagna allarmistica

A dar motore alle disdette – i gestori hanno risolto presto il rebus – era una campagna stampa decisamente spinta da parte di alcune testate e siti d’informazione tedeschi, la Bild in prima fila. Partendo dal problema assolutamente reale della siccità che affligge l’Italia, in particolare a nord, a colpi di letture spinte e collegamenti con poco contesto a fare da sostrato, oltre le Alpi hanno dipinto un lago a tinte tanto catastrofiche quanto pop. Il 17 luglio, il sito della Bild offre un servizio ai turisti in partenza e lo inquadra alla voce: «Caldo, fuoco e siccità nelle destinazioni delle nostre vacanze». 

Il titolo è fotonico, oltre che cubitale nel carattere: «L’Italia avverte: “Non buttatevi nel lago di Garda”». Segue, più piccolo: «C’è troppo poca acqua». Il servizio ha in apertura una foto di due turisti a mollo nel lago. Si intravvede il fondo pietroso, che, essendo a riva, è quel che dev’essere.

Se, però, la battigia resta fuori dallo scatto, l’«effetto anidro» è garantito. Vacanzieri di Baviera attenti - suggerisce l’articolo -. L’ottava piaga affligge l’estate della Penisola: «In Italia, in questi giorni, prevalgono temperature fino a 40 gradi. Milano e Venezia hanno già chiuso le fontanelle pubbliche per risparmiare acqua. C’è emergenza siccità in cinque regioni e il rischio di incendi boschivi è estremo…». 

Al testo segue subito la foto di un bosco divorato da fiamme dell’inferno, in primo piano un piccolo elicottero che lancia acqua. La didascalia è onesta: si tratta di un incendio a Malaga, difatti il capitolo sotto è dedicato alle piaghe di Spagna, Portogallo e, ultima, la Francia, ma per arrivarci serve un colpetto di mouse…

Il consiglio e la «traduzione»

Tornando al lago, va detto come l’Italia del grido «non tuffatevi, manca l’acqua» abbia nome e cognome: Pierlucio Ceresa. La premessa del segretario della Comunità del Garda - ente sovracomunale che si occupa, tra altro, di ambiente, qualità delle acque e sicurezza – dice tutto o quasi: «Primo punto: la Bild con me non ha mai parlato. Secondo: quella testata fa così da trent’anni. Campagne allarmistiche e diffamatorie contro il Garda: una volta per il terrorismo, poi i furti d’auto, poi ancora la caccia…».

Ammesso che sia così, qual è lo scopo? «Ma è evidente. C’è un interesse a dirottare il turista, bavarese e non solo, lontano dal Garda». Verso località tedesche? «Non necessariamente tedesche. Località cui sono legati per qualche interesse…». 

Ceresa, proprio per la funzione dell’ente che presiede, si è limitato a suggerire prudenza ai bagnanti: «L’anno scorso eravamo 120 centimetri sopra lo zero idrometrico, quest’anno siamo a più 40. Pensando a salvare tanti ragazzi e le loro spine dorsali, ho suggerito di controllare la profondità del lago prima di lanciarsi. Gli ottanta centimetri che mancano non si vedono e uno non è obbligato a sapere che mancano. Tanti turisti, anche tedeschi, mi hanno ringraziato per questo mio appello…». 

La Bild, invece, ne ha fatto un fiocco per il pacchetto calamità. «Voglio ribadire come tutti gli utilizzi turistici dell’acqua siano praticabili: balneazione, surf e kitesurf, navigazione, bagni in piscina e quant’altro. Si può fare tutto. Ricordo a chi va raccontando che si può attraversarlo a piedi, che la profondità media del Garda è 133 metri. Certo, ne manca uno ma il lago c’è ancora…». 

La campagna e il pompaggio verso il Po

Consorzio turistico del Garda veneto, «gemello» lombardo e Apt Garda Dolomiti hanno messo in campo la necessaria risposta: «Una campagna di corretta informazione - chiude Ceresa - attraverso i media e le agenzie di viaggio tedesche». 

Resta il danno (fin qui) procurato. Bendinelli minimizza ma non si nasconde: «Le disdette ci sono ma non siamo in grado di quantificarle. Il problema siccità è reale e serio ma, in questo momento, non esiste alcun rischio per l’andamento della stagione turistica, che sta andando meglio delle previsioni. Ci attendono però i mesi più importanti dell’estate e non possiamo permettere che si raccontino frottole...».

Anche il sindaco di Garda ha scritto una lettera, che sarà inviata ai media tedeschi: «Garda è bella come gli anni passati. Chi ha diffuso messaggi allarmistici lo ha fatto in malafede». Detto questo, «il lago quest’estate ha raggiunto il libello più basso di sempre… e continua ad abbassarsi». Bendinelli punta il dito all’accordo siglato anni fa con l’Agenzia interregionale per il Po, per cui parte dell’acqua del Garda è destinata all’irrigazione di terreni coltivati che ricadono nel bacino del fiume: «Dal lago escono 70 metri cubi d’acqua al secondo, di cui dieci finisco nel Po. Poco più di un mese fa, l’Agenzia aveva addirittura chiesto di incrementare quella quantità, per sostenere gli agricoltori (del Mantovano, ndr) in sofferenza. Oggi, invece, l’Aipo, vista la gravità della situazione, propone di ridurre per qualche giorno fuoriuscita d’acqua».

La proposta: scendere a 60 metri cubi di fuoriuscita e poi a 55, sperando che intanto piova. «Un intervento – chiude Bendinelli – che appare assolutamente inutile se non si rivede sostanzialmente la normativa vigente. Non vogliamo assolutamente voltare le spalle agli agricoltori… ma è chiaro che quelle normative vanno riscritte». 

Attenti al verbo...

Non resta che ricordare il titolo riservato dalla Bild – era il 21 giugno - all’accordo Garda-Aipo e alle frizioni di queste settimane: «Ora l’acqua dev’essere pompata fuori dal lago di Garda», nel consueto cubitale. Sottotitolo: «Niente pioggia da più di 110 giorni. Il fiume Po si è quasi prosciugato. Il Lago di Garda scende di un centimetro al giorno». Che dire se non: attenti a come parlate. Dalle parti di Monaco qualcuno non vede l’ora di tradurre: «L’acqua è poca, ossia scarseggia. E la papera non galleggia...». 

Il caldo anomalo c'è sempre stato? Scoprilo con il "codice a barre" delle temperature in Italia dal 1901.  La Repubblica il 19 Luglio 2022.

Niente parole. Niente numeri. Niente grafici. Solo una serie di barre verticali colorate, che mostrano il progressivo riscaldamento del nostro pianeta in un'unica, suggestiva immagine. Le strisce climatiche sono state create dal professor Ed Hawkins dell'Università di Reading nel 2018. Mostrano in modo chiaro e vivido come le temperature medie globali siano aumentate nel corso di quasi due secoli, Come funzionano? Ogni striscia rappresenta la temperatura media di un singolo anno rispetto alla temperatura media dell'intero periodo. Le sfumature di blu indicano anni più freddi della media, mentre il rosso indica anni più caldi della media. La fascia di strisce rosso intenso sul lato destro del grafico mostra il rapido riscaldamento del nostro pianeta negli ultimi decenni. I grafici mostrano anche come nessun angolo del pianeta sia immune dagli effetti del riscaldamento globale. Sul sito web showyourstripes.info è possibile verificare la variazione delle temperature nel tempo di oltre 200 Paesi, Stati e città. I cittadini di ogni Paese possono vedere come si è modificato il clima e condividere le immagini, contribuendo ad alimentare la discussione sui cambiamenti climatici. Più di un milione di persone ha scaricato grafici dal sito nella prima settimana del lancio nel 2019. I presentatori meteo televisivi, gli scienziati e gli attivisti di tutto il mondo continuano a condividerle sui social media, utilizzando l'hashtag #showyourstripes, in occasione del solstizio d'estate/inverno. Le strisce sono apparse sul palco principale del Reading Festival, sui distintivi indossati dai senatori degli Stati Uniti, durante gli scioperi per il clima nelle scuole e su auto, tram e treni elettrici. Le precedenti immagini disegnate dal professor Ed Hawkins includono la "spirale climatica" animata della temperatura globale, utilizzata nella cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Rio 2016.

Come nell'82 e peggio del 2003: l’estate infuocata è la nuova normalità in Italia? A Bologna lo European Extreme Events Climate Index, grazie all'intelligenza artificiale, fa il punto sui fenomeni climatici. In fatto di temperature a maggio il picco più alto dal 1981 e giugno secondo per le temperature raggiunte 19 anni fa. "Ma il problema non sono tanto i giorni di caldo estremo quanto le estati che diventano sempre più lunghe e bollenti". Jaime D'Alessandro, Giacomo Talignani su La Repubblica il 21 Luglio 2022.

Quell'estate del 1982, quando l'Italia vinse il mondiale di calcio, le temperature in Europa erano insolitamente elevate. Due ondate di calore colpirono il nostro Paese conquistando le pagine dei giornali. In Sardegna il 25 giugno la stazione meteorologica di Capo San Lorenzo rilevò 46,2 gradi, il valore più alto registrato in quei giorni dalle stazioni meteorologiche dell'Aeronautica Militare. A Roma come a Napoli si arrivò invece a poco meno di 38 gradi, mentre in Sicilia si toccarono i 45 gradi dalle parti di Catania. Un assaggio di quel che sarebbe successo in seguito, con la differenza che da allora l'eccezionalità via via si è fatta norma.

Giugno 2022 e 2003 in Italia. Un valore superiore ad 1 vuol dire una anomalia significativa nella temperatura media dal 1981. Il rosso dunque sta ad indicare che le anomalie sono state più frequenti    Lo sanno bene alla Fondazione per lo sviluppo dei Big Data e l'Intelligenza Artificiale (Ifab), nata in seno al tecnopolo di Bologna, che ha messo a lavorare i suoi algoritmi sui dati di quest'anno confrontandoli con quelli del passato. Ecco come è nato l'European Extreme Events Climate Index (E3CI), sviluppato con il supporto scientifico della Centro euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici (Cmcc) e Leithà S.r.l. - Unipol Group. "Analizza la frequenza e la severità degli eventi atmosferici estremi dal 1981 fino ad oggi. E lo fa in maniera continuativa con un ritardo di cinque giorni. Un indice dinamico che guarda in tempo reale le anomalie", spiega Marco Becca, a capo di Ifab. Inizialmente concepito guardando all'Actuaries Climate Index (Aci) americano, usato fra gli altri dalle assicurazioni per valutare i rischi nell'immobiliare, è ben più accurato. Venne presentato poco più di un anno fa e ora è attivo. Risultato: stiamo andando peggio del 2003, considerato ad oggi un anno record. 

"È vero, dal punto di vista del caldo, l'anno in corso è assimilabile all'estate 2003, periodo durante il quale le temperature raggiunte provocarono in Italia circa quattromila decessi", sottolinea Guido Rianna del Cmcc. "Nel maggio 2022 la frequenza di giorni con temperature anomale, ben oltre la media, ha raggiunto i valori massimi dal 1981 superando perfino quelli del 2003 in diverse regioni, mentre il mese di giugno è secondo solo a quello di 19 anni fa".  

Sin da maggio, gran parte della penisola è stata interessata da anomalie significative nel numero di giorni in cui si registrano temperature particolarmente elevate. Il valore raggiunto nel 2022 su scala nazionale non è mai stato così alto, mentre quello relativo al 2003 è il secondo registrato. Con le regioni del bacino del fiume Po, interessate allo stesso tempo dalla siccità.

Le anomalie, rispetto all'Italia dei mondiali, risultano ancora più evidenti se si considera il mese di giugno: ben al di sopra di quanto si è visto nel corso degli ultimi 42 anni. Per comprendere l'evoluzione del fenomeno, con tutte le cautele del caso, si può far riferimento a quanto accaduto ancora in passato. 

Nel 2003 ad esempio, l'ondata di calore vide un brusco rallentamento nel mese di luglio per poi riprendere vigore in agosto con valori di picco in tutte le regioni ad eccezione dell'area sud-orientale dell'Italia. Cosa che invece non sta accadendo in questi giorni. Segno che non si tratta forse più di anomalie in senso stretto. Il vero problema non sono i picchi quanto la durata: è l'aumento dei giorni estivi, nella capitale rispetto alla media del 2007-2016 sono ben 133 in più mentre Napoli sta già sperimentando due mesi aggiuntivi caratterizzati da calore estremo. Perché l'eccezione che diventa nuova normalità ha la forza di cambiare profondamente l'Italia facendola diventare altro.  

L'Italia del 2022. Un valore superiore ad 1 vuol dire una anomalia significativa nella temperatura media dal 1981. Il rosso dunque sta ad indicare che le anomalie sono state più frequenti    "E la chiamano estate", cantava Bruno Martino a metà anni Sessanta. Allora, l'estate italiana sembrava avere crismi immutabili, come le note di una canzone: giugno il mese dei primi bagni e le maglie più leggere, luglio dalle sere fresche, agosto del solleone, settembre il ritorno a temperature più miti. Una cartolina che nemmeno sessant'anni dopo appare stravolta. Tra ondate di calore e città bollenti fin da maggio, afa, incendi, eventi meteo come alluvioni o grandinate intense e una siccità drammatica, la stagione estiva per molti aspetti oggi appare come un'insidia. 

Il termometro impazzito

Giugno è diventato un mese totalmente estivo e bollente, in cui è facile sfiorare giornate di 35 gradi e con i media 2 gradi di aumento negli ultimi 40 anni. 

Il Mediterraneo fa ormai segnare 4 gradi in più rispetto al passato e negli ultimi dieci anni si contano cinque delle estati più calde di sempre da quando esistono le misurazioni. "Sono le nuove estati in Italia: ondate di calore che permangono per più tempo e in maniera più intensa, temperature elevate e caldo soprattutto nelle città. Se guardiamo ai dati raccolti nei decenni passati è facile rendersi conto che non è più una stranezza", conferma Paola Mercogliano, ricercatrice del Cmcc.

Come saranno le nostre città

National Geographic, basandosi su una elaborazione dell'Università del Maryland, ha provato a immaginare come saranno le nostre città fra cinquant'anni. O meglio, a quali centri urbani di oggi le potremo paragonare. Alcune, circa 90 come Abadan, che sorge a sud dell'Iran al confine con l'Iraq, andranno incontro a condizioni uniche che nessun altra città sul pianeta ha mai dovuto affrontare. In Italia fortunatamente la situazione sarà probabilmente meno disperata, eppure Roma potrebbe assomigliare, in termini di precipitazioni e temperature, a Starvos in Grecia, circa mille chilometri a sud est. Più lieve lo spostamento del clima di Torino che stando alle proiezioni somiglierà a quello di Padova in Veneto. Palermo al contrario potrebbe spingersi verso le attuali condizioni di una metropoli molto più a est, ovvero Jinjing, nella Cina orientale.

In generale, al contrario di quel che ci si potrebbe aspettare, gli indicatori presi in esame portano a proiezioni che vedono il nostro clima mutare non tanto verso quello dei Paesi del sud del Mediterraneo quanto quelli a oriente. Stiamo però parlando solo di temperature e precipitazioni su base stagionale e per di più con ipotesi di cambiamento fra mezzo secolo. Un po' fragile come modello predittivo. Non è quindi affatto detto che Roma alla fine avrà il clima di una città greca dell'entroterra. Eppure la mappa interattiva di National Geographic ha un merito, tentando di dare una risposta a una domanda essenziale: al di là dei dati nudi e crudi, quale regione nel mondo ha sperimentato le condizioni alle quali stiamo andando incontro in Italia? Che volto avrà il nostro Paese?

"L'aria condizionata non basta"

Al Cmcc fanno notare che il nodo della questione è che non siamo preparati a rispondere a questo tipo di estate, o meglio alla nuova normalità: "Ci comportiamo sempre come se quello che sta accadendo ora fosse semplicemente strano: in realtà è da tempo che andiamo in questa direzione, a partire dalle temperature dei mari che sono sempre più caldi. Spesso si pensa di risolvere la questione accendendo l'aria condizionata. Ecco, questo è quello che non è più possibile fare se vogliamo sopravvivere nelle estati future: non possiamo sempre ovviare ai problemi con soluzioni a breve termine".

Insomma, bisognerebbe evitare di illuderci che prima o poi si tornerà al prima. A Roma e Milano le giornate di caldo intenso sono destinate a raddoppiare. Nella sola capitale dove la temperatura media è già cresciuta di 3,6 gradi rispetto all'epoca 1971-2000. Non va meglio a Torino dove le temperature continueranno a crescere o a Napoli, mentre Venezia vedrà abbattersi piogge più intense.

L'Europa a giugno del 2022. Un valore superiore ad 1 vuol dire una anomalia significativa nella temperatura media dal 1981. Il rosso dunque sta ad indicare che le anomalie sono state più frequenti    "In Europa la situazione delle ondate di calore è diversa stando ai nostri dati, almeno per quanto riguarda giugno. Ad essere colpito è soprattutto il Mediterraneo", conclude Rianna. "Il 1982? Alla fine non fu così eccezionale stando all'indice European Extreme Events Climate Index". Lo sembrò allora quando il clima era relativamente più stabile. A quaranta anni di distanza possiamo affermare che l'estate è cambiata e con lei anche il resto delle stagioni. Bisognerebbe prenderne atto. Noi però non lo abbiamo ancora capito.

·        Il Freddo.

Giorni della merla 2022, la leggenda dei giorni (forse) più freddi dell'anno. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2022.

Nel 2022 sono il 29, 30 e 31 gennaio. Ma scientificamente non c’è nessuna prova. 

Si dice che più sono freddi, più sarà bella la primavera in arrivo: sono i giorni della merla. Nel 2022 cadono dal 29 al 31 gennaio, anche se le previsioni meteo hanno anticipato che non saranno gelidi come ci si aspetta. In realtà, questa tesi è totalmente priva di fondamento scientifico e si rifà invece a quattro leggende popolari.

La spiegazione logica più plausibile è che i racconti sugli ultimi tre giorni di gennaio abbiano iniziato a circolare in periodi in cui la fine del mese era particolarmente fredda, con temperature di qualche grado più rigide rispetto a quelle a cui siamo abituati da un po' di anni a questa parte.

Una prima versione della leggenda narra di una merla bianca che, proprio verso la fine di gennaio, cerca riparo dal freddo in un comignolo di un camino. Dopo tre giorni passati nel rifugio di fortuna, quando esce, le sue bianche piume sono tutte sporche di fuliggine che non c’è modo di mandare via. La seconda versione invece racconta di una merla dalle piume candide vittima della personificazione di un dispettoso gennaio. Il capriccioso mese si diverte a scatenare bufere, trasformando l'aria in una brezza gelida ogni volta che la merla esce dal suo nido.

Un giorno, stanca di subire, la merla decide di fare le provviste necessarie a sopravvivere per 29 giorni (secondo il calendario romano il mese di gennaio era più corto). Finito il cibo, la merla esce dalla sua tana credendo di averla fatta franca cantando e prendendolo in giro. Ma si sbaglia: lui è in agguato. Chiede tre giorni in prestito a febbraio e scatena la sua vendetta fatta di freddo spaventoso causato da neve, pioggia e vento.

Le altre due versioni della leggenda sono spiegate da Sebastiano Pauli nel suo Modi di dire toscani ricercati nella loro origine del 1740. Si riferiscono a un periodo in cui le temperature rigide ghiacciavano la superficie del fiume Po rendendolo percorribile. Secondo la prima versione, la merla sarebbe un pesante cannone di ghisa che - grazie al freddo di fine gennaio - è stato trascinato da una riva all'altra del fiume camminandoci sopra. La quarta leggenda invece narra della nobildonna De Merli, che ha attraversato il Po per raggiungere il marito che si trovava oltre la sponda opposta.

·        Il Riciclaggio.

Raccolta differenziata carta & cartone: l’Italia batte i record del riciclo. Valeria Sforzini su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.

Superati per la prima volta i 60 kg pro capite di imballaggi raccolti con la produzione di confezioni che - post pandemia - è aumentata del 14,7%. Tra le regioni virtuose Emilia-Romagna, Toscana, Sardegna. Oggi il 62% della fibra utilizzata dalle cartiere deriva da materia recuperata. I dati del 27° rapporto Comieco raccontano come viviamo 

Veloce, capace di reagire agli shock e alle nuove abitudini dei cittadini: quella che si riflette nel 27° rapporto annuale Comieco su raccolta, riciclo e recupero di carta e cartone per l’anno 2021 presentato ieri a Messina è un’Italia che corre. Per primi parlano i numeri: se già nel 2020 il consorzio - privato e senza fini di lucro, membro del sistema Conai (consorzio nazionale imballaggi) - aveva superato la soglia dell’85 per cento di imballaggi cellulosici riciclati, raggiungendo con dieci anni di anticipo il limite fissato dall’Unione europea per il 2030, nel 2021 ha raggiunto un ulteriore obiettivo, aumentando la raccolta differenziata di carta e cartone del 3,2 per cento rispetto all’anno precedente, superando per la prima volta i 60 chili pro capite.

Cittadini e amministrazioni

«Due elementi fondamentali sono stati la collaborazione dei cittadini e la buona volontà delle amministrazioni comunali. L’Italia ha puntato tutto sul riciclo», spiega Carlo Montalbetti, direttore generale di Comieco. «A fare da collante tra i due fattori, il consorzio, che fin dalla sua creazione ha garantito ai Comuni la raccolta, oltre al versamento di corrispettivi in denaro a fronte della qualità e della quantità di carta e cartone che i singoli convenzionati hanno conferito». Nell’ultimo anno, i corrispettivi economici riconosciuti da Comieco ai Comuni italiani convenzionati (che sono l’88,8 per cento del totale e coprono il 94,8 per cento degli italiani) sono aumentati di 67 milioni di euro, ovvero il 44 per cento in più rispetto al 2020, a fronte di un incremento dei volumi gestiti di 84 mila tonnellate.

SONO 5,2 MILIONI LE TONNELLATE DI IMBALLAGGI IMMESSE AL CONSUMO NEL 2021 (+11,1 PER CENTO RISPETTO AL 2020). DI QUESTE, 4,5MILIONI SONO STATE AVVIATE A RICICLO, 334MILA TONNELLATE SONO STATE RECUPERATE COME ENERGIA 

Tra le regioni più virtuose, al Nord c’è l’Emilia-Romagna, con 88,4 chili di carta pro capite raccolti all’anno; al Centro c’è la Toscana, con 85,5 chili e a rappresentare Sud e Isole c’è la Sardegna, con una media di 60,6 chili raccolti per abitante. Numeri che hanno permesso all’Italia di salire sul podio in Europa, al secondo posto dopo la Germania. La pandemia ha avuto un peso non indifferente cambiando le abitudini degli italiani: sono aumentati gli acquisti online, con loro le confezioni e di conseguenza i rifiuti. La produzione cartaria per gli imballaggi è aumentata del 14,7 per cento rispetto al 2020. Ma li abbiamo conferiti correttamente, da lì il risultato più che positivo. «L’imballaggio ormai si aggira sul 50 per cento della frazione raccolta», continua il direttore. «Ma il confinamento ha anche reso gli italiani più attenti verso la raccolta differenziata».

Aziende virtuose

Un merito va riconosciuto anche al comportamento virtuoso delle aziende. Oggi il 62 per cento della fibra totale utilizzata dalle cartiere italiane deriva da carta recuperata. La scelta di presentare il rapporto a Messina non è un caso: «La città ha fatto una straordinaria opera di recupero», aggiunge Montalbetti. «Fino a tre anni fa era sotto i 20 chili per abitante, oggi è oltre i 50. La media regionale è di 42,4». Sebbene sia il Molise la Regione con il maggior salto in termini percentuali (+17 per cento), è la Sicilia quella in cui l’incremento dei volumi fa la differenza. Qui sono state raccolte 14 mila tonnellate in più di carta rispetto al 2020, che corrispondono a oltre un terzo della crescita totale nel Mezzogiorno. È questa la Regione dalla quale ci si attendono i migliori sviluppi. Tuttavia è proprio in Sicilia che si trova una delle “maglie nere” della differenziata: tra le grandi città, Palermo risulta ancora in grave ritardo, con il 12,5 per cento in meno di carta raccolta rispetto al 2020. Tra le altre “foreste urbane”, o grandi centri, Milano e Torino hanno chiuso il 2021 rispettivamente con un incremento del 2,9 e del 6,6 per cento. Così come Firenze, dove la frazione cellulosica è aumentata del 12,3 per cento, in corrispondenza del ritorno dei flussi turistici.

SONO IN TUTTO 361 GLI IMPIANTI CHE GARANTISCONO IL CONFERIMENTO DELLA RACCOLTA DI CARTA E CARTONE GESTITA DA COMIECO (146 AL NORD, 67 AL CENTRO E 148 AL SUD)

«Palermo è retrocessa, ma anche a Roma c’è ancora molto da fare: la stima è che qui siano almeno 130 mila le tonnellate di carta e cartone che finiscono in discarica. Come Comieco vogliamo contribuire a ridurre questo gap», aggiunge il direttore. Segno meno anche per Napoli, che ha perso il 2,8 per cento. Nel Pnrr la filiera della carta è stata indicata tra i progetti faro per l’economia circolare. Le risorse stanziate ammontano a 150 milioni di euro, di cui 90 destinati alle Regioni del Centro-Sud. «Il consorzio sta predisponendo un piano straordinario per il Mezzogiorno e la Capitale: un investimento da diversi milioni di euro a sostegno di tutte le attività per intercettare carta e cartone che oggi finiscono in discarica che abbiamo stimato essere tra le 600 mila e le 800 mila tonnellate», continua Montalbetti. «Per riuscirci servono impianti, un potenziamento del servizio e una adeguata formazione. Ma il caso di Messina lo dimostra: laddove il servizio con i relativi impianti funzionano, la cittadinanza collabora immediatamente»

Ecco quante volte si possono riciclare carta e cartone. Alessandro Ferro il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale.

I risultati di un nuovo studio dimostrano come sia possibile riciclare carta e cartone più del triplo delle volte che si pensava fino a ora: da 7 a 25 ricicli, ecco come è possibile.

Carta, cartone e cartoncino hanno di gran lunga il più alto tasso di riciclaggio di tutti i materiali di imballaggio, toccando punte dell'85% nel 2019. Il metallo è al secondo posto con l'81%, il vetro al 76%, la plastica molto più indietro con solo il 40%. Sono i numeri pubblicati dall'Eurostat.

Quante volte può essere riciclata

L'obiettivo dell'industria cartaria europea è di aumentare il tasso di riciclaggio degli imballaggi a base di fibre fino al 90% entro il 2030. L'enorme duttibilità del prodotto fa sì che, secondo una ricerca condotta dal Prof. Rene Eckhart, Senior Scientist presso l'Università di Tecnologia di Graz, in Austria, mette in luce che il materiale di cui sono composti i packaging in fibra (carta, cartoncino, cartone e scatole pieghevoli) può essere riciclato più di 25 volte senza perdere la sua integrità la quale dipende da tre fattori fondamentali: produzione, raccolta e smistamento.

Quali sono i vantaggi

L'imballaggio in cartone è preferito dai consumatori a causa delle sue credenziali ambientali e la sua facile e consolidata riciclabilità. I vantaggi degli imballaggi a base di fibre consistono nell'uso di fibre naturali rinnovabili, ottenute da materie prime da silvicoltura (ramo delle scienze forestali) sostenibile e possono essere recuperati dal flusso di rifiuti dopo l'uso. "Riciclare il più possibile ha un effetto positivo significativo sull'eco-bilanciamento dell'imballaggio perché riduce il consumo specifico di acqua nella produzione di fibre e riduce notevolmente anche la produzione di CO2 grazie al minor apporto energetico", scrive il prof. Rene Eckhart. "Più lo stesso imballaggio può essere riciclato, tanto più positivo è il suo impatto sull'ambiente".

"Più resistenti del previsto"

Durante la fase di ricerca, il cartone pieghevole è stato riciclato più volte per capirne gli effetti sulle caratteristiche meccaniche del materiale, comprese durevolezza e resistenza alla compressione del materiale. "Durante la fase di ricerca, non è stato riscontrato nessun effetto negativo sulle caratteristiche meccaniche del packaging", hanno affermato i ricercatori dell'Università. "Inoltre, la capacità di rigonfiamento della fibra ha dimostrato che non vi è alcuna tendenza negativa". Insomma, questi risultati hanno sfatato il mito secondo cui gli imballaggi in fibra possono essere riciclati soltanto per un massimo di 7 volte prima di perdere le loro caratteristiche primarie. Invece, le fibre di carta e cartone sono molto più resistenti rispetto a quanto si pensava", commenta Winfried Muehling, Direttore Generale di Pro Carton. a Repubblica. "Il Dottor Rene Eckhart, Senior Scientist presso la Graz University of Technology, evidenzia che il limite relativo al numero di ricicli di carta, cartoncino e cartone è dettato dal processo di preparazione dei prodotti e dalla loro raccolta".

L'ulteriore prova di quanto questi materiali siano favorevoli ad un mondo in piena transizione ecologica è legata al fatto che sono totalmente biodegradabili, rientrando perfettamente in un processo comunemente definito "riciclo organico": nello studio, infatti, vengono sottolineati anche i benefici ecologici collegati all'aumento del numero di ricicli: "più spesso viene riciclato uno stesso packaging, migliore sarà il suo impatto sull'ambiente".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24.

·        Il Vetro.

Una bottiglia è per sempre. Report Rai PUNTATA DEL 16/05/2022 di Chiara De Luca

Collaborazione di Marzia Amico 

Report è andato in Lituania a vedere come funziona il sistema di deposito cauzionale per rimettere in circolo il vetro usato.

Il vetro cavo che oggi produciamo in Italia non basta a coprire il fabbisogno e i produttori non riescono a far fronte a questa carenza. Chi riesce a reperirlo deve fare i conti con un notevole aumento dei prezzi dovuto all'aumento del costo dell’energia e la guerra ha ridotto le importazioni. Quale potrebbe essere una soluzione?

Una bottiglia è per sempre di Chiara De Luca Collaborazione Marzia Amico

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ogni anno 39 stabilimenti, dislocati in tutta Italia, producono circa cinque milioni di tonnellate di vetro cavo per un totale di dieci miliardi di contenitori annui. Un grosso giro d’affari che si attesta intorno ai due miliardi e mezzo di euro.

CHIARA DE LUCA Quella goccia che vediamo scendere è la bottiglia?

ELEONORA ARRIGHI – RESPONSABILE PRODUZIONE STABILIMENTO Sì, ogni goccia corrisponde a una bottiglia. Questo forno funziona 24 ore su 24, 365 giorni l’anno.

MARCO RAVASI - PRESIDENTE SEZIONE VETRO CAVO ASSOVETRO Da due anni siamo anche i leader europei come quantità prodotte di vasi e bottiglie.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nonostante questi numeri, l’Italia è tra i primi paesi europei, insieme alla Francia, a importare vetro: ne importiamo un milione di tonnellate, circa il 20% del mercato totale.

CHIARA DE LUCA Allora se siamo i top player nella produzione di vetro come è possibile che importiamo così tanto?

MARCO RAVASI - PRESIDENTE SEZIONE VETRO CAVO ASSOVETRO Questa è una domanda che dovrebbe fare agli acquirenti, cioè quindi all’ufficio acquisti dei miei clienti

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il grosso delle importazioni arriva da Turchia, Portogallo, Germania e dai paesi dell’Est in particolare l’Ucraina, dove sono presenti alcune importanti vetrerie. A causa della guerra tre forni sono stati bombardati e uno è chiuso in via preventiva.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Siamo leader europei, tuttavia il vetro lo importiamo anche da quattro forni dell’Ucraina che però in questo momento sono chiusi perché o bombardati o per via della guerra. E aumenta la richiesta di vetro ma le nostre vetrerie non ce la fanno a soddisfare la domanda. E quel poco vetro che c’è, costa tantissimo perché è aumentato il trasporto anche perché è aumentato il costo del carburante. Si è creato così un corto circuito: il problema sembra da poco ma non lo è. Cercheremo anche di dare un’exit strategy che viene dal passato. La nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo al Vinitaly, la prima edizione dopo le chiusure imposte dal Covid. La voglia di ripartire si miscela all’odore del vino, eppure l’aria non è di festa perché UnionVini lancia l’allarme.

PAOLO CASTELLETTI - SEGRETARIO GENERALE UNIONE ITALIANA VINI Oggi quindi non abbiamo disponibilità di vetro o comunque contingentata e con prezzi aumentati del 30%.

MARZIA AMICO Che per il consumatore significa…

ALESSANDRO BOTTER – CASA VINICOLA BOTTER Per il consumatore finale sicuramente si troverà un aumento del 20-25% nel costo della bottiglia allo scaffale

MARZIA AMICO Avete avuto dei ritardi nelle consegne? oppure consegne che non sono proprio arrivate?

ELVIRA BORTOLOMIOL – VICEPRESIDENTE AZIENDA SPUMANTISTICA BORTOLOMIOL Abbiamo addirittura dovuto non produrre per questa mancanza delle materie prime.

CHIARA FUORI CAMPO E chi continua a produrlo è costretto a tenerlo fermo

GIANMARCO DIDDI –AZIENDA VINICOLA TERRE DI BRUNO Ci sono alcune vasche dove abbiamo attualmente il prodotto pronto per l’imbottigliamento ma stoccato quindi in attesa, diciamo, la parte di vino che era in attesa delle bottiglie

CHIARA FUORI CAMPO Anche nella storica distilleria di Zabov, il liquore allo zabaglione, fanno i conti con la mancanza di bottiglie.

CINZIA ORI - AMMINISTRATRICE DELEGATA DISTILLERIE MOCCIA L’impianto, in questo momento, è fermo ed è fermo circa da un mese con evidenti ripercussioni anche dal punto di vista, diciamo, del personale.

CHIARA DE LUCA È in cassa integrazione?

CINZIA ORI - AMMINISTRATRICE DELEGATA DISTILLERIE MOCCIA Quello che è deputato all’imbottigliamento sì, è stato messo purtroppo in cassa integrazione.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma anche una volta reperite le bottiglie bisogna fare i conti con aumenti sempre più salati.

EMANUELA LANDI - AZIENDA VITIVINICOLA TERRE DI VALTER C’è una comunicazione fresca, del 26/04

CHIARA DE LUCA Ora praticamente

EMANUELA LANDI - AZIENDA VITIVINICOLA TERRE DI VALTER Sì. Gentile cliente, con la presente siamo a comunicare che a causa dei recenti aumenti esponenziali del costo delle materie prime, del gas e dell’energia e con la situazione ulteriormente aggravata dal conflitto, ci vediamo costretti ad applicare un aumento dei prezzi di vendita. Noi avevamo un prezzo con il nostro fornitore che non riesce più a mantenere.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questo perché, nonostante il prezzo fosse stato già stabilito, tra le condizioni sono previsti casi di forza maggiore. E anche per l’imbottigliamento del latte ci sono problemi.

VALERIO SCARPATI – AMMINISTRATORE DELEGATO LA COMPAGNIA DELLA QUALITÀ Oggi abbiamo fatto due settimane di produzione solo tetrapak. Abbiamo cercato dappertutto, in tutto il mondo, in Cina pure: è l’unico posto dove abbiamo trovato però il cinese ci ha detto guardate, evitate perché i costi di trasporto, in questo momento, sono talmente alti che…

CHIARA DE LUCA Che non vi conviene

VALERIO SCARPATI – AMMINISTRATORE DELEGATO LA COMPAGNIA DELLA QUALITÀ Diventerebbe invendibile il latte.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E il peggio deve ancora venire perché con l’arrivo dell’estate inizierà la stagione del pomodoro

LEOPOLDO GIMMELLI – AMMINISTRATORE DS GLASS Per quanto riguarda le conserve, diciamo, loro da luglio, fino a luglio, agosto hanno quei tre mesi di boom però già si sa che non ci saranno tutte le bottiglie.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, il vetro è un materiale che può rivivere

MARCO RAVASI - PRESIDENTE SEZIONE VETRO CAVO ASSOVETRO Non solo è il prodotto infinitamente riciclabile con le stesse caratteristiche del prodotto finale, ma infinitamente riutilizzabile.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ed è per queste qualità che la mancanza di vetro suona sempre più assurda. Una possibile soluzione potrebbe essere il sistema di deposito cauzionale

ENZO FAVOINO - COORDINATORE SCIENTIFICO CAMPAGNA “A BUON RENDERE” Al contenitore viene applicato un costo, che è appunto il deposito, che può essere riscattato, cioè restituito al consumatore una volta che tale contenitore viene restituito.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E a beneficiarne sarebbe soprattutto l’ambiente visto che in Italia ogni anno vengono disperse circa 700 milioni di bottiglie

ENZO FAVOINO – COORDINATORE SCIENTIFICO CAMPAGNA “A BUON RENDERE” Riuscire a intercettare una gran parte di questi tramite uno strumento tipo il deposito cauzionale consentirebbe di massimizzare la circolarità della filiera, affrancandosi, per una quota corrispondente, dalle necessità di importazioni all’estero.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ad oggi il sistema di deposito cauzionale funziona in dieci paesi europei ed è in procinto di partire in altrettanti paesi. La Lituana è il paese europeo più virtuoso.

SALIUS GALADAUSKAS - PRESIDENTE SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO Tutti i supermercati che vendono bevande sono obbligati per legge a imporre una caparra di dieci centesimi ai consumatori sull’acquisto di ogni bottiglia di vetro, plastica o lattina in alluminio

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO il consumatore per riprendere la caparra deve riportare indietro la bottiglia in appositi distributori automatici, posizionati davanti ai supermercati.

KRISTINA SIROTKIENE - SERVIZIO CLIENTI SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO Inserisci la bottiglia qui dentro dopo di che ritiri il tuo ticket e decidi se riscuotere i soldi o ricevere un buono spesa

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Nella parte posteriore del distributore le bottiglie vengono smistate

KRISTINA SIROTKIENE - SERVIZIO CLIENTI SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO Una parte di queste bottiglie viene riciclata e una parte viene riutilizzata.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il vetro riciclato viene trasportato insieme al pet e all’alluminio in un apposito centro di smistamento. Le bottiglie vengono lavorate e inviate alle aziende di riciclo

VAIVA NAJUTE – RESPONSABILE CENTRO DI SMISTAMENTO E IMBALLAGGIO Quando il vetro arriva, viene diviso in tre diversi colori: marrone, un mix blu o verde, e vetro non colorato, poi viene frantumato e inviato alle aziende di riciclo

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO questo perché dal vetro colorato non si può produrre un imballaggio in vetro chiaro. le bottiglie che non vengono riciclate, invece, vengono riutilizzate: il famoso vuoto a rendere. Qui siamo in una delle più grandi birrerie lituane

ARTURAS BENATAVICIUS - AMMINISTRATORE BIRRIFICIO UTENOS ALUS Le bottiglie di solito vengono utilizzate sette o otto volte: con questa macchina vengono tolte le etichette e lavate sia fuori che dentro. Quelle rovinate vengono rimosse automaticamente, quelle riutilizzabili, invece, vengono riempite di nuovo.

CHIARA DE LUCA Ci sono dei vantaggi economici con questo sistema?

SALIUS GALADAUSKAS - PRESIDENTE SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO sicuramente: in media una bottiglia di vetro si riusa circa dieci volte, in questo modo il costo di produzione della bottiglia viene ammortizzato

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO a gestire il sistema di deposito cauzionale sono i produttori e i rivenditori

SALIUS GALADAUSKAS - PRESIDENTE SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO il governo stabilisce solo il quadro giuridico.

CHIARA DE LUCA perché i produttori dovrebbero assumersi questa responsabilità?

SALIUS GALADAUSKAS - PRESIDENTE SISTEMA DEPOSITO CAUZIONALE LITUANO hanno la responsabilità di riprendersi i propri imballaggi. È una direttiva europea sulla responsabilità del produttore.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO i rivenditori che gestiscono e offrono lo spazio per i distributori automatici invece ricevono dai produttori un rimborso per i costi di raccolta

CHIARA DE LUCA alla grande distribuzione piace il sistema di deposito cauzionale?

RUTA VAINIENE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE RIVENDITORI LITUANI Sì, ma piace soprattutto ai consumatori lituani che amano questo sistema perché ne vedono gli effetti: vedono le strade, foreste, laghi e fiumi puliti.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO con questo sistema la Lituania è riuscita a impedire l’emissione di 152 mila tonnellate di CO2 e in soli tre anni la percentuale di bottiglie riciclate è passata dal 30 al 90 per cento

CHIARA DE LUCA le aziende associate a Federdistribuzione sarebbero d'accordo ad avere, diciamo, nelle loro strutture queste reverse machine?

MARCO PAGANI – DIRETTORE NORMATIVA E RAPPORTI ISTITUZIONALI FEDERDISTRIBUZIONE se effettivamente questa è la soluzione preferibile per raggiungere determinati obiettivi che andremo a definire e le istituzioni andranno a individuare, assolutamente sì.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO nel decreto semplificazione di luglio scorso anche in Italia è stata inserita una norma che prevede il deposito cauzionale, ma per applicarla c’è bisogno di un decreto attuativo

LEONARDO SALVATORE PENNA – DEPUTATO M5S il decreto attuativo doveva essere fatto entro 120 giorni però purtroppo come avviene spesso i termini sono ordinatori e non perentori e quindi anche se i 120 giorni spirano, non accade nulla, nessuno viene bacchettato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO I 120 giorni per i decreti attuativi sono scaduti nel novembre del 2021. Insomma, ce la prendiamo comoda. Il ministero della Transizione ecologica, su nostra sollecitazione, ci ha risposto che sta perfezionando il decreto. Vedremo quanto impiegherà. Insomma, premesso che nella raccolta e nel riciclo siamo virtuosi, tra i più virtuosi, raggiungiamo il 78%. Ma potremmo arrivare al 90% se adottassimo il deposito cauzionale, come fa del resto la Lituania. Ora, è questo: l’economia circolare ci consentirebbe di essere indipendenti dai fornitori degli altri paesi. Ma non ci manca solo il vetro, manca anche l’acciaio: i 70% lo importavamo dal Donbass, cioè da quella regione che rischia di essere la causa della terza guerra mondiale. Perché interessa così tanto a Putin lo vedremo in uno speciale esclusivo di Report. Ci manca anche l’indipendenza energetica, ma quella è colpa nostra.

·        La Plastica.

Plastica, Italia bene a metà. Ora tra bioplastica e riciclo il Paese è a un bivio. Paolo Riva su Il Corriere della Sera il 24 Novembre 2022.

Siamo quasi i peggiori consumatori d’Europa con un quintale a testa in un anno. Ma, secondo i di Ecco e Conai, siamo leader nella raccolta. La leva economica: tassa sul monouso, campagna «A buon rendere» sulle bottiglie 

Per poco non arriviamo a quota 100. Non stiamo parlando di pensioni, ma di plastica. In Italia nel 2020 ne abbiamo consumati circa novantanove chilogrammi a persona. In totale sono quasi sei milioni di tonnellate, impiegate soprattutto per gli imballaggi (42 per cento del totale) e, con quote inferiori, per edilizia e settore automobilistico. «Il nostro Paese - spiega Giulia Novati del think tank Ecco - è il secondo consumatore a livello europeo». E non è un piazzamento positivo, considerato che questo materiale genera una grande quantità di gas serra, che aggravano la crisi climatica.

Ciò avviene perché, da un lato, le materie prime più usate per ottenere la plastica sono petrolio e gas e, dall’altro, perché per realizzarla viene spesso usata energia da combustibili fossili. «Il processo produttivo, il consumo e il fine vita della plastica contribuiscono al cambiamento climatico, ma anche all’inquinamento di tanti ecosistemi marini e terrestri», aggiunge Novati. Per questo, Ecco ha presentato delle proposte per ridurre i consumi, far crescere l’impiego di bioplastiche e aumentare i tassi di riciclo e riutilizzo. E la buona notizia è che i margini per abbattere le emissioni sono molto ampi, fino a un potenziale meno 98 per cento raggiungibile nel 2050. Per riuscirci, però, le scelte politiche da fare sono diverse.

Il think tank propone il divieto di vendita di frutta e verdura in confezioni di plastica, l’obbligo per le amministrazioni locali di promuovere l’installazione di fonti di acqua potabile negli spazi pubblici, il divieto di utilizzo di stoviglie monouso per il consumo sul posto in bar e ristoranti. E poi chiede l’attuazione di due provvedimenti già approvati. Il primo è la cosiddetta plastic tax, che tassa i prodotti monouso in plastica. Votata nel 2020, non è mai entrata in vigore perché sempre rimandata. Dovrebbe farlo anche il nuovo Governo, stando alle dichiarazioni di alcuni suoi rappresentanti. La logica sarebbe quella di non penalizzare i consumatori finali, ma intanto l’Italia, dal 2021, deve comunque pagare circa 800 milioni di euro l’anno all’Ue per la plastic tax europea.

Il secondo provvedimento importante, secondo Ecco, è l’attuazione del sistema di deposito su cauzione (Deposit return system - Drs) indicato nel decreto Semplificazioni bis del luglio 2021. Nonostante fosse previsto per novembre dello stesso anno, manca ancora il decreto attuativo per creare il nuovo sistema, che riguarda i contenitori per bevande in plastica, vetro e metallo. «Il decreto fa riferimento solo al riutilizzo, ma a nostro avviso il sistema dovrebbe riguardare anche il riciclo», riprende Novati.

Pagare una piccola somma come cauzione a chi riporta i vuoti è una prassi consolidata in molti paesi Ue. E ha diversi benefici. «La plastica non è un solo materiale. Ci sono tantissime tipologie differenti di polimeri», spiega Mario Grosso, docente di Gestione e trattamento dei rifiuti solidi al Politecnico di Milano. «Non è detto che il Drs porti a un minore uso delle plastiche in generale, ma a una minore produzione di plastica vergine da petrolio, quello si». Non solo.

«Aver tenuto le plastiche separate consente un riciclo di maggiore qualità. Una bottiglia, solo per fare un esempio, può essere riciclata in una nuova bottiglia, in un processo definito a ciclo chiuso, che è sempre preferibile», osserva Gaia Brussa, ricercatrice che lavora con Grosso. «Inoltre – aggiunge – la leva economica migliora il tasso di raccolta, che nei Paesi europei con sistemi Drs si attesta sopra l’ottanta per cento». In Italia, secondo Unesda, il tasso di raccolta dei contenitori Pet è del 46 per cento. Secondo diverse organizzazioni, come quelle riunite nella campagna A buon rendere, questo è uno dei dati per cui sarebbe importante implementare il prima possibile il nuovo sistema di deposito. Per altre realtà, invece, sarebbe meglio ragionare su come migliorare il sistema attuale.

Proprio quest’anno compie 25 anni il sistema Conai, il Consorzio nazionale imballaggi, che ha garantito al nostro Paese dei tassi di riciclo tra i migliori d’Europa. «L’Italia ha un modello basato sui Comuni che fanno la raccolta differenziata e sui consorzi che avviano al riciclo», spiega il presidente di Conai Luca Ruini: «Questo modello ci dà un vantaggio competitivo. La domanda allora è: lo cambio? O lo tengo e lo integro con nuovi strumenti per raggiungere gli obiettivi europei?». Conai propende per la seconda opzione e, al posto del sistema di deposito, punta su una raccolta selettiva e su ecocompattatori per bottiglie Pet.

«Il sistema attuale si regge su un equilibrio molto delicato tra polimeri di valore (come quelli di bottiglie e flaconi) e quelli misti. I primi rappresentano un ricavo e fanno stare in piedi il sistema, i secondi, che sono circa il 50 per cento, hanno poco valore o sono addirittura un costo», riprende Grosso del Politecnico. «Se con il Drs togliamo a questo sistema le componenti di maggiore valore, rischia di entrare in crisi», conclude il docente. La scelta, a suo parere, è tra un approccio «più conservatore» e uno che propone «novità importanti». Spetterà al nuovo Governo decidere quale tenere.

Bugie verdi: due promesse sulla plastica su tre sono solo marketing aziendale. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 27 Ottobre 2022.

Diverse aziende alimentari europee non riescono a realizzare le proprie promesse di utilizzare la plastica in maniera più ecologica, o comunque non forniscono alcun aggiornamento a riguardo: è quanto si desume da un’inchiesta di Deutsche Welle, che in collaborazione con l’European Data Journalism Network ha analizzato la condotta di alcune delle più grandi società europee di produzione alimentare e di bevande. In totale, sono state esaminate 98 promesse fatte in relazione alla plastica negli ultimi 20 anni: secondo le tempistiche annunciate dalle aziende, 37 di queste avrebbero già dovuto essere trasformate in realtà, ma di fatto il 68% non sono state mantenute o, in alternativa, l’azienda non ha fatto sapere più niente in proposito. “Quando le aziende non riescono a rispettare i propri impegni, di solito non lo dicono apertamente”, si legge infatti nel rapporto, in cui viene specificato che le aziende generalmente “abbandonano silenziosamente l’obiettivo oppure ne modificano la portata o l’anno di riferimento”.

Insomma risultati complessivamente non positivi per le 24 aziende aventi sede in Europa che sono state esaminate. Basterà citare il caso del colosso alimentare francese Danone, che nel 2009 aveva fatto una promessa ambiziosa: entro due anni, tra il 20 e il 30% della plastica usata per le bottiglie d’acqua prodotte dall’azienda avrebbe dovuto essere ottenuto da materiali riciclati. Nel 2014, tuttavia, l’obiettivo della multinazionale era cambiato: come riportato all’epoca sul sito dell’azienda, infatti, l’obiettivo era divenuto quello di “raggiungere una percentuale del 25% di PET riciclato – ovverosia plastica riciclata – entro il 2020”. “Ma nel 2020 Danone utilizzava ancora solo il 20% di PET riciclato nelle sue bottiglie d’acqua in tutto il mondo”, viene però sottolineato nel rapporto, in cui viene poi specificato che “per il 2025, a 14 anni dalla prima scadenza autoimposta, Danone si è data un nuovo obiettivo: il 50% di plastica riciclata nelle bottiglie d’acqua”. Certo, come precisato nel report “Danone ha successivamente rivisto il suo obiettivo per il 2020 per applicarlo solo ai paesi ‘dove le normative consentono’ il PET riciclato, escludendo dai calcoli Cina, Turchia e Iran”, e dunque non prendendo in considerazione questi paesi “l’azienda ha raggiunto il 25,5% di PET riciclato nelle sue bottiglie d’acqua nel 2020”. Tuttavia il rapporto “riflette la versione originale dell’impegno”, che appunto inizialmente non prevedeva tale specifica.

Tra le 24 aziende esaminate, poi, sono 11 quelle italiane. Come infatti sottolineato dal quotidiano Il Sole 24 Ore – che riveste il ruolo di membro dell’European Data Journalism Network – le aziende analizzate residenti nel nostro Paese sono state: Aia, Cremonini, Veronesi, Barilla, Agricola tre valli, Inalca, Lavazza, Gesco (Amadori), Casillo e Granlatte, ovvero le prime 10 società italiane nel settore per vendite (escluse le sussidiarie e quelle con sede in paesi esteri), alle quali è stata aggiunta Ferrero, tra le principali aziende europee, ma con sede in Lussemburgo. Ebbene, le aziende con sede in Italia hanno fatto solo 5 promesse sugli imballaggi in plastica, ma nessuna è stata mantenuta (due infrante, due ambigue ed una fissata per il 2025). Da citare il caso di Inalca che – sempre secondo quanto specificato da Il Sole 24 Ore – nel 2018 aveva promesso di aumentare l’impiego di plastica riciclata per gli imballaggi dal 20% al 30% ma stando ai dati del 2020 tale quota risulta invece addirittura calata al 17%, così come il caso di Barilla, che invece aveva dichiarato di voler sostituire il 100% degli imballaggi in plastica con contenitori in materiali riciclabili entro il 2020 e che è riuscita sì a mantenere tale promessa ma con tempistiche più lunghe di quelle annunciate. Per quanto riguarda Ferrero, invece, le promesse sono otto delle quali solo una rispettata – riguardante l’aumento dell’utilizzo di PET riciclato negli imballaggi secondari – e 5 da realizzare in futuro.

Certo, alcune buone notizie ci sono: ad esempio, oltre all’appena citato aumento dell’utilizzo di PET riciclato da parte della Ferrero, va ricordato che Coca-Cola HBC (azienda svizzera che imbottiglia la Coca-Cola) ha lanciato una bottiglia realizzata al 100% con PET riciclato per quattro dei suoi marchi di acqua nel 2019, dopo averlo annunciato nell’anno precedente. Tuttavia, complessivamente la situazione non pare rassicurante: come sottolineato nel rapporto, infatti, l’industria alimentare e delle bevande è uno dei maggiori inquinatori di plastica al mondo, con la produzione globale di plastica che è ancora in crescita e si prevede che continuerà ad esserlo nei prossimi decenni. Un problema di non poco conto: basterà ricordare che la plastica non è solo uno dei principali prodotti a base di combustibili fossili, ma è anche uno dei più duraturi. Le bottiglie di plastica, ad esempio, possono richiedere fino a 450 anni per decomporsi, e la microplastica da esse derivante è in grado di danneggiare animali, esseri umani ed ambiente. [di Raffaele De Luca]

«L’invasione delle microplastiche nell'Adriatico»: le più colpite le cozze. I rischi nascosti dell’inquinamento, Studio su «Elsevier»: cozze e pesci dei fondali ne sono pieni, servono più ricerche. Marisa Ingrosso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Giugno 2022 

Le cozze al primo posto, ma anche crostacei e pesci che vivono sui fondali marini. Sono questi, nell’ordine, gli alimenti più comuni attraverso i quali gli esseri umani fanno il pieno di microplastiche. E, nonostante siano certi i danni per la salute, le ricerche hanno ancora tanta strada da fare, a incominciare da una standardizzazione di misure e «qualità» dei frammenti. La ricerca pubblicata pochi giorni fa da «Elsevier» (in inglese) reca la firma di tre studiosi della University College di Dublino: Zhihao Yuan, Rajat Nag ed Enda Cummins («Scuola di Ingegneria dei Biosistemi e degli Alimenti). Si intitola «Human health concerns regarding microplastics in the aquatic environment - From marine to food systems» («Preoccupazioni per la salute umana relative alle microplastiche nell’ambiente acquatico - Dai sistemi marini a quelli alimentari»)...

Simone Valesini per greenandblue.it il 19 Giugno 2022  

Bottiglie, buste, involucri, pellicole e imballaggi. Oggi il packaging non può fare a meno della plastica, praticamente in ogni settore industriale. E una volta una volta esaurita la sua funzione, tutta questa plastica si trasforma in rifiuti, che andranno quindi smaltiti e che almeno in parte, nonostante le migliori intenzioni, si faranno strada nell'ambiente.

La responsabilità ovviamente è di tutti, ma un nuovo studio coordinato dai ricercatori dell'Università dell'Illinois aiuta a fare luce sui Paesi che contribuiscono maggiormente al problema. Una triste classifica, insomma, delle nazioni che producono il quantitativo maggiore di rifiuti di plastica legati al packaging. 

La ricerca, pubblicata sul Journal of Industrial Ecology, è stata realizzata incrociando i dati sulla produzione globale di rifiuti forniti dalla Banca Mondiale con quelli contenuti nel database EXIOBASE, che mappa le relazioni tra consumatori e produttori di beni in 47 regioni del mondo.

Dall'analisi dei dati, i ricercatori americani hanno potuto constatare che il principale produttore di rifiuti di plastica da imballaggi è il continente americano, dove tra Nord e Sud America si raggiunge quasi il 41% della produzione globale. Seguono l'Europa, con il 24%, e l'Asia, con il 21%. 

A livello nazionale, il primo produttore mondiale sono gli Stati Uniti, responsabili del 19% di tutti i rifiuti di plastica legati al packaging realizzati nel mondo. Al secondo posto troviamo quindi il Brasile, con il14%, e poi la Cina, con il 12%. Simile la situazione anche guardando ai consumi (un particolare non scontato visto che molte merci vengono prodotte per l'esportazione): Nord e Sud America sono i principali responsabili di rifiuti legati ai consumi, con il 36% del totale; segue l'Asia questa volta, con il 26%, e quindi l'Europa, con il 23%.

Guardando al tipo di merci che genera la quantità maggiore di rifiuti di plastica, ai primi posti troviamo il comparto alimentare, con latticini e prodotti ittici in testa alla classifica dei più inquinanti. "Cibi ricchi di proteine come la carne, il pesce e i latticini sono diffusissimi nelle Americhe, e si tratta di merce che genera moltissimi rifiuti legati al packaging", spiega Sandy Dall'erba, direttore del Center for Climate, Regional, Environmental and Trade Economics (CREATE) dell'Università dell'Illinois.

"Per fare un esempio, ogni chilo di pesce consumato produce in media un chilo e mezzo di rifiuti. La plastica purtroppo è difficile da rimpiazzare, perché non abbiamo altri materiali in grado di proteggere la freschezza dei cibi che vengono spediti in giro per il mondo. Per questo dobbiamo cercare di sviluppare nuove tecnologie che rendano la plastica più biodegradabile, come quelle basate sulle alghe. Ma dobbiamo anche introdurre normative più stringenti, che scoraggino la produzione e l'utilizzo del packaging di plastica".

Fuori rotta.  Le misure delle multinazionali contro la plastica negli oceani sono (quasi) inutili. Matteo Castellucci su L'Inkiesta l'8 Giugno 2022.

Se Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone e Keurig Dr Pepper mantenessero i loro attuali impegni ambientali, la plastica nelle acque diminuirebbe solo del 7%. Il motivo? Puntano sul riciclo, e invece dovrebbero incentivare il riutilizzo

L’epica marinara e piratesca ci ha abituato a declinare al plurale gli oceani, ma nella loro Giornata Mondiale – che si celebra l’8 giugno da ormai 30 anni – può valere la pena ricordare che la mitologia classica richiede il singolare. Oceano ha un pedigree familiare evocativo, figlio di Urano e Gea, del cielo e della terra, e per diritto di nascita fondamentale alla vita sul Pianeta in questa ecologia ante litteram. 

Oggi, la comunità scientifica tende a concordare su quel singolare che trascende le dispute territoriali e la geopolitica: di oceano ne esiste uno solo, interconnesso. Nessun uomo è un’isola, è lo stesso per i mari, e la nostra specie non sta facendo abbastanza per proteggerli. Nel Novecento abbiamo vinto la sfida del catrame, poi li abbiamo inondati di plastica.

È la minaccia più letale alla vita marina, ma non solo. Ogni anno uccide oltre un milione di uccelli e 100mila mammiferi, denuncia l’Unesco. Gli animali che la scambiano per cibo vanno incontro a una morte atroce: per inedia, con lo stomaco pieno di Pet (polietilene tereftalato). Ma il dramma non si esaurisce a questo paradosso sadico, anche se ci sarebbero già elementi a sufficienza per sentirsi coinvolti. Non si tratta più di colpire lettori annoiati con le dimensioni della distesa di immondizia che galleggia in questo momento nel Pacifico. È vasta due volte la Francia. E quando questo materiale si sfrangia, produce le microplastiche, che penetrano in ogni ramificazione della catena alimentare e possono finire nel cibo che consumiamo. 

Il punto è che le contromisure che adottiamo – o, peggio, sbandieriamo – non sono quelle più adatte. Un caso eclatante è ripreso da uno studio commissionato da Oceana, una delle ong più attive per la conservazione degli oceani, uscito a maggio. Si parla di bottigliette di plastica, perché costituiscono la più visibile e più presente (subito dopo i sacchetti) forma di inquinamento in mare. Si stima che ne finisca in acqua un milione al minuto. Ebbene, la ricerca mette in luce come gli obiettivi delle prime cinque ditte di beverage al mondo siano fuori bersaglio: puntano sul riciclo, e invece dovrebbero incentivare il riutilizzo. 

Se queste cinque sorelle (Coca-Cola, Pepsi, Nestlé, Danone e Keurig Dr Pepper) mantenessero i loro attuali impegni ambientali, la plastica in mare diminuirebbe solo del 7%. Quel «solo» non dev’essere fuorviante: i programmi green vanno lodati, a maggior ragione quando sono i giganti a provare a ridurre il loro impatto climatico ridisegnando le forniture e gli impianti. Le critiche sono sulla ricetta: si potrebbe fare di meglio. Oceana sostiene che aumentare del 10% il riutilizzo delle bottiglie nei Paesi costieri potrebbe abbattere i riversamenti del 22%. 

Spiegato in una riga, il problema è questo: può venire riciclata solo la plastica che non finisce in mare, ma in molte Nazioni, soprattutto in via di sviluppo, sono carenti le infrastrutture e la raccolta differenziata è inesistente. Nel breve termine, quindi, secondo la ong è importante arrestare il fenomeno uno step prima. Come? Concentrandoci sull’evitare che le bottiglie arrivino nell’oceano già saturo e pure coinvolgendo le aziende più piccole, responsabilizzandole come – giustamente – chiediamo ai colossi.   

«Aumentare il riciclo non impedisce alla plastica mono-uso di raggiungere il mare, ma può farlo sostituirla con una bottiglia che verrà riutilizzata» ha detto Dana Miller, la direttrice delle Strategic initiatives di Oceana. Vista da un’altra prospettiva: purtroppo, in molti posti del mondo, può venire riciclata solo la plastica raccolta correttamente, cioè una minoranza, già sottratta al mare. Dove cadono 35,8 miliardi di bottiglie di Pet sui 511 miliardi consumati nel 2018 in 93 Stati. Una parte di significativa di quelle che non avvelenano l’acqua viene bruciata o tombata in discariche abusive. È nato, non a caso, un osservatorio che mappa con dati satellitari questi siti illegali. 

Oceana chiede quindi di introdurre una «refillable option». Funziona così: i recipienti sono di proprietà dell’azienda, che li traccia e raccoglie. Chi compra una bottiglia riutilizzabile, in cambio di uno sconto o un incentivo economico, la riporta al negozio, dove viene pulita e riempita nuovamente. Il ciclo di vita si allunga a 20 utilizzi se è fatta di Pet, a più di 50 nel caso del vetro. Sarebbe una soluzione d’emergenza, in attesa di migliorare o costruire una vera e propria raccolta differenziata nei Paesi in via di sviluppo. 

Altre ipotesi, al momento, sono ancora futuribili, dalle imbarcazioni in grado di trasformare la plastica in combustibile ai batteri capaci di degradarla. Quella biologica è una delle ipotesi più suggestive, perché le isole di plastica sono diventate un ecosistema artificiale tutto da studiare. Viene chiamata «plastisfera». È popolata da batteri e altri microrganismi, come i minuscoli neuston, censiti in un articolo sul New York Times che vale la pena sfogliare. Una grossa domanda a cui rispondere è se la plastisfera possa diventare un incubatore di nuovi agenti patogeni. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 marzo 2022.

Per la prima volta le microplastiche, minuscoli pezzettini di plastica di diametro inferiore ai 5 mm, sono state trovate nel sangue umano. Lo hanno scoperto nei Paesi Bassi, analizzando i campioni di sangue di 22 donatori adulti sani e anonimi. 

I ricercatori hanno scoperto che 17 dei 22 volontari (il 77,2%) avevano microplastiche nel sangue, una scoperta descritta come «estremamente preoccupante». Finora gli scienziati ne avevano trovato traccia nel cervello, nell’intestino, nella placenta dei bambini non ancora nati, nelle feci, ma mai prima d’ora nei campioni di sangue.

«Il nostro studio è il primo a dare un’indicazione sulle particelle di polimero nel sangue: è un risultato rivoluzionario» ha detto l’autore dello studio, il professor Dick Vethaak della Vrije Universiteit Amsterdam nei Paesi Bassi.

«Ma dobbiamo estendere la ricerca e aumentare e dimensioni del campione, il numero di polimeri valutati, ecc». Lo studio, pubblicato sulla rivista Environment International, ha testato cinque tipi di plastica: polimetilmetacrilato (PMMA), polipropilene (PP), polistirene (PS), polietilene (PE) e polietilene tereftalato (PET).

I ricercatori hanno scoperto che il 50% dei campioni di sangue conteneva polietilene tereftalato (PET): è stato il tipo di plastica più diffuso nei campioni. Poco più di un terzo (il 36%) aveva tracce di polistirene, utilizzato per l'imballaggio e lo stoccaggio, mentre quasi un quarto (23%) di polietilene, con cui vengono realizzate le borse di plastica. In un singolo campione di sangue i ricercatori hanno trovato tre tipi diversi di plastica.

Storia di una gomma. Le origini di Pirelli tra innovazione, modernità e vocazione internazionale. L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Una delle più importanti e riconoscibili aziende del nostro paese è stata fondata 150 anni fa con l’ambizione di anticipare il cambiamento dell’industria e della società

Strade accidentate, salite impervie, ponti cedevoli, e poi fango, polvere, temperature rigide. La “Pechino-Parigi” del 1907 è una prova di sopravvivenza più che una gara automobilistica. La Formula 1 sarebbe arrivata quattro decenni dopo, le corse in auto sono solo all’alba della loro storia e si presentano come eventi leggendari a base di ostinazione e resistenza.

Il Raid Pechino-Parigi lo vince l’Itala del principe Scipione Borghese e del giornalista Luigi Barzini: completano gli oltre 16mila chilometri con una ventina di giorni d’anticipo sulla concorrenza.

Non può essere un caso: la loro vettura monta gomme Pirelli, in quella che sarebbe passata alla storia come la gara che ha dato inizio alle attività motorsport dell’azienda.

All’inizio del Novecento il marchio milanese esiste già da alcuni decenni, ma nel suo passato racchiude un intreccio di moltissime storie.

Giovanni Battista Pirelli nasce a Varenna, sul lago di Como, il 27 dicembre 1848. Dopo il diploma in ingegneria all’Istituto Tecnico Superiore di Milano (futuro Politecnico), a 22 anni viaggia in Svizzera, Germania, Belgio e Francia grazie a una borsa di studio. Ovunque vada visita stabilimenti del settore tessile, meccanico, ferroviario, metallurgico. La sua attenzione, però, è diretta soprattutto alla lavorazione della gomma.

I cavi che collegano l’Italia

Rientrato in Italia, Pirelli decide di dare vita alla prima società del Paese per la produzione di articoli di gomma. E con il supporto di 24 soci nasce la “G.B. Pirelli & C.”. È il 28 gennaio 1872. Il primo stabilimento è in via Ponte Seveso, Milano, e ha la direzione tecnica del francese Aimé Goulard – la dimensione internazionale di quest’azienda era appena nata, sarebbe diventata uno dei suoi fiori all’occhiello, ma forse ancora non lo sapeva nessuno. 

La produzione è destinata soprattutto ad apparecchi e macchine industriali, per la navigazione a vapore e le ferrovie, quindi cinghie di trasmissione, valvole, isolanti. Nei primi anni non c’è molto di più. Solo nel 1879 Pirelli si espande nel settore dei cavi, diventando la prima azienda nell’Europa continentale in un comparto dominato dai britannici.

È grazie alle innovazioni introdotte da Emanuele Jona, Leopoldo Emanueli e più tardi da suo figlio Luigi, che la società ottiene commesse governative per montare i cavi della rete telegrafica sottomarina italiana, per creare il primo collegamento tra la penisola e le isole, in un’Italia nata non molto tempo prima e ancora poco collegata.

Espansione, progresso, vocazione internazionale

In poco tempo Pirelli si espande in tutto il mondo, si assicura la fornitura di cavi-energia sulle cascate del Niagara, sul Nilo, in Spagna, in Argentina, negli Stati Uniti e in Francia. Il primo gennaio 1883, all’apertura della stagione, per la prima volta il Teatro alla Scala è illuminato elettricamente da 2.880 lampade a incandescenza, alimentate da cavi Pirelli.

Fin dalla nascita concentrata sull’innovazione, la società punta su prodotti che diventano simboli anche dello sviluppo del Paese. Così dopo gli isolanti per telegrafi e i cavi inizia la realizzazione di oggetti d’uso quotidiano – dalle cuffie ai giocattoli, fino agli impermeabili.

«La nostra industria è per sua natura progressiva». La definizione è proprio di Giovanni Battista Pirelli, datata 1880. Un’espressione che racchiude il senso e l’orizzonte del progetto che da poco ha preso vita. “Progressiva” e cioè impegnata a interpretare, realizzare e rilanciare il progresso – industriale, tecnologico, produttivo, ma anche economico e sociale.

Dopotutto è un’epoca di grande ottimismo, che viaggia spedito verso il nuovo secolo, vede allontanarsi nel tempo i conflitti ottocenteschi, irrompe la modernità, in letteratura, musica, scienze, nell’arte, nella moda e nei costumi. In questo Pirelli vuole creare un’azienda figlia del suo tempo, in sintonia con la contemporaneità, con l’attitudine all’innovazione, la fiducia nel progresso e lo spirito internazionale.

In pochi anni, all’inizio del Novecento, apre prima lo stabilimento spagnolo di Villaneuva y Geltrù, vicino a Barcellona, poi quello inglese di Southampton, nel 1917 approda in Argentina. Ci sono diverse compagnie all’estero, e nel 1920 vengono raggruppate nella “Compagnie Internationale Pirelli”, costituita a Bruxelles, mentre a Milano, per le attività italiane, nasce la Società Italiana Pirelli.

Il numero uno tra gli pneumatici

In quest’epoca di grandi trasformazioni industriali, sociali e culturali il boom dell’industria automobilistica convince Pirelli a puntare sugli pneumatici. Aveva avviato la produzione di gomme per velocipedi già nel 1890, quelli per automobili arrivano nel 1901 con il lancio dell’“Ercole”.

La grande vittoria del principe Scipione Borghese e di Luigi Barzini nella “Pechino-Parigi” del 1907 è una grande occasione di visibilità per Pirelli, che inizia così il suo legame – indissolubile, ancora nel secolo successivo – con il motorsport e lo sport in generale.

Corsa dopo corsa, la tecnologia degli pneumatici migliora: negli anni Pirelli impone una rivoluzione tecnologica, con il lancio di prodotti innovativi come il Pirelli Cord (1921), il Superflex Cord (1924) e lo Stella Bianca (1927), il più popolare tra gli anni Trenta e Cinquanta.

Nel 1925 l’Alfa Romeo vince il primo campionato del mondo di automobilismo della storia. Ovviamente monta il Superflex Cord Stella Bianca, “pneumatico delle vittorie” firmato Pirelli. Non esiste ancora la Formula 1, ma l’azienda saprà imporsi anche lì: quando esordisce il campionato di corsa, nel 1950, prima il Pirelli Stella Bianca, poi Stelvio e dopo il Cinturato conquistano un posto nella storia del miglior campionato di velocità su pista.

Cultura e comunicazione innovativa

Fin dalla nascita, nella seconda metà dell’Ottocento, Pirelli dimostra l’ambizione di anticipare il cambiamento. È per questo che anche nel secondo Dopoguerra l’azienda amplia ulteriormente la sua area di competenza, migliorando nell’attenzione verso la cultura e le forme di comunicazione, il rapporto con il pubblico.

Nasce nel 1948 la “Rivista Pirelli”, tra i primi e più importanti esempi di stampa aziendale rivolta al largo pubblico, con l’obiettivo di coniugare cultura umanistica e tecnico-scientifica. Vanta firme come Dino Buzzati, Camilla Cederna, Gillo Dorfles, Umberto Eco, Carlo Emilio Gadda, Eugenio Montale, Umberto Saba, Leonardo Sciascia, Salvatore Quasimodo, Giuseppe Ungaretti e Umberto Veronesi. E ovviamente artisti come Renato Guttuso, Ugo Mulas, Enzo Sellerio, Fulvio Roiter, Alessandro Mendini e Riccardo Manzi, come autori di foto e illustrazioni.

Pirelli 

L’azienda si distingue con progetti che resteranno nella storia della comunicazione e della pubblicità. Ne è un esempio il Calendario Pirelli, pubblicato per la prima volta nel 1964, divenuto ben presto oggetto cult.

Perché non riusciamo a vivere senza plastica. Un' inchiesta. Nel 2020 il mondo ha prodotto 367 milioni di tonnellate di materiale plastico. Ma come farne a meno? Abbiamo chiesto a 1158 persone se sono pronte a cambiare abitudini per inquinare meno. Le buone intenzioni ci sono (63%). E chi ha provato a vivere senza, spiega quali sono i limiti reali e quali le soluzioni già disponibili. Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 17 febbraio 2022.

Ancora 13 anni, poi il peso della plastica in circolazione supererà quello di tutti gli esseri umani. Nel 2035 quindi non guardare in faccia il problema sarà impossibile o quasi: al di là delle emissioni di gas serra, stiamo soffocando la Terra a forza di bottiglie e sacchetti che ricicliamo solo in minima parte. Il 28 febbraio a Nairobi, in Kenya, apre la Environment Assembly delle Nazioni Unite, definita dal Washington Post "il più ambizioso sforzo di diplomazia climatica dai tempi dell'accordo di Parigi del 2015". Vedremo se sarà davvero così, anche perché uno degli obiettivi è proprio ridurre produzione e consumo di plastica. O almeno questa è la speranza perché la conferenza potrebbe anche concludersi con un nulla di fatto considerando che tanti remano in quella direzione.  

"Se smettessimo di produrre plastica e iniziassimo a riciclare quella che abbiamo saremmo sulla buona strada per risolvere il problema. Il suo valore aumenterebbe e raccoglierla diventerebbe vantaggioso". David Katz, canadese, 53 anni e una inossidabile fiducia nel genere umano, su questa idea ha fondato la Plastic Bank. A metà strada fra un'azienda e un'organizzazione non governativa, ha messo in piedi nelle Filippine, Indonesia, Brasile, Camerun ed Egitto un ecosistema nel quale in cambio degli scarti raccolti si forniscono servizi, da quelli sanitari al traffico dati, dando così un valore differente alla plastica. Risultato: due miliardi di bottiglie tolte dalla circolazione, ovvero 40 mila tonnellate. "Bisogna cambiare mentalità", prosegue. "E non vale solo per la plastica. Attraverso incentivi per il riciclo e tasse sulla produzione di materiali vergini, l'idea di gettar via quel che si usa deve tramontare".

In un mondo che non produce più plastica

Katz su un punto ha sicuramente ragione: il problema è il costo così basso della fabbricazione della plastica. Proviamo allora ad immaginare un mondo nel quale di colpo si smettesse di fabbricarla usando solo quella riciclata. Niente più contenitori per i medicinali, l'acqua, il dentifricio, lo shampoo. Al loro posto lattine, bottiglie di vetro o al massimo di metallo da riutilizzare all'infinito. E poi distributori più o meno automatici piazzati nei supermercati e nelle farmacie per la vendita di prodotti sfusi. Alcuni, come lo shampoo, avrebbero forma solida come avviene con le saponette. Altri, come il detersivo per i piatti, verrebbe commercializzato in pastiglie da sciogliere nell'acqua. Vietati del tutto i sacchetti, rimpiazzati con quelli di carta riciclata. Vietata anche la pellicola, frutta e verdura verrebbero protette da una patina commestibile erogata attraverso dei nebulizzatori. 

La plastica a quel punto la troveremmo su eBay venduta al migliore offerente. Con alcune tipologie, il vinile degli Lp ad esempio, che diventerebbero particolarmente ricercate al di là del loro contenuto o funzione. A casa si farebbe estrema attenzione nel pulirla, separarla in base alla tipologia e poi portata al centro di raccolta per incassare e d'estate sulle spiagge nascerebbero gare per scovare quanto lasciato dai professionisti del settore. 

Se domani smettessimo di produrre la plastica di colpo, questo sarebbero alcuni degli effetti collaterali più visibili. La scarsità, dall'oro ai Bitcoin, porta invariabilmente ad un aumento dei prezzi. Ed è quello che servirebbe alla plastica: nel 2020 ne abbiamo prodotta 367 milioni di tonnellate secondo la PlasticsEurope, l'associazione europea dei produttori di materie plastiche. Ed è andata bene perché nel 2019 avevamo fatto di peggio. Ormai nell'ambiente ne esistono fra le otto e i dieci miliardi di tonnellate, delle quali 100mila sarebbero in mare. Quanto basta per continuare riciclarla in eterno anche cessando o riducendo drasticamente la produzione. 

"Idea difficile da mettere in pratica, ma è un esercizio d'immaginazione interessante", commenta da Londra George Harding-Rolls, 29 anni, analista della fondazione Changing Markets. È un'organizzazione che opera fra le altre cose per far pressione sui vari governi perché vengano adottate leggi che aiutino ad avere un mercato più sostenibile. Harding-Rolls in particolare ha dieci anni di attività alle spalle, parte dei quali trascorsi in Cina. 

"La strada migliore sarebbe quella di avere una strategia completamente differente di raccolta e riciclo dei rifiuti, per riusare quanto più materiale possibile. Ma questo significherebbe rivedere buona parte delle norme attuali che regolano la conservazione, distribuzione e vendita del cibo. Insomma, per fermare la produzione della plastica dovremmo avere prima una infrastruttura per la gestione degli scarti molto molto più efficiente di quella di oggi. E attualmente solo Germania e pochissimi altri Paesi sono sulla buona strada".

Il miraggio del riciclo

Per l'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra), l'Italia ricicla soltanto il 30% della plastica raccolta. A livello globale siamo appena al 14, 18 per cento secondo un rapporto di quattro anni fa dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Il resto? Un quarto circa finisce negli inceneritori, mentre la maggior parte viene depositato nelle discariche o semplicemente abbandonato nell'ambiente. E questo avviene perché riciclare la plastica è difficile, costoso e per certe tipologie impossibile. Soprattutto non conviene dal punto di vista economico. 

"Nel 1950 il mondo produceva solo due milioni di tonnellate all'anno. Da allora, la produzione annuale è aumentata di quasi 200 volte, raggiungendo il record di 381 milioni di tonnellate nel 2015. È grosso modo l'equivalente della massa di due terzi della popolazione mondiale", scrive Hannah Ritchie, ricercatrice Our World In Data, nella relazione Plastic Pollution redatta in collaborazione con l'Università di Oxford. "Prima del 1980, il riciclo e l'incenerimento della plastica erano trascurabili. Dal 1980 i tassi sono aumentati in media di circa lo 0,7% all'anno. Se estrapoliamo la tendenza storica proiettandola al 2050, il riciclo potrebbe arrivare 44%. Ma si tratta solo di una stima", prosegue la ricercatrice inglese.

La famiglia che (quasi) non produce rifiuti

C'è però chi ha deciso di provare da subito a limitarne l'uso, dimostrando che è una strada percorribile già oggi. Lo sta facendo in Francia la Famille Zero Dechet, ovvero la Famiglia a (quasi) zero rifiuti guidata da Jérémy Pichon che ormai sforna oltre ai consigli, libri e giochi da tavolo sull'economia circolare. E lo fa anche Marianna Mea, biologa marina, 43 anni, nata e cresciuta a Roma, trasferitasi a Pozzuoli dove vive con il marito e i due figli conducendo una vita che produce pochissimi rifiuti. Il tutto raccontato per filo e per segno nel blog "A simple family".  

Vivere senza spazzatura: una giornata zero waste

"Non si può vivere senza plastica. È necessaria. Basti pensare ai dispositivi medici o quelli tecnologici", spiega la stessa Marianna. "Ma nella vita di tutti i giorni si può fare molto. Ci vuole però un periodo di assestamento per rinunciare la plastica, insomma deve essere un percorso graduale fatto in base allo stile di vita, sapendo che si può rinunciare ad alcune cose all'inizio e magari non ad altri. C'è già molto ormai: i pannolini lavabili sono simili a quelli usa e getta ad esempio, fra i prodotti della cosmesi ora ce ne sono molti solidi e c'è perfino il dentifricio in pastiglie. E si può fare la spesa sfusa di verdure, frutta, legumi".  

Quanto tempo in più richiede vivere riducendo l'uso della plastica? In realtà si tratta di capire dove sono le alternative attorno a noi, secondo Marianna Mea. Una volta individuato quale negozio vende quel che stiamo cercando le differenze fra il prima e il dopo sarebbe relativo. "Semplicemente invece di andare in un certo supermercato si va in un altro", prosegue la biologa romana. "E alcune cose si acquistano in grandi quantità una o due volte all'anno. Ma certo, all'inizio si tratta di capire dove e quando. Non si arriverà mai a zero, la stessa plastica riciclata ha una parte nuova, ma si può ridurre davvero molto. Certo, non è una strada per tutti anche se lo è per molti. Il cibo sfuso e biologico o i capi in lana senza fibre artificiali costano di più rispetto alla media e se si fa fatica ad arrivare a fine mese combattere la plastica finisce inevitabilmente in fondo alla lista delle priorità".

Il sondaggio: "Sei pronto a rinunciare alla plastica?"

In realtà la volontà di farlo in Italia è più diffusa di quel che si potrebbe credere. Abbiamo chiesto a Toluna, azienda di sondaggi online, di indagare quale sia l'attitudine nei confronti della plastica attraverso un campione rappresentativo di oltre mille persone. Fra le dieci domande, avevamo ad esempio chiesto se si era disposti a comprare uno smartphone fatto di materiali riciclati anche pagandolo un po' di più a parità di caratteristiche. Il 63% ha risposto affermativamente, così come si è detto disponibile a percorrere qualche chilometro in più per acquistare prodotto sfusi.  

A Flourish data visualization

"Siamo rimasti colpiti dalla sensibilità su questo tema", commenta Silvia Usberti, capo ricercatrice di Toluna. Laurea in economia a Parma, sua città natale, ha oltre venti anni di esperienza alle spalle negli istituti di analisi del mercato. "Più sono giovani più la sensibilità è alta. Sorprende quel dato sullo smartphone ed è significativo anche quello sulla volontà di percorrere dei chilometri in più per trovare prodotti sfusi benché poi tutti si aspettino prezzi più bassi. Certo, una parte delle risposte non sempre è attinente alla realtà, basti pensare alle percentuali bulgare sulla raccolta differenziata, ma dimostra comunque che è un tema sentito". 

Qualche svarione è stato registrato sulla percentuale di plastica che verrebbe riciclata in Italia e nel mondo. In entrambi i casi un terzo circa degli intervistati ha risposto correttamente, gli altri nella maggior parte dei casi sovrastima la nostra capacità di raccogliere e riusare la plastica.   

Tante, troppe tipologie di plastica

Esistono migliaia di varietà di plastica, ognuna con diverse sostanze chimiche di base, derivati e additivi, per offrire il materiale più adatto ai differenti usi. A grandi linee acrilico, cloruro di polivinile (pvc), polipropilene, policarbonato, polietilene e altri fanno parte della categoria delle termoplastiche, le più usate. Possono passare attraverso vari cicli di fusione e solidificazione senza degradarsi in maniera significativa e quindi è relativamente facile riciclarla. Poi ci sono le plastiche termoindurenti che restano in uno stato solido permanente dopo la polimerizzazione. Se riscaldate non si fondono, ma si decompongono senza la possibilità di poterle manipolare una volta raffreddate. 

In pratica non è possibile riciclarle. Appartengono a questa seconda categoria la resina epossidica, il poliestere, il poliuretano, il silicone, la gomma vulcanizzata. Le tipologie più usate sono, in ordine: il polipropilene e il polietilene, entrambe riciclabili, seguite dal poliestere che non lo è. Alle loro spalle c'è il pvc, il pet e via via le altre tipologie. Se guardiamo ai dati di un anno come il 2015, sono state prodotte di queste prime sei categorie 314 milioni di tonnellate, delle quali 59 non erano riciclabili, ovvero il poliestere.

I soliti sospetti

Se fosse una nazione la produzione della plastica nel suo complesso si piazzerebbe per emissioni di CO2 alle spalle di Cina, Stati Uniti, India e Russia. Fra le industrie che producono più scarti plastici, troviamo al primo posto quella degli imballaggi e dell'inscatolamento. Il settore tessile, al secondo posto stando ad Our World In Data, al confronto ne genera un terzo. Segue quella dei prodotti di consumo, i trasporti, le costruzioni, l'elettronica. Quest'ultima sta al mondo degli imballaggi con un rapporto di uno a dieci in fatto di scarti plastici. 

In termini di produzione pro-capite di rifiuti, in testa alla classifica ci sono gli Stati Uniti con 105 chili a testa annui. Il Regno unito è a poca distanza con 98 chili, seguito da Corea del Sud, Germania, Tailandia, Malesia, Argentina, Russia e Italia, con 55 chili a testa. Al decimo posto il Brasile con 51 chili.

Il primato della Cina

Nel 2020 la Cina ha fabbricato il 32 per cento della plastica mondiale. Il Nafta, ovvero Stati Uniti, Canada e Messico, è la seconda regione con il 19 per cento. Essendo la principale economia manifatturiera ed esportatore di beni al mondo, non sorprende che la Cina sia anche il più grande fabbricatore di plastica. La produzione mensile cinese varia tra le sei e le otto milioni di tonnellate. L'intera America Latina arriva a 14,7 milioni di tonnellate ma in un anno. Nel 2019 il valore delle esportazioni cinesi in fatto di plastica ammontava a 48,3 miliardi di dollari, su un totale di 234.337 miliardi stando ai dati 2021 della Banca Mondiale. Se quindi ci fermassimo alla sola plastica, che però è la base di tanti altri processi industriali, i soldi derivanti dalla sua vendita per la Cina sono relativamente pochi. E' una produzione che di per sé ha un peso relativo sull'economia. In teoria l'industria del riciclo potrebbe superarla se la raccolta avesse un ritorno economico adeguato in base alla riduzione o allo stop di quella vergine.  

"Bisogna guardare all'intero quadro della situazione", prosegue George Harding-Rolls. "La plastica è una fonte di guadagno sempre più importante per le compagnie petrolifere. È in questo settore che vedono il proprio futuro. Le loro proiezioni parlano di un raddoppio dei profitti entro il 2030. Per allora il 95% della domanda di petrolio verrà dalla petrolchimica e il 36% sarà destinato alla plastica". Nell'era dell'energia rinnovabile le compagnie petrolifere hanno quindi già trovato la loro scialuppa di salvataggio. Anche perché si sono alleati con multinazionali dai nomi noti e dai profitti stellari.

I grandi inquinatori

Coca-Cola Company, Pepsi e Unilever fra le grandi multinazionali sarebbero quelle che inquinano di più con i loro prodotti. Seguono Nestlé, Procter & Gamble, Mondelez, Philip Morris, Danone, Mars, Colgate-Palmolive. A sostenerlo il quarto rapporto Branded del movimento Break Free From Plastic al quale aderiscono oltre duemila organizzazioni, fra le quali nomi di peso come Greenpeace e Ellen MacArthur Foundation. 

È un'iniziativa annuale che prevede la raccolta, il conteggio e la documentazione dei marchi su un campione che per il 2021 è stato di 330mila scarti di plastica trovati in 45 Paesi. L'accusa esplicita è che queste aziende affermerebbero di affrontare la questione climatica e in particolare il problema della plastica, ma continuerebbero in realtà a investire in soluzioni alternative di facciata proseguendo la collaborazione con le compagnie petrolifere.

"La plastica monouso ha effetti devastanti non solo sulla nostra Terra, ma anche per le comunità in prima linea in tutto il mondo", si legge nell'ultimo rapporto della Ellen MacArthur Foundation. "I raccoglitori di rifiuti e i membri della comunità nel Sud del mondo stanno assistendo alla rapida escalation di imballaggi in plastica monouso di bassa qualità immessi aggressivamente sul mercato dalle principali multinazionali". 

Abbiamo chiesto una replica alla Procter&Gamble, scelta fra le altre perché in passato aveva promosso alcune sperimentazioni per nuovi sistemi di scelta e raccolta della plastica. Ma la risposta non è ancora arrivata malgrado siano passati diversi giorni. Ovviamente se e quando dovesse arrivare la aggiungeremo.    

I danni dell'economia lineare

"In effetti anche noi facciamo tutti i giorni lo sforzo di immaginare un mondo nel quale non si produce più la plastica", racconta Ambrogio Miserocchi da Bruxelles. Originario di Milano, 29 anni, laurea in ingegneria ambientale, che alla Ellen MacArthur Foundation si occupa di seguire la parte normativa in tema di economia circolare. "L'economia lineare, nella quale si adopera una risorsa per creare qualcosa che poi viene usato e gettato via, non è più sostenibile. Dobbiamo passare ad una vera economia circolare nella quale la plastica, come qualsiasi altro materiale, non perde mai valore anche quando è stata usata. Riciclare non è abbastanza e comunque è un processo dove ci sono delle perdite ed è sempre richiesta una certa quantità di materia nuova. Inoltre, non abbiamo le infrastrutture adatte per trattare tali quantità di plastica. I prodotti vanno ripensati fin dall'inizio in modo che non diventino mai uno scarto". 

È una tesi molto simile a quella del fondatore di Plastic Bank: ripensare radicalmente l'attuale sistema della distribuzione e del consumo fin dalle fondamenta. "Dobbiamo incentivare quel che non sta ancora accadendo e che ci serve e disincentivare quel che è accaduto fino ad ora", conclude lo stesso Katz. "Non vedo altre alternative se vogliamo rendere più semplice il voltare le spalle alla plastica vergine e sviluppare nuove tecnologie per riusare tutta quella che è già in circolazione".    

Dagotraduzione da Study Finds l'8 febbraio 2022.

Gli scienziati del MIT hanno sviluppato un materiale leggero come la plastica, ma più resistente dell'acciaio. Credono che il materiale potrebbe rivoluzionare l'industria automobilistica, dei telefoni cellulari e dell'edilizia. 

La sostanza facilmente fabbricabile - fino a sei volte più difficile da rompere del vetro antiproiettile - è il risultato di un'impresa ingegneristica precedentemente ritenuta impossibile. È un polimero bidimensionale che si autoassembla in fogli, a differenza di tutti gli altri polimeri, che formano catene unidimensionali simili a spaghetti. 

Finora, gli scienziati ritenevano impossibile indurre i polimeri a formare fogli 2D. Ora, i suoi sviluppatori sperano che il materiale possa essere utilizzato come rivestimento leggero e durevole per parti di automobili o telefoni cellulari. Potrebbe anche fungere da degno candidato per la costruzione di edifici per uffici, ponti o altre strutture.

«Di solito non pensiamo alla plastica come a qualcosa che potresti usare per supportare un edificio, ma con questo materiale puoi abilitare nuove cose», ha detto l'autore senior Michael Strano, professore di ingegneria chimica al MIT. «Ha proprietà molto insolite e ne siamo molto entusiasti». 

I ricercatori hanno depositato due brevetti sul processo pionieristico utilizzato per generare il materiale. 

Allora come è nata questa sostanza rivoluzionaria? I polimeri, che comprendono tutta la plastica, sono costituiti da catene di blocchi di costruzione chiamati monomeri. Le catene crescono aggiungendo nuove molecole alle loro estremità. Una volta formati, i polimeri possono essere modellati in oggetti tridimensionali, come bottiglie d'acqua, utilizzando lo stampaggio a iniezione. Gli esperti credono da tempo che se i polimeri potessero essere indotti a crescere in un foglio bidimensionale, dovrebbero formare materiali estremamente resistenti e leggeri. 

Tuttavia, molti decenni di lavoro hanno portato alla conclusione che era impossibile creare tali fogli.

Uno dei motivi era che se un solo monomero ruota su o giù, fuori dal piano del foglio in crescita, il materiale inizierà ad espandersi in tre dimensioni e la struttura simile a un foglio andrà persa. Tuttavia, nel nuovo studio, Strano e i suoi colleghi hanno escogitato un nuovo processo di polimerizzazione che consente loro di generare un foglio bidimensionale chiamato poliaramide. 

Poiché il materiale si autoassembla in soluzione, Strano afferma che può essere prodotto in grandi quantità semplicemente aumentando la quantità dei materiali di partenza. I ricercatori hanno dimostrato di poter rivestire le superfici con film del materiale, che chiamano 2DPA-1. 

«Con questo progresso, abbiamo molecole planari che saranno molto più facili da modellare in un materiale molto forte, ma estremamente sottile», afferma Strano. 

Il materiale rivoluzionario «può impedire completamente il passaggio di acqua o gas».

I ricercatori scrivono che il modulo elastico del nuovo materiale – una misura di quanta forza ci vuole per deformare un materiale – è tra quattro e sei volte maggiore di quello del vetro antiproiettile. Affermano inoltre che il suo limite di snervamento - quanta forza ci vuole per rompere il materiale - è il doppio di quello dell'acciaio, anche se il materiale ha solo circa un sesto della densità dell'acciaio.

Strano afferma che un'altra caratteristica fondamentale di 2DPA-1 è che è impermeabile ai gas. «Mentre altri polimeri sono costituiti da catene a spirale con spazi vuoti che consentono ai gas di filtrare, il nuovo materiale è costituito da monomeri che si bloccano insieme come i Lego e le molecole non possono entrare tra di loro», aggiunge. «Questo potrebbe permetterci di creare rivestimenti ultrasottili che possono impedire completamente il passaggio di acqua o gas. Questo tipo di rivestimento barriera potrebbe essere utilizzato per proteggere il metallo in automobili e altri veicoli o strutture in acciaio». 

I risultati dello studio sono pubblicati sulla rivista Nature. Gli autori stanno ora studiando più in dettaglio come il materiale sia in grado di formare fogli 2D. Stanno anche sperimentando la modifica della sua composizione molecolare per creare altri nuovi materiali.

Luca Monticelli per "La Stampa" il 14 gennaio 2022.

Scatta lo stop alla plastica monouso. Entra in vigore oggi il decreto legislativo 196, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale del 30 novembre scorso, che recepisce la Direttiva europea «Sup» (Single Use Plastic) del 2019. 

Addio agli oggetti usa e getta e agli attrezzi da pesca non biodegradabili e non compostabili. Niente più piatti e bicchieri di plastica, bastoncini per le orecchie, posate e bacchette, cannucce, aste da attaccare a sostegno dei palloncini, agitatori da cocktail, buste e pacchetti.

Messi al bando pure i contenitori per alimenti e liquidi, tazze, coppette da caffè, bicchieri per frullati in polistirene espanso (ovvero il polistirolo, un materiale rigido e leggero).

La stretta non finisce qui e continuerà in futuro. A partire dal 2025, le bottiglie devono contenere almeno il 25% di plastica riciclata e il 30% dal 2030. Il decreto, emanato «con l'intento di promuovere la transizione verso un'economia circolare con modelli imprenditoriali, prodotti e materiali innovativi e sostenibili», punta a promuovere l'uso di plastica riciclata «idonea al diretto contatto alimentare».

Vengono fissate multe sostanziose per i trasgressori, da 2.500 a 25 mila euro. Ma gli effetti di questa legge non saranno così repentini. Per esercenti e produttori, sarà infatti possibile vendere le scorte esistenti fino a esaurimento.

Inoltre, per promuovere l'uso di prodotti alternativi a quelli vietati, il decreto stabilisce agevolazioni per le aziende che ne fanno uso, sotto forma di credito d'imposta, nel limite massimo di nove milioni di euro per il prossimo triennio.

Sono previste campagne di sensibilizzazione, e gradualmente anche regole per lo smaltimento. Entro un anno, il ministero della Transizione ecologica dovrà indicare con un decreto i criteri ambientali minimi per i servizi di ristorazione, così come i criteri per l'organizzazione di eventi e produzioni cinematografiche e televisive.

Le associazioni ambientaliste criticano però il governo, accusandolo di aver creato deroghe e «trucchi» per aiutare le imprese ad aggirare le restrizioni. Secondo il presidente di Legambiente, Stefano Ciafani, in queste ultime settimane «stanno comparendo prodotti in plastica molto simili a quelli monouso ma "riutilizzabili" per un numero limitato di volte, come indicato nelle confezioni. Un modo, a nostro avviso, per aggirare il bando che porta a un incremento dell'utilizzo di plastica, piuttosto che a una sua diminuzione».

Greenpeace attacca «l'approccio miope che favorisce solo una finta transizione ecologica», perché viene sostituito un materiale con un altro (biodegradabile e compostabile) o promuovendo soluzioni basate sul riutilizzo.

Un'ulteriore violazione, sostiene l'organizzazione ecologista, è l'esclusione dall'ambito di applicazione della direttiva dei prodotti dotati di rivestimento in plastica con un peso inferiore al 10% dell'intero prodotto. Su questa tipologia di articoli i dettami comunitari non hanno fissato alcuna deroga.

Perciò, «c'è il concreto rischio che venga avviato l'iter per una procedura d'infrazione», avverte Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace Italia.

L'ex ministro dell'Ambiente Alfonso Pecoraro Scanio, promotore del programma Mediterraneo #PlasticFree, si appella al premier Mario Draghi: «Mancano i decreti attuativi e le ordinanze virtuose di molti comuni rischiano di essere annullate dai Tar. Occorre obbligare i ministeri inadempienti ad agire subito e chiedere a tutte le istituzioni, le imprese e i cittadini di seguire le nuove normative. Rinvii e deroghe stanno azzoppando la strategia di Bruxelles. Occorre una forte spinta dal governo».

Un giudizio negativo arriva anche da Assorimap, l'associazione riciclatori e rigeneratori di materie plastiche: «La direttiva è stata snaturata, non c'è alcun incentivo per il riciclo meccanico della plastica, trascurando così un settore che costituisce il cuore dell'economia circolare».

Fatta la legge, trovato l’inganno. L’applicazione all’italiana delle regole Ue sulla plastica monouso. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 18 Gennaio 2022.

Dal 14 gennaio una direttiva ha escluso dal mercato europeo alcuni prodotti, per altri è prevista una riduzione del consumo. Ma la norma che la recepisce nell’ordinamento nazionale contiene esenzioni e deroghe che rischiano di limitarne gli effetti.

Fatta la legge, trovato l’inganno: ma in questo caso è il legislatore stesso a prevedere una serie di eccezioni che ammorbidiscono il divieto di utilizzo di oggetti di plastica monouso, in vigore in Italia dal 14 gennaio.

L’eccezione che annacqua la regola

La direttiva europea 2019/904 mette al bando nei Paesi dell’Unione europea una serie di oggetti in plastica, come posate, piatti, cannucce, contenitori alimentari in polistirolo. Altri, come le tazze di plastica o le vaschette dei fast food sono ancora concessi, ma il loro consumo dev’essere ridotto. Altri ancora, le bottiglie, dovranno avere i tappi incorporati ed essere fatte con percentuali crescenti di materiale riciclato (il 25% dal 2025 e il 30% dal 2030).

È entrata in vigore formalmente il 3 luglio 2021, ma molti Paesi hanno tardato a «recepirla», cioè a tradurla nella propria legislazione nazionale. L’Italia lo ha fatto con il decreto legislativo 196, pubblicato lo scorso 30 novembre in Gazzetta ufficiale e attuato 45 giorni dopo l’emanazione.

Nel testo, tuttavia, sono presenti alcune specifiche aggiuntive rispetto alla direttiva originaria, che sembrano limitarne in maniera consistente il raggio d’azione.

Il primo dei punti critici riguarda il concetto stesso di «prodotto di plastica monouso», che per le istituzioni europee è quello non riutilizzabile, composto «in tutto o in parte» da polimeri. Il decreto italiano, invece, aggiunge una postilla alla definizione di plastica, al comma 1 dell’Articolo 3: sono esclusi «materiali quali vernici, inchiostri, adesivi, nonché rivestimenti in plastica aventi un peso inferiore al 10% rispetto al peso totale del prodotto».

La specifica può «salvare» dal divieto diversi oggetti, così come faranno le deroghe previste all’articolo 5, che nella formulazione europea suona categorico: «Gli Stati membri vietano l’immissione sul mercato dei prodotti di plastica monouso elencati nell’allegato B e dei prodotti di plastica oxo-degradabile».

L’allegato in questione dettaglia tutti quegli oggetti che non sarà possibile commerciare, tra cui cotton fioc, posate, piatti e cannucce. Due delle eccezioni previste dalla normativa italiana suscitano perplessità: sono accettati prodotti monouso, purché in plastica biodegradabile e compostabile, «ove non sia possibile l’uso di alternative riutilizzabili a prodotti destinati ad entrare in contatto con alimenti» e «in circostanze che vedano la presenza di elevato numero di persone».

Deroghe di questo tipo non esistono nella norma comunitaria, perché gli studi d’impatto della Commissione hanno già verificato per quali prodotti esista un’alternativa riutilizzabile (quelli dell’allegato B, appunto, da eliminare completamente) e quali invece siano al momento insostituibili (quelli dell’allegato A, di cui si chiede di ridurre il consumo).

Le stesse valutazioni avevano espressamente equiparato alla plastica tradizionale quelle biodegradabili e compostabili, per l’assenza di prove sulla loro effettiva biodegradazione completa in un arco di tempo ragionevole. La scelta era stata molto criticata dal ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani, che ai tempi aveva definito «assurda» la direttiva. Forse per questo, la trasposizione italiana prevede tali eccezioni, insieme ad altre che autorizzano prodotti monouso in plastica biodegradabile «qualora l’impiego sia previsto in circuiti controllati che conferiscono con raccolta differenziata i rifiuti al servizio pubblico» oppure «quando l’impatto ambientale del prodotto riutilizzabile sia peggiore delle alternative biodegradabili e compostabili monouso».

«Così facendo, l’Italia favorisce gli interessi di pochi settori industriali a scapito dell’ambiente e della collettività, perseguendo una finta transizione ecologica», afferma a Linkiesta Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia. A suo giudizio, il campo di applicazione delle eccezioni volutamente vago e l’impossibilità di effettuare controlli capillari rischiano di autorizzare di fatto l’utilizzo generalizzato di prodotti usa-e-getta in plastica biodegradabile.

A questo pericolo si aggiunge quello degli oggetti etichettati come riutilizzabili, ma solo per un numero limitato di volte, segnalato tra gli altri anche da Legambiente. Per Ungherese, un chiaro tentativo di aggirare la norma, neutralizzabile solo con «regole uniformi che non ingannino i consumatori»

Recepimento al ribasso?

Grazie a esenzioni e trovate commerciali, i prodotti monouso vietati potrebbero dunque riuscire a circolare anche nei prossimi mesi (il governo italiano autorizza tra l’altro i commercianti a esaurire le scorte procurate prima del 14 gennaio). Ma anche per quei manufatti di cui andrebbe diminuito il consumo non mancano le criticità.

La direttiva europea chiede infatti agli Stati una «riduzione quantificabile». Il testo italiano delinea «specifici piani di settore di riduzione del consumo», ma senza indicare percentuali né target in numeri assoluti da raggiungere. In questo caso, spiega Giuseppe Ungherese, la mancanza è anche della Commissione: complice la situazione pandemica, l’esecutivo comunitario ha inviato in ritardo le linee guida per fare i calcoli e lascerebbe troppo spazio di manovra ai governi nazionali. «A nostro avviso – dice – sarebbe stato meglio fissare una quota unica di riduzione valida per tutti i Paesi europei. Così invece rischiamo di trovarci con una giungla di percentuali, variabili in ogni singola nazione, che potrebbero indebolire gli effetti positivi del provvedimento».

In generale, sembrerebbe «miope» l’approccio del governo italiano, pur considerando l’entrata in vigore della direttiva un cambiamento importante «per salvare i mari dalla plastica». Il rischio concreto è che la Commissione giudichi il recepimento troppo al ribasso e avvii una procedura d’infrazione nei confronti del nostro Paese.

«È vero che il decreto legislativo italiano presenta molte differenze rispetto alla direttiva europea, ma non dobbiamo dimenticare le polemiche politiche che avevano portato al rinvio di un anno del recepimento», dice a Linkiesta Chiara Gemma, europarlamentare del Movimento 5 Stelle, definendo comunque il provvedimento «un passo avanti enorme» verso un’Italia plastic-free.

La collega di partito Sabrina Pignedoli, anche se entusiasta per la rivoluzione ecologica portata dalla direttiva, fa notare la mancanza dei decreti attuativi alla norma italiana. Che non sembra lo strumento perfetto per la lotta alla plastica usa-e-getta.

·        La transizione ecologica - energetica.

Est modus in rebus. L’insostenibile pesantezza di chi usa a sproposito la “sostenibilità”. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 12 Dicembre 2022

Tutti si affannano a qualificare i propri progetti con la parolina magica del momento. Un termine che ormai vuol dire tutto e niente. Ma si sa, la mode linguistica del momento sacrifica volentieri la comprensibilità

E così è arrivato anche Emmanuel Macron: nella conferenza stampa congiunta del 1° dicembre alla Casa Bianca che ha preceduto il bilaterale con Joe Biden, il presidente francese ha dichiarato che «vogliamo costruire la pace, e una pace sostenibile significa il pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina, ma allo stesso tempo una nuova architettura per garantire una pace sostenibile a lungo termine». Lo vogliamo tutti con lui, ma non è della pace che qui vogliamo parlare.

Sostenibile e sostenibilità sono il mantra del momento, il tributo allo Zeitgeist, la formula magica che legittima ogni pretesa, il passepartout che apre (qualche volta scassina) ogni porta. Soggetti pubblici e privati, aziende, organizzazioni di qualsiasi tipo, tutti si affannano a qualificare i propri progetti, le proprie iniziative, addirittura sé stessi, come sostenibili.

Sostenibile è primariamente qualche cosa che si può sorreggere, sopportare, affermare, prendere su di sé. Ma da qualche tempo e con crescente intensità è anche qualcos’altro. In relazione all’ambiente, il concetto di sostenibilità – per alcuni studiosi già implicito nella costituzione pastorale Gaudium et spes promulgata da Paolo VI il 7 dicembre 1965,  a conclusione del Concilio Vaticano II, dove è detto che “tutti i responsabili […] della organizzazione della vita economica globale” devono essere capaci, tra l’altro, “di prevedere le situazioni future e di assicurare il giusto equilibrio tra i bisogni attuali di consumo, sia individuale che collettivo, e le esigenze di investimenti per la generazione successiva” (GS 70) – venne esplicitato durante la prima conferenza Onu sull’ambiente nel 1972, e chiaramente definito quindici anni dopo nel Rapporto Brundtland (Our Common Future) pubblicato dalla Commissione mondiale sull’ambiente e lo sviluppo (WCED).

Coordinato dalla socialdemocratica norvegese Gro Harlem Brundtland, all’epoca ministro di Stato (ossia premier del suo Paese) nonché presidente del WCED, il documento stabiliva che “lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Uno sviluppo che si può sostenere è uno sviluppo che non altera gli equilibri dell’ecosistema, ma ne garantisce stabilità, capacità di autoregolazione, resistenza e resilienza.

Bene. Ma se dal punto di vista delle scienze ambientali (e di quelle economiche) è facile indicare che cosa corrisponda o non corrisponda ai principi così sanciti, e quindi ciò che è e ciò che non è sostenibile, dal punto di vista dei rapporti internazionali che cosa sarà mai la sostenibilità? Che cosa si intende per “pace sostenibile”? Forse una pace che soddisfi i bisogni (di pace) del presente lasciando alle generazioni future la possibilità di soddisfare i bisogni propri (eventualmente di guerra)? Sarebbe insostenibile.

In realtà nella conferenza stampa alla Casa Bianca il presidente Macron si è espresso in francese e non ha parlato di “paix soutenable”, aggettivo che esiste nel vocabolario transalpino ma con un altro significato (ciò che può essere argomentato o che si può sopportare), bensì – come del resto ha fatto in molte altre occasioni – di “paix durable”. Ora, è vero che se scriviamo su Deepl la parola “sostenibile”, nella colonna della traduzione francese viene fuori “durable”; però “durable” ha come primo intuitivo significato “durevole, duraturo” (la definizione del dizionario Robert è “de nature à durer longtemps” e i sinonimi registrati sono constant, permanent, persistant, stable, profond, enraciné, solide, tenace, vif, vivace, persino, in riferimento a una malattia, chronique): in questo senso ciò che intendeva Macron diventa perfettamente comprensibile, e il dichiarato impegno per la pace perfettamente sostenibile.

Senonché nella versione inglese del suo discorso diramata dalle agenzie la “paix durable” è diventata “sustainable peace”, che gli organi di stampa italiani (e nelle rispettive lingue, immaginiamo, quelli di tutto il mondo) hanno tradotto alla lettera con “sostenibile”. Con il che il campo semantico della “sostenibilità” si estende, arricchendosi di implicazioni ma anche perdendo di univocità e di esatta attinenza alla definizione sancita nel 1987. Una “pace sostenibile” – beninteso, nel “pieno rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina” – non sarà pertanto una pace che soddisfi i requisiti richiesti dal Rapporto Brundtland ma, in senso meno stretto, una pace che soddisfi le diverse parti in causa, che non penalizzi oltre misura nessuno, che stabilisca senza ambiguità regole e punti fermi, che sia sorretta da un impegno anche economico internazionale, che insomma ponga le premesse per essere effettiva e poter durare nel tempo. Cioè che sia durable, come in modo più chiaro e semplice aveva auspicato Macron.

Troppo chiaro e troppo semplice, probabilmente, per una comunicazione affetta da ecolalia compulsiva, che si pasce di tormentoni e frasi fatte e alle mode linguistiche del momento sacrifica volentieri la comprensibilità. E così, accanto al primigenio e paradigmatico “sviluppo sostenibile”, abbiamo ora la “mobilità sostenibile” (preoccupazione di ogni sindaco e assessore ai Trasporti), l’“agricoltura sostenibile” (articolata in diversi settori, per esempio quello dell’“olio di palma sostenibile”), il “benessere equo e sostenibile” (BES, un set di indicatori sviluppato da Istat e Cnel per valutare il benessere di una società dal punto di vista economico, sociale e ambientale) – e fin qui siamo ancora in zona Brundtland. Ma – e qui i contorni della zona si fanno più sfumati – abbiamo pure da qualche giorno, in piazza San Pietro a Roma, il “presepe sostenibile” (directly from Sutrio, Carnia, nessun albero abbattuto per le statuine e la struttura di legno) e sempre a Roma, in piazza Venezia, l’“albero di Natale sostenibile” (“Accendiamo la sostenibilità” è lo slogan, peraltro poco originale, perché da anni sventolato dal comune di Ginosa in Puglia). Abbiamo la “finanza sostenibile” (spiegazioni del caso sul sito della Banca d’Italia), il “risparmio sostenibile” (che ci viene prospettato da Poste Italiane), il “Manifesto per l’editoria sostenibile” (presentato in novembre a Ivrea, capitale del libro 2022, e sottoscrivibile su change.org), il “calcio finanziariamente sostenibile” (cavallo di battaglia della Liga spagnola), il “turismo sostenibile”, la “ristorazione sostenibile”, un discreto numero di “università sostenibili” (che hanno costituito una Rete per “trasformare una precisa scelta politica in un processo trasversale” – qualsiasi cosa voglia dire) e un crescente numero di “città sostenibili”. La lista è lunga e si può allungare a piacere, in ogni campo.

Insomma quanta sostenibilità, troppa sostenibilità. Perché la sostenibilità sarà pure “una scelta di vita ormai imprescindibile”, come si legge sulla rivista ecologista online Greenplanner, ma non è detto che debba essere imprescindibile come scelta linguistica. Ed è vero che in molti casi (non tutti) ha acquistato una pregnanza non altrimenti esprimibile in forma sintetica, ma medèn ágan, come ammoniva il motto delfico, est modus in rebus, ribadiva Orazio: il troppo stroppia, diciamo noi più prosaicamente. Alla fine è proprio la sostenibilità che diventa insostenibile: l’insostenibile pesantezza della sostenibilità.

Francesca Basso per il "Corriere della Sera" l’1 Dicembre 2022.

Addio bustine di zucchero, mini-flaconi di sapone liquido e shampoo negli hotel, imballaggi monouso per frutta e verdura e per il consumo sul posto in bar e ristoranti. Invece potremo continuare ad usare bustine da tè, capsule e cialde di caffè compostabili. La Commissione Ue ieri ha presentato un nuovo regolamento che rivoluzionerà il mondo del packaging puntando sul riuso e il vuoto a rendere più che sul riciclo, e che mira a eliminare gli imballaggi superflui.

L'obiettivo è un taglio del 15% pro-capite per ogni Paese Ue entro il 2040 dei rifiuti di imballaggio rispetto ai livelli del 2018, declinato con percentuali diverse a seconda dei settori. L'obiettivo sarà raggiunto in modo graduale (5% di riduzione rispetto al 2018 entro il 2030 e 10% entro il 2035). Ad esempio entro il 2040, l'80% delle vendite di bevande da asporto dovrà essere servito in imballaggi riutilizzabili o usando i contenitori dei clienti (il 20% entro il 2030).

La proposta prevede anche l'introduzione di sistemi obbligatori di cauzione-rimborso per le bottiglie di plastica e le lattine di alluminio. Inoltre entro il 2030 tutti gli imballaggi dovranno essere riciclabili e dovrà aumentare la quantità di plastica riciclata utilizzata secondo obiettivi vincolanti.

Ancora prima di essere presentato ufficialmente, il regolamento aveva messo sul piede di guerra le industrie europee e italiane del packaging, della ristorazione e dell'agroalimentare. «Nessuno vuole mettere fine alle pratiche di riciclo che funzionano bene o mettere in pericolo gli investimenti sottostanti», ha detto il vicepresidente della Commissione Frans Timmermans durante la conferenza stampa (parlando in italiano).

«So che in Italia moltissimo già è stato fatto sul riciclo - ha aggiunto -, vogliamo ancora di più, non di meno, non c'è competizione tra i due approcci». European, l'associazione che rappresenta più di 70 aziende e associazioni nazionali dell'industria europea degli imballaggi, ha criticato il regolamento che «rischia di andare contro gli obiettivi del Green Deal, riportando indietro le lancette dell'orologio del riciclo».

La viceministra all'Ambiente Vannia Gava lo definisce «un muro ideologico» e sottolinea «l'assenza di aperture al confronto e l'inadeguatezza davanti a situazioni di eccellenza come quella del nostro Paese». Per Tiziana Beghin, capodelegazione del M5S al Parlamento Ue «è la strada giusta». L'eurodeputato Nicola Procaccini, responsabile Ambiente di FdI, promette: «Ci opporremo in tutte le sedi». La proposta sarà esaminata dal Parlamento Ue e dal Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria.

Energia canaglia anche nel ‘62 la politica è...elettrica. Lo sciopero dei lavoratori edili si è concluso con pesantissimi scontri tra manifestanti e forza pubblica. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Settembre 2022.

«Solo dopo la legge sull’Enel la Camera si occuperà dei fatti di Bari» si legge in seconda pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 2 settembre 1962. A infiammare il dibattito pubblico, in particolar modo quello regionale, c’è ancora quanto accaduto a Bari il 24 e 25 agosto di quell’anno. Lo sciopero dei lavoratori edili si è concluso con pesantissimi scontri tra manifestanti e forza pubblica: 216 persone, tra cui moltissimi minorenni, sono state arrestate e scene di violenza si sono verificate nel cuore della città.

«Con il Consiglio dei ministri, convocato ufficialmente per martedì 4, e la riapertura del Parlamento la prossima settimana vedrà la piena ripresa politica», si legge sul quotidiano. «La Camera inizierà i suoi lavori il 5 per dedicarsi al definitivo varo della legge sull’Enel che dovrà essere concluso entro il 2. Mercoledì 3 l’assemblea dedicherà la seduta allo svolgimento delle interrogazioni, tra le quali però non figurano quelle presentate sui recenti disordini a Bari. Il Governo si era rimesso alle decisioni della Presidenza della Camera per la risposta sull’argomento, ma questa ritiene che il giorno della riapertura della Camera non sia il più adatto per un dibattito su una questione come quella degli incidenti di Bari. È quindi molto probabile che le interrogazioni su Bari e sul terremoto vengano in aula nei giorni immediatamente successivi alla conclusione della discussione elettrica».

Il Paese sta attraversando una fase cruciale, che entrerà nella storia dell’Italia repubblicana. Il dibattito parlamentare che porterà, nel dicembre 1962, all’approvazione definitiva della legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica e di istituzione dell’Ente Nazionale per l’Energia Elettrica (Enel), era entrato nel vivo già alla fine di luglio. Si tratta di un provvedimento di eccezionale portata, che avrà un profondo impatto su uno dei settori trainanti dell’economia nazionale, con quasi 1.300 aziende interessate dalle pratiche di cessione degli impianti: il progetto di legge è stato predisposto dal governo e sottoscritto dal presidente del Consiglio Amintore Fanfani e dai ministri Colombo, La Malfa e Tremelloni. L’esito positivo di questa iniziativa segnerà, inoltre, il punto di avvio dell’esperienza politica del centrosinistra, frutto di un faticoso lavoro di mediazione tra Democrazia cristiana e Partito socialista, e di una lunga stagione riformatrice, che durerà ancora per alcuni anni. Intanto, dopo diversi giorni di sciopero e il rifiuto degli imprenditori di ascoltare le richieste dei lavoratori, un accordo tra industriali ed edili è stato finalmente raggiunto. 

Perché ci fu l'austerity, le conseguenze della crisi petrolifera nel 1973 in Italia. Il Tempo il 03 settembre 2022

Ci fu chi tirò fuori dalla cantina la bicicletta, chi il tandem e i pattini, qualcuno addirittura la carrozzella e il cavallo. Dal 2 dicembre 1973 un'Italia abituata al boom economico restò appiedata. Se ne è parlato spesso in questi giorni, dopo l'aumento dei costi dell'energia a causa di guerra in Ucraina e Covid e qualche misura già sperimentata negli anni '70 potrebbe accompagnare il nostro prossimo inverno.

Dai primi di dicembre 1973 e fino al 2 giugno del 1974, l'Italia piombò nel buio e cominciò l'austerity. Le domeniche senz'auto, le luci delle città oscurate, i locali chiusi alle 23, i neon di bar e cinema spenti: tutto il Paese dopo gli anni del riscatto economico del Dopoguerra si risvegliò più povero. Fu uno choc, le misure adottate dal governo cambiarono la vita delle famiglie, anticipando gli orari della cena serale e del Tg1, eliminando le gite fuori porta della domenica, anticipando gli orari di chiusura di uffici e negozi. La crisi energetica era cominciata da qualche anno, ma la svolta decisiva si ebbe nell'ottobre del 1974.

Dopo gli anni del boom e l'aumento del fabbisogno energetico, la guerra dello Yom Kippur, che vide Egitto e Siria attaccare Israele, portò prima a un rincaro del greggio da parte dell'Opec verso gli stati che appoggiavano Tel Aviv, poi a un vero e proprio embargo. Il prezzo del petrolio schizzò da 3 a 12 dollari al barile e tutti i paesi occidentali, a cominciare dall'Olanda, presero misure di contenimento dell'utilizzo dell'energia. Il 23 novembre del '73 il governo Rumor varò il decreto austerity, vietando auto e moto a tutti gli italiani nei giorni festivi e nelle domeniche, ma anche le barche e gli aerei privati.

«Stiamo entrando in un inverno difficile» spiegò Mariano Rumor alla televisione. Nessuno fu escluso, rimasero appiedati anche i ministri e il presidente della Repubblica, tanto che Giovanni Leone, per andare ad assistere alla cerimonia dell'Immacolata Concezione in piazza di Spagna, recuperò dalle rimesse del Quirinale una carrozza a cavalli. Strade e autostrade nei weekend si svuotarono. Potevano circolare solo i mezzi di sicurezza e di soccorso, i medici e i parroci, per gli altri la multa era di un milione di lire. Per risparmiare benzina, si livellarono anche i limiti di velocità: in città il limite restò a 50 all'ora, ma nelle strade extraurbane scese a 100 e nelle autostrade a 120. Il risultato fu che 11 milioni di biciclette invasero vie e piazze del Paese, insieme a tandem, carrozzelle e pattini. I bar e i ristoranti dovevano chiudere a mezzanotte, mentre i locali pubblici, cinema, teatri e locali da ballo, dovevano spegnere le luci alle 23: anche la notte di fine d'anno si trascorse in casa e venne consigliato di limitare anche le luminarie natalizie. Le città ridussero l'illuminazione pubblica del 40%, era possibile accendere solo un lampione su due nella notte. Gli uffici pubblici anticiparono la chiusura alle 17,30 ma soprattutto i negozi dovettero chiudere le serrande alle 19. Anche la Rai cambiò l'orario del Tg1, se prima andava in onda alle 20,30, si spostò alle 20, l'orario mantenuto fino ad oggi.

La Finlandia va veloce: il traguardo emissioni zero con vent'anni d’anticipo. Jaime D'Alessandro su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

Dalle auto alle foreste, la sfida di Helsinki: "Saremo i primi a raggiungere l'obiettivo entro il 2035"

Ad Helsinki, capitale della Finlandia, l'estate somiglia al nostro autunno: ogni tanto bisogna aprire l'ombrello e, se si cammina lungo il porto, chiudere la giacca per ripararsi dal vento. Gli abitanti, circa 600mila fra gli oltre cinque milioni di finlandesi, ci tengono però a sottolineare una cosa: "Anche noi il riscaldamento globale lo stiamo avvertendo". Parola della commessa di un banco di pesce nel vecchio mercato coperto, il Vanha Kauppahalli, che sorge davanti le banchine dove attraccano i traghetti che traversano il Mar Baltico o in arrivo da Tallin.

La Norvegia guida la corsa all'auto elettrica in Europa, Italia ancora indietro. Marco Cimminella La Repubblica il 28 luglio 2022. 

Tra redditi bassi e stazioni di ricarica, i problemi che ostacolano la transizione secondo Oxford Economics

La transizione energetica è una corsa a più velocità, come mostrano i dati sull'adozione dei veicoli elettrici in Europa. La sostituzione dei motori endotermici infatti è fondamentale per ridurre l'inquinamento nelle città, visto che nel 2019 il valore delle emissioni di CO2 equivalente generato dal settore dei trasporti era superiore a un quarto del totale delle emissioni di Ue e Regno Unito. Tuttavia, la diffusione di auto ibride o a batteria varia molto sul Continente. Da un lato ci sono Paesi che puntano molto su questo modello di mobilità, come alcuni Stati dell'Europa del Nord: in particolare, la Norvegia dove quasi il 75% di tutte le nuove auto vendute nel 2020 erano elettriche o plug-in. Anche la Svezia, la Svizzera, l'Olanda e la Finlandia hanno registrato percentuali significative per le immatricolazioni di motori green. Dall'altro lato della classifica, invece, ci sono Spagna, Italia, Romania, Bulgaria, Repubblica Ceca e Polonia, dove le vendite di auto elettriche rappresentano ancora una quota percentuale sul totale uguale o inferiore al 4,5%.

A dirlo è un report di Oxford Econonomics, che illustra alcuni fattori che hanno contribuito a creare questo divario significativo. Una delle ragioni sono i costi. Gli acquisti di auto con alimentazione elettrica tendono a essere minori in Paesi che si caratterizzano per un reddito per persona più basso. Come mostra il grafico, questo è il caso della Spagna, ma anche della Repubblica Ceca e della Polonia; al contrario, in Svezia, Svizzera e Olanda le maggiori vendite di macchine elettriche o ibride sono associate con la disponibilità di redditi più alti. 

Oxford Economics 

Questa correlazione da sola non basta a spiegare il differente grado di penetrazione di questi veicoli nei vari mercati europei. Infatti, il Portogallo riporta una quota percentuale di auto elettriche vendute simile a quella di Germania e Danimarca, pur registrando valori di reddito disponibile più bassi; e l'Italia si caratterizza per livelli di reddito più alti rispetto al Portogallo, ma con un più basso valore percentuale di immatricolazioni di auto elettriche.

Ecco perchè bisogna tenere a mente anche altri fattori. In primo luogo, le misure introdotte dai governi per favorire la sostituzione dei motori a benzina e diesel, che hanno svolto un ruolo importante in Norvegia. Secondariamente, la presenza di una rete capillare di punti di ricarica. La mappa realizzata da Oxford Economics mostra che nel 2020 la Norvegia aveva il numero più alto di stazioni di ricarica per residente sul Continente. Oslo aveva più di 43 punti per 10.000 residenti e Bergen 37.

Oxford Economics 

"In generale, il numero di punti di ricarica è più alto in luoghi densamente popolati, e quindi nelle città", spiegano gli autori della ricerca, sottolineando quindi che nelle aree rurali è più difficile raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione promuovendo la diffusione di veicoli elettrici. Le aree blu della mappa mostrano una presenza diffusa di stazioni di ricarica anche in Olanda, Svezia e Regno Unito, mentre i Paesi dell'Europa dell'Est (colorati di rosso) sono ancora indietro. Anche grandi aree della Francia, della Spagna e dell'Italia hanno pochi punti di ricarica secondo i dati del 2020, anche se, da notare, c'è una forte concentrazione di stazioni nella parte settentrionale della Penisola, che si caratterizza per redditi più alti rispetto al Sud del Paese.

L'inquinamento prodotto dalle auto

Una maggiore diffusione di veicoli elettrici e ibridi rappresenta un'opportunità per ridurre l'impatto sull'ambiente prodotto dal settore dei trasporti. Mentre le emissioni totali di CO2 sono scese negli ultimi dieci anni dai 4,4 Gt del 2010 ai 3.8 Gt del 2019, le emissioni relative ai trasporti sono cresciute nello stesso periodo. In questo ambito, il traffico su strada e le auto private sono i principali responsabili. Secondo l'Eurostat, le emissioni prodotte dalle automobili valgono circa il 50-65% delle emissioni totali del settore dei trasporti in molti Paesi europei. Anche i camion per i carichi pesanti e gli autobus inquinano molto, visto che insieme generano un quarto delle emissioni del comparto dei trasporti sul Continente.

Come mostra la tabella in basso, tra le città in Europa che vantano i valori più bassi di emissioni su strada per residente ci sono Riga, Copenhagen e Oslo, ma anche, Bucarest, Zagreb e Parigi. La città che invece registra i valori peggiori è Lussemburgo, anche se, fanno notare gli esperti di Oxford Economics, i dati sono influenzati dall'alto numero di non residenti che si recano nella capitale del Granducato per lavoro. In ogni caso, tra gli ultimi posti in classifica ci sono città di diverse grandi economie europee, come le francesi Metz, Strasburgo e Tolosa, ma anche le britanniche Leeds e Glasgow.

Barriere psicologiche. Perché è così difficile agire contro la crisi climatica? Chiara Beretta su L'Inkiesta il 9 Agosto 2022

La psicologia ci dice che la resistenza e l’inazione nei confronti del “climate change” hanno a che fare (anche) con alcuni meccanismi del nostro cervello. Aggirarli, però, è possibile. In che modo? Facendo leva sulle emozioni morali e instaurando una nuova etica ambientale

La maggior parte di noi sa che la crisi climatica è un problema urgente, e ne conosce le cause e le conseguenze. Eppure, non sono ancora abbastanza coloro che hanno scelto di adottare, o di farlo al massimo delle proprie possibilità, dei comportamenti davvero utili a contrastare l’emergenza. La spiegazione, ci dice la psicologia, è da cercare (anche) dentro di noi, in quelle barriere psicologiche che ci impediscono di agire. Robert Gifford, professore di Psicologia e Studi ambientali all’Università di Victoria, in un suo studio del 2011 le ha chiamate «i draghi dell’inazione». 

A tal proposito, ci sono almeno tre premesse necessarie. La prima: queste barriere psicologiche non sono una faccenda esclusiva dei negazionisti climatici. Avendo a che fare con il funzionamento del cervello, riguardano tutti noi, chi più e chi meno. 

La seconda: non sono un alibi, una scusa per l’autoassoluzione. Al contrario: conoscerle può aiutarci a superarle. Anche Gifford suggeriva che gli psicologi dovrebbero collaborare con scienziati, tecnici e responsabili politici proprio a questo scopo. 

La terza, la più importante: non dobbiamo immaginare queste barriere come dei monoliti inscalfibili al di fuori di ogni contesto. «C’è un’interazione molto forte tra le modalità di funzionamento della mente umana, quelle che stiamo chiamando barriere psicologiche, e il modo in cui la società complessivamente gestisce la problematica della crisi climatica. Le dimensioni sociali, economiche e politiche sono assolutamente fondamentali e sono intersecate al modo in cui le persone percepiscono il tema», ci spiega Bruno Mazzara, professore di Psicologia sociale all’Università La Sapienza di Roma. 

Deal with it: il cervello antico e i limiti del sistema cognitivo

Quando si parla di crisi climatica, la prima barriera psicologica è la difficile percezione dei rischi reali. «Il nostro cervello è il prodotto di alcuni milioni di anni di evoluzione e ha raggiunto il picco massimo nel Paleolitico: da allora sono passati solo diecimila anni, che non sono nulla in termini evolutivi. Ci troviamo quindi in un certo senso con un cervello del Paleolitico in un mondo che è distante anni luce», spiega Mazzara. «Siamo programmati per percepire e reagire a rischi vicini, immediati e improvvisi. Il cambiamento climatico è invece qualcosa di graduale e, soprattutto, di lontano nel tempo e nello spazio»

Questa distanza percepita in realtà è stata decisamente accorciata dal crollo sulla Marmolada e dalla crisi idrica. «In un seminario che ho tenuto recentemente, ho iniziato mostrando una foto del Po in secca con la scritta “Finalmente la siccità in Italia”», prosegue Mazzara. «Finché vediamo il deserto africano o il ghiacciaio che si scioglie in Groenlandia, abbiamo la percezione che siano problemi lontani. Se invece le cose accadono qui e ora, l’effetto di percezione del rischio è potenziato». 

Un’altra barriera psicologica riguarda l’incapacità di «concettualizzare relazioni di tipo sistemico»: è uno dei limiti del nostro sistema cognitivo. Il punto è che funzioniamo benissimo quando abbiamo a che fare con relazioni di causa-effetto, mentre facciamo fatica con quelle più articolate e interconnesse, dove ogni cambiamento in un certo ambito si riflette in maniera molto complessa e spesso imprevedibile in altri. 

Prosegue Mazzara: «La natura è un organismo sistemico estremamente complesso e noi non siamo attrezzati per capirlo. I limiti del sistema cognitivo ci portano invece a semplificare, a ragionare per stereotipi e categorizzazioni.  Prendiamo il mondo a pezzi». Per questo motivo la crisi ambientale viene presentata e pensata come se ci fossero tanti problemi indipendenti: l’acqua che scarseggia, i rifiuti, l’inquinamento del mare, i ghiacciai che si sciolgono, l’acidificazione degli oceani, la perdita di biodiversità, il salto di specie.

In realtà è sempre lo stesso identico problema e la causa è sempre l’attività umana

Cambiare le nostre attività (le abitudini, i comportamenti, gli stili alimentari…) non è facile, però, nemmeno quando si desidera farlo o si è consapevoli della necessità. «Pensiamo di essere dei decisori razionali, ma in realtà agiamo molto spesso sulla base di reazioni automatiche, abitudini, inerzia.Abbiamo difficoltà a intraprendere azioni nuove», dice Mazzara. 

Il seguitissimo canale educativo e di divulgazione scientifico-umanistica Kurzgesagt lo spiega immaginando il cervello come una giungla: decidere di fare qualcosa, cioè di muoversi attraverso questa giungla, richiede molte energie. Ma le azioni e i comportamenti ripetuti nel tempo diventano tracce, poi sentieri, poi strade asfaltate. Automatismi, abitudini. A quel punto percorrerle è molto confortevole e facile, mentre cambiare – gettarsi di nuovo nel fitto della giungla per aprire una traccia diversa e continuare a ripeterla per evitare che la vegetazione invada di nuovo il sentiero – costa enorme fatica. 

Questo discorso vale per il buon proposito di andare in palestra due volte a settimana, figuriamoci per quelle abitudini e inerzie che si accomodano alla perfezione nel nostro stile di vita cosiddetto moderno o occidentale, fortemente ancorato all’idea novecentesca di consumo come sinonimo di prosperità e felicità. Usare la macchina anche per brevi tratti di strada, ad esempio. Mangiare carne ogni giorno, o quasi. Acquistare costantemente nuovi prodotti per stare al passo con le mode, per status symbol, per il pensiero comune che non valga la pena riparare qualcosa se posso averne una versione nuova a un costo (finale, ma non ambientale) ragionevole.

Abbiamo bisogno di un’etica ambientale

Poi ci sono le emozioni: anche loro lavorano profondamente alla base delle nostre azioni. Percepire la paura ci permette di reagire a un rischio immediato, «ma se è eccessiva, rimaniamo paralizzati», spiega Mazzara. «Questa paralisi, nel caso della crisi climatica, diventa inazione: “Tanto non ci posso fare niente”». Sempre a proposito di paura, tra l’altro, un altro problema è che quando si presentano rischi che percepiamo come più gravi e vicini (la pandemia da coronavirus, la guerra in Ucraina, la crisi delle materie prime…), non abbiamo più “spazio mentale” per occuparci di altre minacce. 

La paralisi dell’azione può altrimenti essere una conseguenza del rifiuto del senso di colpa: «Se mi viene detto che quello che sta accadendo è colpa mia – perché consumo troppa acqua, perché uso troppo la macchina, perché prendo troppi aerei – mi sento colpevole e posso chiudere la mente alle informazioni di questo tipo, andarne a cercare altre. Un altro tema psicologico importante è infatti quello della dissonanza cognitiva: non posso tollerare psicologicamente di essere consapevole della crisi ambientale ma di non fare ciò che dovrei a riguardo. Quindi, delle due una: o mi convinco che la crisi ambientale non c’è oppure cambio il mio comportamento. Se non posso o non voglio farlo, allora fingo che il problema non esista».

Quali emozioni potrebbero invece stimolare l’azione? «Un tema su cui stiamo lavorando sono le cosiddette emozioni morali, cioè quelle emozioni che fanno riferimento a una dimensione etica universale e caratteristica dell’essere umano nella sua specifica natura di essere sociale. In nome dell’etica gli esseri umani hanno sempre fatto, nel bene e nel male, cose grandissime», replica Mazzara. 

Dalle nostre straordinarie capacità di fare e pensare insieme agli altri deriva un set di emozioni sociali che hanno una dimensione etica e motivazionale, anche legata al senso del dovere nei confronti della collettività. Sono quelle emozioni che ci portano a pensare “Non posso farlo, perché non è giusto” o che, come nella cosiddetta etica intergenerazionale, alimentano l’idea che dobbiamo qualcosa a chi verrà dopo di noi. 

Ecco, quindi, quale potrebbe essere la leva per vincere le inerzie, le barriere e le resistenze: agire individualmente e collettivamente sulla spinta di un’etica ambientale, pensando che abbiamo il dovere di contrastare la crisi climatica per noi stessi, per gli altri, per il pianeta, per chi non è ancora nato. 

Esiste oggi quest’etica ambientale, è diffusa? Non esattamente. «Dal nostro recentissimo passato abbiamo ereditato una specifica immagine del nostro rapporto con la natura, ovvero l’idea di potenza e superiorità dell’essere umano», prosegue Mazzara. 

«Questa idea è, a mio avviso, il fondamento del problema. Se noi capissimo che non siamo noi e la natura, ma che noi siamo la natura, allora vedremmo che i danni ad essa sono danni a noi stessi. Occorre una vera e propria rivoluzione culturale e concettuale che parta proprio da questa idea: non siamo in opposizione alla natura, non dobbiamo domarla, ma dobbiamo e possiamo conoscerne e rispettarne le leggi».

Franco Battaglia per “La Verità” il 9 agosto 2022.

Steven Koonin è quel che la maggior parte di noi chiamerebbe enfant prodige: aveva 16 anni quando, completate le superiori, faceva ingresso all'università, ove conseguì il dottorato in fisica teorica in soli tre anni; e ne aveva 24 quando, da professore assistente di fisica teorica al California Institute of Technology (Caltech) - diventava membro di facoltà, uno dei più giovani che mai ci siano stati in quella università che ha regalato 46 premi Nobel all'umanità. 

Dopo 20 anni, Koonin ne diventava rettore. Chissà, il professore deve essere vissuto in un tempo tutto suo, relativisticamente dilatato. 

Membro dell'Accademia nazionale delle scienze americana, Koonin ha servito il proprio paese come viceministro per l'Energia del presidente Barack Obama, quando il ministro era il premio Nobel Steven Chu. Oggi è professore alla New York University: «Sono tornato a svolgere onesto lavoro professionale», mi dice, e avverto nelle sue parole, una sensazione di sollievo. 

Professore, qual era la sua principale responsabilità al ministero dell'Energia?

«Ero una sorta di capo degli scienziati. Possedendo esperienza in tutte e tre le principali aree del ministero - ricerca di base, ricerca energetica, e sicurezza nucleare - ero in grado di porre le domande giuste alle persone coinvolte nei programmi di governo e, a volte, anche allo stesso ministro. Più precisamente, ogni mio sforzo era dedicato a decidere su quali tecnologie energetiche il governo avrebbe dovuto investire e perché». 

Al Gore era solito affermare che, in proposito di clima, «science is settled», cioè «la scienza è definitivamente risolta», intendendo con ciò che vi sarebbe definitiva certezza che è l'uomo il responsabile del clima attuale.

«A scuola impariamo che la scienza è una raccolta di certezze, ma in realtà essa è un processo per quantificare le incertezze e diminuirle. Alcune cose le capiamo molto bene (per esempio, una mela che cade da un albero), ma di altre abbiamo solo una comprensione approssimativa e sfocata (ad esempio il moto turbolento dell'acqua). 

Del clima comprendiamo bene alcune grossolane caratteristiche, ma ci stiamo ancora sforzando di comprendere come evolveranno nel tempo certe piccolissime influenze umane. Possiamo dire che le parti della scienza del clima che interessano la politica sono ancora tutte ben lontano dall'essere definitivamente risolte».

In effetti, lei ha recentemente pubblicato un libro dal titolo Unsettled. Lo ha così dedicato: «Ai miei molti maestri che mi hanno insegnato l'importanza dell'integrità scientifica». Vuol chiarire la dedica?

«Quando io vi entravo come studente, al dipartimento di fisica del Caltech era professore il premio Nobel Richard Feynman. Era egli il perfetto modello di integrità scientifica, cioè dello scienziato brutalmente onesto con sé stesso, sia sulle proprie teorie che sui risultati dei propri esperimenti. Io ho sempre fatto ogni sforzo per imitare quel modello. 

Poi, più avanti nella carriera, ho appreso un differente tipo d'integrità scientifica, quando fornisci consulenza a chi deve prendere decisioni, o nel settore privato o ai politici. Il tuo ruolo, in quel caso, non è prendere la decisione, la quale richiede spesso considerazioni non scientifiche. Invece il tuo ruolo è far presente, con la massima accuratezza e trasparenza possibile, e senza alcun pregiudizio, tutte le possibili opzioni. 

Io avevo avuto il grande onore di lavorare con alcuni scienziati più anziani che, in proposito, erano dei maestri come Hans Bethe (premio Nobel per la fisica, ndr) e Dick Garwin (il progettista della prima bomba atomica, ndr). Sfortunatamente quell'etica non è oggi universalmente presente tra gli scienziati del clima». 

È la CO2 d'origine antropica ciò che determina il clima odierno?

«I gas serra emessi dalle attività umane sono solo uno dei fattori che possono influenzare il clima. Sono altri i fattori che lo determinano: l'attività solare e le correnti oceaniche, per esempio. E che le cosse stiano così lo vediamo dal periodo di rinfrescamento globale che occorse negli anni 1940-80, a dispetto del fatto che fossero, quelli, anni di boom di emissioni». 

Già. E inoltre è dal 1690, cioè dal minimo della Piccola era glaciale, che il pianeta si riscalda. Riesce a dare una valutazione quantitativa del contributo antropico rispetto a quello naturale?

«Non abbiamo ancora alcuna spiegazione soddisfacente su ciò che ha causato né la Piccola era glaciale (un paio di secoli a cavallo del 1700), né il successivo riscaldamento.

Sicuramente il fatto che esso iniziò e perdurò per tanti anni quando le attività umane erano assenti dà molto da pensare. Per la valutazione quantitativa che lei chiede, dovremo prima aver compreso tutti gli aspetti della variabilità naturale». 

E una valutazione qualitativa?

«A parte il riscaldamento, non v' è alcuna ragione per ritenere a priori che l'influenza umana peggiori o migliori le cose. Nel corso degli ultimi 70 anni quando questa influenza potrebbe avere un valore quantitativo importante, abbiamo assistito a cambiamenti climatici sia positivi che negativi in varie aree del globo. Per esempio, non si vede alcuna tendenza di aumento di tempeste alle medie latitudini o aumento di cicloni tropicali, mentre v' è prova di aumenti di precipitazioni sulla terraferma. Ma anche su questo v' è grande incertezza, perché i dati sono contenuti nel tempo e con scarsa copertura spaziale». 

Lei è un grande esperto di modelli matematici. Cosa ci dice di quelli climatici?

«Le influenze umane sul clima sono piccolissime, e contribuiscono per circa lo 0,5% ai flussi d'energia del sistema. Ma il clima è molto sensibile e non è implausibile pensare che possano alzare la temperatura di qualche grado. Tuttavia ci sono molti fattori confondenti in questo tentativo di isolare il contributo antropico da quello naturale. 

Uno è il fatto che, a causa dei lenti cambiamenti nelle correnti oceaniche, la scala dei tempi in gioco è secolare, mentre per ora abbiamo disponibili solo pochi decenni di influenza umana. Un altro fattore sono gli aerosol d'origine antropica, che in parte annullano l'effetto del riscaldamento, ma la loro quantità è poco conosciuta. 

Un terzo fattore sono vari feedback mal quantificati (per esempio il ruolo delle nubi o il potere riflettente dei ghiacci). I modelli climatici fanno del loro meglio, ma usano griglie di calcolo di 100x100 km, sono pertanto ancora grossolani, e non sono adatti per trarre da essi conseguenze sul clima locale». 

Qui in Europa i politici della Ue vorrebbero azzerare le emissioni entro il 2050. È un proposito consigliabile e fattibile?

«La Ue rappresenta meno del 10% delle emissioni globali. Anche se essa azzerasse le emissioni oggi stesso, quelle del mondo in via di sviluppo vanificherebbero quello sforzo in meno di 10 anni.

Probabilmente i politici da voi pensano ottimisticamente che il resto del mondo li seguirà, ma il fatto è che per quei paesi emergenti i combustibili fossili rappresentano il modo più economico ed affidabile per soddisfare il proprio fabbisogno d'energia. Quanto alla fattibilità, la presente crisi ci ha dimostrato come i costi e l'affidabilità dell'energia vengono prima di quanto essa sia "pulita", qualunque cosa ciò significhi. 

L'energia eolica e solare non soddisfano alcuno dei detti requisiti di ragionevole costo e soddisfacente affidabilità. Penso che il nucleare sia indispensabile se si vuole perseguire quegli obiettivi che, in ogni caso, non arriveranno prima della fine del secolo, sempreché l'economia non crolli del tutto». 

In realtà, a dispetto degli sforzi nel mondo su eolico e solare negli ultimi 20 anni, il contributo dei combustibili fossili è oggi sostanzialmente immutato rispetto a 20 anni fa. Come lo spiega?

«Per la loro natura intermittente e inaffidabile, eolico e solare non potranno essere, almeno per molti decenni a venire, alternativi, ma solo aggiuntivi ai sistemi di produzione convenzionale (nucleare o combustibili fossili)».

Nel suo libro lei prefigura l'istituzione di una sorta di comitato di avvocati del diavolo (lei li chiama «Squadra rossa») per far le pulci alle affermazioni dell'Ipcc. È consapevole dell'esistenza di un N-Ipcc (dove la «N» sta per «non-governativo») che potrebbe essere questa sua «Squadra rossa»? Questo comitato è pervenuto a conclusioni opposte a quelle dell'Ipcc, e cioè che «la Natura, non l'attività dell'uomo, governa il clima».

«Sì, l'N-Ipcc è un buon inizio, ma è un comitato nato spontaneamente da un gruppo di scienziati volenterosi, e manca di una sorta di "benedizione" ufficiale. In ogni caso, sì, una "Squadra rossa" col compito di avvocato del diavolo mi sembra necessaria. Dopotutto, vi sono trilioni di dollari in gioco, e avere una seconda opinione è il minimo che dovremmo auspicare».

L'Europarlamento sconfessa la sinistra: gas e nucleare tra le risorse green. "Vince il buon senso". Pier Francesco Borgia Il Giornale il 7 luglio 2022.

Il voto contrario alla risoluzione di rigetto della tassonomia, che prevede l'utilizzo anche di gas naturale ed energia nucleare, ha ottenuto la maggioranza nell'aula del Parlamento europeo

È stata subito definita la vittoria del buonsenso. Il voto contrario alla risoluzione di rigetto della tassonomia, che prevede l'utilizzo anche di gas naturale ed energia nucleare, ha ottenuto la maggioranza nell'aula del Parlamento europeo. Contro l'esclusione di gas e nucleare hanno votato in 328 mentre i sì si sono fermati a 278 (33 gli astenuti). A Strasburgo vince, insomma, la linea portata avanti dal Partito popolare europeo.

Questa tassonomia permette all'Unione europea di conferire la cosiddetta «patente verde» alle attività economiche sostenibili. A questo lungo elenco si è arrivati grazie allo studio di una commissione di esperti chiamati a individuare gli standard per gli investimenti su ambiente e sociale.

Nel testo presentato a Bruxelles ci sono anche il nucleare e il gas naturale, che viene identificato come un combustibile di transizione e a condizioni rigorose, che in futuro dovrebbero poter essere rafforzate per centrare l'obiettivo delle emissioni zero al 2050. Per quanto riguarda le centrali nucleari, dovranno essere di ultima generazioni e dovrebbero ricevere i permessi di costruzione entro il 2045. Dopo il voto di Strasburgo, ora si aspetta il via libera del Consiglio europeo. Se entro l'11 luglio non si opporrà, la tassonomia entrerà in vigore dal primo gennaio del prossimo anno.

Una vittoria del buonsenso l'hanno definita in molti. La stessa presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola, spiega che due sono gli obiettivi principali per la Ue: «essere all'altezza degli obiettivi della transizione ecologica e liberarsi dal peso di una forte dipendenza energetica dalla Russia di Putin». Il forzista Antonio Tajani parla più concretamente di vittoria. E sottolinea: «È l'affermazione del buonsenso». È anche vero, come sottolineavano ieri gli stessi eurodeputati della Lega a Strasburgo, che questo voto ha visto spaccarsi la cosiddetta maggioranza Ursula. E infatti anche nel piccolo specchio della «quota italiana» questa spaccatura viene resa plasticamente dal fatto che Pd e Forza Italia hanno votato in maniera differente.

Da notare che si sono schierati a favore dell'obiezione i cinque deputati dei Cinquestelle, ma si sono astenute, in un voto politicamente rilevante, le «dimaiane» Chiara Gemma e Daniela Rondinelli (tutti siedono ancora tra i Non Iscritti).

A favore dell'obiezione la delegazione del Partito democratico. Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia hanno, invece, votato contro l'obiezione, come i liberali Sandro Gozi (eletto in Francia) e Nicola Danti.

Compatti a favore dell'obiezione i Verdi, inclusi gli eurodeputati italiani Eleonora Evi, Ignazio Corrao e Piernicola Pedicini. A favore della proposta della Commissione ha giocato il voto di gran parte del Ppe, di buona parte del gruppo Id, dell'Ecr compatto, di una minoranza dell'S&D e di buona parte dei Liberali di Renew Europe.

«Siamo molto soddisfatti di questo risultato - commenta ancora Tajani - che prevede la possibilità di finanziare gas e nucleare come fonti di energia pulite. Ha vinto la linea di Forza Italia e del Partito popolare europeo. È un peccato che la sinistra abbia deciso di non sostenere il progresso, inseguendo un ambientalismo ideologico che rischia di provocare un grave danno alla nostra economia». «Una scelta positiva e responsabile - aggiunge il ministro per la Coesione territoriale, Mara Carfagna - che consente ai Paesi europei di riattivare e sostenere la produzione locale di gas, caposaldo dell'autonomia da Mosca. E tiene aperte le porte al nucleare e alla promettente ricerca sulle centrali di quarta generazione».

Della bocciatura dell'approccio ideologico parla anche Raffaele Fitto Raffaele Fitto (Ecr- FdI): «Respinta un'obiezione che non era utile né sul piano del riscaldamento globale, né su quello della sostenibilità economica». Sullo stesso registro il commento della deputata azzurra Erica Mazzetti. «Un colpo all'ideologia ambientalista, che in questo momento avrebbe fatto il gioco della Russia, e un premio all'impegno di Forza Italia in sede europea, sempre improntato a favore di imprese e cittadini».

La decisione del Parlamento Europeo. Stop alla vendita di auto diesel e benzina dal 2035: cosa succede ora. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Giugno 2022.

Il Parlamento Europeo ha dato il via libera alla proposta della Commissione per imporre alle case automobilistiche lo stop totale alla vendita di vetture nuove a diesel o benzina, a partire dal 2035. Inizia così l’iter per arrivare a nuove regole che rivedono gli standard di prestazione delle emissioni Co2 di auto e furgoni che fanno parte del pacchetto “Fit for 55” che ha l’obiettivo di portare al taglio delle emissioni nell’Ue del 55% entro il 2030 rispetto al 1990, per raggiungere la neutralità climatica al 2050.

Il Parlamento Ue si è invece spaccato su due punti: la riforma del sistema di scambio di quote di emissione (Ets), che torna in commissione ambiente, e sulla carbon tax. Il sistema Ets rappresenta una delle principali misure dell’Ue per la riduzione delle emissioni di gas a effetto serra nei settori industriali a maggior impatto sui cambiamenti climatici. La riforma prevede di estenderlo al carburante per il trasporto commerciale su strada e per il riscaldamento degli edifici, e la fine delle quote gratuite entro una certa data. È invece stata approvata l’estensione del sistema Ets all’aviazione. Così come l’obiettivo di ridurre le emissioni di gas serra del 57% entro il 2030.

Il respingimento del testo sulla riforma del sistema Ets ha comportato la sospensione del voto sulla “carbon tax”, cioè il meccanismo di aggiustamento del carbonio alla frontiera (Cbam) per combattere la concorrenza di chi produce all’estero con standard ambientali inferiori, e sul Fondo sociale per il clima che dipendono entrambi in parte dal sistema Ets. Il pacchetto “Fit for 55” ha implicazioni importanti sul tessuto industriale dei diversi Paesi Ue ed è questo che ha generato la spaccatura all’interno dell’Europarlamento. Divisioni nella “maggioranza Ursula”, popolari, socialisti e liberali che hanno sostenuto Ursula von der Leyen al momento del suo insediamento. Ma anche tra i socialisti e nel Pd e tra i gruppi che in Italia sono al governo.

Sul dossier relativo agli standard di prestazione delle emissioni di CO2 per auto e furgoni nuovi, l’emendamento del Ppe che puntava ad abbassare il taglio delle emissioni delle auto dal 100% al 90% dal 2035 per lasciare una finestra aperta a tecnologie alternative all’elettrico non è passato. Gli eurodeputati hanno sostenuto la proposta della Commissione di raggiungere la mobilità su strada a emissioni zero entro il 2035. Un risultato che preoccupa Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia: temono l’impatto sull’industria automobilistica italiana. Mentre per Pd e M5S si tratta di una tappa storica nella transizione verde. Tirano invece un sospiro di sollievo i produttori di auto di lusso.

La deroga per i piccoli produttori di auto (da mille a 10 mila vetture l’anno) e furgoni (da mille a 22 mila all’anno) si è allungata dal 2030 previsto dalla proposta della Commissione al 2036 contenuto nell’emendamento “salva Motor Valley”. Il Consiglio Ue non ha ancora definito la sua posizione negoziale sulle emissioni delle auto. Gli Stati membri dovrebbero trovare l’intesa nel consiglio Ambiente del 28 giugno. A quel punto partirà il cosiddetto “trilogo” dal quale emergerà l’accordo sulle regole Ue per i nuovi standard di prestazione delle emissioni per auto e furgoni nuovi.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Auto elettrica? Queste le più vendute in Italia nei primi sei mesi del 2022. Federico Pesce su La Repubblica il 5 luglio 2022.  

La Top Ten dei modelli che piacciono di più

Silenziose, pulite, parsimoniose: le auto elettriche ormai dominano la scena del mercato automobilistico, soprattutto da quando l’Ue ha posto il divieto, a partire dal 2035, di produrre vetture a benzina o a gasolio. Dal canto loro i costruttori già da tempo hanno avviato l’elettrificazione della loro gamma, convinti che l’epoca del motore termico stia volgendo al termine. Quella che segue è la top ten dei modelli elettrici più venduti nei primi sei mesi di quest’anno, cioè da gennaio a giugno 2022. Vediamola. 

1. Fiat 500 - 3579 unità

La bestseller di casa Fiat dispone di due livelli di potenza per la batteria, 28 o 42 kw/h, che riescono ad assicurare un’autonomia rispettivamente di 190 e 322 km. La velocità massima si ferma a 150 orari mentre lo scatto da 0 a 100 si consuma in 9 secondi. Il prezzo parte da 26.550  e arriva a 38.150 euro. 

2. Smart fortwo - 2419 unità

Secondo posto per la smart fortwo, che grazie a una batteria da 18 kw/h offre al conducente un’autonomia di 156 km. La velocità massima è di 130 orari, lo scatto da 0 a 100 di 11,8 secondi. Il prezzo parte da 25.210 e arriva a 36.696 euro. 

3. Dacia Spring  - 2040 unità

Terzo gradino del podio per la Spring, che con la sua batteria da 27 kw/h garantisce un’autonomia di 230 km. La velocità massima è di 125 orari e lo scatto da 0 a 100 di 19,1 secondi. Il prezzo parte invece da 20.450 e arriva a 21.950 euro.  

4. Tesla Model Y - 1720 unità

Tutt’altra musica (e prezzi) per la Tesla Model Y, che grazie alla batteria da 75 kw/h offre 507 km di autonomia. La velocità arriva a 241 orari e lo sfatto si consuma in soli 3,7 secondi. Il prezzo parte da 61.970 e arriva a 69.970 euro. 

5. Renault Zoe - 1093 unità

La piccola vettura francese garantisce 395 km di autonomia in virtù di una batteria da 52 kw/h. La sua velocità massima è di 140 orari e lo scatto da 0 a 100 di 11,4 secondi. Il prezzo parte da 34.500 e arriva a 35.900 euro. 

6. Renault Twingo  - 1047 unità

Grazie a una batteria di 22 kw/h, la Twingo è in grado di regalare un’autonomia di 190 km al conducente, con una velocità di punta di 135 km/h e uno scatto da 0 a 100 di 12,6 secondi. Il prezzo parte da 22.750 e arriva a 26.050 euro. 

7. Peugeot 208 - 1014 unità

La vettura francese dispone di una batteria da 50 kw/h grazie alla quale è possibile percorrere in tranquillità 340 km. La velocità massima è di 150 orari e lo scatto da 0 a 100 di 8,1 secondi. Il prezzo parte da 33.850 e arriva a 37.050 euro. 

8. Tesla Model 3  - 831 unità

Due livelli di potenza per la batteria della Model 3: 53 kw/h o 79 kw/h, con un’autonomia che riesce a coprire fino a 580 km. La velocità massima è di 261 orari e lo scatto da 0 a 100 di soli 3,3 secondi. I prezzi partono da 50.970 e arrivano a 61.970 euro.  

9. Volkswagen ID.3 - 768 unità

La ID.3 dispone anch’essa di due livelli di potenza per la batteria, 58 o 77 kw/h, grazie a cui è possibile percorrere rispettivamente 426 o 544 km. La velocità massima è ferma a 160 orari e lo scatto 7,3 secondi. I prezzi partono da 39.950 e arrivano a 44.550 euro.  

10. Peugeot 2008  - 766 unità

Ultima posizione per la Peugeot 2008, dotata di una batteria da 50 kw/h e di un’autonomia di 345 km. La velocità massima è di 150 orari mentre lo scatto da 0 a 100 di 8,5 secondi. Il prezzo parte da 38.750 e arriva a 43.950 euro. 

Stop alle auto tradizionali dal 2035. Pierluigi Bonora il 30 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il Consiglio Ue dell'Ambiente non ci ripensa. Ultima speranza: la verifica del 2026.

Produzione di sole auto elettriche dal 2035 e contestuale stop ai motori a benzina, Diesel, ibridi, Gpl e metano. Dopo l'Europarlamento, anche il Consiglio Ambiente Ue, non senza accesi dibattiti e spaccature, come è accaduto nel governo liberal-verde tedesco, ha detto sì al piano «Fit for 55» di decarbonizzazione. Resta comunque aperta una porta a favore dei carburanti sintetici e dei biocarburanti, insieme alla tecnologia ibrida ricaricabile. Nel 2026, infatti, ci sarà la verifica da parte di Bruxelles - per arrivare a un eventuale ok al loro utilizzo post 2035 - sullo stato di sostenibilità di questi combustibili, cioè se le emissioni di CO2 saranno state azzerate. Il Consiglio Ue ha anche dato l'ok al cosiddetto «emendamento Ferrari» che concede una deroga per i tagli delle emissioni sino alla fine del 2035 per i piccoli costruttori, come quelli che operano nella «Motor Valley» emiliano-romagnola.

Sugli eco-carburanti, intanto, è pessimista l'olandese Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione Ue, tra i sostenitori del «tutto elettrico»: «Finora - afferma - non sembra una possibilità realistica quella dell'uso dei combustibili sintetici che risultano proibitivi come costi. Ma siamo aperti a valutare, se i produttori pensano, per quella data, di poter provare il contrario».

Per l'industria petrolifera (e se ne saprà di più il 5 luglio all'assemblea di Unem), la porta del 2026 rappresenta un'opportunità che porterà a una forte accelerazione allo scopo di presentarsi con i parametri dei combustibili green richiesti. FuelsEurope, la lobby continentale del settore, è già al lavoro.

Dal ministro alla Transizione ecologica, Roberto Cingolani, arrivano rassicurazioni alla filiera dei carburanti: «Il motore a combustione - sottolinea - resta; in Europa non si può imporre di cambiare auto, rimarranno per lustri tanti veicoli a combustione. È vero, i carburanti sintetici sono costosi e li dovremo incentivare, un sacrificio che va fatto». Portabandiera per l'Italia al Consiglio Ue è stato proprio Cingolani, che con il collega Giancarlo Giorgetti e il suo vice allo Sviluppo economico, Gilberto Pichetto, si è dato da fare per tutelare la filiera automotive, mettendo anche in risalto le difficoltà sul fronte energetico e di sostenibilità sociale di scelte influenzate dall'ideologia.

«Ringrazio Cingolani per aver sostenuto la nostra posizione e quella espressa dal recente Tavolo automotive - osserva Pichetto -. Ora si apre una nuova sfida a fianco dell'elettrico e di tutte le nuove tecnologie a esso connesse. Apprezzo la deadline del 2026 per la verifica dello stato di avanzamento rispetto a tecnologie e ricerche necessarie al raggiungimento della neutralità climatica». E Antonio Tajani, presidente della Commissione Afco (Affari costituzionali) dell'Ue: «Il risultato al 2035 non ci soddisfa, anche se ci sono alcune piccole aperture che vanno nella direzione che abbiamo indicato: impedire il blocco della produzione di auto non elettriche. Credo che dovranno ricredersi nei prossimi anni, perché la soluzione scelta rischia di creare decine di migliaia di disoccupati in Italia e in Europa».

Reazioni anche dai sindacati. Secondo Rocco Palombella (Uilm), occorre «accelerare subito i tempi sulle misure che prevedano la ridefinizione dell'intera filiera della componentistica, una rete di colonnine capillare, la piena salvaguardia occupazionale nelle realtà produttive e la riqualificazione professionale per i lavoratori che dovranno affrontare, in prima persona, questo cambiamento».

Fabio Dragoni per “la Verità” l'11 luglio 2022.

Professor Maurizio Masi, lei ha all'attivo oltre 150 lavori in riviste scientifiche «peer reviewed», dove cioè gli articoli prima di essere pubblicati sono verificati da altri colleghi in reciproco anonimato, e insegna al Politenico di Milano chimica e fisica applicata.

«Chimica fisica applicata. Senza "e"». 

Che tradotto significa?

«Disciplina di ingegneria chimica volta all'applicazione. Risolviamo problemi concreti. Partiamo dai principi di base per arrivare al pratico». 

Leggo che ha inventato dieci brevetti. Quello di cui va più fiero?

«Carburo di silicio. Siamo stati recordman al mondo in velocità di crescita. Lpe epitaxial technologies, azienda di Bollate, mantenuta in Italia con l'esercizio del cosiddetto golden power. L'anno scorso ha fatturato il record storico già superato a luglio di quest' anno.

Sviluppa l'elettronica di potenza che controlla, per intendersi, le auto elettriche». 

Con un tweet lei ha fatto a fette il delirio contro le auto a benzina. Non è neppure in conflitto di interessi.

«Si figuri se sono contro l'auto elettrica. Ma il mondo va avanti. Siamo il secolo dell'impazienza. Mio nonno mi diceva: "Quando tira il vento bisogna reggersi il cappello". E come al solito l'Europa sbaglia tempi e metodi. Prenda l'alimentatore unico dei telefonini.

L'Europa elegge a standard una tecnologia (Usb C) già superata. Il caricatore dovrà trasmettere sempre più potenza per caricare in fretta. Vedrà, con gli alimentatori al carburo di silicio, quanto più velocemente si caricheranno gli smartphone. Ma l'Europa norma solo lo status quo. "Fermate il mondo voglio scendere", diceva una vecchia pubblicità. Mi spiace. Non si può scendere dal mondo».

Ma cosa c'entra lei invece con le calze da donna? Ha inventato la seta artificiale.

«No, poliammide modificata. Lo stesso nylon e la stessa fibra delle calze. Ma la Golden Lady cercava un prodotto leggermente modificato che avesse proprietà "di mano". Ne abbiamo inventato uno che oltre a essere gradevole al tatto aveva anche proprietà antibatteriche». 

Come ci è riuscito?

«Per caso! Io ero già soddisfatto del mio risultato, ma l'ultimo giudizio sul prodotto devono darlo le consumatrici. Le aziende hanno gruppi di controllo di cui si fidano. Fu fatto un test di lunga portabilità su questi collant. E alla fine tutte le donne scrissero una cosa sorprendente».

Cioè?

«Non pizzicano. Sono gradevoli al tatto ma soprattutto... non puzzano. L'ingegner Zaltieri volle andare fino in fondo. L'odore umano è dovuto a un batterio. L'escherichia coli. La colonia non prolificava portando queste calze. Ci aiutò a scoprirlo il laboratorio specializzato dell'università Statale di Milano con un tampone dedicato. A proposito, oggi lavorano solo per il Covid. E se avessi chiesto loro di fare questa verifica neppure mi avrebbero risposto. La nostra ricerca è ferma da due anni. Altro effetto secondario del Covid».

Torno al suo tweet sulle auto. L'Europa emette il 14% della CO2 al mondo. L'auto rappresenta il 9% delle emissioni europee. In pratica, mettiamo a rischio il 13% degli occupati per ridurre dell'1,5% le nostre emissioni.

«Pensiamo di essere leader ma non lo siamo. Molti miei studenti pakistani e indiani una volta laureati mi chiedevano di trovargli un lavoro in Italia. Poi in Germania. Oggi tornano a Nuova Delhi già formati perché con 1.000 euro si permettono la donna di servizio e la casa più grande. A Milano cosa farebbero con 2.000 euro? 

Se anche nel 2050 avremo azzerato in Europa le emissioni di CO2, la sola Nigeria avrà nel frattempo aumentato di più le sue emissioni. Il mondo non si accorgerà dei nostri sforzi mortificanti. Il mercato guarda a Est e glielo dice uno che è "americano" convinto. Sa cosa mi diceva un collega cinese al Mit quando ero in America?». 

Cosa?

«"Ogni giorno che entravamo in classe, a noi bambini veniva detto: Tu sei cinese e dominerai il mondo!. Tutti i giorni. Tutti". Altro che Nigeria. Pensi alla Cina. Ha fame di crescere. Noi ci diamo regole. Loro no! Abbattono i costi. Arrivano sui nostri mercati con prodotti che costano dieci volte meno dei nostri. E neanche possiamo mettere i dazi.

Sì, poi ci sono gli snob come me. Noi abbiamo problemi da ricchi. Ci piace il vestito di sartoria. Il ristorante stellato. Ma noi non siamo il mercato. Il mercato sono quelli che acquistano la camicia a 10 euro invece che a 150».

Avrà seguito le polemiche dopo la tragedia sul ghiacciaio della Marmolada...

«È l'integrale. L'Italia e l'Europa potevano pure azzerare le emissioni stando al freddo e al buio e la Cina no. Il ghiacciaio si sarebbe staccato ugualmente». 

Secondo lei siamo nel mezzo di un cambiamento climatico?

«I cambiamenti climatici ci sono sempre stati. Il mondo non è mai stato uguale a sé stesso da sempre. L'uomo ha un orizzonte di vita piccolo in sé. Cento anni. Senza studiare la storia, ma rifacendomi alla tradizione orale, i miei ricordi arrivano al massimo alla Prima guerra mondiale. Il vecchio Benelli, che era un ragazzo del '99 (1899!), me la raccontava. Oggi ho 62 anni. Ma il mio mondo da bambino era enormemente diverso. 

Mi ricordo l'arrivo della plastica, la pubblicità del Moplen. Nel 1960 nel mondo c'erano 3 miliardi di persone. E oggi, sessant' anni dopo, siamo a 7 miliardi e mezzo. Nel 2050 saremo vicino ai 9. Il mondo cresce e consuma risorse. Nove miliardi di persone che vorranno mangiare, vestirsi e vivere. Oggi che sono a un congresso a Ischia ho illustrato un grafico. Dopo glielo mando». 

Sì, ma me lo racconti anzi me lo spieghi. Consideri che non lo sto guardando.

«Analizzo due curve. Da una parte l'incremento della CO2 che si può agevolmente misurare. E dall'altra l'incremento della popolazione mondiale. Curve che hanno incrementi esponenziali con strappi evidenti. Poi analizzo l'emissione pro capite di CO2, vale a dire il rapporto fra CO2 emessa e popolazione. E la linea è quasi una retta. In aumento, ma una retta. Sa cosa significa questo?».

No

«Nel 1930 eravamo 2,5 miliardi di persone. Chiediamo più risorse al pianeta perché aumenta la popolazione. Ma il cosiddetto Energy budget a persona non cambia molto. La chiave di tutto è la demografia». 

Dobbiamo far sparire le persone?

«No, semplicemente aumentare il livello di alfabetizzazione e scolarità nelle donne. Se queste non studiano fanno mediamente sei figli ciascuna. Già con la licenza elementare si arriva a 2 o 3 figli in media. Se si arriva all'università, si scende a 1,7. Tutto passa dal controllo demografico attraverso l'istruzione delle donne».

Possiamo fare a meno dei combustibili fossili (carbone, petrolio, gas eccetera)?

«In tutti gli avvicendamenti che si sono succeduti la fonte precedente non è mai scomparsa per far posto alla nuova. Per 100.000 anni - dopo la scoperta del fuoco - il legno è stata l'unica fonte di energia sul pianeta. Le risulta che dopo il 1800, con la rivoluzione industriale grazie al carbone, abbiamo forse smesso di utilizzare il legno come materiale o fonte di energia? 

Sicuramente la sua percentuale di utilizzo è scesa dal 100% a livelli molto più bassi. Ma è cresciuta la torta dei consumi e il consumo del legno è comunque aumentato in valore assoluto. Il petrolio ha poi sostituito il carbone. Churchill, grande statista ma molto tradizionalista, non voleva saperne di far andare le navi a petrolio anziché a carbone. Dovettero convincerlo gli americani.

Di nuovo, pur riducendosi la quota del carbone ne consumiamo molto più oggi in valore assoluto che allora. Il gas ha poi preso il sopravvento. Le risulta che non utilizziamo più il petrolio? Infine, qualche burocrate europeo pensava addirittura di mettere fuori gioco il gas. Un ente molto serio, come l'International energy agency, stima che da qui al 2050 - anzi al 2100 - il consumo di gas aumenterà in valore assoluto anche se ne ridurremo la percentuale di consumo sul totale delle fonti». 

Si ritorna lì. Il burocrate europeo promuove qualcosa e mette fuori gioco le alternative così indirizzando lo sviluppo.

«Oggi esiste un indice. Si chiama Lca, Life cicle assessment. Un dato che ci dice quanto un prodotto ha consumato fin dalla sua origine e fino alla sua morte in termini di carbonio, acqua e terreno. Un'auto a combustione interna (a diesel o benzina) ha un alto impatto in termini di emissioni di carbonio ma basso in termini di consumo di suolo o acqua. Se mi sposto all'auto elettrica riduco tantissimo l'impatto di carbonio ma cosa accade al resto?

Devo scavare per avere metalli e terre rare con cui produrre le batterie. Venti grammi di queste terre rare per ogni tonnellata di terra. Una macchina ne ha almeno un chilogrammo e mezzo. Moltiplichi per il numero delle macchine. E comincerà a avere un'idea dei metri cubi di terra che saranno scavati. Un enorme consumo di terreno. E di acqua per la produzione. Un legislatore serio non sceglie una tecnologia piuttosto che un'altra, ma si concentra sul cosiddetto Lca. Stabilisco un target. Nel tempo dev' essere ragionevolmente ridotto. E lascio il resto al mercato. Chi ha tanto vento andrà con le auto elettriche. Chi è ricco di scarti agricoli andrà a biogas. Prenda il giubbotto di pelle».

Cioè?

«Dicono che la finta pelle sia più ecologica di quella vera. Ma l'animale è morto perché lo devo mangiare: la pelle è già lì. Un sottoprodotto. Un giubbotto di plastica e uno in camoscio. Arrivi a fine serata e mi dica se c'è differenza. Dopodiché io non faccio mercato. Non tutti possono permettersi un camoscio da 850 euro mentre un giubbotto in Pvc da 50 euro sì. Non li biasimo. Loro sono il mercato. Ma non ditemi che sono più verdi, Lca è impietosa».

Nucleare sì o no?

«Nucleare sì! Ci dicono che la CO2 è il nemico. E il nucleare non ne emette. Produce scorie ma in relazione all'energia prodotta sono basse. Materiale radioattivo stoccabile in sicurezza e di piccola dimensioni. Pensi a quanti poveri africani muoiono per scavare tonnellate di terreno da cui estrarre le terre rare».

Il demonio statalista. Il divieto al motore endotermico e la miope politica industriale europea. Istituto Bruno Leoni su L'Inkiesta il 28 Giugno 2022.

Le auto elettriche sono destinate a conquistare fette sempre più ampie del mercato, ma con le sue decisioni Bruxelles rischia di cancellare ricerche e investimenti su altre tecnologie altrettanto eco sostenibili, come i carburanti sintetici all’idrogeno. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni. 

Il Parlamento europeo ha votato a favore della proposta della Commissione per il bando del motore a combustione interna a partire dal 2035. Adesso la palla è nel campo del Consiglio europeo, in seno al quale stanno emergendo le prime divisioni. Infatti, i paesi con una più radicata presenza dell’automotive – quali Italia e Germania – spingono per un ammorbidimento, chiedendo quanto meno un rinvio al 2040.

Dal punto di vista formale, la proposta prevede un obbligo di emissioni zero per tutte le auto immatricolate a partire dal 2035. Il tentativo di compromesso proposto dai popolari, che prevedeva una riduzione del 90 per cento delle emissioni dei nuovi motori, è stato respinto. Questa scelta rafforza l’idea che la politica ambientale ed energetica europea sta assumendo sempre più l’aspetto della politica industriale. De facto si compie una scelta di campo a favore del motore elettrico, con buona pace della neutralità tecnologica tanto decantata.

Intendiamoci: in questo momento tutto sembra spingere a favore del motore elettrico e non c’è dubbio che esso sia destinato ad acquisire fette di mercato sempre crescenti, specie se i progressi nelle batterie consentiranno di contenere i costi e di accelerare i tempi di ricarica. Ma questo non significa che non vi sia spazio o prospettiva per altre tecnologie, dai carburanti sintetici all’idrogeno. 

Nei fatti, la decisione del Parlamento – se confermata – avrà l’effetto di spazzare via, almeno in Europa, ricerca e investimento in queste opzioni, per le quali resterà solo (ma quanto, e fino a quando?) l’eventuale prospettiva di applicazione nei trasporti pesanti. 

Ancora di più, la prospettiva di un divieto uccide lo sforzo dei produttori di sviluppare motori euro7, proseguendo nel percorso di miglioramento delle prestazioni ambientali dell’auto tradizionale: che senso può avere dedicare risorse finanziarie e umane a uno standard che nessuno al mondo richiede, e che sarà presto fuori commercio proprio nei paesi che lo impongono?

Purtroppo, la politica industriale è frutto del demonio statalista e, si sa, il diavolo fa le pentole ma non i coperchi. La convinzione di molti attivisti, studiosi e persino governi sembra che, stante il bando dal 2035, fino al 2034 tutto continuerà come se nulla fosse: gli automobilisti troveranno stazioni di riferimento, parti di ricambio e automobili secondo i loro desideri. 

Temiamo di essere facili profeti nel dire che non sarà così. Sapendo che, nel giro di pochi anni, l’auto tradizionale non potrà più essere immatricolata in Europa, è probabile che i produttori di componenti cercheranno di rinconvertirsi, gli autosaloni di ripensarsi, i gestori delle stazioni di rifornimento di riorientare il loro business e i consumatori stessi di prevenire la perdita di valore dell’usato. Insomma: il bando del motore endotermico avrà effetti molto prima del 2035.

Forse questo è proprio il suo obiettivo, ma come in tutti i casi di cambiamenti imposti dall’alto (anziché emersi dal basso) il rischio è proprio che il prodotto indesiderato sparisca dal mercato, mentre quello voluto non sia ancora disponibile o comunque non abbia le prestazioni o le caratteristiche richieste. E la rarefazione del tessuto industriale non avrà impatti solo sulla filiera dell’automobile, ma anche su quella dell’autotrasporto, per ovvie ragioni.

Insomma: il paradosso è che, se le premesse della scelta sono corrette, se cioè l’auto elettrica è destinata a sbaragliare il motore tradizionale, allora non c’è alcun bisogno di un intervento a gamba tesa. Se invece la premessa è infondata, quando ce ne accorgeremo sarà troppo tardi.

Asfalto magico per auto elettriche, la ricarica a induzione è pronta. Maurilio Rigo su La Repubblica il 14 Giugno 2022.  

Presentati i risultati dei test all'Arena del futuro lungo l'autostrada A35 Brebemi

Dal circuito sperimentale “Arena del Futuro”, lungo l’autostrada A35 Brebemi, ai progetti di sviluppo concreti all’interno di infrastrutture strategiche nazionali ed internazionali, il passo è breve. La tecnologia di ricarica ad induzione per auto elettriche Dynamic Wireless Power Transfer (Dwpt), è stata appena presentata a Chiari (Bs), dal presidente di A35 Brebemi, Francesco Bettoni e dai partner aderenti al programma. 

Questa tecnologia consente ai veicoli elettrici di ricaricarsi viaggiando su corsie dedicate, grazie ad un innovativo sistema di spire posizionate sotto l’asfalto che trasferiscono direttamente l’energia necessaria ai mezzi in transito. La tecnologia può essere adattata a tutti i veicoli dotati di uno speciale “ricevitore” in grado di trasferire l’energia proveniente dall’infrastruttura stradale direttamente al motore elettrico, estendendo l’autonomia e salvaguardando la carica della batteria del veicolo. 

Il progetto pilota italiano, coordinato da A35 Brebemi e Aleatica, è quello allo stadio più avanzato di sperimentazione con la collaborazione tra varie eccellenze dei rispettivi settori come Abb, Electreon, Iveco, Iveco Bus, Mapei, Pizzarotti, Politecnico di Milano, Prysmian, Stellantis, Tim, Fiamm Energy Technology, Università Roma Tre, Università di Parma, Vigili del Fuoco e ministero dell’Interno – Polizia Stradale. Dopo i risultati dei numerosi test effettuati e tutt’ora in corso su questa tecnologia, in particolare nell’ambito del progetto italiano “Arena del Futuro”, sono stati confermati i vantaggi concreti ottenibili con la Dwpt. 

Tra i tanti benefici della tecnologia di ricarica a induzione, le ricerche stanno mettendo in risalto, ad esempio, una maggior efficienza energetica del veicolo grazie alla ricarica in viaggio, una riduzione del volume delle batterie nei veicoli, e un aumento della vita media della batteria grazie all’evitamento di picchi di ricarica (la batteria verrebbe alimentata a intervalli durante il giorno). Inoltre, una volta concluso il suo sviluppo, il sistema potrà contribuire a migliorare la qualità del viaggio dell’utente, con una riduzione dei tempi di sosta per ricarica grazie alla combinazione ottimale tra diversi sistemi di ricarica.

Dietro a questa innovazione, ci sono le tecnologie avanzate offerte dal 5G e dalle soluzioni applicative basate sull’Intelligenza artificiale, che implementeranno lo scambio di informazioni tra il veicolo e le piattaforme di gestione, a beneficio della sicurezza stradale e dell’efficienza della mobilità. “La tecnologia Dwpt, nelle sue variabili di induzione dinamica e statica – sottolineano al quartier generale – ha già destato interesse per possibili immediati sviluppi a livello commerciale in Italia e all’estero, anche grazie alla sua versatilità in quanto, oltre all’utilizzo su strade e autostrade, la stessa si sta confermando utile e ideale anche all’interno di altre infrastrutture come porti, aeroporti e parcheggi”.

Auto elettrica: le case si preparino «a scavare». È partita la corsa al litio, che si gioca sottoterra tra big dell'economia mondiale, Musk compreso. Giovanni Brussato su Panorama il 7 Novembre 2022.

Ci aveva pensato per primo il solito Musk quando nel 2020 al Battery Day aveva annunciato che Tesla aveva acquisito i diritti su una concessione di circa 4.000 ettari in Nevada dove estrarre il litio. All'epoca, Musk sosteneva che Tesla avrebbe estratto il litio dai depositi di argilla utilizzando un processo “made in Tesla” su cui al tempo molti esperti del settore ironizzarono. Ma un altro annuncio, in quella sede, fu un segnale per le case automobilistiche che era finito il tempo di stare alla finestra, che se volevano entrare nel futuro delle auto elettriche avrebbero dovuto “sporcarsi le mani”: il progetto di un impianto per la produzione di idrossido di litio in Texas per approvvigionare la futura terafactory ed il conseguente ingresso di Tesla nella produzione chimica del litio.

Il nuovo impianto di conversione e raffinazione trasformerà il concentrato di spodumene, un minerale da cui si estrae il litio, in idrossido di litio specifico per l'utilizzo nelle batterie, un processo che oggi si verifica tradizionalmente in Cina. Da allora il progetto ha avuto una serie di ritardi ma ormai sembra definitivamente avviato e consentirà a Tesla di controllare i costi in questa fase della catena di approvvigionamento diventati critici visto il recente aumento di circa 2.000 dollari dei suoi listini per compensare la crescita esponenziale dei costi della materia prima. Oggi il quadro sta evolvendo sempre più rapidamente, con la crescita della consapevolezza che nei prossimi anni non ci sarà sufficiente materia prima sufficiente per tutti i produttori di auto elettriche. La mancanza di approvvigionamento non è dovuta a vincoli geologici, almeno per il momento, quanto alla scarsità di capitali negli investimenti necessari a costruire le miniere di domani. Per quanto ogni analista interpreti i dati a modo suo la tendenza più consolidata dipinge un mercato in crisi di offerta di idrossido e carbonato di litio per circa 300.000 tonnellate all’anno entro il 2030, mentre l'offerta di solfato di nichel potrebbe restare al di sotto della domanda prevista di oltre 400.000 tonnellate. Analoga sorte per il cobalto, si stima in oltre 75.000 tonnellate il deficit, e la grafite, necessaria alla produzione anodica, per quasi 2 milioni di tonnellate entro la fine del decennio. In questo quadro vanno lette le indiscrezioni circa l’interesse di Tesla all'acquisto di una partecipazione nel gigante delle materie prime Glencore, con cui ha già in essere accordi per la fornitura di cobalto che il Gruppo minerario svizzero estrae dalle sue miniere nella Repubblica Democratica del Congo. Il momento per Glencore non è dei più semplici e, malgrado i colossali utili realizzati nel primo semestre dell’anno grazie al carbone, deve affrontare una serie di costose cause legali dovute alle tangenti che i dipendenti di Glencore hanno pagato alle compagnie petrolifere statali nei paesi dell'Africa occidentale, tra cui Nigeria, Sud Sudan e Costa d'Avorio. Peraltro Glencore ha già dichiarato di aver fatto un accantonamento di 1,5 miliardi di dollari per coprire le sanzioni statunitensi, brasiliane e britanniche. A prescindere se l’accordo diventerà o meno realtà è ormai evidente che le case automobilistiche dovranno entrare nell’industria mineraria per finanziarla al fine di garantirsi gli approvvigionamenti necessari per rimanere nel mercato. Agli OEM è ormai evidente che gli incentivi ai consumi non sortiscono effetti sperati nella reattività delle compagnie minerarie che dovrebbero fornire loro le materie prime. All'inizio di quest'anno il gruppo Stellantis ha firmato un accordo di fornitura di litio con Vulcan Energy Resources e ha dichiarato che avrebbe investito 50 milioni di euro per acquistare una quota dell'8% della società. Anche gli accordi di offtake di Stellantis con GME Resources per la fornitura di nichel e solfato di cobalto, secondo entrambe le parti, rappresentano il primo passo verso una potenziale partnership a lungo termine. Più recente l’annuncio di General Motors che investirà circa 69 milioni di dollari per acquisire una partecipazione azionaria in Queensland Pacific Metals al fine di garantirsi forniture di nichel e cobalto per le batterie da utilizzare nei loro veicoli. L’accordo è finalizzato anche a rispettare l'Inflation Reduction Act (IRA) statunitense che prevede l’erogazione dei sussidi solo per le auto costruite con le materie prime estratte o trasformate negli Stati Uniti o nei partner di libero scambio, come l’Australia, per l’appunto. I timori di carenze di approvvigionamento, che potrebbero rivelarsi fatali, ha spinto GM a stipulare un accordo con Livent Corp per una fornitura garantita di litio per i prossimi sei anni pagando in anticipo l’intero costo della fornitura pari a 198 milioni di dollari. E’ inusuale nell'industria mineraria il pagamento anticipato per una fornitura di metalli ma serve a spiegarci come le case automobilistiche stiano percependo il rischio rappresentato dalle attuali supply chain del settore e come i prezzi saranno destinati a crescere in futuro. Diversa la strada seguita dalla Ford Motor che chiede all'amministrazione Biden di accelerare il processo di autorizzazione per l’apertura di nuove miniere di “metalli della transizione” negli USA. Questo è un provvedimento che potrebbe mettere in grave imbarazzo l’Amministrazione Biden perché l’inefficiente processo autorizzativo rende praticamente impossibile investire nell’attività estrattiva negli USA. Inoltre, come in Europa, i tempi medi per il completamento dell’iter sono di circa 10 anni mentre in Canada e Australia i medesimi processi richiedono solo due o tre anni. Il Presidente Biden, in campagna elettorale, per compiacere l’elettorato ambientalista, si è speso contro l’apertura della miniera di Pebble in Alaska e quella di Twin Metals nel Minnesota entrambe importanti depositi proprio di quei “metalli della transizione” che oggi gli USA devono importare. Recentemente Twin Metals, una controllata della compagnia mineraria Antofagasta, ha citato in giudizio il Governo degli Stati Uniti perché non le è stato consentito dall’Amministrazione Biden di dimostrare che il suo progetto può soddisfare gli standard ambientali. Quello dei requisiti ambientali è un’altra delle tegole piovute in capo alle case automobilistiche che non possono permettersi di essere troppo espliciti con i loro clienti, convinti che l’acquisto di un’auto elettrica aiuti il Pianeta, su tecnologie come la “lisciviazione acida ad alta pressione” , HPAL, o “lo smaltimento degli sterili in mare” , DSTD, pratiche comunemente usate nell’industria mineraria ma il cui impatto ambientale è devastante per gli ecosistemi che lo devono subire. Ed ecco quindi anche le case automobilistiche tedesche, Volkswagen e BMW, affannarsi a spiegare che loro no, non accetteranno mai per le loro batterie, i metalli estratti dai fondali oceanici, l’ultima frontiera dell’industria mineraria per cercare di sfamare il vorace appetito per i metalli della nuova mobilità sostenibile

Quanto costa la ricarica di una auto elettrica? Si parla tanto di transizione ecologica, ma in concreto quanto si risparmia usando l’energia elettrica al posto della benzina e del gasolio? Da casa.tiscali.it. 

Abbandonare l’auto a benzina o a gasolio per passare a un’auto elettrica, a “emissioni zero”? E’ un sogno che molti stanno accarezzando, o comunque valutando per il futuro. A prescindere dal costo della autovettura stessa e della manutenzione, quanto costa ricaricare una auto elettrica? E quanto tempo serve? Esiste la possibilità di ricaricare l’auto a casa propria? Ecco le risposte.

Ricaricare per strada, dalle colonnine elettriche, o a casa?

A tutti sarà capitato di vedere spuntare in giro come funghi delle colonnine con tanto di piazzola di sosta annessa: attualmente è il metodo di ricarica più diffuso.

Sul mercato sono presenti diversi gestori che permettono di effettuare la ricarica tramite delle card o app, sia a consumo che tramite abbonamento. La modalità di ricarica è semplice: si cerca la colonnina (tramite la app del gestore), si abilita il pagamento e si connette il cavo all’automobile. Lo stato della ricarica si può controllare dal display della colonnina o dalla app.

Per caricare l’auto a casa si può sfruttare una comune presa di corrente. Avendo l’accortezza, al limite, di avere una dotazione domestica in kW abbastanza “robusta” per poter fare anche altre attività mentre la macchina è collegata.

Prima di ricaricare la tua auto elettrica a casa è meglio che cambi fornitore! Confronta le migliori offerte su Tiscali Tagliacosti e risparmia sulle bollette di luce e gas!

Il costo della ricarica

La scelta migliore, per quanto riguarda i costi, è quella di ricaricare l’auto elettrica a casa, spendendo all’incirca 20 centesimi (tariffa media) per kiloWattora. Per avere una autonomia di un centinaio di km, si spendono all’incirca 4 euro per una macchina di media cilindrata.

Il problema, con la ricarica domestica, è il tempo: almeno 5 ore per avere una percorrenza di 100 km, ammettendo di poter usare (caso molto difficile) tutta la dotazione domestica “comune”, ovvero 3 kW. Nel caso più realistico, cioè con più persone in casa, lavatrici ed elettrodomestici in funzione, i tempi si allungano ulteriormente. A meno che non si porti la fornitura di casa a 4.5 kW (o anche a 6), ma in questo caso si avrebbe un aggravio annuo di costi che di solito è compreso tra 35 e 70 euro.

Per ricaricare un’auto elettrica con le colonnine è necessario distinguere tra colonnine in AC (corrente alternata, da 11 e 22kW), DC (corrente continua, da 50kW) e HPC (High Power Charging, fino a 350kW).

Per le colonnine in AC è previsto un costo medio al kWh di 0,40 €, e una tariffa di 0,09 € al minuto (per alcuni operatori come Enel X) che scatta dopo un’ora di occupazione della piazzola dal termine della ricarica.

Per le colonnine in DC il costo medio al kWh si aggira intorno a 0,50 €, più la tariffa di occupazione che di solito è sui 0,18 € al minuto.

Per le colonnine HPC di Ionity (una joint venture nata da un progetto di Volkswagen, BMW, Mercedes, Ford,  Hyundai, Audi e Porsche), ad esempio, è previsto un costo a consumo di 0,79 € a kWh. Questo è il prezzo pieno, ma se si può sfruttare il servizio offerto da uno di questi costruttori le tariffe scendono notevolmente. Prendendo come riferimento Mercedes, la tariffa è di 0,29 € a kWh.

In Italia le colonnine HPC sono ancora poche rispetto alle altre, ma nei prossimi anni ne verranno installate migliaia.

L’enorme vantaggio delle HPC è dato dai tempi ridottissimi di ricarica. Per portare all’80% la capacità delle batterie sono sufficienti dai 15 ai 20 minuti.

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Un esempio concreto di quanto potrebbe costare un “pieno”? Se in una automobile sono presenti batterie dalla capacità di 42 kWh (come nella 500 EV) è sufficiente moltiplicare 42 per il costo del kWh. Quindi, per le colonnine in AC: 42 x 0,40 € = 16,80 €. Da tenere conto, però, che il consumo elettrico varia a seconda della velocità a cui spingiamo la macchina e alla temperatura delle batterie.

La ricarica si può effettuare anche con una card RFID (oltre che con l’app dell’operatore) che può essere a pagamento o gratuita. La comodità nell’averla consiste nel poter fare rifornimento semplicemente avvicinando la tessera a un riquadro sulla colonnina.

Un piccolo consiglio: meglio non ricaricare le batterie al 100%, ma fermarsi all’80%. In questo modo si aumenta il rendimento complessivo.

E per risparmiare ricaricando l’auto a casa, meglio cambiare fornitore di energia

Sicuri di avere un contratto di fornitura energetica conveniente? Per ricaricare a casa un’automobile elettrica è necessaria molta energia. Per questo motivo, è di fondamentale importanza appoggiarsi a un fornitore affidabile.

Se ancora siete nel mercato tutelato, questa è la migliore occasione per passare al mercato libero e ottenere il massimo risparmio energetico.

Il passaggio dal mercato tutelato per luce e gas al mercato libero è previsto dal primo gennaio del 2023. Ma non è necessario aspettare fino a quella data per avere una bolletta più leggera.

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Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 25 ottobre 2022.

Dovevano essere una rivoluzione, sono finite per essere una mazzata. Nel senso che le auto elettriche presentano un conto salato. Sì, è vero: sta aumentando tutto. Le bollette del gas e la spesa al super. La crisi energetica e l'invasione di Putin in Ucraina. D'accordo. È un discorso che ci siamo fatti centinaia di volte. Però qui, mentre la benzina e pure il diesel galleggiano e persino costano un filo meno rispetto all'anno scorso, fare "il pieno" a una macchina green sta diventando un salasso. 

Facile.it, uno dei portali internet che compara prezzi e tariffe, sostiene che per caricare una quattroruote full-electric, oggi, cioè a ottobre 2022, serva un esborso maggiorato del 161% rispetto all'importo richiesto nell'ottobre 2021. Il 161% di maggiorazione vuol dire, ma non serve né una laurea in matematica né una in economia, che il costo del rifornimento, per le auto che non inquinano, è più che raddoppiato. Che se, per esempio, per un'utilitaria di 136 cavalli, dodici mesi fa, spendevi 33 euro per percorrere mille chilometri, adesso ne paghi (e sull'unghia) 85.

Vaglielo a spiegare, poi, a quelli che si son fatti tentare, magari con il ritornello dell'ambientalismo a oltranza, magari dagli incentivi, magari da un senso di colpa verde, che l'operazione non era, tutto sommato, così conveniente. E spiegagli anche che chi, invece, è rimasto in garage con un'utilitaria a benzina (un modello in tutto e per tutto equiparabile), alla fine della fiera, ci ha addirittura guadagnato perché il prezzo del greggio è sceso (s-c-e-s-o), in un anno, del 6% e se i mille chilometri di cui sopra, nel 2021, costavano 88 euro tondi tondi, adesso ne valgono 83.

Ossia due euro in meno di quelli che servono per non rimare a secco al volante di un'elettrica. Sul fronte diesel, lo stesso: l'esborso, in questo caso, è di 71 euro ed è sì cresciuto del 9% rispetto all'anno passato, ma no, resta comunque inferiore di ben quattordici euro in confronto allo scontrino presentato alle auto elettriche. (Per quanto riguarda le berline i numeri cambiano di un po', ma il concetto no: un pieno per le elettriche, fino a poco tempo fa, costava appena 38 euro, e allora sì, si risparmiava, epperò oggi è quasi triplicato e arriva a sfiorare i cento, 99 euro per la precisione; mentre il classico carburante che prima toccava quota 132 euro, al momento scivola sotto i 125. Hai detto niente).

«Il rincaro dei costi energetici rischia di danneggiare anche la mobilità elettrica», tagliano corto gli esperti di Facile.it: «Dodici mesi fa, e per tutte le simulazioni che abbiamo realizzato, l'auto elettrica era nettamente più economica dal punto di vista dei costi del carburante, con una spesa, ovviamente a seconda del modello, inferiore tra il 50 e il 70% rispetto alle versioni a benzina e diesel. Adesso, invece non è più così». Che poi, a trovarla una stazione di ricarica perché in Italia, secondo le ultime stime, ci sarebbero a malapena 32mila punti, con 16.700 colonnine e 13.225 aree accessibili. Una goccia nel mare per i circa 140mila veicoli immatricolati che circolano da nord a sud dello Stivale.

L'ultimo Consiglio dei ministri di mercoledì 19 ottobre ha (giustamente) prorogato il taglio della fiscalità sui carburanti fino al prossimo 18 novembre e il pericolo, allora, è che chi ha puntato tutto sull'elettrico se la ritrovi in saccoccia, la svolta green che da Milano a Roma a Firenze mezza politica (sempre quella per la verità, cioè quella sinistra) non fa che sbandierare come una conquista di civiltà dimenticandosi (o facendo finta di dimenticarsi) che l'ambientalismo ha un costo e che, stringi stringi, lo pagano sempre i soliti noti. Ossia i cittadini. 

Per le berlina di classe media, quelle con una cilindrata che oscilla tra i 130 e i 150 cavalli, chiosa il rapporto di Facile.it, il veicolo più conveniente, quantomeno a livello di carburante, rimane il diesel: per fare mille chilometri, chi è al volante di uno di questi, spende 77 euro, mentre chi guida una macchina elettrica ne spende 80.

Da motus-e.org il 25 ottobre 2022.

La ricerca pubblicata da Facile.it, così come altri studi sui costi di ricarica, pubblicati in queste ore, rappresentano solo una visione parziale della realtà. È per questo che riteniamo che i risultati siano fuorvianti per i consumatori e le imprese. Lo afferma Motus-E, l’associazione che raccoglie gli stakeholders della mobilità elettrica, commentando la ricerca “Auto elettriche: +161% per una ricarica”. 

Il costo dell’elettricità su cui si basano i calcoli di Facile.it (che prendiamo ad esempio) fa riferimento esclusivamente all’energia elettrica acquistata da un cliente domestico con un prezzo volatile e non tiene in considerazione né coloro che hanno una tariffa bloccata, né coloro (che ormai superano il milione di autoproduttori) che, grazie ad un impianto fotovoltaico, azzerano o abbattono i costi dell’energia.

Nell’indagine, inoltre, non si fa cenno nemmeno a chi usufruisce di una tariffa flat per la ricarica pubblica, ovvero di un piano, soggetto ad abbonamento, in cui a fronte di una spesa fissa viene offerto al cliente un pacchetto di ricarica (utilizzabile anche in roaming tra i principali operatori). Con gli abbonamenti flat, infatti, le tariffe restano comprese tra i 0,31 e i 0,35 €/kWh. Se ricalcoliamo con questi dati anche la casistica del segmento B dello studio di Facile.it, con il consumo di 6,3 km/kWh per percorrere 1.000 km, a 0,35 €/kWh, otteniamo solo 55 € di costi invece di 85 €, a fronte degli 83 € per la benzina e dei 71 € per il diesel. 

Sottolineiamo anche che i prezzi dei carburanti tradizionali sono stati scelti in un periodo diverso (ultima settimana di Settembre ‘22: benzina 1,633 €/l diesel 1,738 €/l), rispetto al quale sono già saliti (media ultima settimana disponibile 17 Ottobre ‘22: benzina 1.698 €/l diesel 1.833 €/l) di un ulteriore +4 e +8%. 

Ricordiamo inoltre che attualmente il valore dei prezzi dei carburanti tradizionali è ancora fortemente scontato (di circa il 47%), altrimenti oggi saremmo agli stessi prezzi di marzo (circa 2,16 €/l per il diesel) ed a giugno avremmo superato i 2,3 €/l, mentre l’energia elettrica ha avuto solo l’esonero degli oneri di sistema, pari a circa 0,04€/kWh, paragonabili ad un 6% dell’attuale prezzo dell’energia.

Dobbiamo rammentare che la maggior parte delle persone che utilizzano spesso le infrastrutture di ricarica pubbliche sono proprio quelle che sottoscrivono abbonamenti flat. 

La crisi energetica e il relativo aumento dei prezzi delle materie prime continuano a destare la nostra preoccupazione: la situazione è insostenibile per tante famiglie e imprese, al di là di come si spostano, e per questo confidiamo che il Governo Italiano e tutti i Ministri Europei convergano su una soluzione di mitigazione e di disaccoppiamento dal prezzo del gas il prima possibile. Ugualmente dannoso, però, può rivelarsi la diffusione di confronti dati parziali e fuorvianti.

Nicola Porro svela la verità sulle auto elettriche: "Tesla e Mercedes turbo-diesel, cosa accade..." Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.

Nicola Porro ha dedicato gran parte della sua “zuppa” quotidiana alla questione delle auto elettriche e in particolare allo stop votato dal Parlamento europeo ai motori termici. A partire dal 2035 le case automobilistiche non potranno più vendere veicoli alimentati a benzina o diesel: nonostante sia stato il punto più controverso del pacchetto pensato per ridurre le emissioni, i voti a favore sono stati comunque più di quelli contrari.

“Stiamo parlando dell’industria principale del mondo europeo - ha dichiarato Porro - e facciamo finta che sia sbagliata. Uno studio fatto da Aci nel 2021 dice che le emissioni elettriche dell’alta gamma sono superiori a quelle di un Euro 6. Bisogna mettere le cose nella giusta prospettiva. Un altro studio tedesco autorevole sostiene che la Tesla produce più CO2 della Mercedes turbodiesel”. Porro si è poi posto diverse domande: “Come produciamo energia elettrica in questo Paese? Pensate davvero che con il fotovoltaico noi riusciremmo a produrre energia elettrica per rinnovare tutto il nostro parco auto?”.

L’altro giorno Porro aveva invece criticato duramente Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea: lo ha definito un “gretino” nonché un “olandese con la barba che ci vuole tutti cinesi”.  Insomma, Porro non ci è andato per il sottile: “Tutto il resto sono cazz***, l’Europa e l’America sapevano fare i motori e cos’è che fanno? Uccidono questa industria perché ci sono i gretini, teste di minc*** che pensano che le macchine a benzina inquinano più dei loro cellulari o delle varie novità tecnologiche”.

Umberto Mancini per “il Messaggero” il 10 Giugno 2022.

«Il voto europeo sull'auto elettrica? Una grande delusione, una scelta ideologica. Perché il destino dell'auto non è solo elettrico, a meno che non si voglia fare un regalo alla Cina che su questo fronte è davanti a tutti». Le parole del ministro dello Sviluppo Giancarlo Giorgetti, dopo lo stop del Parlamento europeo alle auto a benzina e metano entro il 2035, sono chiare. Del resto da mesi il ministro è preoccupato, ben consapevole che sono a rischio non solo migliaia di posti di lavoro, ma anche una filiera industriale che è la spina dorsale del Paese e, fatto ancora più rilevante, una sovranità tecnologica decisiva nella sfida internazionale.

Il ministro però in fondo se l'aspettava. «Il voto è una delusione - dice al Messaggero - e non lo nascondo anche se l'esito era abbastanza scontato. E' stata una decisione ideologica e ho sperato fino all'ultimo che prevalesse, in certi deputati di area di centrosinistra, la preoccupazione per le ricadute negative sull'occupazione. Così non è stato, purtroppo, l'inversione di tendenza che avevo auspicato non c'è stata. E' mancata la consapevolezza del momento che stiamo vivendo. 

Di fronte alla sacrosanta e legittima ricerca di un mondo ambientalmente compatibile non sono state prese in considerazione le richieste per percorsi più lenti che ci consentissero di affrontare meglio questo delicato passaggio verso il green che la guerra in Ucraina sta inasprendo ancora di più».

Come uscirne? «La mia posizione storica - sottolinea ancora il ministro della Lega - è per la neutralità tecnologica. Credo che la giusta visione della decarbonizzazione vada calata nella nostra realtà. La transizione ambientale deve tener conto anche delle ricadute sociali ed economiche su tutte le filiere altrimenti il futuro è l'eutanasia della nostra industria. Non si può restare sordi di fronte alle voci di imprenditori e lavoratori e alle loro legittime preoccupazioni.

Non facciamole diventare grida di disperazione. L'impostazione europea vuole imporre ritmi e ideologie che impattano negativamente su alcuni paesi come l'Italia, la Germania e la Francia. Dobbiamo pensare - aggiunge il ministro - a strumenti che possano fare da contraccolpo a questo ennesimo shock che penalizza la nostra industria ed economia».

Giorgetti ovviamente non si arrende e rilancia. 

«Abbiamo strumenti validi per dare una risposta alle conseguenze negative sulla nostra industria dell'automotive. Ci sono le misure del Pnrr, lo sviluppo del mondo delle batterie, l'industria 4.0. Voglio anche sottolineare che come Mise abbiamo sottoposto da tempo le nostre proposte per la riconversione industriale dell'automotive agli altri ministri. 

Mi riferisco al pacchetto di misure che completano quelle già varate per gli incentivi per l'acquisto di nuove auto non inquinanti. Abbiamo individuato due strumenti: contratti di sviluppo in una percentuale maggiore e accordi di innovazione per gli incentivi volti al sostegno agli investimenti per insediamento, riconversione, riqualificazione verso forme produttive innovative e sostenibili delle imprese del settore automotive. Detto questo voglio anche sottolineare che gli incentivi non bastano». 

Servono, aggiunge, anche «il coraggio, la determinazione l'intraprendenza degli imprenditori. Spero che a breve potremo parlare anche di progetti italiani importanti pronti a essere realizzati». 

Insomma, non c'è nessuna intenzione di mollare la presa. «Incontro con continuità - conclude il ministro - tutti gli esponenti del settore automotive e ne ascolto le esigenze e le problematiche. Non mi stancherò mai di dirlo: il futuro non è solo elettrico. L'ho detto più volte, io scommetto sull'idrogeno e magari con il tempo verranno sviluppate anche altre tecnologie.

Bisogna fare attenzione a puntare tutto sull'elettrico: è una visione ideologica, miope che ignora la realtà industriale dell'Italia. Se accadesse davvero questo vorrebbe dire consegnare a alcuni paesi asiatici anche il settore dell'automotive, perdendo autonomia produttiva e vedremmo quello che stiamo purtroppo vivendo con il gas avendo scelto, tempo fa come Italia, di affidarci agli approvvigionamenti dalla Russia secondo una logica finanziaria e non politicamente strategica, al servizio del Paese. Ecco dovremmo tutti fermarci e riflettere su questo».

L'Europa sembra andare in direzione opposta, anche se poi spetterà ai singoli Stati articolare e modulare le scelte, magari cambiando direzione di marcia. E anche se in molti a Bruxelles fingono di dimenticare che l'80 per cento di tutto quello che sta dietro a un auto elettrica è cinese, dalle materie prime per realizzare le batterie alla alle tecnologie, fino ai componenti industriali.

Giorgio Ursicino per “il Messaggero” il 10 Giugno 2022.

Non è quasi cambiato nulla, ma la notizia è diventata ufficiale (si è accesa la luce rossa). Conviene mettersi all'opera perché, prima o poi (forse non nel 2035), il cambiamento arriverà veramente. Prima il clima, poi la tecnologia, infine l'Unione Europea: hanno sentenziato che l'auto zero emission potrebbe essere meglio di quella con il tubo di scarico. Tutti quanti dovremo saltare la barricata viaggiando nel silenzio. 

Siamo nella UE e bisogna cercare di muoversi all'unisono, ma è evidente che fra la Germania e la confinante Polonia ci passa qualche generazione, soprattutto come reddito e potere d'acquisto. Quindi sarebbe sensato inserire le scadenze a scaglioni e non accendere la luce in tutto il continente nello stesso momento.

E noi? Siamo grandi e grossi, ma su certi parametri stiamo un po' nel mezzo. Fra questi, sicuramente, c'è la mobilità. Ma come, non siamo un popolo di poeti, navigatori e piloti automobilisti? Quanto a passione ed ampiezza del parco circolante non ci sta dietro nessuno, ma ci siamo un po' adagiati. Le italiche 40 milioni di vetture che circolano nella Penisola sono diventate vecchiotte e alcune sono dei veri e propri rottami. Non vengono sostituite per un solo motivo: mancanza di soldi. Quindi il problema è precedente alla transizione energetica ma, seriamente, non è stato mai affrontato.

Un groviglio che ha anche dei risvolti sociali perché, non dimentichiamolo, la mobilità deve essere per tutti. Un diritto irrinunciabile. Veniamo ai punti deboli del nostro Paese che, a meno di un notevole scatto di reni, ci faranno trovare impreparati al D day. Forse sarebbe meglio spostare l'asticella un pochino più in alto. Noi, ma non tutti. Nelle discussioni in sede di Consiglio non c'è nulla di più facile che ottenere una deroga. Esiste già nella detraibilità dell'Iva sulle vetture aziendali, da tempo immemorabile.

Che vuoi che sia. Sicuramente non posticiperanno Germania e Francia seguite da tutto il Nord Europa. Difficile che lo chiedano i nostri politici in prima linea nella lotta alla CO2. Molti Paesi, quello che dovrebbe diventare obbligatorio nel 2035, lo stanno già facendo ora. In Italia, diciamolo chiaramente, le colonnine per rifornirsi sono merce rara e poi abbiamo un'inclinazione per la doppia velocità. Al Nord, arrampicandosi sugli specchi, si può provare a viaggiare in elettrico. Da Roma in giù sarebbe da folli avventurarsi.

Le auto elettriche (ora, non nel 2035) costano molto di più di quelle termiche che i costruttori, però, hanno già smesso di produrre (siamo nel 2022...). Prova ne sia che, nonostante il crollo delle vendite, sono introvabili se non aspettando mesi (per questo c'è la richiesta di estendere a 180 giorni la validità degli ecobonus). Con poche macchine a batteria, nessuno investe sulle colonnine visto che un piano governativo è ancora molto sfocato. Il dilemma è un altro. Noi, oltre ad essere consumatori di auto un po' affannati, abbiamo una tradizione industriale invidiabile e, soprattutto, una componentistica eccellente che spinge il Pil e dà lavoro a tantissime persone.

Chi parla di mettere in difficoltà questo comparto, è evidente che non sa quello che dice. Va blindato, difeso con le unghie e con i denti, rinnovato affinché possa restare all'avanguardia, un asset fortissimo per l'export. Mercoledì il Parlamento europeo ha votato. Fra il testo formulato dalla Commissione e quello proposto dalle destre c'era pochissima differenza: 100% di auto elettriche o 90%. Per la grande industria, che le auto le deve produrre, è la stessa cosa.

Nessuno si metterà mai a lavorare sul 10% del mercato per produrre vetture vecchie di 20 anni che, magari, costeranno di più e saranno irrivendibili. Che affare è? Tutte le Case che operano in Europa, infatti, hanno già annunciato che smetteranno di produrre motori a scoppio nel 2030 prendendosi 5 anni di margine per gestire le rimanenze. Dobbiamo salvare i nostri fornitori che soddisfano i costruttori europei e creare le condizioni per restare competitivi. Il resto lo faranno loro con inventiva, passione e professionalità restando un punto di riferimento. 

Transizione green, la via obbligata: oltre metà delle società ha un piano. Lo studio di EY, multinazionale dei servizi professionali e di consulenza che da cinque anni analizza i trend: le imprese italiane più grandi sono avanti in realizzazioni di medio-lungo termine, le più piccole si stanno ancora attrezzando. Da greenandblue.it su La Repubblica il 9 febbraio 2022.

Il Covid non fa fermato la transizione sostenibile delle aziende italiane. Più della metà dichiara infatti di aver sviluppato un piano green di medio-lungo periodo e una buona parte di queste di averlo strutturato con target quantitativi. Le grandi imprese, con fatturati superiori al miliardo di euro, sono le più strutturate e si confermano le più consapevoli che l’integrazione della sostenibilità passa attraverso un nuovo modello di business. Tuttavia, anche le aziende con fatturati inferiori iniziano ad evolversi verso modelli di sviluppo virtuosi sulla falsariga dei grandi player.

Modalità di indagine

E’ la prima istantanea che emerge dallo studio “Seize the Change – futuri sostenibili”, realizzato da EY, multinazionale nei servizi professionali e di consulenza, che da oltre 5 anni analizza i più significativi trend per le imprese italiane. L’ultima edizione ha aumentato il campione di aziende prese in esame (oltre 300), attive in settori chiave dell’economia italiana: 100 realtà, di cui la fetta più consistente sotto i 500 milioni di euro di fatturato, sono state analizzate attraverso una survey condotta tra giugno e ottobre 2021; mentre un’analisi desk sulle informative non finanziarie relative al 2020 è stata condotta su 203 aziende del Paese, di cui 31 quotate al Mib40, l’indice costituito dalle 40 società a più alta capitalizzazione di mercato a Piazza Affari. Cinque i temi analizzati da EY con metriche qualitative e quantitative: piani di sostenibilità, cambiamenti climatici, catena di fornitura, finanza sostenibile, economia circolare più impatto sociale.

Piani di sostenibilità

Sulla base della survey emerge come il 69% delle aziende (-1% sul 2019) ha previsto un piano di sostenibilità corredato da obiettivi. Nel 44% dei casi sono formalizzati target quantitativi e il 35% delle aziende analizzate ha definito anche le relative tempistiche per il raggiungimento degli obiettivi. Sulla base dell’analisi desk, emerge invece come il 57% delle aziende fornisce una descrizione qualitativa e/o quantitativa del proprio piano di sostenibilità (+7% sul 2019). Nel complesso, per oltre 1/3 il mutato contesto non ha provocato impatti nella transizione. In questo ambito, i settori più reattivi sono insurance&banking (67%) e Ict/hi-tech (44%) “Al netto delle aziende quotate, il bicchiere è mezzo pieno perché crescono le imprese che dichiarano di impegnarsi per la sostenibilità con piani concreti”, spiega Riccardo Giovannini, Climate Change e Sustainability leader di EY in Italia.

Rischi climatici

La survey riporta che il 53% delle aziende prevede azioni per il cambiamento climatico nel proprio piano industriale (+21% sul 2020). Il 19% ha un piano strategico orientato alla neutralità climatica e il 35% dichiara di aver già intrapreso un percorso di decarbonizzazione, che tuttavia non è correlato agli obiettivi dell’Ue. Il dato migliora nell’analisi desk che include le aziende quotate: quasi 3 su 4 si pongono obiettivi qualitativi e/o target quantitativi di riduzione delle emissioni. Lo scenario appare in rapida evoluzione tanto che già il 14% delle aziende ha annunciato un obiettivo di neutralità carbonica. Telco/media (50%) e food/beverage (30%) sono i settori che si distinguono con piani industriali di decarbonizzazione sostenuta, anche se non legata a target quantitativi. La quota sale nei settori insurance&banking (56%) ed energy/utilities (70%) dove i piani prevedono investimenti e azioni concrete per la carbon neutrality. “La svolta impone nuovi modelli di business. Per accompagnarla, c’è bisogno di tempo e l’impatto non è omogeneo per tutti”, dice Giovannini.

Catena di fornitura

Due anni dopo il Covid, segnala lo studio, il rischio principale risulta ancora l’interruzione operativa della filiera. Dall’analisi desk, risulta che quasi 1 azienda su 2 effettua azioni di risk assessment, cioè valutazioni di rischio, sui propri fornitori (40%). Nel complesso, il 71% delle aziende ha previsto però di apportare modifiche alla propria catena di fornitura: il 45% per selezionare i propri fornitori in modo più responsabile, il 3% perché alcuni stakeholder hanno reso più stringenti i criteri di selezione, il 19% per entrambe le precedenti motivazioni. Infine, il 29% non ha previsto sostanziali cambiamenti alla propria struttura di approvvigionamento. “La fascia di fatturato che dimostra maggior controllo della propria catena di fornitura è quella sopra i 1.000 milioni di euro, al pari del 2019. Nelle fasce sottostanti il livello di monitoraggio si riduce, ma si conferma in aumento rispetto all’anno precedente”, segnala Giovannini.

Finanza sostenibile

Nel 33% delle informative non finanziarie analizzate (203), si riportano iniziative legate alla finanza sostenibile: il trend è in crescita dell’8% sul 2019. E’ possibile, fa notare lo studio, che i maggiori incentivi europei ed internazionali abbiano determinato una spinta verso i prodotti finanziari green. Tale tendenza può essere riconducibile alla progressiva entrata in vigore di norme Ue con intento definitorio. “Tra i vari prodotti finanziari sostenibili, quelli più diffusi sono i green/social impact/sustainability linked bonds”, puntualizza Giovannini. Un altro dato importante è che il 35% delle aziende dichiara di aver sviluppato strategie di investimento responsabile di cui il 18% è firmatario del Pri (Principles for responsible investment). L’84% dichiara di aver implementato queste iniziative, il settore Insurance&Banking in testa.

Economia circolare

È in continuo aumento il numero di aziende (70%) che ha avviato negli ultimi 2 anni l’analisi dei propri processi operativi in ottica di efficientamento delle risorse. I settori più attivi risultano tessile/abbigliamento, industriale, energia&utilities che rappresentano il 50% delle aziende che hanno definito una strategia di economia circolare. Se le aziende italiane mettono in atto progetti e iniziative di questo tipo (46%), tuttavia rimane ancora poco diffusa la definizione di una strategia strutturata sulla circolarità (solo il 20%). Infine, il 64% delle aziende sono attive nel creare valore sul territorio.

Due come te, la transizione energetica spiegata con un podcast. La Repubblica il 22 dicembre 2021. Energie alternative, super computer, innovativi impianti fotovoltaici: le tecnologie per uno sviluppo sostenibile esistono e funzionano. E attraverso le puntate di questo podcast, realizzato in collaborazione con Eni, le comprenderemo meglio.

Ludovica e Francesco, due ragazzi come molti altri, alle prese con un futuro che sognano (e pretendono) sostenibile. Ma i dubbi sono tanti: che cos'è la transizione energetica? In che modo e con quali tecnologie viene attuata? E che benefici avrà sul nostro pianeta?

Confrontando le informazioni in loro possesso, e anche grazie all'intervento di esperti Eni che stanno lavorando attivamente alla transizione energetica, i due ragazzi troveranno le risposte alle loro domande. E capiranno che uno sviluppo sostenibile è davvero possibile. 

Episodio 1 - Gli scenari della transizione energetica

Garantire energia per tutti e ridurre le emissioni di gas serra, per contrastare il cambiamento climatico: è la sfida della transizione energetica. Come si sta muovendo il mondo? Quali nuovi scenari energetici si stanno creando? 

Episodio 2 – Innovazione per la transizione

L’innovazione è un punto focale nel processo che porta alla transizione energetica: gli investimenti nella ricerca scientifica e tecnologica sono un asset fondamentale. Capiamo l’importanza della tecnologia digitale nello sviluppo di HPC5, il supercomputer più potente al mondo in ambito industriale. 

Episodio 3 – Le energie che non ti aspetti

Le energie alternative devono assumere un’importanza crescente sul sentiero che porta verso la neutralità carbonica: le rinnovabili arriveranno a soddisfare nel 2040 il 36% nel consumo primario (vs. 14% nel 2019), soprattutto grazie allo sviluppo di eolico e solare. Eni sta sviluppando anche ISWEC, primo impianto sperimentale al mondo di generazione elettrica integrata da moto ondoso e fotovoltaico.

DOMANDE E RISPOSTE. Gas e nucleare “verdi”. Così la tassonomia si è trasformata in una trappola. Francesca De Benedetti su editorialedomani.it il 03 gennaio 2022. Quella parolina insolita, cioè “tassonomia”, doveva essere la bandiera del progresso: l’Europa voleva indirizzare gli investimenti verso le attività più sostenibili per l’ambiente.

Ma le pressioni delle lobby, e soprattutto una solida alleanza di governi guidati dalla Francia, hanno portato alla resa di Bruxelles: adesso la Commissione fa ciò che Parigi e altre capitali, compresa la nostra, speravano. Concede al gas, e al nucleare, l’etichetta di “green”.

Lo fa allo scoccare del Capodanno, ma invece di guardare al futuro rinnovabile, ritorna al passato. Non tutto è già deciso, ma per cambiare questa decisione serve una maggioranza ampia di governi; e al momento troppi governi stanno con Bruxelles.

PERCHÉ SI TORNA A PARLARE DI NUCLEARE?

Sui tavoli europei c’è un dossier da chiudere. Si chiama “tassonomia”, ed è un sistema con cui l’Unione europea definisce quali sono le attività economiche da ritenersi sostenibili. Etichettare qualcosa come “green” significa mandare un preciso messaggio positivo agli investitori, alle aziende e ai decisori politici stessi.

Non a caso su questo dossier le pressioni sia delle lobby che dei governi, Francia in testa, sono molto forti. E hanno fatto breccia sulla Commissione: la proposta avanzata da Bruxelles a capodanno concede l’etichetta verde a gas e nucleare.

COSA È LA TASSONOMIA E PERCHÉ È CRUCIALE?

In teoria, la tassonomia dovrebbe essere orientata da criteri scientifici. Il motivo per cui l’Ue ha scelto di dotarsi di questo sistema di classificazione è proprio di essere all’avanguardia e di orientare gli investitori verso le fonti sostenibili.

Quali investimenti sono green? Su cosa investire per andare al passo con il futuro? La tassonomia nasce per dare risposte a questo e quindi per orientare il mercato in direzione verde. Il report dello EU Technical Expert group, e cioè il dossier tecnico che forniva alla Commissione i dati necessari per elaborare la sua proposta, detta i limiti di emissioni tali perché una fonte possa essere ritenuta sostenibile. Stando a quei criteri, il gas non potrebbe essere verde. Ma ben presto nell’elaborazione della decisione hanno preso il sopravvento criteri assai più politici.

CHI HA SPINTO PER AVERE GAS E NUCLEARE "VERDI”?

Sia le lobby sia i governi nazionali. Le pressioni delle industrie del gas e del nucleare su Bruxelles si sono fatte sempre più intense: tra gennaio 2020 e maggio 2021, i lobbisti del gas hanno ottenuto 323 incontri con i funzionari Ue. Il settore nucleare ha raddoppiato il ritmo degli incontri, l’azienda francese Edf da sola ha speso oltre due milioni all’anno per influenzare Bruxelles. Ma la vera svolta è arrivata dai governi, a cominciare da Parigi. 

Travestire il nucleare e il gas da energie verdi è il piano anti clima che Emmanuel Macron, con un gruppo di altri paesi e con la complicità del governo Draghi, porta avanti in Europa. Macron ha utilizzato il caro prezzi dell’energia come pretesto per dare ulteriore spinta al piano: etichettare il nucleare come verde, e dare ulteriore impulso al settore. 

EUROPA

La Francia sabota i piani verdi dell’Europa con l’aiuto di Visegrad e l’assenso di Roma

La Francia ha costruito un fronte di una decina di paesi, tra i quali Polonia e Ungheria, e non li ha attratti solo con promesse sul nucleare. L’alleanza lanciata da Macron è un patto di reciproco sostegno tra chi vorrebbe green il nucleare, e chi il gas, come Slovenia, Bulgaria, gruppo di Visegrad. Anche per Roma la priorità è il gas.

COSA FA ORA BRUXELLES?

Sin dal Consiglio europeo di ottobre è apparso chiaro l’orientamento della Commissione: concedere l’apparenza di green a gas e nucleare, sotto la spinta insistente dei governi per fare in fretta e chiudere la partita prima che il nuovo governo tedesco a componente verde potesse ostacolare il piano. Bruxelles ha aspettato il giorno dei festeggiamenti di Capodanno per far trapelare la bozza della sua proposta.

A dieci minuti dalla mezzanotte, il 31 dicembre, il testo ha iniziato a circolare. Cosa dice? Che gas e nucleare sono green, con queste precisazioni: quanto al nucleare, fino al 2045 nuove centrali saranno coperte dall’etichetta verde, purché ci siano depositi sicuri per le scorie.

Una condizione che però tuttora non è rispettata: il problema delle scorie radioattive è ancora irrisolto, e Parigi stessa lo affronta a modo suo; Greenpeace Francia ha svelato a ottobre che le aziende «spediscono i rifiuti radioattivi in un sito non sicuro a Seversk, in Siberia».

E il gas? Anche verso gli investimenti nel gas naturale Bruxelles è indulgente: li riconosce come verdi con l’alibi di essere una risorsa di transizione, e accompagna la regola ad alcuni standard da rispettare per le nuove centrali. 

SIAMO SICURI CHE ANDRÀ A FINIRE COSÌ?

La tassonomia non è nelle sole mani di Bruxelles: il dossier deve passare anche dai governi riuniti in Consiglio, e dall’Europarlamento. Gli ambientalisti sono in rivolta in tutta Europa, e i Verdi annunciano battaglia sia dai loro scranni nel Parlamento Ue che dai posti di governo in Germania. Berlino dopo Fukushima ha avviato la denuclearizzazione del paese e un ritorno al passato crea problemi al cancelliere.

Ma il gruppo di paesi pro gas e pro nucleare, i quali hanno costituito tra loro un’alleanza, è al momento troppo forte perché i contrari possano rovesciare la decisione in sede di Consiglio europeo.

COSA SUCCEDE ORA?

C’è ancora un passaggio che riguarda la Commissione: Bruxelles deve aspettare la reazione del gruppo tecnico di esperti, i quali hanno tempo fino al 12 gennaio per esprimersi. La tassonomia, che formalmente è un atto delegato, verrà poi adottata ufficialmente dalla Commissione entro fine gennaio. 

A quel punto il tema passa alle altre istituzioni, cioè Consiglio ed Europarlamento. Governi ed eletti europei hanno quattro mesi per valutare la proposta, e possono chiederne altri due: c’è quindi un margine di mezzo anno.

Ma perché la direzione della proposta possa essere ribaltata serve una corposa maggioranza: in questo caso non serve solo una maggioranza qualificata rinforzata, ma bisogna trovare questi numeri non per approvare bensì per mettere in discussione. Servono quindi almeno venti stati membri che rappresentino il 65 per cento di europei, per poter obiettare.  

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

Le città "stravolte" dalla sfida green: cosa sta per cambiare. Alessandro Ferro il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nonostante l'accordo zoppicante della Cop26, i Comuni italiani si stanno rimboccando le maniche per aderire alla transizione ecologica: ecco quali sono i principali cambiamenti.

Come inquinano le città non inquina nessuno: ben il 70% dell'inquinamento mondiale deriva dai centri urbani. L'accordo finale sul clima della Cop26, come ci siamo occupati sul Giornale.it, risulta molto meno importante del previsto con molti Paesi che parlano di "accordo deludente". Ecco perchè si fa sempre pù necessario un cambiamento dal basso.

Come cambiano alcune città

Nel loro piccolo, è quanto stanno cercando di fare molti Comuni della nostra meravigliosa Italia grazie a molte soluzioni adottate direttamente dalle amministrazioni locali. Grandi realtà abitate da milioni di abitanti come Torino e Milano stanno convertendo sempre di più il loro trasporto pubblico all'elettrico: se è vero che la media nazionale è appena del 5%, Torino si conferma capofila con 170 mezzi elettrici nel prossimo futuro mentre Milano vuole arrivare al 2029 con tutti e 1200 i propri bus elettrici. Qualche cambiamento anche in città come Genova, Cagliari, Bologna e Roma.

L'importanza degli alberi

La famosa "isola di calore" urbana, spesso responsabile diretta e indiretta di nubifragi localizzati in alcune aree metropolitane, è causata dall'eccessiva quantità di asfalto e cemento di cui siamo circondati: pensate che, ogni secondo, in Italia si perdono due metri quadrati di suolo. Per invertire la rotta, il Comune di Segrate (Milano) ha già dato l'ok al progetto "Chilometro verde" che vedrà 3,5 km della strada provinciale Cassanese trasformata in un "corridoio verde" grazie al quale le emissioni saranno riassorbite per il 70% oltre ad essere piantati 36mila nuovi alberti, uno per abitante. Vuole ridurre le emissioni anche il Comune di Calenzano, in provincia di Firenze, premiato come campione d'Italia nella riduzioone di CO2 con un risparmio di ben 2.600 tonnellate nel 2016.

Energia solare

Il futuro del fotovoltaico è al sicuro in provincia di Foggia, a Biccari, che nonostante abbia meno di tremila abitanti ha l'obiettivo di installare ben 200KW di pannelli sui tetti di edifici pubblici e delle case private. A Pesaro, invece, c'è un edificio considerato tra i più ecosostenibili d'Europa e premiato con "Leadership Award 2021", l'oscar per l'architettura verde: è una scuola, la Brancati, progettata per "avere un'alta efficienza energetica, bassi consumi e minore impatto ambientale grazie a materiali naturali scelti, alcuni riciclati e proveniente da scarti. Tetto verde, pareti ventilate, controllo della luce naturale e artificiale", scrive Repubblica.

Plastica e raccolta differenziata

Con la plastica siamo a buon punto ma ancora troppo indietro anche rispetto a tante realtà europee ma l'Italia stessa è spaccata in due con un bel divario nord-sud. A Polesine Zibello, in provincia di Parma si è deciso di offrire una fetta di culatello a chi si prodiga per il recupero della plastica aderendo al progetto "Puliamo il Po e puliremo il mondo" per ridurre questo materiale così dannoso nel fiume più lungo d'Italia. Anche con la differenziata non siamo messi malissimo ma si potrebbe star meglio: secondo l'analisi di Legambiente, nel 2021 ci sono ben 623 comuni italiani che riescono a produrre meno di 75 km di differenziata pro capite. In testa alla classifica realtà come Trento, Pordenone, Treviso e Belluno.

Infine, un plauso anche alla Sicilia, con il comune di Troina, in provincia di Enna, che con l'iniziativa "Case a un euro" ha riqualificato del tutto le case del centro storico permettendo una completa riabitazione. E poi, alcuni centri agricoli gestiti dalle mafie adesso sono parte della transizione ecologica e danno lavoro a numerosi giovani: questa è l'Italia che ci piace.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario. 

I Fondi green contagiano anche l'economia tradizionale. Matteo Mura il 13 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Uno studio dell'Università cinese di Hong Kong ha analizzato il potere di persuasione della finanza ecosostenibile.

La finanza sostenibile obbligherà al cambiamento tutte le principali società attive sui mercati internazionali. Le aziende saranno portate ad essere più ecosostenibili per attirare gli investitori e rinsaldare il legame con azionisti storici e clientela. La correlazione tra attivismo dei fondi “amici dell’ambiente” e condotte delle società tradizionali è stato messa in evidenza da uno studio condotto dall’Università cinese di Hong Kong. I ricercatori dell’ex colonia britannica hanno dimostrato come il fenomeno dell’implementazione di scelte produttive più responsabili sia amplificato anche dalle sanzioni comminate da organismi pubblici contro realtà produttive accusate di inquinare o di non tenere in debita considerazione i fattori ambientali.

L’articolo pubblicato al termine della ricerca ha esaminato le conseguenze dei richiami adottati dall’Agenzia statunitense per la tutela ambientale-Epa. Il combinato disposto – la finanza compatibile e la pubblicità delle sanzioni delle autorità di controllo – contribuisce in maniera decisiva allo sviluppo di tecnologie capaci di limitare l’utilizzo di materie prime o di campagne in cui a farla da padrone è la tematica ambientale. Un cambio di approccio dei mercati che sta diventando sempre più veloce. I fondi Esg – acronimo che sta per enviromental, social and governance – sono quindi destinati ad assumere sempre più rilevanza tra i listini delle principali piazze finanziarie. L’andamento di questi prodotti negli ultimi trimestri dimostra che sono spesso in grado di garantire ottimi rendimenti. Un dato capace di catalizzare l’attenzione di nuovi investitori.

Gli analisti cinesi hanno messo in evidenza un’altra dinamica. Il peso delle scelte del fondo rispetto alle aziende di cui possiede delle azioni è tanto più importante quanto più sono vicine la sede del fondo stesso e gli stabilimenti della società di cui si possiede una quota del capitale. Questo perché viene favorito il controllo diretto da parte degli stessi analisti e funzionari delle società finanziarie coinvolte nella gestione di prodotti e titoli green. Un monitoraggio di prossimità che non consente ai vertici delle società quotate sui mercati di declinare strategie di facciata. Al contrario, così come accade durante l’illustrazione dei ricavi previsti o della politica sui dividendi, sarà necessario fornire informazioni dettagliate ed aggiornare gli investitori rispetto alla parte del piano industriale dedicata alla salvaguardia delle risorse ambientali. Non è un caso che lo studio condotto dagli specialisti di Hong Kong abbia analizzato anche le dinamiche legate alla minaccia di uscita dall’azionariato. Gli economisti hanno spiegato che le conseguenze sul tema sono reali e concrete. Il report ha messo in evidenza come tutti i fondi responsabili riducano il peso nel proprio portafoglio delle imprese i cui impianti non riducono le emissioni subito dopo il verificarsi di una criticità locale.

I prossimi mesi saranno fondamentali per fare ordine nel mercato dei fondi sostenibili. Secondo i programmi della Banca centrale europea sarà strategico arrivare ad una definizione puntuale delle varie tipologie di prodotti che oggi costellano i vari mercati. Una ricerca di confini più puntuali che passerà anche dalla valutazione delle politiche adottate per preservare l’ambiente. I vertici dell’Eurotower di Francoforte sono stati chiari: “Per stimolare l’apporto della finanza sostenibile, è essenziale che gli strumenti finanziari offerti ai risparmiatori siano affidabili e facilmente comprensibili. È inoltre necessario che i prestatori di fondi siano in grado di vagliare i progetti d’investimento e di valutarne la coerenza con i loro obiettivi sia finanziari sia non pecuniari”. Gli strumenti oggi a disposizione dei mercati e degli investitori devono andare incontro a un deciso innalzamento degli standard: “Occorrono informazioni esaustive sull’effettiva rispondenza degli investimenti a criteri di sostenibilità. I dati oggi disponibili sono scarsi e di qualità insoddisfacente: ad esempio, i rating Esg relativi alle singole aziende elaborati da diversi analisti fanno riferimento a metodologie disomogenee e risultano tra loro poco correlati. Anche in questo caso sono auspicabili interventi di carattere normativo”. Matteo Mura

·        I Gretini.

Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

L’antesignano dell’ambientalismo? Fu Arnaldo Mussolini. Emanuele Beluffi su culturaidentità.it il 26 Novembre 2022

​Cinabro Edizioni pubblica gli scritti di un​ mite e appassionato studioso che sembrano un monito per l’ecologismo di oggi

​Lo dicevamo anche noi di CulturaIdentità nel nostro Manifesto delle Città Identitarie: “Gli abitanti hanno costruito da tempo un’alleanza tra l’agricoltura e il territorio che favorisce la conservazione del paesaggio e la biodiversità. In questo contesto l’agricoltore diventa custode della terra”. Queste le nostre parole, di ora come allora. E di cui ci piace avvertire la risonanza anche in quel Ministero “del nuovo immaginario italiano” che abbiamo voluto identificare nel Ministero della Cultura​. E, perché no,​ nel  Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste​: è vero che l’Italia, potenza industriale, fa parte del G7, ma è anche vero che il nostro Paese vanta una forte tradizione legata alla sfera agraria e ambientale, al punto da occasionare quello che sopra dicevamo essere l’ “immaginario” culturale di una nazione. O una weltanschauung, una visione del mondo, come lo era quella agraria e ambientale di Arnaldo Mussolini (Dovia di Predappio, 11 gennaio 1885-Milano, 21 dicembre 1931), direttore del Popolo d’Italia dal novembre del ’22 agli ultimi giorni di una vita terminata a soli 46 anni per un attacco cardiaco​ e spesa ​per una rinascita agricola e forestale dell’Italia.

Cinabro Edizioni, insieme al gruppo abruzzese di Coscienza e Dovere, ci fa oggi scoprire (o ri-scoprire) l’impegno di uno studioso e docente di agraria​, mite e​ dalla spiccata sensibilità ecologica, con cui animò anche riviste  e approfondimenti  di carattere agrario e forestale. Il bosco e l’aratro. Raccolti di scritti di carattere forestale e agrario, di Arnaldo Mussolini, è il libro appena uscito nella collana Paideia di Cinabro Edizioni (216 pagine, 20€, a cura di Coscienza e Dovere, con prefazione di Remo Grandori e introduzione di Diego Giorgi), che comprende gli articoli sul rilancio dell’agricoltura e la salvaguardia della terra pubblicati sulle pagine del Popolo d’Italia da Arnaldo Mussolini, fautore di un “culto dell’albero”​, con cui intendeva un’educazione civile e di rispetto verso gli alberi​ ​e un’attenzione per il problema forestale straordinariamente attuali, se pensiamo alle storture dell’ecologismo ideologico di oggi: un lascito giornalistico e culturale che rischiava di restare nei cassetti più riposti della memoria collettiva.

Anche Greta è stufa delle crociate green: "Pronta a passare il megafono ad altri". Dopo quattro anni di scioperi e cortei alla testa del movimento "Fridays for Future", la Thunberg lascia: "Ora parli chi è davvero colpito dal cambiamento del clima". Valeria Braghieri l’8 Novembre 2022 su Il Giornale.

D'altra parte ha un'età. È giusto che si ritiri in buon ordine e lasci il megafono ad altri. Ormai ha diciannove anni, perdere smalto è un attimo. E poi forse anche Greta si è stancata di Greta. Sono quattro-interminabili-anni che come Atlante porta il mondo sulle spalle (era il 20 agosto 2018 quando ha deciso di smettere di andare a scuola fino alle elezioni legislative di Stoccolma del 9 settembre). Un mondo che decisamente non le piace neppure, che le lascia un sapore cattivo di alluminio e cenere. Quello sciopero scolastico era infatti per convincere il governo svedese a ridurre le emissioni di anidride carbonica.

Per quattro-interminabili-anni, Greta Thunberg, ha donato la sua vita alla causa. Meglio, ha incarnato la causa, è diventata la sua sagoma in cartonato riciclato e anche il suo ripieno ecosostenibile. Oggi, quando qualcuno pensa ad abbattere le emissioni, alla riforestazione, al surriscaldamento globale o a un orso polare che prede troppo pelo, sono le trecce bionde di Greta il primo frame che gli appare negli occhi e la sua faccia disgustata dalla disapprovazione. Per quattro-interminabili-anni, il Pianeta ha tossito e agonizzato solo tra le taumaturgiche mani di Greta. E lei, allarmata, lo ha esibito, sanguinante nelle stesse mani a coppa, davanti a un folto esercito di assassini ignoranti. I potenti della terra sono rimasti lì, colpevoli e immobili, a lasciare tutti gli sforzi a una ragazzina bionda: come gli uccelli zecca sulle schiene degli ippopotami.

Per quattro-interminabili-anni, Greta ha cercato inutilmente di educare politici, professori, scienziati, climatologi, fruitori d'aria condizionata, casalinghe recalcitranti alla raccolta differenziata, irresponsabili della doccia, mangiatori di merendine chimiche... Ha disperatamente tentato di mettere qualcosa in testa a questa generazione sfiancante (la sua), chiedendo loro, tra l'altro, il sacrifico estremo di saltare la scuola tutti i venerdì per partecipare al movimento «Fridays for Future»; ha fatto diventare vegani i suoi genitori, e ce la immaginiamo bene a sbarrare l'accesso alla dispensa perché lei ha perfino un modo di chiudere il frigo per dire: sono molto delusa. Quattro-interminabili-anni: dal vertice sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, al Forum economico mondiale di Davos, dalla commissione Ambiente del Parlamento europeo dove è intervenuta nel 2019 bacchettando gli astanti e sollecitando soluzioni «nette e rapide», all'udienza generale da Papa Francesco in piazza San Pietro a Roma, fino all'attraversata dell'Oceano Atlantico a bordo di uno yacht a vela ma munito di pannelli solari e turbine subacquee. «È ora di consegnare il megafono a coloro che hanno davvero storie da raccontare, a quelli direttamente colpiti dal cambiamento climatico», perché «il mondo ha bisogno di nuove prospettive» ha detto ieri l'attivista nel corso di un'intervista nella quale ha confessato anche di essere delusa e ormai scettica sulla reale volontà dei potenti di cambiare le cose. Aveva già annunciato che non sarebbe andata ai colloqui della COP27 che sono iniziati ieri a Sharm El-Sheik. Tanto non ci sarebbe stato comunque qualcuno in grado di mitigare il suo disappunto. Non è così che si sta al mondo, da turisti della vita. Pretendi, fatti sentire, esercita i tuoi diritti: «Effetto Greta» hanno chiamato questo modo intransigente di portarsi e denunciare. Il ritiro in buon ordine dopo quattro-interminabili-anni ci ha stupiti, pensavano di vederla invecchiare sotto le trecce e con i cartelli pieni di slogan in mano. Come una rosa di tre giorni, un po' spampanata: ma non dal caldo, dagli ideali stinti. Invece si è ripresa la sua vita in tempo, Greta. Perché dopo quattro-interminabili-anni, ha solo diciannove anni. Chissà che d'ora in poi non le venga voglia di essere così cheap da essere anche contenta.

Greta Thunberg, annuncio a sorpresa: la regina dei gretini “passa il testimone”. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 7 Novembre 2022

Nei giorni del Cop27, la Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, Greta Thunberg ha annunciato al pubblico di essere pronta a passare il testimone, quattro anni dopo l’inizio del suo attivismo con lo sciopero scolastico sul clima. Una notizia che sorprende, soprattutto nelle sue ragioni: “Dovremmo anche ascoltare i resoconti e le esperienze delle persone più colpite dalla crisi climatica. È ora di consegnare il megafono a coloro che hanno davvero storie da raccontare”, ha specificato la giovane leader ecologista.

Uno smacco per la catechesi ambientale. Su queste dichiarazioni, quindi, dovremmo presupporre che Greta sia stato solo un fenomeno preconfezionato dai media, nato dal giorno alla notte, in nome di un catastrofismo ambientabile amplificato dall’influencer climatica. Una ragazza che, alla guida del seguitissimo Fridays For Future, non aveva nulla da raccontare (come, d’altro canto, trasuda dalle sue stesse parole), ma che è riuscita con efficacia a creare un mito immaginario, abbindolando tutti capi di Stato del mondo (fatta eccezione Donald Trump). Insomma, una Chiara Ferragni del clima.

Sì, proprio perché la storia dei gretini, insieme al Cop27 in corso, rappresentano pienamente il livello di ipocrisia che caratterizza la favola del climatismo, dell’uomo distruttore del pianeta. Da una parte, non solo perché alla conferenza sono assenti Cina, India e Russia (ovvero i tre principali inquinatori al mondo); ma anche perché si pensa di combattere il cambiamento climatico attraverso estenuanti piani pubblici di durate decennali, come se l’attuale classe dirigente, in qualità di demiurgo, fosse in grado di prevedere le esigenze sociali, produttive ed ambientali da qui ai prossimi 15 anni.

Insomma, il fenomeno Greta ha incarnato il populismo ecologico a tutti gli effetti. In nome della competenza, così tanto sventolata anche da quotidiani mainstream e politica, il mondo si è affidato ad una bambina di 15 anni divenuta la rappresentazione iconica di quel climatismo politicamente corretto, che vede nell’uomo l’incarnazione del male assoluto. Insomma, un po’ come una militante di Black Lives Matter contro il maschio bianco, occidentale e capitalista.

A quattro anni di distanza dall’inizio del fenomeno mediatico, Greta starebbe ben pensando di finire gli studi e ritirarsi a vita privata. Un po’ stile Napoleone a Sant’Elena o D’Annunzio nel suo meraviglioso Vittoriale, elogiata e decantata dal mondo della catechesi ambientale. Matteo Milanesi, 7 novembre 2022

Clima, la versione di Greta Thunberg. Greta Thunberg su La Repubblica il 26 Ottobre 2022.

L’attivista, nel suo ultimo saggio, spiega perché la politica dei piccoli passi non salverà il pianeta. “La crisi climatica è grave, serve una nuova cultura”

La risposta alla domanda se dovremmo concentrarci sul cambiamento dei singoli o del sistema è che non ci può essere l'uno senza l'altro. Abbiamo bisogno di entrambi. Risolvere la crisi climatica non è un compito che può essere lasciato agli individui e nemmeno al mercato. Per mantenerci in linea con i nostri obiettivi climatici - e quindi scongiurare i rischi peggiori di innescare una catastrofe - dobbiamo modificare per intero le nostre società. Per citare l'IPCC, "limitare il riscaldamento globale a 1,5 °C richiederà cambiamenti rapidi, di vasta portata e senza precedenti in tutti gli aspetti della società". 

Per ottenere una trasformazione del genere non basterà che i singoli individui modifichino gli stili di vita, che le singole aziende trovino nuovi modi per produrre cemento verde o che i singoli governi incrementino oppure riducano le tasse. Ma, allo stesso tempo, è altrettanto impossibile attuare una trasformazione senza il contributo degli individui; i singoli devono fare da apripista dal basso. Singole persone, singoli movimenti, singole organizzazioni, singoli leader, singole regioni e singole nazioni devono iniziare ad agire. 

In tutto il corso della storia le società hanno vissuto parecchi cambiamenti importanti. Alcuni sono stati alquanto drastici, nel bene o nel male. Per cui quando invochiamo cambiamenti senza precedenti in tutti gli aspetti delle nostre società non intendiamo che dovremmo limitarci a mangiare vegetariano un giorno a settimana, compensare in qualche modo le vacanze in Thailandia o scambiare il Suv diesel con un'auto elettrica. Eppure è questo che sembra pensare la maggior parte della gente in vaste aree del mondo. 

E i motivi sono comprensibili. L'uomo è un animale sociale, un animale da branco, se preferite. Come spiegano Stuart Capstick e Lorraine Whitmarsh copiamo il comportamento degli altri e seguiamo i leader. Se non vediamo nessuno comportarsi come se fossimo nel mezzo di una crisi, pochissimi di noi capiranno che è esattamente lì che ci troviamo. In altre parole, dire che siamo di fronte a un'emergenza conta ben poco se nessuno agisce come se fossimo di fronte a un'emergenza. È un concetto che chi detiene il potere ha compreso alla perfezione, imparando a padroneggiare la sottile arte di dire una cosa facendo al contempo l'esatto opposto. Molto probabilmente è questo il motivo per cui abbiamo finito per trovarci in una situazione in cui, per esempio, le nazioni maggiori produttrici mondiali di petrolio stanno rapidamente espandendo le proprie infrastrutture relative ai combustibili fossili e allo stesso tempo si autodefiniscono leader del clima pur non riuscendo ancora a ridurre le proprie emissioni. 

La lingua svedese ha coniato solo un ristrettissimo numero di termini oggetto di riconoscimento internazionale e che sono entrati a far parte del vocabolario globale. Uno dei più recenti è flygskam, la "vergogna di volare". È un concetto collegato al movimento internazionale per il clima e al numero crescente di persone che hanno smesso di prendere l'aereo, perché spesso è di gran lunga l'attività individuale più deleteria in termini climatici che si possa intraprendere, se non si contano le trasferte spaziali stile miliardari o il possesso di un enorme yacht privato. Il motivo per cui il flygskam ha preso piede in Svezia è, molto probabilmente, che alcune celebrità l'hanno appoggiato. \[...\] Esiste, comunque, un'altra parola svedese che merita ben più attenzione di flygskam, ed è folkbildning. Si potrebbe tradurre, approssimativamente, con "istruzione del pubblico su larga scala e volontaria", e affonda perlopiù le sue radici nella comunità della classe operaia nata dopo l'introduzione della democrazia nel paese nei primi decenni del XX secolo, quando sono diventati legali i sindacati, a operai e donne è stato concesso il diritto di voto e la Svezia ha iniziato a costruire uno Stato di welfare. 

Molti probabilmente ritengono che Fridays For Future sia stato inizialmente concepito come un movimento di protesta, ma non è così, o almeno non è così che è partito. Il nostro obiettivo primario, all'inizio, era diffondere informazioni sulla crisi, come atto di folkbildning. \[...\]. Sono fermamente convinta che il modo più efficace per uscire da questo pasticcio sia educare noi stessi e gli altri (un tantino ironico, dal momento che l'idea degli scioperi scolastici si basa sul saltare la scuola, ma tant'è). Perché una volta che si capisce quale situazione ci troviamo di fronte, si sa più o meno cosa fare. E - aspetto forse altrettanto importante - si sa cosa non fare. Come per esempio concentrarsi sui dettagli specifici senza tener conto del contesto più ampio o, in altre parole, cercare di risolvere una crisi senza trattarla come tale. Sono assolutamente convinta che nel momento in cui entreremo in piena modalità crisi potremo anche considerare tutti i singoli possibili dettagli. Ma, fino ad allora, discutere di questioni specifiche e distinte sarà verosimilmente una perdita di tempo, perché molte di tali questioni distinte vengono cooptate per scatenare delle "guerre culturali". Spesso sono concepite per distogliere l'attenzione e per bloccare qualunque progresso significativo. 

Come lo sviluppo demografico, il nucleare o "e allora la Cina?". Oltre alle guerre culturali, esistono parecchie altre strategie di successo per ritardare, dividere e distrarre. Come sottolineato da Naomi Oreskes, l'industria dei combustibili fossili ha "spostato i riflettori dal proprio ruolo anche insistendo che i cittadini dovessero assumersi le loro "personali responsabilità"" concentrandosi sulla propria impronta di carbonio di singoli. 

L'idea è stata promossa in origine dalla compagnia petrolifera BP per sviare l'attenzione dalle grandi industrie nefaste al singolo consumatore. È stata molto efficace. Nina Schrank richiama l'attenzione su un tentativo analogo da parte di alcune aziende di bibite, come Coca-Cola, per far ricadere sui consumatori la colpa dell'impennata nell'inquinamento da plastica, e innumerevoli campagne simili sono state instillate nel dibattito sul clima. Una campagna recente, di grande successo, sostiene che un centinaio di aziende siano responsabili del 70 per cento delle emissioni mondiali. È la tesi diametralmente opposta a quella della retorica dell'impronta di carbonio, ma il risultato è grossomodo il medesimo: nello specifico, l'inazione. Il messaggio di fondo, stavolta, è che siccome le aziende che generano tutte queste emissioni sono solo un centinaio, non importa cosa facciamo come individui, perché sarebbe ben più efficace se ci limitassimo a sbarazzarci in qualche modo di quelle aziende. Come dovremmo sbarazzarcene non è chiaro, anche perché non abbiamo norme, leggi o restrizioni per farlo, a parte boicottare i loro prodotti, il che, ovviamente, è un'azione individuale. 

Non fraintendetemi: sono pienamente d'accordo con il discorso di sbarazzarcene e fargliela pagare per la rovina indescrivibile che hanno provocato. Solo che, una volta sparite quelle cento aziende, di certo altre cento prenderebbero il loro posto, a meno che non trasformiamo per intero la nostra società, un processo che richiede che azione dei singoli e cambiamento sistemico vadano di pari passo. Perciò, ripeto, abbiamo bisogno di entrambi. Qualunque suggerimento in base al quale potremmo avere l'una senza l'altro, o per cui una singola idea o soluzione dovrebbe essere più importante di tutte le altre, sarà teso, è abbastanza garantito, a rallentarci. \[...\] 

La verità è che se vogliamo scongiurare le conseguenze peggiori della crisi climatica ed ecologica, non possiamo più ponderare e scegliere che azioni intraprendere: dobbiamo fare tutto ciò che possiamo. E per questo abbiamo bisogno di tutti: singoli, governi, aziende e qualunque altro organismo o istituzione si riesca a immaginare. Ma dobbiamo ricordare che il momento dei piccoli passi nella giusta direzione è finito da un bel po'. Non abbiamo più il tempo di accompagnare la gente pian piano. Perché quando si parla di crisi climatica, per citare lo scrittore americano Alex Steffen, "vincere lentamente equivale a perdere".

IL LIBRO

The Climate Book di Greta Thunberg (Mondadori, pagg. 464, euro 28). In libreria dal primo novembre

Il rischio di radicalizzazione nel movimento ambientalista. MATTEO PUGLIESE su Il Domani l'1 novembre 2022

Il movimento Extinction Rebellion risale al 2018, ma nel 2022 suoi ex membri hanno fondatio Just Stop Oil e Letzte Generation in Inghilterra e Germania 

Il rischio di radicalizzazione giovanile di frange estremiste è direttamente proporzionale alle mancate risposte concrete delle istituzioni alla crisi climatica

La fusione con il movimento ambientalista radicale e le anime anarchiche in vari paesi pone un’ulteriore sfida di sicurezza

Nelle ultime settimane si sono moltiplicati i casi eclatanti di protesta di attivisti ambientalisti. A Londra, appartenenti al movimento Just Stop Oil hanno lanciato dei barattoli di salsa di pomodoro contro i Girasoli di Van Gogh, ma il quadro era protetto da un vetro.

In Germania, invece, due attivisti del gruppo Letzte Generation hanno imbrattato con del purè Il Pagliaio di Monet, che è stato danneggiato seriamente. Altri membri di Just Stop Oil hanno tirato una torta in faccia alla statua di Re Carlo, esposta al museo delle cere.

Queste iniziative controverse hanno raggiunto il loro obiettivo: i video sono diventati virali e sono stati ripresi da tutti i principali media internazionali, scatenando reazioni variegate che vanno dall’indignazione al plauso.

Stiamo assistendo a un salto di qualità e di radicalizzazione. Prova ne è che il gruppo Just Stop Oil è stato creato a febbraio 2022 da ex membri del movimento Extinction Rebellion (Xr) e adopera non solo tecniche di disobbedienza civile, ma anche di azione diretta. Anche il gruppo tedesco Letzte Generation si è formato nel 2022 da attivisti tedeschi di Extinction Rebellion, forse delusi dai mancati successi degli anni scorsi.

Gli attacchi hanno provocato anche un ampio dibattito sulla legittimità di danneggiare oggetti d’arte di grande valore. La violenza contro le cose è un gradino intermedio tra la semplice disobbedienza civile e la violenza contro gli individui.

Su questo giornale, Fabrizio Sinisi ha ricordato il libro del filosofo ed ecologista svedese Andreas Malm, Come far saltare un oleodotto, che si interroga su forme tattiche di violenza contro le cose per sensibilizzare la società e raggiungere una massa critica di persone disposte al cambiamento. Mettendo per un momento da parte la questione etica di simili atti, vale la pena osservare questo processo sotto la lente dei rischi di sicurezza e della radicalizzazione.

DOPO GRETA

Nel 2019, la giovanissima svedese Greta Thunberg è stata nominata sulla copertina di Time come persona dell’anno per aver promosso i Fridays for Future, che si sono diffusi in tutto il mondo. Migliaia di attivisti dall’Europa all’Asia hanno manifestato per contrastare il riscaldamento globale e lo sfruttamento indiscriminato delle risorse, in particolare i combustibili fossili.

Proprio a giugno 2019 si è verificata l’occupazione della miniera di carbone di Garzweiler, in Germania, da parte di centinaia di attivisti che si sono scontrati con la polizia in assetto antisommossa. Entrambe le parti hanno accusato l’altra di violenza e alcuni dei manifestanti avevano già partecipato alla protesta di Fridays for Future nella città di Aachen.

A novembre di quell’anno, centinaia di militanti ecologisti hanno occupato le miniere tedesche di Jaenschwalde Ost e di Welzow-Sued, gestite dall’azienda ceca Leag. Mentre un migliaio di manifestanti ha bloccato le operazioni di scavo ed estrazione in una miniera di Lipsia gestita dall’azienda Mibrag, oltre ai treni che trasportano il carbone alle centrali elettriche.

L’azione è stata pianificata dal gruppo tedesco Ende Gelände (“Fine della storia”), che dal 2015 organizza proteste di disobbedienza civile contro i combustibili fossili.

Tali azioni sono continuate anche nel 2020, nonostante la pandemia, e hanno interessato un oleodotto in costruzione e le solite miniere di carbone. Una dozzina di attivisti di Extinction Rebellion ha invaso il sito e si è scontrata con il personale di sicurezza.

Benché di recente il movimento ambientalista abbia raggiunto obiettivi significativi attraverso manifestazioni pacifiche, soprattutto di giovani, sta emergendo una tendenza radicale di alcune frange.

Queste ‘avanguardie’ ritengono che i metodi nonviolenti siano inefficaci per ottenere risultati concreti e operano al limite della legalità. Ad esempio, in Francia i gruppi ambientalisti di matrice anarchica chiamati “zadisti”, dalla sigla Zad di “zone à defendre”, occupano le aree dove sono previsti progetti di costruzione di infrastrutture.

Negli ultimi anni si assiste anche alla fusione della causa ecologista con quella animalista radicale. Nel 2019 è nato il gruppo Animal Rebellion, che si è distinto per azioni di disturbo e occupazione di allevamenti, aziende alimentari e contro cacciatori. Gli attivisti hanno versato latte in negozi dov’era esposta carne o hanno imbrattato vetrine di marchi che producono pelletteria.

Altre sigle radicali animaliste sono l’Animal Liberation Front e il 269 Liberation animale, che ha svolto occupazioni anche in Italia, come al mattatoio di Torino. Un episodio più serio si è verificato nel 2020, quando nella città ucraina di Lutsk un individuo ha preso in ostaggio 13 passeggeri di un bus e ha invitato il presidente Zelensky a pubblicare il documentario Earthlings sullo sfruttamento degli animali.

Lo stesso linguaggio utilizzato da Extinction Rebellion nei suoi comunicati e la simbologia, con una clessidra per logo, richiamano una cultura apocalittica tipica dei movimenti radicali. A Bristol, una cellula affiliata al movimento ha scelto il discutibile nome “Red Brigade” e, nonostante si limiti ad azioni simboliche, richiama un gergo militare e il gruppo terrorista italiano.

Terroristi? 

Nel 2019 l’unità antiterrorismo della polizia del sud est dell’Inghilterra ha inserito Extinction Rebellion in una lista di organizzazioni estremiste, insieme a gruppi anarchici, islamisti e neonazisti, i cui membri vanno segnalati al programma Prevent contro la radicalizzazione.

Questa scelta ha scatenato forti polemiche ed è stata revocata. Extinction Rebellion non è certamente un gruppo terrorista, ma il rischio di radicalizzazione violenta è concreto, come dimostrano i graduali passi degli ultimi mesi.

Già nel 2020, un centinaio di attivisti aveva bloccato la distribuzione di numerosi quotidiani inglesi, accusati di non informare adeguatamente sull’emergenza climatica, con dei picchetti davanti alle tipografie.

In quell’occasione, l’allora ministra dell’Interno Priti Patel aveva descritto Xr come una minaccia emergente. Queste iniziative non si sono limitate al Regno Unito, ma hanno interessato molti paesi europei e di altri continenti.

A ottobre un ordigno è stato rinvenuto a Santiago del Cile presso la sede del gruppo Angelini, che controlla i distributori di benzina nel paese sudamericano.

Gli ultimi sviluppi lasciano pensare che se il movimento ecologista non riceverà risposte concrete e decise, alcune frange radicali potranno considerare sempre più spesso l’uso della violenza e della minaccia per ottenere obiettivi politici, prima contro le cose e poi contro i rappresentanti delle istituzioni. MATTEO PUGLIESE  

Ambulanze fermate, assalti alle dighe: è allarme eco-terroristi. In Germania i blocchi impediscono il soccorso di una donna. In Francia Macron schiera l'esercito. Francesco De Remigis il 2 Novembre 2022 su Il Giornale. 

Parlano di frustrazione, di ambizione di cambiare il mondo. Renderlo migliore. Ma al massimo rimediano un po' di fama sui social. E stanno diventando il nemico pubblico numero 1. Non solo delle autorità, ma dell'ambiente stesso. Dal gettare cibo in nome del futuro, ai blocchi stradali (che scatenano inquinanti ingorghi). E se ne infischiano se qualcuno rischia la vita perché i soccorsi tardano. È la nuova «resistenza» verde. Che dilaga in Europa. Fuori dai partiti. Tanto da essere bollata, talvolta a buon diritto, come «eco-terrorismo».

Sigle diverse, diversi i Paesi, ma ideologie collegate: è il volto più radicale dell'ambientalismo che negli ultimi giorni ha toccato tanto l'Italia quanto la Francia, e poi Gran Bretagna, Svizzera, Olanda, Germania. Marce, petizioni e sit-in, e sempre più spesso azioni individuali. Proteste che più che raccontare qualcosa di sensato per difendere la nobile causa ecologista finiscono per attentare all'arte, fiere, bar e ristoranti (talvolta il dissenso verde si salda infatti con la protervia animalista), passanti, automobilisti; finché l'epilogo della disobbedienza non diventa tragico, come rischia d'essere l'ultimo blocco per il clima in Germania.

Il gruppo «Letzte generation» conosciuto per i blitz a danno di opere d'arte ha messo a rischio la vita di una donna travolta con la sua bici da un tir, a Berlino. Era finita incastrata sotto il mezzo. L'ambulanza è partita per tempo, ma la «disobbedienza civile» impediva il passaggio. È in gravi condizioni. Ed è bufera politica, perché per i vigili del fuoco il caos ha costretto a usare strumenti improvvisati per liberare la ciclista dalle lamiere. Il sindacato di polizia chiede di «dire addio alla favola della protesta innocua». La replica del collettivo: «Non appena il governo prenderà misure contro l'imminente collasso climatico, fermeremo tutte le azioni».

L'episodio tedesco è solo l'ultimo di una serie del gruppo, che aveva già imbrattato con del purè Les Meules (il Pagliaio) di Monet al Museo Barberini di Potsdam. La media è quasi di un atto al giorno. Con proseliti in Italia. Alcuni folkloristici: vedi la contestazione di «Extinction Rebellion» a Torino davanti al Consiglio regionale, vestiti da Minions, perché «non ci resta che l'ironia di fronte a chi continua a minimizzare lo stato di emergenza ecoclimatica»; altri di puro vandalismo. Come anche a Londra, dove gli ambientalisti della campagna Just Stop Oil hanno lanciato torte in faccia alla statua di re Carlo III al Madame Tussauds; una zuppa contro I girasoli di Van Gogh alla National Gallery e stanno tormentando non solo Sua Maestà, chiedendo di sospendere i permessi per l'estrazione di petrolio e gas, ma pure l'Olanda. L'ultima bravata pro-ambiente è stato il raid al Mauritshuis Museum dell'Aja, stavolta incollandosi la faccia al vetro di protezione del capolavoro di Vermeer La ragazza con l'orecchino di perla. Tre arresti. Vanno peggio le cose in Francia, dove il ministro della Cultura ha chiesto a tutti i musei nazionali d'essere più vigili. E dove l'allerta si è estesa a un altro gruppo: «Dernière rénovation», che il 28 ottobre ha bloccato l'autostrada A6 per l'aeroporto. Gli stadi, la viabilità. Infine il teatro, sabotando l'esecuzione de «Il flauto magico» all'Opéra Bastille.

Il ministro dell'Interno francese ha infine deciso di usare la forza: nel braccio di ferro contro la costruzione dei maxi-bacini idrici a Sainte-Soline (Nuova-Aquitania), ultimo fronte dell'eterogenea protesta ultrà écolo-gauchista che ha causato una sessantina di feriti tra i gendarmi. In 7mila hanno invaso un terreno provando a smantellare il sistema di tubature per fermare la costruzione. «(Loro) sono, non ho paura di dirlo, l'eco-terrorismo che dobbiamo combattere», la linea Darmanin. Gruppuscoli estremisti, violenti, anche in Svizzera. «Guerriglieri» in nome della natura. E poi ci sono i non-violenti nostrani a creare scompiglio: a Roma due settimane fa contro i combustibili fossili i militanti di «Ultima Generazione» (sigla nata nel 2021 dal movimento internazionale «Extinction Ribellion») hanno occupare il raccordo anulare nell'ora di punta. Blocco riproposto due giorni fa in Viale Marconi, dopo quello alla tangenziale di Milano. Tensioni ieri anche a Padova, dove gli stessi fenomeni hanno impedito l'accesso di un corteo di auto storiche americane al Tuttinfiera in nome della «resistenza passiva».

Da lastampa.it il 5 novembre 2022.

Da qualche mese a questa parte, i blocchi autostradali da parte degli attivisti del clima sono una consuetudine in tutto il mondo. Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania e Italia sono i paesi in cui, con maggior frequenza, i raccordi trafficati sono stati presi di mira da associazione come «Ultima Generazione» e «Just Stop Oil».  

Un esempio di come talvolta le azioni dimostrative si rivelino dannose per la comunità, però, arriva da Berlino dove qualche giorno fa, stando a quanto riportano le autorità tedesche, un ciclista, rimasto intrappolato sotto una betoniera, è morto dopo che i soccorsi avevano ritardato il loro arrivo a causa di un blocco stradale. 

La condanna delle azioni degli attivisti è arrivata, ora, anche dal governo. Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha detto che «l’appello non può che essere che, in tutte le decisioni che le persone prendono per le manifestazioni politiche, si assicurino sempre di non contribuire a mettere in pericolo gli altri. E se questo è il caso, è molto deplorevole». Ha aggiunto, inoltre, che «nell’esprimere il dissenso sarebbe bene che gli attivisti avessero creatività». In seguito, il portavoce di Scholz ha aggiunto che «il governo tedesco condanna questo tipo di proteste. Condividiamo la difesa del clima, ma non le proteste fuori legge». 

Due persone sono state denunciate per il blocco che ha portato, apparentemente, alla morte del ciclista. Gli uomini, di 59 e 63 anni, sono accusati di ostacolare le persone che prestano assistenza, ha detto a Reuters un portavoce della polizia, confermando quanto riportato dal quotidiano locale Berliner Zeitung. I due manifestanti si erano incollati a un cartello sull'autostrada 100 della città lunedì, ha aggiunto il portavoce. In una nota gli attivisti di «Ultima Generazione», hanno difeso la loro protesta dicendo che è loro compito «continuare la protesta fino a quando il governo non prenderà iniziative a difesa del clima e che è loro compito lasciare sempre una corsia libera». 

Da lastampa.it

"L'azione di oggi significa che l'aeroporto di Schiphol deve ridurre le proprie emissioni, devono esserci meno voli", ha detto all'Afp la portavoce di Greenpeace per i Paesi Bassi, Faiza Oulahsen, "iniziamo con i voli di cui non abbiamo assolutamente bisogno, come jet privati e voli brevi". Circa tre ore dopo l'inizio della protesta, la polizia di frontiera olandese ha iniziato ad arrestare gli attivisti, alcuni dei quali sono stati trascinati sugli autobus dopo aver opposto resistenza passiva. 

"Lo prendiamo molto sul serio. Queste persone sono in un posto dove non avrebbero dovuto essere", ha dichiarato all'agenzia il portavoce della polizia, Robert van Kapel. Per Greenpeace, la polizia è stata "troppo dura con gli attivisti in bicicletta" e almeno una persona sarebbe stata colpita alla testa. L'azione dimostrativa arriva alla vigilia dell'apertura, domenica in Egitto, della Cop27, il vertice delle Nazioni Unite sul clima. L'inquinamento degli aerei "è qualcosa di cui devono parlare", ha affermato Tessel Hofstede, portavoce di Extinction Rebellion.

Andrea Lattanzi per lastampa.it il 10 novembre 2022.

Una ventina di manifestanti tra scienziati e attivisti si sono incatenati di fronte all'aeroporto milanese da dove partono i voli privati per chiedere la chiusura di questi scali e l'introduzione di una tassa globale sul clima. Inevitabili i disagi, soprattutto per chi doveva accedere all'aeroporto in auto o scaricare merci. Non sono mancati momenti di tensione con i lavoratori dello scalo che hanno a più riprese chiesto agli occupanti di andare via. L'iniziativa, lanciata dai gruppi Scientist Rebellion, Extinction Rebellion e Ultima Generazione, ha coinvolto in contemporanea altri scali a livello globale in Inghilterra, Stati Uniti, Spagna e Australia. 

La polizia, intervenuta sul posto, ha provveduto a liberare dalle catene con delle tronchesi i manifestanti i quali, opponendosi allo sgombero tramite resistenza civile, si sono fatti trascinare a peso morto nelle camionette. Le forze dell'ordine, tramite l'uso di alcol etilico hanno anche provveduto a staccare le mani che alcuni attivisti avevano incollato all'asfalto. Undici di loro sono stati trasportati in questura. Al termine delle operazioni l'aeroporto Linate Prime ha ripreso le sue regolari attività. 

Da lastampa.it il 10 novembre 2022. 

Due attiviste per il clima hanno tentato di incollarsi all'iconico quadro di Andy Warhol 'Campbell's Soup' nella Galleria nazionale australiana di Canberra. Le due donne hanno usato colla di scarsa qualità che tardava a consolidarsi e hanno lasciato la scena prima di poter essere fermate. Nell'ultimo episodio di una serie di azioni simili che hanno preso di mira celebri opere d'arte nel mondo, l'azione è stata condotta da un gruppo chiamato "Stop fossil fuel subsidies Australia", che si oppone alle sovvenzioni delle energie fossili. 

Il mese scorso tre attivisti del gruppo Extinction Rebellion sono stati arrestati a Melbourne dopo che due di loro si sono incollate alla copertura protettiva del quadro "Massacro in Corea" di Picasso nella National Gallery di Victoria, dove era in corso la mostra "Il secolo di Picasso", curata dal Centre Pompidou e dal Musée National Picasso di Parigi.

(ANSA-AFP il 15 novembre 2022) - Attivisti ambientalisti hanno spruzzato del liquido nero su un capolavoro di Gustav Klimt in un museo di Vienna. Gli attivisti hanno lanciato il liquido nero sull'opera del pittore austriaco Gustav Klimt "Morte e Vita" esposto al Leopold Museum di Vienna. "I restauratori stanno lavorando per determinare se il dipinto protetto da un vetro sia stato danneggiato", ha dichiarato Klaus Pokorny, mentre gli attivisti chiamati "Last generation" hanno rivendicato la responsabilità della protesta su Twitter.

Imbrattamento climatico. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2022.  

Pur con la migliore disposizione d’animo nei confronti della loro crociata, viene da chiedersi quale mediocre stratega della comunicazione abbia suggerito a decine di giovani e meno giovani ambientalisti di bloccare il traffico cittadino nell’ora di punta o di compiere atti vandalici come quello di ieri a Milano, dove hanno imbrattato di farina una delle famose Art Cars di Andy Warhol esposta alla Fabbrica del Vapore. La spiegazione degli imbrattatori è nota: il popolo bue, cioè noi, si distrae con i rolex di Totti e le discussioni sulla Moratti per non prendere coscienza del vero problema, quel cambiamento climatico che ci porterà fame, siccità e migrazioni tali da far impallidire i barchini che vanno tanto di traverso a Salvini. Con questi gesti innocui ma spettacolari, loro pensano di scuoterci dal nostro torpore. Purtroppo, gli unici a rimanere scossi dal lancio di una zuppa di verdura contro il vetro di un Van Gogh sono i visitatori del museo. Ma anche costoro, lungi dall’interessarsi di più all’emergenza ambientale, finiranno per associarla al ricordo di un sopruso. E pensare che un modello efficace di comunicazione gli ambientalisti lo avrebbero in casa: Greta Thunberg, che ha saputo catturare l’attenzione del mondo intero semplicemente sedendosi su un gradino del Parlamento svedese con un cartello in mano. Bastava guardarla per sentirsi in colpa. Guardando i vandali, invece, anche un inquinatore seriale finisce per sentirsi innocente.

Luca Beatrice per “Libero quotidiano” il 16 novembre 2022.

Basta definirli "compagnucci che sbagliano": gli ecoattivisti non sono altro che delinquenti comuni, impegnati in un attacco senza precedenti contro il patrimonio artistico, fragile, inerme e indifeso. Nel mondo dell'arte e dei musei da diverse settimane stanno accadendo atti censurabili e sono gravissimi gli interventi di troppi addetti ai lavori che li giustificano, vorrebbero capirli, cercare un dialogo e sedersi attorno a un tavolo perché le ragioni dell'ambientalismo risultano attraenti e modaiole, chi le cavalca si sente giovane. 

Patetico che adulti e anziani si mostrino comprensivi, come era accaduto per il vandalismo nei centri urbani, spacciati per Street Art, almeno fin quando non è stato deturpato il palazzo in cui abitano loro. In quel caso tornano schifezze.

Ieri a Vienna si è alzato il livello dello scontro e i restauratori non hanno ancora scongiurato il rischio che il capolavoro di Gustav Klimt "Morte e vita" esposto al Leopold Museum non abbia subito qualche danno. Perché la vernice nera scagliata dai teppisti si infiltra più facilmente del purè di patate o della zuppa di pomodoro. Loro dicono che non c'è pericolo di danno, ma su che base di competenza? 

E poi resta lo sfregio, offensivo non solo per chi ama l'arte ma per chiunque mantenga un minimo di rispetto per un'opera di ingegno appartenente alla comunità. Dopo Van Gogh, Monet, Warhol, è stato colpito il maestro della Secessione Viennese, e non trovo divertente che il gesto folle sia stato equiparato al movimento degli Azionisti, austriaci pure loro, che spruzzavano colore incontrollato sulle tele bianche. Tutto lascia pensare che interventi del genere ne vedremo altri, prima che siano presi i necessari provvedimenti per fermare questa vergogna.

Agli attivisti questo mondo non piace. Il mondo che lasceremo in eredità, dove l'aspettativa di vita è di molto cresciuta, dove le malattie si possono curare e dove c'è una disponibilità di mezzi come non era mai capitato nella storia a cominciare dallo smartphone unica appendice intelligente del corpo, un mondo che si sono trovati già pronto senza il minimo sforzo. 

Imbevuti di ideologismo derivato dall'onda ambientalista promossa da Greta (una ragazzina che non va scuola) sono pericolosi quanto qualsiasi vandalo, i loro comportamenti non sono in alcun modo giustificabili e pongono un problema questo si molto serio: la protezione delle opere d'arte nei musei non è più sufficiente, direttori e conservatori sono alle prese con un imprevisto rischio di vandalismo che rivela tutte le falle dei sistemi di vigilanza.

E infatti sono preoccupati e arrabbiati, a differenza dei liberi pensatori pronti alla giustificazione. Non è pensabile risolvere la questione con la frase scema «l'opera non è stata danneggiata» perché se non stavolta prima o poi il danno grave capiterà e a quel punto arrovellarsi sulle ragioni non basterà più. 

 Il teppismo va fermato ora e le punizioni esemplari sembrano la soluzione migliore, perché se la diffusione mediatica amplia l'arroganza dei cretini nel desiderio di emulazione, il rischio di finire in galera e ripagare i danni suona come l'unico deterrente possibile, a meno che i responsabili non trovino qualche illuminato esegeta della delinquenza contemporanea disposta a pagare per conto suo.

La colla è scadente e non attacca. E le attiviste stavolta fanno flop. Valentina Dardari su Il Giornale il 10 novembre 2022.

È fallito il tentativo di due attiviste per il clima di incollarsi al famoso quadro di Andy Warhol 'Campbell's Soup' esposto nella Galleria nazionale australiana di Canberra. La colla era però probabilmente di scarsa qualità e loro sono fuggite dato che il collante in questione tardava a consolidarsi. Le due donne sono scappate prima di poter essere fermate. Questo è solo l’ultimo episodio di una serie di azioni molto simili che hanno preso di mira celebri opere d'arte in tutto il mondo. L'azione di ieri è stata condotta da un gruppo chiamato 'Stop fossil fuel subsidies Australia’, che si oppone alle sovvenzioni delle energie fossili. Sulla pagina Twitter del gruppo è stata subito postata l’impresa che questa volta non è stata portata a termine dalle attiviste.

Come ricostruito, la coppia di ambientaliste ha cercato di incollare le proprie mani, senza però riuscirci, alle protezioni trasparenti delle famose serigrafie "Campbell's Soup" di Andy Warhol nella National Gallery of Australia di Canberra. Sui quadri sono comparse delle scritte a pennarello, che sono state riportate anche sul social, ovvero: "The writing is on the wall! Or the glass at least. #StopFossilFuelSubsidies now! Get the “Picture?!". Alcune fonti del museo hanno comunque fatto sapere che le stampe non sono state fortunatamente danneggiate. Sempre in Australia, lo scorso mese tre manifestanti del gruppo Extinction Rebellion erano stati arrestati a Melbourne dopo che due di loro si erano incollate alla copertura protettiva del quadro 'Massacro in Corea’ di Picasso nella National Gallery di Victoria, dove era in corso la mostra 'Il secolo di Picasso’, curata dal Centre Pompidou e dal Musée National Picasso di Parigi.

Pomodoro e vernice sulle opere d'arte

Dopo la salsa di pomodoro e la zuppa lanciata sui quadri di Van Gogh, uno a Roma e l’altro a Londra, e alcune settimane fa anche quello del pittore francese Monet, la protesta degli attivisti per il clima ha puntato questa volta le opere di Warhol. Come negli altri casi, anche in questo si tratta di un gruppo, una organizzazione, che ha in comune con le altre l’obiettivo di attirare l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale sull'emergenza climatica in atto, facendolo però andando a prendere di mira alcune tra le opere d’arte più famose.

Madrid, blitz degli ambientalisti al Prado: «Mani incollate su un dipinto di Goya». Redazione Cronache su Il Corriere della Sera il 5 Novembre 2022.

L’incursione nel primo pomeriggio nel principale museo spagnolo. Ieri un fatto analogo a Roma. Ancora non si conosce l’entità dei danni all’opera

Un’altra incursione degli eco attivisti alle opere d’arte: il blitz è avvenuto poco fa al museo del Prado di Madrid. Due ragazze hanno incollato le loro mani a due cornici dei dipinti «La Maja nuda” e «La Maya vestita» di Goya. Lo riferiscono fonti di polizia. Le attiviste fanno parte del collettivo ambientalista «Futuro Vegetal» e hanno incollato le mani alle cornici di due quadri di Francisco de Goya.

I dettagli dell’incursione si possono osservare in un video diffuso dal gruppo stesso su Twitter. L’azione è stata confermata dal Prado all’agenzia di stampa Efe. Nel video, si vede tra i due quadri, conosciuti come `Las Majas´ di Goya, la seguente scritta sul muro: +1,5 C. La polizia è intervenuta sul posto e le duer attiviste sono state arrestate e poste in stato di fermo dalla polizia. «La scorsa settimana le Nazioni Unite hanno riconosciuto l’impossibilità di rimanere al di sotto del limite fissato dall’accordo di Parigi, ovvero un aumento di 1,5 gradi della temperatura media rispetto ai livelli preindustriali. Ciò compromette la nostra capacità di produrre raccolti, perché i fenomeni meteo estremi come la siccità diventeranno più frequenti», ha affermato Futuro Vegetal in un comunicato pubblicato sui suoi social.

Ieri un analogo attacco era avvenuto a Roma, ai danni di un quadro di Van Gogh. L’azione è stata rivendicata dagli ambientalisti di «Ultima Generazione» alla mostra di Van Gogh. I militanti del movimento ecologista hanno imbrattato con zuppa di verdura l’opera «Seminatore al tramonto», del 1888, esposta a Palazzo Bonaparte e proveniente dal Museo Kroller-Muller di Otterlo. Azioni di protesta che si stanno moltiplicando in molti Paesi. Due settimane fa due attivisti per il clima avevano lanciato purè di patate su un dipinto di Monet. È successo al museo Barberini di Postdam: «Questo dipinto non varrà nulla se tra qualche anno dovremo combattere per il cibo. Quando inizierete, finalmente, ad ascoltarci?». Ancora prima, «colleghe» del movimento Just Stop Oil avevano lanciato zuppa di pomodoro sul capolavoro di Van Gogh I girasoli in mostra alla National Gallery di Londra chiedendo l’immediata cessazione di qualsiasi nuovo progetto petrolifero o legato al gas.

Il Museo del Prado di Madrid ha condannato l’atto di protesta. I dipinti de `las Majas´ di Goya non sono stati danneggiati, mentre «le cornici presentano lievi danni», assicura il Prado in un tweet. «Stiamo lavorando per tornare alla normalità il prima possibile. Rifiutiamo il mettere in pericolo il patrimonio culturale come metodo di protesta», aggiunge il messaggio. Anche il ministro della Cultura spagnolo, Miquel Iceta, ha condannato l’accaduto, definendolo un «atto vandalico». «Non c’è causa che giustifichi di attaccare l patrimonio di tutti».

Da corriere.it il 4 novembre 2022.

Azione degli ambientalisti di Ultima Generazione alla mostra di Van Gogh a Roma. Alcuni militanti del movimento ecologista hanno imbrattato stamattina con una zuppa di verdura l’opera «Il seminatore», del 1888, esposta a Palazzo Bonaparte e proveniente dal Museo Kroller-Muller di Otterlo.

Subito è intervenuta la sicurezza, che ha chiuso le sale della mostra e allontanato i visitatori. I manifestanti dopo avere gettato la passata di piselli sull’opera, fortunatamente protetta da un vetro, si sono attaccati alla parete e hanno urlato slogan contro l’uso del carbone e sulle conseguenze del cambiamento climatico.

Non un nuovo modo di procedere, purtroppo: due attivisti per il clima hanno lanciato su un dipinto di Monet due settimane fa purè di patate. È successo al museo Barberini di Postdam: «Questo dipinto non varrà nulla se tra qualche anno dovremo combattere per il cibo. Quando inizierete, finalmente, ad ascoltarci?». I carabinieri sono al lavoro a Palazzo Bonaparte e avrebbero già identificato gli autori del gesto.

Van Gogh sfregiato, gli eco-imbecilli vogliono diritti senza responsabilità. Fausto Carioti su Libero Quotidiano il 06 novembre 2022

Davanti alle quattro invasate che hanno imbrattato il quadro di Vincent van Gogh esposto a Roma, urlando i soliti slogan sconnessi contro l'uso dei combustibili fossili e il cambiamento climatico, la prima tentazione è quella di fare un discorso alto. Magari partendo da quel Roger Scruton citato in parlamento da Giorgia Meloni. Il filosofo inglese spiegava che «il conservatorismo nasce dal sentimento, che tutte le persone mature possono perfettamente condividere, secondo cui è facile distruggere le cose buone, ma non è facile crearle», e che questo è «particolarmente vero per le cose buone che ci arrivano sotto forma di patrimonio collettivo» e che abbiamo il dovere di trasmettere a chi ancora non è nato. Vale per la pace, la libertà, le leggi e le istituzioni (quando funzionano), la sicurezza e il senso civico. Ma anche per l'ambiente, che non è un'ideologia, bensì una parte importante di quel patrimonio, fatta di parchi, alberi, paesaggi, animali, edifici tramandati da generazioni. Cose che perdono significato quando (dice sempre Scruton) «l'attenzione del mondo è rivolta al riscaldamento globale, ai cambiamenti climatici, alle estinzioni di massa e allo scioglimento delle calotte polari, tutte questioni fuori dalla portata di qualunque governo nazionale», che hanno come risultato «una perdita di fiducia nella politica normale, la disperazione di fronte all'incapacità umana e l'adozione fino all'ultimo sangue di programmi internazionalisti radicali».

E vale pure per le opere d'arte, che sono il disperato tentativo dell'uomo di capire l'essenza delle cose e avvicinarsi al sacro. A maggior ragione per quelle che non abbiamo fatto noi, ma abbiamo avuto in regalo dai grandi del passato, prendendo insieme ad esse la responsabilità di consegnarle a chi verrà dopo, che significa proteggerle sempre e restaurarle quando necessario. Se conservare per tramandare è l'etica del conservatore, fatta innanzitutto di piccoli doveri individuali e quotidiani, quella che si è vista a Palazzo Bonaparte è l'etica progressista dei grandi dogmi e delle pretese collettive, sganciata da ogni senso del dovere. L'idea di un futuro senza passato, in nome del quale è giusto sacrificare il benessere presente e il patrimonio che abbiamo ereditato.

L'ennesimo disastro prodotto dalla religione dei diritti senza responsabilità. Quella che spinge i suoi zeloti a paralizzare in segno di protesta il raccordo anulare e altre vie di comunicazione, fregandosene se tra chi rimane bloccato c'è un malato che deve correre al pronto soccorso, un chirurgo atteso in sala operatoria o anche un povero cristo che per colpa loro arriverà tardi al lavoro o perderà l'aereo: cosa sono simili piccolezze, o la rovina di un quadro di van Gogh, dinanzi all'Apocalisse climatica? Un culto laico che ignora la presenza e le convinzioni del prossimo e i doveri che ne derivano, stesso ceppo da cui nasce la presunzione che tra le libertà inviolabili rientri quella di invadere la proprietà privata di uno sconosciuto per ballare e drogarsi, riducendola a un letamaio. Ma parlare di Scruton, etica e limiti alla libertà è un'ambizione smisurata, rispetto all'idiozia che è andata in scena ieri. Il lettore cancelli pure tutto quello che ha letto sinora, che si poteva scrivere molto meglio in poche parole: quelle quattro ragazze sono delle misere ignoranti che non sanno ciò che fanno, ma non per questo meritano perdono. 

Grazia Longo per “la Stampa” l’8 novembre 2022.

 Bjork Ruggeri ha lo stesso nome della famosa cantante islandese - «mi hanno chiamato così proprio in suo onore e mi fa piacere che si tratti di una persona anticonformista» - 20 anni, una passione per la filosofia che ha però appena abbandonato all'Università per coltivare gli studi in Storia dell'Arte. 

Abita a Pavia, ma si ritiene «cittadina del mondo» e insieme ad altre tre ragazze di Ultima generazione venerdì scorso ha imbrattato con una zuppa di verdure "Il seminatore" di Van Gogh esposto a Palazzo Bonaparte a Roma. Ora sono tutte e quattro indagate per «deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali e paesaggistici». Un reato per cui si rischia una pena fino a 5 anni. 

Non la preoccupa l'iscrizione nel registro degli indagati?

«No».

Non è pentita, dunque?

«No, lo rifarei. So che non sono azioni da compiere a cuor leggero, ma l'essere indagata non è nulla rispetto al bene del pianeta. Bisogna pur rischiare nella vita e la disobbedienza civile è doverosa quando si lotta per la tutela dell'ambiente». 

Ma ha capito che se dovessero mai decidere di mandarla a processo potrebbe rischiare una condanna fino a 5 anni di prigione?

«Lo so, ma non posso farci nulla. Certamente non sarei felice di finire in carcere perché lo ritengo un posto terribile, ma ho agito in quel modo perché credo in quello che faccio».

I suoi genitori come hanno reagito alla denuncia?

«Vivo con mia madre e lei, seppur preoccupata per quello che faccio non mi condanna perché si rende conto che la denuncia è meno grave di un fiume in secca e di problemi per l'irrigazione dei campi. Per non parlare dell'emergenza energetica e del caro bolletta. Questi sono problemi seri e con mia madre ne parliamo, ci confrontiamo e non siamo in conflitto». 

Sarebbe disposta a ripetere ancora quell'azione dimostrativa contro un'opera d'arte?

«Finché sarà necessario lo farò ancora. Io non voglio sentirmi in colpa rispetto ai temi ecologisti del pianeta. Io voglio fare qualcosa. Almeno posso dire "Ci ho provato"».

Certo, fa un po' effetto vedere quello che un'appassionata di Storia dell'Arte come lei ha fatto a un capolavoro di Vincent Van Gogh.

«Mi rendo conto anche io che possa apparire strano, ma lo scopo della nostra iniziativa era quello di scuotere l'opinione pubblica e il governo italiano. E, sulla scorta del movimento ecologista inglese Just Stop Oil e l'omologo tedesco di Ultima generazione, riteniamo che l'arte sia un veicolo importante per far passare il messaggio che creare rabbia per un gesto innocuo come il nostro è decisamente meno importante rispetto alle emergenze ambientali».

Perché lo definisce innocuo?

«Perché il quadro era protetto da un vetro sigillato e quindi non avremmo mai potuto rovinarlo». 

Il gesto simbolico però è forte e vi siete anche attaccate al muro con la colla.

«Serviva dare un colpo al sistema per far riflettere sulla battaglia che noi portiamo avanti».

E cioè?

«Lottiamo contro la crisi climatica e l'inazione del governo. Pertanto chiediamo interventi precisi: non riaprire le centrali di carbone e fissare il 2025 come termine per dismettere le centrali a carbone. Puntiamo anche allo stop delle trivellazioni di gas in Italia, mentre va potenziata l'energia alternativa. Ci vorrebbero almeno 20 gigawatt di nuova potenza eolica che genererebbe anche nuovi posti di lavoro».

Intanto però ve la prendete con le opere d'arte.

«L'arte non è solo rappresentata da oggetti concreti. L'arte è, come dicevo, un veicolo di messaggi. Inoltre se si continuerà a danneggiare il pianeta ci saranno ben altre priorità rispetto alla cultura che verrà quindi inevitabilmente danneggiata».

Perché avete scelto proprio "Il seminatore"?

«Per il significativo rapporto tra il contadino e il campo. Il barattolo di minestra che abbiamo lanciato era piccolo, stava dentro un marsupio».

 Aveva già partecipato a proteste eclatanti?

«L'anno scorso mi era sdraiata sulla strada per bloccare il traffico sul Grande raccordo anulare di Roma».

Ma che colpa hanno gli automobilisti?

«Le nostre manifestazioni sono un segnale contro lo Stato che non ci sta tutelando e quindi dobbiamo agire. Dobbiamo ribellarci, altrimenti la gente, automobilisti compresi, cosa farà quando non avrà niente da mangiare? Ci tengo a ricordare che anche l'Onu ha stabilito che se l'aumento della temperatura del pianeta supererà la soglia di un grado e mezzo ci saranno danni irreversibili».

Da ansa.it il 27 Ottobre 2022.

Attivisti verdi hanno attaccano il celebre quadro di Vermeer 'La Ragazza con l'orecchino di perla', conservato nella Mauritshuis dell'Aia. Dopo l'attacco, la polizia olandese ha arrestato tre persone, secondo quanto hanno reso noto la polizia e il museo. 

Due ecologisti si sono incollati al dipinto e un altro ha lanciato una sostanza sconosciuta, ma l'opera d'arte è protetta da un vetro e apparentemente non è stata danneggiata, ha affermato il Mauritshuis in una dichiarazione all'AFP. 

Immagini diffuse sui social media mostrano attivisti accanto al dipinto che indossano magliette 'Just Stop Oil'.

(ANSA il 23 ottobre 2022) - Due attivisti di 'Last Generation', gruppo di protesta per il cambiamento climatico, hanno imbrattato un olio di Monet al Museo Barberini di Potsdam, in Germania, lanciandogli contro purè di patate. Il gruppo ha postato su Twitter il video dell'attacco a ' Il Pagliaio', tra i capolavori dell'impressionista francese, invitando i politici ad adottare misure efficaci per limitare il cambiamento climatico. Deve ancora essere valutata l'entità degli eventuali danni, ha detto la portavoce del museo Carolin Stranz. Pochi giorni fa un'azione analoga, ma con salsa di pomodoro, è stata compiuta contro il 'Girasoli' di Van Gogh a Londra.

Massimiliano Peggio per lastampa.it il 20 ottobre 2022.

Guerra ai Suv, viva le Panda. La rivoluzione ambientale avanza e prende di mira le cilindrate del lusso. «Abbiamo sgonfiato le ruote delle vostre auto perché inquinano. I Suv causano più inquinamento dell’aria rispetto alle auto più piccole». 

La notte scorsa un manipolo di «ecogommisti» ha preso d’assalto le vie della Crocetta, sgonfiando a raffica gli pneumatici delle auto di grossa cilindrata parcheggiate in zona: Stelvio, Porsche, Jeep, Land Rover, Bmw, Audi. L’azione è stata rivendicata con un volantino lasciato sul parabrezza di tutte le vetture «castigate». Oltre una ventina. Sul caso indaga la Digos.

Il blitz è stato rivendicato dal collettivo «dell3 SUVversiv3», con tanto di «schwa», per rimarcare l’inclusione della lotta. Ruote sgonfiate e non tagliate. «Sappiamo che ti arrabbierai ma non prenderla sul personale, il problema è la tua macchina non tu» si legge sul volantino, dotato anche di Qr Code per invitare ad approfondire la tematica, una volta sbollentata l’ira. 

«I Suv e le auto di lusso devastano il nostro mondo, esauriscono le risorse e distruggono i mezzi di sussistenza come il clima e l’aria». E aggiungono: «Il problema non sono le vostre macchine. Vogliamo scusarci per il disagio, ma vogliamo vivere in un mondo libero da siccità e carestie...».

Colpite le auto parcheggiate in via Lamarmora, via Legnano, via Pastrengo e anche in corso Montevecchio. Anche se gli «ecogommisti» si sono scusati, gli automobilisti si sono infuriati lo stesso. E non poco. «A questa gente direi di controllare bene i dati sull’inquinamento - sbotta un ingegnere informatico - a fine vita queste auto sono meno inquinanti di una Tesla. Dovrebbero informarsi bene, prima di rompere le scatole al mondo».

Per caso, ieri mattina, il tipografo di via Lamarmora, Umberto Mazzoni, è diventato un eroe. Avendo a disposizione un compressore, ha dispensato gonfiaggi in tutta la via. «Il primo che mi ha chiesto aiuto è stato un ragazzo che abita qui di fronte. Alle 7,30 è uscito di casa per andare in ufficio e si è trovato due gomme a terra. Era disperato perché alle 8 doveva partecipare a un’importante riunione di lavoro». Poco dopo altre quattro persone si sono fatte soccorrere da lui. «Tutti, più o meno, dovevano andare al lavoro ed erano infuriati per il contrattempo».

Gli «ecogommisti» sono stati metodici e accorti. A tutte le auto hanno sgonfiato sistematicamente due ruote, scegliendo però quelle rivolte verso i marciapiedi, per nascondersi meglio e non farsi sorprendere dalla strada da qualche pattuglia delle forze dell’ordine. Gli investigatori della Digos, intervenuti in mattinata, hanno censito il numero della auto coinvolte e identificato i proprietari, per raccogliere le denunce.

Rachel dei pettirossi, un libro sulla madre dell’ambientalismo moderno. Redazione L'Identità il 13 Ottobre 2022

A sessant’anni esatti dalla pubblicazione di Primavera silenziosa, di Rachel Carson, esce per le edizioni Pandion il primo libro in Italia dedicato alla leggendaria opera della madre dell’ambientalismo moderno. A colmare finalmente il vuoto è Danilo Selvaggi con il suo “Rachel dei pettirossi. Primavera silenziosa, Rachel Carson e un nuovo inizio per la cultura ecologica”, che con una scrittura limpida e un intreccio avvincente ci conduce alla scoperta di una donna straordinaria e di un’opera ardita e di bruciante attualità, fondamentale per comprendere la genesi dell’ambientalismo moderno, le drammatiche crisi ambientali che viviamo e l’auspicato processo di transizione ecologica.

Il 27 settembre 1962 Primavera silenziosa di Rachel Carson irrompeva nel panorama editoriale americano arrivando rapidamente ai vertici delle classifiche di vendita e, soprattutto, cambiando il corso della storia. Il libro puntava il dito contro l’avvelenamento della terra ad opera del DDT e degli altri prodotti chimici, usati massivamente, ma anche contro un’idea più generale di controllo e dominio della natura, che oggi, a distanza di 60 anni esatti dalla pubblicazione, appare più attuale che mai. E la genesi di Primavera silenziosa fu lunga e articolata.

Nel gennaio 1958 Rachel Carson, all’epoca cinquantunenne, biologa e scrittrice già famosa, riceveva una lettera dal Massachusetts. Era firmata da Olga Owens Huckins, proprietaria, con il marito Stuart di un terreno a Duxbury, che avevano trasformato in un’oasi naturalistica per piccoli uccelli. Olga curava l’oasi con amore, ripagata in primavera dal gioioso ritorno degli uccelli canori. Ma nell’estate del 1957 accadde qualcosa. Gli uccelli non cantavano più. Perché?

Nella lettera, Olga Huckins spiegava a Rachel Carson che il terreno era stato sottoposto a un pesante trattamento di disinfestazione delle zanzare a base di DDT, e in brevissimo tempo molti uccelli erano morti o spariti. Fu quello l’episodio scatenante del percorso che porterà Rachel ad indagare il fenomeno della chimica in agricoltura (e non solo) e a raccogliere una vastissima quantità di materiali per giungere, quattro anni dopo, alla pubblicazione di Primavera silenziosa.

Quel 27 settembre di sessanta anni fa, il giorno dell’uscita del libro, una violenta perturbazione atlantica colpì la costa est degli Stati Uniti, con venti forti e precipitazioni copiose. La vera tormenta era però quella mediatica e politica che si stava preparando. In pochi giorni, migliaia e migliaia di copie andarono vendute, dando luogo a un acceso dibattito con un’incredibile partecipazione pubblica e molto sostegno a Rachel Carson, inclusa la Commissione d’inchiesta voluta dal presidente John F. Kennedy in persona, e al tempo stesso un crescendo di polemiche, attacchi e vere e proprie intimidazioni. “Come può una donna interessarsi di scienza?”. “Rachel Carson non è una scienziata ma un’agente segreto del nemico!”. Primavera silenziosa fu – e oggi continua ad essere – un’opera potente, in grado di attivare in breve tempo un cambiamento epocale, informando il mondo dei rischi che la natura e la stessa salute umana correvano a causa dell’uso massivo di DDT e altri pesticidi e attivando una straordinaria serie di eventi normativi, culturali, sociali.

In pochi anni fu tradotto in almeno 20 lingue e diffuso in gran parte del mondo, per diventare infine un titolo leggendario, così come leggendari divennero il nome e la figura di Rachel Carson, la madre del nuovo ambientalismo, “la donna che ha dato inizio a tutto questo”.

Eppure, nonostante ciò, la storia di Rachel Carson è molto meno nota di quanto non lo sia il nome, così come poco indagato è il complesso del suo lavoro, ricco di temi e spunti di prim’ordine e di grande attualità ben oltre la pur importante questione del DDT.

Ad oggi, nessun libro specificamente dedicato a Rachel Carson era stato edito in Italia. A colmare questa lacuna, Danilo Selvaggi, con il suo Rachel dei pettirossi. Primavera silenziosa, Rachel Carson e un nuovo inizio per la cultura ecologica, che esce per Pandion Edizioni cogliendo l’occasione dei sessant’anni della pubblicazione di Primavera silenziosa.

Nel libro, diviso in quattro sezioni e frutto anche di un intenso lavoro bibliografico, Danilo Selvaggi con una scrittura limpida e un intreccio avvincente, a tratti cinematografico, ricostruisce la genesi del libro della biologa statunitense, ripercorre gli eventi che la spinsero a progettarlo, ne analizza i contenuti, racconta i frenetici eventi che seguirono la pubblicazione del libro e infine ragiona sulla grande attualità dell’opera e i suoi numerosi significati: dalla visione sistemica al nuovo ambientalismo, dalla cittadinanza attiva alla questione femminile, dalla protezione degli uccelli e della natura al tema delle due culture e del senso della meraviglia, evidenziando l’importanza dell’opera anche per le drammatiche crisi ambientali – clima, biodiversità, risorse che stiamo vivendo.

Selvaggi evidenzia altresì come l’opera della Carson sia anche il frutto di una vicenda umana e intellettuale di straordinaria intensità e bellezza. “Una storia di natura, passione, scienza, impegno civile, coraggio, che oggi più che mai merita di essere conosciuta”. L’attenzione alla vita di Rachel Carson, gioiosa e drammatica, intensa e coinvolgente come poche, rappresenta nel libro di Selvaggi una sorta di tema nel tema, rispetto al quale momenti privati si intrecciano alle vicende pubbliche dando ciò al libro un carattere per lunghi tratti quasi romanzesco e rendendone il racconto ancora più avvincente.

Il risultato è un quadro di straordinaria ricchezza e attualità, che dimostra come l’opera di Rachel Carson non appartenga solo alla storia ma sia parte a pieno titolo del presente e del futuro, un punto di riferimento ambientale e culturale, in perfetta sintonia con i grandi movimenti e dibattiti dell’epoca della transizione ecologica e un invito a un nuovo inizio dell’ambientalismo, ancora più convinto e consapevole di prima.

La Greta Thunberg italiana. Federica Gasbarro e le difficoltà di allontanarsi dal ruolo di attivista ambientale. Fabrizio Fasanella su L'Inkiesta l'1 Ottobre 2022

È stata l’unica rappresentante del nostro Paese al primo Youth climate summit dell’Onu, ha parlato di ecologia davanti al Papa e ha partecipato alla Cop26. Quest’estate, candidandosi con Impegno Civico, ha tentato un approdo in politica che si è rivelato deludente

Spesso definita come “la Greta Thunberg italiana”, Federica Gasbarro è uno dei nomi più conosciuti nel nostro Paese quando si parla di attivismo ambientale. Portavoce romana dei Fridays for Future, dal 2019 è la principale rappresentante dei giovani italiani nei negoziati sul clima a livello internazionale. Tra le altre cose, infatti, ha partecipato allo Youth4Climate della Cop26 in qualità di delegata in rappresentanza dell’Italia: un momento decisivo per la sua carriera in bilico tra attivismo, diplomazia e divulgazione, tre facce dello stesso prisma che presentano diversi punti di contatto. 

Per Piemme, nel 2020, ha pubblicato un libro intitolato “Diario di una striker”, con in copertina il suo volto segnato da due strisce di vernice verde per guancia, in segno di battaglia contro chi ignora, o sottovaluta, il destino del pianeta. È nata nel 1995, è laureata in Scienze biologiche e ha sempre cercato di mantenere – compatibilmente alle (necessarie) semplificazioni sulle piattaforme social – un approccio scientifico e razionale ai temi ecologici. Ha parlato di crisi climatica davanti a Papa Francesco, ha più volte manifestato di fianco a Greta Thunberg e partecipato come speaker al master della Bocconi in Sustainability and Energy management. In più, scrive di ambiente per The Wom, «social magazine per le nuove generazioni di donne» sotto Mondadori. 

Con le farraginose dinamiche del mondo politico c’entra meno di nulla, anzi, non ha mai perso l’occasione per evidenziarne gli aspetti più tossici e controproducenti nell’ottica della mitigazione e dell’adattamento alla crisi climatica: «Gli ambienti che ho frequentato negli ultimi quattro o cinque anni sono stati quelli della diplomazia. Non sono abituata a questa sorta di scontro tra persone che, al posto di parlare del proprio programma, passano il tempo a criticare le proposte degli altri. È un’ottica più distruttiva che costruttiva: un lato della politica che non mi ha mai fatta impazzire», ha raccontato a Linkiesta. 

La sua vita ha preso una direzione inaspettata nel momento in cui, nel luglio 2022, Luigi Di Maio l’ha chiamata per darle «carta bianca» sui temi ambientali di Impegno Civico. E qualche settimana dopo è arrivata la candidatura nel Collegio Camera Busto Arsizio: «Ho conosciuto il ministro nel 2019, quando andai alle Nazioni unite per la prima volta come unica italiana scelta per il Youth climate summit – spiega Gasbarro – da allora, essendo io la rappresentante dei giovani italiani nei negoziati sul clima, l’ho rincontrato ogni sei, otto mesi. Tra noi c’è sempre stata intesa, poi a luglio mi ha chiesto se avessi voglia di contribuire al loro programma ambientale. Così ho fatto. Infine mi ha proposto la candidatura in Parlamento. Perché ho accettato? Volevo avere mezzi più potenti per raggiungere obiettivi ambientali. Ho capito che l’unico modo per ottenere risultati era quello di mettersi in gioco». 

Il destino di Impegno Civico era abbondantemente segnato, nonostante le false speranze del ministro degli Esteri che – a inizio settembre – ha detto che il partito aveva il potenziale per arrivare al 6 per cento. Alla fine non ha preso nemmeno l’1 per cento. Per questo motivo, la candidatura di Federica Gasbarro – che non è andata nemmeno vicina all’elezione – è apparsa irrilevante e un po’ azzardata: «Ero consapevole delle critiche che avrei potuto ricevere. Le elezioni non sono andate bene, ma quel risultato è stato in qualche modo superfluo. È stato bello vedere qualcuno che ha deciso di investire in un giovane, di dargli spazio», ha detto la biologa inserita da Forbes nella lista dei 100 giovani italiani più influenti del 2021

La scelta di Luigi Di Maio poteva essere vista in due modi: come puro “greenwashing politico” o come gesto di reale fiducia a una giovane ragazza in grado di rappresentare una generazione che si sente inascoltata e non rappresentata: «Mi rendo conto che è qualcosa che fa gola candidare una ragazza della mia età, attivista per l’ambiente, che ha studiato nell’ambito scientifico e forte di esperienze internazionali», ha ammesso Federica Gasbarro. L’esito della sua esperienza alle elezioni – decisamente non all’altezza dei suoi successi nei campi dell’attivismo e della diplomazia – fa riflettere sulla dubbia conciliabilità tra attivismo e politica. 

«È come il rapporto tra attivismo e scienza. Bisogna tenere bene a mente il motivo per cui si fanno le cose: nel mio caso è la tutela dell’ambiente, del nostro futuro e di un mondo che resti in pace. Se l’obiettivo è nitido, e quell’obiettivo è l’ambiente, ci possono essere attività diverse ma capaci di correre verso lo stesso punto. Penso che una cosa non escluda l’altra. Non è come un avvocato che vuole fare il chirurgo», sostiene Gasbarro, che non ha ancora deciso quale strada intraprendere in via definitiva. 

Federica Gasbarro, il cui caso rappresenta un unicum a livello nazionale, era probabilmente ben conscia del destino di Impegno Civico. Tuttavia, ha preferito partire da una dimensione che le avrebbe garantito spazio e fiducia, piuttosto che da un partito più importante ma affetto da dinamiche e gerarchie non appetibili per un giovane in rampa di lancio (e con zero esperienza nel campo). Ci ha confermato che avrebbe potuto candidarsi altrove, perché – come scritto sopra – una figura come lei «fa gola» alla politica.

Gasbarro ha insistito sulla necessità di una legge sul clima diversa da quelle passate. Si è sentita presa in considerazione. «Le mie idee hanno avuto terreno fertile. Spesso parlo con altri ragazzi italiani in politica: si lamentano perché si sentono di facciata e relegati in un angolo. Ecco perché sono partita prevenuta. “Mi metteranno a tacere nel giro di tre secondi”, pensavo. Invece ho trovato un bell’ambiente». 

La 27enne è una ragazza che ha ben chiara la sua missione: la tutela dell’ambiente e la lotta alla crisi climatica attraverso azioni concrete, in grado di coinvolgere le nuove generazioni. Ma se gli obiettivi sono scolpiti nella pietra, il mezzo principale per raggiungerli è ancora un enorme punto interrogativo. Questa indecisione – comprensibile per una ragazza della sua età – rischia di essere percepita come ambiguità. E, infatti, ha probabilmente remato contro le sue ambizioni e la sua competenza. I contenuti sul feed di Instagram di Gasbarro, per fare un esempio, sono molto più simili a quelli di una influencer/attivista green rispetto a quelli di una candidata alla Camera. 

Durante una campagna elettorale lunga sette settimane, Federica Gasbarro non ha interrotto le sue attività diplomatiche: ad esempio, settimana scorsa, è stata a New York per il Youth4Climate, poi è tornata in Italia per votare ed è volata a Bruxelles per l’European sustainable energy week e l’European year of youth 2022. «Nella vita, prima o poi, bisogna scegliere un impiego principale, ma il mio futuro è ancora incerto. Prendo la vita così come viene, ma con concretezza. Ho fame di fare e non mi metto paletti. Il mio impegno continuerà sul lato ambientale. E vedremo come evolverà Impegno Civico. Ho tante cose che mi piacerebbe coltivare e che continuerò a coltivare. Sono aperta a tutte le possibilità», ha concluso Federica Gasbarro. 

Il lungo cammino. Cos’è l’Illuminismo industriale, che ha regalato all’Occidente gli ideali di progresso e libertà. Walter Scheidel su L'Inkiesta il 24 Settembre 2022

Secondo la monumentale ricostruzione storica di Walter Scheidel (Luiss University Press) le origini del benessere e dell’innovazione tecnica e scientifica del Vecchio Mondo sono da ricondurre a una fortunata coincidenza di idee, aspirazioni e situazioni economiche

Illuminismo industriale

L’Europa latina presentava condizioni di vario tipo. La Rivoluzione industriale britannica trovò le sue radici in una serie molto specifiche di circostanze che Mokyr chiama “Illuminismo industriale”. Si basava sui capisaldi dell’Illuminismo in generale – misurazioni, esperimenti, replicabilità, intelligibilità della natura – ma anche sulla loro applicazione pratica e sul loro aspetto economicamente remunerativo.

Le scienze applicate furono parte integrante di tale processo. L’Illuminismo industriale consentì il progresso materiale utilizzando la sempre maggior comprensione della natura e rendendola accessibile a chi poteva usarla per scopi produttivi. Gli obiettivi chiave erano la risoluzione di problemi concreti e il taglio dei costi.

La democratizzazione della conoscenza scientifica sospinse il progresso. Nella sola Francia del diciottesimo secolo c’erano cento accademie locali. Gran parte di questi enti pubblicavano le proprie ricerche. Le università divennero meno importanti per il progresso delle conoscenze utili: diminuì il numero degli scienziati provenienti dalle principali istituzioni, mentre in genere gli ingegneri non avevano un’istruzione di alto livello. La conoscenza si diffondeva con le pubblicazioni specializzate, i resoconti scientifici, i quotidiani, le conferenze e le accademie, «molte delle quali sfuggivano alle norme restrittive imposte da Stato o religione».

Con la loro diffusione le informazioni raggiungevano anche gli uomini delle classi più umili, consentendo loro di partecipare alle imprese scientifiche, che privilegiavano ricerche con possibili applicazioni pratiche. Quest’apertura non fu uguale in tutti i paesi. Da ogni punto di vista, la Gran Bretagna ebbe un ruolo pionieristico. La sua tradizionale istruzione elitaria aveva ben poco da offrire a scienziati e ingegneri. La scienza era ancora abbastanza semplice da essere comprensibile anche a chi aveva solo un’istruzione di base. A beneficiarne fu la Gran Bretagna: le iscrizioni alla scuola primaria e il tasso di alfabetizzazione erano molto alti, creando un vasto bacino di lavoratori qualificati. Anche i lavoratori comuni come i costruttori di mulini potevano accedere a conoscenze applicate e alla meccanica teorica. L’alta alfabetizzazione e comprensione dell’aritmetica, frutto della Riforma e dello sviluppo economico della regione, si rivelarono precondizioni cruciali.

Ne scaturì inoltre un gruppo di poche migliaia di ingegneri, chimici, medici e filosofi naturali che ebbe un’influenza enorme. Potevano contare su qualche decina di migliaia di lavoratori qualificati che offrivano loro strumenti e abilità tecniche; tra di loro c’erano meccanici, costruttori di macchinari e operai metallurgici. Nel diciottesimo secolo queste competenze si diffusero al punto da non essere più ricompensate con salari speciali. Questo contesto tanto favorevole permise alle “macroinvenzioni” – innovazioni che cambiavano nettamente il modo di fare qualcosa – di essere affiancate e calibrate da un numero ancor maggiore di “microinvenzioni” dovute alla ricerca di continui miglioramenti.

La scienza formale non diede un grande contributo diretto alle prime fasi di un’industrializzazione dall’approccio tanto pratico. Il motore a vapore si basava su conoscenze non derivabili dalla mera osservazione, ma i progressi nella lavorazione del ferro e del cotone non erano debitori dell’avanzamento della scienza. Il contributo della scienza era soprattutto una questione di metodo: la sperimentazione controllata passò dalla scienza alla tecnologia.

La prima Rivoluzione industriale sfruttò al meglio il libero flusso di informazioni, tramite pubblicazioni di meccanica, registrazioni di brevetti, manuali e studi tecnici accessibili anche a un pubblico non elitario. Questa apertura non solo permise la diffusione di conoscenze pratiche, ma rese anche la Gran Bretagna un approdo più appetibile per gli emigranti. Dopo aver attratto per molto tempo esuli intellettuali o religiosi provenienti dal continente, ora attirava detentori di brevetti e affaristi che potevano sfruttare l’abbondanza di capitale e il suo sistema per registrare e proteggere i diritti di proprietà.

L’economia politica ebbe un ruolo importante. La legge sui brevetti risaliva al primo diciassettesimo secolo e contribuì a dare garanzie agli inventori che avrebbero goduto i frutti della loro fatica. I brevetti al tempo stesso proteggevano e diffondevano l’innovazione. Le autorità britanniche, un’élite strenuamente materialista, in genere si schieravano con gli interessi delle industrie, anche se significava prendere decisioni impopolari. Si opponevano a nuovi regolamenti e annullavano quelli che ostacolavano il cambiamento, non ascoltando le lobby in guerra contro le macchine: le rivolte luddiste furono soprattutto un segno di impotenza. Riconoscendo esplicitamente il ruolo del sistema di Stati competitivo europeo, il governo affermò perfino che l’industria delle macchine aveva bisogno di varcare i confini per prosperare. La volontà politica contribuì pertanto a creare un contesto nel quale le conoscenze utili e dirompenti «venivano usate con un’aggressività e un focus senza precedenti in nessun’altra società».

Gli innovatori della tecnologia furono tanto influenti anche grazie al loro rapporto con gli affaristi. Fu soprattutto l’industria privata, e non lo Stato, a patrocinare le loro imprese. La fusione tra un’ideologia dominante basata sullo sviluppo commerciale e le innovazioni della meccanica mise in collegamento capitale e scienze applicate. Questo processo non solo favorì un contesto che apprezzava i miglioramenti tecnici, ma fece collaborare ingegneri e investitori. Gli uomini d’affari apprendevano i princìpi della meccanica tramite la scuola e la lettura, ed erano ben accetti dalla cultura scientifica. Imprenditori e ingegneri operavano in un sistema di competenze e valori condivisi, dove «la cultura industriale si sposava con la conoscenza scientifica e la tecnologia». Tra tecnici, imprenditori e scienziati c’erano meno ostacoli rispetto al continente, e ci si concentrava di più sui risultati pratici.

L’interesse per la scienza, vero o falso che fosse, divenne un tratto distintivo «dell’alta società», proprio come era divenuta di moda «una mentalità volta al progresso». La conseguenza fu il legame «tra savants e fabriquants», una rarità nelle società dove le distinzioni di classe e di status facevano da freno. In Spagna, ad esempio, la cultura aristocratica si oppose alle novità, mentre in Francia la rigida piramide dello status separava agricoltura e commercio.

Queste differenze ci dimostrano ancora una volta l’importanza del pluralismo politico in Europa. L’élite della Francia pre-rivoluzionaria non mollava la presa sull’istruzione, mentre erano i finanziamenti dello Stato a creare una nuova élite di scienziati al suo servizio. La competenza ingegneristica veniva considerata «proprietà dello Stato, al servizio dell’interesse nazionale». Un approccio potenzialmente promettente, ma che subordinava la scienza ai vezzi della politica, che in genere preferiva la conservazione dello status quo. La dipendenza dallo Stato costringeva gli scienziati a rapportarsi personalmente col potere politico, invece di collaborare maggiormente con gli industriali come accadeva in Gran Bretagna. In Gran Bretagna comandava un’élite che privilegiava gli affari, mentre i re di Francia erano troppo deboli per accantonare gli interessi personali anche quando l’intenzione era quella di mettere in atto delle riforme.

Il periodo tormentato della Rivoluzione francese e della restaurazione non facilitò le cose, anzi rallentò il progresso. La guerra impedì la diffusione delle novità britanniche in Francia in un periodo cruciale. Nel 1793 vennero abolite le accademie scientifiche, anche se quella di Parigi venne presto riaperta. Dopo il 1815 il clero ritornò a una posizione di preminenza nel sistema educativo, con l’incarico di promuovere «la religione e l’amore per il re»: gli insegnanti della scuola primaria dovevano sottoporsi a test di rettitudine religiosa e l’istruzione scientifica subì una battuta d’arresto malgrado l’interesse pubblico. Vennero censurati i libri che ispiravano «sentimenti di animosità contro le classi elevate», mentre lo sviluppo industriale veniva visto con sospetto, quasi favorisse la sovversione politica. Anche l’educazione superiore finì nella sfera d’influenza del clero. Solo la Rivoluzione di luglio del 1830 pose fine a questo ostracismo.

La sovranità era la chiave. In Gran Bretagna la sicurezza – sia nei confronti dei nemici stranieri, sia internamente, in materia di diritti di proprietà – e l’economia politica che sosteneva furono decisive per l’avvento di un’innovazione tecnologica trasformativa, e per accedere al commercio internazionale e al carbone britannico: tutti questi input erano necessari perché uno sviluppo continuativo fosse sostenibile. Anche se lo Stato britannico non diede un grande contributo diretto al progresso scientifico e tecnologico, di certo non lo ostacolò. Nel complesso, contribuì alla creazione di un clima favorevole all’innovazione e alle sue applicazioni pratiche. Da questo punto di vista, si distinse da molti Stati dell’epoca. Se l’Europa latina fosse stata dominata da una sola economia politica egemone, non sarebbe potuto emergere nessun altro contendente dello stesso livello.

Valori

L’ascesa di una cultura illuminista basata sulla conoscenza e la sua applicazione pratica comportarono inevitabilmente dei cambiamenti nel modo di considerare imprenditoria e dignità di lavoratori e artigiani. Dobbiamo chiederci in che misura questi cambiamenti valoriali abbiano favorito uno sviluppo economico trasformativo. Deirdre McCloskey ha elaborato una tesi coraggiosa che pone i valori al centro della modernizzazione e della Grande Fuga. Nella sua ricostruzione, «furono le idee liberali a causare l’innovazione» necessaria a questo processo. Nel 1700, la classe media cominciò a parlare e a esprimersi in modo nuovo. «L’opinione generale divenne sempre più favorevole alla borghesia, e soprattutto favorevole al suo modo di commerciare e innovare», di conseguenza gli scambi e gli investimenti nel capitale umano crebbero di volume.

Fu il cambiamento dei valori a determinare tale espansione, e non viceversa. Questo portò alla «rivalutazione borghese», incarnata da una nuova retorica che difendeva l’arte di fare affari: il discorso aristocratico in precedenza l’aveva stigmatizzata come un’attività volgare, ma ora diveniva una pratica accettata, o perfino ammirata. Questo nuovo modo di pensare consentì alla borghesia di entrare a far parte della classe dominante, portandole una ventata di novità e un inedito spirito competitivo. Nel complesso, la principale forza motrice di questo cambiamento fu l’attribuzione di libertà e dignità alle persone comuni.

Secondo McCloskey, questo processo seguì una serie di tappe. La Riforma, la crescita del commercio, la frammentazione dell’Europa e la libertà delle sue città consentirono ai borghesi olandesi di godere di libertà e dignità. Col tempo, l’influenza olandese portò all’emulazione delle sue pratiche su commercio, banche e debito pubblico, e grazie anche alla diffusione della stampa la borghesia britannica raggiunse gli stessi traguardi, dando il via alla moderna crescita economica.

Le quattro R – lettura (reading), riforma, rivolta (nei Paesi Bassi) e rivoluzione (nel 1688 in Inghilterra) – diedero origine nell’Inghilterra del tardo diciassettesimo secolo alla quinta e decisiva R, la rivalutazione della borghesia, una «riconsiderazione egalitaria della gente comune».

La democratizzazione della Chiesa dovuta alla Riforma diede coraggio ai comuni cittadini; il protestantesimo del nord favorì inoltre l’alfabetizzazione. Per McCloskey anche la frammentazione politica fu necessaria perché avvenissero tali processi: si trattava di miglioramenti che funzionavano meglio su scala ridotta. Furono però le idee politiche, anzi, le idee in genere a determinare il cambiamento: «Fu necessario, e forse sufficiente, un cambiamento retorico». McCloskey documenta inoltre nel dettaglio l’emergenza di una retorica pro-borghese nella Gran Bretagna del diciottesimo secolo.

Questa prospettiva idealista, per quanto insolita per un’economista, è comunque compatibile col concetto che il policentrismo politico sia stato essenziale. Così come il successo della Riforma fu una contingenza della mancanza di un impero egemone, e il sistema di Stati protesse la crescita della ricchezza dovuta ai commerci, l’espansione del commercio internazionale derivò dall’espansione via mare dettata dalla frammentazione competitiva. Lo stesso vale per i cambiamenti nella retorica. Lo dice la stessa McCloskey: fino a quando le norme e le opinioni sociali riguardo agli affari furono controllate da élite aristocratiche, cristiane o confuciane, il loro dominio ostacolò «la marcia verso la modernità, che arrivò quando vennero riconosciute l’importanza del progresso e la dignità della vita economica delle persone comuni».

McCloskey ribadisce che il concetto in grado di far diventare egemone una classe in precedenza subalterna fu la «libertà». Difficile immaginare che grandi imperi tradizionali dalle classi dominanti arroccate – che si trattasse di ereditieri aristocratici, élite di guerrieri o di ricchi burocrati – potessero stabilire o accettare un cambiamento nei valori, soprattutto a favore di quelli riguardanti la libertà e la dignità della borghesia mercantile. Il tardo impero romano e la cristianità del medioevo non furono certo periodi adatti a una rivalorizzazione del genere, così come l’egemonia intellettuale e morale confuciana, volta a limitare gli interessi dei mercanti.

Provare una negazione non è semplice: non possiamo dimostrare che sia stato l’impero in sé a impedire un tale cambiamento valoriale.

Storicamente si è verificato solo nell’Europa nordoccidentale e in condizioni estremamente specifiche, profondamente segnate dalla natura policentrica della formazione degli Stati e del potere sociale: secondo la ricostruzione di McCloskey, è accaduto a partire dalla fine del sedicesimo secolo nei Paesi Bassi, dalla fine del diciassettesimo secolo in Inghilterra, nel diciottesimo secolo in New England e Scozia, e dopo il 1789 in Francia. McCloskey sottolinea con estrema cautela che non significa che nelle altre culture ci fossero «ostacoli permanenti e insormontabili a un miglioramento rapido», ma che fossero prive delle precondizioni necessarie. La variabile cruciale fu la frammentazione competitiva.

Mi fermo qui. In linea di principio niente ci impedisce di approfondire ulteriormente gli approcci ancor più idealisti, su tutti la celebre tesi di Max Weber sull’etica protestante, ma ci costringerebbe a ripetere le stesse argomentazioni. La diffusione e il successo di questi atteggiamenti e sistemi valoriali dipesero esclusivamente dalle circostanze che resero possibile la rivalutazione spiegata da McCloskey: non possono essere considerati autonomi e ancor meno esogeni. 

da “Fuga dall’impero. La caduta di Roma e le origini della prosperità occidentale”, di Walter Scheidel (traduzione di Paolo Bassotti), Luiss University Press, 2022, pagine 684, euro 35

"È il panteismo la religione del nostro tempo smarrito". Il filosofo del "naturalismo critico" avverte: "Prevalgono dogma, mito e superstizione". Giancristiano Desiderio il 28 agosto 2022 su Il Giornale. 

Deus sive Natura è il motto che riassume la filosofia di Baruch Spinoza. Oggi per noi tutto è natura ma niente è Dio e così abbiamo smarrito l'idea stessa di natura. Sul tema abbiamo interpellato Sossio Giametta che non solo vede nel panteismo la «religione del nostro tempo» ma ha la grande capacità di riformulare la filosofia di Spinoza per comprendere Dio, uomo e mondo nel nostro tempo.

Tu dài una grande importanza al pensiero di Spinoza, sia per la tua personale vita, sia per lo sviluppo del pensiero moderno. Puoi spiegare perché?

«Spinoza è il punto centrale dell'età moderna, che è, dopo l'età classica, pagana (tesi), e il Medioevo religioso (antitesi), con scale di valori diversi e contrastanti, l'età della secolarizzazione e del panteismo che ne consegue (sintesi), la religione (dipendenza dei viventi dalla natura) essendo irrinunciabile. Preceduto dai filosofi rinascimentali della natura: Telesio, Campanella, Pomponazzi, Cardano, Bruno e Vanini, che innescarono la reazione alla decadenza della Chiesa e della religione, e seguito da Feuerbach, Schopenhauer e Nietzsche, Spinoza ha fatto una rivoluzione che è seconda, in senso inverso, solo a quella di Gesù Cristo. Si tratta in effetti di una rivoluzione doppia: una negativa: la soppressione della religione antropomorfica appunto, come il cristianesimo e le altre due religioni monoteistiche: ebraismo e islam; e una positiva, conseguente all'altra, il panteismo, come sola e necessaria religione del nostro tempo (sul panteismo, come tale religione, Emanuele Dattilo ha scritto un potente trattato apparso nel 2021 per i tipi di Neri Pozza, Il Dio sensibile).

Ho definito il tuo pensiero «naturalismo critico». Ti ritrovi in questa definizione?

«Mi ci ritrovo. Il mio motto è: Nihil nisi ex natura: non c'è niente che non provenga dalla natura e non sia natura. Ma la natura, nel panteismo, è fatta per l'uomo di due degli infiniti attributi della sostanza, la res extensa e la res cogitans, cioè la materia e il pensiero. La scienza tende a dare il primato alla materia, pensa che la materia produca il pensiero, che il cervello produca la coscienza, e la filosofia tende a far discendere tutto dallo spirito, dall'idea; ma né il pensiero dipende dalla materia, né la materia dipende dal pensiero: materia e pensiero sono una sola e medesima cosa. Perfino la formazione di Gesù Cristo può essere spiegata laicamente come trasfigurazione fidiaca dell'umanità, dunque sempre con origine naturale, come ho fatto nel mio libro Grandi problemi risolti in piccoli spazi. Tuttavia io ho nominato la mia filosofia essenzialismo-organicismo perché la quantità, su cui si basa la scienza, non ha senso nella natura: un atomo e l'intero sistema solare sono la stessa cosa, e tutto poi si deve concepire organicamente nell'ambito dell'organismo universale, dunque le varianti dell'universo sono tra loro non in rapporto di relatività, come in Einstein, ma come gli organi del corpo umano, in rapporto di connessione organica».

Non credi che oggi ci sia un abuso del concetto di natura?

«Certo. Anzitutto perché non si sa che cos'è la natura. La natura è la realtà, l'essere, ma appunto non è affatto facile parlare della realtà, dell'essere. Anche perché giustamente Spinoza ha distinto la natura naturans dalla natura naturata, la prima inaccessibile, la seconda esplorabile. Ma allora ci sono due nature? No, ce n'è una sola, la naturans. Ma essa è di una tale infinita potenza e splendore che, se noi potessimo contemplarla direttamente, il contatto ci incenerirebbe all'istante. Dobbiamo accontentarci di percepirla tramite la natura naturata, che è appunto la percezione antropomorfica della naturans. Non possiamo fissare il sole, ma dobbiamo accontentarci di vedere le cose illuminate dal sole».

Tu sostieni che il panteismo è la religione del nostro tempo. Tuttavia, il panteismo è una critica continua di dogmi, miti, illusioni mentre il nostro tempo appare come l'esaltazione dei dogmi, dei miti, delle illusioni.

«Proprio per questo il panteismo è la religione del nostro tempo, per quanto sia difficile da capire. È la religione della verità, che nega dogmi, miti, superstizioni, di cui il nostro tempo appare come l'esaltazione (Mala tempora currunt), e dogma, mito, superstizione appare spesso l'idea di natura, nei fanatici ed esaltati seguaci di Greta Thunberg».

La tua «religione del nostro tempo» è una laica religione della libertà dove si trovano insieme Vanini, Bruno, Spinoza, Nietzsche e anche Croce, del quale si ripete proprio la formula «religione della libertà».

«Croce è l'ultimo grande filosofo spinoziano, anche se lui avrebbe trovato strano questo aggettivo. Ma che cos'è il suo saggio Non possiamo non dirci cristiani, che non è stato inteso o è stato frainteso, se non la dichiarazione della modernità come sintesi dei due evi precedenti e contrapposti, quello pagano e quello cristiano? Il panteismo è la religione della libertà, che ha il più grande precursore nell'antico Plotino».

A proposito di Cristianesimo. Per Hegel era la religione più alta dell'umanità, per Nietzsche era platonismo per il popolo. Ma oggi cos'è? Conserva la sua natura o si è snaturato e va verso quel vago sentimento naturalistico di cui abbiamo qui discusso?

«Hegel pretese di far rivivere il cristianesimo razionalizzandolo. Ma per la fondamentale eterogeneità di filosofia e religione, oppostagli anche da Goethe, ottenne l'effetto contrario: la strumentalizzazione della filosofia. Bruno Bauer lo smascherò col suo La tromba dell'ultimo giudizio contro Hegel ateo e anticristo. Il centauro Agostino, metà pagano e metà cristiano, traghetta la civiltà antica: regno della carne, della sete di dominio, della superbia, dell'amore di sé che disprezza l'amore di Dio, nella civiltà cristiana: regno di Dio, dell'interiorità, dello spirito, della carità. La sua santa gesta fu di interiorizzare l'essere di Parmenide e Plotino, farne un Dio padre provvidente, amorevole, misericordioso. Il cristianesimo è dunque l'interiorizzazione dell'uomo. Ma questa è anche la critica principale da rivolgergli. Noli foras ire, in interiore homine habitat veritas, dice Agostino. E nell'interiorità l'individuo scava i suoi tesori. Ma la sua vita è nel vasto universo esterno, in cui deve lottare per mantenersi e potenziarsi contro le avverse condizioni di esistenza. Tutti gli esseri sani vivono verso l'esterno, e verso l'interno solo in funzione della vita esterna. Ciò fa e ha fatto anche la Chiesa, e le ha fruttato un dominio in Europa più potente e duraturo dell'impero romano, di cui essa è stata l'erede. A questo dominio, conquistato e mantenuto con la dialettica della potenza, noi dobbiamo la civiltà in cui viviamo ancora. Ma le civiltà e le religioni hanno un ciclo vitale limitato, e dopo 1600 anni il cristianesimo è stato sostituito come religione dal panteismo, anche se la legge della carità resta il vertice della moralità».

L'ambientalismo è politica. E fa male all'ambiente. Il ritorno al futuro o all'Arcadia del piccolo mondo antico impedisce di risolvere i problemi del pianeta. Giancristiano Desiderio il 28 agosto 2022 su Il Giornale.   

Cosa ne è oggi della serietà dell'ecologia come la intese Ernst Haeckel? È stata risucchiata nel vortice demagogico dell'ambientalismo. La prima - l'ecologia - ha statuto di scienza e, come tale, è controllabile. Il secondo - l'ambientalismo - è un'attività politica e, come tale, tende a sfuggire al controllo e a degenerare nella propaganda e nel proselitismo. L'ambientalismo - per usare parole recenti di Federico Rampini - è una religione talebana del nostro tempo che ha una dea nella ragazzina svedese Greta Thunberg e moltitudini di giovani adepti che, sulla base del loro edonismo garantito dalla civiltà occidentale che denigrano, adorano la natura.

Proprio qui c'è il tasto dolente: non c'è cosa più difficile da definire della natura. Per i Greci è physis e per i Latini è natùra: ossia ciò che nasce e cresce spontaneamente senza perché. Come la rosa di Angelo Silesio. Ma gli ambientalisti, mischiando desideri, illusioni e dati, confondo il loro antropomorfismo - umano, troppo umano, umanissimo dice Nietzsche - con la physis e credono di essere niente di meno che i padroni della natura, capaci di regolamentarne temperature, clima, stagioni: come se la natura non fosse un eco-sistema vivo e variabile, ma un sistema razionale regolabile a piacere con una manopola. Così gli ambientalisti, che scambiano la natura con le teorie provvisorie della scienza, credono di essere progressisti anti-moderni e, naturalmente, anti-capitalisti, mentre sono il frutto dello stesso metodo moderno di indagine e della stessa produzione capitalistica che, però, beatamente ignorano e avversano.

L'ambientalismo è (anche) un affare editoriale. Basta dare uno sguardo agli scaffali, fisici e virtuali, delle librerie: è tutto un fiume librario che sfocia nel mare magnum della salvezza del mondo e della salvezza del pianeta. Esempi: Stefano Nespor, La scoperta dell'ambiente. Una rivoluzione culturale; Edward O. Wilson, Metà della Terra. Salvare il futuro della vita; Donatella Della Porta e Mario Diani, Movimenti senza protesta? L'ambientalismo in Italia; Giulia Settimo, Piccoli ambientalisti crescono: come insegnare l'ecologia ai bambini; Carlo Petrini, Terrafutura. Dialoghi con Papa Francesco sull'ecologia integrale. L'elenco sarebbe lunghissimo e questi sono i primi titoli a portata di mano e di clic.

L'ambientalismo, come si vede, si coniuga al futuro e al passato remoto: una sorta di ritorno al futuro o all'Arcadia del piccolo mondo antico di una volta. E, strano ma vero, entrambi questi due sentimenti, giacché di sentimenti e passioni si tratta, albergano nel campo progressista e non riguardano l'attualità e le sue concrete possibilità, bensì ciò che è lontano e remoto, impossibile, ma che si ritiene realizzabile facendo leva su un senso illimitato del potere: lo statalismo (ora indigeno, ora internazionale). Le «politiche verdi» - l'ultima delle quali è la cosiddetta «transizione ecologica» - enfatizzando oltre misura le fonti di energia rinnovabile confondono tra energia e potenza energetica: la prima è, ad esempio, la dinamo della bicicletta che è un trasformatore, mentre la seconda è il muscolo che fa girare i pedali. La nostra civiltà, per come è fatta e conosciuta, ha bisogno della potenza energetica, di cui la più compiuta espressione è il nucleare, mentre l'ambientalismo punta sull'energia rinnovabile, con la quale non riscaldiamo nemmeno le nostre abitazioni e ci espone alla dipendenza da potenze straniere, come il caso della guerra in Ucraina dimostra senza possibilità di smentita.

L'ambientalismo ha una sua pendenza a sinistra. È il caso di dirlo: è naturale. Non perché la sinistra difenda l'ambiente, ma perché è rimasta orfana del marxismo. Così l'ambientalismo è diventato la nuova lotta di classe, facendo fare ai progressisti o post-comunisti un vero e proprio salto quantico dalla pseudoscienza di Hegel e di Marx della filosofia della storia all'altra pseudoscienza di Hegel, Marx ed Engels della filosofia della natura: come un tempo gli intellettuali e i politici di sinistra credevano di essere la coscienza della necessità della Storia, così oggi credono di essere la coscienza della necessità della Natura. Come se un secolo di epistemologia, da Popper a Feyerabend, e un secolo e passa di fallimenti e catastrofi del marxismo non avessero insegnato nulla.

Come in effetti è: perché ogni generazione deve riprendere sulle spalle, secondo il realistico mito di Sisifo, la fatica di appropriarsi del sapere. Ma l'ambientalismo, in quanto è una sorta di tentativo di rivincita verde della sinistra rossa che è uscita sconfitta dalla storia del secolo scorso, evita per sua natura il confronto con l'umiltà del sapere e con la verifica dei risultati.

In questa inconsapevole teologia secolare si perdono le salutari differenze tra Dio, uomo e mondo e si alimenta una sensibilità ideologica e fanatica che, pur cantando le lodi dell'inclusione, esclude chiunque sollevi dubbi ed eserciti la santa critica. Il mondo dell'informazione, in senso lato, in quanto veicola dati senza analisi e senza storia porta acqua al mulino del pregiudizio positivo di cui gode l'ambientalismo nella società di massa in cui - come già sapeva e scriveva Ortega y Gasset un secolo fa in La ribellione delle masse - domina la boria del competente-ignorante. Un ambientalismo di tal fatta, che non sa distinguere natura e teoria, fisica moderna e physis, non è utile a difendere l'ambiente ed è il primo impedimento per conservare e custodire una buona eco-logia come discorso intorno alla casa che abitiamo.

Non a caso con l'ambientalismo ideologico si perdono i termini del discorso eco-logico: in luogo del logos, ossia del serio argomentare razionale, si ha il logo, al posto dell'inquinamento, sul quale si può intervenire si ha il clima che è indipendente dalle volontà umane, e si rifiuta la sempre faticosa libertà umana sostituendola con l'idoleggiamento di una natura non meglio definita della quale, però, la volontà di potenza ambientalista crede di essere la naturale regolamentazione. L'ambientalismo, come si vede, è il corto-circuito della cultura moderna che ignora o forse nasconde le sue radici e i suoi limiti. 

In Onda, Federico Rampini mette a tacere Concita De Gregorio: “Ambientalisti radical-chic”. Cala il gelo. Giada Oricchio su Il Tempo il 29 luglio 2022

“Ambientalisti radical-chic hanno ridotto alla fame lo Sri Lanka”, “Prendo le distanze”. Scintille tra Federico Rampini e Concita De Gregorio nella puntata di  In Onda, il talk politico di La7, giovedì 28 luglio. Partendo dal caldo record, dalla siccità e dalla manifestazione del movimento Fridays for Future, a Torino, il giornalista ha blastato con inusitata asprezza i movimenti ecologisti: "Parliamo di giustizia sociale. Lo Sri Lanka, uno dei paesi più poveri del mondo, in questo momento è alla fame, letteralmente alla fame, ci sono state rivolte di massa perché non hanno da mangiare. Il motivo? Qualche anno fa i loro governanti ebbero la buona idea di seguire i consigli di ambientalisti occidentali radical-chic che consigliarono di convertire l'agricoltura ai metodi agro-biologici. Ebbene sono crollati i raccolti e non c'è più da mangiare nello Sri Lanka”.

E’ duro l’atto d’accusa dell’inviato del Corriere della Sera: “Questo il movimento ecologista radical-chic ce l'ha sulla coscienza, ma non ne parla, non fa i conti con i propri errori, con le proprie visioni dissennate ispirate da una ideologia apocalittica e da slogan che non hanno nulla a che vedere con la realtà”. La co-conduttrice del programma, Concita De Gregorio, ha socchiuso gli occhi infastidita e puntualizzato: “Sono d’accordo, io prendo le distanze soltanto dalla definizione di radical-chic usata a prescindere, Federico, scusami”, “L'agricoltura biologica in Sri Lanka è molto radical-chic” ha replicato deciso Rampini.

L’ex direttrice però ha insistito sul lessico dando il via a un serrato botta e risposta: “Sì, sì, ma io trovo radical-chic una formula ormai che ha superato la saturazione e il limite dell'accettabilità” e lo scrittore: “E allora diciamo snob? Radical-snob? Ambiental-snob? Come quando Greta attraversa l'Atlantico in barca a vela, il culmine dello snobismo", “No, no tu sei libero di dirlo, io sono libera di sentirne la saturazione” è stata la chiosa finale della conduttrice.

Enrico Tata per fanpage.it il 19 agosto 2022.

Due attivisti di Ultima Generazione hanno deciso di incollarsi per protesta sulla  base della statua di Laocoonte che si trova ai Musei Vaticani. Come il sacerdote troiano, che tentò di avvisare i suoi concittadini del pericolo, anche gli scienziati, è il ragionamento degli attivisti, stanno tentando di metterci in guardia in tutti i modi sulle conseguenze che le nostre azioni avranno sul futuro. 

Come Laocoonte, anch'essi non vengono ascoltati. "La statua ricorda la triste sorte alla quale andò incontro il sacerdote greco nel tentativo di salvare sé stesso, i propri figli e i cittadini tutti. Nel nostro movimento ci sono genitori, ci sono figli, uniti dalla volontà di spingere il mondo della politica a fare le scelte giuste per arginare il cambiamento climatico prima che sia troppo tardi”, ha spiegato Laura, attivista di Ultima Generazione.

Laocoonte era un sacerdote troiano che invitò i suoi concittadini a lasciare all'esterno delle mura il famoso cavallo inviato dai greci come regalo (in realtà era una trappola di Ulisse, come racconta Virgilio nell'Eneide). "Il segnale d'allarme rimase inascoltato, l’ambasciatore del pericolo e i suoi figli morirono stritolati nel silenzio dell'incoscienza e l’intera città di Troia venne messa a ferro e fuoco, provocando la morte di tante persone ingenue ma innocenti", ha dichiarato ancora Laura.

"In quanto testimoni di una crisi ignorata da decenni, abbiamo scelto di portare l’attenzione sul nostro messaggio accostandoci alla figura di Laocoonte, il veggente che ha subito l’estrema repressione per aver tentato di avvisare i suoi concittadini di una catastrofe imminente. 

Non ci saranno musei aperti, né arte, né bellezza in un mondo piagato dall’emergenza climatica ed ecologica. La siccità, le alluvioni, gli incendi, l’inquinamento e la scarsità di risorse prenderanno il sopravvento, se non verranno fatte delle scelte radicali in merito”, hanno spiegato gli attivisti.

Da rainews.it il 21 agosto 2022.

Nuovo blitz non violento degli attivisti di Ultima Generazione, che oggi sono entrati nella Cappella degli Scrovegni a Padova, incatenandosi alle balaustre che delimitano il percorso dei visitatori al ciclo di affreschi di Giotto. A quel punto uno di loro ha letto ad alta voce i messaggi di protesta del movimento, contro lo spreco di acqua ed energia. Poco dopo è arrivata la polizia, che ha cercato dapprima di convincere gli attivisti a interrompere la protesta, poi, visto il loro rifiuto, ha fatto tagliare con delle cesoie le catene ed ha portato via a braccia i manifestanti. 

I manifestanti, 4 in tutto, sono entrati nella Cappella giottesca - che fa parte dei siti di Padova Urbs Picta, dichiarata un anno fa patrimonio Unesco - con un normale biglietto, acquistato per l'orario di visita delle 10.20, confusi con i turisti.

Una volta all'interno, tra lo stupore degli altri visitatori, due di loro hanno esposto dapprima uno striscione con gli slogan del movimento, quindi hanno estratti catene, e le hanno chiuse con lucchetti al corrimano metallico che delimita la distanza dalle pareti affrescate. Gli altri due, invece,  hanno filmato l'azione di protesta.  

"Non c'è niente di più importante in questo momento storico - ha scandito uno degli attivisti - se non agire per salvarsi la pelle. Quando manca il cibo, manca l'acqua, le persone diventano violente. Guardiamo a cosa sta succedendo in Sicilia, cos'era successo in Sudan: senza acqua non si può vivere, le persone migrano, ci sono conflitti. La disobbedienza civile è l'unico modo per farsi sentire".

Estratto dall’articolo di Vittorio Sabadin per “Il Messaggero” il 15 ottobre 2022.

Due ragazze ventenni che vogliono salvare il mondo hanno scelto il modo sbagliato di farlo, gettando il contenuto di due barattoli di zuppa di pomodoro Heinz sul quadro di girasoli di Van Gogh della National Gallery di Londra. Il dipinto è per fortuna protetto da un vetro sul quale la zuppa è scivolata via senza fare danni. Le ragazze hanno poi incollato la loro mano sinistra alla parete e hanno atteso che arrivasse qualcuno a fotografarle e ad ascoltarle. 

Appartengono al gruppo ecologista Just Stop Oil, che vuole bloccare le estrazioni di petrolio e di gas. Vista la guerra in Ucraina non sembra proprio il momento migliore per farlo, ma nella loro semplicistica visione delle cose non c'è spazio per i dettagli disfattisti.

Phoebe Plummer, 21 anni e Anna Holland, 20, sono entrate poco prima delle 11 nella Galleria di Trafalgar Square come due visitatrici qualunque. Ai controlli avranno detto che le lattine di zuppa Heinz erano per la loro cena e sono passate senza problemi. Una volta arrivate alla sala 53, dove si trova il Van Gogh, si sono tolte la giacca che nascondeva la maglietta con scritto Just Stop Oil, si sono avvicinate al quadro, hanno aperto le due lattine tirando l'anello e ne hanno gettato il contenuto arancione sul quadro. […] 

«Che cosa vale di più, l'arte o la vita? ha detto Phoebe -. Vale più del cibo? Più della giustizia? Siete più preoccupati per la protezione di un dipinto o per la protezione del nostro pianeta e delle persone? La crisi del costo della vita fa parte della crisi del costo del petrolio». E Anna: «Le famiglie del Regno Unito saranno costrette a scegliere fra lo scaldarsi e il mangiare questo inverno, mentre le compagnie petrolifere registrano profitti record».

Sono 14 giorni che gli attivisti di Just Stop Oil paralizzano con manifestazioni le strade più trafficate di Londra e si incollano dappertutto, così la polizia è arrivata alla Gallery già armata di Loctite scolla-tutto e ha facilmente liberato le ragazze per poterle poi ammanettare. 

Phoebe e Anna verranno giudicate per danneggiamento criminale e violazione aggravata, ma non sembravano preoccupate: non è la prima volta che finiscono dentro. La polizia di Londra ha arrestato 300 manifestanti nelle ultime due settimane e 1.600 da aprile, quando la serie di proteste è cominciata. Per sbeffeggiare le forze dell'ordine, alcuni ambientalisti hanno lanciato ieri vernice arancione contro l'insegna della sede di Scotland Yard al Victoria Embankment. […]

Incollarsi a qualcosa nei musei sta diventando di moda nel mondo della protesta. Nel luglio scorso tre giovani ambientalisti si erano incollati al vetro della Primavera di Botticelli agli Uffizi di Firenze, dopo essere entrati acquistando il biglietto. Con le tre mani rimaste libere avevano esposto uno striscione che diceva Ultima Generazione No Gas No Carbone, ripetendo gli stessi slogan degli zeloti di Londra. 

Ma a forza di spargere per i musei super-attak e zuppa di pomodoro qualche quadro prima o poi sarà danneggiato e bisognerebbe fare qualcosa. Forse lasciare per alcune ore i manifestanti dove si sono incollati potrebbe bastare a scoraggiarli e a tenerli lontani dalle opere d'arte.

Giulio Manieri Elia, Direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia, per ilgiornaledellarte.com.

"Domenica 4 settembre alle ore 11.45 alcuni militanti ecologisti hanno svolto un’azione dimostrativa alle Gallerie dell’Accademia di Venezia, nella sala dove sono esposte la Tempesta e la Vecchia di Giorgione, insieme ad altri capolavori del Cinquecento veneziano. 

Pur vivendo una reale preoccupazione per le condizioni nelle quali versa il pianeta e pur auspicando interventi adeguati per un’inversione di tendenza, ci vediamo costretti a condannare senza appello le modalità della protesta e desideriamo invitare tutti a una riflessione pacata e approfondita. 

Purtroppo non si è trattato di una manifestazione non violenta, come letto nei proclami degli attivisti. Sono stati, infatti, arrecati danni allo speciale vetro antiriflesso che protegge la Tempesta e alla cornice del dipinto, che hanno richiesto l’intervento dei nostri restauratori. Inoltre, la sala interessata, una delle più importanti di tutto il museo, è rimasta chiusa per ben due giorni per consentire i lavori di restauro, causando disagio e proteste da parte dei visitatori arrivati da tutto il mondo per ammirare i capolavori di Giorgione.

È dunque evidente che quest’azione ha provocato danni ai beni del museo, ha richiesto interventi economici e di personale per il ripristino della sala e ha causato forti disagi a visitatori incolpevoli. 

Ma questo, purtroppo, non è l’aspetto più grave e preoccupante. Il comportamento tenuto dai manifestanti, infatti, ha messo a rischio l’incolumità delle opere d’arte esposte, sulle quali deve intervenire solo personale specializzato e appositamente formato, con tutte le cautele del caso. 

Avvicinarsi e toccare importanti dipinti con le mani imbrattate di colla, lasciarsi cadere a terra in maniera scomposta a pochi centimetri dalle opere nel momento in cui agisce il personale di vigilanza compromette la sicurezza del patrimonio artistico. Se si adottano questi comportamenti irresponsabili è alta la probabilità che vengano danneggiati in maniera irreparabile capolavori che costituiscono il patrimonio dell’umanità e che sono bene comune.

Mettere a repentaglio l’incolumità delle opere d’arte non salva il pianeta e, a nostro avviso, non mette in buona luce una nobile causa. Vogliamo quindi invitare in maniera accorata gli autori di queste azioni a non mettere mai più a rischio il patrimonio artistico e a non danneggiare l’attività delle istituzioni culturali. 

Restiamo sempre disponibili, in qualsiasi momento, a un confronto aperto e approfondito, purché sia davvero civile e non violento."

Gli ambientalisti si incollano alla statua di Boccioni: "Ripeteremo azioni simili". Prima è stata la Primavera di Botticelli, poi la statua di Umberto Boccioni: gli ambientalisti promettono nuovi blitz nei musei per incollarsi alle opere d'arte. Francesca Galici il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Ancora un'azione contro un museo da parte degli attivisti e ambientalisti estremisti di Ultima Generazione, che sembrano interessati più che altro a far parlare di sé con azioni eclatanti per supportare idee utopiche e irrealizzabili. Dopo l'assalto alla Primavera di Botticelli, è stato il turno della statua Forme uniche di continuità nello spazio, scultura capolavoro di Umberto Boccioni, esposta al Museo del Novecento di Milano. Se a Firenze il manipolo di attivisti si era limitato a incollare le proprie mani al vetro di protezione del quadro, a Milano hanno utilizzato lo stesso sistema ma sul basamento in marmo della scultura, la cui importanza è testimoniata dal fatto che sia stata rappresentata sul retro della moneta da venti centesimi di euro.

Con questi blitz nei più importanti musei italiani, che mirano a sollevare l'attenzione sulle loro ideologie utopiche e irrealizzabili, gli attivisti chiedono di bloccare immediatamente la riapertura delle centrali a carbone in Italia e di cancellare immediatamente i progetti di nuove trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas naturale. Davanti a una crisi energetica senza precedenti e con un inverno che si preannuncia bollente, non a livello climatico ma di tensioni sociali, i giovani di Ultima Generazione avanzano simili proposte. Dallo scoppio della guerra è chiaro a tutti che si rende necessaria un'attività di indipendenza del Paese dalle forniture russe nel più breve tempo possibile per garantire all'Italia la continuazione delle attività industriali ma anche il riscaldamento delle abitazioni. Pretendere che l'Italia non si adoperi in questo modo, sfruttando le risorse a sua disposizione in un arco temporale di breve-medio termine, e chiedere che gli investimenti vengano fatti esclusivamente sulle risorse rinnovabili significa non avere consapevolezza di quanto sta accadendo nel Paese.

"Abbiamo intenzione di ripetere azioni di disobbedienza come quella di oggi a Milano anche nei prossimi giorni", ha detto Mosè Vernetti, membro di Ultima Generazione. Una minaccia conclamata alla luce del sole, che lascia presagire all'orizzonte mesi complicati di manifestazioni e di scioperi. Fortunatamente, gli attivisti di Milano sono stati rapidamente fermati dalla sicurezza e allontanati dal Museo del Novecento.

Ecoscemi: i bimbi di Greta provano ad imbrattare la Venere di Botticelli

Tre fanatici ambientalisti si sono incollati al vetro della “Venere” di Botticelli, in segno di protesta contro il cambiamento climatico. Max Del Papa su Nicolaporro.it il 23 Luglio 2022.

Ultima generazione. Speriamo sul serio. Dovrebbero essere, se non sbagliamo e se sbagliamo è lo stesso, tanto son tutti buoni a nulla della stessa risma, le teste di condominio che bloccano il riscaldamento globale “contro la Co2”, di fatto alimentandola a livelli mostruosi perché provocano ingorghi omerici. Ieri, due di questi fannulloni ne hanno pensata un’altra: sono andati agli Uffizi di Firenze e si sono incollati, letteralmente, al vetro che protegge la Primavera di Botticelli, al grido “il pianeta è finito, no oil no carbone, non c’è più tempo” ed altre cazzate gretine. Sono mentecatti, ma sanno quello che fanno e non sono per niente disinteressati. Del pianeta non gliene frega niente.

C’è un video che, in un fulmineo particolare, è rivelatore: nel silenzio generale dei turisti costernati, a un certo punto una malata di mente grida “bravi!”, al che il maschio (se è maschio) tradisce come un fremito di piacere e, con lo sguardo, cerca avidamente la fan. “Ci state rubando il futuro”: età media di questi fannulloni: 37 anni. No carbone, no petroil: inutile spiegare, ancora e ancora e ancora, che in Cina hanno 87 centrali a carbone, che in Germania hanno ripensato la demenziale politica antinucleare della Merkel, che c’è un conflitto ucraino che strangola l’Europa (per colpe tutte sue), che, che, che…

Il delirio di Repubblica

E vagli un po’ a dire di farle appunto in Cina, o dove diavolo vogliono, certe pagliacciate: sanno perfettamente che là verrebbero subito messi ai ceppi, mentre qua ottengono visibilità e persino prestigio. Totalmente scollegati da ogni realtà, autoreferenziali, megalomani, fortemente determinati a non fare nulla per tutta la vita, fino a che qualche partito sedicente ambientalista non li candida. C’è un business dietro questa follia, c’è l’agenda globalista europea e questo non è complottismo, sono loro a dirlo: 3 triliardi di euro o dollari già bruciati, e siamo per terra. Il presidente di Nomisma energia, Tabarelli, avverte: prepariamoci a privazioni inaudite il prossimo inverno, e questi pretendono di scaldare “il pianeta” con le loro scorregge decarbonizzate.

Ma, fosse tutto qui, la notizia dove sarebbe? Invece, c’è ed è che La Repubblica, il giornale del Pd, ovviamente li esalta: “guerrieri del clima”, li chiama in una allucinante paginata. Tutta la cronaca, minuto per minuto, dell’eroica impresa di questi due lunatici, fino a che non li hanno trascinati via come a Roma si fa con la monnezza. Di spalla, un boxino con la dolce reprimenda, eh, ragazzi, bravi, per carità ma che c’entra la Primavera? Ma il tono è agiografico, a riprova di quello che ci aspetta per le prossime elezioni, altro che “emergenza democratica” con Giorgia Meloni.

La sceneggiata ambientalista

C’è un disegno e c’è una strategia diffusa: prima la torta in faccia al vetro della Gioconda, al Louvre, dove però non scherzano, poi il danneggiamento (“seppur lievemente”, tuona la solita Repubblica) della cornice di un dipinto di John Constable alla National Gallery di Londra, e chissà quante ne seguiranno. Dove starebbe il fil rouge tra il rigassificatore di Piombino e Monna Lisa, solo Greta lo sa. Ma che importa, nell’epoca in cui una che gnagnera in corsivo va al Grande Fratello Vip (Vip?), tutto vale, tutto è possibile. Era più serio Ruggiero di Verdone, quello che mangiava le cose buone della terra, “pisselli, zucchini, faggioli”, tutte cose un sacco salutari, e poi faceva il bagno co’ la spada de fori insieme ai Figli dell’amore eterno, “senza ‘na casa, senza na famija, co’ le pezze ar culo”.

A riprova che questi arrivisti climatici, nel senso di climaterio, non hanno inventato niente, sono vecchi quanto il motore a scoppio, ma meno utili. E sempre senza il cervello. Dalla cronaca senza speranza di Repubblica: “I due appoggiano le mani imbrattate di colla bianca sul vetro infrangibile a guardia della “Primavera” e cominciano un comizio-show: «L’unica cosa che possiamo fare per salvare l’umanità è smetterla coi combustibili fossili. Non ci sarà più arte non ci sarà più futuro se continuiamo ad investire nella morte delle persone». I presenti si lamentano. Qualcuno urla smettetela. La scena diventa uno spettacolo”.

Uno spettacolo, capite? No, è una sceneggiata, qualcosa di patetico, di miserabile, ma per i lettori progressisti la cultura è questa. La spocchia degli idioti. Di che stiamo ancora a parlare? “Denunciati in tre”, i due guerrieri e una che li riprendeva con lo smartphone: senza vanità, ogni salvezza è inutile, lo aveva già colto Andy Warhol. Sai che c’è? A questi fategli fondare un gruppuscolo, chiamateli Maraskin, dateli a Manuel Agnelli, fategli vincere un paio di talent, Sanremo incluso, e guariranno. Max Del Papa, 23 luglio 2022

Clima, blitz degli attivisti di Ultima Generazione agli Uffizi: si incollano a La Primavera di Botticelli. «Per ricordare che la bellezza esiste ma va protetta». Questa mattina il movimento di cittadini che si batte per contrastare il collasso climatico e sociale è entrato dentro la Galleria degli Uffizi di Firenze in segno di protesta. Sono stati portati fuori dalle forze dell’ordine. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 22 Luglio 2022.

«Al giorno d'oggi è possibile vedere una primavera bella come questa? Incendi, crisi alimentare e siccità lo rendono sempre più difficile. Abbiamo deciso di usare l'arte per trasmettere un messaggio d'allarme: stiamo andando verso un collasso eco-climatico e sociale», dicono gli attivisti di Ultima Generazione che questa mattina si sono «incollati» a La Primavera, il dipinto di Sandro Botticelli conservato all’interno della Galleria degli Uffizi di Firenze. Per ricordare che la bellezza esiste ma va protetta.

«È proprio la consapevolezza dell’inestimabile valore racchiuso in queste stanze che mi spinge a lanciare il mio urlo di terrore nei confronti del disastro che ci aspetta a causa della totale inerzia politica nei confronti dell’unica possibilità di salvezza collettiva che ci rimane. Nei prossimi anni l’arte sarà un lusso che non potremo più permetterci. Sono qui oggi per evitare che la mia generazione sia travolta dall’atrocità e dalla disumanità di vani viaggi della speranza che di reale speranza non racchiudono neanche un barlume», ha detto Laura che ha partecipato all’azione di protesta.

Dato il valore del panorama artistico italiano, riconosciuto in tutto il mondo, gli attivisti di Ultima Generazione hanno scelto uno dei più importanti musei del paese per non rischiare di essere ancora una volta ignorati e lanciare un appello: «Nello stesso modo in cui difendiamo il nostro patrimonio artistico, dovremmo dedicarci alla cura e alla protezione del pianeta che condividiamo con il resto del mondo. L'arte da sempre ha avuto un valore importante nel trasmettere bellezza, nell’unire culture e nel preservare le migliori espressioni di umanità. Anche ora dovrebbe essere così», gridano i ragazzi mentre si stendono sul pavimento della Galleria. 

«Siamo stati attenti a non danneggiare il dipinto. Per assicurarcene, abbiamo consultato restauratori che ci hanno consigliato l’utilizzo di un incollante adatto a vetri e cornici - aggiungono- perché per noi è importante valorizzare l’arte, anziché danneggiarla, come i nostri governi fanno con l’unico pianeta a nostra disposizione». Ultima generazione è un movimento fatto da cittadini e cittadine preoccupati per il futuro, che ha deciso di non arrendersi allo stato attuale delle cose ma di intraprendere azioni di disobbedienza civile nonviolenta per fare pressione sul Governo. Avevano già bloccato il traffico sul Grande Raccordo Anulare di Roma, promosso uno sciopero della fame di 13 giorni, interrotto manifestazioni artistiche e sportive, «Perché siamo l’ultima generazione che può fare qualcosa».

Gli Uffizi non ecologisti, ma somari. Il guerriero Malandrino d’Abruzzo. Francesco Merlo su La Repubblica il 24 Luglio 2022.

Caro Merlo, vogliamo dirlo che ecologisti che realizzano "imprese" come agli Uffizi o alla National Gallery sono vandali scriteriati, i migliori nemici della causa che dicono di difendere? Valter Vecellio

Nel loro linguaggio c'è una spruzzata di fascismo e una di no global. L'aggressione alla Primavera di Botticelli non è ecologismo, ma un'idea da somari confusi: toccarla, sporcarla e metterla a rischio significa toccare, sporcare e mettere a rischio il mondo.

Mario Giordano per “La Verità” l'11 luglio 2022.

Caro Mario Tozzi, caro ecologista à la page, geologo della Tv e nuova stella dello Stscp (star system degli scienziati con prosopopea), ti scrivo questa cartolina perché sono rimasto colpito dall'impegno con cui stai cercando di diventare il Burioni dell'emergenza climatica. Davvero ammirevole.

In particolare ho apprezzato il tuo post su Facebook in cui esplicitamente chiedi, dopo la tragedia della Marmolada, la censura per chiunque si allontani dalla linea da te tracciata, quella per cui il riscaldamento globale è solo colpa dell'uomo. 

«Non si deve dare spazio a chi nega che il cambiamento climatico sia anomalo e dipenda dai sapiens», hai scritto decretando, così, l'espulsione da tv e giornali di studiosi come Antonio Zichichi, Franco Prodi o il guru dell'ecologia Pascal Acot, che hanno la grave colpa di non essere allineati al 100% alle tue posizioni (sostengono infatti che l'uomo c'entra solo in parte e che il fenomeno del cambiamento climatico è da sempre esistito). Speriamo che nessuno di loro abbia a mancare prossimamente.

Altrimenti sono sicuro che lo saluteresti come hai salutato la morte di Luc Montagnier: «Rido da ore». In effetti già da quel commento bisognava capire che eri sulla giusta via della burionizzazione. Ricordi? Qualcuno scrisse: «Montagnier, che la terra piatta ti sia lieve». 

E tu, rilanciando: «Rido da ore». Allora qualcuno ti fece notare che ridere sulla morte di un premio Nobel non è proprio un'attività rispettosa della natura, almeno della natura umana (più o meno come definire «sorci» i no vax) e tu ti risentisti, definendo i critici «analfabeti funzionali».

Proprio lo stesso atteggiamento del tuo maestro di arroganza. Per rendersene conto basta guardare i post con cui pubblicizzi il tuo programma Tv: in uno sei Braveheart, in un altro Diabolik, in un altro Superman. In uno c'è Gesù Cristo che ascendendo al cielo dice ai suoi discepoli: «Seguite Tozzi". In un altro sei tu, caro Tozzi, che ti trasformi direttamente nel figlio di Dio e cammini sulle acque. L'unica differenza è che, anziché pani e pesci, moltiplichi le minchiate.

Figlio di uno 007, geologo prestato alla Tv, dedicato alla ricerca della telecamera più che alla ricerca sul campo, noto per aver prodotto più ore di programma che risultati scientifici, responsabile di ingenti quantità di emissioni di cipria, tu caro Tozzi bivacchi ormai da tempo sui nostri teleschermi, soprattutto attraverso Raitre e La7, tue reti di elezione.

E tutto ciò, proprio come per Burioni, ha accresciuto non poco il tuo narcisismo.

Memorabile, per esempio, il post che hai rivolto ai fan: «Non ho mai usato pettine né asciugacapelli in tutta la vita. La domanda è: la barba la tengo?». 

In quell'occasione sei stato seppellito da un coro di insulti del tipo: «La barba tienila pure, è la testa che devi tagliare». Ma non te ne sei curato. Perché dovresti? Tu ti senti come Piero Angela (niente meno) e attacchi senza sosta i tuoi nemici giurati, fra cui spiccano i cacciatori («Li detesto») e i balneari, che consideri tutti dei ladri («restituite le refurtiva»). Della tua vita privata si sa poco se non che hai un figlio, da poco maggiorenne, che sogna di diventare attore comico. Gli auguriamo di riuscire a farci ridere tanto quanto il papà. 

Marmolada, la sinistra accusa FdI e Lega: "Perché è colpa vostra". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 06 luglio 2022

Quando l'ignoranza si salda all'ideologia, si rimediano figure barbine. Se poi si aggiunge l'odio politico, che ti porta a speculare sulle tragedie, è un attimo passare per un avvoltoio. Hanno subito svariate evoluzioni, contratto diversi matrimoni misti e cambiato qualche decina di nomi, ma gratta-gratta i democratici piddini sempre del comunismo sono figli. Lo rivela l'approccio stalinista che hanno nel dibattito pubblico e con l'avversario politico: la loro è la verità incontestabile e la denigrazione è l'arma con cui si combattono le battaglie. Capita così che una gentile donzella come l'eurodeputata ex renzina Simona Bonafè, interrogata in tv sul crollo della Marmolada, se ne esca dicendo che poco si può fare se «in Europa c'è chi, come Lega e Fratelli d'Italia, chiude gli occhi sul cambiamento climatico e vota contro il provvedimento che vieta la vendita di auto a benzina nel Continente a partire dal 2030». Da Besana Brianza, le fa eco il parlamentare Gian Mario Fragomeli, che sottolinea come «a livello europeo si fanno scelte ambientaliste ma il centrodestra non mostra attenzione, perché la Marmolada non è certo un problema di oggi». Ma l'onorevole coppia è truppa da sbarco, si tratta di randellatori con la mitraglia che per contratto non vanno leggeri. Le menti stanno dietro e sono più raffinate. Così Michele Serra su Repubblica sbertuccia Zaia perché, mentre «il cataclisma delle Dolomiti parla al mondo», il governatore leghista afferma che una cosa simile «non era mai accaduta in Veneto» e così «contrappone ai mutamenti climatici un irritante localismo». E d'altronde, di Dolomiti e natura ne saprà ben più il dotto Serra del villico Zaia, incidentalmente laureato in Agraria.

MILITANTI

Senza esibire dati né studi, il giornalista militante, parlando di Veneto, azzarda che «le Regioni hanno accumulato quattrini trattando qualsiasi allarme ambientale come lo sfizio di quattro intellettuali rompiballe». Così, tanto per sputare in faccia all'avversario. Vola alto Concita De Gregorio, secondo la quale «le forze politiche che chiamano Greta Thunberg "Gretina" sono contrarie ai giovani». Al punto da godere nel rovinare loro il Pianeta, è il non detto. E invece forse qualcosa sarebbe il caso di dirla. La prima è che il clima si sta certo surriscaldando, ma a guastarlo non è l'inquinamento bensì la sinistra, che fa di un'emergenza terreno di scontro politico, incriminando gli avversari con capi d'accusa senza capo né coda. Partiamo dall'accusa a Lega e Fdi di essere contrarie al bando delle auto a benzina. Al netto dei milioni di posti di lavoro, per lo più di persone a basso reddito e non altrimenti qualificate, che questa legge costerà, non c'è nessuno studio che abbia dimostrato che l'auto elettrica, che la sinistra sponsorizza per pura ideologia, inquini meno. Peraltro, siccome al momento vengono prodotte per lo più in Cina, sicuramente gli stabilimenti di Bmw e Audi, o di Stellantis e Renault fanno meno danni all'ambiente di quelli che sfornano batterie a Pechino o Shanghai.

MIOPIA

Nella legge europea che il centrodestra non vuole approvare sta tutta la miopia della sinistra, che vieta il commercio di vetture in Europa, quando tutto il resto del mondo può venderle. Un po' come buttare il pacchetto di sigarette ma passare la vita in una stanza con cento fumatori visto che il mondo, e i signori della globalizzazione e della delocalizzazione inquinante ben dovrebbero saperlo, ruota tutto sotto lo stesso cielo e l'aria non la fermi ai confini. A lavorare contro l'ambiente in Europa in realtà, ma vigliacco che qualche giornale attento al verde lo dica, è proprio il Pd. I nostri valorosi dem si oppongono fermamente alla legge dell'Europarlamento sulla tassonomia verde. Cos' è? Un prontuario per una transizione ecologica graduale e ragionata che consenta di diminuire l'inquinamento senza ridursi in miseria né arricchire il resto del mondo mentre noi ci impoveriamo. In esso è previsto il ricorso all'energia nucleare, che è pulita e ha zero emissioni di anidride carbonica, e al gas.

Ma la sinistra è contraria, perché ha sposato la religione dell'elettrico sempre e comunque e oggi forse, sfruttando i morti della Marmolada, riuscirà a fermare il provvedimento a Bruxelles. E questo malgrado il governo ucraino abbia invitato ufficialmente, con tanto di missiva firmata dal presidente Zelensky, l'Europarlamento a votare a favore della tassonomia e contro la proposta piddina perché, dicono a Kiev, essa farebbe schizzare ancora di più il prezzo delle materie prime e sarebbe un assist a Putin che annullerebbe l'effetto di tutte le sanzioni che gli abbiamo comminato da quattro mesi a questa parte. Ma in preda al deliro verde, i progressisti sono pronti a camminare sopra il popolo ucraino come neppure i cingolati russi. 

Da blitzquotidiano.it il 16 luglio 2022.

L’uso dell’aria condizionata all’interno della propria auto diventa una prassi soprattutto in questo periodo dove le temperature raggiungono anche i 40 gradi. 

Tuttavia, è necessario fare attenzione; infatti, in alcune circostanze, tenere l’aria condizionata accesa può far incorrere in delle multe. Il divieto è stato introdotto dalla normativa europea, che ha l’obiettivo di limitare l’inquinamento, e poi applicato in Italia, dove le sanzioni raggiunto importi piuttosto alti. 

Aria condizionata in auto, multa se il veicolo è in sosta

Nel 2007 la normativa europea ha introdotto il divieto di tenere accesa l’aria condizionata in auto quando si è in sosta (quando ad esempio si parcheggia aspettando un parente…), e le multe previste possono raggiungere importi che vanno dai 41 ai 168 euro.

Nello stesso anno è arrivata anche la modifica al codice della strada, attraverso un decreto, successivamente modificato nel 2010 e aggiornato recentemente. Il comma 7-bis nell’articolo 157 recita: “È fatto divieto di tenere il motore acceso, durante la sosta del veicolo, allo scopo di mantenere in funzione l’impianto di condizionamento d’aria nel veicolo”. 

A quanto ammonta la sanzione?

Nel 2014 gli importi delle sanzioni sono stati modificati, pertanto chi tiene accesa l’aria condizionata quando l’auto è in sosta incorre in multe che vanno da un minimo di 223 ad un massimo di 444 euro. In altre città europee le multe sono decisamente più basse: a Londra la multa raggiunge i 22 euro mentre a Madrid l’importo massimo è di 100 euro. 

Inoltre, in alcuni comuni italiani, se si rifiuta di pagare sul momento la sanzione si è costretti ad abbandonare l’auto e a trascolare su un mezzo di trasporto pubblico per raggiungere la propria destinazione.

120 anni fa nasceva l'aria condizionata: storia della tecnologia che ha cambiato il nostro stile di vita. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 17 Luglio 2022.

Fu un giovane ingegnere americano a realizzare il 17 luglio 1902 il primo climatizzatore a uso industriale. Nelle nostre case è arrivato grazia al cinema 

Willis Haviland Carrier, l'inventore del condizionatore 

I ghiacciai si sciolgono, le temperature estive sono sempre più alte e svolgere le attività con il caldo torrido è piuttosto complicato. Da 120 anni in nostro soccorso è arrivata l'aria condizionata, una tecnologia ora quasi osteggiata a causa del notevole consumo di energia, ma senza la quale non possiamo proprio stare. Tutto è iniziato nei primi anni del '900 dalla tipografia Sackett & Wilhelms Lithography and Printing Company di Pittsburgh, in Pensylvania. A causa della forte umidità generata dal The Point, il luogo dove i fiumi Allegheny e Monongahela confluiscono a formare il fiume Ohio, la carta prodotta nell'azienda si deformava a contatto con l'inchiostro, diventato di fatto invendibile. Visti i numerosi errori di stampa che ne conseguivano, la tipografia iniziò a subire perdite significative, tanto da metterne a rischio il proseguimento dell'attività. Per questo motivo, i vertici decisero di rivolgersi alla Buffalo Forge, esperta nella produzione di stufe e sistemi di ventilazione.

L'intuizione dalla nebbia

Il compito di risolvere il problema venne affidato a un giovane ingegnere, Willis Haviland Carrier. Dopo qualche tentativo, a 25 anni mise a punto un sistema di raffreddamento che permise di controllare calore e umidità nei processi di stampa. L'illuminazione gli venne mentre si trovava in stazione, osservando la nebbia che impediva quasi di vedere il treno in arrivo al binario: perché non assorbire il vapore facendolo passare attraverso l'acqua? Così è stato. Era il 17 luglio 1902. I primi modelli di climatizzatore erano molto ingombranti, adatti quindi al solo uso industriale. Il primo esemplare, brevettato nel 1906, risultò inoltre poco efficiente sul lungo periodo, rendendo necessario un aggiornamento. Nel 1922 nacque sempre dalla mente di Carrier il “Centrifugal Refrigeration Compressor”.

Dal cinema alle nostre case

Quanto alla diffusione di massa, il merito si deve ai cinema. Già negli anni '20 il passatempo più piacevole ed economico dell'estate era andare a vedere un film in una sala sapientemente refrigerata. È così che le persone iniziarono ad apprezzarla talmente tanto da volerla installare anche in case e uffici, anche se – come scriveva la rivista Life nel 1945 – si trattava ancora di un lusso destinato a pochi privilegiati. L'inversione di tendenza avviene poco dopo e oggi non c'è negozio o ufficio che ne sia sprovvisto, con le problematiche relative al consumo di energia che ne conseguono.

Fulco Pratesi: "Un'orsa mi fece posare il fucile. Ora è tempo di ridare più spazio alla Natura". Giacomo Talignani su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.

Per lo storico ambientalista e fondatore del Wwf la tutela dell'ambiente entrata in Costituzione è "una vittoria grandissima. Ma ora bisogna fare altri passi avanti per affrontare le grandi sfide della crisi climatica e la perdita della biodiversità". A 87 anni Fulco Pratesi, storico ambientalista e fondatore del Wwf Italia, dice che una rivoluzione così, con l'ambiente che entra finalmente nella Costituzione, non l'aveva mai vista. "È una vittoria grandissima: ora è tempo di ridare più spazio alla Natura". 

È soddisfatto per questa riforma? 

"Molto. Avere in Costituzione la parola biodiversità che si aggiunge a paesaggio, la quale si lega a Paese e richiama alla presenza antropica, è una grande rivoluzione costituzionale.

Fulco Pratesi. Elvira Serra per corriere.it il 22 giugno 2022. 

Adesso è a Roma o in campagna?

«A Roma, a Roma. Qui ho tutto, pure l’aria condizionata». 

No. Lei con l’aria condizionata non si può sentire!

«Ma infatti non sono io, è mia moglie. Io uso il ventilatore». 

E come fate: un po’ per uno?

«No, abbiamo due studi diversi e dormiamo in due stanze diverse». 

Questo non è romantico.

«Ma alla nostra età è meglio. Prevalgono i piccoli egoismi, abbiamo esigenze diverse. Lei si alza prestissimo, io dormo di più».

Anche sul consumo dell’acqua avete abitudini diverse? Sua moglie la doccia la fa? Lei raccontò al «Corriere» di non farla più...

«Di doccia ne abbiamo una piccola, che usa lei. Sono affari suoi, non voglio rivelare i suoi segreti. Ma vale la regola che l’acqua non si spreca, bisogna consumarne poca. Lo sanno anche la filippina che ci aiuta in casa e sua figlia sedicenne, che vive con noi pure lei. Nel consumo di acqua a noi italiani ci battono solo il Messico e i Paesi del Golfo Persico. E invece con questa siccità spaventosa che non accennerà a diminuire almeno fino a metà agosto dovremmo tutti essere più responsabili e capire quanto è preziosa l’acqua che usiamo tutti i giorni». 

Fulco Pratesi è il presidente onorario del Wwf. Ambientalista convinto, ha 87 anni e ci tiene a dire che ha ancora tutti i capelli, nessun problema di pelle, non porta gli occhiali e deve solo usare un piccolo apparecchio per l’udito. A conferma del fatto — suggerisce lui — che il suo stile di vita non ne ha pregiudicato la salute e, soprattutto, la vita sociale. Perché tra le sue abitudini c’è un uso molto parco — «veramente» parco — dell’acqua. In questi giorni in cui si medita il razionamento nelle città, è la persona giusta alla quale chiedere consigli domestici per non sprecare il preziosissimo «oro blu». 

Quand’è l’ultima volta che ha fatto la doccia?

«Quando ero giovane e giocavo ancora a rugby».

Però si lava tutti i giorni?

«Certo. La faccia e le ascelle e i punti critici mattina e sera, con una spugna e i barattoli, in modo da non sprecare l’acqua quando scende dal rubinetto. Mani e piedi, rapidissimamente».

Denti? Barba?

«Quando lavo i denti chiudo subito il rubinetto e uso sempre lo stesso bicchiere: l’acqua la uso per risciacquarmi la bocca, prima di buttarla via. La barba non la faccio con il rasoio elettrico, perché anche l’energia è importante. Pure lì, faccio cadere l’acqua in un recipiente e poi quando ho fatto la uso per ripassarla sul viso. Non uso mai il phon». 

E lo sciacquone con quale criterio lo preme?

«Solo per una pipì non si usa, nemmeno con il bottone più piccolo. Dopo due o tre volte va bene. Ma anche quando premo il bottone piccolo penso a quanto servirebbe quell’acqua ai bambini del Burkina Faso o alle donne del Centr’Africa che la vanno a prendere nei pozzi e la riportano indietro sulla testa». 

Come si comporta con la biancheria?

«Le mutande me le cambio in maniera molto ecologica, ogni due-tre giorni, ma a volte di più. Comunque controllo: si capisce quando è arrivato il momento. E poi d’estate dormo senza pigiama, così non devo lavarlo». 

Le camicie?

«Uso solo T-Shirt, perché con l’artrite reumatoide non sono capace di chiudere i bottoncini. Mi cambio quando serve. Ripeto: l’acqua è un bene preziosissimo. E poi lavare i panni non significa solo usare l’acqua, ma anche la corrente per stirarli. La lavatrice da noi si fa solo quando è piena». 

Immagino lo stesso per la lavastoviglie.

«Certo. E poi direi di evitare di usare il forno, che consuma il gas. In questo momento, poi...». 

Ma sua moglie non protesta?

«No. Ha presente quelli che dicono: “Ah, se non faccio la doccia tutti i giorni mi sento sporco”? Ecco, io no. E la mia vita sociale non ne ha mai risentito. Piuttosto, avendo viaggiato tanto in nave e in barca, so quanto sia preziosa l’acqua e come sia possibile non sprecarla». 

In casa avete piante?

«Sì, nel terrazzo esposto a Nord, quindi non riceve mai il sole direttamente. Non le bagniamo tutti i giorni perché non serve. Sono perlopiù alberelli fatti con i noccioli della frutta che mangiamo e poi buttiamo lì, oppure nati dai semi che portano i pappagalli». 

Lei beve l’acqua del rubinetto o la compra?

«Io bevevo anche quella del Tevere, quando uscivo in canoa con gli amici! E non mi è mai successo nulla, anzi, mi ha creato gli anticorpi, come diceva il mio professore. Mia moglie mi sfotte ancora perché in Madagascar i frutti che compravamo al mercato li lavavo nel ruscello che correva lungo la strada. A Roma abbiamo l’acqua di sorgente, non c’è motivo di acquistare le bottiglie al supermercato, che inquinano e basta. Anche al ristorante chiedo sempre l’acqua del rubinetto». 

E gliela danno?

«Obtorto collo».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 23 giugno 2022.

Fulco Pratesi si lava poco e al Corriere piace vincere facile, così lo tempesta di interviste. È vero che negli anni lui si è macchiettizzato da solo, e ci ha montato un'impalcatura ideologico-ambientalista con vistose contraddizioni. 

Già nell'aprile 2021 diede una perfetta e onesta definizione di quel «radical chic» che ammetteva di essere: «Persone che hanno i soldi, spesso perché hanno alle spalle famiglie facoltose, e che cercano di arginare l'ondata di consumismo e malagrazia, qualche volta per espiare un certo senso di colpa per essere nati ricchi». 

Lui da espiare ne ha: è un ex cacciatore, ha fatto pure dei safari, poi un giorno vide un'orsa coi piccoli (non fu sbranato) e pianse, da qui la conversione. Il dramma apicale lo denunciò sempre nell'aprile 2021: «Un anno fa, per errore, ho ucciso una zanzara». Poi seguì gli itinerari dei topi sul Tevere, fece battaglie per l'orso abruzzese, il cervo sardo, il lupo (che importato da Est ha dato dei problemi, perché è più cattivello del nostro originario), sostiene di aver portato i gabbiani a Roma - nel 1973 - e difende persino quel flagello che sono i piccioni milanesi: «L'unica specie fastidiosa, colonizzatrice e sfruttatrice di cui non si parla mai, siamo noi umani».

UMANI SPECIE FASTIDIOSA I quali, talvolta, muoiono pure, e allora altra battaglia: abolire i cimiteri, perché hanno cappelle votive enormi e rubano spazio nonostante il nostro corpo sia destinato alla sparizione. A Pratesi piace il rito zoroastriano indiano, dove lasciano divorare i cadaveri da avvoltoi e nimbi. Suo padre era un palazzinaro. Lui, Fulvio, correva con le auto sportive e ha fatto persino un pezzetto della Mille Miglia. Aveva una bella casa ai Parioli ma l'ha venduta all'Opus Dei per una paccata di soldi, dopo un corteggiamento ventennale, questo solo perché era vicina alla tomba del loro fondatore, padre Josemaría Escrivá de Balaguer. 

Altre apparenti contraddizioni: ha l'aria condizionata, ma dà la colpa alla moglie, dice che lui usa il ventilatore. Ma a tutti interessa quanto si lava: ancora nell'aprile 2021 disse che un bagno o una doccia non li faceva da anni e che, anzi, la doccia l'aveva proprio fatta togliere: si lavava solo con la spugna sotto le ascelle e poi faceva il bidè (non necessariamente in quest' ordine) e tutto per non sprecare acqua, ovvio. Però un giorno gli chiesero se fosse opportuno fare pipì sotto la doccia per risparmiarne: lui rispose che lo trovava eccessivo. Non gli importa se perdono più acqua gli acquedotti di qualsiasi spreco domestico, non gli importa che nel mondo di acqua ce ne sia anche troppa, e che il problema sia come distribuirla.

Nella sequenza delle interviste di Pratesi al Corriere, comunque, c'è sempre qualcosa che non quadra. In teoria, per anni, non fece che comunicare che si lavava sempre meno: già nel 2007 raccontò che azionava lo scarico del water solo in caso di ingente produzione, e che si lavava solo il sabato mattina, e i denti praticamente senz' acqua (mai al mattino, solo dopo i pasti) e che cambiava la biancheria e il vestiario solo dopo un esame ottico: 

«Le camicie, meglio se non bianche e non strette da cravatte, mi possono durare dai due ai tre giorni, le mutande qualcosa in più, mentre la canottiera resiste da un sabato all'altro, d'inverno i calzini possono aspettare tre giorni». E già lì Pratesi, che è un'ottima persona, non si rese conto del suo autogol: non si rese conto, cioè, che non induceva a nessuna riflessione ambientalista perché il risolino dell'italiano perbene - magari pariolino anche lui, o peggio radical chic - aveva il sopravvento. 

Nel senso: tutte le sue ragioni - il cittadino che consumava più acqua di tutti, 800 litri pro capite al giorno, queste cose passava in secondo piano rispetto alla sua personale lavastoviglie non azionata, ai piatti puliti senz' acqua con una spugnetta, al mancato uso di deodoranti, tutta roba che a dieci anni di distanza, nel 2017, ovviamente sul Corriere, si era evolute così: «Altro che una settimana, un bagno ogni dieci giorni è sufficiente».

E così si arriva all'oggi, all'intervista che ieri era sul corriere.it, sempre con piccoli aggiustamenti: con Pratesi che ha 87 anni e «di doccia ne abbiamo una piccola, che usa mia moglie. Sono affari suoi... Ma vale la regola che l'acqua non si spreca. Lo sanno anche la filippina che ci aiuta in casa e sua figlia sedicenne, che vive con noi pure lei». 

Meraviglioso. Nel consumo di acqua ci battono solo il Messico e i Paesi del Golfo Persico, dice. L'ultima doccia? «Quando ero giovane e giocavo ancora a rugby». S' avanza il dubbio di un revisionismo storico (delle docce) con nuovi particolari: oggi aggiunge che usa dei barattoli per non sprecare l'acqua quando scende dal rubinetto, e quando lava i denti, per esempio, lo chiude subito e usa sempre lo stesso bicchiere: l'acqua la usa per risciacquarsi la bocca, prima di buttarla. 

NIENTE RASOIO Non usa il rasoio elettrico perché anche l'energia è importante: allora fa cadere l'acqua usata in un recipiente e poi la riusa per ripassarsela in faccia. Una vita d'inferno. Poi il grande totem dello sciacquone del cesso: «Solo per una pipì non si usa, nemmeno con il bottone più piccolo. Dopo due o tre volte va bene. Ma anche quando premo il bottone piccolo, penso a quanto servirebbe quell'acqua ai bambini del Burkina Faso». 

Già, e la biancheria? «Le mutande ogni due-tre giorni, ma a volte di più. Comunque controllo: si capisce quando è arrivato il momento». Dal colore? «Poi d'estate dormo senza pigiama, così non devo lavarlo». Pratesi non usa quasi mai la lavastoviglie e poco anche il forno: consumano energia. 

Più che da ambientalista, una vita da amish. Piante sul terrazzo: solo esposte a Nord, niente sole, poca acqua. Ne beve solo del rubinetto anche al ristorante (la esige) e forse non sa che l'acqua mineralizzata che servono è fatta proprio con l'acqua del rubinetto, e così pure la comunissima acqua «Lilia» di proprietà della Coca Cola. Non tirare l'acqua del water inoltre comporta la più elevata diffusione domestica di agenti patogeni. Non sciacquare lo spazzolino è anche peggio. Ma chiamateli igienismi.

Federica Gasbarro: “Il paragone con Greta Thunberg? Non mi pesa”. Antonella Ferrari il 24/05/2022 su Notizie.it.

Attivista e green influencer su Instagram, Federica Gasbarro ha raccontato il suo impegno e la conoscenza con greta Thunberg.

Sostenibilità e cambiamento climatico sono solo alcune delle tematiche su cui si fonda la battaglia di Federica Gasbarro, definita la Greta Thunberg italiana. La giovane ha tenuto discorsi all’Onu, davanti al Capo dello Stato e a Papa Francesco ed è tra i 100 under 30 di Forbes.

Per il suo impegno con l’ambiente da sempre Federica è stata definita la Greta Thunberg italiana:”All’inizio mi dava fastidio. Poi ho capito il concetto che c’era dietro. Era un modo per suggellare e dare riconoscimento al mio impegno per l’ambiente. Oggi so che Greta è chiunque si stia spendendo realmente per il tema“. Le due si sono conosciute quando lei venne a Roma in uno dei primi scioperi e Federica era tra gli organizzatori.

“E’ una ragazza tranquilla. Parlammo di Villa Borghese, dell’ambiente e del fatto che nulla stava andando nel verso giusto. Poi lo rivista a New York, a Cop 25 e poi a Cop 26 a Glasgow”.

Essere attivista sui social

Oltre all’impegno da attivista, Federica Gasbarro è molto presente sui social: “Sono una grande fan dei social perchè credo siano il mezzo più immediato per arrivare a chi ti ascolta.

I social si stanno modificando anche loro con il passare del tempo. Ci sono molti profili autorevoli, che fino a qualche anno fa non sarebbero mai stati sui social per timore di perdere credibilità“.

Cop26: un’esperienza formativa

A Cop26 purtroppo l’esito non è stato quello sperato. “A livello personale è stato bello incontrare gli altri ragazzi. E’ come se facessi 300 viaggi in 3 giorni perchè ciascuno di loro racconta la sua cultura ed è stato bellissimo.

Purtroppo a livello di politica internazionale non hanno preso gli accordi che dovevano prendere. E’ sbagliato parlare di completo fallimento ma non andiamo alla stessa velocità alla quale sta andando il cambiamento climatico. La direzione è quella giusto, ma stiamo andando lenti”.

Il Bestiario: la Grinseola (o Greenseola). Giovanni Zola il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.

La Grinseola (o Greenseola) è un animale con il corpo di un crostaceo maggiorenne e la testa di una attivista minorenne.

La Grinseola (o Greenseola) è un animale, scoperto recentemente nei mari del nord Europa, con il corpo di un crostaceo maggiorenne e la testa di una attivista minorenne. Per questo il dilemma della Grinseola (o Greenseola) è di non sapere se può fare la patente.

Al posto delle antenne, la Grinseola (o Greenseola), possiede delle treccine che controllano l’una la temperatura ambientale e l’altra il grado di umidità. In tal senso la Grinseola (o Greenseola) spesso si lamenta dicendo: “Non è tanto il caldo quanto l’umidità”, indicandosi prima una e poi l’altra treccina.

L’insolito crostaceo, quando si sente in pericolo, emette un insolito verso facendo tremolare il mento nel tentativo di intimidire i suoi predatori. Il verso fa più o meno “bla bla bla, bla bla bla”.

Pochi sanno che la Grinseola (o Greenseola) non esiste in natura. È infatti un animale creato in laboratorio con innesti di Soros, parti dei poteri forti (che non lasciano mai un numero di cellulare reperibile) e un terzo di Malena Thunberg, la cantante imprenditrice che ha avuto la brillante idea di sfruttare la figlia per rifarsi i seni, secondo Malena: “Un modo utile e originale per riciclare la plastica”.

La leggenda narra che la Grinseola (o Greenseola) sia un animale che porta sfortuna. Fatto incomprensibile se non fosse che se ne va in giro dicendo frasi del tipo “Non torneremo più indietro”, “Il tempo è finito”, “Moriremo tutti”.

Alcuni scienziati ritengono che la Grinseola (o Greenseola) sostenga di avere avuto l’infanzia “rubata” da coloro che non hanno salvaguardato l’ambiente per interessi squisitamente economici. Tale posizione ha aperto una diatriba con il portavoce dei bambini delle miniere di cobalto in Congo che in una letterina le ha risposto indispettito: “Vieni qui al posto nostro e poi riparliamo del concetto di infanzia rubata”.

Il venerdì, i giovani esemplari delle specie Grinseola (o Greenseola), sono soliti riunirsi in branchi che alcuni etologi negazionisti chiamo ironicamente “Fridays For Future”. In questi ritrovi gli esemplari della specie Grinseola (o Greenseola) manifestano contro i propri genitori che secondo loro stanno portando alla distruzione il pianeta e che quindi odiano, tranne quando ricevono un’abbondante paghetta settimanale.

Molti attenti studiosi ritengono che raggiunta la maturità sessuale, la Grinseola (o Greenseola) abbandonerà la propensione all’attivismo ambientalista in favore di ripetuti e intensi accoppiamenti.

L'ultima follia green: "Niente figli, così salviamo per il pianeta". Roberto Vivaldelli il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

È sempre più diffusa l'idea, fra le riviste progressiste più patinate del mondo anglosassone, che non fare figli sia un ottimo modo per salvaguardare il pianeta dai cambiamenti climatici.

"Avere figli, in generale, è ancora visto come un imperativo morale". E ancora: "Avere meno figli può essere il modo migliore per ridurre le emissioni di Co2". A dirlo è la giornalista scientifica Donna Lu sulle pagine del Guardian, il quotidiano di riferimento della sinistra britannica. È l'ultima frontiera dell'eco-femminismo, sempre più diffusa fra le élite progressiste e sulle pagine delle riviste più chic e modaiole. Da una parte la cara vecchia lotta contro il patriarcato; dall'altra l'ossessione per i cambiamenti climatici e la convinzione che avere meno figli possa contribuire a contrastare i cambiamenti climatici in corso. Gli appelli in tal senso arrivano anche da personaggi famosi. Miley Cyrus ha promesso di non avere un bambino su un "pianeta di merda": la deputata Alexandria Ocasio-Cortez ha riflettuto in un video pubblicato su Instagram sul fatto se sia giusto avere figli, mentre i sondaggi, come riporta The Altlantic, suggeriscono che un terzo o più degli americani di età inferiore ai 45 anni non hanno figli o si aspettano di averne meno di quanto potrebbero per via dei cambiamenti climatici.

L'ultima follia liberal: eco-femminismo e lotta al patriarcato

Nell'articolo del Guardian citato poc'anzi si fa riferimento un libro, pubblicato di recente, che racconta in maniera emblematica questa deriva del liberal-progressismo che incita le donne a non avere figli: The Most Important Job in the World della scrittrice e giornalista australiana Gina Rushton. "Sappiamo che più di un terzo di tutte le emissioni di gas serra dal 1965 possono essere ricondotte a sole 20 società di combustibili fossili", scrive Rushton. "L'idea che dovremmo ridurre i nostri desideri per le dimensioni delle nostre famiglie e comunità prima di trasformare i nostri sistemi energetici è peculiare, eppure so che se dovessi avere un figlio, mi affretterei a ridurre la sua impronta climatica prima ancora che i suoi piedi tocchino il terreno".

Ma la questione non riguarda solamente i cambiamenti climatici. La scrittrice australiana sottolinea che le statistiche dimostrano come le donne arrivino a casa dal lavoro per svolgere un secondo turno di lavoro non retribuito. Il rapporto 2021 sulla famiglia, il reddito e la dinamica del lavoro in Australia, scrive, ha rilevato che le donne nelle coppie eterosessuali, con figli a carico, svolgono 21 ore di lavoro non retribuito a settimana in più rispetto agli uomini. Considerato tutto questo, – l'accelerazione della crisi climatica, le disuguaglianze strutturali, la difficoltà di destreggiarsi tra carriera e genitorialità – nota Donna Lu sul Guardian, perché mettere al mondo un bambino? È la domanda che attanaglia la coscienza dei liberal.

"Niente figli per il bene del pianeta"

A differenza di quello che si può pensare, si tratta di un pensiero tutt'altro che isolato nel mondo anglosassone. Come scrive Giulio Meotti sul Foglio, i neomalthusiani sembrano infatti aver conquistato la guida dell'ecologismo. L'organizzazione Stop Have Kids, ad esempio, sta sponsorizzando cartelloni pubblicitari sulla costa occidentale degli Stati Uniti. Uno di questi recita: "Molti esseri umani vorrebbero non essere mai nati". Secondo quest'associazione no-profit con sede negli Stati Uniti, gli "antinatalisti" cercano di ridurre radicalmente la sofferenza e la distruzione ambientale nel mondo. Astenersi dal creare nuova vita, spiegano, è il mezzo più efficiente ed efficace per ridurre al minimo la sofferenza per tutti gli esseri senzienti attuali e futuri. Vivere secondo la filosofia anatalista mantiene intatte la maggior parte delle forme di vita naturali, delle risorse, della bellezza e della salute della terra. Gli antinatalisti possono essere esseri umani di qualsiasi fascia di età e possono aver avuto figli (intenzionalmente o meno) in passato.

Peccato che in Europa la natalità sia in calo pressoché ovunque. Dopo la crisi del 2008, infatti, ad essere in controtendenza sono state solo Germania ed Austria. E negli Stati Uniti la situazione non è migliore: secondo Italia Oggi, bisogna infatti risalire al 1900 per ritrovare un aumento della popolazione così modesto come quello osservato nel 2021. I Paesi con più nascite al mondo, in compenso, sono tutti africani: Niger, Somalia, Ciad, e Mali. Lì le idee progressiste neomalthusiane non fanno breccia.

Da corriere.it l'1 aprile 2022.

«Tutte le storie di questo libro sono inquietanti prese singolarmente, ma sono anche collegate strettamente come tutti noi. E quando inizi a connetterle tra loro e a comprenderle come parte di una rete di eventi, acquisiscono rapidamente un altro significato molto più allarmante». 

Così Greta Thunberg presenta in un video il suo nuovo libro in uscita a ottobre, «The climate book». È il quarto che pubblica. Il libro raccoglie diversi contributi, dagli scienziati Johan Rockstrom e Katharine Hayhoe all’economista Thomas Piketty e alla scrittrice Margaret Atwood, secondo quanto riferisce il «Guardian».

«Ho invitato più di 100 voci tra le maggiori nel mondo - scienziati, esperti, attivisti e scrittori - per creare un libro che tratti il clima e la crisi ecologica in una prospettiva olistica», annuncia l’attivista 19enne su Twitter. 

«Chi è responsabile di mettere insieme quel racconto olistico più ampio, chi invochiamo quando si tratta di affrontare l’intero quadro?», domanda Greta Thunberg nel video e «la risposta è nessuno, o piuttosto tutti».

Covid, masse di analfabeti e influencer della "scienza": così per difendere la salute l'abbiamo fatta a pezzi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2022.

Ora qualcuno comincia ad accorgersi di quanto sono amari i frutti dell'inseminazione pan-salutista con cui s' è preteso di preparare il terreno della battaglia contro il virus. L'idea sbagliatissima si fondava sul fraintendimento micidiale per cui le energie dell'azione politica dovessero essere impegnate sul fronte medico-sanitario. E il problema non era solo che in nome di quel fraintendimento era possibile sacrificare tutto, libertà essenziali, attività economiche, istruzione e perfino la messa: il problema era anche che il canone "prima la salute" avrebbe finito per far pagare un prezzo incalcolato proprio in termini di salute pubblica, salvo credere che suicidi, depressione, sbando sociale, scientifica produzione di masse di analfabeti, ineducazione al lavoro, prolungata inibitoria delle relazioni sociali, non attentino in modo anche più grave al bene che quella politica vorrebbe proteggere.

Lo osservammo, dall'inizio di quella vera e propria follia, per spiegare che il problema politico in tempo di guerra non è dar armi ai generali, ma mantenere la vita nelle città sotto i bombardamenti. E vale anche per la comunicazione che in tempo di guerra non è appaltata ai colonnelli come qui, invece, è stata affidata agli influencer della "scienza".

È benvenuto chi (vedi Veltroni, sul Corriere) spiega oggi che occorre "accelerare verso la normalità". Ma la normalità si raggiunge in sicurezza solo riconoscendo che è stata abbandonata spericolatamente. 

Il nuovo delirio ecologista: sterilizzarsi per fermare il cambiamento climatico. LA CHIAMANO “VASECTOMIA CLIMATICA”: È L’ULTIMA FOLLIA PRODOTTA DALL’IDEOLOGIA GREEN E PROGRESSISTA. Redazione di Nicolaporro.it il 26 Gennaio 2022.

Si chiama “vasectomia climatica” ed è esattamente la follia che il nome roboante e dal sapore politically correct lascia immaginare: sterilizzarsi volontariamente per limitare il proprio impatto ambientale.

Ne ha parlato qualche giorno fa Vanity Fair, citando uno studio secondo cui “l’azione più efficace che un individuo possa intraprendere per aiutare il pianeta sarebbe avere un figlio in meno”. Potremmo anche concluderne che, se il cambiamento climatico è accelerato da fattori antropici, la soluzione ideale sarebbe direttamente quella di far sparire il genere umano. Nel mondo, comunque, si stima che siano fino a 60 milioni i maschietti, alcuni dei quali contagiati dal delirio verde, che si sono privati deliberatamente della possibilità di generare una vita. Vanity Fair cita l’intervista al Guardian di un medico australiano, Nick Demediuk, il quale racconta di aver trattato almeno 200 pazienti giovani e senza figli, tra cui circa 130 gli avrebbero confessato di volersi sottoporre all’intervento (con il quale si recidono i dotti che trasportano lo sperma dai testicoli) per ragioni ambientali. Uno degli squinternati sentito dal quotidiano inglese, un trentaseienne americano, riferisce di essersi convinto dopo l’elezione di Donald Trump (ma vi rendete conto?): “Stiamo portando gli ecosistemi fuori equilibrio”, si è messo a predicare, “causando l’estinzione di massa di innumerevoli specie”. Ecco: se tutti (s)ragionassero come lui, la prossima a estinguersi sarebbe la nostra.

Non c’è da meravigliarsi se in questo pazzo mondo siamo arrivati a una simile deriva di fanatismo. Nell’era in cui, come ha lamentato papa Francesco, gli animali domestici hanno sostituito i figli, non è così strano se pure noi finiamo con il sottoporci alle sterilizzazioni chirurgiche, alla stregua dei nostri animali domestici.

Ironia a parte – e tenuto conto che il fenomeno, com’è ovvio, riguarda un’esigua minoranza di babbuassi – va però sottolineato che il terrorismo green sta provocando i suoi gravi danni psicologici tra le giovani generazioni, seguaci di Greta Thunberg. La stessa attivista svedese, già affetta da sindrome di Asperger, aveva ammesso di essere stata profondamente turbata, fino addirittura alla depressione, dai documentari catastrofisti che le sottoponevano in classe, quando, a 7 anni, ancora frequentava la scuola tutti i giorni. La cosiddetta “ecoansia” sta dilagando tra i giovanissimi e, come riporta Michael Schallenberger nel libro L’apocalisse può attendere, ce ne sono parecchi che sono stati convinti, dalla propaganda ecologista radicale, che non arriveranno a 30 anni, o che entro pochi decenni, prima che possano semplicemente invecchiare, saranno destinati a un’orribile morte causata da qualche cataclisma.

Come stupirsi se, alla fine, in tema di quelle che le femministe chiamerebbero “scelte riproduttive”, un certo numero di persone si abbandona alle farneticazioni? Sono pur sempre gli epigoni in salsa verde del vecchissimo pessimismo eracliteo. Il filosofo greco, in un frammento, apostrofava così i contemporanei: “Mettono al mondo figli, in modo che altri destini di morte si compiano”. Allora non esistevano così bravi chirurghi…

·        Gli antigretini.

America Latina: 1.700 attivisti ambientali uccisi in dieci anni. Marina Lombardi su L'Indipendente il 30 settembre 2022.

Secondo un nuovo rapporto, negli ultimi dieci anni, in America Latina sono stati registrati più di 1.700 omicidi di attivisti ambientali e leader delle comunità indigene, con una media di un omicidio ogni due giorni. Uccisi da sicari, da gruppi di criminalità organizzata e dai loro stessi governi, più precisamente, sono almeno 1.733 i difensori della terra e dell’ambiente assassinati tra il 2012 e il 2021. Secondo i dati della ONG Global Witness, i paesi con i tassi più letali sono Brasile, Colombia, Filippine, Messico e Honduras. Il Sudamerica si conferma così la regione del Pianeta più ostile per chi, per passione o necessità, ha scelto di proteggere la natura. L’ultimo record annuale risale al 2020 quando, nonostante la pandemia, gli omicidi di attivisti ambientali hanno mietuto il triste record di 227 vittime. Nel 2021, sono state 200.

L’ONG Global Witness ha stimato le cifre dei difensori ambientali uccisi tra il 2012 e il 2021 in un rapporto redatto a seguito della morte di Chut Wutty, un ambientalista cambogiano che ha lavorato con il al fianco di Mikee Davis, CEO della stessa ONG, per indagare a riguardo del disboscamento illegale. Dal rapporto si evince che il 39% degli omicidi abbiano colpito principalmente i paesi a basso reddito e le comunità indigene, nonostante questi rappresentino solo il 5% della popolazione mondiale. Tra i fattori più comuni che hanno portato agli omicidi ci sono le industrie minerarie ed estrattive, il disboscamento e l’agrobusiness.

Nel 2021 le uccisioni arrivano a 200 persone, tra cui 8 ranger nel parco nazionale di Virunga nella Repubblica Democratica del Congo, che sta facendo i conti con una grave minaccia quale l’estrazione di petrolio e gas; l’attivista ambientale Joannah Stutchbury, uccisa fuori dalla sua casa in Kenya e Angel Miro Castagena in Colombia. A giugno di quest’anno ad essere stati uccisi, fra gli altri, ci sono Dom Phillips, il giornalista del Guardian e dell’Observer e Bruno Pereira, esperto brasiliano di tribù autoctone, assassinati nella valle di Javari, nella parte dell’Amazzonia brasiliana. I due stavano lavorando ad un libro sullo sviluppo sostenibile dal titolo How to Save the Amazon. Le indagini sugli omicidi sono ancora in corso.

L’ambientalista indiana Vandana Shiva nella prefazione del rapporto ha affermato «Non siamo solo in un’emergenza climatica. Siamo ai piedi della sesta estinzione di massa e questi difensori sono alcune delle poche persone che si frappongono. Il futuro della nostra specie e del nostro pianeta dipende da questo». I due terzi degli omicidi sono avvenuti in America Latina, con 342 morti in Brasile, 322 in Colombia, 154 in Messico e 117 in Honduras. Anche nelle Filippine i numeri risultano preoccupanti, le cui uccisioni arrivano a 270. Il problema che sta vedendo protagonisti principalmente i paesi del sud del mondo, è in realtà un problema globale, come viene affermato nel rapporto. La maggior parte della lotta alla difesa dell’ambiente si deve scontrare con corruzione di funzionari e società di investimento che rappresentano una fetta del sistema che detiene il potere, di fronte al quale gli attivisti ambientali risultano un problema da risolvere, che spesso come in questi casi viene risolto con omicidi o sequestri.

I difensori dell’ambiente alla ricerca di giustizia devono spesso fare i conti con giudici che percepiscono delle tangenti e quindi raramente vedranno lo svolgersi delle indagini in maniera giusta e regolare, e ancora meno purtroppo, vedranno pagare per le loro azioni gli autori di gravi danni che hanno impattato sull’ambiente. Nonostante questo il rapporto rileva anche alcune vittorie particolarmente importanti per gli attivisti ambientali, tra cui in Sud Africa lo scorso anno, le comunità indigene della costa dell’Eastern Cape che hanno ottenuto una vittoria legale su Shell, riuscendo a costringere l’Azienda ad interrompere l’esplorazione petrolifera nei luoghi di riproduzione della balene, la cui sentenza è stata confermata all’inizio di questo mese. Inoltre, a maggio del 2022 le comunità indonesiane dell’isola di Sangihe, hanno vinto una causa contro una società che voleva estrarre oro sulla loro isola. Il rapporto infine si premura di esortare i giovani a creare spazi civili e sicuri per i difensori dell’ambiente e a puntare sulla responsabilità legale delle aziende favorendo un clima di tolleranza zero per la violenza contro gli attivisti ambientali. [di Marina Lombardi]

Antonio Zichichi. Greta Thunberg, la fucilata di Antonio Zichichi: "Riscaldamento globale? Perché dovrebbe tornare a scuola". Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 15 febbraio 2022

«Da bambino chiedevo a mia madre perché il Sole brilla, perché siamo diversi dai gatti e dagli altri animali. Volevo capire com' è fatto il Mondo. Il mio sogno è poi stato riuscire a decifrare sempre meglio la Logica che sta scritta sulle pagine del libro della Natura. Libro di cui è autore Colui che ha fatto il Mondo. Sull'irresistibile fascino del Tempo che scorre a partire dalla nostra infanzia, quando iniziamo a conoscere come è fatto il mondo, ho scritto un libro». Chi parla è il professore Antonino Zichichi, fisico e accademico italiano che ha fatto della ricerca scientifica e sulle particelle elementari il suo motivo di vita.

Professor Zichichi che ruolo ebbe la figura di Ettore Majorana, siciliano come lei, nella sua carriera accademica e professionale?

«Ettore Majorana nacque a Catania e fu allievo di Fermi che lo definì "genio a livello di Galilei e Newton". Ancora oggi i neutrini di Majorana sono al centro dell'attenzione scientifica mondiale. Eppure Majorana era passato nel dimenticatoio nazionale. Quando nel 1962 a Ginevra riuscii a far nascere per decreto del Direttore del Cern, il Centro che porta il nome di Majorana, furono in molti ad accusarmi di campanilismo scientifico. Adesso il valore di Ettore Majorana, grazie al Centro di Erice, è fuori discussione».

Insieme a Isidor Isaac Rabi ha fondato nel 1973, sempre a Erice, l'organizzazione "International World Federation of Scientists", per affrontare le emergenze planetarie attraverso la collaborazione internazionale in campo scientifico. Secondo lei quali sono le emergenze climatiche da affrontare?

«Le emergenze non sono solo climatiche. Riscaldamento globale, variazioni climatiche, corsa agli armamenti e scudo spaziale contro il terrorismo, crisi energetica mondiale, incendi delle foreste, difesa da epidemie nell'era della globalizzazione, inquinamento e delitti contro i tesori ambientali, sono i temi che gli scienziati della Wfs sono da anni impegnati a studiare. È la stessa comunità scientifica che identificò le 15 Classi di Emergenze Planetarie: i problemi da fronteggiare una volta superato il pericolo di Olocausto Nucleare, realizzando progetti-pilota per affrontarli. L'obiettivo è dare ai governi le informazioni rigorosamente scientifiche sulle Emergenze Planetarie affinché si proceda ad affrontarle evitando che centinaia di miliardi di dollari vengano bruciati nell'illusione di risolvere problemi creandone altri ancora più gravi. Infatti si parla spesso di "misure preventive" da prendere subito. Misure per le quali sono necessari miliardi di dollari con il rischio di ritrovarci dopo in condizioni peggiori».

Come mai il pianeta si sta trasformando rapidamente?

«Non lo sa nessuno esattamente. Ci sono molte ipotesi, alcune ben corroborate dai dati sperimentali, altre meno. Una cosa è certa: dobbiamo fare di tutto per preservare per le future generazioni questa meravigliosa navicella spaziale chiamata Terra sulla quale abbiamo l'enorme privilegio di abitare. E dobbiamo anche tenere conto del fatto che siamo sempre di più sulla nostra navicella, e questo non è un dettaglio».

Quanto influisce il comportamento dell'uomo sul riscaldamento?

«Il Clima non è una cosa semplice. Abbiamo visto che sono necessarie almeno tre equazioni differenziali non lineari accoppiate. Non lineari vuol dire che l'evoluzione dipende anche da sé stessa. Questo complica terribilmente la matematica al punto da non potere più avere un'equazione in grado di sintetizzare tutti i fenomeni studiati. Ecco perché la Scienza non ha l'equazione del Clima».

Quali sono le cause vere del riscaldamento climatico?

«È bene precisare che cambiamento climatico e inquinamento sono due cose completamente diverse. Legarli vuol dire rimandare la soluzione. E infatti l'inquinamento si può combattere subito senza problemi, proibendo di immettere veleni nell'aria. Il riscaldamento globale è tutt' altra cosa, in quanto dipende dal motore meteorologico dominato dalla potenza del Sole. Le attività umane incidono al livello del 5%: il 95% dipende da fenomeni naturali legati al Sole. Attribuire alle attività umane il surriscaldamento globale è senza fondamento scientifico. Non c'è la Matematica che permette di fare una previsione del genere. Infatti quella cosa cui diamo il nome di Clima ha 72 componenti, ciascuna delle quali è un'Emergenza Planetaria. La memoria ci deve aiutare a non ripetere gli errori del passato».

Per esempio quali errori?

«L'esempio più clamoroso è il famoso Buco dell'Ozono. Non c'era modo di avere un accordo tra tutti i governi per combattere il Buco. Molti scienziati sostenevano che l'origine del Buco doveva essere di natura Dinamica: la Terra gira su sé stessa come fosse una trottola. È questo movimento (da cui nascono il giorno e la notte) che genera il Buco dell'Ozono. Altri scienziati, però, erano convinti che quel Buco aveva origini chimiche. È stata la Wfs a mettere in evidenza lo studio sulle possibili origini chimiche del Buco, che è cosa ben diversa».

Quale è il suo giudizio su Greta Thunberg?

«Le tre grandi conquiste della Ragione sono il Linguaggio, la Logica e la Scienza. Per risolvere un problema bisogna anzitutto parlarne. È quello che ha iniziato a fare questa giovanissima ragazza svedese, Greta Thunberg. Greta, ha parlato di clima per attrarre l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale. E c'è riuscita. Ma se non c'è la logica, quindi la Matematica e poi la Scienza, cioè una prova sperimentale, il clima rimane quello che è: una cosa della quale si parla tanto, senza avere usato il rigore logico di un modello matematico e senza essere riusciti a ottenere la prova sperimentale che ne stabilisce il legame con la realtà. Greta non dovrebbe interrompere gli studi come ha detto di voler fare per dedicarsi alla battaglia ecologista, ma tornare in quella scuola e dire che bisogna studiare la matematica delle equazioni differenziali non lineari accoppiate e le prove sperimentali necessarie per stabilire che quel sistema di equazioni descrive effettivamente i fenomeni reali legati al clima. Greta dovrebbe dire che la Scienza va insegnata fin dalle scuole elementari mettendo in evidenza che siamo l'unica forma di materia vivente dotata di quella straordinaria proprietà cui si è dato il nome di Ragione. È grazie alla Ragione che abbiamo scoperto: Linguaggio, Logica e Scienza».

Quale può essere il futuro per la nostra terra?

«Il messaggio della Scienza è semplicissimo: non siamo figli del caos, ma di una Logica Rigorosa. Nella vita di tutti i giorni ci vorrebbe un po' più di Scienza. Anzi, il più possibile. Solo così la nostra Cultura potrebbe essere al passo con le grandi conquiste scientifiche».

E con quale energia pulita?

«Com' è noto di petrolio ce ne può ancora essere per cinquant' anni circa. Di uranio e carbone per un paio di secoli. Di combustibile per la fusione nucleare sono invece pieni gli oceani. L'energia pulita è senza limite: il sogno degli uomini di tutti i tempi, sembra avvicinarsi molto più di quanto si sperasse. La crisi del petrolio e delle centrali nucleari sporche, nel prossimo futuro sarà come il ricordo di una grande paura. Se l'uomo riuscirà ad evitare di autodistruggersi con il fuoco nucleare delle bombe H».

Scienza e Fede, lei scrisse "Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo". Come fa uno scienziato a conciliare il credere in Dio con la scienza?

«La separazione tra Scienza e Fede nasce dal fatto che la Cultura detta Moderna non è al passo con le grandi scoperte della Scienza ed è dominata dall'Ateismo. Non c'è alcun motivo scientifico per dire che non sia stato Dio a creare il mondo. Questa però è un'affermazione che ha le sue radici nella Fede. L'evoluzione della specie umana non è in conflitto con la Fede. Il principio di casualità è una legge rigorosa che vale nella sfera immanentistica della nostra esistenza. Scienza e Fede operano nelle due componenti distinte del nostro essere. La Scienza, come detto prima, opera nell'Immanente, la Fede nel Trascendente. Il fine ultimo della Scienza è capire la Logica che ha seguito Dio per fare il mondo. Il fine ultimo della Fede è invece quello della vita eterna. Scienza e Fede sono le due più grandi conquiste della Ragione nelle due sfere diverse della nostra esistenza. Noi siamo la sintesi di queste due sfere: Trascendente e Immanente».

Ultima domanda sul coronavirus: lei si è dato una spiegazione sulla genesi di questo virus e cosa pensa riguardo ai negazionisti e al vaccino?

«La pandemia del Coronavirus terrorizza centinaia di milioni di persone. Se la Cultura dei nostri giorni fosse al passo con le conquiste della Scienza, avremmo tra le nostre mani la tecnologia del Supermondo. Questa tecnologia ci permetterebbe di distruggere la pandemia del Coronavirus. Quando la Scienza scoprì la struttura nucleare della materia non esisteva la tecnologia Nucleare. Esattamente come quando la Scienza scoprì la struttura Atomica della materia non poteva esistere la tecnologia Atomica. Con la tecnologia del Supermondo stiamo vivendo l'epoca in cui la Scienza ha scoperto questa formidabile nuova struttura, ma è ancora tutta da inventare la tecnologia del Supermondo. La lezione che viene dalla pandemia del Coronavirus è di grande valore per la nostra Cultura: "siamo tutti sulla stessa navicella spaziale" che gira attorno al Sole, la Stella che ci illumina».

La Greta Thumberg veneta contro il fotovoltaico nei campi: «No all’impatto sul paesaggio». Anna Busatto, studentessa del liceo Berto di Mogliano Veneto, ha le idee chiare: quando ha saputo che, vicino a casa sua, c’è il progetto di realizzare un doppio impianto fotovoltaico di 9 ettari, ha preso carta e penna e ha scritto a Luca Zaia. Milvana Citter su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.

«Vanno cambiate le leggi per tutelare le zone agricole e far sì che in tema ambientale non si faccia un passo in avanti e due indietro». Forte dell’entusiasmo dei suoi 17 anni Anna Busatto, studentessa del liceo Berto di Mogliano Veneto, ha le idee chiare. E quando ha saputo che, vicino a casa sua, c’è il progetto di realizzare un doppio impianto fotovoltaico di 9 ettari, ha preso carta e penna e ha scritto al presidente della Regione Luca Zaia: «Gli ho chiesto di fermare questo progetto che non rispetta l’ambiente – spiega Anna –. Sono assolutamente favorevole al fotovoltaico e alle energie rinnovabili per le quali ho manifestato più volte. Ma sono contraria perché lo si vuole realizzare in un terreno agricolo che temo di veder deturpato per sempre».

15mila pannelli dietro alle ville

Anna come i suoi coetanei fa parte di quella che viene definita la «generazione Greta» per la sensibilità verso i temi ambientali. Così è nata la sua reazione a un progetto che potrebbe portare 15 mila pannelli nei campi dietro a casa sua, lungo il Terraglio, a pochi metri da alcune ville venete. «Da tempo sto cercando di vivere in modo più sostenibile – spiega ancora Anna –. Quando ho saputo di questo impianto ho sentito che era mia responsabilità fare qualcosa per fermarlo ma anche che era una cosa troppo grande per le mie forze. Per questo ho scritto a Zaia». E il governatore ha risposto alla studentessa: «Cara Anna, vorrei rassicurarti. L’istanza della ditta realizzatrice è appena stata depositata e solo ora si avvia il procedimento di valutazione, durante il quale verrà fornita secondo legge, possibilità ampia anche ai cittadini di dire la loro. Nulla è ancora deciso». Il presidente ha ricordato come, progetti come questo, siano sottoposti a varie analisi e approvazioni da parte del Comitato di Valutazione di Impatto Ambientale.

Risposta non piaciuta

Anna però non si sente affatto rassicurata: «Mi sarebbe piaciuta una risposta diversa, con una presa di posizione più forte rispetto a un tema che va affrontato. Perché tutte le valutazioni di cui parla il governatore, saranno fatte sulla base delle norme attuali che consentono questo tipo di impianti nelle zone agricole. Speravo parlasse del progetto di legge regionale numero 97 che è in stand by da tanto tempo e che consentirebbe di selezionare le aree agricole in base a criteri sicuramente più rispettosi dell’ambiente. Prediligendo quelle dismesse o isolate e tutelando quelle che potrebbero essere ancora coltivate». Secondo Anna, realizzare quel progetto in quel luogo: «Sarebbe un controsenso, si farebbe un passo in avanti verso l’ambiente scegliendo un’energia rinnovabile ma allo stesso tempo, due indietro per l’impatto ambientale sul paesaggio».

Contrario anche il sindaco di Mogliano

Contrari al progetto sono anche il sindaco Davide Bortolato e l’amministrazione comunale che ha già nominato un consulente tecnico e un avvocato per elaborare le osservazioni al progetto. «L’intero consiglio comunale si è espresso in modo totalmente contrario al progetto – spiega Bortolato –. Va precisato che siamo tutti assolutamente favorevoli alle energie rinnovabili, il problema è il sito scelto. In quel luogo quell’impianto non può stare. È una delle zone più belle di Mogliano Veneto, con una forte valenza paesaggistica che sarebbe irrimediabilmente rovinata e che intendiamo tutelare». Intanto Anna, che tra pochi giorni partirà per un semestre di studi all’estero spera: «Che il clamore suscitato dalla mia iniziativa e il grande lavoro dell’amministrazione porti a spostare questo impianto – conclude -. E spero che anche il presidente Luca Zaia si impegni per questo. Anche se con la sua risposta non mi ha tranquillizzato, ho ancora fiducia in lui e in quello che può fare».

·        Le Fake News.

A dire il vero. La crisi in Madagascar, che si credeva dovuta al riscaldamento globale, dipende da tutt’altro. Enrico Pitzianti il 20 Gennaio 2022 su L'Inkiesta.

«La prima carestia dovuta al global warming» (Programma alimentare mondiale dixit) in realtà non è un effetto del clima impazzito, dice un nuovo studio: la siccità che ha colpito il Paese ha altre cause, molto più antiche.

Il Programma alimentare mondiale l’aveva descritta come «la prima carestia dovuta al riscaldamento globale», ma un nuovo studio nega che la causa sia il clima e spiega da dove viene, in realtà, la crisi umanitaria in Madagascar: dalla povertà.

Partiamo da un dato: negli scorsi due anni la pioggia in Madagascar, importante paese africano da 28 milioni di abitanti, è stata così poca che le stime parlano addirittura di una diminuzione del 40% delle precipitazioni rispetto alla media. Questa diminuzione dell’acqua disponibile ha messo in ginocchio soprattutto l’agricoltura, con interi raccolti andati persi, ma oltre alla questione economica c’è quella umana: oltre un milione di persone nel sud del paese sono colpite direttamente dalla siccità e alcune decine di migliaia, scrive Damian Carrington sul Guardian, «rischiano condizioni di carestia». 

Le prime notizie del peggioramento della situazione nel paese sono arrivate un mese fa, quando si stimava che addirittura il 90% della popolazione nella regione vivesse in povertà. A quel punto, vista l’evidente correlazione tra carestia e siccità, si è pensato immediatamente che la causa fosse il riscaldamento globale. Il motivo è ovvio: la crisi climatica, effettivamente, in larghe parti del mondo fa sì che le piogge diminuiscano sensibilmente. Oggi però, grazie a uno studio condotto da un team internazionale di scienziati che fa capo al World Weather Attribution (Wwa), scopriamo che la causa è un’altra.

Va considerato che l’ente che ha condotto lo studio, il già citato Wwa, ha proprio l’obiettivo di valutare l’impatto, e il ruolo effettivo, del riscaldamento globale sugli effetti metereologici estremi. Per capire se davvero, dietro alla crisi umanitaria che affligge il Madagascar, la causa è il global warming gli scienziati hanno analizzato i dati attuali sul clima dell’area con quelli dei decenni passati, arrivando fino alla fine dell’Ottocento. Poi, hanno confrontato diverse simulazioni e modelli climatici dello scorso secolo, proprio per la zona del mondo di cui parliamo, il Madagascar. La conclusione è che «il cambiamento climatico ha giocato un ruolo minimo nella siccità attuale».

Come spiega Friederike (Fredi) Otto, responsabile del Wwa, «il riscaldamento globale può aver dato un piccolo contributo alla mancanza di pioggia osservata negli ultimi anni» ma, aggiunge, «non è possibile isolare questo dato dall’alta variabilità del clima in quella regione». Detto in altre parole: non si può escludere che una minima parte del problema possa essere, ipoteticamente, dovuta alla crisi climatica, ma non ci sono dati per sostenerlo perché già normalmente il clima di questa zona del mondo può subire periodi siccitosi simili.

Ma allora, visto che non possiamo essere sicuri che la causa sia il riscaldamento globale (e, di conseguenza, chi lo causa) cosa provoca una carestia che coinvolge decine di migliaia di persone e ne impoverisce diversi milioni? Si legge nello studio che il problema principale è che gli agricoltori, nel sud del Madagascar, dipendono completamente dalla pioggia stagionale, e non dall’acqua immagazzinata o dall’irrigazione. Insomma, la mancanza di infrastrutture utili a raccogliere l’acqua e a garantirla ai raccolti e alle attività produttive nei periodi in cui non piove – quindi pozzi, sonde, dighe e sistemi di raccolta dell’acqua piovana – rende la popolazione estremamente vulnerabile.

Ci sono altri tre fattori che hanno peggiorato la crisi umanitaria, e reso insostenibili i suoi effetti, per i malgasci. Il primo è la pandemia, che ha fatto sì che venissero chiusi i confini del paese e diventasse quindi impossibile andare altrove a lavorare e trovare di che vivere. Il secondo è l’invasione di locuste, che ha contribuito a rovinare i raccolti. Il terzo è stato il bruco della falena “lafigma”, quello che in inglese viene chiamato “armyworm”. Questi tre eventi, combinati con la povertà e la mancanza di infrastrutture idriche sia pubbliche che private, hanno portato alla situazione di oggi. 

Ripetiamolo, perché sia chiaro: non possiamo escludere che in minima parte, in uno o più d’uno di questi quattro fattori, il riscaldamento globale abbia giocato un ruolo. Certo che no. Ma davanti a eventi simili è meglio concentrarsi su ciò che siamo certi abbia messo in ginocchio una popolazione che purtroppo, enormi difficoltà, le affronta da secoli: la povertà, innanzitutto. Su questo aspetto si può già intervenire e questa possibilità dovrebbe essere confortante.

·        Negazionismo e Doomismo climatico.

Il negazionismo climatico: perché continuiamo a sbadigliare (sudando) davanti all’Apocalisse. Anna Meldolesi e Chiara Lalli su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Le evidenze della crisi ambientale sono ormai solidissime anche se è difficile ammettere di aver pensato, consumato, votato male. Il meccanismo dell’indignazione non scatta perché non sappiamo con chi prendercela e c’è sempre qualche preoccupazione più immediata. Ma qualcosa (di piccolo) ancora si può fare 

Siccità: il negazionismo climatico tende a giustificare i cambiamenti nell’equilibrio del ciclo dell’acqua come eventi non dovuto alla pressione antropica

Questo doppio articolo, pubblicato su «7» in edicola il 13 maggio, fa parte della serie inaugurata con il dibattito sull’editing genetico (qui l’articolo) dal magazine del Corriere: «Due punti». Intesi come due punti di vista che qui troverete pubblicati online in sequenza: prima l’articolo di Anna Meldolesi, poi quello di Chiara Lalli. Buona lettura

di ANNA MELDOLESI

Negare sempre, soprattutto davanti all’evidenza. C’è ancora chi nega l’esistenza e la gravità della crisi climatica. Basta che le temperature tornino per un po’ alle medie stagionali per dimenticare i mesi di siccità e i ghiacciai che cedono, le ondate di calore che ci hanno tolto il sonno per settimane e gli incendi sempre più frequenti. I negazionisti sono meno numerosi di un tempo, perché le prove sono diventate difficili da ignorare. Ma continuano a inquinare il dibattito, sono funzionali al business as usual e alla naturale tentazione di procrastinare. Le risposte psicologiche ai cambiamenti climatici vengono studiate da anni, per sbrogliare la matassa di fattori che congiurano per farci sbagliare.

BIO-ETICA DOMANDE &RISPOSTE - OGNI DUE SETTIMANE CHIARA LALLI E ANNA MELDOLESI SCRIVONO DI UN ARGOMENTO TRA FILOSOFIA MORALE E SCIENZA, TRA DIRITTI E RICERCA. DUE PUNTI DI VISTA DIVERSI PER DISCIPLINA MA AFFINI PER METODO

Età: molti giovani sono consapevoli che toccherà a loro pagare il conto delle vecchie generazioni, ma per gli adulti è difficile ammettere di aver pensato, consumato, votato male. E soprattutto è difficile cambiare. Appartenenze politiche: più si è liberisti, più si è allergici a interventi normativi forti, più si è portati a sminuire. Tranelli cognitivi e pensiero corto: è più facile scattare davanti ai rischi immediati che a quelli di lungo periodo (prima del clima c’è la pandemia, la guerra, la crisi economica, le elezioni e molto altro ancora). La tragedia dei beni comuni: tutti dobbiamo rinunciare a qualcosa (l’aereo quando si potrebbe andare in treno, le troppe bistecche, le maniche corte in inverno e il condizionatore a palla d’estate), ma perché devo cominciare io se gli altri continuano a comportarsi male.

Per accendere lo sdegno degli over 40 servirebbe un noi-contro-loro, un nemico riconoscibile che confermi gli schemi identitari su cosa è giusto e cosa è sbagliato, ma chi in questo caso? È così che sbadigliamo (e sudiamo) davanti all’apocalisse, per citare gli psicologi Cameron Brick and Sander van der Linden. Ma fino a quando, con gli eventi meteo estremi destinati a crescere di anno in anno? La risposta non ce l’ha nessuno, comunque speriamo che si sbagli Kim Stanley Robinson, autore di Il ministero per il futuro. In questo romanzo la biosfera è ormai al collasso e oltre alle normali reazioni (dolore, tristezza, rabbia, panico, vergogna, senso di colpa) se ne sviluppano di patologiche, soprattutto tra i potenti.

La Sindrome della maschera della morte rossa, battezzata così da un racconto di Poe, consiste nell’isolarsi in luoghi privilegiati e annegare la paura nei lussi e nell’indifferenza. La Götterdämmerung syndrome, invece, ricorda Wagner. È tipica dei dittatori che preferiscono distruggere il mondo piuttosto che dichiararsi sconfitti, in questo caso significherebbe perseverare con politiche climalteranti per non ammettere i gravi errori del passato.

«POSSIAMO FARE QUALCOSA? FORSE VENT'ANNI FA, PERFINO DIECI ANNI FA QUALCOSA DA FARE C'ERA, MA ORA NO». LO DICEVA 8 ANNI FA LA SERIE TV NEWSROOM. E OGGI ?

di CHIARA LALLI

Tutte le volte che si parla di clima penso a una puntata di The Newsroom, la serie tv di Aaron Sorkin (HBO, 2012-2014), e a quando uno scienziato ed esperto climatologo va in studio per parlare degli effetti della CO2 e della crisi climatica. In confronto Cassandra era rassicurante. Fin dalla prima domanda di Will McAvoy/Jeff Daniels, infatti, si capisce che aria tira. Se fosse un medico e noi i pazienti, quanto tempo avremmo? Siamo spacciati. Nella redazione si diffondono sgomento e incredulità. Dopo altri dettagli catastrofici, McAvoy azzarda: insomma la situazione è disastrosa? No, se la casa sta bruciando è disastrosa, ma se è già in cenere è finita. Non c'è niente da fare. Siamo già morti. È troppo tardi.

Possiamo fare qualcosa? Forse vent'anni fa, perfino dieci anni fa qualcosa da fare c'era, ma ora no. Sono passati quasi otto anni da quella puntata e non è facile dire che cosa sia cambiato. Sia nei fatti sia nella nostra percezione del problema clima. Davvero non c'è più niente da fare perché siamo già spacciati? Insieme agli altri alleati dell'immobilità potrebbe esserci la rassegnazione e quindi dobbiamo fare molta attenzione. Se nulla c'è da fare, perché affaticarsi? Per non essere tanto disfattisti possiamo richiederci che cosa possiamo fare. Come sempre, provare a orientarci in un terreno particolarmente accidentato.

Il clima richiede la nostra capacità di gestire una quantità di dati enorme e di evitare trappole seducenti. E pensare alle generazioni future è così difficile che a volte viene il mal di testa. Perché dovremmo avere un qualche dovere morale verso chi ancora non esiste? Spesso è difficile sentirci responsabili perfino per chi non conosciamo o per chi non è nostro amico, figuriamoci verso chi è lontano nel tempo e non può nemmeno rivendicare un qualche diritto. Tuttavia, la crisi climatica non è più solo una minaccia futura. Possiamo farci aiutare dagli scienziati, anche se non sempre sono capaci di spiegare bene e di non essere troppo catastrofici come il climatologo di The Newsroom - che su una cosa aveva però perfettamente ragione: non ci sono pareri diversi sulla temperatura alla quale l'acqua bolle. Cioè, la scienza è l'unica guida.

Possiamo darci degli obiettivi piccoli che comunque è meglio di niente. Perché altrimenti rischiamo di voler salvare il mondo per poi rassegnarci subito davanti all'obiettivo irrealizzabile. Possiamo imparare a proteggerci dai cattivi argomenti e dalle promesse di soluzioni facili e che non costano niente. Forse l'unica cosa che non possiamo davvero fare più è fare finta che non abbiamo alcuna responsabilità e continuare a rimandare nella speranza strafottente che siano gli altri a preoccuparsene.

Cos'è il doomismo climatico e perché fa male all'ambiente tanto quanto il negazionismo. Giuditta Mosca su La Repubblica il 24 giugno 2022.   

Induce chi ne soffre a gettare la spugna, senza impegnarsi per difendere il Pianeta perché convinto che il dado sia ormai tratto

Doomer e negazionisti sono una minaccia per l'ambiente. Se i negazionisti non adottano uno stile di vita che tutela l'ambiente, convinti che non ci sia una vera emergenza climatica, i doomer fanno altrettanto ma per il motivo opposto: avvertono l'emergenza ma sono persuasi del fatto che ormai è troppo tardi per salvarlo.

Un fenomeno reale

Il termine "doomismo" deriva dall'inglese "doom" che significa sia sorte sia condanna ed è utilizzato in senso negativo. Il doomismo climatico non è un'invenzione letteraria, esiste. Il sito web della Bbc racconta la storia di Charles, un ventisettenne californiano convinto che "ci sia poco o nulla che possiamo fare per invertire effettivamente il cambiamento climatico su scala globale". Sembra una dichiarazione come tante ma su TikTok, piattaforma dalla quale diffonde il suo pessimismo cosmico, ha 150 mila follower. 

Per capire cosa si cela dietro agli atteggiamenti dei doomer abbiamo chiesto il parere di Marino Bonaiuto, professore ordinario del Dipartimento di psicologia dei processi di sviluppo e socializzazione, Facoltà di Medicina e Psicologia, dell'Università La Sapienza di Roma: "Di fronte a un evento negativo inevitabile può aversi come risultato una reazione di accettazione passiva, di rassegnazione. Pertanto interpreterei il fenomeno come dovuto alle informazioni sull'inevitabilità delle conseguenze negative senza una corrispondente enfasi sulle possibilità di risposta, le quali come noto possono riguardare due ambiti: quello dell'adattamento ai cambiamenti climatici globali (cioè individuare strategie di fronteggiamento delle conseguenze negative) e quello della mitigazione dei cambiamenti climatici globali (cioè strategie di diminuzione delle cause all'origine del cambiamento climatico che comporta tali conseguenze negative)". 

Un fenomeno di impotenza che si colloca in un contesto negativo e che viene portato alla luce soprattutto dai giovanissimi ma che potrebbe ignorare gli aspetti anagrafici: "Bisognerebbe verificare tale ipotesi attraverso dati raccolti in modo rigoroso e su campioni rappresentativi della popolazione. Comunque, è plausibile che le fasce già più deboli per altri motivi (d'istruzione, di reddito, di ruolo sociale o lavorativo, ecc.) siano maggiormente esposte a questo fenomeno poiché sono maggiormente vulnerabili in termini di capacità di fronteggiare le difficoltà su altri fronti", spiega il professor Bonaiuto.

È davvero troppo tardi?

Gli studi scientifici che lanciano o rilanciano allarmi ambientali, pure trasmettendo un sentimento di pessimismo, si dimostrano per lo più possibilisti fermo restando che occorrerebbe profondere impegno per evitare il peggio. Per contro il doomismo climatico non poggia su alcun documento scientifico che prevede l'annichilimento del pianeta senza possibilità di salvezza. "Troppo tardi" è un'affermazione priva di criterio, ciò non toglie che la situazione ambientale sia per lo meno delicata e che le misure per invertire la rotta siano urgenti e da attuare con rigore. 

Cosa fare, dunque, per lenire il pessimismo? Il professor Bonaiuto è anche membro del Comitato tecnico-scientifico sulla sostenibilità, istituito nel 2021 dall'ateneo romano, interlocutore adatto a cui porre un simile quesito: "In generale, bisogna domandarsi cosa fare di propositivo: è importante ragionare in termini di misure atte a contrastare questa china. Ciò significa favorire sia i comportamenti che consentono di fronteggiare le conseguenze negative di tali cambiamenti nel presente e immediato futuro (adattamento), sia quelli che consentono di diminuire l'impatto umano sull'ambiente per arrestare la tendenza attuale nel futuro a medio e lungo termine (mitigazione). Per promuovere tali comportamenti, bisogna investire, costantemente e a lungo termine, in comunicazione, formazione, educazione e svolgimento di attività riguardanti il rapporto reciproco tra persone e ambiente. Ciò consente di formare e trasformare quelle caratteristiche psicologico-sociali (valori, norme, identità, ecc. proprie della persona) che governano sia le reazioni psicologiche nei confronti dell'ambiente in generale e degli specifici luoghi, sia i comportamenti messi in atto nei confronti dell'ambiente e dei luoghi".

·        Il Costo della Transizione.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 31 agosto 2022.

La sedicente casa automobilistica Silk sports car su cui indaga la Procura di Reggio Emilia ha chiesto 38 milioni di fondi a Invitalia, a fronte di un piano di investimenti da 380 milioni di euro per la produzione di auto di lusso elettriche e ibride. In pratica i manager dell'azienda sino-statunitense hanno chiesto all'Agenzia nazionale per l'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa, all'epoca guidata dal commissario Domenico Arcuri un supporto del 10 per cento del presunto impegno finanziario. 

Peccato che i soldoni che la Silk avrebbe dovuto portare in Italia al momento non si siano ancora visti e che la ditta non stia riuscendo nemmeno a pagare gli stipendi di una sessantina di dipendenti, i quali hanno annunciato la volontà di mettere in mora il datore di lavoro.

I vertici della Silk, dopo aver bussato inutilmente alla porta del fondo sovrano del Kuwait per portare a casa in due tranche 110 milioni, avrebbero ripiegato su un fondo del Middle-east statunitense con la più mite richiesta di 15 milioni. Un'iniezione di liquidità che verrebbe utilizzata per pagare le retribuzioni ed evitare di dover ricorrere alla cassa integrazione, una ipotesi che non viene più esclusa nel quartier generale delle Reggiane. Proprio negli uffici della Silk, alcune fonti, ci hanno svelato il dato che il Mise e Invitalia volevano rimanesse riservato.

Ma noi non ci siamo arresi, ritenendo di primario interesse per l'opinione pubblica la notizia che soggetti in questo momento attenzionati dalla Procura e dalla Guardia di finanza, a partire dal presidente della Silk, il finanziere Usa Jonathan Krane, stiano provando a spremere dalle casse dello Stato la bellezza di 38 milioni di fondi pubblici. 

La domanda di agevolazione (che può essere concessa anche come contributo diretto alla spesa) è stata presentata all'interno della convenzione quadro per i contratti territoriali riguardanti progetti con finalità di ricerca, sviluppo e innovazione. Un settore in cui rientra la mobilità elettrica.

Tali istanze di accesso devono essere presentate a Invitalia, l'agenzia incaricata di svolgere le istruttorie sulle domande e di gestire la «misura agevolativa». 

Per ottenere il contributo la Silk, fortemente sponsorizzata dall'ex primo ministro Romano Prodi, ha dovuto presentare un piano industriale e finanziario alla direzione competente di Invitalia, che dovrebbe averlo condiviso con la direzione generale Incentivi alle imprese del Mise. Ma la richiesta, nel frattempo, visti i continui intoppi alla partenza del progetto, ci risulta che sia finita su un binario morto. 

Quindi a Krane non stanno arrivando soldi da nessuna parte. Anche la Regione Emilia Romagna, all'inizio molto attiva nell'incentivare l'impresa, non sta erogando i 4,5 milioni promessi. Per questo il finanziere statunitense è rimasto con il cerino in mano. 

Infatti i cinesi che, inizialmente, avevano dato credito al progetto si starebbero defilando.

Ma che qualcosa non tornasse in questa storia era possibile scoprirlo molto prima delle inchieste giornalistiche e dei dubbi del Mise. Infatti, già nel 2020 media italiani e cinesi avevano annunciato la nuova avventura della Silk ev (il nome originale dell'azienda) a colpi di fake news, facilmente smascherabili. 

Ecns, un'agenzia di stampa cinese, il 25 aprile di due anni fa, citando la China television, aveva anticipato che una società di ingegneria e design con sede negli Stati uniti avrebbe investito 1,4 miliardi di dollari in Cina nei successivi 5 anni «per produrre la prima auto sportiva in assoluto con marchio Hongqi premium del gruppo Faw».

Si leggeva anche che la Silk era operativa in Italia e che Krane aveva affermato che la società da lui presieduta aveva «stretto partnership con marchi come Bugatti, Porsche, Ferrari e Lotus». Tutte informazioni mai confermate, sebbene sul sito della Silk fosse indicata una succursale modenese della società, a due passi da Maranello. La notizia venne rilanciata anche dall'Ansa, che raccontò che la Silk Ev aveva «un centro di ricerca e sviluppo e produzione di proprietà al 100% a Modena, la Racing Canyon». 

Il 28 aprile lo «scoop» venne ripreso dal gruppo Class, editore con importanti sinergie a Pechino: «Cinesi e americani uniti a Modena per produrre super car» si leggeva in un entusiastico articolo, dove si ipotizzava che proprio l'Italia sarebbe potuta diventare la sede dell'impianto produttivo. Il servizio dava per fatta la cosa un anno prima che il progetto venisse spostato e riannunciato a Reggio Emilia.

Il cronista non aveva dubbi: «È quanto sta avvenendo a opera di due aziende all'avanguardia nella città emiliana, dove a pochi chilometri dal centro nascono anche le rosse del Cavallino rampante». E la scelta del luogo non sarebbe stato casuale. Leggiamo: la Faw-Hongqi «ha annunciato che costituirà una joint venture con Silk Ev per produrre il suo primo modello ad altissime prestazioni puntando le carte sul centro di ricerca e sviluppo e produzione che ha sede a Modena (la Racing Canyon) proprio nel cuore della Motor Valley emiliana dove nascono le supercar sportive più belle del mondo».

Una nostra fonte che ha avuto a che fare con i manager della Silk commenta ironico: «È abbastanza surreale che la Motor valley nella ragione sociale della presunta azienda modenese diventasse Racing canyon senza suscitare sospetti. Eppure, nel 2020, la Silk Ev non aveva nemmeno una partita Iva in Italia, figuriamoci un centro di ricerca sviluppo e produzione di proprietà. 

La Silk Ev, poi ribattezzata Silk-Faw, ora Silk sports car, nasce, infatti, ufficialmente nel nostro Paese solo nel dicembre del 2020 ed è diventata attiva dal febbraio 2021. Fa sorridere che questa fantomatica società di ingegneria, prima ancora di venire costituire in Italia, millantasse partnership con Bugatti, Porshe, Ferrari, Lotus, evidentemente portate avanti da un laboratorio fantasma».

Alla fine gli unici soldi investiti dalla Silk in Italia, a parte le retribuzioni (al momento bloccate) per una settantina di ingegneri, il vero biglietto da visita della joint-venture nella sua spasmodica ricerca di investitori, sono stati 2,3 milioni di euro per acquistare, tra ottobre e dicembre 2021, circa 72.000 metri quadrati di terreni. Un quinto della superficie che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto ospitare l'impianto produttivo. Ma anche in questo caso non ci sarebbero più i soldi per comperare gli ettari restanti. La corsa della Ferrari sino-statunitense sembra finita ancora prima di iniziare.

"Stiamo sottostimando il costo della transizione green?" Il dilemma di Prometeia. Andrea Muratore il 3 Maggio 2022 su Il Giornale.

Prometeia, società di consulenza strategica, ha pubblicato un report sul tema analizzando come la transizione energetica e il tema dei costi delle materie prime e dei combustibili stiano giocando un ruolo decisivo nella discussione odierna sul volo dei prezzi per i consumatori.

Prometeia scende in campo nell'analisi della transizione energetica e della finanza sostenibile e si pone un'importante domanda: i decisori politici ed economici stanno curando in maniera realistica il capitolo dei costi che questo processo avrà. La società di consulenza strategica ha pubblicato un report sul tema analizzando come la transizione energetica e il tema dei costi delle materie prime e dei combustibili stiano giocando un ruolo decisivo nella discussione odierna.

La cronaca di questi mesi lo testimonia. Già prima dello scoppio della guerra russo-ucraina prezzi dell'energia hanno fatto discutere gli analisti, i consumatori, gli investitori e i responsabili politici per molti mesi. I prezzi del petrolio, ricorda Prometeia, "dopo aver raggiunto i loro valori più bassi in due decenni nei primi mesi della pandemia di Covid (21 dollari al barile di petrolio greggio Brent nell'aprile 2020), si sono intensificati da allora, superando la soglia dei 100 dollari al barile alla fine di febbraio, spinti dalla guerra in Ucraina". 

Nel frattempo, i prezzi del gas naturale in Europa (TTL olandese) sono saliti alle stelle, passando da 23 dollari / MWh all'inizio del 2021 a un picco di 247 dollari per MWh il 7 marzo 2022 e successivamente scendendo a 136 dollari/MWh alla fine del mese, circa sei volte i livelli di partenza. Queste impennate dei prezzi "hanno sostanzialmente aumentato i costi energetici delle famiglie e aumentato il dibattito in Europa sulla necessità di fonti energetiche affidabili, più economiche e più verdi".

In quest'ottica, si chiede Prometeia, un tema fondamentale sarà capire in che misura in futuro banche, investitori, imprese e governi sapranno interiorizzare i calcoli su i costi reali della transizione nei loro processi aziendali. E "tutto nei correnti modelli di predizione lascia presagire che i prezzi rimarranno più alti del previsto anche nel prossimo futuro", a causa di un preciso circolo vizioso. L'economia sarà più in affanno per la sua dipendenza da gas e petrolio, questo ridurrà i margini fiscali per le politiche di investimento, a sua volta ciò protrarrà i termini della transizione e renderà più complesso e aleatorio stimarne i costi.

E di fronte a caos legati alle crisi globali in atto, stiamo vivendo un superciclo delle materie prime in cui, nota Prometeia, sia sul fronte dei combustibili fossili che dei materiali strategici per le infrastrutture su cui sviluppare la transizione "la domanda sta spiazzando l'offerta". Si realizzano dunque i timori legati agli scenari che analisti come Gianclaudio Torlizzi hanno costruito. Torlizzi, in Materia Rara ha scritto del rischio che la transizione green alimenti il superciclo delle materie prime in un'ottica di medio-lungo periodo. 

Torlizzi nel saggio nota che "dei 12.000 miliardi di dollari in stimoli fiscali varati" tra 2020 e 2021 dalle economie occidentali contro la crisi economica da Covid, "800 miliardi sono destinati specificamente a piani per contrastare il cambiamento climatico, premiando così quelle materie prime direttamente coinvolte nella transizione energetica verso la decarbonizzazione, come i metalli" e surriscaldandone la domanda. In teoria, "i processi di decarbonizzazione si sarebbero dovuti tradurre in una discesa dei prezzi petroliferi proprio in ragione della previsione di una riduzione dei consumi di energia fossile. E invece anche i prezzi petroliferi hanno assistito, dallo scoppio della pandemia a oggi, a forti rincari in scia al calo dell’offerta prevista a causa delle politiche ambientali sempre più stringenti"; questo si è visto con forza durante il varo del Green New Deal europeo.

Da quando in primavera del 2021 l’Unione Europea ha iniziato ad annunciare le strategie che, mediando tra pragmatismo e ideologia, hanno avviato il Green New Deal, come i “dazi verdi” proposti per colpire le nazioni che in questa fase storica hanno standard ambientali più labili e il piano Fit for 55 con annesse strategie di fuoriuscita dalle energie fossili, i permessi di inquinamento hanno iniziato a decollare nelle quotazioni assieme ai prezzi dell'energia. Quanto oggi messo nero su bianco da Prometeia è l'attestazione che il pragmatismo deve guidare i governi nelle scelte e nelle analisi. L'utopismo senza contrafforti economico-industriali chiari, la stretta ambientale senza focus sullo sviluppo e l'ideologia fine a sé stessa rischiano di essere rovinosi.

Nel pieno della tempesta ucraina l'Europa sembra essersene resa conto e ora procede in maniera sistemica cercando di lavorare separatamente all'indipendenza dal gas russo e all'inserimento dell'oro blu come combustibile ponte per la transizione, evitando eccessive utopie. Ma stimare concretamente prezzi e dinamiche di costo per il proseguo di una transizione che si prevede destinata a puntare al 2050 è ancora oggi paragonabile a navigare in mare aperto senza bussola.

Il cobalto è il nuovo veleno per la transizione energetica. FERDINANDO COTUGNO su Il Domani il 06 febbraio 2022.

Il cobalto è un metallo centrale per la transizione energetica: oggi è fondamentale per dare stabilità e performance alle batterie, il sistema nervoso dell'elettrificazione.

Il problema è che il cobalto usato nel mondo viene per due terzi dalla Repubblica Democratica del Congo, dove è spesso estratto in condizioni insostenibili.

La sfida in questo momento è su un doppio binario. Da un lato arrivare a batterie senza cobalto con le stesse performance. Dall'altro potenziale le regole e gli strumenti per riciclarlo. 

FERDINANDO COTUGNO. Giornalista specializzato in ambiente, per Domani cura la newsletter Areale, ha scritto il libro Italian Wood (Mondadori) e ha un podcast sulle foreste italiane (Ecotoni). 

Traffico illegale di oro in Brasile, l’operazione internazionale porta in Italia. Il Domani il 10 febbraio 2022

L’oro veniva estratto e commercializzato in maniera illegale nelle terre indigene dell’Amazzonia. Le indagini della polizia federale brasiliana hanno trovato diverse imprese europee implicate nella vicenda. Angelo Bonelli di Europa Verde ha presentato un esposto in procura dopo che nell’operazione è comparso il nome di un’azienda italiana

Terra desolata. È questo il nome dell’indagine internazionale condotta in Brasile che ha individuato un giro illegale di estrazione e commercio di oro nelle terre indigene Kayapò dello stato brasiliano del Parà.

Gli inquirenti brasiliani hanno emesso 12 mandati di cattura e bloccato asset finanziari per 469 miliardi di real brasiliano. L’operazione è stata portata a termine lo scorso ottobre e l’inchiesta coinvolgerebbe anche un’azienda italiana.

Il traffico di oro illegale è stato messo in piedi da una complessa organizzazione criminale che opera nel sud del paese ed è stata capace di rifornire diverse imprese europee di gioielli e metalli preziosi. Secondo la polizia federale l’oro sarebbe stato acquistato dalla cooperativa Cooperouri (Cooperativa de Garimpeiros e Mineradores de Ourilândia e Regione) che, secondo quanto emerso dall’inchiesta, estrae oro dal territorio indigeno.

Terre che dovrebbero essere protette e invece sono vittime del disboscamento e dell’impatto ambientale causato dall’industria mineraria. Da anni le tribù del Sudamerica, dal Messico al Brasile, denunciano l’operato di governi e multinazionali anche a rischio della propria vita.

Trovare i dati sugli omicidi delle popolazioni indigene non è facile, ma uno degli anni record è stato il 2016 quando si sono verificati ben 61 omicidi in Brasile. 

«L’inchiesta - dice l’esponente di Europa Verde Angelo Bonelli - sottolinea che l'esportazione avviene con voli privati, all'insaputa delle autorità competenti, senza passare per il Sistema Integrato del Commercio Estero (Siscomex)». 

Bonelli ha anche presentato un esposto nella procura di Arezzo, città dove risiederebbe l’azienda italiana che sarebbe coinvolta nell’indagine. «Questa vicenda va chiarita e per questo abbiamo inviato esposto alla procura della Repubblica di Arezzo affinché si apra un’inchiesta per verificare se le accuse della polizia federale trovino riscontro in Italia: difendere le terre indigene , la biodiversità da chi distrugge la foresta Amazzonia e i suoi popoli in nome dell’oro deve essere una priorità di una nazione civile e democratica».

Gilda Ferrari per "La Stampa" l'11 febbraio 2022.

Lo ha detto durante la sua visita a Genova mercoledì, Mario Draghi, che il governo non dimentica famiglie e imprese in difficoltà e lavora a un nuovo provvedimento per calmierare gli aumenti di luce e gas. 

Il nuovo decreto-energia sarà «di ampia portata». 

Si parla di un intervento da 5-7 miliardi, di cui una parte in arrivo da una mini tassazione degli extraprofitti realizzati dagli impianti a fonti rinnovabili.

Secondo un'analisi condotta dall'Associazione Reseller e Trader dell'Energia (Arte) e Assoutenti su dati Terna e Arera e stime basate su valori medi di costi di produzione e prezzi di vendita, nel 2022 gli extraprofitti delle rinnovabili potrebbero superare i 9 miliardi di euro: 2,9 miliardi da idroelettrico, 3,9 miliardi da eolico, 1,1 miliardi da geotermico, 2,5 miliardi da biomassa e rifiuti.

L'energia green, insomma, paga. Soprattutto chi la produce. A beneficiare di questi maggiori guadagni annui sarebbero gli operatori italiani più presenti nella produzione di energia rinnovabile. 

I risultati delle proiezioni - riportati in tabella - sono stime: si va dai 4,6 miliardi di Enel, leader nazionale del green, ai 320 milioni di Iren. 

L'analisi Arte-Assoutenti parte da dati Terna e Arera su come sono ripartiti tra gli operatori i 116.054 GWh di energia da fonti rinnovabili prodotta in Italia.

Quindi stima gli extraprofitti assumendo che il Prezzo unico nazionale (Pun) si mantenga a 220 euro a MWh (è stato 236 euro in media tra ottobre 2021 e gennaio 2022) e che i costi medi a MWh dei produttori siano i seguenti: 20 euro per l'idroelettrico, 60 euro per eolico e fotovoltaico, 30 euro per il geotermico e 90 euro per biomassa e rifiuti.

«Con questi costi - spiegano le associazioni - vendendo a 220 euro a MWh i maggiori ricavi vanno dai 130 euro garantiti da biomassa e rifiuti ai 200 euro dell'idroelettrico».

Il perché un'energia prodotta a un costo di 20 euro a MWh debba essere venduta a 220 euro risiede nel meccanismo di formazione del prezzo dell'energia. Sulla Borsa elettrica a fare il Pun è l'ultimo MWh offerto per soddisfare la domanda di energia, ora per ora. 

«Abbiamo cercato di dare concretezza alla posizione di Draghi, che ha ben altri strumenti rispetto a noi - dice Furio Truzzi, presidente di Assoutenti -. Non siamo affatto contrari alle rinnovabili, anzi.

Né si tratta di scippare le aziende produttrici che fanno margini. Ma crediamo sia il caso di usare questi maggiori guadagni per fermare l'emorragia e restituirli alle aziende nei prossimi anni. Le aziende di Stato e le ex municipalizzate devono riscoprire i valori solidaristici». 

L'attuale meccanismo di formazione del prezzo in Borsa è, per Diego Pellegrino, numero uno di Arte (100 associati), «ormai obsoleto, perché il costo di produzione è sempre rapportato al livello più alto possibile, indipendentemente dalla fonte di produzione. Varrebbe la pena rivalutarlo». 

Secondo Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia, modificare la Borsa elettrica «non è semplice né necessario. Ma - aggiunge - l'analisi fatta da Arte e Assoutenti è attendibile nei numeri e in parte anche sottostimata, considerando che gli impianti idroelettrici sono tutti ampiamente ammortizzati.

Il governo fa bene a intervenire sugli extraprofitti. Le rinnovabili sono tutto tranne che mercato, sono sempre state incentivate. A breve, peraltro, dovrebbe entrare in vigore la norma che fissa un tetto al guadagno delle rinnovabili rispetto al prezzo della Borsa elettrica».

Il ritorno del baratto: un antico mezzo utile per superare le difficoltà attuali. Gabriele Laganà l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Lo strumento si sta rivelando vantaggioso per superare la crisi economica provocata dalla pandemia. Dalle persone alla finanza passando per i Comuni: ecco chi oggi sta rinunciando alla moneta.

Il baratto è un'operazione di scambio di beni o servizi fra due o più soggetti economici come ad esempio persone, imprese, enti o governi, senza l’uso di moneta. Uno strumento, questo, considerato come la prima forma di attività commerciale della storia. Eppure non ci sono prove storiche, antropologiche o etnologiche dell'esistenza di una società o di un'economia basata principalmente su questo mezzo.

Come tutto nella vita, anche il baratto ha subito un declino, arrivando praticamente a scomparire con il passare del tempo ed il progredire delle attività umane. Il punto di svolta avvenne attorno al V millennio avanti Cristo quando l’uomo iniziò a dare ad alcuni semplici oggetti (conchiglie, sale, punte di frecce ed altro) un valore intrinseco per favorire le negoziazioni. In pratica, in quell’epoca stava nascendo il commercio basato sul denaro.

Il nuovo boom del baratto

Si era, quindi, chiuso un capitolo. Ma non in modo definitivo. Perché oggi questo mezzo per scambiare beni e servizi sta tornando in auge, anche se declinato in chiave più moderna. Negli ultimi due anni, in particolare, il baratto ha conosciuto un vero e proprio boom. Un arco temporale non casuale ma che coincide con il diffondersi a livello mondiale del Covid-19.

La crisi economica acuita dall’emergenza sanitaria, infatti, non solo ha sconvolto la nostra quotidianità ma ha prodotto effetti devastanti per molti settori. E così lo scambio di merci e servizi ha iniziato a rappresentare una risorsa importante in quanto non comporta scambio di denaro. Denaro che in alcuni casi non c’è oppure è limitato.

Il baratto moderno è anche un modo pratico che consente di sfruttare al meglio le nuove tecnologie, superando gli ostacoli fisici, tra cui lockdown ed isolamento, imposti dalle restrizioni anti-contagio. Non è un caso che di recente siano divenuti molto popolari siti internet basati sulla "circolarità" dell’utilizzo e siano nate numerose app per la cessione di beni attraverso lo scambio.

Questi ultimi strumenti incentivano l’economia circolare producendo, allo stesso tempo, due conseguenze positive: un forte calo degli sprechi e la riduzione delle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera (perché più si riutilizza e meno si produce). E minori danni per la natura significa miglioramento della qualità di vita degli esseri umani e minori costi per difendere l’ambiente.

Non meno importante è il recente sviluppo di forme di baratto amministrativo, che consentono di pagare multe impegnandosi in lavori socialmente utili.

Il baratto nel mondo finanziario

Il baratto sta subendo una naturale evoluzione tanto che negli ultimi tempi sta divenendo sempre più 4.0. Di conseguenza si sta allargando la platea di chi utilizza questo strumento. Oggi anche il mondo della finanza, come sottolinea il sito true-news.it, non disdegna di ricorrere al baratto.

Nella legge di Bilancio 2021 è stato introdotto il cosiddetto "baratto finanziario", un sistema di compensazione multilaterale di crediti e debiti commerciali legati a operazioni di scambio provate dalla presenza di fatture elettroniche.

In questo modo le aziende possono compensare le proprie posizioni, che siano creditorie o debitorie, senza usare la moneta. L’idea di introdurre questo sistema era stata avanzata dall’Associazione Nazionale Commercialisti e Confimi Industria (Confederazione dell'Industria Manifatturiera Italiana e dell'Impresa Privata): l’obiettivo era quello di realizzare un sistema sicuro per le imprese con lo scopo di sostenere le attività in crisi di liquidità.

L’idea del baratto coinvolge anche la Pubblica amministrazione. I Comuni possono fare ricorso a questo sistema per aiutare i cittadini che sono in difficoltà nel pagare le multe. La legge permette, in determinati e limitati casi, di convertire una sanzione con attività di pubblica utilità.

Nuove idee per il baratto moderno

Il baratto oggi è conosciuto anche con il nome "barter". Cambia il termine, un po’ forse per andare incontro alla nostra società che ama usare appellativi anglofoni, ma non la sostanza. Esempio pratico del boom del baratto al giorno d’oggi è rappresentato dal successo di BarattoBB.it: si tratta di portale dedicato ai soggiorni nei b&b in Italia. Sul sito è possibile scambiare beni o servizi per ottenere vantaggi di natura turistica senza costi aggiuntivi. Un modo per viaggiare senza spendere grandi cifre.

Non ci sono limiti alle idee per sviluppare un baratto in epoca moderna. Altra prova dell’evoluzione di questo sistema di scambio è testimoniata dal "burter" che si basa sulla vendita sottocosto di prodotti commerciali. Su questa base è nata la catena Portobello che ha sede a Roma.

Il meccanismo è tanto semplice quanto vantaggioso per produttori e consumatori: l’azienda acquista i beni eccedenti nei magazzini dei produttori offrendo in cambio spazi pubblicitari. Così facendo rimette in commercio prodotti ad un prezzo sensibilmente più basso rispetto a quelli del mercato, anche del 50%. Grazie a un modello di business circolare e integrato verticalmente, l’azienda offre prodotti di alta qualità a prezzi accessibili attraverso la vendita assistita presso i negozi.

Insomma, dal passato riemerge uno strumento considerato superato ma che, invece, sta risultando valido per superare le difficoltà del presente.

Gabriele Laganà. Sono nato nell'ormai lontano 2 aprile del 1981 a Napoli, città ricca di fascino e di contraddizioni. Del Sud, sì, ma da sempre amante dei Paesi del Nord Europa. Seguo gli eventi di politica e cronaca dall'Italia e dal mondo. Amo il calcio, ma tifo in modo appassionato solo per la Nazionale azzurra. Senza musica non potrei vivere. In tv non perdo i programmi che parlano di misteri e i film horror, specialmente del genere zombie. Perdono molte cose. Solo una no: il tradimento

Transizione «verde»: perché la guerra e il caro bollette rischiano di fermarla. Isidoro Trovato su Il Corriere della Sera il 27 Febbraio 2022.

Tra i mille pericoli indotti dall’esplosione del conflitto russo-ucraino c’è ovviamente quello dell’energia e delle ampie ricadute per il nostro Paese. Inizia da questo aspetto l’analisi di Ferruccio de Bortoli su L’Economia in edicola domani gratis con il Corriere della Sera. «Quando c’è una guerra conta averla l’energia, non sceglierla — ricorda de Bortoli — . La transizione può attendere, le emissioni non contano. E non a caso tra le sanzioni economiche, sulla cui efficacia è lecito nutrire qualche dubbio, il gas è escluso. Perché vitale».

Oggi, infatti, il principale timore è rimanere al freddo per le conseguenze del conflitto.Non certo l’aumento delle emissioni nocive che fanno male al pianeta. E anche il carbone, super inquinante, potrebbe vivere un revival d’emergenza. Di contro, non è certo che le varie rivoluzioni in atto si traducano in crescita duratura come nel ‘900. Certo, se anche solo la metà dei progetti per gli impianti rinnovabili venisse realizzata raggiungeremmo prima del tempo gli obiettivi stabiliti per il 2030. Ma la burocrazia e i costi sociali del cambiamento stanno fermando i piani green. Le conseguenza dell’invasione ordinata da Putin restano protagoniste nella sezione Economia&Politica dove si valutano gli affetti economici di breve periodo dell’aggressione all’Ucraina: a cominciare dall’inflazione e forse la recessione nel Vecchio Continente. Nel medio lungo termine ci saranno catene di fornitura interrotte, materie prime più care, commerci difficili, sanzioni incrociate, investimenti più rischiosi. E poi il dilemma di Pechino: come bilanciare l’appoggio a Mosca con la necessità di non finire vittime indirette della guerra non voluta.

Infine la guerra scatenata dalla Russia è il tema di un approfondimento sugli investimenti. Dopo i fatti in Ucraina è cresciuta la volatilità sui mercati. Come difendere, quindi, i nostri risparmi dall’orso? I gestori consigliano di alleggerire il rischio nei portafogli evitando le vendite da panico. L’oro torna a brillare ma anche Etf e azioni per costruire un rifugio sicuro. Nella sezione Imprese invece si comincia con la storia di copertina dedicata a Corrado Passera che afferma: «Sarà l’anno del Fintech: con la tecnologia illimity adesso puntiamo anche al mattone. Possiamo crescere ancora di più. Il Pnrr va promosso, ma assieme ai capitali pubblici deve aumentare la produttività delle aziende. Il segreto per prestare denaro con un default rate dello 0,7%? Abbiamo riscoperto i “settoristi”, come un tempo si faceva in banca».

Continua la corsa delle farmacie Hippoctrates Secondo round per Tavaniello e Guarino: 165 milioni da Intesa, BancoBpm, Natixis. Altri 400 milioni da mercato e famiglie: Barilla, Pizzarotti, Alessandri. La «sfida» del gruppo controllato dai francesi di Altin a Costamagna e Pesenti. Nella sezione Professionisti il presidente di Confprofessioni, Gaetano Stella racconta la riapertura delle trattative per il rinnovo del contratto nazionale dei dipendenti degli studi professionali. Gli aumenti e gli altri nodi da sciogliere.

"Green vantaggioso solo se porta utili": la presa di posizione del Ceo di BlackRock. Andrea Muratore il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il Ceo di BlackRock, Larry Fink, entra a gamba tesa contro l'ambientalismo "politicamente corretto" e ricorda che a suo avviso la finanza è sostenibile, in primo luogo, se genera profitti. E su questo metro andrà valutata la transizione green.

"Dobbiamo essere chiari, la giusta ricerca del profitto è ancora ciò che anima i mercati; e la redditività a lungo termine è la misura in base alla quale i mercati determineranno alla fine il successo della vostra azienda”. Questo il passaggio chiave della lettera di Larry Fink, Ceo di BlackRoc, agli amministratori delegati delle aziende partner e al mondo della finanza che guarda con attenzione alle mosse dell'operatore da lui guidato per indirizzare le attività della "roccia nera" nel 2022.

Il titolo è un manifesto: "Il potere del capitalismo". Dopo un anno vissuto sull'ottovolante, dopo lo scoppio della crisi energetica, dopo la bomba inflativa Fink corregge il tiro tanto sul fronte della transizione energetica quanto su quello dello sviluppo della finanza sostenibile rispetto al messaggio positivista del 2021. Nel messaggio del 2022 lancia un messaggio esplicito: la transizione green è importante, ma diventa perseguibile esclusivamente nel caso in cui sia in grado di generare abbondanti utili. E la definizione di "finanza sostenibile" data dal 69enne californiano è inequivocabile: "Ci concentriamo sulla sostenibilità non perché siamo ecologisti, ma perché siamo capitalisti e siamo legati da un rapporto fiduciario verso i nostri clienti".

Il fondatore del campione mondiale dell'asset management, attivo da 34 anni e tra i principali indirizzatori delle strategie di investimento di governi e finanza, potrà probabilmente urtare le sensibilità di molti con parole chiare e incontrovertibili. Dal nostro punto di vista, possiamo sottolineare come su certi punti di vista BlackRock sia piuttosto l'antitesi del libero mercato, gestendo un patrimonio da 10 trilioni di dollari e riuscendo a condizionare le strategie globali con i suoi indirizzi sugli investimenti. Ma quanto Fink dice e sottolinea è una chiara e inequivocabile realtà che altri imprenditori, manager e finanzieri non hanno il coraggio di sottolineare.

Fink, in quest'ottica, entra in gamba tesa contro il Woke Capitalism, ovvero contro la narrazione politicamente corretta che ridipinge imprese e aziende in termini conformi ai trend più attenzionati dall'opinione pubblica e, scrive Dissipatio, è cavalcata da aziende capaci di fare "grandi proclami per accaparrarsi i favori di determinate classi di consumatori" senza cambiamenti sostanziali. Fink, prosegue Dissipatio, "si scaglia contro il Woke Capitalism, ammonendo chiunque affronti il tema ecologista con dichiarazioni esclusivamente di facciata, proponendo in alternativa un “capitalismo responsabile”. Una sincera, anche se forse non ideologicamente autentica, missione ambientalista motivata dal fatto che ormai la svolta green sia a tutti gli effetti da considerare un business ad alto potenziale". Fink sottolinea che ad oggi tecnologie pulite e sostenibili e prodotti ecologicamente meno impattanti costino in genere di più, ma non nega l'importanza dei criteri Esg come driver di investimento del lungo periodo. Fink e BlackRock sottolineano di stare chiedendo chiedendo alle aziende di fissare obiettivi a breve, medio e lungo termine per la riduzione dei gas serra, sottolineando però che la qualità dei piani per raggiungerli sia cruciale per gli interessi economici a lungo termine degli azionisti.

La sostenibilità ambientale degli investimenti, per Fink, deve essere una derivata prima della loro sostenibilità economica, e questo è il motivo per cui il finanziere rubrica ad atto controproducente, se non addirittura demagogico, il massiccio disinvestimento di alcuni operatori da settori impattanti come quelli del gas e del petrolio: "Il disinvestimento da interi settori – o, semplicemente, il passaggio delle attività ad alta intensità di carbonio dai mercati pubblici a quelli privati – non si tradurrà nel raggiungimento dell’obiettivo delle zero emissioni nette", taglia corto. Per Fink la certezza è che un mondo a ridotte emissioni e in cui i criteri sostenibili dominino la finanza sia raggiungibile all'interno del capitalismo, senza rompere con schemi consolidati e seguendo la logica del profitto come stella polare. Un'assunzione forte e che aspetta di essere messa alla prova: ma al leader di BlackRock riconosciamo, indubbiamente, una profondità di pensiero non banale e, soprattutto, il rifiuto di ogni ipocrisia. Fattore non scontato quando si parla di green e transizione energetica.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione. 

Auto elettrica obbligatoria, l’Italia è ferma. Gli ostacoli in vista del 2035. Milena Gabanelli e Rita Querzè il 14 Febbraio 2022 su Il Corriere della Sera.

In Europa non si venderanno più auto con motore endotermico dal 2035. Ci candidiamo così a essere il primo mercato al mondo per l’auto elettrica. Nel 2030 Volkswagen prevede che il 50% delle sue vendite saranno auto elettriche, Toyota il 30%, Renault il 90% e Stellantis il 70% in Europa e il 40% negli Usa. Un cambiamento che comporta investimenti miliardari, pubblici e privati, per avviare una produzione di batterie, attrezzare il territorio con le colonnine di ricarica e aumentare enormemente la produzione di energia da fonti rinnovabili. Sappiamo anche che in Italia, con lo stop al motore diesel e benzina, si perderanno oltre 70 mila posti di lavoro e, dunque, cosa stiamo facendo per creare occupazione nella mobilità emergente? 

Produrre più energia verde

I veicoli elettrici circolanti oggi nel nostro Paese sono 236 mila e, stando alle previsioni comunicate a Bruxelles, diventeranno 6 milioni entro il 2030 e 19 milioni entro il 2050. Si stima che per caricare i 6 milioni di auto elettriche servano almeno 10 terawattora di energia l’anno, su un consumo complessivo di energia di 330 TWh. Per caricare invece i 19 milioni di auto elettriche nel 2050 serviranno oltre 32 TWh, ma nel frattempo il fabbisogno complessivo di sarà salito a 650 TWh annui. Significa che il caricamento delle auto elettriche nel 2030 avrà un’incidenza del 3% sul totale dei consumi di energia del Paese, mentre nel 2050 salirà al 4,9%. Un peso non eccessivamente oneroso, il vero punto è che per reggere la transizione occorre raddoppiare la disponibilità di energia, poiché tutto funzionerà con una presa di corrente, caldaie comprese. E se vogliamo che le auto elettriche siano a emissioni zero vanno alimentate con energia da fonti rinnovabili. Già oggi il nostro mix energetico è tra i migliori in Europa con il 38% dell’energia che viene da rinnovabili, ma per arrivare al 72% entro il 2030, è cruciale attuare da subito i piani del Mite. 

Stoccaggio e reti intelligenti

La rete deve anche essere in grado di reggere nella giornata i momenti di maggior di assorbimento. Oggi abbiamo picchi giornalieri intorno ai 55 gigawatt. Con sei milioni di auto elettriche di piccola cilindrata in carica, che da sole assorbono 22 gigawatt, dovremo sostenere picchi ben più alti, altrimenti salta il sistema, esattamente come succede in casa quando attacchi insieme la lavatrice e la lavastoviglie. Vuol dire che bisogna trovare il modo di stoccare l’energia prodotta dalle rinnovabili per tirarla fuori quando serve. Si sta cercando di rendere intelligente la ricarica programmandola entro una certa ora, con l’auto che gestisce l’assorbimento: nei momenti di picco rallenta il prelievo, oppure cede energia per riprenderla dopo. Ma è una tecnologia che sta ancora muovendo i primi passi. 

Colonnine: quante sono e cosa manca

Oggi abbiamo 26.024 punti di ricarica, nel 2030 si prevede di arrivare a oltre 3 milioni di punti privati e circa 100 mila pubblici, di cui circa 31.500 a ricarica veloce (distribuiti su autostrade, superstrade e centri urbani). Insomma, a quelli oggi esistenti se ne aggiungeranno 21.225 finanziati con 740 milioni del Pnrr che serviranno a coprire a fondo perduto il 40% dell’investimento. Soldi da spendere entro il 31 dicembre 2025, altrimenti li perdiamo. Eppure la creazione della rete delle colonnine procede a rilento. 

1) Manca una mappa nazionale dei punti di ricarica pubblici e, senza questa «ricognizione», è complicato pianificare le nuove colonnine legate ai bandi del Pnrr. Il ministero della Transizione ecologica si è impegnato a provvedere con un suo decreto entro metà marzo. 

2) Oggi può succedere di collegarsi a una colonnina che non ti ricarica l’auto perché appartiene a un operatore diverso da quello con cui hai fatto l’abbonamento. È indispensabile che gli operatori facciano accordi di interoperabilità.

3) Chi installa colonnine deve chiedere l’autorizzazione al Comune, ma i Comuni sono 8000 e vengono previste anche dove la corrente non arriva. Infatti, il 13% delle infrastrutture non è utilizzabile. I Comuni dovranno fare regolamenti con basi standard e coordinandosi con i gestori delle reti elettriche.

4) Sulle autostrade le infrastrutture di ricarica oggi sono solo 90. Una norma del 2018 prevede una colonnina ogni 50 chilometri, quindi un totale di 117 entro il 2023. Nessun concessionario però sta procedendo tramite gara, perché l’Autorità delle regolazioni dei trasporti nel maggio scorso si è presa nove mesi per definire gli schemi dei bandi. Sono ormai passati e, se si pensa che la concorrenza abbia effetti positivi, le gare devono essere obbligatorie.

5) I condomini: installare una colonnina di ricarica nelle aree comuni o nei garage è ancora molto complicato. Servono procedure che agevolino l’operazione. 

Gigafactory: l’Ue si attrezza

Oggi il 70% delle batterie sono prodotte in Asia e il 40% del valore aggiunto di un’auto elettrica sta proprio nella batteria. Il nuovo mercato delle batterie nell’Unione Europea è valutato in 250 miliardi di euro l’anno dal 2025 in poi. Boston Consulting group per Motus-e stima che il raggiungimento di una capacità produttiva di 740 GWh entro il 2030 possa portare a più di 60 mila nuovi posti di lavoro. Il 28 dicembre scorso, nello stabilimento di Skelleftea in Svezia, Northvolt Ett ha prodotto la prima batteria europea. Il mercato c’è e le maggiori case automobilistiche si stanno attrezzando per produrle, anche perché dal 2025 si preparano a sfornare auto elettriche in grandi numeri. In Europa la parte del leone la fa la Germania con progetti per 411 GWh di capacità produttiva installata. Bene stanno facendo Polonia e Ungheria che riescono ad attrarre investimenti anche da parte dei produttori asiatici. Importante: le batterie sono indispensabili anche per stoccare la produzione di energia rinnovabile e il business si allarga alla cruciale attività di riciclo e collaudo. 

Italia: politica industriale cercasi

Oggi l’unica certezza sono gli 8 GWh che sta cercando di installare Seri Industrial con il progetto Faam a Teverola (in provincia di Caserta), ma non si tratta di batterie per le auto, bensì per lo storage di energia domestico, industriale e per il trasporto pubblico. Al momento i dipendenti sono 120 e si intende arrivare a 800 entro il 2024. Il progetto Italvolt a Scarmagno, vicino a Ivrea, è ambizioso: 3,4 miliardi di investimenti, fino a 70 GWh l’anno, 2024 inizio produzione e 3.000 posti di lavoro. Al momento però non è ancora chiaro chi ci mette i soldi e chi comprerà le batterie prodotte. Stellantis prevede di assicurarsi una capacità produttiva finale di circa 260 GWh l’anno attraverso la realizzazione di 5 gigafactory in Nord America ed Europa. Nel nostro Paese ha promesso di costruirla a Termoli (Campobasso), ma non c’è ancora un ok ufficiale. Sulla carta anche Fincantieri progetta la realizzazione di una gigafabbrica a Piedimonte San Germano (Frosinone) per fare batterie al litio per auto, autobus e veicoli commerciali elettrici di nuova generazione. 

Intanto il tempo passa

Federmeccanica, Fim, Fiom e Uilm hanno fatto un appello al premier Draghi: «mettete in campo politiche industriali per aiutare la riconversione!». Vuol dire trovare meccanismi per finanziare gli investimenti: trasformare una fabbrica di carburatori diesel in una che produce moto elettriche richiede grandi capitali, che in Italia si fa fatica a trovare. Gli imprenditori per non chiudere devono darsi da fare da soli e senza sapere qual è la strategia-Paese sul medio periodo. Francia e Germania i piani per la transizione dell’automotive li hanno fatti dal 2019, mentre il nostro ministero dello Sviluppo economico veniva svuotato dei suoi esperti di politica industriale. Quando è nata Stellantis, sempre nel 2019, lo stato Italiano non è entrato nella compagine azionaria come ha fatto invece il governo francese. Ora il ministro Giancarlo Giorgetti dice che è colpa dell’Europa e dello stop al motore endotermico. Lo scorso dicembre, però, il comitato interministeriale per la transizione ecologica di cui Giorgetti fa parte, ha dato il via libera al «phase out» dal 2035. L’unica risposta al problema, per ora, è l’annuncio di un miliardo di euro nella rottamazione delle vecchie auto, ma una visione sul futuro dell’automotive non c’è.

Il litio geotermico: la risorsa che può cambiare la transizione. Andrea Muratore il 21 Luglio 2022 su Il Giornale. 

Il litio da fonti geotermiche può aiutare su più fronti la partita industriale della transizione energetica. Vediamo perché.

Sfruttare i flussi dell'energia geotermica per estrarre litio a basso impatto ambientale, muovendosi dunque sulla transizione in due fronti complementari. Questo l'ambizioso progetto che più attori in Europa stanno portando avanti muovendosi alla ricerca di soluzioni innovative per mobilitare risorse per la transizione energetica in forma originale e aumentare l'accesso dell'Occidente al litio, materiale strategico per diverse industrie, prima fra tutte quella delle batterie per le auto elettriche, ad oggi dominata dalla Cina.

Secondo uno studio del U.S. Geological Survey, il litio non è propriamente un materiale raro su scala globale: la disponibilità di riserve su scala globale è stimata essere pari a 86 milioni di tonnellate. “Nonostante le risorse attuali siano di gran lunga superiori alla domanda prevista" per raggiungere gli obbiettivi di transizione fissati entro 2050 si renderà necessario "aumentare l’estrazione di litio di 10 volte nei prossimi dieci anni", fa notare Nature. E questo crea indubbi problemi negli scenari in cui il litio è maggiormente ricercato: "Le risorse primarie di litio attualmente sfruttate si trovano per il 26% nelle rocce dure (graniti, apliti e pegmatiti) e per il 58% nelle salamoie a bacino chiuso, le cosiddette Salar, quei deserti salati delle Ande cilene, boliviane e argentine dove l’acqua dei laghi salati sotterranei (salamoia) viene pompata in superficie e fatta evaporare in grandi vasche", nota Renewable Matter. Il processo di estrazione del litio comporta consumi di colossali quantità di acqua e problemi per la gestione dei lavoratori, sottoposti a turni pesanti e forte pressioni in contesti come quello della Bolivia o del Perù.

In diversi contesti, dalla California alla Cornovaglia, sono però allo studio processi di sfruttamento dell'energia geotermica per ottenere quote crescenti di litio. Dato che il litio si trova combinato con minerali e sali in natura, non deve stupire che nelle aree in cui sono concentrate le fonti di calore geotermiche esso abbondi. Un singolo impianto di energia geotermica può, dunque, dare il suo contributo nel produrre elettricità, riscaldamento, raffreddamento e materie prime come il litio, con un processo a zero emissioni di carbonio e basso impatto sfruttando il pompaggio in superficie direttamente dagli impianti. Separato dal litio, il resto del brine geotermico, consistente spesso in concentrazioni di acque salate ad una temperatura in genere tra i 100 e i 300°C, può essere riammesso nell'impianto.

Rafforzare questa capacità di sfruttamento dell'estrazione di litio sarebbe una via chiave per sviluppare la transizione in forma autonoma anche in Europa. Secondo quanto ha fatto notare in un rapporto la EGEC (European Geothermal Energy Council), il 25% del fabbisogno europeo di litio nel 2030 potrebbe essere soddisfatto dagli impianti europei. La Vulcan Energy Resources ha lanciato il piano Zero Carbon Lithium in lizza per ottenere un finanziamento da 2,25 miliardi di euro alla Banca Europea di Investimenti. E come riporta Il Messaggero, "l’area geotermale più grande d’Europa si trova lungo il Reno, a cavallo tra la Francia e la Germania. Se si punta un compasso, nel raggio di 3 ore di macchina ci troviamo nelle più grandi aree dell’industria automobilistica europea e dove stanno già sorgendo le gigafactory che entro il 2030 porteranno l’Unione Europea a produrre batterie per 500 GWh, 30 volte il volume attuale". In questa partita anche l'Italia può entrare in campo.

Sono due in particolare le zone ad alta produzione geotermia in Italia e si trovano entrambe in Toscana: il triangolo Larderello-Travale-Radicondoli e il Monte Amiata. Ma dai Colli Euganei in Veneto alla regione delle Eolie, dai Campi Flegrei alle Prealpi, per arrivare alle aree siciliane di Alcamo e Sciacca sono molte le zone in cui fonti di calore terrestre note fin dai tempi antichi potrebbero giocare un ruolo se venissero sfruttate per la transizione. Aumentando l'impatto italiano ed europeo in mercati strategici e riducendo la dipendenza dall'estero del Vecchio Continente. Dunque giocando un ruolo virtuoso in una fase in cui la corsa al litio è tra i maggiori determinanti della geoeconomia globale.

La Cina ha in mano quasi tutto il litio del mondo. La tecnologia e le materie prime per le batterie sono nelle mani di Pechino, da cui produttori di auto elettriche dipenderanno nei prossimi decenni. Uno scenario che però si continua a sottovalutare. Eugenio Occorsio su L'Espresso l'11 luglio 2022.

Qual è il sottile filo rosso che lega due affermazioni rese negli ultimi giorni a migliaia di chilometri di distanza? Ecco le frasi: «I cinesi, nella loro millenaria saggezza, hanno saputo posizionarsi per tempo. Nell’auto, come in generale, il centro di gravità del mondo si sta spostando verso Est» (Luca De Meo, amministratore delegato della Renault, intervistato dal Sole 24 Ore).

Alluminio, litio e zinco: la Cina fa maxi-scorte per l’auto elettrica. Fabio Savelli su Libero Quotidiano il 29 giugno 2022

Abbiamo perso lo zinco, in Europa è ormai introvabile. L’alluminio è ai minimi storici, meno di 20mila tonnellate depositate nei magazzini. ll rame è tutto cinese, visto che Pechino detiene il 93% delle scorte mondiali. Sul litio, necessario per le batterie destinate ad aumentare per la spinta dell’auto verso l’elettrico, la distribuzione globale è più omogenea ma la Cina si è posizionata a monte del settore della raffinazione (e dell’estrazione) avendo strappato una buona parte delle concessioni di chi questi metalli li ha per natura: Africa ed America Latina. Ma quel che preoccupa davvero la Ue è quello che sta avvenendo a Londra. Spiega l’esperto di terre rare Gianclaudio Torlizzi che «il livello delle scorte di metalli nei magazzini del London Metal Exchange continuino a mostrare un livello critico. Nei primi quattro mesi dell’anno si è assistito a un calo di 479 mila tonnellate».

È la piattaforma di negoziazione per i metalli. E per l’alluminio sta avvenendo quello che è avvenuto qualche mese fa per il nichel, col rischio che il prezzo nel giro di qualche settimana possa esplodere verso l’alto per la straordinaria carenza del mercato. Nelle ultime settimane si registrano ingenti afflussi di metallo nei magazzini di Singapore e Malesia. Anche gli Stati Uniti sono in difficoltà, visto che gli stock sono in calo da 18 mesi scesi al minimo di sempre: 22.339 tonnellate. La migrazione delle scorte di metallo verso l’Asia si è amplificata negli ultimi due anni complice la pandemia che ha innescato una forte domanda da parte della Cina. Secondo le stime della banca d’affari Jp Morgan «il livello complessivo di scorte di commodities a livello mondiale — metalli, ma anche beni agricoli — è sceso ad appena 51 giorni di consumo nel mese di maggio», analizza Torlizzi.

Negli ultimi giorni si è aperta una competizione sfrenata in Argentina e Cile. Alcuni imprenditori italiani, che hanno ottenuto in concessione una miniera di litio al confine col Perù, raccontano sotto anonimato i ricavi da capogiro di questi giorni sul metallo fondamentale per le batterie con vere proprie aste al rialzo tra cinesi e giapponesi. Il governo di Tokyo sta correndo ai ripari visto la sua sofisticata filiera di costruttori auto. Lo switch all’elettrico consegna l’industria occidentale nelle mani di Pechino e non è un caso che Bruxelles stia ragionando per una transizione più morbida. La Cina è già da tempo il primo fornitore di materie prime critiche in Europa (44% del totale) e principale esportatore dell’Ue di terre rare (98%). Cifre che ne fanno il monopolista livello mondiale (66%). La Casa Bianca ha individuato nell’Australia il polo alternativo. Ma è chiaro che l’Europa debba potenziare più gli investimenti sul riciclo perché quei metalli ci sono già tutti sulle nostre auto, i nostri elettrodomestici, i nostri pc.

Un recente studio Ambrosetti calcola che dai rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche si possono ricavare oltre 55,5 milioni di tonnellate materie prime critiche. Quando si parla di neutralità tecnologica (e di fonti di alimentazione) non si può non pensare all’idrogeno. Ma anche qui c’è da poco da festeggiare: «Pechino ricopre una posizione ultra-dominante anche nel settore degli elettrolizzatori », denuncia Torlizzi. Occorrerebbe pensare ad acquisti centralizzati europee di metalli rari. E a costruire alleanze commerciali col Sud America. Solo la Bolivia ha giacimenti di barite, bismuto, bentonite, acido borico, cemento, rame, oro, gesso, salgemma e tantalio.

OLTRE LE TENSIONI IN UCRAINA. L’industria della ceramica è a rischio per la crisi energetica. RACHELE GONNELLI su Il Domani il 13 febbraio 2022

Anche se le tensioni geopolitiche sull’Ucraina si calmassero, i prezzi del gas rimarrebbero record per la necessità di rianimare le scorte strategiche europee, sostiene un recente studio. In questo quadro soffre l’industria della ceramica tra i comparti più energivori insieme a piscine e acciaierie.

Dal distretto di Sassuolo e Modena a Confindustria, l’allarme degli imprenditori che, dopo le aziende metalmeccaniche, insieme ai sindacati hanno scritto al governo per chiedere un tavolo di confronto sulla dipendenza dal metano e l’impiego delle risorse del Pnrr.

Secondo Legambiente, limitare la dipendenza dal metano, ora all’80 per cento della bolletta energetica nazionale, renderebbe più compatibili le necessità degli energivori e inoltre «servirebbe a depotenziare le tensioni del gioco geopolitico, a evitare il riarmo e le guerre». RACHELE GONNELLI.

Perché l’Italia paga l’elettricità più cara del mondo. Il rincaro delle bollette sta colpendo sempre di più aziende e cittadini. E c’è un motivo…Franco Battaglia su Nicolaporro.it il 16 Febbraio 2022

Per comprendere perché l’Italia ha il costo del kWh elettrico più alto del mondo basta osservare e commentare due istogrammi che confrontano il mix di produzione elettrica del mondo e dell’Italia.

Cosa fa il mondo 

Come ben si vede, la prima fonte elettrica è il carbone, che contribuisce per oltre un terzo. Il carbone è un combustibile abbondante, facilmente trasportabile ed economico. È questo che abbassa, ove possibile, il prezzo della produzione elettrica. Gli impianti a carbone non sono sofisticatissimi come quelli nucleari e bisogna solo aver l’accortezza di contenere le emissioni nocive, principalmente composti solforati e polveri sottili. La cosa si può fare e quindi è, esso, il combustibile ideale, soprattutto per i Paesi tecnologicamente meno avanzati.

Una volta al secondo posto dopo il carbone c’era il petrolio. Ma presto ci si è resi conto che bruciare petrolio per produrre elettricità sarebbe come bruciare nel caminetto il salotto in stile Luigi XIV. Il petrolio è prezioso per mille altre cose, per l’industria petrolchimica in particolare, e quasi nessuno (se non probabilmente quei Paesi che nuotano nel petrolio) lo usa più se non per quella e per l’autotrazione. Comunque sia, esso è utilizzato ancora per un 5%, ma si farebbe bene ad eliminarlo per la produzione elettrica: è una cosa troppo stupida da fare.

L’importanza del gas naturale

Al secondo posto vediamo che c’è il gas naturale. Il mondo ha una cinetica molto vischiosa prima di pervenire alla conclusione che fa cose stupide. E stupidissimo assai è proprio questo uso smodato del gas, che soddisfa quasi un quarto alla produzione elettrica. Il fatto è che è un gran peccato usare anche il gas a questo scopo: esso andrebbe riservato all’autotrazione. Siccome le turbine a gas hanno il vantaggio di avviarsi rapidamente, il loro uso per i momenti di picco della domanda elettrica è il massimo che la ragione consentirebbe, soprattutto per i Paesi poveri di idroelettrico (altra tecnologia con impianti veloci  a mettersi in moto). Alla fine, il contributo del gas non dovrebbe superare il 5-10% del fabbisogno mondiale d’elettricità. Comunque sia, accontentiamoci: il mondo non è perfetto.

Il contributo dell’idroelettrico è poco meno di un quinto e ci può stare. Ove fosse possibile aumentarlo, meglio, sennò pazienza. Quel 10% di nucleare, invece, dovrebbe decisamente essere aumentato. Basti pensare che in Francia contribuisce per oltre il 70% e in Europa per oltre un buon 27%. L’ideale sarebbe: 35% carbone, 35% nucleare, 20% idroelettrico e 5% gas. Il resto da rifiuti solidi urbani, geotermia, e fonti minori. Non sono, questi numeri, cassazione, ma credo di aver reso l’idea sulla teoria auspicabile. I numeri del mondo reale sono, nello stesso ordine: 34%, 10%, 17% e 23% (e 3% di fonti convenzionali minori). C’è anche un 10% di inutile eolico e fotovoltaico, ma pazienza. Il fatto è che: carbone, idroelettrico e nucleare contribuiscono nel mondo per il 61%.

Cosa fa l’Italia?

Ecco qua cosa fa. 

1. Il gas – che la logica vorrebbe contribuisse per non più del 10% e che nel mondo contribuisce al 23% – in Italia contribuisce al 46%.

2. Il carbone – che la logica vorrebbe contribuisse per almeno il 30% e che nel mondo contribuisce al 34% – in Italia contribuisce al 5%.

3. Di nucleare – che la logica vorrebbe contribuisse per almeno il 30% e che nel mondo contribuisce al 10% – l’Italia fa un uso, per così dire, negativo, visto che lo importa per il 15% del fabbisogno elettrico.

4. Eolico e fotovoltaico – che la logica li vorrebbe banditi dalla produzione elettrica e che nel mondo contribuiscono meno del 10% – in Italia contribuiscono per il 16%.

Di fatto, al di fuori di ogni razionalità e anche di ogni prassi, siamo legati mani e piedi ad una sola fonte: il gas. Che, per di più, usiamo anche per gli usi residenziali di riscaldamento e domestici in cucina. Insomma siamo inguaiati. E lo siamo da quando la questione energetica è stata tolta dalle mani dei tecnici ed è stata posta nelle mani degli economisti, da un lato, e dei Gretini d’ogni credo e fede, dall’altro.

Franco Battaglia, 16 febbraio 2022

La vera "bomba" sulla transizione. Andrea Muratore l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'inquinamento in Europa costa sempre di più alle imprese, e la spesa per i permessi del mercato Ets sottrae risorse alla transizione energetica. Un collo di bottiglia su cui può bloccarsi la ripresa dell'economia occidentale.

La transizione energetica non decolla, i prezzi delle materie prime tradizionali e delle fonti fossili sono ai massimi e anche i permessi di inquinamento nel Vecchio Continente stanno registrando un prezzo senza precedenti.

L'8 febbraio 2022 il prezzo dell'Emission Trading Scheme (Ets) dell'Unione Europea si approssimava ai 97 dollari per tonnellata di emissione, un valore del 153% superiore rispetto a un anno prima. Il valore supera di oltre sei volte i dati di quattro anni fa. Tale rally rischia di alimentare lo tsunami energetico ed inflativo e di tagliare le gambe al piano di sviluppo della transizione energetica, inficiando notevolmente la possibilità di procedere nelle tabelle di marcia previste sul piano Fit for 55, sullo sviluppo economico-industriale di strategie per la transizione e sulla regolazione dei mercati energetici del futuro.

L'Unione Europea prevede un calo tra il 41 e il 48% delle emissioni con base 1990 per il 2030 e tra il 55 e il 62% entro il 2050, ma per ora non si vede grande differenza rispetto al passato per il collo di bottiglia in cui le politiche energetiche si sono infilate. Il gas costa come non mai, il petrolio sfiora i 100 dollari al barile, la bolletta elettrica delle imprese e delle famiglie europee è al massimo, i lockdown produttivi sono sempre più una realtà e sempre meno un'ipotesi teorica. E questo crea situazioni imbarazzanti: i produttori delle aziende energivore si trovano tra i due fuochi del costo crescente delle fonti tradizionali e delle necessità di investimento che la transizione richiede; i governi devono conciliare strategie industriali volte a ricercare efficienza e fonti a minore impatto a conti salatissimi per frenare la crisi energetica; inquinare costa sempre di più ma questo non libera risorse per operazioni di più ampio respiro.

Da quando in primavera l’Unione Europea ha iniziato ad annunciare le strategie che, mediando tra pragmatismo e ideologia, hanno avviato il Green New Deal, come i “dazi verdi” proposti per colpire le nazioni che in questa fase storica hanno standard ambientali più labili e il piano Fit for 55 con annesse strategie di fuoriuscita dalle energie fossili, i carbon permits hanno iniziato a decollare nelle quotazioni. A maggio hanno sfondato per la prima volta il costo di 50 euro per tonnellata, a inizio settembre hanno toccato i 60. Già allora la situazione sembrava decisamente insostenibile, ma poi è degenerata: il 30 novembre è stata doppiata quota 70, il 13 gennaio il valore ha superato gli 80 euro per tonnellata. Infine, il 4 novembre la nuova salita sopra i 90 dollari a tonnellata: ciò può portare a un nuovo record il risultato stabilito nel 2021, che ha visto un livello senza precedenti della spesa sostenuta dalle aziende energivore dell'Ue per commerciare i permessi ad inquinare nel quadro del mercato comune delle emissioni. Refinitiv ne ha stimato il valore in 683 miliardi di euro, il 90% del totale globale, nel 2021, in un contesto che ha visto il valore globale salire a 764 miliardi (+164% su base annua).

Dalla siderurgia alla logistica, dall'energia alla manifattura, dallo shipping al trasporto aereo i settori colpiti dal volo degli Ets sono innumerevoli, e questo non fa altro che alimentare la spirale inflativa su cui la ripresa economica occidentale può minacciare di avvitarsi. La transizione energetica rischia di essere travolta e colpita duramente da questa tematica scottante, che segnala un potenziale shock: la folle corsa del mercato Ets rende nel breve periodo più costoso per ogni operatore economico inquinare, appesantendo alle imprese il fardello dell’acquisto dei permessi, sottraendo di conseguenza risorse agli investimenti in transizione e sviluppo sistemico di nuove tecnologie, reti, forme di alimentazione, rallentando in sostanza il percorso verso la decarbonizzazione. Se non fermata alla base, questa dinamica accelerata da una retorica ambientalista poco concentrata al lato pragmatico può risultare un macigno insostenibile per le economie avanzate dell'Europa.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Caro energia: la tempesta perfetta ferma le imprese. Gli aumenti record di elettricità e gas costringono sempre più aziende a spegnere le macchine. Così la crisi minaccia la ripresa italiana. Piccole e medie sono le più colpite. I produttori chiedono nuovi aiuti al governo ma senza interventi strutturali il Paese resta esposto agli shock. Valentina Conte,  Luca Pagni,  Paolo Possamai su La Repubblica il 9 febbraio 2022.  

«Siamo nella morsa di una tenaglia». Lo dice con un sospiro, per averlo ripetuto troppo spesso negli ultimi mesi. Da imprenditrice a capo dell’azienda di famiglia - Pasta Granoro, uno dei marchi più noti dell’alimentare italiano – Marina Mastromauro è abituata a non abbattersi, a trovare sempre un modo per superare le difficoltà. Ma in una situazione simile non si era mai trovata: «Il prezzo del gas è triplicato, la bolletta dell’elettricità salita del 150 per cento, la materia prima del 120: eccola la tenaglia.

Francesco Bisozzi Laura Larcan per "il Messaggero" il 10 febbraio 2022.

Il caro bollette prosciuga le piscine, mette in ginocchio alberghi e ristoranti, colpisce le funivie e i piccoli negozi e non risparmia nemmeno il sushi. Risultato? Gli imprenditori, da Nord a Sud, o chiudono o mettono in atto piccoli stratagemmi, dalle luci a led ai blackout mirati ai cambi di fornitori ogni tre mesi, per superare il caro energia. Fabio Acampora, tra i fondatori dei ristoranti argentini El Porteño di Milano e Roma, spiega: «Nell'ultimo trimestre del 2021 abbiamo registrato aumenti per luce e gas del 30 per cento, così adesso stiamo installando nei nostri locali solo lampadine a led. Inoltre abbiamo ingaggiato un consulente per l'energia, per sfruttare il mercato libero e cambiare fornitore appena conviene».

Ma a soffrire non sono solo i ristoranti. Le piscine, per esempio, pagano un prezzo altissimo. Roberto Cognonato, a Treviso, gestisce due impianti. «L'energia oggi incide sulle spese di gestione di un impianto come il nostro per il 50 per cento, mentre prima l'asticella si fermava al 30 per cento. Finora abbiamo pagato puntualmente le bollette, ma dal mese prossimo avremo dei ritardi: da noi a dicembre i costi per l'energia sono schizzati a 40-45mila euro, in pratica sono raddoppiati». 

Da Milano a Treviso a Roma. In affanno gli alberghi. Walter Pecoraro, proprietario dell'hotel Cosmopolita, a due passi dal Pantheon, ha visto le spese per l'energia aumentare del 300 per cento negli ultimi quattro mesi. «A dicembre abbiamo pagato per la luce circa 40mila euro, però al momento abbiamo solo 5 camere occupate», racconta l'imprenditore, «per contenere i costi siamo costretti a spegnere gli impianti nei piani che non risultano occupati». 

Spegnere o chiudere. È questo il dilemma. Firenze: Aldo Cursano, proprietario del ristorante giapponese Kome, il 3 gennaio scorso ha deciso di abbassare la serranda. «Abbiamo una superficie di 150 metri quadri, 150 posti a sedere, di cui di questi tempi ne viene occupato appena un terzo nei weekend, mentre la bolletta dell'energia è passata da 3mila euro a 5.500 euro mensili». 

Anche funivie. Fa il punto Valeria Ghezzi, presidente Anef, a capo degli impianti sciistici della Tognola a San Martino di Castrozza. «Nel nostro caso la bolletta è passata da 100mila a 230mila euro. Anche gli impianti di innevamento presentano costi tripli rispetto a dodici mesi fa, sono aumentati del 30% per effetto del caro energia, parliamo di 20mila euro a ettaro».

«Caro bollette? Un dramma». Leonardo Spadoni, fornaio, è il titolare del Panificio Spadoni sulla Laurentina, e presidente dei Panificatori: «Abbiamo visto salire le bollette di energia e gas dopo novembre, numeri raddoppiati rispetto all'anno precedente, ma a fronte di stessi consumi. Gli incassi si sono ridotti, il nostro lavoro si è contratto del 30%». Un'impresa attiva da 36 anni con dieci dipendenti, Spadoni è allarmato: «Noi siamo artigiani e i nostri dipendenti sono come familiari. Mantenere tutti diventa complicato. Trovarci così è la peggiore condizione che ci potesse regalare questo periodo».

Daniela Taverna è la titolare della Maison Bau, centro benessere e club per cani in via Carlo Felice, un'impresa nuova aperta con tanta passione prima del Covid, e che ora deve fare i conti con il caro-energia: «L'ultima bolletta di gennaio è stato un vero choc, perché è aumentata di circa il 30%. Nel mese di dicembre, tra quarantene e restrizioni, abbiamo avuto un calo di presenze notevoli. E un rincaro di bollette così rilevante a fronte di un'attività contenuta, ora, mi fa paura, perché ha un impatto importante in termini di rischio economico. E sì che noi facciamo un'attività nuova per Roma. Non solo la toletta, ma anche asilo per cani, per residenti e per turisti, in partnership con hotel che vogliono essere pet friendly».

Paola Marchetti, è la titolare di Carucci 1902, storico negozio di pelletteria del Centro, in via Ripetta: «È da giungo che assisto ad un aumento delle bollette. Oggi è arrivata l'ultima: è quasi raddoppiata. Il problema è che non è un fattore isolato, perché il raddoppio delle spese energetiche va a sommarsi ai rincari sulla merce, sulle spese dei nostri fornitori, sul carburante. Tutto un sistema che grava sul prodotto finito. Per me allora diventa sempre più difficile far accettare al cliente certi prezzi. Insomma, siamo molto preoccupati. Nel 2020 abbiamo avuto già un calo del 57% del lavoro rispetto al 2019, e la mancanza di turismo contribuisce. Ora le bollette...».

Fa vedere i conti di novembre scorso, Marco Coppola, amministratore di Yellow Bar in via Palestro: «Caro bollette? Io ho avuto un aumento del 260 per cento sul fronte energetico e del 125 per cento per il gas. La situazione è critica. Quello che ci dispiace è che con l'arrivo della primavera e dell'estate, quando entriamo nella cosiddetta alta stagione, rischiamo di dover rivedere i prezzi al cliente. Un peccato. Per questo ci aspettiamo ora un intervento da parte del governo».

Caro Bollette: le imprese che chiudono perchè produrre è troppo costoso. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.  

La botta arriverà adesso: nel primo trimestre 2022 le bollette di casa di elettricità nel mercato tutelato aumenteranno del 55%, e quelle del gas del 41,8%. Per le famiglie italiane, rispetto al 2021, si traduce in aggravio di spesa media di 334 euro in più per l’elettricità, e 610 euro per il gas.

Il gas naturale è la materia prima che sul mercato europeo ha subito i maggiori rincari nel 2021

Il gas: più 423%. Perché?

Il gas naturale è la materia prima che sul mercato europeo ha subito i maggiori rincari nel 2021: da 19 centesimi al metro cubo a oltre 90 (+423%). La causa è un insieme di fattori. Il primo è dovuto ad un aumento della domanda: dopo i lockdown le imprese sono ripartite tutte insieme, e degli stoccaggi europei ai minimi storici dal 2013. Secondo: minor produzione di energia eolica nel Mare del Nord perché il riscaldamento globale ha portato meno venti del solito, e nel terzo trimestre 2021 si è sfruttato solo il 14% della capacità eolica installata. Anche la Germania, che è il maggiore produttore europeo, ha registrato un calo annuo del 16%. Di conseguenza le centrali termoelettriche hanno dovuto aumentare il consumo di gas. Terzo: nel quarto trimestre del 2021 la Russia ha ridotto le forniture del 25% rispetto al 2020, e in Italia di un ulteriore 43% tra dicembre e gennaio. Colpa delle tensioni tra Mosca, Ucraina e Nato, ma ci sono di mezzo anche le pressioni per l’apertura del Nord Stream 2. Il nuovo grande gasdotto che raggiunge direttamente la Germania saltando i Paesi dell’area ex sovietica, e non ancora in funzione perché il governo tedesco è spaccato al suo interno (i verdi non lo vogliono). 

Una spinta al rialzo che ha messo in moto anche gli speculatori. Il prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso è cresciuto perché è legato al mercato del gas, e dovendo aumentare la produzione utilizzando il gas, devono compensare le maggiori emissioni con l’acquisto di crediti di CO2 sul mercato, che sono passati da 33 a 79 euro alla tonnellata. E così nel mese di dicembre il prezzo dell’energia elettrica è arrivato a 288 €/MWh, dai 61 di inizio anno (+372%). 

In Europa l’Italia è la più penalizzata

L’Italia è più penalizzata perché il 42% del consumo totale di energia è prodotto con il gas, contro il 28% del Regno Unito, il 26% della Germania (che usa molto carbone), il 23% della Spagna (che si affida di più al petrolio) e il 17% della Francia (che conta sul nucleare). Siamo indietro anche sulle rinnovabili (sole e vento), che da noi rappresentano l’11% del consumo energetico totale: meglio dell’8% in Francia, ma peggio del 18% della Germania 18%, del 17% del Regno Unito e del 15% della Spagna. 

Gli effetti concreti

I più esposti ai rincari sono i settori energivori: acciaierie, ferriere, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta. Per queste imprese l’energia pesava parecchio sui costi totali già prima degli aumenti: l’8% nella lavorazione di minerali non metalliferi (cemento, ceramica), l’11% nella metallurgia, il 14% nella chimica, il 5% nella lavorazione della carta e del legno e nella la gomma-plastica. La Btt di Brescia, che tratta acciai ad alta temperatura per renderli più resistenti, fino a settembre pagava 180 mila euro al mese di gas, a dicembre il costo è salito a 873 mila euro. La Fornace di Fosdondo che produce mattoni a Correggio, azienda rilevata nel 2016 dai suoi dipendenti che l’hanno tenuta in vita fondando una cooperativa, ha visto il costo del gas passare dai 53 mila euro di gennaio 2021 ai 161 mila di dicembre e quello dell’elettricità da 33 mila euro a 68 mila euro. Ma gli aumenti schiacciano anche negozi, centri commerciali, cinema, teatri, discoteche, lavanderie, parrucchieri, estetiste; pesano sul turismo (alberghi, bar e ristoranti); trasporto e logistica; alimentare (pastifici, prosciuttifici, panifici, molini). Un negozio con un consumo annuo 75 mila kw ora vede crescere la bolletta elettrica da 13 mila a 19 mila all’anno e un ristorante (100 mila kw ora in un anno) passa da 19.500 a 28 mila. Per un albergo che consuma 260 mila kw ora la bolletta elettrica annuale cresce da 45 a 65 mila e quella del gas da 11 mila a 19 mila. Anche il settore alimentare è toccato: il caro-gas si riflette sul costo dei fertilizzanti (che aumentano dal 65 al 143%) e sul riscaldamento delle serre, mentre il caro-luce ha aumentato i costi di produzione degli imballaggi: dalla plastica ai vasetti in alluminio e vetro, fino al legno dei pallet per i trasporti e alla carta per le confezioni ed etichette dei prodotti. 

Le aziende che si sono fermate

Chi prima dell’estate scorsa possedeva un contratto a tariffa fissa si è in parte salvato, ma chi l’aveva a tariffa variabile non ha avuto scampo. La prima reazione è stata quella di limitare la produzione allo stretto necessario, rallentare nei reparti che consumano più energia, chiedere ai dipendenti di lavorare nel weekend o di notte, quando l’energia costa meno. Le aziende con i magazzini forniti hanno optato per la chiusura temporanea della produzione con la messa in cassa integrazione del personale. È successo in Sardegna, alla Portovesme Srl: ha fermato la produzione di zinco e messo 400 dipendenti in cassa integrazione. Si è fermata per 40 giorni la Fonderie Torbole spa nel bresciano: 200 lavoratori in cassa integrazione. Produzione ridotta già da fine anno, con sospensione nelle due o tre ore più costose al giorno, alla Feralpi: due acciaierie nel Bresciano, un laminatoio nel Lecchese. La Gardiplast di Scorzè, che stampa da trent’anni materie plastiche, ha deciso in accordo con i propri dipendenti, di aumentare i turni di notte e di investire in progetti a basso consumo energetico. La Cartiera del Vignaletto di Zevio, Verona, ha visto la bolletta del gas passare a 300 mila a 1,3 milioni. Dal ’66 non aveva mai messo nessuno in cassa integrazione, da fine anno però, lavora in perdita e ha preso ordini fino a febbraio, poi si vedrà. Si è fermata per sei settimane anche la produzione di ammoniaca della Yara nel polo chimico ferrarese, che ha scelto di dirottare i 140 lavoratori dell’azienda sui lavori di manutenzione, nel presidio per la sicurezza e in percorsi di formazione. Il paradosso è che molte imprese hanno registrato una quantità di ordini che non si vedeva da 10 anni, ma evadere le commesse è diventato troppo costoso. 

L’intervento del governo

Per mitigare gli aumenti il governo Draghi ha approvato, da luglio 2021 a gennaio, tre misure pari a 10,2 miliardi di euro: 5,4 sono andati ad abbattere gli oneri di sistema della bolletta elettrica per piccole imprese e famiglie; 2,076 a portare l’Iva al 5% sulle loro bollette del gas; 800 milioni solo sulle utenze domestiche; 1,362 di bonus gas ed elettrico per le famiglie vulnerabili; e infine 540 milioni di sgravi sulla bolletta elettrica delle grandi aziende. Una cifra significativa, ma che rappresenta appena il 10% dei costi addizionali in capo a famiglie e imprese per il 2022: secondo la Cgia di Mestre, infatti, i rincari delle bollette italiane ammonteranno a 30,8 miliardi in capo alle famiglie e 58,9 per le imprese. In Francia, per fronteggiare l’aumento dei prezzi energetici Emmanuel Macron ha imposto a Edf, la società elettrica pubblica francese, di cedere una quota ulteriore di produzione nucleare a prezzo calmierato e di differire gli aumenti delle tariffe elettriche regolate. Il governo, di suo, ha poi messo in campo un taglio alle tasse sul consumo di elettricità di 8 miliardi di euro per famiglie e piccole imprese. Senza questi interventi i prezzi sarebbero aumentati del 35% e, invece, dal 1 febbraio l’aumento è di appena il 4%. 

Chi ci guadagna?

Il primo produttore di energia elettrica del Paese è Enel, con il 16% del mercato e lo Stato come azionista di controllo. Enel ha appena comunicato di aver chiuso il 2021 con una crescita dei ricavi di 22,3 miliardi di euro: il 33,8% in più sul 2020. Crescono anche i margini operativi lordi: da 18 a 19,2 miliardi (+6,7%). Ancora meglio va a chi produce l’energia elettrica senza l’ausilio del gas. La Borsa dell’energia elettrica infatti è regolata da un sistema che fissa i prezzi sulla base delle quotazioni del gas. Se queste aumentano, a guadagnare di più, molto di più, sono le centrali che usano un mix di carbone, gasolio, olio, idroelettrico e fotovoltaico, perché hanno costi di gran lunga inferiori rispetto a quelli degli impianti a gas. Guadagni che, però, nessuno intende ridurre per calmierare le bollette. 

A2A, gruppo quotato in borsa e controllato dai comuni di Milano e Brescia, ha chiuso il terzo trimestre dell’anno con una crescita del 34% dei ricavi e del 17% dei profitti. Enel, che controlla la spagnola Endesa, è stata sulle barricate contro la decisione del governo Sanchez che a settembre aveva varato una tassa di 5 miliardi di euro sugli extra profitti delle società del settore energetico, poi ritirata nel giro di poche settimane per le proteste dei grandi produttori colpiti dal prelievo. 

500 mila posti di lavoro a rischio

Confindustria chiede al governo maggiori esenzioni fiscali sulle bollette per i settori della manifattura e di separare i costi dell’elettrico da fonte rinnovabile rispetto a quello prodotto col gas. Confartigianato sollecita una distribuzione più equa degli oneri di sistema legata all’effettivo consumo di energia, limitando le agevolazioni alle sole aziende che hanno realizzato interventi di efficienza energetica. Tutti, poi, sollecitano l’aumento della produzione nazionale di gas, per essere meno taglieggiati dalle importazioni. 

Il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani presenterà a breve un piano sull’attività ricerca di gas entro i confini italiani, ma solo per favorire la decarbonizzazione, e con l’obiettivo di chiusura definitiva dei giacimenti, in linea con le direttive europee di emissioni zero. Intanto se i prezzi rimarranno tali, il Centro Studi Confindustria ha calcolato che nel primo trimestre la crescita sarà di uno 0,8% in meno sul previsto. La Cgia di Mestre ha invece calcolato le ricadute nei settori più energivori: su 1,8 milioni di occupati, i posti di lavoro a rischio sono 500 mila.

Carburanti in volo: perché la crisi è preoccupante. Andrea Muratore il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il boom dei carburanti riguarda sia le fonti tradizionali che quelle a minore impatto ambientale e maggiore resa energetica. E questo è un problema.

Il prezzo dei carburanti è in volo: in tutta Italia, gli ultimi mesi hanno portato a un rincaro generalizzato ei prezzi alla pompa tanto dei principali carburanti basati su fonti fossili quanto di quelli ritenuti utili per una transizione verso fonti meno impattanti. L'ultima rilevazione settimanale del ministero della Transizione ecologica sul prezzo dei carburanti ha, sul primo fronte, accertato che il costo di benzina e diesel aumenta senza sosta in maniera inesorabile e ha tocca livelli record che non si registravano dal settembre del 2013. Da quando, cioè, andava ad esaurirsi il superciclo delle materie prime che sarebbe terminato su scala globale nel 2014.

Il costo del carburante oscilla, dipendendo da ciò che è stato fissato dai diversi marchi, tra 1,776 e 1,797 euro a litro. Mentre anche il prezzo del diesel è salito, raggiungendo 1,654 euro/litro (venerdì scorso era 1,645) con le compagnie posizionate tra 1,653 e 1,666 euro/litro (no logo 1,639). Una crescita sensibile e sistemica che ha pochi precedenti e va in controtendenza con un trend di relativa stabilizzazione della "materia prima", il petrolio, ma interiorizza le tensioni e l'aumento di costi legati al servizio, alla distribuzione e al trasporto. Del resto la materia prima incide sul costo del carburante per appena un terzo. Dal personale alla manutenzione delle strutture ai retailer restano in capo una quota consistente di costi che si sommano all'aumento delle spese non fisse di questo ultimo periodo.

Secondo l’Unione nazionale consumatori per i contribuenti l’aumento dei costi dei carburanti si sostanzierà in una stangata da 363 euro per la benzina e da 361 per il gasolio. Questo potrebbe rendere più conveniente i carburanti ibridi o meno impattanti? Ancora presto per dirlo.

Metano e Gpl sono a loro volta in volo. Nel corso del 2021 e nel primo mese del 2022 il trend dei prezzi dei due gas ha indicato aumenti costanti: per il primo in alcune città (ad esempio Firenze) il prezzo è raddoppiato, sfiorando i due euro al litro, e il GPL fa registrare aumenti del 30% , passando da 0,632 euro al litro del gennaio 2020 ad un prezzo medio di 0,816 euro al litro a gennaio 2022. Secondo AutoMoto, in quest'ottica, "i margini di convenienza per il metano, se i prezzi dovessero rimanere gli attuali" si sono "fortemente ridotti", complice il fatto che "il Governo, che ha annunciato interventi sulle bollette per ridurre la stangata energetica, non ha esteso questi benefici (come la riduzione dal 22 al 5% dell'IVA) per l'autotrazione, dimenticata anche dagli incentivi per la transizione ecologica". Il metano conviene relativamente ancora, anche se il costo delle auto rischia di venire a gravare su questo margine di sicurezza.

Il Gpl ha ricevuto un relativo margine di respiro dato che dopo la chiusura del 2021 con un ulteriore aumento del 4,4% dal 1° dicembre, dal 1° gennaio 2022 le tariffe di base del Gpl sono scese invece per le reti urbane del 7,8% sulla scia del calo dal 1° dicembre dei prezzi di contratto del propano in dollari per tonnellata. Una boccata d'ossigeno che però è solo un breeve rimbalzo positivo nel quadro di una lunga spirale di inflazione del Gpl alla pompa.

La fase turbolenta che interessa il settore energetico è una delle avversità che il nuovo anno eredita da quello precedente, legate ancora una volta dalle numerose interruzioni e partenze del sistema produttivo mondiale. E questa panoramica istantanea sui prezzi dei carburanti ci racconta molto di quanto possa essere difficile pensare di spingere la transizione energetica puntando, in primo luogo, sui metodi di consumo dei cittadini e sulle loro preferenze in termini di carburanti per i propri mezzi di trasporto. La crisi è trasversale a prescindere dal sistema di alimentazione utilizzato. Anzi sono queste dinamiche, nel loro complesso, a mettere il Paese spalle al muro dato che si crea un pericoloso circolo vizioso: i carburanti aumentano notevolmente per la crescita dei costi di trasporto, stoccaggio, gestione degli impianti, dunque per lo sprint inflazionistico dell'energia; a sua volta, l'asimmetria tra domanda in crescita e offerta insufficiente genera un ulteriore rincaro e peggiora la situazione, scaricando il tutto a terra sui settori produttivi ed industriali, dunque aumentando la velocità della spirale inflazionista. Si alimenta così il gap competitivo dell’Italia che deve affrontare i costi per il trasporto merci superiori dell’11% rispetto alla media europea per un valore di 13 miliardi all’anno. Il tutto con un effetto valanga ancora più evidente sul carrello della spesa dei cittadini, dunque su questioni ben più cogenti di qualsiasi vasto programma industriale sulla transizione energetica.

Il governo sarà chiamato ad agire. Money.it sottolinea che "secondo Assoutenti l’intervento dell’esecutivo per contenere il caro-bollette è stato deludente e serve un’azione più incisiva ed efficace sui carburanti, magari sterilizzando l’Iva o riducendo le accise, voci che insieme rappresentano circa il 60% del prezzo di ogni litro di benzina" e un peso importante su tutti i carburanti. La partita mostra che come in altri settori della transizione energetica anche su questo fronte lo sviluppo di mercati, già rodati da tempo, per fonti a minore impatto non basta: serve liberarli dalla dipendenza contingente del "qui e ora", dalle sfide dei colli di bottiglia, da problemi di investimenti e costi di brevissimo respiro. Perché la transizione deve essere sistema, non diventare vittima degli stessi processi che imbottigliano l'economia tradizionale. In questo caso, è solo retorica.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Verdi, consumatori e produttori tutti uniti contro la tassa sulle rinnovabili. Luca Fraioli La Repubblica il 31 gennaio 2022. 

Alleanza tra associazioni di ambientalisti e industriali contro gli interventi per alleggerire la bolletta elettrica: sono di difficile attuazione e penalizzano le energie pulite, che invece dovrebbero essere spinte. 

Nel pieno delle trattative per l'elezione del nuovo Capo dello Stato, giovedì 27 gennaio è stato varato il "decreto sostegni", che prevede tra l'altro una serie di interventi per alleggerire i costi della bolletta elettrica degli italiani. Ma la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale non ha placato le polemiche e anzi ha compattato un fronte quantomai eterogeneo che va, incredibilmente, da Confindustria a Greenpeace.

La pietra dello scandalo sono i cosiddetti extra-profitti di chi vende, con complessi meccanismi di mercato, elettricità prodotta con le rinnovabili (eolico, fotovoltaico idroelettrico) a prezzi determinati invece dal costo del gas naturale. Il governo ha ideato un meccanismo per calcolare tali extra-profitti incassati nel 2022 e chiederli indietro alle aziende produttrici. La logica, come si legge nel documento esplicativo che accompagna il provvedimento, è la seguente: "Gli impianti fotovoltaici stanno quindi beneficiando di un incentivo fisso, cui si aggiungono i proventi della vendita dell'energia, che sta avvenendo - sulla base dell'andamento del mercato - a prezzi molto più elevati rispetto a quelli vigenti o comunque prevedibili nei momenti in cui sono state adottate le decisioni di investimento ed è stato definito il livello dell'incentivo. La forte variabilità del prezzo del mercato spot, a causa del costo del gas, ha reso, in questa congiuntura, evidentemente instabile questo tipo di incentivo determinando un extra margine per i produttori...". 

Già venerdì 15 gennaio era circolata una bozza provvisoria che, pur con qualche lacuna, delineava la misura. Le imprese che operano nel settore delle rinnovabili avevano protestato chiedendo un confronto, cosi come le associazioni ambientaliste. Con tanto di polemica a distanza tra il presidente nazionale di Legambiente Stefano Ciafani, che accusava via social il governo di far pagare alle rinnovabili il rincaro dei combustibili fossili, e il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani.

Si sperava in una correzione di rotta nel testo finale, ma a giudicare dalle reazioni anche il decreto pubblicato delude profondamente i paladini dell'eolico e del fotovoltaico. Elettricità Futura, l'associazione che all'interno di Confindustria raggruppa le imprese elettriche, in una nota sottolinea come "Tale norma mette a grave rischio il corretto svolgimento delle dinamiche di mercato e non risolve minimamente la situazione emergenziale in corso... Tra l'altro un intervento estemporaneo e di complessa attuazione come quello proposto, senza voler entrare nel merito degli eventuali profili di legittimità dello stesso, comunque evidenti, rischia seriamente di non raggiungere l'obiettivo auspicato di introdurre modifiche strutturali al sistema elettrico al fine di favorire la crescita delle fonti rinnovabili in grado di ridurre e stabilizzare i prezzi di borsa, e mette a rischio anche le dinamiche di mercato energetico così come strutturato... È indispensabile l'apertura rapida di un tavolo di confronto su di un tema così importante come quello della attuale crisi energetica del nostro Paese". 

Sorprende l'adesione trasversale al documento, cui hanno aderito le principali associazioni ambientaliste (Wwf, Greenpeace, Legambiente, KyotoClub) e a difesa dei consumatori.

"C'è un problema di metodo: l'assenza di un confronto con le parti interessate. E poi uno di sostanza", dice Ciafani. "Se si vuole far pagare bollette meno salate agli italiani vista l'impennata dei prezzi del gas, si dovrebbe usare sempre meno gas per fare elettricità: nel 2020 se ne sono bruciati 30 miliardi di metri cubi. Occorre fare elettricità in un altro modo, con le fonti rinnovabili, per emettere meno CO2 ma anche per affrancarsi dalle impennate dei prezzi dei combustibili fossili. E invece il governo finisce per penalizzare proprio il settore che dovrebbe spingere di più. Non è un bel segnale per gli investitori del settore: in Italia, oltre al problema delle autorizzazioni, c'è una aleatorietà delle norme che scoraggia chiunque voglia cimentarsi con un impianto eolico o fotovoltaico". Ora tocca al Parlamento. "Speriamo", conclude Ciafani, "che faccia le modifiche necessarie a limitare i danni alle rinnovabili in Italia".

Da brindisireport.it il 30 gennaio 2022.  

La Snap s.r.l., startup innovativa pugliese, vincitrice del Pin - iniziativa promossa dalle Politiche giovanili della Regione Puglia -, ha realizzato un quadriciclo a pedalata assistita, un veicolo unico nel suo genere,  un po’auto e  un po’ bicicletta, già vincitore del premio per la migliore pubblicazione scientifica da parte dell’International Federation for the Promotion of Mechanism and Machine Science. 

Il veicolo è stato accuratamente pensato per abbattere ogni tipo di problema legato alla mobilità urbana delle nostre città. L’obiettivo del giovane team è di portare l’alta ingegneria e l’importanza della sostenibilità dal profondo sud al resto d’Europa e poter conquistare le città del futuro con un’autovettura dal peso contenuto, capace di muoversi silenziosamente nel traffico, nelle Ztl e nelle aree ciclabili, consentendo spostamenti rapidi e a costi bassi. 

Francesco Passarella, ingegnere meccanico originario di Brindisi, e il designer barese Sergio D’argento, entrambi con una vasta esperienza lavorativa maturata nelle più grandi aziende automotive, presenteranno la vettura. 

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 12 febbraio 2022.

Se vi siete imbattuti in monopattini che vi sfrecciano a fianco, vi tagliano la strada o vi vengono addosso, e avete temuto per la vostra incolumità, state tranquilli. Presto essi potrebbero essere sostituiti da un mezzo molto più efficiente e confortevole e altrettanto eco -compatibile e silenzioso, che sarà lanciato sul mercato, prima italiano e poi europeo, a giugno.  

Si chiama Snap, come il termine inglese per indicare lo schiocco delle dita, ed è un'auto elettrica a pedalata assistita appena realizzata dalla Snap srl, startup fondata da due trentenni pugliesi, l'ingegnere Francesco Passarella e il designer Sergio D'Argento. 

Un po' auto e un po' bicicletta, la Snap - il cui progetto ha vinto il premio per la migliore pubblicazione scientifica da parte dell'International Federation for the Promotion of Mechanism and Machine Science e il finanziamento Pin della Regione Puglia - è il primo modello completo di questo tipo in Europa, configurandosi come una sorta di risciò coperto il cui motore elettrico si attiva con la pedalata, e capace di garantire, insieme al rispetto dell'ambiente e al contenimento dei costi, comfort, cura del design, duttilità e dotazione di optional.

Tutto in una specie di mini -car del peso di 130 chili, con una velocità massima di 25 km orari, un'autonomia di 60 km delle batterie (facilmente ricaricabili in casa), un costo tra 7mila e 10mila euro e la possibilità di viaggiare su piste ciclabili e normali strade urbane nella versione 250W. Ma è nei possibili utilizzi che la Snap offre il suo meglio, proponendosi come valida alternativa a monopattini, bici elettriche e altri veicoli di mobilità smart, per motivi di svago, spostamento e lavoro.  

La Snap è pensata ad esempio per favorire l'attraversamento di centri storici e zone Ztl a residenti e visitatori, superando i problemi legati al traffico e alle vie strette (si muove con agilità, essendo di piccole dimensioni) e a eventuali pedaggi (non ci saranno, essendo il veicolo privo di targa). Le nuove Vacanze Romane non si faranno a bordo di una Vespa ma di una Snap. 

Tale veicolo elettrico si presta anche a un uso nei luoghi turistici balneari, dove potrebbe essere adottato dai villeggianti per spostarsi dall'albergo alla spiaggia e viceversa, evitando accaldate passeggiate sotto il sole. E ancora, la Snap potrebbe diventare il mezzo del futuro dei rider, in grado di migliorare qualità e sicurezza del loro lavoro: a bordo di quest' auto gli operatori nel settore delle consegne a domicilio sarebbero al riparo dalle intemperie e conterrebbero i rischi di infortunio durante gli spostamenti: molto più affidabile un mezzo all'avanguardia su quattro ruote che una bici o un motorino scalcagnato. 

E in più essi assicurerebbero al cliente una consegna senza sbavature (si pensi al cibo sballottato nelle sacche durante il trasporto in bici), essendo in una Snap il materiale sistemato nel bagagliaio. E ancora, questo mezzo potrebbe essere funzionale ai vigili urbani per muoversi nei centri città: «Viaggiare in un veicolo con cabina anziché in bici», avverte Passarella, «darebbe loro molta più dignità e consentirebbe di mettere gli attrezzi del loro mestiere nel bagagliaio».  

Come si può ben intuire, quest' auto presenta molti più pregi e offre molti più vantaggi di un comune monopattino: è molto più sicura, essendo un veicolo coperto, dotato di cinture di sicurezza e un telaio anti-ribaltamento; è molto più comoda, consentendo di muoversi seduti su ampi sedili e senza eccessiva fatica (è la stessa di una pedalata in bici); ed è un prodotto made in Italy, dal progetto per arrivare al telaio e alla carenatura, a differenza della quasi totalità dei monopattini, le cui struttura e componentistica sono realizzate perlopiù in Cina. 

Quanto all'impatto ecologico, la Snap assicura emissioni zero non richiedendo carburante, con l'ulteriore beneficio di non rischiare di venire abbandonata in strade o parchi come capita a molti monopattini, che diventano a loro volta rifiuti: per le sue dimensioni essa non potrà che venire parcheggiata negli stessi spazi adibiti al posteggio biciclette. Da non sottovalutare infine come questo veicolo risulti più esteticamente gradevole di tanti altri veicoli elettrici. Insomma, si può essere smart ed eco-compatibili, senza dover accettare necessariamente la gretinata dei monopattini. 

R. Amo. per "Il Messaggero" il 2 febbraio 2022.  

Come si fa a riaprire in un colpo solo 70 cantieri per produrre energie rinnovabili, bloccati per oltre due anni, senza rischiare l'effetto boomerang? Secondo l'ultima ricognizione fatta dagli operatori del settore, tanti sono gli impianti eolici e solari finalmente pronti a decollare.

Va però detto che ci vorranno almeno tre anni per realizzarli, se non si darà un concreto sostegno al settore. A fine anno il governo - pochi se ne sono accorti a causa della frenesia delle festività imminenti - è sceso in campo usando «i poteri sostitutivi dello Stato» per rimuovere i non pochi paletti fissati dalla burocrazia delle sovrintendenze e degli enti locali. 

Ma proprio ora che è entrato in vigore il Decreto Semplificazioni, una minaccia importante sulla strada degli obiettivi del Pnrr arriva dalla difficoltà di reperire i materiali necessari per pale eoliche e pannelli solari, ma anche per superare l'ingorgo degli affidamenti finanziari (le fidejussioni) necessari per l'avvio dei cantieri.

Sulla spinta a tempi da record delle rinnovabili il ministro della Transizione ecologica, Roberto Cingolani, ci ha messo la faccia. La nuova Commissione Via Pnrr-Pniec di 40 tecnici dovrà portare a decuplicare in tempi record la produzione annuale di energia da fonti rinnovabili. L'obiettivo è installare 70 Gigawatt entro il 2030 al ritmo di 7,5 GW l'anno per rispettare gli accordi Ue. Ma nel frattempo si rischia anche di veder sfumare i fondi del Pnrr.

Dunque, non può che essere una buona notizia che il governo abbia sbloccato circa 50 impianti tra solare ed eolico. A questi si aggiunge un'altra ventina di progetti rilanciati dall'intervento di Tar e Consiglio di Stato. E una fetta di certi dossier fa capo a società associate al GIS (Gruppo Impianti Solari): produrrebbero 2 GW di potenza concentrata nel Lazio, energia pulita capace liberare il Paese dalle ritorsioni internazionali e dall'inflazione.

«Si rischiano invece tempi lunghissimi», avverte il GIS. Il primo motivo ha a che fare con la domanda di materie prime altissima. I prezzi sono ulteriormente aumentati per il mercato italiano, dicono le società, e ci saranno inevitabilmente pesanti ritardi nelle forniture.

Fatalmente, le aziende costruttrici faticheranno a rispettare i tempi. La seconda ragione del rischio collasso, riguarda le garanzie. Le imprese che costruiscono impianti devono fornire puntualmente garanzie bancarie per assicurare la costruzione e il risarcimento del committente nel caso in cui l'impianto non venga costruito bene o nei tempi. E in Italia, si sa, le imprese costruttrici realmente qualificate e in regola sono poche. 

È evidente che se un'azienda si trova a dover coprire garanzie per 900 MW in un colpo solo, l'ingorgo è assicurato: tecnicamente si troverà bloccata nelle procedure bancario-assicurative e non potrà fornire le fideiussioni necessarie, con il rischio di perdere le commesse.

È qui che le imprese chiedono una mano dal governo. Oltre a vigilare contro i rigurgiti di burocrazia anti-transizione, l'esecutivo dovrebbe sostenere temporaneamente le imprese facendo da garante per le fideiussioni necessarie all'avvio della realizzazione delle opere. 

Così si potrebbero in breve tempo produrre quei Gigawatt di energia tanto preziosi e si supporterebbero a medio termine i costruttori italiani. Perché rafforzare il mercato di casa significa anche evitare che siano fondi speculativi stranieri a fare quello che le nostre aziende non riescono a fare.

Basti pensare che la Cina conta di installare 160 Gigawatt di nuove fonti i rinnovabili solo nel 2022. Quanto ai prezzi, la proposta del settore è che, nel comparto delle rinnovabili, il PPA (contratto di compravendita diretta di energia tra produttore e acquirente) venga stipulato direttamente con i grandi distributori di energia. 

Se lo Stato prendesse in mano la regia di questo meccanismo, potrebbe stabilire che già in fase di autorizzazione di un progetto, il PPA venga stipulato con i player nazionali più solidi e con le carte in regola: questi soggetti non dovrebbero più acquistare l'energia dall'estero, ma stipulerebbero contratti con produttori italiani da cui comprare l'energia secondo logiche negoziate dal governo italiano, e non dipendenti dal mercato folle di questo ultimo anno.

Paolo Baroni per "La Stampa" il 2 febbraio 2022.

Sono 73 mila i posti di lavoro a rischio nel comparto dell'automotive a causa del passaggio all'elettrico e dell'abbandono dei motori a combustione previsto nel 2035, in pratica quasi un quarto di quelli in gioco nell'intera Europa, 63 mila solo tra il 2025 e il 2030. 

Situazione pesante che spiega bene l'allarme che rilanceranno oggi a Roma Fiom, Fim e Uilm assieme a Federmeccanica decisi a fare fronte unico nel tentativo di smuovere il governo per cercare di contrastare una crisi che di qui a breve potrebbe essere devastante.

«Le abbiamo tentate tutte, abbiano cercato di sollecitare i vari ministeri ma fino ad oggi non ci siamo riusciti. Adesso abbiamo deciso di presentarci insieme per provare ad essere ascoltati dal presidente del Consiglio Draghi oltre che dai ministri, perché avvertiamo un grande pericolo», spiega il segretario generale dei metalmeccanici della Uil Rocco Palombella. 

Il rischio, sostengono sindacati e imprese del settore, è quello di affrontare la transizione senza un governo dei processi sia da parte delle autorità nazionali come dell'Unione europea, con tutto quello che ne consegue in termini di costi sociali, occupazionali e ambientali.

«Ci presentiamo con una veste unitaria - sostiene Palombella - perché mai come in questo momento gli obiettivi sono comuni. Senza che ancora non sia nemmeno stato sfiorato il tema della cessazione delle attività interessate dalla transizione solo negli ultimi mesi sono saltati almeno 3 mila posti di lavoro. È bastato l'effetto annuncio sulla fine del diesel nel 2035 e di quello a combustione nel 2050 per creare il panico».

Segnali di pericolo

Ci sono le decisioni già prese da colossi del settore come Bosch e Marelli, le vicende di Gkn e Gianetti ruote, e poi ci sono segnali come la scelta presa da Stellantis di restituire il prestito da 6,5 miliardi garantiti dallo Stato su cui sia i sindacati che le organizzazioni datoriali adesso si interrogano. 

«Il loro piano lo conosceremo il primo marzo - puntualizza il segretario della Uilm - ma poi è tutta la filiera che ci preoccupa, perché questo è uno dei settori trainanti della nostra economia, e per questo non solo occorre incontrare Stellantis, anche per avere conferme sulla gigafactory di Termoli, ma occorre mettere in campo una discussione su tutto l'automotive, veicoli industriali e macchine agricole comprese».

Servono più incentivi a favore dei consumatori, per sostituire un parco auto troppo vecchio e inquinante, occorre confermare ammortizzatori sociali per garantire tutta la fase della transizione, investire in ricerca e formazione, ma anche ragionare sulla dimensione delle imprese che operano in questo campo (e tra l'altro esportano tanto in Europa e nel resto del mondo) per capire se hanno la forza per sostenere gli investimenti che richiede questa nuova fase. 

Il tavolo al Mise

Proprio ieri, mentre i dati delle immatricolazioni di gennaio segnavano un altro pessimo -19, 7%, al Mise si è tenuto un incontro coi i rappresentanti di Confindustria, Anfia e della filiera auto. Il ministro Giancarlo Giorgetti si è detto «ottimista» e «nonostante le difficoltà» nelle prossime settimane assieme al Mef conta di presentare le proposte per i nuovi incentivi al settore.

Più in generale poi, come ha spiegato il viceministro Gilberto Pichetto Fratin, «il governo sta lavorando a una strategia industriale con l'obiettivo di modulare gli interventi sulle esigenze della filiera e salvaguardare così i livelli occupazionali in modo da gettare le basi in vista della svolta green». 

Stando ai dati dello studio che sarà presentato oggi da Federmeccanica, Fiom, Fim e Uilm, quello dell'automotive è un comparto che prima della pandemia valeva 93 miliardi di fatturato, ovvero il 5,6% del Pil, contava 5.700 imprese e 250 mila occupati, ovvero il 7% dell'intera forza lavoro della manifattura italiana.

«Serve una strategia - incalza Palombella -, occorre aprire un tavolo per analizzare concretamente come si affronta la questione della transizione, come si intende procedere. I tempi sono stati dettati dal Green new deal europeo ma i governi nazionali possono fare la loro. Si tratta di questioni che ovviamente non si risolvono domani, ma occorre iniziare a lavorarci perché l'auto è il settore più importante con un impatto notevole su tutto il Paese. Occorre intervenire fin tanto che siamo in tempo per evitare il peggio».

Vincenzo Rutigliano per ilsole24ore.com il 28 Gennaio 2022.

L’accelerazione sulle auto elettriche ha i primi effetti a Bari con la direzione dello stabilimento Bosch, focalizzato sui motori endotermici, che ha annunciato, quest’oggi, 700 esuberi nei prossimi 5 anni, su un organico di 1700 addetti. 

Un annuncio che fa di Bari anche la prima crisi aziendale in Italia causata dal passaggio all’auto elettrica e dunque un primo caso di riconversione industriale da finanziare con i fondi del PNRR in tema di transizione ambientale. L’annuncio degli esuberi è stato fatto al termine dell’incontro tra OO.SS. e direzione aziendale, convocato dalla regione Puglia. 

Fabbrica a rischio

Secondo i sindacati è così a rischio la stessa sopravvivenza della fabbrica che aveva vissuto momenti difficili già nel 2017, quando i licenziamenti vennero scongiurati facendo ricorso agli ammortizzatori sociali, e alle uscite volontarie e incentivate di 190 persone.

 Il punto di snodo è tutto nella specializzazione produttiva dello stabilimento che, dal punto di vista industriale, ha attirato nuovi prodotti sia nell'ambito tradizionale del diesel che in nuovi settori. 

Ma la continua contrazione del diesel produce tuttora un pesante esubero, mentre sulle produzioni non diesel, innanzitutto sulla e-bike, lavorano circa 350 persone ed è previsto l'impegno di ulteriori 100.

Ma l'80% circa della forza lavoro è ancora impegnato sul diesel, che continua a calare sempre più rapidamente a causa delle disposizioni europee. Secondo fonti sindacali Uilm, il CP1H da 2,1 milioni di pezzi del 2017 è passato a 400mila pezzi nel 2022 e in pratica si azzererà nel 2027; il CP4 dagli attuali 720mila pezzi calerà a 455mila nel 2027.

«Chiediamo a Bosch – spiegano Gianluca Ficco, segretario nazionale Uilm, e Riccardo Falcetta, segretario della Uilm di Bari – di adottare finalmente una logica di solidarietà italiana ed europea a favore di Bari, poiché nel suo complesso la multinazionale tedesca va bene e sta investendo in nuove tecnologie, solo che lo sta facendo altrove. La solidarietà infragruppo deve servire non solo a portare a Bari lavorazioni che oggi addirittura sono affidate all'esterno, ma soprattutto ad assegnare una missione produttiva adeguata nell'ambito della green economy».

La Regione Puglia ha aperto un tavolo di crisi permanente

Su tutta la vertenza la regione Puglia ha aperto un tavolo permanente di crisi e promette contatti formali sia con la casa madre che con il Mise, dove, secondo le OO.SS., deve essere presentato un piano di reindustrializzazione del plant, in grado di azzerare gli esuberi denunciati evidenziando gli investimenti e le risorse finanziarie necessarie. Preoccupate le reazioni di Confindustria. 

“La transizione verso l'auto elettrica ha avuto un'accelerazione troppo repentina, che sta schiacciando tutta l'industria automobilistica -avverte Sergio Fontana, presidente di confindustria Bari-Bat e Puglia.

Questo non significa che dobbiamo arrenderci alla storia, ma dobbiamo attrezzarci per cavalcare il cambiamento. La Bosch infatti sta facendo la sua parte. In soli 4 anni ha messo a punto ben 7 nuovi prodotti ed è pronta a intraprendere una coraggiosa riconversione, ma per sostenere questa sfida la Bosch deve poter contare su politiche industriali adeguate. Servono soluzioni straordinarie per la Bosch e per tutto il settore Automotive del Paese alle prese con una crisi epocale”.

Articolo del “Wall Street Journal” - dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 28 gennaio 2022.

Gli investitori che pensano di poter salvare il mondo e fare profitti devono ripartire dalle basi. Rallentare il riscaldamento globale ha un requisito essenziale, che i combustibili fossili siano lasciati nel terreno. 

Date la priorità alla sostenibilità, ma gli investitori saranno lasciati in una posizione difficile: supponendo che lo spostamento dai combustibili fossili avvenga, hanno la scelta di fare la differenza, o fare più profitto.

In una serie di articoli questa settimana, ho dato uno sguardo critico alla moda dell'investimento sostenibile che sta investendo Wall Street. Conosciuto anche come ESG, o investimento ambientale, sociale e di governance, in primo piano tra le questioni che comprende è l'idea che gli investitori possono usare i loro dollari per salvare il mondo dal riscaldamento globale. 

Per come la vedo io, ci sono quattro modi in cui il mondo riduce il suo uso di combustibili fossili e quindi le emissioni di carbonio. Comunque sia, gli investitori che possiedono i combustibili fossili che non vengono estratti saranno bloccati in perdita – scrive il WSJ. 

Ecco le opzioni per la società e gli investitori:

1. L'azione del governo costringe i proprietari di carbone, petrolio e gas naturale a lasciare il combustibile nel terreno. Non lo vedo terribilmente plausibile di per sé (anche se i lettori dovrebbero sentirsi liberi di chiedere al presidente Vladimir Putin di smettere di trivellare). Ma sarebbe fantastico per gli investitori sostenibili, che tipicamente evitano o detengono meno azioni di combustibili fossili. Non avrebbero bisogno di fare nulla, ma batterebbero massicciamente gli investitori tradizionali bloccati con beni sotterranei ormai senza valore che non saranno mai estratti.  

Gli investitori sostenibili potrebbero sentirsi compiaciuti di questo risultato, ma non avrebbero fatto la differenza, dato che i governi hanno fatto tutto il lavoro. Questo è un esempio di fare la giusta scommessa politica, non di usare i tuoi dollari di investimento per forzare il cambiamento. Questo è successo in qualche misura con il carbone; la scadenza del Regno Unito del 2024 per terminare la produzione di energia dal carbone ha colpito il valore delle centrali a carbone esistenti, costringendo alcune a convertirsi ad altri usi e altre a chiudere prima della fine della loro vita utile. 

2. Gli azionisti costringono le aziende a lasciare i combustibili fossili nel terreno, sostituendo i dirigenti e chiudendo volontariamente miniere e pozzi redditizi. Solo gli azionisti che hanno davvero a cuore l'ambiente lo farebbero, e potrebbero davvero fare una grande differenza per il mondo. Ma gli azionisti attenti all'ambiente subirebbero una grossa perdita, dato che sarebbero loro ad essere colpiti. Questa è filantropia come investimento. E un avvertimento importante: i più grandi produttori di petrolio e gas sono statali, e non sono suscettibili alla pressione degli investitori. Un esperimento serio con questo è stato lanciato l'anno scorso dalla Banca Asiatica di Sviluppo, riunendo filantropi, alcune istituzioni finanziarie e governi con un piano per comprare centrali elettriche a carbone e mandarle in pensione prima del previsto. I rendimenti per gli investitori saranno probabilmente più bassi di quelli che accetterebbero di solito. Un piano del settore privato di Citigroup, Trafigura e altri per fare qualcosa di simile con le miniere di carbone è stato accantonato l'anno scorso.

3. La nuova tecnologia risolve il problema. Pensate a come andare oltre l'età del petrolio: così come l'età della pietra non è finita perché abbiamo finito le pietre, si dice che l'età del petrolio non finirà perché abbiamo finito il petrolio. I combustibili fossili non avrebbero più valore se fosse più conveniente utilizzare micro reattori nucleari, solare, eolico, idrogeno verde, batterie o fusione. Qualsiasi investitore che si aspetta un tale sviluppo dovrebbe evitare i combustibili fossili, così come chi prevede la produzione di massa dell'automobile non investirebbe in produttori di carretti trainati da cavalli. Ma non c'è bisogno di voler salvare il pianeta; una nuova tecnologia a buon mercato in grado di sostituire il petrolio o il gas sarebbe immensamente redditizia, e l'aspetto salvifico del pianeta sarebbe solo un beneficio benvenuto. Il solare e l'eolico si sono già ribaltati per attrarre gli investitori mainstream che vogliono solo fare soldi, ma generare o immagazzinare energia a basso costo quando è buio e calmo è ancora una questione di ricerca. Quando o se funzionerà è, diciamo, difficile da prevedere; il punto dell'età della pietra è stato fatto da un ingegnere di una compagnia petrolifera che sperava che le celle a combustibile a idrogeno sarebbero state presto finanziariamente praticabili... nel 1999. È la tecnologia di domani, ma forse lo sarà sempre. Le startup che lavorano su tecnologie sconosciute sono intrinsecamente rischiose. 

4. Consumare meno. L'ultima opzione è consumare meno energia, risparmiando e accettando il colpo alla crescita. La via più semplice è quella di usare le tasse per forzare le aziende a internalizzare il costo del carbonio. L'energia pulita diventerebbe più attraente, non perché l'energia pulita diventa più economica, come tutti dovremmo desiderare, ma perché i combustibili fossili diventano più costosi. Nel complesso, un costo più alto dovrebbe significare un minor consumo. I governi europei hanno adottato questo approccio e hanno messo un prezzo sulle emissioni di carbonio per alcune grandi industrie. L'effetto collaterale indesiderato è quello di rendere i prodotti fatti in casa meno competitivi rispetto alle importazioni da paesi che non seguono lo stesso approccio. Questo ha portato l'Unione europea a pianificare un "meccanismo di aggiustamento alla frontiera del carbonio" dal 2026 - una tassa sulle importazioni da luoghi che non fanno pagare il carbonio. Laddove i governi fanno troppo poco, alcuni investitori pensano di poter incoraggiare le aziende a cambiare comprando le azioni e le obbligazioni di quelle che sono più pulite, e vendendo le azioni e le obbligazioni delle aziende sporche. Se abbastanza persone lo fanno, secondo la teoria, cambierà il prezzo, inviando un segnale al management e abbassando il costo del capitale per le operazioni più pulite. In pratica, ha funzionato bene solo quando ha gonfiato una bolla, come ho spiegato in una colonna precedente - e questo non è un buon risultato a lungo termine per gli investitori. Le quattro opzioni qui esposte portano ad approcci direttamente opposti per gli investitori che vogliono migliorare il mondo. L'approccio filantropico significa comprare azioni di combustibili fossili per lasciare il carbonio nel terreno. L'approccio delle nuove tecnologie significa comprare startup di energia pulita per lavorare su fusione, alghe, gru che immagazzinano energia e simili. Quando il governo viene coinvolto, o con la regolamentazione (opzione uno) o con le tasse (opzione quattro), gli investitori dovrebbero aspettarsi che le riserve fossili valgano molto meno, forse zero - anche se il fatto che le azioni dei combustibili fossili siano un buon investimento dipende da quanto l'azione del governo sia già prezzata. I gestori di fondi che lanciano l'investimento ESG sostengono tipicamente che si può usare il proprio denaro per aiutare a salvare il mondo senza sacrificare i profitti. Tornare alle basi mostra che non c'è una soluzione così semplice.

Per la prima volta un'automobile supera i 200 km/h: si chiama Stanley e ha un motore a vapore. Riccardo Luna su La Repubblica il 26 Gennaio 2022.

Il 26 gennaio 1906 per la prima volta un’automobile superò il limite dei duecento chilometri orari. Era un’auto a vapore. Era una Stanley Rocket. Era una specie di canoa su quattro ruote (e infatti il la struttura in legno era realizzata da una fabbrica di canoe); il suo punto di forza era un motore a due cilindri alimentato a vapore da una sorta di bollitore grande come una lavatrice (in tutto pesava quasi una tonnellata). 

I fratelli Stanley, che prima avevano gestito una piccola azienda di lastre fotografiche per la Eastman Kodak, avevano costruito la loro prima vettura nel 1897 a Watertown, nel Massachussetts. Ci vollero nove anni per arrivare alla “Rocket”; nel frattempo fondarono la Stanley Motor Carriage Company con l’obiettivo di realizzare l’auto più veloce del mondo. 

Nel gennaio 1906 erano finalmente pronti. Come pilota avevano scelto uno dei più bravi e temerari, Fred Marriot, e come pista venne scelta quella di Ormond Beach, in Florida. Fu un trionfo: ogni giorno la Rocket batteva un record, fino al 26 gennaio quando fece un chilometro a 121.6 miglia orarie e due ore più tardi in 127.7, di poco sopra i 200 chilometri orari. L’anno seguente i due fratelli tentarono di battere il loro stesso record con un motore più potente: la Rocket toccò effettivamente le 150 miglia orarie prima di volare in aria. Fred Marriott si salvò per miracolo. Nel frattempo l’azienda vendette effettivamente diverse auto a vapore, le  Stanley Steamer. Nel mondo c’erano moltissimi produttori di auto a vapore:  ancora non era chiaro quale sarebbe stata la fonte di energia per le automobili e per un po’ il vapore se la giocò. Nel 1917 i due fratelli vendettero l’azienda che poi chiuderà nel 1924: il motore a scoppio aveva vinto. 

Il record della Rocket invece durerà per oltre un secolo: verrà battuto il 25 agosto 2009 in California da una vettura costruita per l’occasione che toccò i 225 chilometri orari.

Estratto dell’articolo di Federico Fubini per il "Corriere della Sera", pubblicato da “La Verità” il 24 gennaio 2022.  

La fusione fra Fca e Peugeot Psa in Stellantis compie un anno. 

Carlos Tavares, ad del gruppo, perché puntate sul valore delle auto più che sui volumi, a costo di prezzi più alti? [] Non si rischia di tagliar fuori i ceti medi, che non possono comprare auto da quasi 30.000 euro?

«Il rischio c'è, se non riduciamo i costi. Ma sono anche le nuove tecnologie a far salire i prezzi, in particolare quelle elettriche, che sono del 50% più costose di quelle dei motori termici». 

La Commissione Ue ha un approccio ragionevole alla transizione energetica o mette fine ai veicoli a combustione troppo presto? Nel 2030, Peugeot, Opel, Fiat venderanno solo auto elettriche.

«Rispettiamo le leggi e quindi combatteremo per essere i migliori con i fattori che ci vengono dati, o imposti. Ma l'elettrificazione è una tecnologia scelta dai politici, non dall'industria. C'erano modi più economici e veloci di ridurre le emissioni. È una scelta politica». 

Irragionevole, per lei?

«La nostra battaglia ora è volta a limitare l'impatto dei costi supplementari del 50% dell'auto elettrica. Significa avere in 5 anni aumenti di produttività del 10% all'anno, mentre l'industria automobilistica in Europa raggiunge di norma tra il 2 e il 3%. Vedremo tra qualche anno quali produttori saranno sopravvissuti e quali no. Tra 10 o 15 anni conosceremo anche i risultati reali dell'elettrificazione nella riduzione delle emissioni. Per dirla semplice, non guardare l'intero ciclo di vita delle auto elettriche è riduttivo. Non va perso di vista che ci saranno conseguenze sociali e rischiamo di perdere la classe media, che non potrà più comprare auto. Quindi è presto per dire se l'approccio Ue è ragionevole».

Lei sembra scettico

«La questione è l'approccio globale alla qualità ambientale dell'elettricità consumata, e noto che di fatto ciò rimette l'energia nucleare nell'agenda ad opera degli ambientalisti. Dobbiamo anche parlare dell'impronta di Co2 delle batterie. Con il mix energetico dell'Europa, un veicolo elettrico deve per correre 70.000 chilometri prima di compensare l'impronta di Co2 creata dalla fabbricazione della batteria. Solo a quel punto inizia ad allargare il divario con un veicolo ibrido leggero. E un veicolo ibrido leggero costa la metà».

Chi deve pagare il 50% di costi in più?

«Bisognerebbe che gli incentivi fossero mantenuti almeno fino al 2025. Ma non credo che i governi potranno continuare a sovvenzionare la vendita di veicoli elettrici ai livelli attuali. Quindi torniamo al rischio sociale. È la brutalità del cambiamento che crea i rischi sociali». 

Duello di costi tra elettrico e benzina: stessi modelli a confronto. Per quale si spende di più? Edoardo Nastri su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2022.

Abbiamo confrontato i costi che si sostengono per acquisto, manutenzione programmata, assicurazione, bollo e «rifornimento» di tre modelli di successo - una city car, una compatta e un suv di medie dimensioni - nella versione elettrica e con motore tradizionale. Ecco quale, nel lungo termine, ci fa risparmiare.

La crescita dell’elettrico

Le immatricolazioni di auto elettriche sono cresciute a dismisura anche nel 2021. Se nel 2019 in Italia le vendite di veicoli a zero emissioni si sono fermate a 10.577 esemplari, il 2020 ha visto triplicare i volumi a 32.540 unità per un exploit finale nel 2021 a ben 67.542 unità. La crescita è stata del 107,6% rispetto all’anno scorso e del 538,6% se comparata al 2019, con una quota di mercato raggiunta del 4,6%, sostanzialmente la stessa delle ibride plug-in. Un successo determinato dalla sempre più completa e crescente offerta di modelli - a listino oggi se ne contano ben cinquantacinque di tutte le architetture possibili - e dagli incentivi governativi all’acquisto per veicoli a zero o basse emissioni (in alcuni casi superavano i 10mila euro) oggi esauriti e che il governo al momento avrebbe deciso di non rifinanziare. Una decisione che gioca un ruolo decisivo nella convenienza effettiva di queste vetture che hanno prezzi mediamente più alti di un veicolo con motore termico tra il 20% e il 30%. Conviene, quindi, oggi comprare una vettura 100% elettrica in assenza di bonus? 

Elettrico vs benzina: il prezzo d’acquisto della Fiat 500

Partiamo proprio dal prezzo di acquisto prendendo come riferimento una citycar, una compatta e un suv medio, ciascuno disponibile sia in versione elettrica sia con motore a benzina. La Fiat 500 elettrica in versione Action (190 chilometri di autonomia dichiarata) ha un prezzo di partenza di 26.500 euro, 7.850 euro in più rispetto a quella spinta dal 1.0 tre cilindri a benzina (mild hybrid). Se l’acquisto comporta un costo maggiore, il mantenimento della versione elettrica risulta più economico. Il prezzo del primo tagliando di una Fiat 500 elettrica è di 105,05 euro, 85 euro in meno rispetto a quello di una 500 con motore termico. Una differenza che mediamente si mantiene per tutta la manutenzione programmata dei due modelli.

Elettrico vs benzina: il prezzo d’acquisto della Opel Mokka

L’esperimento si ripete anche per la Opel Mokka, crossover compatto disponibile in versione termica o 100% elettrica. La Mokka-e (322 chilometri di autonomia) ha un prezzo di partenza di 36.050 contro i 23.050 della 1.2 turbo benzina da 101 cavalli. L’elettrica è invece più risparmiosa in tema di manutenzione programmata: il costo del primo tagliando di una Mokka-e è di 100 euro, contro i 150 euro della versione a benzina.

Elettrico vs benzina: il prezzo d’acquisto della Volvo XC40

Il divario si assottiglia nel mondo premium. Per mettersi in garage una Volvo XC40 Recharge (418 chilometri di autonomia e 408 cavalli) sono necessari 56.300 euro, 5.550 euro in più della versione a benzina più potente (B5 Awd da 250 cavalli). Il costo di primo, secondo e terzo tagliando presso la casa madre (annuale o una volta percorsi 30 mila chilometri) è per l’elettrica di 100 euro per il primo e 80 euro per tutti gli altri, mentre per la versione a benzina i prezzi salgono parecchio: 330 euro per la prima manutenzione programmata, 500 per la seconda e 330 per la terza.

Elettrico vs benzina: bollo e assicurazione

In tema di assicurazione la media di risparmio per l’RC di un’auto elettrica si aggira tra il 10% e il 15%, una cifra per nulla significativa se comparata al bollo. La tassa di possesso – pari a 136, 198 e 350 euro all’anno per Fiat 500, Opel Mokka e Volvo XC40 – è infatti gratuita per le versioni a zero emissioni per cinque anni (trascorsi i quali si pagherà il 25% del valore dell’imposta) e in alcune regioni come Lombardia e Piemonte non si paga per tutto il ciclo vita del veicolo.

Elettrico vs benzina: il costo del «rifornimento»

Per il capitolo ricarica le possibilità sono moltissime e diverse a seconda che si decida di fare il pieno di energia alla propria vettura elettrica sfruttando la rete domestica (i prezzi oggi oscillano tra i 16 e i 18 centesimi di euro a chilowatt ma si prevedono aumenti nel corso dell’anno anche del 40% per il caro energia) oppure quella pubblica (con costi in media tra i 30 e i 50 centesimi di euro a chilowatt). Nel primo caso la ricarica completa costerà circa 12,5 euro per la Volvo XC40 Recharge, 8 euro per la Opel Mokka-e e 4,5 euro per la Fiat 500. Considerando un prezzo medio della benzina di circa 1,7 euro al litro, fare il pieno alle nostre vetture costerà 91 euro per la Volvo, 88 per la Opel Mokka e 60 per la Fiat 500.

Fiat 500, conviene la versione elettrica o benzina?

Tirando le somme dopo tre anni di possesso dell’auto con una percorrenza media di 15mila chilometri all’anno il proprietario della Fiat 500 elettrica avrà speso 28.656 euro (26.500 euro per l’acquisto, 316 euro per il tagliando e ricaricando a casa circa 940 di energia e circa 900 euro di assicurazione). Il proprietario della 500 con motore a benzina invece avrà sostenuto per lo stesso periodo una spesa pari a 24.288 euro (18.650 per l’acquisto, 570 euro di tagliando, 1.140 euro di assicurazione, 408 euro di bollo e 3.520 euro di carburante). Dopo sei anni la differenza si assottiglia, mentre il sorpasso dell’elettrico arriva dopo nove anni, quando il risparmio per chi ha comprato una 500 elettrica è di circa 2.600 euro rispetto a quella termica.

Opel Mokka, conviene la versione elettrica o benzina?

Per l’Opel Mokka-e dopo tre anni di utilizzo il proprietario spenderà in totale 39.314 euro (36.050 di acquisto, 1.224 euro di energia per la ricarica, 1.740 di assicurazione e 300 euro di tagliandi). Per la versione a benzina la spesa nel triennio è di 30.101 euro (23.050 di acquisto, 4.207 di carburante, 1.800 euro di assicurazione, 594 euro di bollo e 450 euro di tagliandi). Al nono anno l’elettrica è ancora sotto: il costo totale è di 45.840 euro contro i 44.204 per la termica.

Volvo XC40, conviene la versione elettrica o benzina?

Con la Volvo XC40 la convenienza arriva quasi subito. Dopo tre anni il proprietario della versione elettrica avrà speso 60.073 euro (56.300 acquisto dell’auto, 260 euro di tagliandi, 1.800 euro di assicurazione e 1.714 euro di energia), mentre chi acquista la XC40 a benzina avrà speso 60.800 euro (50.750 per l’acquisto, 5.891 euro di benzina, 1.950 euro di assicurazione, 1.160 euro di tagliandi e 1.050 euro di bollo). A sei anni il risparmio dell’elettrica è di ben 7 mila euro e a nove anni addirittura di 13 mila euro. Certo è che il rinnovo degli incentivi governativi per l’acquisto di vetture a zero emissioni avrebbe ulteriormente cambiato le carte in tavola.

IL CASO. Ibride plug-in, in Svizzera sospesi gli incentivi: «Inquinano più di quanto promesso». di Maurizio Bertera su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.

Il Governo del Vallese, in base a una ricerca scientifica, prende una decisione clamorosa. «I consumi reali sono spesso il triplo di quelli dichiarati dalle Case» è l’analisi.  

Ibride plug-in, in Svizzera sospesi gli incentivi: «Inquinano più di quanto promesso»

Clamoroso in Svizzera: il Cantone Vallese ha deciso di togliere gli incentivi per le vetture ibride plug-in. Colpa o merito di uno studio che il governo locale ha affidato alla società Impact Living, esperta in ecosostenibilità ed energia. La risposta che ha ottenuto sembra inequivocabile: una quantità emessa di CO2 da 2 a 3 volte più alta di quanto dichiarato dalle case costruttrici. I motivi della discrepanza derivano dal fatto che questo tipo di veicoli sono molto pesanti a causa della presenza della doppia motorizzazione (motore termico a benzina e batterie). Questo porta a un consumo superiore quando l’auto, esaurita la carica elettrica, viaggia solo spinta dal motore tradizionale. E questo lo sanno bene i possessori di un’auto plug-in che peraltro sono in netta minoranza sul mercato italiano rispetto a quelli di modelli full hybrid e soprattutto mild hybrid. Le quote rispettive sono del 4,7%, 6,9% e 22,1%.

Il triplo di carburante

Ma la ricerca punta soprattutto il dito verso i dati omologativi, che spesso parlano di consumi vicini ai 2 litri di carburante per 100 km, una situazione che ovviamente riguarda solo i momenti in cui la batteria è completamente carica, ma che in utilizzo medio si trasformano poi in 5 o 6 litri per 100 km. «Vi vendono un’auto che dovrebbe consumare pochi litri di carburante, e invece ne consuma sino al triplo. È una fregatura! È come se i fast food vi dicessero che un cheeseburger è sano perché dentro c’è un po’ di cetriolo. È la stessa cosa, ci dicono che è un’auto ibrida e consuma meno, che è più ecologica, ma non è vero» spiega — senza mezzi termini — l'autore della ricerca, l'ingegnere Marc Müller. Risultato, i bonus previsti dal Cantone Vallese sino al 31 dicembre 2022 sono stati revocati, per qualsiasi plug-in acquistata dal primo gennaio: valevano 2500 franchi o 5000 a seconda che il modello abbia una stazza inferiore o superiore più di 3,5 tonnellate. Al cambio sono 2.400 e 4800 euro

Il precedente

Circa un anno fa era stato l'ente indipendente Transport and Environment ad analizzare le emissioni reali delle plug-in hybrid, rilevando emissioni di CO2 superiori al dichiarato fino all'89% in condizioni ottimali e fino a 8 volte maggiori con batteria scarica. In Svizzera, questa ricerca era stata presa molto seriamente. «Se non si ricarica spesso la batteria in dotazione il consumo di benzina o diesel sarà più elevato, questa è la logica dietro a questo sistema. Ci vuole della disciplina per usare correttamente questo prodotto» aveva affermato Andreas Burgener, direttore di AutoSuisse, l’associazione che raggruppa gli importatori ufficiali di automobili. In Svizzera, la curiosità è vedere se e come gli altri Cantoni - che hanno un’autonomia legislativa superiore alle nostre Regioni - seguiranno il Vallese. Non solo: il rischio per i costruttori è che questa ricerca possa sviluppare un effetto a valanga e allargarsi anche ad altri Paesi.

·        I Consumatori di energia.

Forno, lavatrice, tv: quanto costano gli elettrodomestici in bolletta. Dal primo ottobre il prezzo dell’energia elettrica è aumentato del 59% e i rincari si traducono in costi effettivi per l’uso degli elettrodomestici casalinghi. Giuditta Mosca il 3 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Dal primo ottobre il prezzo dell’energia elettrica per i consumatori in regime di maggior tutela è aumentato del 59%, un ritocco verso l’alto che l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente (Arera) ha limitato e senza il cui intervento avrebbe raggiunto anche il 100%.

Il prezzo del kilowattora è arrivato a 66 centesimi, a ottobre del 2021 costava 30 centesimi, circa il doppio dei 16 centesimi del 2020.

Il sito facile.it, affidandosi ai consumi dichiarati sulle etichette energetiche degli elettrodomestici, ha calcolato qual è il maggiore costo del loro uso applicando le nuove tariffe. I risultati sono stati pubblicati da Il Messaggero, specificando che si tratta di stime giacché sono tante le variabili di cui tenere conto per ottenere calcoli precisi, tra le quali lo stato di manutenzione degli elettrodomestici e la frequenza con cui li si usa.

I più curiosi possono stare tranquilli: ricaricare lo smartphone con un caricabatterie da 5 watt, ovvero la potenza standard, costa 0,3 centesimi l’ora (meno di mezzo centesimo).

Frigorifero e forno

Un frigorifero da 350 litri di classe A+++ consuma 27 centesimi di corrente elettrica al giorno, che diventano 92 per quelli di classe energetica B. In questo ultimo caso, arrotondando, per tenere acceso il frigorifero servono 30 euro al mese (350 euro l’anno).

Cuocere cibo usando un forno elettrico da 70 litri di classe A+ costa mediamente 46 centesimi. Se il forno è di classe B servono 0,73 euro. Il costo totale varia quindi dal numero di volte in cui vi si fa ricorso e dal tipo di cibo che viene cotto. Inoltre, è probabile che sia un elettrodomestico più sollecitato durante le stagioni fredde rispetto quelle più calde.

Lavatrice e condizionatore

Considerando una lavatrice con un carico da 7 chilogrammi di classe energetica A+++, un’ora di utilizzo cosa 53 centesimi di euro. Se di classe B il costo arriverebbe a 88 centesimi il che, secondo un calcolo approssimativo, si traduce in una spesa di 90-100 euro annui.

Un condizionatore di classe A+++ costa 40 centesimi ogni ora, oppure 69 centesimi di euro se di classe energetica B. Supponendo, soprattutto durante i mesi estivi, che resti acceso 5 ore al giorno, si ottiene una spesa quotidiana che va dai 2 euro ai 3,45 euro al giorno, ovvero dai 60 ai 100 euro al mese circa.

Tv e router Wi-fi

Il calcolo è stato effettuato usando come riferimento un tv led da 40 pollici di classe A++ il cui costo è di 3 centesimi di euro per due ore, che diventano 12 centesimi per i tv di classe B. La stima, nel caso dei televisori, è ancora più approssimativa perché il consumo varia in base ai pollici e alla classe energetica.

Il router Wi-fi costa invece 13 centesimi al giorno, quindi circa mezzo centesimo all’ora il che, calcolato su base annua, dà un totale vicino ai 50 euro.

Phon e tostapane

Usare per 10 minuti un asciugacapelli da 2 kilowatt costa 22 centesimi. Anche in questo caso il costo su base mensile o annua varia in base alla potenza del phon e alla ricorrenza con cui si usa.

Il tostapane rientra tra gli elettrodomestici meno energivori, tant’è che scaldare il pane per 5 minuti costa 5 centesimi di euro.