Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

       

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

 

L’AMBIENTE

SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        La pesca.

“La pesca in Italia è morta, ma non possiamo far altro che tornare in mare”: la disperazione dei marinai di Ancona.  Il prezzo del gasolio più che raddoppiato, i costi delle materie prime esplosi. «Non pensavo di fare questa fine. E poi non per colpa mia, non perché non prendo pesci». Chiara Sgreccia su L'Espresso il 6 giugno 2022.

C’è un leggero brusio al porto di Ancona che interrompe venti giorni di silenzio. Ma i toni sono cupi, gli sguardi rivolti a terra, le parole ridotte all’osso, qualche imprecazione. È quasi mezzanotte e i pescatori si preparano a partire dopo un lungo stop dovuto al caro gasolio. Che dai 55 centesimi al litro dello scorso settembre, adesso costa 1 euro e 20, rendendo impossibile la vita di armatori e marinai, perché schiaccia qualsiasi forma di guadagno legata alla pesca.

«Il problema non è solo questo», spiega Enrico Bigoni, ex presidente della cooperativa pescatori di Ancona, oggi membro del consiglio di amministrazione che, come armatore, porta avanti la tradizione di famiglia che dura da 70 anni. «Anche l’aumento del costo delle materie prime cade sulle nostre spalle. Ti faccio un esempio: le cassette che utilizziamo per raccogliere il pesce costavano 40 centesimi l’una, ora quasi un euro. Per una spesa totale di circa 1.200 euro al mese», dice con la voce arrabbiata, delusa, mentre guarda l’equipaggio che salta su e giù dal peschereccio. Per Bigoni lavorano cinque marinai che guadagnano «alla parte», cioè in base alle entrate totali che portano le battute di pesca. «A maggio hanno preso 600 euro a testa, così il mancante per arrivare a quanto spetta a ciascuno ogni mese l’ho messo io. Il conto della ditta è sotto di undicimila euro. Il settore della pesca italiano non è in crisi, è morto».

La desolazione che soffia sul Mandracchio, area dove da sempre attraccano i pescherecci, che circonda il Lazzaretto di Ancona, stona con l’atmosfera frizzante e l’immagine del porto come cuore pulsante del capoluogo marchigiano che ha invogliato Papa Clemente XII, nel 1700, ad affidare a Luigi Vanvitelli, l’architetto che poi sarebbe diventato noto per la reggia di Caserta, il progetto di qualificazione dell’area. Ma stona anche con l’aria vivace che si respirava fino a qualche mese fa.

Battute fra compagni, scherzi, fragore e il suono acuto dei muletti che portavano le casse ricche di pesce appena pescato fino al mercato ittico, distante pochi metri, dove alle 3.30 del mattino iniziava l’asta. «Chi me l’ha fatto fare? Non pensavo di fare questa fine. E poi non per colpa mia, non perché non prendo pesci». C’è frizione tra le parole di Bigoni e il suo aspetto un po’ duro, segnato da anni di faticoso lavoro.

Come spiega, una barca come la sua ha costi che superano i tremila euro al giorno ogni volta che esce dal porto. 2.200 litri di gasolio per 24 ore in mare sono 2.600 euro. «Per guadagnare qualcosa dovremmo almeno duplicare il prezzo del pesce ma questo non è possibile visto che lo vediamo all’asta. I consumatori non potrebbero permetterselo e comprerebbero solo pesce surgelato. I commercianti non accetterebbero di pagare un prezzo così alto. E crescerebbero le importazioni dagli altri paesi proprio come è accaduto in questo periodo in cui abbiamo scelto di fermarci in segno di protesta».

Mercoledì scorso, il 1° giugno, i pescatori sono stati a Roma, per chiedere al Governo di mettere un tetto al prezzo del gasolio che consenta alle imbarcazioni di tornare a guadagnare in mare. Anche perché a rimetterci non è solo il settore della pesca in senso stretto ma tutti i lavoratori che sopravvivono grazie alle occupazioni collegate, come la ristorazione o chi segue la distribuzione, la trasformazione e della vendita del pesce. Tra questi ci sono anche le donne del porto di Ancona che si sono unite alla protesta. Per la maggior parte mogli, madri e figlie dei pescatori che seguono la commercializzazione e la contabilità del pescato. «Siamo la parte meno nota della filiera ma non per questo restiamo zitte».

Non hanno ancora ottenuto nessun tetto massimo al prezzo del gasolio ma, forse incoraggiati dalle parole del ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli, secondo cui ci sono altri 20 milioni da dedicare alla filiera della pesca, e sicuramente stremati dalla mancanza di entrate, i pescatori di Ancona e quelli degli altri porti dell’Adriatico hanno deciso di tornare in mare. Provano a uscire per 48 ore e vedono come va, poi venerdì si riuniranno di nuovo per decidere che fare dopo. «Con che stato d’animo pensi io vada in mare oggi? - conclude Bigoni poco prima che si accedano i motori del peschereccio - So di non potermi permettere neanche un imprevisto. Niente deve andare storto perché sono già in perdita. Eppure, la pesca è un mestiere pericoloso. Chiederci di lavorare in questo modo è ingiusto».

·        Le Migrazioni degli Animali.

Il coraggio antico delle rondini e degli altri migratori. Il rischio «necessario» della vita. Anna Giordano, Wwf, Premio Goldman per l’Ambiente, su Il Corriere della Sera il 4 Aprile 2022.

Sono 200 le specie di uccelli che affrontano un viaggio dall’Africa verso l’Europa. L’Italia è una tappa fondamentale sulla rotta durante le migrazioni. 

Puntuali come ogni anno, arrivano gli uccelli migratori. Pochi si accorgono del loro incedere nel nostro spazio aereo che include anche i centri urbani, su rotte ataviche che sono immutabili, cambia solo cosa trovano al ritorno dall’Africa dove hanno trascorso l’inverno, anno dopo anno. Un viaggio irto di pericoli che affrontano di notte e di giorno, a seconda della specie. I più noti e familiari sono le rondini, i balestrucci, i rondoni, ma sono oltre 200 le specie che gli appassionati cercano e fanno salti di gioia quando le vedono, ovunque esse siano. La rotta italica è obbligatoria per tutti gli uccelli che devono raggiungere anche il nord Europa e parte dell’est. Chi migra di notte si ferma di giorno a riposare e a nutrirsi, ovunque possa. 

Anche in mezzo ai giardini di una città, ai bordi delle strade, perché il viaggio è faticoso e spesso avversato da meteo inclemente e devono recuperare l’energia perduta, sennò il viaggio finisce prima di raggiungere la meta finale. Chi migra di giorno spesso si raggruppa lungo rotte precise, come lo Stretto di Messina, rotta ignota alla scienza fino a 40 anni fa, ora riconosciuto tra i più affascinanti hot spot della migrazione in tutto il pianeta. E chi arriva da noi ha affrontato ambienti ostili per eccellenza: il deserto e il mare, entrambi tra i più vasti del pianeta da attraversare: 2700 km il Sahara con il Sahel e non meno di 140 km di mare del Canale di Sicilia nel punto più breve. Un uccello terrestre in mare, se finisce l’energia necessaria, cade in acqua e muore. 

Nel deserto le fonti di nutrimento sono scarse quando del tutto assenti. Arrivano stremati, se arrivano. Quando li vediamo cogliamo una frazione infinitesimale della loro incredibile esistenza, costellata di pericoli, fatiche, incognite. A volte, pensando a cosa hanno vissuto fino a giungere al mio sguardo, penso che sia miracoloso vederli e mi sembra di volare un pochino anch’io con loro. Meritano tutta la nostra ammirazione e un grande, incommensurabile rispetto per il loro durissimo vivere che coglie nel sole e la sua durata giornaliera, il tacito momento in cui partire per questa incredibile avventura.

·        La Transumanza.

Sulle strade della transumanza: l'Abruzzo raccontato dalla solitudine eroica dei pastori. Giovanni Angelucci su La Repubblica 26 Agosto 2022.  

Eventi, manifestazioni e ricordi che si rincorrono e tramandano per mantenere viva e salda una delle tradizioni più antiche e importanti della regione dei Tre Regni 

Il vate ha scritto più volte della terra che gli ha dato i natali, “Settembre, andiamo. È tempo di migrare. Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori lascian gli stazzi e vanno verso il mare: scendono all’Adriatico selvaggio che verde è come i pascoli dei monti.…”, ma Gabriele D’Annunzio non è stato l’unico. L’Abruzzo è sempre pronto ad accogliere e a far innamorare chi lo visita. I suoi paesaggi mirifici e selvaggi disegnati dalle linee delle montagne, sono luoghi resi magici da racconti e storie di coltivatori e pastori nomadi, di eremiti che hanno trovato nel silenzio dell’alta quota l’essenza della propria vita. Che lo si scopra da nord oltrepassando il confine marchigiano, da ovest attraversando la Marsica aquilana o da sud percorrendo le vecchie vie della transumanza, l’Abruzzo incanta e tira fuori la parte più autentica di ognuno. 

Una delle mete imperdibili è il Gran Sasso con Campo Imperatore tappa imprescindibile, il luogo incantato dove si è consumata in una profonda solitudine, spesso rotta da forti momenti lirici ed emotivi, la dura vita di generazioni di pastori; ed è qui che ogni anno, da 62 anni, continua ad andare in scena la Rassegna degli Ovini, la più importante manifestazione a tema di tutto il Centro Italia, accompagnata da musiche, balli e canti popolari abruzzesi per un tripudio di convivialità e cultura tangibile. L’appuntamento che si ripete durante i primi giorni di agosto ha l’obiettivo di mantenere viva un’attività che pian piano sta scomparendo. È stata organizzata dalla Camera di Commercio del Gran Sasso d’Italia, con la compartecipazione dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Abruzzo, insieme alla novità di quest’anno, la TRA-La Transumanza che unisce, progetto ideato e sostenuto dalla Presidenza del Consiglio Regionale dell’Abruzzo con un programma itinerante che ha portato a Campo Imperatore l’Orchestra Popolare del Saltarello e l’International Folk Contest “Etnie Musicali”. Un modo tanto antico quanto attuale per mostrare e far (ri)vivere una pratica su cui si è sempre fondata una regione come l’Abruzzo e che oggi è patrimonio identitario immateriale riconosciuto dall’Unesco. La coesione delle greggi, il lavoro dei cani, la ruvidità e la saggezza dei pastori, gli umori della carne sulla brace, la condivisione del cielo stellato in quota, il Montepulciano d’Abruzzo che scalda. 

La transumanza era il movimento stagionale del bestiame lungo le rotte migratorie nel Mediterraneo e nelle Alpi, una forma di pastorizia si potrebbe dire semplificando. Ogni anno in primavera e in autunno, migliaia di animali sono guidati, dall’alba al tramonto, da gruppi di pastori insieme ai loro cani e cavalli lungo percorsi costanti tra due regioni geografiche e climatiche. Un’opera ardua, un lavoro tanto faticoso quanto nobile, in grado di modellare le relazioni tra persone, animali ed ecosistemi. Rituali e pratiche sociali condivisi, il nomadismo, il contatto con la terra, la comprensione della mente animale, del volere della natura. Nei secoli la transumanza ha segnato la storia e l’aspetto delle genti e delle terre abruzzesi. Lo spostamento ripetuto delle greggi verso sud, per cercare d’inverno pascoli non ghiacciati e climi più miti, e a maggio di nuovo verso nord per tornare a casa, alla ricerca di erbe montane appena spuntate dopo lo scioglimento delle nevi, scandivano la vita agropastorale lungo i “tratturi” della regione. Un’autostrada d’erba che scende dalle montagne, attraversa vallate, borghi e piccoli centri, fino ad arrivare nelle pianure di Foggia, nel Tavoliere della Puglia. Si chiama il “Tratturo Magno”, il più grande tratturo per la transumanza delle greggi, lungo 243 chilometri che fino a cinquanta anni fa collegava l’Appennino alle Puglie, percorso dai pastori transumanti  a piedi. Oggi è in buona parte scomparso ma non la sua memoria e c’è ancora chi, come il dottore veterinario Pierluigi Imperiale (prematuramente scomparso nei giorni scorsi), uno dei massimi esperti di transumanza, il 29 settembre di ogni anno continua a perpetuarne la storia e a ripercorrere la lunga strada di una volta con la sua associazione Tracturo 3.000, nonostante oggi sia stata parecchio modificata dalla speculazione edilizia e i percorsi non sono fatti più di sola natura. È comunque un modo per mantenere in vita la storia e continuare a darle l’onore che merita. 

“Il rilancio delle aree interne – sostiene la presidente della Camera di Commercio Gran Sasso, Antonella Ballone – passa anche attraverso il sostegno e il rafforzamento delle attività tradizionali locali che costituiscono un tratto distintivo del territorio, e possono rappresentare un elemento attrattivo sia per il rilancio della zootecnia di montagna, che a fini turistici e per contribuire a dare il giusto valore alle produzioni tipiche del comparto agricolo e artigianale”. E così sull’attraente spianata di Fonte Macina a Campo Imperatore, si sono radunati 17 allevatori, 20 artigiani con i loro prodotti tipici e sono confluiti 6.972 capi di bestiame, oltre ai numerosi partecipanti che si sono ritrovati per toccare con mano la vita pastorale. I riconoscimenti non sono mancati: la “Verga d’argento” e il “Premio Speciale Camera di Commercio Gran Sasso d’Italia” sono andati entrambi a Claudio Petronio figlio di Giulio Petronio, il pastore e produttore di Castel del Monte recentemente scomparso, mentre “L’Attestato di Resilienza nella Pastorizia nell’Appennino” è stato assegnato all’azienda Stefano Belà di Santo Masso di Amatrice che dopo aver perduto il suo patrimonio ovino schiacciato dal crollo della stalla con il terremoto del 2016, ha scelto di restare per ricostruirlo dando così fiducia e speranza all’intero settore e al suo territorio. Infine il premio “Al più giovane pastore” presente alla 62esima rassegna e intitolato a Giulio Petronio e Gregorio Rotolo, i due allevatori scomparsi negli ultimi mesi, è stato assegnato a Lorenzo Damiano.

Pecora vuol dire tanto in Abruzzo, sicuramente arrosticino: rustell', rustelle, arrustelle, le parole dialettali più comuni lungo le diverse province con cui si fa riferimento all’espressione culinaria della pastorizia stanziale e transumante. Le origini di questo succulento cibo tanto arcaico quanto celebre, da diventare il prodotto identitario di un’intera regione nel mondo proviene proprio dai tratturi, le lunghe vie battute dagli armenti e dalle greggi durante la magica transumanza. È proprio qui, lungo le strade naturali modellate dagli animali durante l’anno, che si rintraccia la nascita degli arrosticini seppur oggi, vista anche la natura da latte delle pecore in Abruzzo, la pietanza viene realizzate con carni prevalentemente straniere. Ci avevano provato Maurizio Cutropia di Bracevia e l’indimenticabile pastore Gregorio Rotolo a produrre un arrosticino 100% abruzzese ma con la mancanza del produttore di formaggi scannese il progetto virtuoso si è arrestato. È d’obbligo però sottolineare quanto di eccellente derivi dagli ovini abruzzesi: il pecorino Canestrato di Castel del Monte, Presidio Slow Food, il pecorino Marcetto a pasta cremosa, la celebre preparazione della pecora alla callara, insieme alle altre leccornie che parlano di una terra, tutte presidio Slow Food: i fagioli di Paganica, la salsiccia di fegato aquilana, il cece di Navelli, le lenticchie di Santo Stefano di Sessanio. Quando si dice cultura edibile. 

Il viaggio dei pastori si ripete lento in Basilicata: ecco la transumanza. Entro maggio i Consigli regionali si riuniranno in vista dell’approvazione delle linee guida parchi e pastori. A un anno dalla firma, nessun atto ufficiale per il progetto pilota del Pon Ambiente che riguarda otto Regioni. Giovanna Laguardia su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

La transumanza si muove lungo strade e tratturi al ritmo lento del passo delle vacche. I programmi per valorizzarla vanno avanti con i tempi della burocrazia. Anche questi non certo fulminei. Circa un anno fa il Consiglio regionale di Basilicata siglò un accordo di partenariato con altre sette regioni d’Italia, per realizzare una iniziativa di valorizzazione delle comuni tradizioni rurali denominata «Parchi, pastori, transumanze e grandi vie della civiltà», nell’ambito del progetto «Parcovie 2030», inserito nel programma «Terre rurali d’Europa». Un progetto di durata decennale che dovrebbe mobilitare complessivamente, sui territori delle regioni interessate, una cifra di poco inferiore al miliardo e mezzo di euro. A distanza di un anno abbiamo chiesto alla presidenza del Consiglio Regionale quali passi avanti siano stati fatti nella realizzazione dell’ambizioso progetto. «Stiamo procedendo - ci hanno risposto dagli uffici del presidente Carmine Cicala - verso l’approvazione delle linee guida del progetto. Entro il mese di maggio dovrà essere convocata una riunione con i rappresentanti di tutte le Regioni interessate per fare il punto della situazione, proprio in vista della messa a punto delle linee guida, da discutere poi negli organi deputati delle varie Regioni».

Il progetto mira ad investire sul recupero di eventi e tradizioni, così come sul ripristino del patrimonio edilizio pubblico e privato da riconvertire per ospitalità turistica, valorizzazione delle varietà colturali tradizionali di piante alimentari e dell’artigianato tradizionale, difesa degli antichi tratturi demaniali, da mettere in rete per incentivare le forme di turismo lento (questi ultimi, fra l’altro, sono beni archeologici vincolati). 

Intanto in Basilicata la transumanza come forma di allevamento non ha perso nulla del suo antico smalto. Si pensi che viene tutt’ora praticata da circa 150 allevamenti di vacca podolica su 350 presenti in Basilicata, per un totale di circa diecimila animali che si spostano due volte all’anno verticalmente (dai pascoli di monte a quelli di valle), o orizzontalmente, da un pascolo all’altro della stessa proprietà. Un metodo, dunque, ampiamente utilizzato anche dalle aziende più grandi e moderne, che ha ancora una sua validità economica, almeno per le vacche, mentre si va riducendo l’utilizzo per le greggi di ovini.

Oggi per la transumanza, inserita nel 2019 nel patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco, si apre una nuova frontiera, con il rinnovato interesse dei consumatori per la sostenibilità ambientale e quello dei turisti per le tradizioni rurali. Se ne sono accorte anche le istituzioni, che sempre più spesso inseriscono la valorizzazione del mondo agro-silvo-pastorale nei propri programmi. Ma l’applicazione pratica delle buone intenzioni dichiarate spesso si scontra con i tempi della burocrazia. Nel frattempo, anno dopo anno, il viaggio dei pastori continua. Per fortuna.

·        A tutela degli animali. 

Lista Rossa Iucn, in Italia in pericolo più di 100 specie di animali vertebrati. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera l’8 Dicembre 2022

Situazione critica per 40 di loro, a un gradino dall’estinzione. A rischio il Falco Pescatore, la Trota Mediterranea, lo Squalo volpe e diversi pesci e volatili

In Italia ci sono 40 specie di vertebrati in «pericolo critico» e sono 65 quelle attenzionate con una valutazione di «pericolo generico». Lo rivela l’aggiornamento della lista rossa dello Iucn, l’Unione internazionale per la conservazione della natura, relativa al nostro Paese. La precedente rilevazione risale al 2013. In questa decade di intervallo la situazione si è aggravata in particolare per alcuni animali: la Savetta, il Carpione del Garda, il Temolo adriatico, il Geotritone del Serrabus, il Mignattino comune e l’Orecchione sardo. Non solo: accedono al gruppo del pericolo critico lo Squalo volpe, la Trota mediterranea, il Falco Pescatore, il Voltolino e lo Schiribilla.

Molti di questi nomi potrebbero non dire molto alla maggior parte delle persone. Ma quello che conta è che ogni volta che un animale avanza verso la possibile scomparsa, è un campanello di allarme che risuona. È sempre importante capire le cause che portano alla riduzione delle popolazioni e alla scomparsa di alcune di esse, ma alla base sappiamo che le attività umane hanno quasi sempre un ruolo, soprattutto in un territorio come quello italiano caratterizzato da una forte pressione antropica in uno spazio non particolarmente esteso. La presenza umana, in sostanza, finisce con il ridurre gli habitat naturali o con il comprometterli. Alla distruzione degli ambienti vanno aggiunte le attività industriali e agricole di tipo intensivo che compromettono la qualità dell’aria e in alcuni casi dei suoli e dei corsi d’acqua, oltre a contribuire al cambiamento climatico che è tuttavia un tema globale. La caccia indiscriminata e il bracconaggio completano il quadro, compromettendo le migrazioni e i normali cicli di riproduzione. Non solo: la cementificazione dei territori, anche la realizzazione di strade che attraversano boschi e campagne, interrompe la continuità degli ambienti creando forti limitazioni agli habitat. Insomma, gli elementi da considerare sono molti.

L’Italia è considerata uno degli Stati a maggiore presenza di biodiversità. «Gli ambienti italiani ospitano una fauna molto diversificata tra le più ricche dei Paesi europei — sottolinea la sezione italiana della Iucn —. Complessivamente circa il 10% della fauna italiana è endemica, vale a dire presente esclusivamente nel nostro Paese». Un patrimonio, insomma, da tutelare e valorizzare e che, come detto, è messo fortemente a rischio dalla modernità.

La Iucn monitora lo stato della biodiversità a livello internazionale e da circa mezzo secolo la sua «Red list» è lo strumento che consente di capire il livello di rischio delle diverse specie, sulla base di una classificazione che le divide a seconda di quanto vicina sia la possibilità di estinzione. La scala di valutazione va dall’estinzione conclamata alla «preoccupazione lieve», passando appunto per alcuni livelli che comprendono anche il critically endangered e l’endangered, ovvero il pericolo critico e il pericolo generico di cui si accennava all’inizio, che sono le due categorie che devono indurre ad attivare politiche attive di conservazione. Ma anche al livello «vulnerabile» o «quasi minacciata» una specie dovrebbe essere salvaguardata prima che entri nella fase di declino.

I focus nazionali consentono poi di fotografare la situazione nelle varie aree geografiche, per consentire alle autorità locali — che sono quelle con il maggiore potere decisionale e di intervento — di mettere in cantiere programmi e iniziative di tutela e di salvaguardia. La sensibilità verso i temi della conservazione della natura è molto diversa da nazione a nazione, ma il supporto statistico e informativo del database Iucn consente quantomeno di avere sempre il quadro della situazione sotto controllo. La revisione delle liste avviene in un arco temporale di dieci anni. Il lavoro di ricerca e di studio è affidato ad una rete di esperti a cui spetta la compilazione e l’aggiornamento degli elenchi. Nella valutazione del 2013 furono considerate 672 specie di vertebrati terrestri o d’acqua dolce presenti in Italia; con l’aggiornamento del 2022 il loro numero è arrivato a quota 700.

DAGONEWS il 4 dicembre 2022.  

La tartaruga più vecchia del mondo ha visto due guerre mondiali, ha assistito all'ascesa e alla caduta dell'impero britannico e ha compiuto 190 anni.

Jonathan, la tartaruga gigante delle Seychelles, è nata nell'era georgiana ed è il più antico animale terrestre vivente conosciuto sulla Terra e il più antico cheloniano mai registrato.

Nato all'inizio del 1800, Jonathan vive a Sant'Elena, un'isola situata nel mezzo dell'Oceano Atlantico meridionale, dal 1882.

L'età di Jonathan è una stima, ma le misurazioni della conchiglia documentate da una fotografia scattata poco dopo il suo arrivo a Sant'Elena mostrano che era completamente maturo e aveva almeno 50 anni quando arrivò dalle Seychelles nel 1882, anche se è probabile è ancora più vecchia. 

All'inizio del 2022 Jonathan ha ottenuto il “Guinness World Records” in quanto animale terrestre vivente più antico del mondo e questo mese è stato anche nominato come la tartaruga più vecchia di sempre. 

Jonathan ha trascorso la maggior parte della sua vita nel territorio britannico d'oltremare, una delle isole più remote del mondo. Vive nel parco di Plantation House insieme a tre tartarughe molto più giovani chiamate David, Emma e Fred.

Ha visto più di 35 governatori andare e venire da Plantation House e ha visto l'isola introdurre radio, telefoni, TV, internet, automobili e un aeroporto.

Carissimo veterinario: per Tac e protesi ai cuccioli il conto sfiora il miliardo. Michele Bocci su La Repubblica il 22 Novembre 2022.

Le cliniche per animali diventano sempre più hi-tech. "Un business che attira i fondi Usa"

Danno tanto amore e compagnia ma per accudirli servono un bel po' di soldi. Gli italiani spendono sempre di più per far visitare dai veterinari e per curare cani, gatti e altri animali domestici. Nel 2021, secondo i dati del report sul monitoraggio della spesa sanitaria della Ragioneria generale dello Stato, l'esborso ha quasi raggiunto il miliardo di euro (960 milioni), contro gli 858 milioni del 2019.

Michele Bocci per “la Repubblica” il 22 novembre 2022.

Danno tanto amore e compagnia ma per accudirli servono un bel po' di soldi. Gli italiani spendono sempre di più per far visitare dai veterinari e per curare cani, gatti e altri animali domestici. Nel 2021, secondo i dati del report sul monitoraggio della spesa sanitaria della Ragioneria generale dello Stato, l'esborso ha quasi raggiunto il miliardo di euro (960 milioni), contro gli 858 milioni del 2019. Si tratta di un incremento del 12%. Tenendo fuori il 2020, molto particolare a causa della pandemia, negli ultimi anni non si era mai vista una crescita così importante. E siamo in un periodo di crisi.

I dati sono quelli trasmessi al sistema Tessera sanitaria per essere inseriti nei 730. Ad assorbire quasi il 70% della spesa sono i veterinari, seguono le farmacie pubbliche e private, che hanno incassato 240 milioni. Ovviamente a tutti questi costi vanno aggiunti quelli per il cibo e tutti gli altri prodotti non sanitari acquistati dai padroni.

 Il numero degli esemplari da compagnia in Italia varia a seconda delle fonti. Una delle più attendibili è considerata Assalco, l'associazione nazionale imprese per l'alimentazione e la cura degli animali. Il totale è di 64 milioni. Tolti i pesci, gli uccelli, i rettili, i piccoli mammiferi, restano 10 milioni di gatti e quasi 9 di cani.

La spesa sanitaria però non cresce solo perché il numero più alto dei "pazienti". Ci sono anche altri motivi, più tecnici. «L'animale fa parte del nucleo familiare e si cerca di garantirgli le stesse terapie utilizzate per l'uomo», dice Marco Melosi, presidente di Amvi, l'associazione nazionale dei veterinari che raccoglie circa 15 mila professionisti privati. La richiesta fa crescere l'offerta e ormai, spiega Melosi, «un'attrezzatura come la tac che un tempo era una rarità, si trova in tantissime delle nostre strutture. In generale si assicurano prestazioni che prima non venivano offerte».

Agli animali si fanno visite ma anche tanti interventi. Come le protesi d'anca che costano duemila euro, un prezzo in linea con quello delle cliniche private degli umani. Poi c'è la diagnostica, con ecografie a 100 euro e risonanze e tac a 4-500 euro. Non c'è un tariffario, quindi il mercato è completamente libero e ci possono essere differenze importanti da un veterinario all'altro. «Una delle ultime novità è l'ingresso di corporate e fondi di investimento anche statunitensi che acquistano le strutture più grandi e allargano il loro mercato - spiega Melosi - Siamo totalmente privati e per mettere in piedi una clinica ci vuole molto denaro. Così arriva chi ce l'ha».

Evidentemente si ritiene che il settore sia redditizio. Riguardo ai farmaci, la spesa è salita molto, visto che è passata in due anni da 190 a 240 milioni di euro (+26%). Anche in questo caso si tratterebbe di un mix tra crescita del numero degli animali ma anche dei prezzi dei medicinali. Ma a pesare sui bilanci delle famiglie sono soprattutto i costi non direttamente sanitari. «La spesa per il pet food ogni anno vede un incremento a doppia cifra - dice Melosi - e a costare sempre di più sono i prodotti di fascia alta». Poi c'è il fashion, collarini, vestiti e altri gadget, che farà la sua comparsa addirittura nella prossima fiera di Pitti Uomo a Firenze, con uno spazio che si chiama Pittipets. «In tutto, il giro di affari delle spese non sanitarie per gli animali sarebbe di ben 6 miliardi di euro», conclude il veterinario.

Apre a Roma il primo ospedale veterinario gratuito: quando nel resto d’ Italia? Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Novembre 2022

Nel 2024 aprirà il primo ospedale veterinario gratuito. Secondo le prime informazioni circolate non si tratterrebbe di una struttura veterinaria, ma di un vero e proprio ospedale che raccoglie diversi servizi.

La maggior parte delle persone hanno un cane o un gatto nelle proprie case con cui trascorrono molto tempo insieme. Gli animali sono diventati i migliori amici degli uomini, fedeli e sempre pronti a venire in aiuto, nessuno può farne a meno. A Roma, i diretti interessati avranno una struttura tutta per loro: nel 2024 aprirà il primo ospedale veterinario gratuito. Secondo le prime informazioni circolate non si tratterrebbe di una struttura veterinaria a cui siamo soliti pensare, ma di un vero e proprio ospedale che raccoglie diversi servizi.

Sabrina Alfonsi, Assessore all’Ambiente, Agricoltura e Rifiuti di Roma Capitale, si sta occupando del progetto che prenderà forma all’interno di strutture già esistenti, recuperando spazi non utilizzati e una superficie di circa 670 mq. Nei prossimi mesi arriveranno ulteriori aggiornamenti. Il progetto rappresenta senza dubbio per l’Italia un grande passo di civiltà e tutela del benessere dell’animale.

Resta da augurarsi ed auspicare che altre amministrazioni comunali o regionali, seguano questa iniziativa consentendo alle persone anziane, pensionate o prive di disponibilità economica di poter curare il loro amico a quattro zampe che spesso è l’unica compagnia che hanno.

L’adozione di un animale da compagnia per gli anziani è un ottimo metodo per allungare la vita e per trascorrere in salute gli anni dopo il pensionamento. Il tutto emerge dai dati del rapporto Senior Italia Federanziani e dall’indagine Over 65 e animali da compagnia dell’ Anmvi. Entrambi gli studi rilevano come avere un cane o un gatto sia basilare per aiutare le persone a condurre un’esistenza sana e attiva anche dopo la pensione: oltre l’89 per cento degli intervistati porta il cane a passeggio; il 78,7 per cento lo fa almeno 2 volte al giorno. Per la maggior parte degli anziani la presenza di un animale da compagnia incide positivamente anche sulla salute psichica, eliminando in massima parte stress e depressioni e dando uno scopo alla vita quotidiana.

Dall’analisi condotta dal centro studi di Senior Italia emerge che i possessori di cani hanno il 57 per cento di probabilità in più di svolgere attività fisica rispetto a chi non ha animali domestici. Gli anziani che vivono con un cane sono più in forma, tanto da dimostrare biologicamente 10 anni di meno. Secondo l’osservatorio di Senior Italia Federanziani, gli over 65 sono proprietari responsabili e sempre attenti alle cure veterinarie e all’accudimento costante del loro amico a quattro zampe.

I guadagni in termini di salute

I vantaggi fisici della scelta di un pet come amico sono notevoli. Secondo il rapporto, infatti, camminare in media un’ora e quaranta minuti al giorno porterebbe diversi risultati: 432mila diabetici con meno complicanze, con risparmi pari a circa 1,2 miliardi di euro, riduzione dell’incidenza di patologie cardiovascolari (-7 per cento) con risparmi pari a circa 1,3 miliardi di euro, maggior stima di se stessi (+6 per cento), più alti livelli di esercizio fisico svolto (+10,5 per cento) e minor incidenza di depressione (-5,73 per cento) rispetto a coloro che non possiedono animali domestici, con risparmi pari a circa 252 mila euro l’anno. In totale, la stima dei possibili risparmi per il Servizio sanitario nazionale si aggirerebbe intorno ai 2,7 miliardi l’anno. Redazione CdG 1947

Da lastampa.it il 19 novembre 2022.

Decine di pecore hanno camminato in cerchio per 12 giorni di fila nella regione autonoma della Mongolia interna, nella Cina settentrionale. Il bizzarro comportamento, ripreso da una telecamera di sorveglianza, mostra il grande gregge che marcia continuamente in senso orario in un cerchio quasi perfetto dentro una fattoria. 

Alcune pecore come mostra il filmato osservano dall'esterno il cerchio creato dagli altri esemplari, mentre altre a volte rimangono immobili al centro. Il video della strana scena è stato twittato mercoledì dal quotidiano di Stato Cinese People's Daily, che ha riferito che le pecore sono perfettamente sane e che la causa di questo comportamento rimane un mistero. La proprietaria delle pecore, identificata come la signora Miao, ha dichiarato che tutto è iniziato con alcuni esemplari prima che l'intero gregge si unisse a loro. 

Sebbene nella fattoria ci siano 34 recinti per le pecore, solo le pecore di uno dei recinti - il numero 13 - si sono comportate in questo modo. Gli animali sono in movimento dal 4 novembre. Non è chiaro se si fermino per mangiare o bere. Alcuni hanno ipotizzato che il comportamento delle pecore possa essere causato da una malattia batterica chiamata listeriosi, nota anche come "malattia del cerchio".

 "Inizialmente, gli animali colpiti sono anoressici, depressi e disorientati. Possono spingersi negli angoli, appoggiarsi a oggetti fermi o girare intorno al lato colpito", secondo il Manuale di medicina Merck che spiega anche come i focolai si verificano in genere a causa di foraggi rovinati o di bassa qualità. Negli ovini e nei caprini, tuttavia, la morte avviene di solito entro 24-48 ore dalla comparsa dei sintomi.

Il mistero delle pecore: "Camminano in cerchio da più di 10 giorni". In un allevamento cinese le telecamere hanno registrato lo strano comportamento delle pecore che da più di 10 giorni camminano in circolo. Forse sono malate. Valentina Dardari il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.   

Le telecamere installate all’interno di un allevamento cinese stanno registrando le immagini alquanto particolari di un gruppo di pecore, più di cento, che continua a camminare in cerchio senza mai fermarsi da oltre una decina di giorni. Il filmato è stato ripreso in una fattoria sita nella città di Baotou, in Cina, e più precisamente nella regione della Mongolia interna. Nessuno è riuscito fino a questo momento a dare una spiegazione al comportamento di questi animali, che non sembra avere una ragione valida alle sue spalle.

Camminano senza mai fermarsi

Il video in questione è stato pubblicato sulla pagina Twitter dal People's Daily e documenta il movimento continuo del gregge. Le pecore continuano, senza sosta, a muoversi in modo diligente, una accanto all’altra in senso orario, sia di giorno che di notte. La sua visione è abbastanza angosciante e fa pensare a dei detenuti che non hanno nulla da fare se non continuare a camminare in circolo durante l’ora d’aria, come per esempio nel dipinto 'La Ronda dei carcerati' di Vincent Van Gogh, dove i detenuti camminano in cerchio, in fila, in senso orario.

Come si legge nel tweet che accompagna il filmato, la strana marcia è iniziata lo scorso 6 novembre e da allora prosegue ininterrottamente. Alcuni esperti hanno trovato la causa in una malattia, la listeria. Si tratta di un genere di batteri, che comprende sei specie, che sono batteri Gram-positivi, che attaccano principalmente il sistema immunitario. Essi sono ampiamente distribuiti nell'ambiente e possono contaminare alimenti, come latte e i suoi derivati. E quindi anche il foraggio, magari di qualità scadente, con cui vengono nutriti gli ovini. Questi batteri possono andare a infiammare zone del cervello e provocare strani comportamenti nel malato. Secondo i media locali però gli animali starebbero benissimo e non sarebbero affatto malati.

Nessuno riesce a dare una spiegazione valida

Fatto sta che, come ha raccontato la proprietaria del gregge maratoneta, all’inizio erano poche le pecore che giravano in tondo, e poi, via via, anche le altre le hanno seguite. La donna, ovviamente stranita dal comportamento delle sue bestiole, ha spiegato alla stampa locale che, su 34 ovili ospitati nella sua fattoria, solo il gregge identificato con il numero 13 ha questo strano comportamento e si comporta in modo anomalo. Le altre continuano a fare la loro vita da pecore. In ogni caso nessuno è ancora riuscito a capire cosa stia succedendo e soprattutto perché.

La vicenda. "Ecco perché giravano in cerchio". Risolto il mistero delle pecore. Storia di Alessandro Ferro su Il Giornale il 23 novembre 2022.

Il mistero sulle pecore che hanno girato ininterrottamente in cerchio per 12 giorni di cui ci siamo occupati sul Giornale.it potrebbe, adesso, avere alcune spiegazioni. Il mistero sul video davvero inquietante pubblicato per la prima volta dal profilo Twitter del quotidiano cinese People's Day sarebbe stato risolto da uno scienziato, il prof. Matt Bell del Dipartimento di Agricoltura dell'Università Hartpury di Gloucester, in Inghilterra.

Le due ipotesi

Alla rivista online settimanale Newsweek, Bell ha dichiarato che le pecore chiuse dentro a un recinto per lunghi periodi potrebbero essere vittime di "comportamenti stereotipati, con ripetuti cerchi a causa della frustrazione per essere nel recinto e limitate" sulle direzioni in cui potrebbero andare se fossero libere. "Questo non va bene", ha detto il professore, spiegando che le altre pecore non vittime di questa frustrazione si sarebbero unite "come animali da gregge ai loro amici" in segno di solidarietà.

L'altra ipotesi formulata da alcuni esperti attribuisce quel comportamento alla listeriosi, malattia batterica conosciuta anche il nome di "malattia circolare": in pratica i batteri possono infettare le pecore con il contatto tramite suolo, cibo e feci della malattia che finiscono fino al cervello provocando problematiche tra cui la stranezza di cui abbiamo parlato ossia i "circoli" nel gregge.

"Tutto il gregge ha seguito l'esempio"

Come ricordano le cronache cinesi, le pecore della fattoria di Baotou, località della della Mongolia interna, hanno iniziato questo strano comportamento il 4 novembre scorso andando avanti per 12 giorni consecutivi. Quello che non si conosce, però, è se di tanto in tanto abbiano fatto soste per mangiare o bere e se questi movimenti stiamo continuando ancora oggi o se il fenomeno si è arrestato. La proprietaria della fattoria è stata identificata nella signora Miao dal settimanale americano, la quale ha affermato che il movimento circolare all'inizio riguardava soltanto un numero ristretto di pecore e che, gradualmente, anche tutte le altre hanno iniziato ad aggregarsi seguendone l'esempio.

La signora ha dichiarato che, fra i 34 recinti posseduti, soltanto in uno di essi (il numero 13) si è registrato l'inedito fenomeno che ha fatto il giro del mondo.

Verona, veterinaria muore schiacciata da una mucca che stava visitando. L'intervento dei tecnici Spisal in un cantiere. La Repubblica il 3 Novembre 2022.

La tragedia in un allevamento di Custoza. La dottoressa Chiara Santoli aveva 25 anni

Una veterinaria di 25 anni è morta schiacciata da un bovino che stava visitando. La tragedia è avvenuta all'interno di un allevamento a Custoza, in provincia di Verona. L'incidente si è verificato intorno alle dieci di mattina. Sulla dinamica esatta sono in corso accertamenti da parte dei carabinieri della stazione di Sommacampagna (Verona) con gli ispettori dello Spisal dell'Ulss 9 Scaligera.

La veterinaria si chiamava Chiara Santoli, era originaria di Rovereto e aveva solo 25 anni. Si era laureata alla facoltà di medicina e veterinaria dell'Università di Padova. Secondo una prima ricostruzione,  è deceduta all'istante, per trauma da schiacciamento.

Santoli stava svolgendo il tirocinio professionale dopo avere superato l'esame di Stato ed essersi iscritta all'Albo dei Veterinari della provincia di Trento, lo scorso 15 marzo.

Pochi minuti prima delle ore 10.00 è stata colpita dall'animale nel piccolo allevamento di bovini all'interno dell'agrigelateria "Corte Vittoria", un agriturismo di Custoza (Verona) dove viene prodotto latte, trasformato poi in formaggi, yogurt e gelati, con un'area anche di degustazione e ristoro. La 25enne è caduta restando schiacciata tra la ringhiera e il box della stalla, dopo il movimento improvviso del bovino. 

La giovane veterinaria ha riportato un trauma cranico e un trauma toracico che sono stati fatali: i soccorritori del Suem 118, arrivati con l'elicottero di Verona Emergenza, hanno potuto soltanto constatarne il decesso. Sul posto per i rilievi e per ricostruire l'intera dinamica del tragico incidente sono intervenuti i Carabinieri di Sommacampagna e gli ispettori dello Spisal dell'Ulss 9 Scaligera.

Si è spenta l’orsa Greta, salvata dalla Lituania e ospitata nel Parco d’Abruzzo. Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera il 20 Ottobre 2022.

Viveva in pessime condizioni e si esibiva in un circo itinerante. Recuperata da un’associazione italiana, è morta di vecchiaia: aveva 30 anni

Gli ultimi due anni della sua vita li aveva trascorsi in un ambiente tranquillo e dignitoso, nel Centro visite del Parco nazionale d’Abruzzo a Pescasseroli. L’orsa Greta si è spenta nella notte di domenica all’età di 30 anni, molto anziana per un’orsa, un’età che difficilmente avrebbe raggiunto in libertà. «Si è spenta piano piano, senza sofferenza», ha detto il direttore del Parco, Luciano Sammarone. «Già in estate aveva cominciato a dare segnali di stanchezza: mangiava poco e usciva e camminava di meno».

Da un circo in Lituania

Greta era uno dei tre orsi bruni (Nita e Bruno gli altri due) che erano ospitati dall’estate 2020 in Abruzzo. Provenivano da Joniskis, in Lituania, dove erano tenuti da anni in condizioni pessime da un circo. I tre animali erano stati sequestrati dal ministero dell’Ambiente lituano dopo una segnalazione dei veterinari dell’Associazione italiana «Salviamo gli orsi della Luna». I tre orsi, Bruno aveva 10-15 anni e Nita 10, non potevano essere rimessi in libertà perché, dopo anni di detenzione, non erano in grado di badare a se stessi e la Lituania non aveva strutture per tenerli. La soluzione era sopprimerli, ma si è fatto avanti il Parco d’Abruzzo e, grazie anche alla Fondazione Cappellino e al suo progetto Humans & Wildlife, dopo un lungo e faticoso viaggio sono arrivati in Italia, dove sono stati tenuti rigorosamente separati dagli orsi locali, che appartengono a una diversa sottospecie, quella marsicana.

La salvezza

Quando venne salvata, raccontano i veterinari, Greta sembrava ormai rassegnata, passava le sue giornate in totale apatia e i suoi denti erano in pessime condizioni. Lei e i suoi sventurati compagni erano tenuti in un’autentica «prigione»: senza finestre, recinzioni fatiscenti, inferriate arrugginite, nessuna vasca con l’acqua, senza anche le più semplici mangiatoie e abbeveratoi.

Il ricordo

«Seppur lontana dalla natura libera e selvaggia, negli ultimi due anni la nuova casa di Pescasseroli ha permesso a Greta di terminare la sua esistenza con ritrovata tranquillità e soprattutto dignità. La salutiamo con affetto», la ricorda in una nota il Parco nazionale d’Abruzzo, «pensando a tutte quelle persone, e soprattutto quei bambini e quelle bambine, che grazie a lei hanno potuto osservare un orso da vicino, rimanendo colpiti dalla sua bellezza, imparando, magari, che questa specie meravigliosa ha bisogno di tanto spazio, rispetto e impegno da parte di ognuno di noi, per continuare a vivere libera sulle nostre montagne». 

Sette cavalli selvaggi dell'Aveto catturati e rinchiusi. Gli animalisti: «Devono tornare in libertà». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

I volontari temono per la sorte degli esemplari catturati. La telefonata dell'onorevole Brambilla al governatore della Regione Liguria, Giovanni Toti: «Dobbiamo garantire il benessere di questi cavalli selvaggi, riportandoli nel loro ambiente naturale». 

Sette cavalli selvaggi dell’Aveto, tra le regioni Liguria ed Emilia-Romagna, sono stati trovati venerdì mattina, chiusi in un recinto: sottratti ai loro pascoli in altura nel territorio di Borzonasca (Genova), sono stati caricati su un camion, con il pretesto del «pericolo» per la sicurezza pubblica. A lanciare l’allarme gli Animalisti italiani e la comunità di naturalisti "I Cavalli Selvaggi dell'Aveto Wildhorsewatching". «I cavalli sono stati privati della loro libertà e dignità, senza il minimo rispetto del loro benessere, pronti per essere deportati», sostengono gli animalisti, chiarendo come non sia nota la destinazione che «sicuramente avrà connotati di sfruttamento e lucro. Il nostro timore è che diventino carne da macello e che siano portati in un allevamento a Imperia». Gli animali mostrano segni di sofferenza e sono privi di nutrimento dal momento che l’erba a loro disposizione è finita. Tra loro anche una giumenta incinta e cieca da un occhio. «Non sapremo mai quanti arriveranno vivi a destinazione, come è già successo in passato... Non staremo a guardare sperando che le istituzioni intervengano, perché oggi è anche da loro che li dobbiamo difendere», attaccano.

Un appello ripreso da numerose associazioni rilanciato anche dalla Lega Italiana Difesa Animali e Ambiente. La presidente , l'onorevole Michela Vittoria Brambilla, ha avuto una telefonata con il governatore della Regione Liguria, Giovanni Toti, e ha sottolineato l'importanza di «garantire la libertà e il benessere di questi cavalli selvaggi, riportandoli nel loro ambiente naturale». Toti — racconta la parlamentare — «ha assicurato che nessun cavallo sarà danneggiato da qualsiasi azione intrapresa» e ha convocato per lunedì 24 ottobre una riunione con le parti interessate. «Non ci può essere – sottolinea Brambilla – alcuna deportazione, men che meno in luoghi dove i cavalli potrebbero essere sfruttati o addirittura macellati. I cavalli selvaggi dell’Aveto vanno riconosciuti e tutelati quale patrimonio della Regione». 

Il territorio protetto dove vivono questi equini interessa tre distinte vallate: la val d’Aveto, la val Graveglia e la valle Sturla. Eredi di un piccolo gruppo, il cui proprietario morì oltre una ventina di anni fa, i cavalli dell'Aveto rappresentano un'unicum in Italia: sono sopravvissuti adattandosi alla vita in natura e si sono riprodotti liberamente. Animali liberi, «abituati a cavarsela da soli anche nella ricerca del cibo, attentamente monitorati da volontari e ricercatori di varie Università, che da tempo attirano l’interesse dei turisti. Sarebbe opportuno riconoscere la “popolazione rinselvatichita” di cavalli e stanziare fondi adeguati per salvaguardarli da maltrattamenti, bracconaggio e macellazioni clandestine», conclude Brambilla. Questi animali — ricorda una nota di Toti — «hanno creato alcuni disagi e provocato altrettanti incidenti agli abitanti della zona, pertanto possono rappresentare un pericolo per l'incolumità pubblica. Per questo l'intenzione, se le analisi che verranno fatte daranno esito positivo, è semplicemente quella di trasferirli in altura lontano dalle case, senza fare loro del male. Ogni operazione — sottolinea il governatore — sarà fatta alla luce del sole e verificabile da tutti coloro che vorranno controllare».

(ANSA il 13 ottobre 2022) - Le popolazioni di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci sono calate in media del 69% dal 1970, nel mondo, e in America Latina e nei Caraibi la perdita di fauna selvatica ha raggiunto il 94%. Il Living Planet Report (LPR) 2022 del Wwf monitora quasi 32.000 popolazioni di 5.230 specie di vertebrati e lancia un appello per la COP15 di dicembre: "ci aspettiamo un ambizioso accordo" in grado di invertire la perdita di biodiversità. "Una doppia emergenza, il cambiamento climatico e la perdita di biodiversità, minaccia il benessere delle generazioni attuali e future", dichiara il direttore generale del Wwf, Marco Lambertini.

"Il Wwf è estremamente preoccupato da questi nuovi dati - aggiunge Lambertini - che mostrano un calo devastante delle popolazioni di fauna selvatica, in particolare nelle regioni tropicali che ospitano alcune delle aree più ricche di biodiversità al mondo". Fra le specie monitorate dal Living planet report ci sono i delfini rosa di fiume dell'Amazzonia, le cui popolazioni sono crollate del 65% tra il 1994 e il 2016 nella Riserva brasiliana di Mamirauá; i gorilla di pianura orientale, il cui numero ha subito un declino stimato dell'80% nel Parco nazionale di Kahuzi-Biega in Congo tra il 1994 e il 2019; e i cuccioli di leone marino dell'Australia meridionale e occidentale, il cui numero è calato di due terzi tra il 1977 e il 2019.

Complessivamente, come gruppo di specie, la riduzione maggiore riguarda le popolazioni d'acqua dolce monitorate, diminuite in media dell'83% a causa della perdita di habitat e delle barriere alle rotte migratorie. Secondo il Living Planet Report le principali cause del declino delle popolazioni di fauna selvatica sono i cambiamenti nell'uso del suolo e del mare, lo sfruttamento eccessivo di piante e animali, il cambiamento climatico, l'inquinamento e le specie aliene invasive, le minacce provenienti da agricoltura, caccia e bracconaggio, e deforestazione sono particolarmente gravi ai tropici; mentre hotspot di inquinamento sono particolarmente importanti in Europa.

Inoltre a meno che non limitiamo il riscaldamento globale a meno di 2°C, o preferibilmente 1,5°C, è probabile che il cambiamento climatico diventi la causa principale della perdita di biodiversità e del degrado degli ecosistemi nei prossimi decenni. Il rapporto indica che solo aumentando gli sforzi di conservazione e ripristino, producendo e consumando, in particolare il cibo, in modo più sostenibile e decarbonizzando rapidamente e profondamente tutti i settori sarà possibile mitigare la doppia crisi di clima e natura.

Dal 1970 ad oggi le popolazioni animali sono calate del 69%. Iris Paganessi su L'Indipendente il 16 ottobre 2022.

Secondo quanto emerso dai dati del Living Planet Report 2022, il rapporto biennale sulla salute del pianeta lanciato dal WWF, negli ultimi 50 anni le popolazioni selvatiche di mammiferi, uccelli, anfibi, rettili e pesci sono calate in media del 69%. In particolare, quelle d’acqua dolce hanno registrato una diminuzione dell’83%, la più grande rispetto a qualsiasi altro gruppo di specie, mentre la biodiversità della fauna selvatica in America Latina e nella regione dei Caraibi è calata in media del 94%.

Ma non solo. Fornito dalla Zoological Society of London, il Living Planet Index – che comprende quasi 32mila popolazioni di 5.230 specie di vertebrati – mostra che, nelle regioni tropicali, le popolazioni di vertebrati selvatici monitorati sta crollando.

La causa risiede nelle attività antropologiche. Secondo quanto emerso dalle mappe globali delle minacce elaborate dagli autori della ricerca per 23.271 specie, infatti, l’agricoltura è la più diffusa per gli anfibi, mentre caccia e bracconaggio lo sono per uccelli e mammiferi. Nelle regioni polari, nella costa orientale dell’Australia e nel Sud Africa si sono rilevate le più alte probabilità di impatto al cambiamento climatico, con una maggiore vulnerabilità per gli uccelli. In particolare il cambiamento climatico è stato collegato alla perdita di intere popolazioni di oltre mille specie vegetali e animali.

Inoltre, circa metà delle minacce nei confronti delle specie d’acqua dolce sono rappresentate dalla perdita e dalle modifiche dell’habitat, come dighe e bacini idrici artificiali che ne mettono a rischio la sopravvivenza.

Tra le specie analizzate troviamo anche squali e razze oceaniche, le cui specie sono diminuite del 71% negli ultimi 50 anni. Anche i delfini rosa di fiume nella Riserva di sviluppo sostenibile di Mamirauá sono stati analizzati e la popolazione risulta crollata del 65% tra il 1994 e il 2016.

“A meno che non si limiti il riscaldamento globale a meno di 2°C, o preferibilmente 1,5°C è probabile che il cambiamento climatico diventi la causa principale della perdita di biodiversità nei prossimi decenni” hanno concluso gli autori. [di Iris Paganessi]

La Giornata mondiale degli animali del 4 ottobre, San Francesco: la storia e le frasi. Silvia Morosi Il Corriere della Sera il 4 Ottobre 2022.

La ricorrenza festeggiata per la prima volta in Germania nel 1925 e oggi riconosciuta a livello mondiale. 

Tutti gli anni il 4 ottobre si celebra la Giornata mondiale dedicata agli animali. Un evento istituito nel 1931 e che cade nel giorno in cui si festeggia anche san Francesco d’Assisi, patrono degli animali. Nonostante la prima edizione della Giornata mondiale dedicata agli animali (o World Animal Day) risalga al marzo del 1925 (la prima venne celebrata al Palazzo dello Sport di Berlino, in Germania), è nel maggio del 1931 che la ricorrenza viene riconosciuta universalmente. 

La decisione viene presa nel corso di un congresso sulla tutela degli animali tenutosi a Firenze e promossa dallo scrittore ed editore tedesco Heinrich Zimmermann. «Attraverso una maggiore consapevolezza ed educazione possiamo creare un mondo in cui gli animali sono sempre più riconosciuti come esseri senzienti, degni di rispetto», si legge nel sito ufficiale del World animal day. 

In occasione della Giornata, l’Ente nazionale per la protezione degli animali ha lanciato una petizione online per la riduzione dell’Iva su cibo e spese veterinarie, lanciando l’allarme sull’aumento degli abbandoni degli amici a quattro zampe. «Oggi nel giorno di San Francesco – afferma Carla Rocchi, presidente nazionale Enpa — si celebrano gli animali, ma diciamo la verità c’è poco da festeggiare. Sono aumentati gli abbandoni di cani e gatti e le cessioni sono sempre più numerose. Dal primo gennaio al 30 settembre sono 17.585 i cani ospiti nei nostri rifugi e 39752  i gatti accuditi tra gattili e colonie feline e l’anno deve ancora finire. E purtroppo le adozioni sono in grande calo». Inoltre i casi di violenza e maltrattamento di animali che le Guardie Zoofile Enpa e i volontari sul territorio intercettano sono sempre più frequenti. «Solo quest’anno l’ufficio legale Enpa ha presentato attraverso l’avvocatessa Enpa Claudia Ricci oltre 230 denunce, più di 50 costituzioni di parte civile, 40 diffide e ottenuto 42 condanne, senza considerare gli innumerevoli decreti penali di condanna applicati».  Solo dall’inizio di quest’anno Enpa ha aiutato oltre mille famiglie in difficoltà attraverso il progetto dedicato Enpa Rete Solidale (nei propri ambulatori sociali di Roma, Trieste, Perugia, Milano, Lecce e Torino). 

Ecco alcune frasi per celebrarli: 

Amate gli animali: Dio ha donato loro i rudimenti del pensiero e una gioia imperturbata. Non siate voi a turbarla, non li maltrattate, non privateli della loro gioia, non contrastate il pensiero divino. Uomo, non ti vantare di superiorità nei confronti degli animali: essi sono senza peccato, mentre tu, con tutta la tua grandezza, insozzi la terra con la tua comparsa su di essa e lasci la tua orma putrida dietro di te; purtroppo questo è vero per quasi tutti noi. (Fedor Dostoevskij) 

La vita di un agnello non è meno preziosa di quella di un essere umano. Trovo che più una creatura è indifesa, più ha il diritto ad essere protetta dall’uomo dalla crudeltà degli altri uomini (Mahatma Gandhi)

 Gli animali hanno propri diritti e dignità come te. È un ammonimento che suona quasi sovversivo. Facciamoci allora sovversivi: contro ignoranza, indifferenza, crudeltà. (Marguerite Yourcenar) 

Fissa il tuo cane negli occhi e tenta ancora di affermare che gli animali non hanno un’anima: (Victor Hugo) 

La scomparsa degli animali è un fatto di una gravità senza precedenti. Il loro carnefice ha invaso il paesaggio; non c’è posto che per lui. L’orrore di vedere un uomo là dove si poteva contemplare un cavallo! (Emile Michel Cioran) 

Puoi conoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta gli animali. (Immanuel Kant) 

L’uomo non sa di più degli altri animali; ne sa di meno. Loro sanno quel che devono sapere. Noi, no. (Fernando Pessoa) 

Perché amo gli animali? Perché io sono uno di loro. Perché io sono la cifra indecifrabile dell’erba, il panico del cervo che scappa, sono il tuo oceano grande e sono il più piccolo degli insetti. E conosco tutte le tue creature: sono perfette in questo amore che corre sulla terra per arrivare a te. (Alda Merini) 

La storia parla troppo poco degli animali. (Elias Canetti) 

Se l’ape scomparisse dalla faccia della terra, all’uomo non resterebbero che quattro anni di vita. (Albert Einstein)

 «Il coccodrillo ha il cuore tenero»: storie di genitori e famiglie straordinarie nel mondo animale. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2022.

Il viaggio di Willy Guasti alla scoperta delle più diverse “famiglie bestiali”: « Ci piace antropomorfizzare gli animali e proiettare la nostra natura su di loro. Dobbiamo stare attenti a giudicare con il nostro metro creature con una storia evolutiva molto diversa» 

Il coccodrillo, nel pensiero comune, non è un animale benvoluto e non ha una fama positiva. Si fa fatica a pensare, ad esempio, che una volta depositate le uova nella sabbia, i genitori rimangano vicino alla futura prole. O che, ancora, le fauci che consideriamo «un’arma letale»siano il luogo più sicuro per p roteggere i piccoli appena nati prima di condurli in acqua. Un contrasto scelto per guidarci, sin dal titolo del libro («Il coccodrillo ha il cuore tenero», Rizzoli Libri), in un incredibile viaggio alla scoperta di famiglie bestiali, comportamenti assurdi e genitori pazzeschi, come racconta l’autore Willy Guasti. Nato a Prato nel 1991 e laureatosi in Scienze Naturali all’Università di Firenze con una tesi sui dinosauri, il divulgatore scientifico gestisce su Youtube il canale Zoosparkle, uno dei progetti dedicati ad animali, evoluzione e paleontologia più seguiti in Italia. «Tra i titoli del libro, non a caso, rischiavano di finire anche gli scarafaggi, ma avrebbero suscitato più repulsione dei coccodrilli», sorride al telefono. 

«Ci sono mamme che arrivano a farsi mangiare per nutrire i propri piccoli e altre che, piuttosto che prendersene cura, posizionano le uova nei nidi altrui. Ci sono papà single che difendono i propri figli dai predatori e nonne depositarie del sapere — come tra le orche — che tengono in piedi tutta la famiglia. E ancora, genitori che fanno crescere i propri cuccioli ad altri (come una baby-sitter)», racconta al Corriere della Sera l’autore. «Volevo scrivere un libro che racchiudesse diverse curiosità e non fosse semplicemente una collezione di cose strane. Per questo ho scelto di partire dal macro-argomento della cura parentale, presentando ogni capitolo con una sintesi introduttiva e una vignetta ironica (“Claudia Plescia ha avuto carta bianca e fatto un lavoro straordinario”) e poi introducendo l’argomento. Con un’attenzione al linguaggio, perché ogni concetto scientifico non fosse lasciato al caso, ma spiegato anche in poche righe», prosegue, citando ad esempio la «fitness, un modo per misurare il successo riproduttivo di un individuo».

Attraverso un linguaggio ironico ma non per questo meno approfondito, «il testo porta il lettore — piccolo e grande — a scoprire alcune meraviglie del mondo animale e sfatare alcuni dei miti ai quali siamo abituati, come quello che l’allattamento sia l’unica forma per occuparsi della prole. Tutti i metodi, lo dice la scienza, sono equivalenti». Insomma, «al di là delle connotazioni con le quali osserviamo con la nostra morale da fuori, il mondo è pieno di esempi di animali che hanno trovato modi davvero originali per assicurarsi che i piccoli sopravvivano e vadano per la loro strada. E non si tratta solo di mammiferi e uccelli, come molti potrebbero credere, ma anche di rane, ragni, granchi, centopiedi, insetti», chiarisce Guasti. Senza dimenticare che alcune specie, come «le cecilie, strani anfibi simili a grossi lombrichi che hanno la vista atrofizzata, hanno un modo di riprodursi diverso da quello di tutti gli altri anfibi, a fecondazione interna». 

È il caso di dirlo: il mondo (animale) è bello perché è vario. 

Un testo frutto non solo degli studi universitari, ma anche della ricerca (potete consultare le centinaia di testi visionati dall’autore nella bibliografia) e del confronto con altri studiosi: «Io stesso — chiarisce l’autore — mi sono stupido scrivendo di alcuni animali e scoprendo cose che non conoscevo. Parliamo ad esempio della complessità dei parassiti da cova come i cuculi. O ancora delle aquile che consideriamo animali monogami e coraggiosi e che in realtà sono dei pessimi genitori dal nostro punto di vista, al contrario dei ragni tanto bistrattati pronti a dare la vita per i propri figli». Non poteva mancare, poi, un capitolo sugli animali che consideriamo eredi delle famiglie tradizionali come i dinosauri: «Quanti di noi li considerano quasi creature mitologiche, e li associano a film e cartoni animati visti da bambini? Eppure questi animali davano alla luce decine e decine di cuccioli, per poi probabilmente non occuparsene». E, seguendo il dibattito che tanto anima la politica negli ultimi mesi, anche le «famiglie arcobaleno animali, come quelle presenti tra i fenicotteri» hanno fatto capolino nei capitoli finali del libro, «anche per merito dell’editore. Proprio perché si tratta di temi delicati, questi ultimi capitoli sono stati oggetto di diversi confronti con antropologi, rappresentanti della comunità di Lgbtq+ e altre persone competenti». In fondo questo libro «ci ricorda che sulla Terra è più normale avere sei zampe e le antenne come gli insetti (che sono più del 90% degli animali) che due gambe come noi esseri umani, che forse siamo la vera stranezza». In futuro? «Mi piacerebbe realizzare un libro sui dinosauri, oggetto della mia tesi di laurea, e ho in programma un lavoro che coinvolge alcuni musei di storia naturale del Paese». 

Cosa ci ricorda/insegna questo libro? Mi piace citare un passaggio (senza tempo) della conclusione che mi ha colpito, più di altri: «Ci piace molto antropomorfizzare gli animali – ovvero, proiettare la nostra natura su altre specie –, ma bisognerebbe stare attenti a giudicare con il nostro metro di paragone creature con una storia evolutiva molto diversa. Anzi, sarebbe meglio non farlo proprio, perché il rischio è quello di sbagliare in pieno nell’interpretare un certo comportamento... A tal proposito: esattamente, cosa dovrebbe essere più “naturale”? Allattare un figlio o farlo sviluppare nel proprio stomaco, come facevano le rane a incubazione gastrica? L’idea di classificare il comportamento in base alla sua presunta “naturalità” – un viziaccio che auguro a chi ce l’ha di perdere il prima possibile – è una pia illusione, dal momento che anche il comportamento di uccidere selvaggiamente i leoncini per accoppiarsi con le loro madri dopo che si è diventati il nuovo capobranco è perfettamente normale per i leoni, come anche per alcuni criceti il divorare i propri cuccioli. Eppure stento a credere che un simile comportamento risulterebbe “naturale” in un essere umano».

Da lastampa.it il 3 ottobre 2022.

Il Costa Rica ha emanato una legge che mira a proteggere il pesce sega, una specie rara e in grave pericolo di estinzione, già scomparsa in diverse parti del mondo. La legge in pratica vieta la caccia e la cattura in mare di cetacei, pinnipedi, pristidi e cheloni, nonché lo sfruttamento dei loro siti di riproduzione. Vengono introdotte inoltre sanzioni economiche e amministrative per chi contravviene a tali disposizioni. 

Il pesce sega è una specie d'acqua dolce e salata presente nel Pacifico, nei Caraibi e nel nord del Costa Rica. Secondo l'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn), le cinque specie di pesce sega esistenti al mondo, appartenenti alla famiglia delle razze (pesci cartilaginei), sono in pericolo critico di estinzione.

In Costa Rica vivono due specie: il pesce sega dai denti grandi (Pristis pristis), che si trova sulle coste caraibiche e pacifiche del Paese, e il pesce sega dai denti piccoli (Pristis pectinata), che abita nei Caraibi. Può raggiungere i sei metri di lunghezza, ha un rostro allungato a forma di sega, abita fiumi, zone umide, mangrovie e acque costiere ed è particolarmente vulnerabile a causa della sua crescita lenta, della bassa fecondità e della maturità sessuale tardiva.

Secondo gli scienziati, le popolazioni di questo pesce si sono ridotte drasticamente negli ultimi tre decenni a causa della distruzione dei suoi ecosistemi, soprattutto zone umide e mangrovie. Il problema inoltre è che è considerato un trofeo da molti pescatori.

Da lastampa.it l'1 ottobre 2022.

Un cacciatore di tiro con l'arco è rimasto gravemente ferito da un alce nella zona di Trap Creek, nella contea di Larimer, in Colorado.

I fatti sono avvenuti intorno a mezzogiorno in un'area remota vicino a Long Draw Road: il cacciatore si trovava a pochi metri dalla sua preda quando ha deciso di scoccare la sua freccia, mancandola. 

L’alce a quel punto si è voltata e ha caricato il cacciatore incornandolo e calpestandolo provocandogli gravi ferite. Per sua fortuna l’uomo aveva con se un segnale GPS per effettuare richieste d’aiuto e lo ha attivato. 

Alcune persone sono così arrivate e lo hanno trasportato fuori dal bosco, mentre poi è arrivato un elicottero che lo ha portato in un vicino ospedale per le cure.

«La sua capacità di rimanere calmo dopo essere stato travolto da un alce, di mantenere quella presenza mentale è piuttosto impressionante – spiega Jason Surface, Colorado Parks and Wildlife Area Wildlife Manager – . «Avere un dispositivo di segnalazione di emergenza ha contribuito al salvataggio di questo cacciatore ed è sempre bene avere un piano quando sei nel bosco da solo». 

«Non verranno intraprese azioni di gestione nei confronti dell’alce – spiega sempre Surface – . Gli animali di grossa taglia, in particolare le alci, possono essere aggressivi e imprevedibili. E la caccia comporta dei rischi, in particolare la caccia con l'arco che richiede di avvicinarsi all'animale rispetto ad altre forme di caccia».

Non è la prima volta che si registrano incidenti di questo tipo: secondo l’ente si tratterebbe del quarto attacco verificatosi dall’inizio dell’anno in Colorado e il 13esimo a partire dal 2019.

Da tgcom24.mediaset.it il 14 settembre 2022.  

Un uomo australiano di 77 anni è stato ucciso dal canguro che teneva come "animale domestico". Lo riporta la Bbc, citando fonti locali. L'anziano è stato trovato riverso a terra da un parente nella sua casa di Redmond, a circa 400 chilometri a sud di Perth. 

Quando i soccorsi sono arrivati, il marsupiale - ancora inferocito - li ha attaccati, impedendo loro di intervenire. La polizia ha quindi fatto sapere di essere stata costretta a sparare al canguro, che è morto.

Non accadeva da 86 anni - Come riporta la testata britannica, in Australia gli attacchi mortali dei canguri sono molto rari. Si tratterebbe infatti del primo caso dal 1936, ossia da 86 anni. Nel Paese ci sono circa 50 milioni di canguri, che possono raggiungere i due metri di altezza e i 90 chilogrammi di peso. 

Gli attacchi nel 2022 - Non è la prima volta che un canguro attacca un essere umano nel corso del 2022. La Bbc ricorda due episodi di marzo e luglio: nel primo caso, a farne le spese è stata una bambina di 3 anni del New South Wales, che ha riportato diverse ferite alla testa; nel secondo caso, una donna di 67 anni del Queensland si è fratturata una gamba. Secondo gli esperti, dietro a questi attacchi ci sarebbe lo sviluppo urbano che sta minando l'habitat dei canguri selvatici.

Da leggo.it il 10 settembre 2022.

Viene morso da un cane e smette di essere vegano correndo subito al Mcdonald's. Mariano de la Canal ha detto di aver immediatamente cambiato le sue abitudini alimentari e di essersi precipitato in un fast food a mangiare un hamburger subito dopo essere stato morso da un cane spiegando di essersi sentito tradito dagli animali che tanto rispettava. 

Il giovane argentino è diventato famoso come influencer vegano, con più di 455.000 follower su Instagram. «Ho smesso di essere vegano perché un cane mi ha morso, quindi mi sono arrabbiato e ho detto: 'Sto facendo una campagna per gli animali, e poi uno di loro viene e mi morde'», ha spiegato Mariano. Subito dopo quel morso ha confessato di essere entrato in un McDonald's e di aver mangiato un hamburger, come forma di vendetta. 

L'influencer è diventato famoso per la prima volta dopo essere apparso nel reality show Showmatch. Ora non è chiaro come questo suo cambiamento di vita e di abitudini alimentari possa influenzare la sua carriera. Non si sa nemmeno se il pubblico, che si era appassionato a lui e lo seguiva proprio per le idee vegane, abbia apprezzato o meno questo suo cambio di rotta. 

Da lastampa.it l'11 settembre 2022.

È servita un’equipe di sei persone per trasportare su un tavolo di sala operatoria lungo sei metri un pitone lungo 5 metri e venti centimetri. È accaduto al Centro animali non convenzionali (Canc) a Grugliasco. 

Pippo – questo il nome del rettile -, di proprietà di un privato cittadino della periferia di Torino, non mangiava più da nove lunghi mesi. E così è il padrone un giorno ha preso la decisione di chiedere aiuto e rivolgersi al Canc per tentare di salvare l’animale. Il Centro ha dovuto usare un po’ di creatività per occuparsi del pitone albino di 23 anni e 58 chili di peso, che soffriva di un grosso blocco intestinale. 

L’equipe di veterinari, coordinati da Mitzi Mauthe Von Degerfeld, ha prelevato l’animale a casa del privato, in collaborazione con il tecnico faunistico e una squadra di collaboratori. Pippo «era molto dimagrito – ha spiegato Von Degerfeld -. I serpenti non mangiano spesso, se la preda che hanno è grossa possono mangiare anche soltanto una volta al mese, ma nove mesi di digiuno sono comunque tanti ed è per questo che il suo padrone si è preoccupato e ha cercato qualcuno che potesse occuparsi di Pippo». 

Una volta arrivati in ambulatorio, i veterinari hanno sottoposto il rettile a un tac in laboratorio, hanno individuato un’ostruzione intestinale lunga un metro e hanno deciso di intervenire chirurgicamente. «Una volta al Canc ci siamo dovuti organizzare per visitarlo – ha aggiunto la veterinaria -.  

Nella tac abbiamo potuto adagiarlo a “u” nel macchinario, ma per l’operazione era necessario che fosse disteso». I medici hanno unito sei tavoli operatori per creare la sala chirurgica adatta a Pippo. «Sono manovre da eseguire con attenzione - ha sottolineato Von Degerfeld -, perché l’animale si muove e c’è il rischio di danneggiargli le vertebre. 

Ecco perché servono molte mani e una certa esperienza». Ma alla fine tutto è andato per il verso giusto. «L’intervento è riuscito – ha comunicato con soddisfazione Von Degerfeld -, se tutto va bene tra qualche giorno lo riporteremo a casa». 

Da leggo.it l'11 settembre 2022.

È arrivato in ospedale con un'infezione ai genitali molto estesa e che poteva costargli la vita, l'uomo di 55 anni che ai medici di Castellammare di Stabia che lo hanno preso in cura si è trovato costretto a confessare la causa scatenante della malattia di Fournier diagnosticatagli: aveva avuto rapporti sessuali con il suo cane.

L'uomo, con problemi psichici, è arrivato al pronto soccorso del San Leonardo nei giorni scorsi ma non ha risposto immediatamente ai primi trattamenti. Al fine di comprendere con quali agenti batterici fosse entrato in contatto, e dunque quale fosse la causa dell'infezione, è stato costretto ad ammettere di aver fatto sesso con l'animale.

Il 55enne aveva provato a curare da solo l'infezione, ma la situazione non ha fatto altro che precipitare e le sue condizioni sono apparse da subito piuttosto gravi. L'uomo è stato ricoverato dapprima in rianimazione, poi in urologia. Qui è stato sottoposto a un intervento di evirazione parziale, che ha riguardato i soli tessuti infetti. Ora dovrà affrontare una lunga terapia in camera iperbarica per riacquisire la funzionalità dei genitali e della vescica.

Il 55enne era in gravissime condizioni. Evirato per salvargli la vita, aveva avuto rapporti sessuali con il suo cane: “Ha rischiato di morire”. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2022 

Non aveva risposto ai primi trattamenti e non aveva voluto spiegare quale fosse la causa dell’infezione che lo aveva colpito. Alla fine, per avere salva la vita, ha ceduto e ha raccontato: l’uomo arrivato in ospedale a Castellammare di Stabia con una grave ed estesa infezione ai genitali aveva fatto sesso con un cane, il suo cane. Per salvarlo i medici hanno dovuto procedere con un intervento di evirazione.

La notizia arriva dal comune nel napoletano, Castellammare di Stabia, dove l’uomo è stato preso in cura al San Leonardo. L’infezione era molto grave e molto estesa. Gli aveva provocato la malattia di Fournier, una forma specifica di fascite necrotizzante di tessuti molli, cute e sottocute che può raggiungere anche la fascia muscolare. Il 55enne aveva provato a curare l’infezione da solo, in un primo momento.

Le sue condizioni sono però peggiorate e in ospedale era apparse subito piuttosto gravi. Non avendo risposto alle prime cure il paziente ha confessato il rapporto sessuale. È stato ricoverato in rianimazione in un primo momento, come ricostruisce il sito Leggo, e quindi in urologia. Il 55enne, con presunti problemi psichici, è stato sottoposto a un intervento di evirazione parziale che ha interessato i soli tessuti infetti. Per riacquisire le funzionalità di genitali e vescica dovrà affrontare una lunga terapia in camera iperbarica.

La malattia di Fournier, detta anche gangrena di Fournier, è provocata da un’infezione batterica acuta a carattere espansivo e necrotico che colpisce le parti molli del perineo, dello scroto e dell’area inferiore del tronco. Può essere causata da un unico germe, come lo Streptococcus pyogenese, ma può essere anche polimicrobica, causata da anche da germi aerobi e anaerobi con prevalenza di questi ultimi. I tessuti infetti provocano odori fetidi e penetranti.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Haarlem è la prima città al mondo a vietare la pubblicità della carne. Lara De Luna su La Repubblica il 7 Settembre 2022.  

La mossa della cittadina olandese fa parte degli sforzi per ridurre l'impatto umano rispetto alla crisi climatica in atto e va a intrecciarsi con iniziative simili in tutta Europa 

Prima la Spagna che obbliga i mattatoi alla videosorveglianza, poi nei Paesi Bassi viene bandita la pubblicità della vendita della carne. Per la sostenibilità ambientale e la tutela degli animali è una settimana fortunata. È infatti notizia freschissima che l'importante porto olandese, famoso per la produzione dei tulipani e della birra, diventerà la prima città al mondo a vietare la pubblicità della carne dagli spazi pubblici. Un'iniziativa che insiste sul fattore culturale e umano, nel tentativo di ridurre i consumi di carne e quindi le emissioni di gas serra. Haarlem ( a ovest di Amsterdam, città di media grandezza con circa 160.000 abitanti), renderà effettivo il divieto dal 2024, dando la possibilità e il tempo di adattarsi alla novità. Novità che sarà impattante, in quanto il divieto non riguarderà solo gli spazi cittadini e la cartellonistica generale, ma anche la pubblicità sugli autobus e su qualsiasi schermo trasmetta in uno spazio pubblico. Un provvedimento davvero molto incisivo che ha provocato, come prevedibile, molte critiche da parte dell'industria di settore, che accusa il comune di andare "troppo oltre nel dire alla gente cosa è meglio per loro".  

Il motivo? L'evidenza scientifica di quanto gli allevamenti intensivi di carne impattino sul riscaldamento globale. Un tema che per i Paesi Bassi è ancor più importante, data la conformazione geologica (i canali di Amsterdam e Haarlem in primis). Un terzo delle emissioni globali di tutto il pianeta è evidentemente qualcosa che non sono più disposti a ignorare, tra foreste abbattute, innalzamento delle acque ed emissioni di CO2 a livelli sempre più alti. 

Un primato non voluto, quello di Haarlem, come ha dichiarato Ziggy Klazes, una delle consigliere del partito GroenLinks che ha redatto la mozione in oggetto; ha infatti dichiarato in un'intervista, come riporta The Guardian, che non sapeva che la città sarebbe stata la prima al mondo a imporre questo tipo di politica sociale e alimentare. L'ha dichiarato Haarlem105, sottolineando quelle che sono le priorità del partito e l'idea alla base di quel provvedimento, ovvero la coerenza: "Non si tratta di ciò che le persone cuociono e arrostiscono nella propria cucina; se le persone volessero continuare a mangiare carne, bene. Non possiamo dire alle persone che c'è una crisi climatica e incoraggiarle ad acquistare prodotti che fanno parte della causa. Certo, ci sono molte persone che trovano la decisione oltraggiosa e condiscendente, ma ci sono anche molte persone che pensano che vada bene. È un segnale: se venisse raccolto a livello nazionale, sarebbe solo molto bello. Ci sono molti gruppi di GroenLinks che pensano che sia una buona idea e vogliono provarla".   

Com'è facile immaginare, l'opposizione all'interno del consiglio di Haarlem non è stata di poco peso, con i partiti contrari che stanno basando tutto il proprio lavoro battendo sul concetto di libertà di espressione e di opinione.  Sander van den Raadt, leader del gruppo Trots Haarlem, ha battuto su quella che secondo loro è una contraddizione: “Il comune sta organizzando una grande campagna di manifesti secondo cui puoi essere te stesso ad Haarlem e amare chi vuoi, ma se ti piace la carne verrà  e ti dirà che hai completamente torto". Un tocco di populismo e molti interessi commerciali toccati nel vivo (in un Paese che è il più grande esportatore di carne del continente), visto che di fatto la legge comunale non vieta in alcun modo né di vendere né di consumare carne. 

L’otocione Moa trasferita da Bergamo alla Normandia per continuare la specie. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 23 agosto 2022.

L’animale, nato a dicembre scorso, è partito dal Parco Faunistico Le Cornelle per andare a formare una coppia con un maschio ospitato dallo zoo francese. 

«Un traguardo scientifico unico». Così i ricercatori del Parco Faunistico Le Cornelle di Valbrembo (Bergamo) hanno definito la partenza di Moa, la piccola otocione nata lo scorso dicembre, per lo Zoo-Boissiere, in Normandia. Nella struttura francese la piccola volpe — indigena dell’Africa subsahariana — si unirà a un giovane esemplare maschio, per garantire la conservazione della specie.

L’otocione, detto anche megalotide, o «volpe dalle orecchie di pipistrello» è un animale di piccola corporatura, con arti snelli, una coda lunga e folta, e orecchie molto grandi. Il maschio adulto può arrivare a pesare 4,1 chilogrammi, mentre le femmine di norma pesano 3,9 chilogrammi. La superficie superiore delle orecchie, la coda, il muso, la mascherina e gli arti sono neri, mentre una chiazza biancastra si estende dalla fronte ai bordi esterni delle orecchie, rendendo l’espressione di questo esemplare caratteristica e unica nel suo genere. Il resto del corpo è coperto da pelo color beige, camoscio e brizzolato. Attualmente, in seguito alla partenza della giovane Moa, Le Cornelle contano tre otocioni, di cui due maschi e una femmina.

Estratto dall'articolo di Andrea Bulleri per “Il Messaggero” il 29 agosto 2022.

Giorgia Meloni cita il mahatma Gandhi: «La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali». Silvio Berlusconi sperimenta l'abbaio social («bau, bau!», si legge in uno degli ultimi post del Cavaliere) prima di rilanciare con Totò: «I cani sono qualcosa a metà strada tra gli angeli e i bambini». 

E se Matteo Salvini non manca di farsi immortalare con i trovatelli dei canili di Napoli e Milano, Carlo Calenda rivela la sua preferenza felina. Almeno a Ferragosto, quando condivide uno scatto con la gatta Naso Corto: «L'unico membro della famiglia che non mi abbandona mai», twitta il leader di Azione.  […]

Del resto, le stime rivelano che gli animali d'affezione in Italia sono più di 60 milioni, quasi un terzo dei quali cani e gatti. E se i quadrupedi non votano (contrariamente al titolo del «manifesto» lanciato proprio nei giorni scorsi delle associazioni animaliste), è lecito pensare che molti dei loro proprietari, invece, lo facciano. 

 Ed ecco che i programmi di partiti e coalizioni ma soprattutto i social dei loro front runner si popolano di idee e di slogan per difendere i nostri «familiari a quattro zampe». Li chiama così Giorgia Meloni, l'ultima in ordine di tempo a esprimersi sul tema: «Ogni anno ogni anno vengano abbandonati 80mila gatti e 50mila cani», denuncia la leader di FdI via social. 

«Fratelli d'Italia aggiunge intende battersi per garantire a questi membri della famiglia una vita dignitosa e piena d'affetto». Come? Aumentando le pene per chi li maltratta o li abbandona. […]

Va oltre la Lega, con Matteo Salvini che promette di «inasprire le pene per i violenti e garantire un po' di tasse in meno per chi mantiene un amico in casa». Ad esempio, si legge nel programma leghista, tagliando l'Iva sulle prestazioni veterinarie e sul cibo per cani e gatti, perché è lo slogan «amare non è un lusso». 

Nel centrodestra punta sulla sensibilità animalista e non da oggi anche Berlusconi. «Nel programma di Forza Italia ci sono misure per il sostegno all'adozione degli animali nei canili e nei gattili spiega il Cavaliere e aumenti di pena chi li maltratta». […]

E se Cinquestelle e Verdi-sinistra rilanciano con la proposta di abolire la caccia (ma pure di introdurre un «cashback veterinario» per detrarre le spese, propongono i primi, e di far sì animali domestici e selvatici «non siano più considerati oggetti ma esseri senzienti», rilanciano i secondi), l'animal house della politica non sembra aver contagiato il Terzo polo, che nel programma non contempla interventi specifici per migliorare la vita dei quattrozampe. 

Quattrozampe di cui Calenda si mostra comunque un affezionato possessore: non solo della già citata gatta Naso Corto, ma anche di due cani pastore (ribattezzati dal figlio di simpatie marxiste Antonio, come Gramsci, e Rosa, come la Luxemburg). E chissà che nelle prossime settimane anche al centro non spunti un Naso Corto Act. Andrea Bulleri

Flavia Perina per “La Stampa” il 29 agosto 2022.

È arrivato il Pet Moment della campagna elettorale. Giorgia Meloni cita Gandhi («La civiltà di un popolo si misura dal modo in cui tratta gli animali»), Silvio Berlusconi ricorda Totò («Gli animali sono qualcosa a metà tra angeli e bambini») ed entrambi presentano, a due giorni di distanza uno dall'altra, uno specifico programma per la tutela delle bestiole. 

Lega e Pd risultano un po' indietro, ma è possibile che si adeguino nelle prossime ore: l'argomento è ineludibile da quando, nel 2018, Alessandra Ghisleri fece presente che il tema animalista è significativo per il 20 per cento della platea elettorale.

Le nostre case, dicono le statistiche, ospitano una ventina di milioni di cani e gatti. È quella la vera "famiglia allargata italiana", e si dovrà dare atto a Michela Brambilla e a Monica Cirinnà di averci visto lungo all'inizio degli anni Duemila, quando sfidarono l'ironia collettiva avviando la crociata politica per cani, gatti e pesci rossi. 

La sinistra, all'epoca, sembrava decisamente in vantaggio nella partita. La Roma di Walter Veltroni fu la prima capitale ad avere un Ufficio per i diritti degli Animali («l'assessorato alle gattare», disse il volgo), ma ecco, anche in quel campo come nelle fabbriche del Nord o nelle periferie urbane la potenziale supremazia è stata sperperata.

Il Pet Moment è diventato cosa di destra soprattutto grazie al barboncino Dudù, che nel 2012 cominciò ad accompagnare Silvio Berlusconi ovunque. Fu l'inizio di una moda e l'avvio di una nuova pagina del giornalismo. Tutti all'improvviso avevano un cagnolino e ne esibivano le prodezze portandoselo ad Arcore a ogni convocazione. Fiorirono servizi sulla vita famigliare della bestiola («Le foto segrete di Dudù») e sulle sue simpatie politiche all'interno della cerchia del Cavaliere, con ampia pubblicistica sui metodi per ingraziarsi l'animaletto. 

Il più furbo risultò Daniele Capezzone: «Porto un limone in tasca e lo uso come palla. Amicizia assicurata». Nacque un sospetto sull'omosessualità di Dudù, lo dissipò Micaela Biancofiore che in radio raccontò di un approccio con la sua Puggy: «No, non è gay», titolarono le riviste.

Cani e leadership diventarono tema politico, oggetto di analisi. Alle elezioni successive il tentativo di umanizzazione dell'algido Mario Monti passò per un barboncino bianco (Empy, come empatia) che gli piazzarono in braccio a sorpresa in televisione, durante un'intervista alle Invasioni Barbariche. Monti lo adottò con evidente disagio, non poteva fare altrimenti, poi dopo il voto si lamentò del dono-scherzo in un'intervista. Apriti cielo. «Che fine ha fatto Empy» diventò un tormentone. 

La politica italiana, che aveva ammortizzato abbandoni coniugali, seconde e terze mogli, cambi di schieramento da un estremo all'altro, scoprì una nuova regola: mai rinnegare un cane (Empy comunque era in casa dei nipoti).

Matteo Salvini entrò nella corsa nel 2015, quando si fece prestare uno Yorkshire Terrier da Lorenzo Fontana, con tanto di maglioncino a collo alto, per una foto sorridente che Libero titolò: «Salvini studia da leader e presenta l'anti-Dudù». 

Era la vigilia delle Regionali, i rapporti in casa centrodestra erano come sempre tesi e chissà se l'attacco di canismo non rappresentasse, al contrario, il tentativo di riconquistare al dialogo con Berlusconi (poi successe davvero: l'accordo si fece e lo Yorkshire portò fortuna pure a Fontana, che ha fatto la carriera che sapete).

Sta di fatto che la Pet Politique ci ha accompagnato per un lungo tratto, e che gli animali dei potenti sono da molti anni un fortissimo richiamo di popolarità: non a caso tutti hanno scelto bestiole innocue, piccole, pelose, con gli occhi tondi che chiamano le carezze. 

Nessuno che abbia un lupo siberiano o un bulldog, e persino nell'esaltazione dei cani-eroi (un altro classico di Salvini) vince l'allegro Jack Russel della Questura di Genova o i miti labrador che salvano i bagnanti a Sperlonga.

C'è un solo tipo di cani che non piacciono, che non meritano le citazioni di Totò o Gandhi, che non sono angeli, ne' bambini, ne' misurano la civiltà dei popoli, e sono i cani degli immigrati e dei richiedenti asilo. «I clandestini sbarcano a frotte, anche con barboncini» sbotta Salvini quando da Lampedusa arriva lo scatto di undici tunisini con un cagnolino in braccio. 

«Il governo si riferiva a questo quando diceva che avrebbe rilanciato il turismo?», fa eco Giorgia Meloni davanti alla stessa foto, e par di capire che anche l'amore viscerale per gli animaletti abbia un suo preciso limite patriottico. Va bene difenderli, anche con specifiche leggi. Vanno bene i sostegni alle spese veterinarie, alle case-rifugio, alle adozioni dei meticci, agli anziani che stentano a mantenere la loro unica compagnia (tutte proposte segnalate nei programmi di FI e FdI), ma se il cane è migrante no, il Pet Moment svanisce.

Quello sarà pure migliore amico, ma portarselo dietro è una provocazione. Ps. Giorgia Meloni comunque ha un gatto. «Per quanto possano amarti sono animali orgogliosi che preferiscono un rapporto paritario con l'uomo». Insomma, i cani li giudica troppo sottomessi, e chissà che anche questo non sia un alert per i suoi alleati.

Aldo Fontanarosa per “la Repubblica” il 25 agosto 2022.

Gabbiani reali, lepri, conigli, volpi, aironi. Tra il 2020 e il 2021 gli animali selvatici si sono riprodotti in massa in Italia perché i lockdown hanno ridotto smog e rumori. E il loro risveglio sarebbe una notizia solo bella se non avesse messo a rischio così tanti aerei. Nel rapporto "Wildlife Strike", l'Enac - garante della sicurezza nei nostri cieli - conteggia 1.617 contatti nel solo 2021. Il record resta al 2019, con i suoi 2.095 impatti.

Ma l'anno scorso il numero di voli è stato più basso per i colpi di coda della pandemia. Il presidente di Enac, Pierluigi Di Palma, nega che «siamo in una condizione di pericolo, ma certo non va abbassata la guardia». Il comico Daniele Raco - che il 18 agosto era a bordo del volo Ita da Genova a Roma Fiumicino - ne sa qualcosa. Scrive su Facebook: «Un gabbiano nel motore, scoppi ripetuti, panico, il motore spento e l'aereo che rientra a Genova ». L'atterraggio di emergenza non ha avuto conseguenze. 

Il Rapporto Enac segnala che svariati aeroporti mantengono purtroppo "attrazioni" capaci di richiamare la fauna selvatica. Bari ha vicino uno scalo militare con coltivazioni a grano, un viadotto della Statale 16 Bis dove nidificano i piccioni, una discarica legale certo, ma regno dei gabbiani. Scenario analogo a Brescia, con una discarica ed aree dell'Aeronautica militare abbandonate a una colonia di lepri. Barbagianni sono di casa nella ex base Nato di Comiso.

Poi ci sono gli enti locali. La Regione Lombardia - scrive ancora il Rapporto - nel 2021 ha sospeso la cattura delle lepri che così si sono moltiplicate disturbando gli aerei di Bergamo Orio al Serio 16 volte rispetto alle 4 dell'anno prima. Spesso sono state risucchiate nei motori al decollo. Il crudele risucchio è il secondo evento più ricorrente (114 casi nel 2021), dopo l'impatto sul muso dell'aereo (141). 

Non aiuta l'Italia la sua conformazione. Alcuni aeroporti sono vicini al mare (da Genova a Brindisi, a Fiumicino). Cagliari è circondato dalla laguna di Santa Gilla. E alla fine il nostro si rivela uno dei Paesi più a rischio con una media di quasi 10 impatti ogni 10 mila voli (tra il 2006 e il 2021). Più di Usa, Canada, Francia. 

L'ingegnere Claudio Eminente, curatore del Rapporto, descrive gli strumenti di prevenzione. A Bari i falconieri fanno ancora alzare i loro rapaci per catturare gli uccelli indesiderati. Torino conta anche su due cani (border collie) per spaventarli. Nei diversi scali sono in uso, poi, fari ad alta intensità, cannoni ad ultrasuoni, gabbie per catturare gli animali (senza ferirli). Bergamo ricorre finanche ai fuochi d'artificio.

L'operazione di routine per la "sorvegliata speciale". Cattura fatale per F43, l’orsa morta nella sostituzione del radiocollare: “Non è un semplice incidente”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Settembre 2022.

L’orsa F43 era monitorata da tempo, e in modo intensivo, oggetto di ripetuti tentativi di dissuasione a causa della sua spiccata confidenza con l’uomo. È morta la notte scorsa, in val di Concei, una laterale della val di Ledro in Trentino, durante un intervento di routine. Al plantigrado doveva essere sostituito il radiocollare che portava dal luglio 2021.Un’operazione normale, di routine appunto, che però è finita in tragedia e per la quale ora chiedono a gran voce chiarezza gli animalisti.

Secondo l’equipe veterinaria l’animale “è deceduto a seguito della posizione assunta nella trappola tubo nel momento in cui l’anestetico ha fatto effetto”. Per F43, che era una giovane orsa di quattro anni, non c’è stato niente da fare, le manovre di rianimazione non hanno avuto effetto. “La necessità di monitorare in modo intensivo soggetti problematici e di cercare di modificarne il comportamento può comportare incidenti come quello occorso, dati i rischi intrinseci in operazioni delicate, condotte spesso in contesti e condizioni ambientali non facili”, ha commentato la Provincia di Trento.

“Gli orsi vengono catturati per applicare il radiocollare, sono normali operazioni e una prassi che i tecnici trentini sanno fare, certo il decesso in queste fasi può anche accadere. All’orso non piace essere catturato e sedato perché subisce un piccolo trauma e questo fa sì che resti lontano dalle case – ha commentato Luigi Spagnolli, direttore dell’Ufficio caccia e pesca della provincia autonoma di Bolzano, all’Agi – Nella squadra c’è un veterinario che stabilisce la dose del sonnifero e con quale potenza deve essere inserita la siringa. Quest’orsa si era fatta notare, aveva predato pollai e quindi la forestale ha deciso di applicare il collare”.

La morte dell’orsa è un “fatto gravissimo” per Carla Rocchi, Presidente nazionale dell’associazione per la protezione degli animali (Enpa). “Abbiamo attivato il nostro ufficio legale per accertare le responsabilità di questa morte inutile e crudele. F43 non era solo una sigla ma una giovane orsa, nel pieno della propria capacità riproduttiva, che nei suoi 4 anni di vita non aveva mai dimostrato alcuna aggressività verso le persone”, ha commentato. “Uccisa dall’anestetico durante un’azione presentata come routinaria, era una ‘sorvegliata speciale’, solo perché aveva imparato dove trovare cibo facile, rappresentato dai rifiuti non opportunamente conferiti in bidoni antiorso, oppure dagli apiari o dai pollai non adeguatamente protetti

Anche L’Organizzazione Internazionale Protezione Animali (Oipa) ha chiesto spiegazioni e annunciato “un’immediata richiesta di accesso agli atti conoscere nel dettaglio quanto effettuato e accaduto. Ci riserviamo inoltre d’intervenire nelle opportune sedi per la tutela degli orsi, animali protetti a livello comunitario, se emergeranno responsabilità”. Gli animalisti dell’Associazione italiana difesa animali ed ambiente (Aidaa) sollevano dubbi su “una vicenda strana, non siamo convinti si tratti di un incidente, meglio andare a fondo”.

“Gli Animalisti Italiani Onlus – dichiara il Presidente Walter Caporale – chiedono che venga immediatamente istituita una Commissione di indagine per conoscere come sono realmente andate le cose. Ma chiediamo anche che qualcuno paghi per una uccisione compiuta da un dipendente pubblico. Nella morte dell’orsa F43, c’è sicuramente stato menefreghismo, superficialità e indifferenza. ‘Era solo un orso’ mi hanno risposto questa mattina alla Ausl. NO: F43 (nome vergognoso che le è stato assegnato da una bestia umana) era un essere vivente: amava, correva, gioiva, soffriva, piangeva. Ora non ci sei più, cara amica: piangiamo la tua assurda morte, ci rivedremo in un altro Quando, ma intanto noi Animalisti Italiani Onlus lotteremo per cercare di darti giustizia in questa vita terrena dove tanti non ti hanno rispettata”. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Messico, cucciolo di orso nero torturato e ucciso. "Un crimine contro la biodiversità". Natasha Caragnano su La Repubblica il 25 agosto 2022. 

A Castaños, città dello Stato messicano settentrionale di Coahuila, alcuni cittadini hanno torturato a morte un cucciolo di orso nero. La sua unica colpa, denunciano residenti e attivisti, è stata quella di essersi avvicinato troppo alla comunità in cerca di cibo e acqua. L’esemplare in via d’estinzione e “simbolo vivente della conservazione in Coahuila” - come lo ha definito il governatore dello Stato, Miguel Riquelme -, è stato maltrattato e ucciso, mentre tutti erano fermi a guardare. “Un crimine contro la biodiversità”, per cui la Procuraduría Federal de Protección al Ambiente (Profepa), autorità di protezione della fauna selvatica, ha chiesto che vengano puniti i responsabili. 

Il violento episodio è stato filmato dagli abitanti del posto ed è diventato virale sui social network, scatenando indignazione e rabbia tra gli utenti. Nelle immagini si vedono diverse persone che legano e picchiano l’orso di appena quattro mesi. Il cucciolo è legato a terra dalle zampe, mentre alcuni abitanti del villaggio guardano da lontano l’esemplare che viene tirato dalle corde fino al soffocamento. Media locali e utenti dei social network hanno chiesto provvedimenti contro membri della polizia municipale che, come altri residenti, appaiono divertiti in fotografie e video. 

“La disumanità di legare, picchiare e guardare un cucciolo di orso che viene ucciso è di persone che non provano dolore per la brutalità. Questo è il cancro sociale”, ha commentato su Twitter Saskia Niño de Rivera, presidentessa dell’organizzazione no-profit Reinserta che cerca di rompere i circoli di violenza del Paese lavorando sul sistema carcerario. Tutto questo, continua l’attivista, dimostra come la normalizzazione della violenza sia un male che deve essere attaccato attraverso azioni preventive. 

La Procura generale dello Stato ha avviato un’indagine sulla morte dell’esemplare in pericolo di estinzione e sui maltrattamenti a cui è stato sottoposto. Mentre la Profepa ha fatto sapere che sta lavorando per riconoscere le persone nel video e fornire alle autorità gli elementi necessari per determinare i comportamenti che possono costituire un reato. “I responsabili potrebbero essere puniti con la reclusione e una multa”, ha avvisato l’autorità di protezione della fauna selvatica sul suo profilo Twitter. La pena prevista per crimini contro una specie in via d’estinzione, si legge sul sito di Profepa, può andare da un minimo di un anno di reclusione a un massimo di nove. 

In Messico, l’orso nero vive in alcuni Stati settentrionali come Nuevo León, Chihuahua, Sonora e Coahuila. È considerato una specie in via d’estinzione a causa della frammentazione del suo habitat, la distruzione e trasformazione degli ambienti naturali causate dalle attività umane, e della caccia illegale. La conservazione di questi esemplari è fondamentale per la biodiversità. Eppure anche se la loro uccisione e cattura, così come la distruzione di habitat naturali e l’inquinamento, sono riconosciuti da tutte le legislazioni nazionali e internazionali come reati – spiega il Wwf nella sezione del suo sito dedicata ai crimini contro la natura -, queste azioni continuano ad essere al primo posto tra le minacce al nostro Pianeta.

In Cina il dugongo è estinto: "Una perdita dagli effetti devastanti". La Repubblica il 24 Agosto 2022

"Una perdita dagli effetti devastanti", così il professor Samuel Turvey della Zoological Society of London (ZSL) commenta su Bbc la scomparsa del dugongo in Cina, dove dal 2000 non si registrano avvistamenti da parte degli scienziati. Il mammifero marino, definito il "gigante gentile" dei mari, vive a temperature al di sopra dei 20°C ma fino allo scorso anno le stime sulla popolazione mondiale si aggiravano sui 25mila esemplari distribuiti nelle acque di 37 Paesi dell'Oceano Indiano e Pacifico. Il dugongo è erbivoro, si nutre di fanerogame e può raggiungere il peso di circa mezza tonnellata. Simile al lamantino (tranne che per la coda), si pensa possa aver ispirato l'antico mito delle sirene. La caccia prima e il depauperamento del suo habitat oggi hanno ridotto le possibilità di sopravvivenza della specie, classificata come "vulnerabile" nella lista rossa dello Iucn.

Paolo Russo per “la Stampa” il 24 agosto 2022.

Pesci allevati in condizioni tali da dover assumere antidepressivi per non lasciarsi morire smettendo di mangiare. Polli e galline tirati su in gabbie più piccole di un foglio A4, senza poter razzolare né aprire le ali, tanto da passare immobili i due terzi della loro esistenza, appollaiati sui propri escrementi con inevitabile insorgere di malattie varie. E poi vitelli, ovini e suini super-alimentati e stipati in allevamenti intensivi, dove gli antibiotici per la loro crescita sono stati abrogati dall'Ue nel 2006, ma vengono comunque somministrati massicciamente per contrastare le malattie che insorgono nelle stalle-alveari.

Secondo l'Oms per produrre un chilo di carne vengono in media impiegati 100 milligrammi di antibiotici, col risultato che ogni anno 9 grammi di quegli antibiotici finiscono nel nostro stomaco: l'equivalente di 4 terapie antibiotiche. Così si alimenta il fenomeno dell'antibiotico-resistenza dei super batteri, che secondo l'Iss causa in Italia di 11mila morti l'anno, un terzo di tutte quelle registrate in Europa. Questo anche perché, magari senza saperlo, mangiamo bistecche e hamburger di animali allevati in Paesi dove non esistono le norme che da noi impongono di smaltire gli antibiotici prima che l'animale diventi carne o produca latte o uova.

Nonostante la maggiore attenzione posta negli ultimi anni dai produttori al benessere animale, molto del cibo che finisce sulle nostre tavole, compresi uova, latte e formaggi, nuoce alla salute, ma anche all'ambiente. «La produzione di mangime e foraggio, l'occupazione delle terre da parte dei sistemi intensivi sono tra i principali responsabili degli insostenibili carichi di nutrienti, fitofarmaci e sedimenti nelle risorse d'acqua del pianeta», spiega la Fao. Quell'acqua da noi già così scarsa, ma che viene sempre più drenata dagli allevamenti intensivi.

 Per non parlare dei gas serra emessi dagli allevamenti intensivi: «43 milioni di tonnellate solo per l'itticoltura», rivela Agnese Codignola, farmacologa e autrice di numerosi libri sull'alimentazione. «Un terzo del pesce di allevamento - spiega - non arriva a tavola ma diventa nutrimento per altri pesci più pregiati, con grande spreco di energie e relative emissioni che potrebbero essere evitate allevando per il nostro nutrimento direttamente le specie considerate meno pregiate». 

Considerazioni da fare quando a un piatto di alici si preferisce un'orata low cost di allevamento. Tra non molto sarà possibile scegliere cosa mettere nel piatto considerando anche le condizioni di benessere nelle quali l'animale è stato allevato. Questo grazie al decreto che istituisce l'etichettatura nazionale volontaria sul benessere animale, fortemente voluto dal ministro della Salute, Roberto Speranza.

Il provvedimento (prima di andare in Gazzetta ufficiale dovrà ottenere il via libera della Commissione Ue), è stato salutato da un coro di approvazione da parte delle 14 associazioni ambientaliste e animaliste dell'alleanza #BugieInEtichetta. «Un primo passo, che dovrà essere seguito dalla definizione degli standard di benessere per le varie specie», affermano le associazioni. Che invitano i partiti a far sapere ai cittadini-elettori le loro intenzioni «sulla definizione di standard coerenti con il benessere animale: 1,4 milioni di italiani hanno già chiesto di eliminare le gabbie dagli allevamenti».

«Le condizioni in cui gli animali da allevamento sono costretti a vivere - sostiene Slow food, che dell'alleanza non fa parte - hanno gravi ripercussioni: si sviluppano nuove malattie che possono essere trasmesse all'uomo, l'uso eccessivo di antibiotici sta portando a una maggiore resistenza tra i batteri, e i reflui sono una delle maggiori fonti di emissioni di gas clima alteranti». Da qui la richiesta di una politica agricola che - a livello comunitario oltre che nazionale - sostenga agricoltori e allevatori che abbiano a cuore il benessere degli animali.

E della nostra salute, ricorda l'Associazione Medici per l'Ambiente, che ha individuato tutta una serie di rischi per l'uomo connessi agli allevamenti intensivi. Tra questi c'è il rischio di zoonosi, perché «l'alta concentrazione di animali favorisce lo sviluppo di malattie, comprese quelle che dall'animale passano all'uomo. Tra queste c'è la salmonella che provoca gastroenteriti anche gravi e che un'indagine dell'Efsa, l'Agenzia europea per la sicurezza alimentare, ha rilevato in un allevamento europeo su quattro.

 Ma poi ci sono batteri come l'escherichia coli, responsabile di cose come coliti emorragiche e insufficienza renale, oppure lo staffilococco aureo, batterio antibiotico resistente che fino a ieri frequentava più che altro le corsie degli ospedali, ma del quale un clone che deriva da produzioni animali intensive circola ora liberamente tra la popolazione dei Paesi con elevata presenza di allevamenti industriali.

Come il nostro, dove la produzione di bovini, suini, polli e galline si concentra in quattro regioni: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna e Veneto. Tanto per capire: in terra lombarda vengono allevati 4,4 milioni di maiali, il 50% della produzione nazionale. Gli allevamenti però sono solo il 9% del totale. Questo la dice lunga sugli spazi angusti nei quali crescono gli animali. Non possiamo lamentarci se, una volta finiti a tavola, fanno male alla nostra salute.

Il cervo Bambi portato via all’allevatore che lo aveva adottato. «Può essere pericoloso, ora è al sicuro». Barbara Gerosa il 22 Agosto 2022 su Il Corriere della Sera.

La Polizia locale e i tecnici di Ats hanno prelevato l’animale e lo hanno portato in un centro specializzato. La famiglia Del Zoppo: «Non è giusto, da noi stava bene»

Sono arrivati nella tarda mattinata di lunedì e lo hanno portato via. Bambi, il cerbiatto salvato nel bosco due anni fa da Giovanni Del Zoppo e allevato dalla famiglia del cavatore di Chiesa in Valmalenco, è stato prelevato dagli agenti della Polizia provinciale di Sondrio, che con l’ausilio di tre tecnici dell’Ats, lo hanno trasportato in una struttura a Dazio, un centro specializzato nell’allevamento di ungulati alle porte di Morbegno.

A nulla è servito l’appello lanciato dall’uomo perché il cervo che aveva cresciuto, e con cui aveva costruito un legame particolare, potesse rimanere con lui, nella stalla accanto alla casa di sassi e legno a 1300 metri di quota in Val Rosera. «Ora si trova in una struttura adatta e autorizzata, che già accoglie animali selvatici e svolge attività didattica — spiega il comandante della Polizia provinciale Gianluca Cristini —. Un luogo sicuro anche per le persone, perché con la stagione degli amori un cervo adulto può diventare pericoloso. Capisco sia difficile rendersene conto, ma la stalla di un privato cittadino non è un luogo idoneo». « Mio padre è disperato, non lo troviamo assolutamente giusto, da noi stava bene e aveva gli spazi per muoversi», le parole di Nicola, il figlio del 58enne che aveva trovato Bambi nel bosco. Inutile la mobilitazione del popolo del web che si stava organizzando per promuovere una raccolta di fondi per aiutare Giovanni a costruire un’area adatta per continuare a vivere con il suo cervo.

Due ragazzi hanno rischiato di annegare in mare, salvati da due «cani eroi». Salvo Fallica su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.

L’intervento dell’Unità Cinofila sulla spiaggia dei Giardini Naxos. I due giovani, di 12 e 19 anni, si erano allontanati dalla riva per recuperare un pallone. 

Un salvataggio spettacolare a 100 metri dalla spiaggia: non si tratta di una puntata di una fiction americana ma un fatto realmente accaduto che ha visto come protagonisti due cani. La vicenda con i due 2 cani eroi ha avuto come scenario la suggestiva costa del Taorminese, bagnata dal Mar Ionio. Nella spiaggia di Giardini Naxos (nel Messinese) due ragazzi di Catania, di 12 e 19 anni, stavano giocando con un pallone che all’improvviso è volato via al largo a causa del vento. Pensavano di raggiungerlo rapidamente nuotando ma il pallone veniva trasportato dal vento sempre più lontano.

Si sono così ritrovati a circa 100 metri dalla spiaggia, nel giro di qualche minuto, in balìa di una corrente molto forte che impediva loro di tornare indietro. A dare l’allarme alle Unità Cinofile della Scuola Italiana Cani Salvataggio in servizio presso la postazione di Giardini Naxos, è stata la mamma del dodicenne, allarmata e impaurita da quanto stava accadendo in mare. Scene di tensione, grande preoccupazione e paura. Tutto sembrava precipitare ma poi sono entrati in azione due cani: Robin Hood, golden retriever di 4 anni, e Zeus, terranova di 6. Le Unità di soccorso quando hanno raggiunto i ragazzi hanno trovato il più piccolo aggrappato alle caviglie del più grande che, in quella posizione, non riusciva a nuotare.

La situazione era delicata. Dopo aver lanciato loro il «baywatch» è iniziata l’operazione di recupero e in alcuni minuti: Robin Hood e Zeus hanno riportato a riva i due ragazzi trainati dai baywatch. Per la felicità dei loro parenti ma anche di tutti i bagnanti, in un clima di solidarietà autentica. I due cani sono stati accolti con entusiasmo, e congratulazioni sono state espresse anche agli operatori delle Unità di soccorso. L’abilità dei due cani-bagnini è stata fondamentale in uno scenario così complesso. In Italia sono sempre più numerosi i casi di «cani eroi». Cruciale è l’addestramento che potenzia le loro capacità naturali e la sinergia armonica con coloro che li guidano.

Cani e gatti, senza sfumature di grigio. Ariel e Tigro, cane e gatto che convivono sotto lo stesso tetto. Spesso ci chiediamo cosa vedono gli amici dell’uomo: di giorno daltonici, di notte due «lampade» che illuminano. Raffaella Direnzo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Agosto 2022

Guardare il mondo attraverso gli occhi dei nostri pet può fornire informazioni su come percepiscono il mondo. Paragonando gli occhi ad una (vecchia) macchina fotografica, questa è formata da una camera oscura, una scatola con una sola apertura davanti da cui filtra la luce proveniente da ciò che si sta osservando e che, seguendo un cammino rettilineo, colpisce la pellicola – posta nella parte opposta all’obiettivo. Nello stesso modo in cui la pellicola impressionata crea la foto, così nell’occhio la luce passando – in maniera rettilinea- attraversa cornea, pupilla – un foro -, cristallino e vitreo, generando stimoli visivi.

Come gli umani daltonici

Per i cani la loro visione dei colori è molto simile a quella di un essere umano con daltonismo rosso-verde, sebbene ci siano altre differenze. I cani sono meno sensibili alle variazioni delle sfumature di grigio rispetto agli umani, così come solo a circa metà dei cambiamenti di luminosità. In particolare, «i cani e i gatti hanno una visione dicromatica anziché tricromatica - come gli esseri umani-, quindi vedono come i daltonici. In effetti possiedono dei coni più sensibili al blu e al giallo rendendo la loro visione simile a quella di un essere umano deuteranope -cioè colui che non può percepire il colore verde », spiega il dr. Adolfo Guandalini, medico veterinario, dottore di ricerca in Oftalmologia veterinaria, diplomato European College of veterinary ophthalmologists, diploma interUniversitario in Chirurgia vitreoretinica. 

Coni e bastoncelli

La parte sensibile alla luce dell’occhio è nota come retina. Situata nella parte posteriore dell’occhio, la retina contiene due tipi di cellule: coni, per colore e dettaglio, bastoncelli, per rilevamento dei livelli di luce. I coni gestiscono la visione durante il giorno e la percezione del colore; i bastoncelli ciò che può essere visto di notte e la capacità di vedere da un lato all’altro e tutt’intorno – visione periferica -. Ogni cono rivela la lunghezza d’onda della luce. Gli esseri umani hanno tre coni e quindi possono generalmente rilevare l’intero spettro della luce. I gatti hanno solo due coni, il che limita lo spettro di luce che possono vedere.

«Tapetum Lucidum»

Specificatamente, i cani e i gatti essendo, fondamentalmente, dei predatori, hanno una visione specializzata per certe condizioni ambientali. Infatti, avendo entrambi una retina ricca in bastoncelli hanno una miglior visione crepuscolare e notturna. «Gli occhi dei nostri animali "brillano" di notte perché nella loro coroide, subito al di sotto della retina, è presente una struttura chiamata tappeto lucido che riflette la luce e amplifica la visione. Ed è proprio grazie all’elevata concentrazione in bastoncelli nella retina la visione notturna è fortemente favorita. Quindi di notte vedono molto bene» evidenzia il Dr. Guandalini. Il bagliore emanato dal tapetum è solitamente giallo-verdastro – può essere blu o arancione -. Non tutti i cani hanno questa struttura; i cani con gli occhi azzurri più comunemente non lo possiedono e danno un aspetto occhi rossi causato dai globuli rossi nella parte posteriore degli occhi.

Eterocromia

Il termine che deriva dalle parole greche héteros, che significa diverso, e chróma, che significa colore. «L'eterocromia dell'iride è caratterizzata da colori differenti nella stessa iride o fra le due iridi nello stesso animale. Spesso è la sola manifestazione della diluizione di colore oculare in alcune razze (es. Siberian Husky, Alaskan Malamute, Shih Tzu, ecc.). A parte la variazione nell'aspetto l'eterocromia dell'iride non ha un significato clinico. Talvolta può essere una delle manifestazioni delle anomalie oculari multiple legate al gene Merle, che modifica il pigmento scuro degli occhi e determina, tra le tante cose, una combinazione di colori nel manto dei cani».

Terza palpebra

La terza palpebra che persiste nella specie umana come caruncola lacrimale, definita anche membrana nittitante, è una «palpebra aggiuntiva» nascosta all’interno degli occhi del gatto, che ha alcuni ruoli fondamentali nei pets: distribuzione del film lacrimale, protezione fisica della cornea e compartecipazione, grazie alla ghiandola annessa, alla produzione della secrezione lacrimale per circa un 30/40% della quantità totale di lacrime prodotte a livello oculare. Viene fuori per un riflesso spontaneo quando il cane necessita di un sistema di difesa. Se si dovesse notare la presenza persistente della terza palpebra del gatto in uno o entrambi gli occhi del felino è bene contattare immediatamente il proprio veterinario di fiducia in quanto potrebbe essere che il micio sia malato o gli sia entrato un corpo estraneo nel bulbo oculare. 

Da repubblica.it il 18 agosto 2022.

Il cavallo da carrozza che è crollato lo scorso mercoledì su una strada di Manhattan era "in difficoltà" e "aveva problemi a camminare" a Central Park quattro ore prima del preoccupante incidente, ha detto un testimone. L'animale in difficoltà, di nome Ryder, è stato anche rimproverato e sgridato dal suo conducente, che è stato visto schiaffeggiare e frustare il cavallo con le redini prima che si sdraiasse sull'asfalto bollente per più di un'ora tra la 9th Avenue e la West 45th Street, secondo quanto riferito da una frequentatrice del parco. 

"Questo cavallo ha immediatamente attirato la mia attenzione perché sembrava molto diverso dagli altri", ha scritto Smidt, 42 anni, in una dichiarazione ottenuta dal New York Post. "Potevo vedere le sue costole sporgenti, camminava con la lingua fuori e aveva difficoltà a camminare. Camminava molto lentamente".

Smidt, residente nel New Jersey, si trovava a Central Park la settimana scorsa con il marito e la figlia, quando hanno visto Ryder. Si prevede che parlerà dei problemi del cavallo in una conferenza stampa che si terrà davanti all'ufficio del procuratore distrettuale di Manhattan, insieme a legislatori e sostenitori che chiedono ai procuratori di presentare accuse di crudeltà verso gli animali e di avviare un'indagine penale sull'abuso dei cavalli da carrozza. 

Da ilgiorno.it il 18 agosto 2022.

Non ce l'ha fatta il cinghiale "dei Navigli", latitante da 14 giorni. È stato ritrovato questa mattina nella gabbia che era stata posizionata in piazzale Tripoli. Appena è stato avvistato dal Nucleo Ittico Venatorio (Niv) della Città Metropolitana e dai Vigili del fuoco sono scattate le operazioni per il recupero e il suo salvataggio. 

Perché un posto per lui era già stato trovato - al Centro gestione animali selvatici di Vanzago (Milano) - e la speranza di tutti - ricordano dal Niv - era comunque quella di ritrovarlo in vita. Quando lo hanno raggiunto respirava ancora, ma era in condizioni precarie, molto debilitato per quei giorni da fuggiasco in città. È stato narcotizzato per portarlo in superficie ed è morto durante il tragitto. Il veterinario dell'Ats presente sul posto durante tutte le fasi del recupero non ha potuto fare altro che costatarne il decesso.

Le operazioni per il salvataggio dell'ungulato, che si era addentrato nelle acque di scolo dell'Olona, erano partite intorno alle 7 quando la sua presenza era stata segnalata nelle fogne di piazzale Tripoli. 

Dopo l'individuazione era stato sedato per essere poi prelevato ma non ha retto ed è morto durante il trasporto. Si trattava di un esemplare femmina tra 50 e 70 chili.

L’ungulato era stato avvistato per la prima volta da alcuni passanti giovedì 4 agosto: era stato filmato mentre nuotava nel Naviglio vicino alla Darsena. Nei giorni seguenti erano state predisposte anche delle trappole con esche per catturarlo. 

Fulvio Cerruti per lastampa.it il 16 agosto 2022.

Tornare a casa e trovare il proprio cane con un serpente avvolto sul muso e, in parte, fra i denti. Un vero e proprio choc per una donna che vive a San Diego, negli Stati Uniti, ma che non ha perso la calma e ha chiamato un professionista esperto di serpenti. 

Così a casa della donna è arrivato Bruce Ireland, un uomo che offre i suoi servizi per rimuovere gratuitamente i serpenti quando finiscono in luoghi inadatti. «Ogni volta che vengo chiamato è per qualcosa di interessante, e anche in questo caso lo era» ha raccontato l’uomo che ha filmato il suo intervento pubblicandolo poi su TikTok. 

Nonostante lo spavento, Ireland ha assicurato che entrambi gli animali stavano bene dopo il disastroso incontro: il serpente non era velenoso e, anche se il cane lo ha preso in bocca, il rettile ne è uscito praticamente illeso.

Non è ben chiara la dinamica dell’accaduto, ma l’ipotesi più probabile è che il cane, che è abituato a scoprire il mondo con il suo naso, si sia avvicinato a quell’essere “strano” e sia finito per ritrovarselo attorno al muso. Alla fine, probabilmente, i momenti peggiori li ha passati la sua proprietaria che si è presa un brutto spavento. 

"Tirammo a sorte per essere mangiati": la Essex e la vera storia di Moby Dick. 1820. La baleniera Essex prende il mare per la caccia alla balena. Ma un capodoglio la colpisce facendola affondare e per i sopravvissuti inizia un calvario fatto di sofferenze, resistenza e cannibalismo. Francesca Bernasconi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Una baleniera che naviga nel cuore dell'Oceano Pacifico, un capodoglio che travolge la nave e un gruppo di naufraghi che riesce a sopravvivere facendo ricorso al cannibalismo. Sembrano gli ingredienti perfetti per un romanzo o un film di successo. Ma questi fatti non sono frutto di una finzione narrativa, a dimostrazione che, a volte, la realtà supera la fantasia. E, infatti, è stata proprio la storia della baleniera Essex a ispirare libri come quello di Herman Melville, Moby Dick.

La caccia alle balene

Fin dai tempi antichi l'uomo ha considerato la balena (e, in generale, i cetacei) un animale da cacciare. Oltre che per la carne, capodogli, balenottere e megattere erano preziose anche per l'olio, ottenuto dal grasso e utilizzato per alimentare le lampade, e l'ambra grigia, con cui si possono realizzare profumi. Anche i fanoni, lamine presenti nella bocca di alcune specie di balene, potevano essere usati per costruire carretti, aste e per irrigidire alcune parti dei vestiti, come i corsetti femminili o i colletti delle camicie maschili.

La caccia alla balena veniva effettuata con l'utilizzo di grandi vascelli, chiamate baleniere, che si servivano di piccole barche, le lance, in grado di avvicinarsi maggiormente ai cetacei avvistati. Da qui i marinai lanciavano un arpione per colpire e uccidere la balena. Una volta catturato, l'animale veniva portato sulla baleniera, dove veniva lavorato, di modo da separare e conservare il grasso e gli altri prodotti utili all'uomo.

All'inizio dell'800 la caccia alle balene divenne l'attività principale degli abitanti di Nantucket, un'isola degli Stati Uniti, situata a Sud di Cape Cod, nello Stato del Massachusetts. Partì proprio da lì la baleniera Essex, la cui tragica fine ha ispirato il romanzo Moby Dick. Costruita ad Amesbury nel 1799, come riporta la National Maritime Digital Library, la Essex prese il mare nell'agosto del 1819, sotto il comando di George Pollard. Dopo aver raggiunto le isole a Ovest dell'Africa e doppiato Capo Horn, la baleniera si spinse al largo dell'Oceano Pacifico. Il carico di bordo, consistente in grasso di balena, era infatti considerato troppo ridotto, soprattutto in relazione all'arrivo dell'inverno. Per questo il capitano e i marinai decisero di continuare a esplorare il mare.

L'attacco del capodoglio

A metà novembre, stando a quanto raccontò il primo ufficiale Owen Chase, sopravvissuto al disastro, la baleniera avvistò un gruppo di capodogli e il comandante diede ordine di calare le lance, perché inseguissero i cetacei, nella speranza di catturarne alcuni, per poterne ricavare il necessario. Chase riuscì ad arpionare una balena che, nel tentativo di liberarsi, colpì la sua scialuppa, provocando una falla. Dato il problema causato dall'apertura, da cui entrava acqua, Chase lasciò andare il cetaceo e torno alla Essex, per cercare di riparare la barca.

Ma qualcosa di più terribile stava per accadere. Era il 20 novembre del 1820. Il grido di un uomo annunciava l'attacco: "Ho visto una balena molto grande avvicinarsi a noi", raccontò poi Thomas Nickerson, un marinaio a bordo della baleniera, sopravvissuto al naufragio, che scrisse un resoconto sulla vicenda. "Il suono delle loro voci aveva appena raggiunto le mie orecchie - continua il racconto di Nickerson - quando fu seguito da un terribile 'crash'. La balena aveva colpito la nave con la testa, direttamente sotto la catena di prua di babordo". La nave però non affondò. Ma, invece di allontanarsi, "il mostro fece una svolta a circa trecento metri più avanti, poi, voltandosi di scatto, arrivò con la sua massima velocità". E ancora una volta attaccò la nave con "un tremendo colpo". Per la Essex, ormai, non c'era più nulla da fare: "Uno degli uomini che era sotto in quel momento arrivò di corsa sul ponte dicendo: 'La nave si sta riempiendo d'acqua'".

La Essex non colò subito a picco, dando modo all'equipaggio, composto da una ventina di uomini, di recuperare materiale e viveri per 30 giorni di navigazione. Poi, il 22 novembre, tre lance lasciarono il relitto, che si stava inabissando, e iniziarono la loro navigazione nel Pacifico, con l'intenzione di raggiungere le coste del Sud America. Sarà l'inizio di un lungo ed estenuante naufragio, che lascerà dietro di sé decine di morti e metterà gli uomini a dura prova.

Il naufragio

Tempeste, vento e mare mosso caratterizzano i primi giorni del naufragio. Poi i giorni diventarono settimane e mesi e il caldo cocente iniziò a inviare le lance degli uomini sopravvissuti all'affondamento e all'attacco del capodoglio. La sete, raccontò Nickerson era così forte "tanto che alcuni furono costretti a cercare sollievo nella propria urina. Le nostre sofferenze durante quei giorni caldi superano qualsiasi immaginazione".

Poi, il 20 dicembre, alle sette del mattino, uno dei marinai vide qualcosa che infuse speranza agli uomini sulle scialuppe: "C'è terra", gridò all'improvviso. I marinai credettero di essere incappati nell'Isola Ducie, un piccolo atollo, ma si trattava in realtà di Henderson, un'isola disabitata nell'Oceano Pacifico, che offriva poche risorse. Per questo, dopo una settimana sull'isola, il capitano e i suoi compagni presero la decisione di rimettersi in viaggio attraverso l'oceano. La mattina del 27 dicembre le barche vennero portate nuovamente in mare. A bordo c'erano tutti i membri dell'equipaggio della Essex, a eccezione di tre uomini, che rimasero sull'isola, probabilmente perché troppo deboli per poter affrontare di nuovo il mare aperto. I tre vennero soccorsi e tratti in salvo dopo mesi, il 9 aprile 1821.

Intanto, gli altri marinai erano in navigazione nell'Oceano Pacifico, con pochissime provviste e il mare non forniva il sostentamento necessario. Così, alcuni uomini iniziarono a morire di stenti e i compagni seppellirono i corpi affidandoli al mare. Fino a che la situazione divenne disperata. A quel punto, era rimasta un'unica risorsa: mangiare i corpi dei propri compagni morti. I marinai della Essex dovettero ricorrere al cannibalismo. "Oggi un uomo di colore di nome L. Thomas è morto - scrisse Nickerson - e il suo corpo costituì il cibo dei suoi compagni sopravvissuti per diversi giorni". Lo stesso scenario si ripetè altre volte fino a che "il capitano con i suoi tre compagni sopravvissuti, dopo una dovuta consultazione, acconsentì a tirare a sorte", per decidere quale marinaio avrebbe dovuto morire, così da permettere agli altri di sopravvivere fino a quando, nel febbraio 1821, vennero salvati dalla nave Dauphin di NantucKet. Altri marinai vennero soccorsi dal mercantile Indian e dal Surrey.

Come precisato dal Nantucket Historical Association, otto marinai della Essex morirono in mare e altri quattro risultarono dispersi. In totale, quindi, dodici uomini non fecero mai ritorno a casa. Tra i superstiti, il capitano Polland tornò al comando di una nave, che naufragò nuovamente, e il primo ufficiale Owen navigò ancora per diverse campagne di caccia alle balene. Per molti dei sopravvissuti, il rimorso per il cannibalismo fu tale da lasciarli segnati per tutta la vita e gli altri marinai superstiti non navigarono più.

Samuele Finetti per corriere.it il 10 agosto 2022.

Una rete, tanto era bastato. Sollevata non da braccia umane ma da una gru: perché l’animale in questione non era uno dei numerosi lucci che popolano le acque della Senna, ma il beluga che dallo scorso martedì nuotava lungo il grande fiume francese e che da cinque giorni era bloccato in una chiusa di circa 125 metri per 25, settanta chilometri a nordovest di Parigi. Ma l'illusione di averlo salvato non è durata molto: non sono passate che poche ore e il cetaceo è morto. 

L'esemplare era stato estratto dall’acqua questa notte, in un’operazione coordinata dai vigili del fuoco, dai veterinari e dagli esperti di Sea Sheperd France. Proprio questi ultimi hanno poi spiegato su Twitter che si trattava di un esemplare di sesso maschile, lungo quattro metri e del peso di circa 800 chilogrammi, che era stato immediatamente sottoposto ad alcuni esami veterinari.

Inizialmente non erano stati riscontrati segni di alcuna malattia infettiva, ma i biologi non riuscivano a chiarire perché non avesse mai mangiato il pesce che gli era stato gettato vicino dopo che le prime osservazioni ne avevano mostrato lo stato di dimagrimento. Da qui la decisione dei biologi di somministrargli un cocktail di vitamine. 

Dopo il salvataggio, il beluga doveva essere trasportato a Nord, in una vasca di acqua salata nella città di Ouistreham, in Normandia, a bordo di un camion refrigerato che era già stato preparato per il delicato trasferimento. Ma alla fine la lunga esposizione all’acqua dolce e all’inquinamento della Senna è stata fatale. Domenica la presidente di Sea Shepard France, Lamya Essemlali, aveva ammesso che c'erano «poche speranze» di salvarlo se non entro 24-48 ore.

A maggio, un'orca era morta proprio nella Senna perché denutrita. Ora agli esperti non resta che domandarsi come un beluga si sia potuto ritrovare nell'entroterra francese, a 3.000 chilometri dal suo habitat più vicino (le isole Svalbard, in Norvegia). L’osservatorio francese Pelagis, specializzato in cetacei, ha sottolineato che si tratta del quarto caso di un esemplare della specie avvistato in Europa a queste latitudini: nel 1948, un beluga era finito nelle reti di un pescatore lungo la Loira; nel 1966, un altro era comparso nel Reno tedesco; e infine, nel 2018, un esemplare era salito in superficie nella foce del Tamigi.

Maurizio Crippa per “il Foglio” l'11 agosto 2022.

Facendo finta di non mettere in conto le critiche o anche peggio che me ne verranno – il fianco è volutamente sguarnito: a molta gente un beluga malato (e ora morto) risulta di certo più simpatico di un Jovanotti che calpesta le aiuole – esporrò qualche impressione dubitativa sul dramma della Senna che mezzo mondo ha commosso. Il povero beluga, quattro metri e 800 chili, specie protetta di acque artiche che qualche motivo ha spinto per 130 km in un entroterra caldo, non suo, era stato bloccato da una chiusa verso Parigi.

E’ stato soccorso, curato. Ma non mangiava più e i farmaci non sembravano bastare. L’ultima sua notte è durata sei ore, il tempo per veterinari e volontari di provare a portarlo sulla costa. Non ce l’ha fatta. Per lui si erano mobilitati in tanti, per giorni, sub e barche, medici e attivisti, medicine e cibo. Al Tg3 Giovanna Botteri mi aveva colpito: una partecipazione emotiva ed esibita forse degna di miglior causa, di altri scenari di guerra. Così mi è sembrato. A poca distanza da dove i migranti annegano provando a passare la Manica. Niente contro il beluga, ma se si immaginasse di spendere anche solo la metà di soldi e affetto per ogni beluga umano che resta intrappolato nelle nostre chiuse, chissà.

"Troppi lupi": la Svezia ordina di dimezzarne la popolazione. Redazione Tgcom24 il 15 agosto 2022.

Si prospetta un inverno difficile per i lupi in Svezia: nonostante gli esemplari che vivono nel Paese nordico siano non più di 460, il governo ha deciso per una drastica riduzione del loro numero. La decisione è stata fortemente caldeggiata dai partiti di centrodestra per i danni causati dai lupi nelle aree rurali agli allevamenti di renne, su cui si basa l'economia del popolo Saami. Ai cacciatori è stato così dato il permesso di abbattere tra i 170 e i 270 esemplari: l'ultima volta che nel Paese era stata autorizzato un abbattimento di lupi così importante risale al 1890. 

L'addio di Oslo alla tricheca Freya. Troppo pericolosi i suoi "show". Andrea Cuomo su Il Giornale il 15 agosto 2022.

«I am a walrus», cantavano i Beatles in una delle loro canzoni più pischedeliche. Io sono un tricheco. Lo cantavano i «fab four» e lo cantano anche gli ansloensi (così si chiamano gli abitanti di Oslo) dopo aver saputo che il governo norvegese ha praticato l'autanasia sull'adorata Freya, il tricheco, anzi «la tricheca» che negli ultimi tempi era diventata l'attrazione del fiordo di Oslo: si faceva accarezzare, nuotava con le persone, saliva sulle barche per prendere il sole affondandole. Tutte attività molto divertenti ma che alla fine stavano diventando pericolose per la sicurezza. «La decisione di praticare l'eutanasia sul tricheco - fa sapere il capo della Direzione norvegese della pesca, Frank Bakke-Jensen - è stata presa sulla base di una valutazione completa della continua minaccia alla sicurezza umana».

L'avventura breve ma poetica di Freya (nome che nella mitologia scandinava identifica la dea della bellezza e dell'amore) nel mare antistante la capitale norvegese era iniziata lo scorso 17 luglio. Il grande mammifero, un esemplare femmina di circa 600 chili, era stato filmato - tra un lungo sonnellino e l'altro, un tricheco può dormire fino a 20 ore al giorno - mentre inseguiva un'anatra, attaccava un cigno o saliva sulle barche per stendersi al sole, facendone affondare diverse sotto la sua mole. Il tricheco era diventato anche un compagno di nuoto per molte persone.

Persone che avrebbero voluto salvare in ogni modo Freya. «Abbiamo esaminato attentamente tutte le possibili soluzioni - precisa Bakke-Jensen nella nota -. Abbiamo concluso che non potevamo garantire il benessere dell'animale con nessuno dei mezzi disponibili». Va detto che le autorità avevanorivolto molti appelli al pubblico perché si tenesse a distanza dall'animale. I curiosi continuavano ad avvicinarsi a lei, a volte con bambini al seguito, soprattutto per scattare fotografie. Secondo un esperto la tricheca sarebbe entrata nel fiordo per errore mentre cercava di nuotare verso nord per andare nell'Artico, presso le isole Svalbard, a migliaia di chilometri di distanza.

Fulvio Cerruti per “La Stampa” il 12 agosto 2022.

L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha espresso dolore e preoccupazione per l'uccisione di diverse scimmie in Brasile dovute ai timori di contagio da vaiolo delle scimmie. Il sito G1 racconta che 10 esemplari sono state avvelenati in meno di una settimana nella città di Sao Jose do Rio Preto, nello stato di San Paolo. Una zona dove erano stati riscontrati casi di infezioni. Incidenti simili sono stati segnalati in altre città. 

«La gente deve sapere che la trasmissione che vediamo ora avviene tra gli esseri umani», ha detto Margaret Harris, portavoce dell'OMS, durante una conferenza stampa a Ginevra aggiungendo che, nonostante il nome, le scimmie non sono i principali trasmettitori della malattia e non hanno nulla a che fare con l'epidemia: il virus è stato identificato con il nome di “vaiolo delle scimmie” perché è stato identificato per la prima volta nelle scimmie tenute per la ricerca in Danimarca, ma la malattia si trova in un certo numero di animali e più frequentemente nei roditori.

Il Brasile conta più di 1.700 casi di vaiolo delle scimmie e il 29 luglio il ministero della salute del Paese ha confermato un decesso correlato alla malattia: la vittima era un uomo con una bassa immunità e comorbidità. Il contagio può avvenire dagli animali all'uomo, ma il recente focolaio è correlato a contatti solo umani: «Le preoccupazioni dovrebbero riguardare dove come sta circolando nella popolazione umana e cosa possono fare gli esseri umani per proteggersi dal riceverlo e trasmetterlo. Le persone non dovrebbero certamente attaccare nessun animale».

Harris ha affermato che il modo migliore per tenere a freno il virus è «se le persone riconoscono di avere sintomi e cercano aiuto e cure mediche e prendono precauzioni per evitare che venga trasmesso». Ciò richiede una sensibilizzazione tra le persone più a rischio.

Olanda, da abbattere una mucca su tre: proteste degli allevatori. Vacilla il governo Rutte. Irene Soave su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022 

Un «Memorandum per le aree rurali» del governo più longevo della storia del Paese scontenta le campagne: e il «Partito dei contadini», nei sondaggi, tallona quello di governo. 

Placide, bianche e rosse, bianche e nere, le vacche pezzate fanno parte del paesaggio-cliché olandese quanto i mulini e i papaveri. Eppure è proprio sugli allevamenti olandesi, soprattutto bovini, che rischiano di infrangersi la lotta dell’Unione Europea all’inquinamento e, forse, anche la tenuta del finora inossidabile governo di Mark Rutte. Da giorni gli allevatori olandesi protestano incendiando covoni, inondando di letame le autostrade, bloccando i mercati alimentari all’ingrosso, contro la proposta di legge avanzata dal governo per dimezzare entro il 2030 l’inquinamento da azoto e ammoniaca, fortemente legato agli allevamenti. Che dovranno ridurre di un terzo, è questa la stima, i 100 milioni di capi fra mucche, maiali e galline allevate nella «stalla d’Europa»: i Paesi Bassi sono, nella Ue, il membro con più alta densità di bestiame.

Il «Memorandum per le aree rurali» proposto dal governo è molto chiaro. La produzione di azoto e ammoniaca, oltre a altri parametri, dovrà essere ridotta dal -12% al -70% secondo la zona, e le più colpite sono proprio le zone agricole: tra i maggiori veicoli dell’inquinamento di suolo da azoto ci sono feci e urina del bestiame. Il che «traduce» le percentuali in numeri molto più chiari, trapelati prima dell’ufficialità e diffusi come un incendio sui media locali e sui social: capi da abbattere, a decine di migliaia, in almeno 17.600 aziende agricole; 11.200 aziende agricole (anche di coltivazione intensiva) destinate alla chiusura se non si riconvertiranno o si sposteranno. Gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento sono decisi su base locale per tutelare i siti di interesse ambientali individuati dal programma europeo Natura 2000, circa il 7% del suolo nazionale (in Italia protegge 719 piccole aree). Come ammortizzatore per la riconversione di queste aziende, e per la messa in pratica del programma, il governo - che peraltro offre la possibilità di rilevare le aziende che lo desiderano, anche se finora pochi hanno aderito - stanzierebbe circa 25 miliardi di euro di qui al 2030. Entro fine luglio le singole province avrebbero dovuto presentare al governo il loro piano per la riduzione dell’azoto; molte si sono astenute.

E mentre le più scenografiche proteste delle ali «estreme» del movimento, legate all’ultradestra e coordinate su Telegram, conquistano il primo piano sui media internazionali, cresce la rappresentanza politica, nei sondaggi, del malcontento degli agricoltori. Il BoerBurgerBeweging, BBB, Movimento dei cittadini agricoltori, è guidato dalla deputata ex cristiano-democratica Caroline van der Plas, che chiede al governo di «iniziare a parlare con gli allevatori e gli agricoltori, e non solo di loro», e la sospensione del «Memorandum». «Se inizieremo a dover importare la carne», paventa, «finirà come col gas: non è bello essere dipendenti». E il governo mostra i primi cenni di difficoltà. Se Mark Rutte ha festeggiato il 2 agosto il dodicesimo anniversario al governo — è così il premier olandese più longevo — rischia, osservano alcuni commentatori, di dover abdicare in questo frangente al soprannome che ha meritato in anni di imperturbabilità e spirito di servizio: lo chiamano «Teflon-Mark» perché tutto gli scivola addosso, niente fa presa. Lo scandalo dei tagli ai sussidi per l’infanzia, il Nokiagate, i bisticci da «frugale» contro l’Europa. Ma venerdì, insieme a tre suoi ministri, ha dovuto ricevere i rappresentanti degli agricoltori per un primo giro di «consultazioni» di alcune ore. E se il suo partito popolare, Vvd, perde consensi, il secondo in termini di gradimento è ora proprio il BBB di recente costituzione, entrato in Parlamento con un solo seggio nel 2021, capace di guadagnarne 18 se si votasse oggi. E tra i detrattori del nuovo «Memorandum» è, peraltro, il gruppo più moderato. 

Da lastampa.it il 12 agosto 2022.  

Un gattino nato in provincia di Treviso con sei zampe, quattro delle quali posteriori, e abbandonato per la sua anomalia dalla madre subito dopo il parto, è stato salvato. Ad aprile vi avevamo raccontato la sua storia con il proprietario voleva farlo sopprimere e il veterinario dottor Marco Martini che si era opposto e lo aveva preso in custodia. 

Ora è arrivata la notizia tanto attesa: il veterinario Marco Martini e Gianluca Magli, chirurgo ortopedico di fama nazionale, visto che l’animale aveva raggiunto i quattro mesi di vita, un'età adeguata per essere sottoposto all’intervento, hanno tentato l'asportazione dei due arti di troppo. E l’intervento è stato un successo.

Dopo l'operazione ed un periodo di riabilitazione il gatto, che per le sue sei zampe era stato chiamato Eni, è stato adottato da una signora del posto e ora convive e gioca normalmente con l’altro micio di casa.

La pecora Fortunata fa cento chilometri con il suo piccolo per ritrovare il padrone. Cristina Palazzo su La Repubblica il 12 Agosto 2022.  

È accaduto in Val Formazza. La storia che «sembra una favola» è stata raccontata sui social dallo chef Mauro Morando

Oltre cento chilometri con il suo piccolo appena nato per ritrovare la strada dell’alpeggio e tornare dal suo padrone e dal suo gregge in Val Formazza, senza perdere l'orientamento. È la storia di Fortunata e il suo agnellino Fortunato. Così li ha rinominati il proprietario Ernestino Morandi, 70 anni, da 40 allevatore conosciuto nel Verbano, che non sperava più di ritrovarli lì a quasi 2.500 metri in alpeggio, finché una ragazza lo ha chiamato dicendo che la pecora stava tornando. E così è sceso a Premia dove l'ha riconosciuta, ci sono voluti un paio di giorni per riprenderla.

«Si è persa perché si era fermata per partorire a Gozzano, nel Novarese, e dopo un mese l’ho trovata qui in montagna, ha percorso un centinaio di chilometri», racconta Morandi. Ha un gregge da circa 2mila capi «ma conosco i miei animali e comunque hanno dei bottoni». E la pecora conosceva la strada. Avendo già 4 anni, ha percorso la strada per l’alpeggio almeno 8 volte, «sale e scende da anni, sa dove passa, le bestie sanno dove devono andare. Lei è stata fortunata perché non è stata investita, poteva succedere».

La storia che «sembra una favola» è stata raccontata sui social dallo chef Mauro Morando, «che fantastica storia è la vita», ha scritto su Facebook. La protagonista della «nostra “favola”», racconta e pubblica la foto, «io l’ho vista e al solo pensiero mi si apre il cuore. Abbiamo tanto da imparare dalla natura e quando vedrete un pastore col suo gregge fategli un inchino perché l’amore che ha per il suo gregge è qualche cosa di indescrivibile». 

Morandi è salito con il gregge ai primi di luglio, un viaggio «di 250 chilometri, prendiamo quattro paia di scarpe nuove ogni volta per arrivare sotto Mortara - sorride -. La pecora aveva partorito e forse era sdraiata, faceva caldo e io non l’ho vista. Sono tornata diverse volte a cercarla ma invano. Non credevo più di rivederla, ha attraversato anche dei paesi dove c’è il traffico senza perdersi e senza nessun danno. È intelligente, l’ho vista in galleria, ha percorso tre chilometri sulla destra e sul marciapiede. Ero dietro con l’auto. Ora sta benone, sta mangiando, tra qualche giorno la riporto nel gregge che ora è ancora alto». 

Erba velenosa per la siccità, secondo caso in Piemonte: morte altre sei mucche. Carlotta Rocci La Repubblica l'11 Agosto 2022.  

Al lavoro i  veterinari dell’Istituto zooprofilattico e dell’Asl di Savigliano

Un secondo caso in pochi giorni, dopo quello di Sommariva del Bosco.  Questo pomeriggio i veterinari dell’Istituto zooprofilattico e dell’Asl di Savigliano sono dovuti intervenire in una stalla del saluzzese dove le mucche si sono sentite improvvisamente male dopo aver mangiato dell’erba fresca.

Il sospetto è che le piante, appena tagliate, siano della stessa famiglia del sorgo che sabato scorso ha ucciso 50 mucche di un allevamento a Sommariva del Bosco. Gli animali che sono improvvisamente stramazzati a terra questo pomeriggio sono stati circa una decina,  sei sono deceduti ma cinque sono stati salvati dalla squadra di veterinari composta da Stefano Giantin dell’istituto zooprofilattico di Cuneo, Giovanni Topi e Francesco Barberis dell’Asl di Savigliano che hanno usato nitrato di sodio per neutralizzare gli effetti delle sostanze che hanno con ogni probabilità intossicato le mucche.

Il secondo caso in pochi giorni solleva il dubbio sul fatto che la presenza di sorgo con livelli di tossine fuori dal normale sia più diffuso di quel che si pensa nella zona e possa costituire un pericolo diffuso per il bestiame.  L’istituto zooprofilattico di Cuneo, diretto da Angelo Ferrari, farà delle analisi sull’erba prelevata nella stalla dove si è verificato il secondo episodio in pochi giorni. Quelle condotte sui campioni prelevati a Sommariva del bosco aveva evidenziato livelli di durrina dieci volte superiore ai limiti previsti per i mangimi animali.

La durrina è una sostanza tossica che si trasforma in acido cianidrico nel rumine delle vacche. Ma perché il sorgo ha una concentrazione così alta di sostanze tossiche? La colpa - spiegano gli esperti - potrebbe essere il caldo. Queste piante, molto usate nei paesi tropicali perché richiedono pochi interventi e un’irrigazione limitata, sviluppano un’alta concentrazione di tossine quando la pianta è ancora piccola e più fragile. Il gran caldo di queste settimane potrebbe aver limitato la crescita delle piante facendole rimanere più piccole del normale e aumentando, fino a questi livelli, la concentrazione delle tossine che hanno ucciso i capi di bestiame.

Cinquanta mucche avvelenate dal sorgo, per la siccità la pianta aveva sviluppato una tossina. Carlotta Rocci La Repubblica l'8 Agosto 2022  

Il presidente di Ara Piemonte e Liguria: "Un fatto inaspettato che ci ha colpito tutti". Coldiretti: "Aspettiamo il risultato delle analisi".

Sono morte una dopo l’altra nel giro di una manciata di minuti. Cinquanta mucche uccise dal sorgo, un cereale. Almeno questa è l’ipotesi su cui stanno lavorando gli esperti dell’istituto zooprofilattico incaricati delle analisi. «Ho chiesto anche agli allevatori della zona, a memoria nessuno si ricorda un fatto simile», assicura il sindaco di Sommariva del Bosco  Marco Pedussia.

Il protagonista di questa vicenda è Giacomino Olivero, 58 anni, ancora sconvolto per quello che gli è capitato. «Un disastro - dice - Sono appena arrivati i veterinari a ritirare le placchette auricolari delle mucche. C’è già il camion che aspetta per portarle via», dice. Con lui c’è il nipote che era presente anche sabato quando un terzo del loro bestiame è morto in un prato. 

Le mucche sono morte intossicate, soffocate dal sorgo, una pianta che cresce bene in condizioni di siccità ma che risulta tossica per le mucche. «L’azienda agricola ci ha spiegato che il primo taglio del cereale sera servito per far fieno ma che all’allevatore avevano detto che adesso avrebbe potuto portare gli animali», spiega il sindaco. Dopo una decina di minuti che erano nel campo, però, le mucche hanno iniziato a tremare e cadere a terra. «Le vedevi boccheggiare e morire», racconta l’allevatore. In pochissimo tempo il campo si è riempito di gente, sono arrivati i veterinari dell’asl, anche i carabinieri forestali e tanti colleghi di Olivero. Insieme sono riusciti a trascinare via la gran parte del bestiame e salvare gli animali impedendo che potessero mangiare il cereale tossico che, nelle piante giovani, che possono sviluppare sostanze tossiche, colpisce il sistema nervoso degli animali. La morte avviene per asfissia.

L’istituto zooprofilattico sta ancora facendo esami sul materiale prelevato sabato a Sommariva del Bosco per verificare che quella sia la causa di morte degli animali. 

«Io non so dire quale sia la causa, non accuso nessuno - dice l’allevatore - quel campo l’ho seminato io. Ci siamo interrogati su cosa fare con questa siccità, mi sono documentato e ho trovato che quel cereale si adattava bene anche a questi climi. Non l’avevo mai usato ma la prospettiva di non avere fieno per l’inverno mi ha convinto a provare. Ora mi sento come se avessi portato a morire i miei animali», dice.  Olivero arriva da una famiglia di allevatori, porta le mucche al pascolo da quando avevo sei anni. «Ho già fatto un’infarto nella mia vita, questa storia a momenti me ne porta un secondo», confida. E’ atterrito e preoccupato. «Sono affezionato ai miei animali uno ad uno, e penso anche al danno economico.  È enorme». Entro sera le carcasse saranno rimosse, il veterinario monitora da giorni la salute delle 30 vacche sopravvissute sabato scorso. «La maggior parte sta bene, ma qualcuno ha ancora qualche sintomo di intossicazione». 

“Esprimiamo la nostra massima solidarietà all’allevatore Giacomino Olivero – dichiara Enrico Nada, Presidente di Coldiretti Cuneo – come Organizzazione ci stiamo muovendo per contribuire a coordinare le iniziative di solidarietà all’azienda agricola”. La solidarietà del mondo agricolo è stata enorme. Sulla pagina facebook del comune di Sommariva del Bosco gli agricoltori, il comune, le associazioni locali hanno avviato una raccolta fondi che fa capo alla parrocchia. 

Cani alla catena durante gli incendi: una lettera alle Regioni per dire basta. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 24 luglio 2022.

Ogni anno migliaia di animali in Italia sono vittime di roghi e incendi estivi, legati alle catene in luoghi lontano dalle abitazioni e fuori dal controllo diretto. L’appello delle organizzazioni perché questa pratica sia vietata su tutto il territorio. 

Immobilizzati, per tutto il giorno, senza la possibilità di muoversi. Legare i cani alla catena è una pratica ancora molto diffusa nel nostro Paese, dove in assenza di una legge nazionale sono le Regioni e i singoli Comuni a dover stabilire le regole su come e quando è possibile applicare la norma. 

Un fenomeno che, in estate, con il divampare di centinaia di incendi, diventa ancora più pericoloso per i nostri animali, intrappolati da catene, gabbie o recinti che impediscono loro di scappare in caso di emergenza. Per chiedere che il divieto sia esteso a tutto il Paese, Green Impact, Fondazione Cave Canem e Animal Law Italia si sono attivate con un appello. «In molte zone d’Italia a rischio incendi è ancora pratica comune tenere i cani legati in aree di campagna, lontano dalle abitazioni, dove gli animali non sono monitorati e non possono essere salvati in caso di pericolo. Abbiamo assistito tutti alla devastante tragedia causata dagli incendi in Sardegna lo scorso anno, dove sono morti centinaia di animali. Non possiamo aspettare di ritrovarci nella stessa situazione, serve un intervento immediato, quale è quello proposto», spiega Federica Faiella, vice presidente di Fondazione Cave Canem. 

Tenere un cane legato a una catena, magari per tutta la vita, oggi è ancora legale in diverse Regioni d’Italia, come evidenziato dalla seconda edizione del Rapporto «Verso il divieto di tenere i cani legati alla catena», realizzato dalle tre organizzazioni, in prima linea nel chiedere l’introduzione del divieto in tutte quelle Regioni italiane con normative assenti o inefficaci (qui il dossier completo). «Abbiamo definito un piano di azione con le misure necessarie per ottenere entro il 2026 l’emanazione di normative regionali efficaci in tutta Italia, in linea con il benessere, la salute e i bisogni etologici degli animali. Sono ancora molte le Regioni che presentano una legislazione inefficace o incompleta come ad esempio la Sardegna, e altre come la Sicilia ancora prive di una legislazione in materia, con un vuoto normativo da colmare», aggiunge Gaia Angelini, presidente di Green Impact. 

Nonostante ci sia ancora molta strada da fare, ci sono stati anche sviluppi positivi nell’ultimo anno. La Campania , ad esempio, ha integrato la sanzione mancante nella legge regionale (giugno 2021), mentre il Lazio ha modificato radicalmente la legge introducendo un chiaro divieto di detenzione dei cani a catena (agosto 2021). Inoltre, il divieto è in via di adozione nella provincia di Trento e in fase di discussione in Piemonte . Grazie all’impegno costante delle organizzazioni coinvolte nel progetto, nell’ambito della campagna «Liberi dalle catene» da loro promossa, sono già state raccolte quasi 35.000 firme, per chiedere il divieto di detenere i cani a catena e numerose sono state le iniziative di sensibilizzazione che hanno riportato l’attenzione su questa vergognosa abitudine, segnale di una crescente attenzione delle persone verso questo tema. La pratica, oltre a essere contraria alla sensibilità collettiva, è incompatibile con le esigenze etologiche del cane e ha conseguenze negative sullo stato psicologico, emotivo e fisico dell’animale.

«In Italia esistono 17 normative su 20 enti territoriali», fa notare in conclusione Alessandro Ricciuti, presidente di Animal Law Italia. «È fondamentale armonizzare la legislazione italiana e far sì che le Regioni esemplari, dotate di una legislazione più avanzata, vengano prese a modello da quelle in ritardo nell’approvare una normativa al passo con i tempi». Volgendo lo sguardo all’Unione Europea, emergono cambiamenti positivi anche oltre confine, come in Slovacchia e Germania, che nell’ultimo anno hanno adottato il divieto di detenzione dei cani a catena con alcune eccezioni circoscritte. Austria e Svezia restano i modelli di riferimento, mentre nel mondo, invece, si segnala l’esempio virtuoso della California.

Simone Porrovecchio per “il Venerdì di Repubblica” il 6 Agosto 2022.   

Il recente avvistamento di un gruppo di canguri che vagava per le strade del distretto di Jalpaiguri, nello stato indiano del Bengala occidentale, è un caso eclatante, ma non isolato. L'ultimo rapporto sull'India di Traffic, l'organizzazione internazionale che controlla il commercio di animali a rischio di estinzione, fornisce numeri allarmanti su quella che ha ormai i contorni di un'emergenza nazionale.

Secondo i dati raccolti dai ricercatori, tra il 2012 e il 2020 sono stati oltre 70.000 i casi registrati di specie a rischio di estinzione sequestrate dalle autorità in 18 aeroporti indiani. I principali Paesi di provenienza degli animali sono Brasile, Malesia, Singapore, Thailandia, Papua Nuova Guinea, Australia, Nuova Zelanda e alcuni Stati dell'Africa subsahariana e orientale, dove vengono messi in gabbia e spediti in India su navi mercantili o per via aerea.

«L'India è tra i primi dieci Paesi in termini di utilizzo di voli per il traffico di animali selvatici», sottolinea Atul Bagai, direttore dell'ufficio amministrativo dell'Unep per India, il Programma delle Nazioni Unite per l'ambiente. Gli esemplari che vengono scoperti e sequestrati dai funzionari doganali indiani vengono rimpatriati, ma se il loro Paese di origine non è chiaro, o non li accetta, vengono messi in quarantena e poi inviati agli zoo o ai parchi naturali più vicini.

Secondo i dati analizzati nel rapporto di Traffic l'aeroporto ad aver visto il maggior numero di casi di sequestro è quello di Chennai, nello stato di Tamil Nadu nel Sud Est del Paese, dove vengono scoperti sempre più spesso pangolini raggomitolati nei bagagli a mano, seguito dall'aeroporto internazionale Chhatrapati Shivaji di Mumbai e dall'aeroporto Indira Gandhi di Nuova Delhi.

Un altro hotspot di questo commercio è l'isolato stato Nord-Orientale di Mizoram, lungo il confine con il Myanmar, dove quest' anno sono già stati sequestrati oltre 400 animali esotici, tra cui bradipi tridattili (Bradypus tridactylus), lorisidi, la famiglia di piccoli primati dell'Africa cetrale, scimmie tamarini (Cebidi), alcune delle quali dalle dimensioni di uno scoiattolo sono state trovate imballate in pacchi da stiva, i gibboni dalle guance gialle (Nomascus gabriellae) e addirittura oranghi (Pongo pygmaeus) messi dentro dei cartoni rigidi e imbarcati.

Le specie autoctone sequestrate più frequentemente sono la tartaruga stellata indiana (Geochelone elegans), elencata come vulnerabile nella Lista rossa IUCN, seguita dalla tartaruga nera (Geoclemys hamiltonii). Tra le specie invece non autoctone l'animale più comunemente intercettato dai controlli è stato la tartaruga dalle orecchie rosse (Trachemys scripta elegans), seguita dalla tartaruga cinese (Mauremys reevesii).

Complessivamente, è quanto emerge dal rapporto di Traffic India, i rettili sono il gruppo più cospicuo (46 per cento), quasi sempre ritrovati pigiati in scatole di plastica e bottiglie, seguiti dai mammiferi (18 per cento), e dalle specie marine (10 per cento). L'India è sia destinazione, sia via di transito. Ricerche di Wwf India e altre organizzazioni mostrano che numerosi prodotti, tra cui peli di mangusta, pelli di serpente, gusci di tartaruga e bile d'orso, non hanno una domanda diretta in India.

Ciò significa che gli animali vengono portati in India per essere uccisi e le loro parti lavorate e poi esportate. Il prodotto più frequentemente sequestrato negli aeroporti indiani è l'ambra grigia, una sostanza cerosa che proviene dall'apparato digerente del capodoglio e viene usata dall'industria cosmetica come collante.

Secondo i dati raccolti sull'India dagli esperti dell'Unione mondiale per la conservazione della natura, il 90 per cento delle specie sequestrate nel Paese negli ultimi dieci anni sono classificate come minacciate nella Lista Rossa Iucn o elencate come in pericolo dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie di flora e fauna selvatiche minacciate di estinzione (Cites).

«Questo mercato è tragicamente redditizio e di facile acceso, poiché non esiste una legge che disciplini il possesso, il commercio e l'allevamento di animali esotici nel Paese», spiega Tito Joseph, responsabile del programma di difesa delle specie minacciate, Wildlife Protection Society of India. I trafficanti sfruttano una scappatoia offerta dalla legge indiana sulla conservazione della fauna, la Wildlife Protection Act del 1978, che protegge le specie autoctone ma, di fatto, tralascia le specie esotiche. L'animale una volta entrato in India può essere commerciato liberamente.

Saket Badola, direttore di Traffic India, afferma che «il grande numero delle specie esotiche introdotte illegalmente in India è da attribuire al numero crescente di indiani con un reddito tale da permettere l'acquisto di animali considerati prestigiosi, e all'influenza dei social media, dove esporsi con specie esotiche è uno status symbol».

Nel giugno 2020, il ministero indiano dell'ambiente ha offerto l'amnistia agli indiani in possesso di specie esotiche senza documentazione. Dodici mesi dopo più di 32 mila cittadini avevano dichiarato il possesso illegale di animali; inclusi canguri, iguane e lemuri, ha reso noto IndiaSpend, un'organizzazione di ricerca giornalistica.

«Sono d'accordo, c'è una lacuna nella legge che sarà colmata molto presto. Ma uno dei motivi per cui ci sono stati più sequestri è anche perché le istituzioni sono diventate più consapevoli del problema», afferma H. V. Girisha, vicedirettore del Wildlife Crime Control Bureau, ufficio del ministero dell'ambiente. 

Il governo indiano prova a correre ai ripari con un disegno di legge che prevede pene molto più severe e controlli più stringenti, aumentando anche il numero di specie protette. Intanto Traffic India e Wwf hanno avviato programmi di addestramento per i funzionari doganali nei principali aeroporti del Paese. Obiettivo, smascherare i trucchi sempre più audaci messi in atto dai contrabbandieri per nascondere gli animali.

Luisa Monforte per il “Corriere della Sera – ed. Roma” il 4 agosto 2022.

Roma dovrà dire addio alle tradizionali botticelle, le carrozze trainate da cavalli che portano in giro i turisti tra le vie del centro storico. Ieri pomeriggio l'Aula di Montecitorio ha licenziato un ordine del giorno, collegato al decreto Infrastrutture e Trasporti in discussione alla Camera, che prevede un impegno per il governo «a vietare l'utilizzo di animali per la trazione di veicoli e di mezzi di ogni specie adibiti al servizio di piazza e per i servizi pubblici non di linea finalizzati ai trasporti di persone a fini turistici e ludici, nell'intero territorio nazionale», ma anche «sanzioni amministrative e confisca del mezzo e dell'animale in caso di trasporto non autorizzato».

Sul fronte dei vetturini, per salvaguardare i posti di lavoro, il documento impegna l'esecutivo a convertire le autorizzazioni per le botticelle in licenze taxi. L'atto, a prima firma della deputata del Pd, Patrizia Prestipino - e che non ha incontrato l'approvazione di Fratelli d'Italia e Lega - promette di avere un impatto determinante sulla Capitale.

Roma, infatti, è la più grande città italiana in cui le botticelle continuano a circolare, soprattutto nel centro storico e nelle aree interessate dai flussi turistici. Al momento l'attività dei vetturini, con le temperature estive, è regolamentata esclusivamente da un'ordinanza sindacale in vigore dal primo giugno al 15 settembre: è fatto divieto far lavorare i cavalli dalle 13 alle 17, tutti i giorni, ma anche in altri orari quando la temperatura supera i 35 gradi. In caso di allerta caldo il divieto è esteso alla fascia 11-18.

L'atto è stato contestato dai vetturini che hanno presentato ricorso al Tar del Lazio, ma senza successo. I giudici hanno respinto l'istanza di sospensione. Il tribunale amministrativo, invece, aveva dato ragione ai vetturini nel 2021 bloccando il regolamento licenziato dalla giunta Raggi e che prevedeva la circolazione delle botticelle soltanto nei parchi e ville storiche. E in questi giorni, tra le temperature particolarmente alte in città e le lamentele delle associazioni animaliste, i dem in Campidoglio hanno già annunciato la revisione del regolamento.

«La salute e il benessere degli animali è una questione sulla quale l'intera amministrazione si sta spendendo, e rappresenta un elemento non negoziabile per la città - ha spiegato il presidente della commissione Ambiente, Giammarco Palmieri del Pd - Nello specifico, sul tema della salvaguardia della salute dei cavalli, d'accordo con assessorato e dipartimento Ambiente, vogliamo intervenire nell'ambito del regolamento che tutela il benessere animale per stabilire misure certe e durature, evitando così di dover ricorrere ogni anno ad interventi specifici ed urgenti», ha concluso.

L'atto licenziato ieri a Montecitorio, è stato salutato con favore anche dalla senatrice del Pd, Monica Cirinnà: «Finalmente si mette fine allo scempio disumano che sono le botticelle di Roma. Un insensato e crudele sfruttamento dei cavalli contro cui ci battiamo da tempo».

Michele Farina per il “Corriere della Sera” il 29 luglio 2022.

Nella stagione degli animali abbandonati (80 mila gatti e 50 mila cani ogni anno in Italia, secondo la stima della Lav: il 25-30% d'estate) c'è un Paese che ha messo a punto un sistema per eliminare il problema alla radice. Si chiama «Legge per la protezione dei diritti delle persone contro gli animali» ed è in dirittura d'arrivo al Parlamento di Teheran. In pratica, cani e gatti diventano fuorilegge. Gli iraniani che vogliono tenerli in casa dovranno chiedere il permesso a uno speciale e arcigno Comitato governativo.

Sono previste multe di almeno 800 euro per l'acquisto, la vendita, il trasporto e il possesso di una serie di altri animali giudicati «pericolosi» (compresi coniglietti e tartarughe). Un reportage semi-clandestino della Bbc segnala una nuova ondata di arresti (di persone) e di sequestri (di cani) nella capitale Teheran. La polizia di recente ha annunciato una nuova stretta: per «proteggere la sicurezza del pubblico», da questa estate è vietato girare con i cani nei parchi.

Per gli animali confiscati c'è una prigione ad hoc, di cui si raccontano cose orribili. Immaginiamo gente che per i bisogni dei propri cari esce furtiva a orari impensati, oppure cerca di passare inosservata tra la folla con l'amato quattrozampe nascosto nella borsa, pronto per un istantaneo pit-stop al cardiopalma. Il dottor Payam Mohebi, presidente dell'Associazione Veterinari, coraggiosamente definisce la Legge contro gli animali «imbarazzante».

Lo sforzo legislativo per fare piazza pulita di questi amici pericolosi è cominciato alcuni anni fa, con un gruppo di deputati che volevano relegare i «pet» negli zoo oppure abbandonarli nel deserto. Tradizionalmente, nei Paesi islamici gli animali sono considerati impuri. I veterinari raccontano alla Bbc che in Iran è proibito importare cibo specifico dall'estero e che quello di produzione interna è spesso scadente.

Così si è creato un mercato nero, tanto fiorente quanto costoso per i proprietari: trafficanti di crocchette e pusher di scatolette le fanno arrivare per vie traverse, con prezzi quintuplicati negli ultimi mesi. E pensare che l'Iran nel 1948 fu tra i primi Paesi del Medio Oriente a promuovere leggi per il benessere degli animali. Ora persino il gatto persiano si troverà a essere considerato un paria nella sua stessa patria.

Papa Francesco ai giovani: «Urgente ridurre il consumo della carne. Confido in voi». GAIA ROSSI su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

In una lettera scritta per la Conferenza Europea dei Giovani, riuniti a Praga, il Santo Padre parla dell’importanza di un’alimentazione sostenibile per rispettare l’ambiente

Papa Francesco si fa ancora una volta portavoce di un messaggio ambientalista e lo fa con una lettera indirizzata alla Conferenza Europea dei Giovani, che si è tenuta a Praga nei giorni scorsi, in cui parla anche dell’importanza di un’alimentazione più sostenibile per il futuro del mondo. «È urgente ridurre il consumo non solo di carburanti fossili ma anche di tante cose superflue; e così pure, in certe aree del mondo, è opportuno consumare meno carne: anche questo può contribuire a salvare l’ambiente», scrive il Santo Padre, mettendo così l’accento sulle conseguenze degli allevamenti intensivi sul riscaldamento globale.

Nella lettera il Papa poi prosegue: «A tale riguardo vi farà bene – se non l’avete già fatto – leggere l’Enciclica Laudato si’, dove credenti e non credenti trovano motivazioni solide per impegnarsi in favore di una ecologia integrale». Il riferimento è all’Enciclica del 2015, in cui il Pontefice affronta temi come il cambiamento climatico, la mancanza d’acqua, la perdita di biodiversità e che contiene parole molto nette proprio sul rispetto degli animali. «È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita», scrive ad esempio il Papa in uno dei passaggi chiave di quello che è considerato il suo testo programmatico più importante, per il quale è stato anche nominato Persona dell’anno dall’associazione animalista People for the Ethical Treatment of Animals (PETA). Anche a tavola, d’altronde, Papa Francesco dà il buon esempio: conduce una dieta molto leggera e semplice, con tanta frutta e verdura, proteine leggere provenienti prevalentemente da legumi e formaggi freschi e solo una volta a settimana pesce o carne bianca.

La bufala “Se in autostrada notate un cane abbandonato non dovete fare altro che inviare un sms al ….” corre sui social. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 23 Luglio 2022.  

Cosa dobbiamo fare quando si vede o incontra un cane abbandonato? Bisogna segnalare la presenza del cane vagante al Servizio veterinario pubblico del canile comunale sanitario competente per la zona in cui lo si è avvistato oppure chiamare la Polizia Locale o, eventualmente, al numero di emergenza 112. Sono obbligati ad intervenire e se non lo fanno o si rifiutano, ricordate loro che sono passibili di denuncia penale

Una delle vergogne più squallide che nel periodo estivo  affligge il nostro Paese è sicuramente quello degli abbandoni. Ogni anno infatti moltissimi animali tra cui cani e gatti vengono abbandonati sulle strade al loro destino. Nella maggior parte dei casi gli abbandoni avvengono proprio mentre ci si reca verso il luogo prescelto per la vacanza e quindi sono tantissimi gli animali abbandonati al proprio destino in autostrada e sulle strade statali.

Questa vergogna mette in serio pericolo non solo la vita dei poveri animali, che abbandonati a vagare in strade cosi pericolose hanno il destino praticamente segnato, ma anche la vita di moltissime persone innocenti che trovandosi un cane nel bel mezzo della carreggiata, potrebbero inchiodare e causare così dei gravissimi incidenti, che potrebbero costare la vita non solo al cane e a loro stessi ma anche a tutti gli automobilisti che sopraggiungono dietro la vettura. 

I socialnetwork sono luoghi dove moltissimi cani e gatti, grazie al passaparola ed ai gruppi di amanti degli animali, trovano spesso una famiglia adottiva ed una vita migliore, ma purtroppo sono anche luoghi dove le “bufale” circolano indisturbate. Nascono da chi agisce in malafede, e poi purtroppo diventano virali a causa di persone che diffondendole inconsapevolmente pensano di fare la cosa giusta. Ed è quello che sta capitando in questi giorni con un messaggio che dovrebbe essere utile per chi trova un cane abbandonato, ma in realtà è una bufala, cioè una “fake news”.

Il messaggio in questione da non tenere in considerazione è il seguente: “Se in autostrada notate un cane abbandonato non dovete fare altro che inviare un sms specificando località, ora di avvistamento, razza (se possibile) e direzione di marcia al 334-1051030. 1000 volontari sono pronti ad intervenire in tutta Italia fino al 4 settembre non è difficile… Esiste inoltre anche un altro numero attivo 24 h su 24 dal 1 luglio al 31 agosto ed è il 800.137079. UN COPIA INCOLLA È DOVEROSO. GRAZIE A CHI LO FARÀ”. 

La realtà è un’altra. Il numero verde 800.137079 esisteva e funzionava effettivamente, ma questo accadeva 10 anni fa in occasione di una campagna anti-abbandoni lanciata dall’Enpa sostenuta e patrocinata dal Ministero della Salute. Un’iniziativa che è durata solo due mesi (luglio-agosto 2013), che una volta terminata non è stata più replicata. Così come anche l’altro numero di telefono indicato, il cellulare 334-1051030, non è più attivo dal 2011 ed era legato a un’analoga iniziativa: si chiamava “Operazione Io l’ho Visto” . 

Ma cosa dobbiamo fare quando si vede o incontra un cane abbandonato? Bisogna segnalare la presenza del cane vagante al Servizio veterinario pubblico del canile comunale sanitario competente per la zona in cui lo si è avvistato oppure chiamare la Polizia Locale o, eventualmente, al numero di emergenza 112. Sono obbligati ad intervenire e se non lo fanno o si rifiutano, ricordate loro che sono passibili di denuncia penale. 

Se invece nel caso in cui assistiate ad un abbandono filmate la scena prendendo la targa del veicolo da cui è stato abbandonato il loro ex-amico a quattro zampe e chiamate immediatamente le forze dell’ordine. Abbandonare un animale è un reato. Se poi volete fare ancora di meglio in attesa degli agenti accorreranno sul luogo per verificare la situazione e mettere in sicurezza gli animali, state con loro, parlategli, dategli da bere.

Francesca Pierantozzi per “il Messaggero” il 23 luglio 2022.

Simpatici roditori o volgari pantegane? La polemica divide i parigini. Una cosa è certa, sono tanti, tantissimi: con 1,75 esemplari per abitante, Parigi è ormai la ville lumière dei topi e si è issata nella top ten delle metropoli più infestate al mondo. 

Il triste censimento è stato reso noto ieri, dopo una polemica estiva scatenata da una consigliera comunale del partito animalista, Douchka Markovic, che all'ultima seduta del Consiglio ha preso la parola per difendere la popolazione (sempre più numerosa) dei roditori della capitale: «non chiamiamoli topi, ma surmulotti» ha chiosato la consigliera, invitando gli astanti a prendere in considerazione la loro attività come «ausiliari nel trattamento dei rifiuti».

LE POLEMICHE

 La cosa ha scatenato, oltre che la solita ironia social, anche i commenti non proprio ironici né divertiti di molti abitanti della capitale. Il vice-sindaco Emmanuel Grégoire è stato addirittura costretto a precisare che le dichiarazioni della consigliera animalista «sono l'espressione di idee sue e non rappresentano in nessuno modo il municipio di Parigi». 

Dopo giorni di battibecchi, a scendere in campo è stata anche l'Accademia nazionale di medicina, che ha emesso un comunicato per ricordare a tutti, in particolare a chi fosse tentato di vedere nei roditori che scorrazzano per le vie della città dei simpatici animaletti, tutti i rischi che possono comportare per la salute dei concittadini umani.

«Davanti all'ingenuità di queste dichiarazioni, che possono magari indurre in errore, è importante ricordare che i ratti rappresentano una minaccia per la salute umana, a causa delle numerose zoonosi trasmissibili via i loro exoparassiti, gli escrementi, i morsi o i graffi». È stata la stessa prestigiosa Istituzione a ricordare che Parigi, con Marsiglia, è ormai tra le città più infestate al mondo e che, se il tifo non costituisce più un pericolo, «la leptospirosi è una malattia che si può contrarre a contatto con gli escrementi di topo e che dei morsi possono avere anche effetti letali».  

«È incredibile che si possano dire simili banalità - ha dichiarato Jeanne Brugère, docente alla prestigiosa scuola di veterinaria di Maison Alfort trovo scandaloso che una consigliera comunale possa considerare questi animali come pari all'uomo e che non lanci piuttosto appelli alla derattizzazione». 

AL CONTRATTACCO 

La questione è diventata una tale priorità cittadina che nel 17esimo arrondissement, uno dei più eleganti (e più popolati di topi) di Parigi sono sorte, con la benedizione della Prefettura, delle brigate di cittadini volontari, in missione per liberare parchi e giardini dai roditori. Armati di sacchi di ghiaccio secco e rete metalliche, le pattuglie anti-topo (che vedono lottare fianco a fianco imprenditori, impiegati e liberi professionisti) entrano in azione soprattutto il fine settimana, e in particolare nei giardini con giochi per bambini o vicini alle scuole. 

Le operazioni sono ormai particolarmente mirate anche grazie alle segnalazioni che arrivano sul sito voluto dal sindaco di circoscrizione, signaleunrat.paris (ovvero: segnalauntopo) e che consentono di localizzare e colpire le più grosse colonie di roditori. «È un lavoro che dovrebbe fare il Comune ha detto il sindaco del 17esimo arrondissement Geoffroy Boulard ma almeno i risultati ci sono: grazie alle attività dei volontari, le segnalazioni di roditori sono diminuite del 74 per cento».

Da blitzquotidiano.it il 23 luglio 2022.

Costa Volpino, urta un nido di vespe e viene punto dallo sciame: morto 53enne

Le prime notizie sul 53enne morto a Costa Volpino dopo essere stato punto da uno sciame di vespe. 

Urta un nido di vespe, viene punto centinaia di volte e muore. Così è morto un 53enne di Bergamo. Tutto è avvenuto lunedì nella frazione di Ceratello di Costa Volpino. Una vicenda che però non è del tutto chiara. Ma andiamo con ordine. 

Cosa sappiamo

Il 53enne era andato a trovare un amico e poi, raccontano le cronache locali, si è allontanato in stato confusionale. 

Lungo la strada, una vecchia mulattiera, l’uomo ha anche perso del sangue. Forse si è ferito durante il tragitto. Nel mentre l’uomo ha urtato il nido di vespe. Dopo l’urto le urla e l’attacco delle vespe. Malgrado l’arrivo dei soccorsi purtroppo per l’uomo non c’è stato nulla da fare. 

Resta ancora da capire al meglio la dinamica di quanto avvenuto.

Dagonews il 22 luglio 2022.

Un uomo ha miracolosamente schivato la morte dopo essere stato assalito e incornato da un toro durante un festival annuale sulla Costa Blanca, in Spagna. 

È successo giovedì pomeriggio durante l'evento conosciuto come “Bous a la Mar” (ovvero “Tori in mare“) che si ripete come tradizione ogni luglio nella località di Moraira, vicino a Benidorm. 

Qui un'arena temporanea viene allestita vicino alla banchina del porto turistico e i tori si scatenano con i “festaioli” che scherniscono gli animali e si tuffano in acqua o si arrampicano sulle piattaforme per evitare di essere caricati e incornati.

Le riprese video mostrano come l'uomo a torso nudo sia stato calpestato e colpito per quasi trenta secondi dall'animale scatenato, le cui corna gli hanno sfiorato la testa e lo stomaco di pochi centimetri. 

Nelle immagini si vedono altri “festaioli” che saltano intorno al toro, le braccia nel tentativo di attirare l'attenzione dell'animale e persuaderlo ad allontanarsi dalla preda, ma senza alcun risultato. L'uomo alla fine è riuscito a liberarsi, è corso via e si è tuffato in mare per sfuggire a quella che sembrava essere una morte quasi certa. 

Media locali hanno fatto sapere che l'uomo è stato successivamente portato in ospedale, dove è stato medicato per  una ferita all'inguine, oltre ad altri tagli e contusioni minori, ma nulla di più. 

Mercoledì è emerso che, nell'arco di appena 24 ore, tre persone erano morte incornate durante corse dei tori nella zona di Valencia. 

DAGONEWS il 4 dicembre 2022.

Un bambino di un anno è stato mangiato vivo da un coccodrillo mentre stava navigando su un fiume in Malesia insieme al papà.  

Il piccolo è stato afferrato dalla canoa mentre i due stavano pescando al largo della costa di Lahad Datu, nel Sabah, giovedì mattina. Il padre, in preda al panico, ha cercato di respingere la bestia, che però lo ha facilmente sopraffatto. 

L'uomo, con un grosso taglio sulla testa, si è messo in salvo nuotando verso la riva da dove ha visto l'orrenda scena del coccodrillo che sbranava il figlio. 

Gli abitanti del villaggio hanno salvato il padre 40enne, ma il coccodrillo aveva già trascinato il figlio via il figlio. 

Poco dopo l'animale è riemerso dall'acqua con il corpo mutilato del piccolo tra le fauci. 

La Royal Malaysian Police e la polizia marittima si sono unite ai vigili del fuoco locali nella ricerca del corpo del ragazzo. 

I funzionari hanno anche avvertito gli abitanti dei villaggi che vivono lungo il tratto del fiume di rimanere fuori dall'acqua a causa della minaccia di un nuovo attacco. 

Da leggo.it il 22 luglio 2022.  

Un incontro ravvicinato con un coccodrillo nelle campagne tra Francavilla Fontana e Villa Castelli, in provincia di Brindisi. Sembra impossibile ma è successo oggi a un cittadino del posto che ha scattato la foto del rettile prima di darsela a gambe.

Il testimone

«Questa mattina - racconta l'uomo - ero in giro tra le campagne sulla via di Villa Castelli quando ho sentito un rumore tipo fruscio, mi sono girato e ho visto il rettile. Non sembrava pericoloso ma comunque era molto grande». L'uomo ha fatto la foto e si è allontanato ma dopo il giallo della pantera che ha tenuto banco per molti mesi, ora il mistero riguarda il coccodrillo spuntato nella macchia mediterranea, tra ulivi e ortaggi.

Il mistero

Quel che è certo è che dopo cinghiali, lupi, delfini, foche monache e capodogli, ma anche gli orsi polari nello zoo di Fasano, nel Salento è possibile incontrare proprio di tutto.

 Il rettile e la paura. E' accaduto questa mattina tra Francavilla e Villa Castelli. Un coccodrillo nelle campagne di Francavilla Fontana, un contadino lo fotografa e fugge. La Redazione de La Voce di Manduria il 22 luglio 2022.

Paura nelel campagne di Francavilla Fontana per l'avvistamento di un coccodrillo.  È accaduto in mattinata nelle campagne tra Francavilla Fontana e Villa Castelli. la brutta esperienza è accaduta a un cittadino del posto che nonostante la paura ha avuto la freddezza di scattare una foto del rettile prima di darsela a gambe. 

«Questa mattina - racconta l'uomo al Quotidiano di Puglia - ero in giro tra le campagne sulla via di Villa Castelli quando ho sentito un rumore tipo fruscio, mi sono girato e ho visto il rettile. Non sembrava pericoloso ma comunque era molto grande». L'uomo ha fatto la foto e si è allontanato ma dopo il giallo della pantera che ha tenuto banco per molti mesi, ora il mistero riguarda il coccodrillo spuntato nella macchia mediterranea, tra ulivi e ortaggi. 

Quel che è certo è che dopo cinghiali, lupi, delfini, foche monache e capodogli, ma anche gli orsi polari nello zoo di Fasano, nel Salento è possibile incontrare proprio di tutto.

Animali «da circo»? Cinquanta Paesi dicono basta e ora arriva anche l’Italia. Paola D’Amico su Il Corriere della Sera il 18 Luglio 2022. 

Sono 2000 gli animali ancora usati nei circhi in Italia. Camera e Senato (per la seconda volta in 4 anni) hanno votato la legge delega che impegna il ministro della Cultura a portare in Consiglio dei Ministri la legge che vieta l’uso di animali negli spettacoli circensi. 

Cinquanta Paesi nel mondo, 23 dei quali negli Stati membri, hanno già introdotto il divieto totale o parziale di detenere gli animali (tutti, esotici in primis) negli spettacoli circensi. Ultimissimo in ordine di tempo la Francia. E ora anche l’Italia è davvero a un passo dal restituire una dignità e una vita degna di essere vissuta ai quasi duemila animali ancora utilizzati come attrazione nei circhi. Sono davvero tanti – tigri, leoni, coccodrilli, serpenti, scimmie, rapaci e così via - perché nel nostro Paese questa è una tradizione profondamente radicata. Ma anche la cultura animalista ha ormai delle solide radici. La storia dell’animalismo è entrata in una fase matura, non è più questione di pochi attivisti e il Parlamento pare averlo ben compreso. È infatti dei giorni scorsi la notizia che anche la Camera, dopo il Senato, ha approvato la legge delega che dà tempo 9 mesi al ministro della Cultura per scrivere una legge attuativa sul tema.

La buona notizia però è che il ministro Franceschini non deve partire da zero ma può limitarsi a tirare fuori da un cassetto un testo già pronto. Sì, perché il passo storico in avanti, quello che cioè per la prima volta recepiva il sentire popolare dopo 40 anni di lotta, petizioni (e anche azioni legali) da parte delle associazioni animaliste, era già stato fatto pochi mesi prima che cadesse il governo Conte. Plaude Gianluca Felicetti, presidente della Lav, perché, sottolinea, «questa è anche una grande occasione culturale verso l’affermazione del circo come spettacolo artistico e davvero umano. Ci aspettiamo che il ministro al più presto porti in consiglio la legge attuativa». Aggiunge Ermanno Giudici, già presidente Enpa Milano: «Sarebbe bello poter vedere anche in Italia una replica della storia del più famoso circo americano Ringling Bros, Barnum & Bailey, che dopo aver chiuso grazie alle pressioni delle organizzazioni protezionistiche americane, ha deciso di operare un nuovo rilancio, riaprendo con uno spettacolo tutto nuovo ma senza la presenza di animali. Il circo, ripulito dalla sofferenza animale, tornerebbe a essere una nuova magia de tempi moderni. Come hanno capito anche i canadesi del Cirque du Soleil, che ovunque vada registra sempre il tutto esaurito». E per chi fosse duro d’orecchi, è giusto ricordare che anche il Codice penale si è già allineato al sentire popolare. Tant’è che dal 2004 in poi con la Riforma ha reso molto più efficaci le sanzioni contro il maltrattamento e gli animalisti hanno avuto meno ostacoli nel fare denunce e ottenere sequestri, sottraendo gli animali dei circhi da una vita grama e innaturale cui erano costretti.

Ministero della Salute: arriva l’anagrafe nazionale per cani e gatti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Luglio 2022.  

"L'anagrafe nazionale sta per partire e permetterà di mettere ordine e superare i limiti di anagrafi regionali che non dialogano fra di loro, impedendo la possibilità di un rapido ritrovamento di animale o proprietario fuori dai confini regionali"

“Dopo 30 anni abbiamo finalmente un’anagrafe nazionale degli animali di affezione, in particolare cani ma anche gatti, in cui convoglieranno tutte le informazioni delle banche dati regionali». Inoltre «il recepimento del regolamento europeo permetterà la tracciabilità di animali e strutture“. A fare il punto Ugo Santucci, direttore della Direzione generale della sanità animale del Ministero della Salute, durante la conferenza stampa per la presentazione della campagna “L’abbandono è un incubo. Oltre che un reato”, lanciata dalla Federazione Nazionale Ordine Veterinari Italiani (Fnovi). Con queste novità “stiamo scrivendo una nuova pagina per gli animali da compagnia” ha aggiunto Santucci. 

“L’anagrafe nazionale sta per partire e permetterà di mettere ordine e superare i limiti di anagrafi regionali che non dialogano fra di loro, impedendo la possibilità di un rapido ritrovamento di animale o proprietario fuori dai confini regionali” ha precisato il direttore della Direzione generale della sanità animale del Ministero della Salute . Inoltre, è stato recepito il regolamento europeo 429 del 2016 e il Parlamento sta approvando i decreti attuativi. “Grazie al microchip obbligatorio per cani e, d’ora in poi anche per gatti, – ha aggiunto Santucci – si riuscirà a tracciare, non solo la loro storia, ma anche chi se ne è preso cura. Perché dove c’è un animale deve esserci un veterinario. Stiamo pensando a campagne per sensibilizzare bambini e ragazzi, che spesso sono il motore attraverso il quale un animale entra in famiglia“. 

Il regolamento europeo, ha spiegato Carla Bernasconi, consigliere Fnovi, “prevede anche la tracciabilità di tutte le strutture che ospitano animali, come pensioni, associazioni, canili e gattili, per poter mettere ordine in un mondo in cui ordine non c’è e capire dove finiscono animali spostati da una regione all’altra: è una svolta epocale“. Il 2022 è stato però un anno importante anche per un altro motivo. “Pochi mesi fa con la modifica dell’art. 9 della Costituzione, il benessere animale è entrato tra i principi costituzionali dello Stato, un passo importante per la tutela della loro salute ma anche della salute pubblica ” ha concluso la Bernasconi.

Chiara Viglietti per “la Stampa” il 15 luglio 2022.

È stata una roulette russa. Poteva toccare a lui, Daniele Robaldo. Ma un'auto lo ha superato: quando un battito d'ali decide del tuo destino. A bordo una famiglia. Un attimo dopo lo schianto. «Ho visto l'auto volare, lei sbalzata fuori». Lei è una madre, Marisa Verdirose, 55 anni. Fa la commessa in un supermercato vicino. Tutta la sua vita è lì, in quel perimetro: anche casa, a un minuto dalla morte. La sua famiglia è su quell'auto: guida il marito, Davide Pipi, dietro ci sono due dei suoi tre figli, Simone e Daniel. Vedranno la madre morire.

La loro auto, una Citroen, si trova nel momento sbagliato di fronte ad un animale che lì non doveva stare: un cinghiale in mezzo a una strada. Non in un bosco: ma nell'area industriale di un paese, Villanova Mondovì. Di sera. Così si muore: per assurdo, per azzardo. Sulla strada verso casa, dopo una cena con amici. 

«L'ho vista, Marisa, mentre l'urto la sbalzava fuori. Mi sono fermato: era una scena irreale», racconta l'uomo scampato alla morte, Daniele Robaldo, commercialista. È solo davanti a quella famiglia disfatta: Marisa è a terra, sta morendo. Dei ragazzi ricorda dettagli, non nomi: «Un figlio era vestito di bianco, non era ferito, ma non parlava. L'altro, con un abito blu, era messo peggio. Le diceva: mamma, ti prego, non morire». 

Dentro, tra le lamiere, c'è ancora qualcuno: il padre, alla guida, l'uomo che si è trovato di fronte il cinghiale e ha avuto la reazione d'istinto, schivare, per finire in una cunetta che ha fatto da rimbalzo. Mortale. «Voleva scendere dall'auto, si dimenava, ma il volante gli aveva schiacciato lo sterno, rantolava. Io gli tenevo la testa e gli dicevo di resistere. Poi sono arrivati i soccorsi».

Il marito finisce a Cuneo: ha fratture multiple, è in terapia intensiva. I ragazzi vengono portati all'ospedale di Mondovì. «E non dimenticherò mai quella scena: loro che chiamavano la madre, uno l'ha presa tra le braccia, le parlava: non te ne andare. 

Nessuno però osava dirgli, in quei minuti interminabili, che lei non c'era già più. Poi sono arrivati i medici, i carabinieri: e non li ho più visti». Fanno parte di una comunità molto unita: sono testimoni di Geova. Alcuni di loro, subito dopo l'incidente, sono arrivati sul posto. «Ho cercato di portare conforto, di aiutarli - racconta Emanuele Bianchi- .

Ci vogliamo bene, non li lasceremo soli».

Ma intanto ieri il vuoto è stato riempito dalla politica che da anni si rimbalza il problema. Una Cassandra, si direbbe. Perché proprio al mattino, a Roma, era in programma una conferenza stampa, con il Piemonte in testa, per chiedere soluzioni drastiche a un tema ingessato al punto da suonare come un ritornello stanco: se non si interviene sugli animali selvatici prima o poi succederà il peggio. Ecco, è successo. 

Preceduto da altri incidenti: uno ogni 41 ore. E due volte su tre a causarlo sono cinghiali. Primi imputati tra gli animali selvatici che invadono le strade. Parola di Coldiretti, che ha sfogliato i dati dell'Osservatorio Asap: «In dieci anni il numero di incidenti gravi con morti e feriti causati da animali è praticamente raddoppiato: +81%. Nell'ultimo si contano 13 vittime e 261 feriti gravi».

Ma la situazione è ingovernabile anche fuori dalle strade. Pure in spiaggia, tre giorni fa, una donna è stata aggredita da un cinghiale alla Sturla, a Genova. Prima per un branco dietro il Vaticano è dovuta intervenire la polizia. E a Firenze un animale è stato visto girare indisturbato in viale Europa, una delle grandi arterie di traffico. A Palermo hanno ripreso un branco mentre rovistava tra la spazzatura alla periferia Sud: il caso è finito pure tra i banchi del consiglio comunale. 

Da blitzquotidiano.it il 12 luglio 2022.

A Castel Volturno, in provincia di Caserta, si è verificato l’ennesimo caso di un cane abbandonato. Un pastore tedesco che viene lasciato in un campo, con l’automobile che poi va via, lasciandolo al suo destino. Il povero cane, nonostante il forte caldo, ha provato anche a correre dietro l’automobile, per raggiungerla. 

Il tutto è stato ripreso da un passante, che poi ha inviato il video a Francesco Emilio Borrelli, che lo ha diffuso sui social. “Questa gente non merita né rispetto né giustificazioni”, ha commentato Francesco Emilio Borrelli, spiegando di aver segnalato il video alle forze dell’ordine. 

Cani abbandonati, nei giorni scorsi casi simili a Casoria e a Napoli

Nei giorni scorsi erano stati diversi i casi simili: dal cane abbandonato nel quartiere napoletano di Chiaia da due giovani, a quello abbandonato da una donna che lo aveva legato ad un palo in piena notte a Cercola.

Tutti episodi che erano stati tuttavia immortalati dalle telecamere di videosorveglianza presenti in zona, che hanno fatto scattare le identificazioni dei responsabili che dovranno rispondere di maltrattamento ed abbandono di animali. 

Caserta, abbandona il cane sotto al sole rovente e si allontana: la scena è straziante. La Repubblica il 12 Luglio 2022.

Sono un pugno al cuore le immagini condivise da Francesco Emilio Borrelli, consigliere regionale della Campania di Europa Verde. Un cane viene abbandonato a bordo strada dai suoi padroni a Castel Volturno, in provincia di Caserta. La macchina, una station wagon di colore grigio, si allontana lasciandosi alle spalle l'animale, nonostante la persona che sta filmando la scena provi a richiamare l'attenzione del padrone con un fischio. Il cane, dopo aver tentato di inseguire per qualche metro l'automobile, si arrende tristemente rimanendo solo. Il consigliere su Facebook ha fatto sapere che ha segnalato il caso commentando: "Questa gente non merita né rispetto né giustificazioni".

Una cagnolina meticcia è stata legata a un palo della luce dalla sua mamma umana e lasciata sul ciglio di una strada a Foggia. Graziana Capurso su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Luglio 2022.

Sembra quasi di sentirlo ancora il guaito strozzato della piccola Kira, una cagnolina meticcia, legata a un palo della luce dalla sua mamma umana e abbandonata sul ciglio di una strada a Foggia, davanti gli occhi disperati del suo fratellino, un bimbo che nella sua totale innocenza, non si è reso conto di ciò che stava per accadere.

Mentre osservava la madre attorcigliare attorno al palo, con una freddezza chirurgica, il guinzaglio della sua cagnolina, qualcosa però è scattato.

Il bambino ha iniziato a fare domande, ma una volta capito il gesto, semplicemente ha cominciato a piangere e ad implorare tra le lacrime la mamma di non farlo. Di non lasciare lì la sua amica a quattro zampe, la sua compagna di giochi e di risate. Niente, non sono valse a nulla le urla del piccolo, la donna, ha accarezzato un’ultima volta la cucciola, ha preso la mano del figlio e si è allontanata impunita, nel silenzio della notte.

Il video, pubblicato sulla pagina dell’associazione Guerrieri con la coda e poi diffuso dall’Enpa ha fatto il giro dei social grazie anche alla giornalista Selvaggia Lucarelli, che ha ripostato la clip sul suo profilo Instagram. Per fortuna questa è una storia a lieto fine: la donna è stata identificata e denunciata dalla presidente dell’associazione foggiana, Anna Rita Melfitani, e la piccola Kira è stata portata in salvo, in attesa di ritrovare delle braccia umane degne di accoglierla di nuovo.

La vicenda però, non può non accendere i riflettori su una delle piaghe dell’estate: l’abbandono degli amici a 4 zampe.

Sono sempre troppi i casi segnalati lungo tutto lo Stivale.

Gli animali sono esseri senzienti e quando li accogliamo nelle nostre famiglie, dobbiamo farlo con amore, ma soprattutto con consapevolezza. Cosa che non sempre accade. Con l’arrivo della pandemia, ci sarebbe stato un boom di adozioni di cani, ma finita l’emergenza ben 117mila (secondo alcune stime) sarebbero stati rispediti al mittente, restituiti al canile o affidati ad altre famiglie. E con l’arrivo della bella stagione, purtroppo, il copione si ripete.

Da Nord a Sud la parola vacanze, fa irrimediabilmente rima con libertà. Libertà anche dagli obblighi nei confronti di chi non ci chiede altro che una carezza in cambio di tutto il loro affetto.

Tradire la fiducia di un’anima indifesa come quella di un animale, è un atto indegno, oltre che un reato perseguibile con l’arresto.

È estate e sappiamo bene quante persone, non sapendo dove sistemarli, si sbarazzeranno dei loro amici pelosi, abbandonandoli come fossero spazzatura.

Forse oltre alle sacrosante campagne contro l’abbandono bisognerebbe puntare di più sulla prevenzione all’abbandono. Bisognerebbe far comprendere sempre più che l’arrivo di un animale in famiglia non comporta gioie senza responsabilità. Avere un cane non è un gioco, non è un capriccio, non è una moda.

Gli animali, cani, gatti, conigli, serpenti o pappagalli che siano, sono impegnativi come gli adolescenti, bisognosi di noi, come un neonato. Si adotta prima ancora che con gli occhi o con il cuore, soprattutto con la testa. Se non riusciamo a capire questo piccolo passaggio, mi e vi domando, chi tra noi e loro è la vera bestia?

Da repubblica.it il 13 giugno 2022.

Un filmato raro, ripreso da due escursionisti sulle montagne dette Colinas del Campo de Martín Moro Toledano, nella provincia di León, ha colto il drammatico momento del combattimento tra due esemplari adulti di orso, un maschio che ha aggredito una femmina alle prese con il primo svezzamento del cucciolo che era con lei.

La femmina come si vede dalle immagini ha lottato strenuamente nel tentativo di respingere l'assalto, in un corpo a corpo sull'orlo di uno strapiombo, mentre il cucciolo si allontanava poco più in là. Sfortunatamente i due esemplari sono caduti dall'alto delle rocce, precipitando per diversi metri, con il maschio che è rotolato lungo la scarpata. Tutti e due gli orsi, dal filmato sono evidentemente feriti, si muovono a fatica, la femmina dopo un po' si allontana, mentre il maschio - racconteranno poi le autorità forestali di Castila y Leon - è morto a causa delle ferite.

Madre e figlio sono stati divisi, dall'attacco, il piccolo si è allontanato ancora, la madre non è stata in grado di riunirsi a lui, ma per fortuna il cucciolo è stato ritrovato pochi giorni fa ed ora è in cura nel Centro di recupero di animali silvestri di Valladolid. Della madre per ora non si hanno tracce.

Remo Sabatini per ilmessaggero.it il 13 giugno 2022.  

Di tutta questa incredibile, drammatica vicenda, quello che probabilmente ha lasciato l'amaro in bocca, sono le parole. Sì, le parole pronunciate da quei minatori che si sono divertiti a far esplodere un povero animale riducendolo in mille pezzi come nulla fosse. Ma cominciamo dall'inizio.

Siamo in una remota regione della Siberia. Probabilmente, la località non è ancora stata resa nota, in una qualche sperduta miniera della Yacuzia. È un giorno come un altro e un gruppo di minatori, evidentemente annoiati dalla solita neve, decide di ravvivare la giornata. Così, stando a quanto documentato dalle immagini riprese da uno del gruppo, a qualcuno viene in mente di attirare un orso. 

Preparata l'esca con un pochino di cibo, non rimane che aspettare. I minatori hanno fortuna perché dopo un poco, ecco arrivare un animale. È un orso bruno che, fiutata l'esca, guardingo si avvicina. "Ecco, si avvicina". State pronti". Sta annusando". E poi, ancora, "È vicino". Questi gli strani commenti di alcuni dei minatori che stanno osservando e riprendendo l'orso. Sì perché l'esca preparata, è speciale.

Oltre al cibo, infatti, c'è dell'esplosivo. E tanto. Il resto è tutto nelle tremende immagini diffuse, tra gli altri, da 6IX World News. Con il povero orso che, alla fine, cede alla fame e si fa sotto saltando letteralmente in aria. Ridotto in mille pezzi, deve essere stato uno spettacolo. Sull'episodio che ha suscitato clamore in tutto il mondo, è intervenuto Vladimir Burmatov. Membro della Duma di Stato della Russia dal 2016, ha chiesto giustizia. 

La crudele uccisione dell'orso bruno in Siberia, fa tornare alla mente un altro terribile episodio che aveva significato la morte di una elefantessa incinta in India qualche tempo fa. Anche lei era stata infatti attirata dal cibo: in quel caso, l'esca era stata un'ananas infarcita di esplosivo che l'aveva ferita a morte uccidendo anche il piccolo ancora nel grembo.

La storia del cucciolo Calippo e della coppia condannata per averlo abbandonato. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 7 Giugno 2022. 

Il piccolo Calippo oggi vive insieme alla famiglia che lo ha adottato al termine del percorso di riabilitazione al Rifugio Enpa di Faenza.

Lo avevano abbandonato a lato di una strada, la mattina del 18 dicembre 2017 in pieno inverno con temperature gelide, gettandolo in un fosso nella periferia di Faenza accanto a lui il fratellino morto assiderato. A salvarlo ci hanno pensato i volontari Enpa della Sezione di Faenza che hanno chiamato il cagnolino Calippo che lo hanno immediatamente portato da un veterinario perché le sue condizioni erano veramente gravi. E lo hanno accudito fino alla sua totale ripresa.

Calippo

L’Ente Nazionale Protezione Animali ha quindi presentato denuncia e grazie alle indagini dei Carabinieri e alle dichiarazioni di diversi testimoni, tra cui quella di una vicina di casa che, vedendo la foto di Calippo sul profilo Facebook di Enpa Faenza, aveva riconosciuto in lui il cucciolo già notato insieme al fratellino nel cortile della casa adiacente, è stato possibile individuare la coppia.

Enpa si è quindi costituita parte civile attraverso l’avvocato Enpa Claudia Ricci e l’avvocato Barbara Liverani di Rete Legale Enpa a Ravenna. Ieri il Tribunale penale di Ravenna ha condannato gli imputati alla pena di cinque mesi e 15 giorni di reclusione, oltre € 2.500,00 come risarcimento del danno, di cui 1.000 euro come provvisionale. La motivazione si avrà tra 90 giorni.

Calippo

“E’ una sentenza importantissima – ha affermato Carla Rocchi, Presidente nazionale dell’ Enpa – perché grazie alle indagini dei Carabinieri e alla collaborazione dei cittadini sono stati individuati i responsabili, cosa che purtroppo non avviene facilmente nei casi di abbandono. Questa condanna per maltrattamento, purtroppo non vi è stata prova provata del reato di uccisione di animali per il fratellino morto, è molto importante perché ricorda ancora una volta che abbandonare gli animali è un reato e chi compie gesti orribili come questo deve rispondere anche di fronte alla legge e prendersi le conseguenze penali. Un monito per tutti in vista dell’estate, periodo che purtroppo continua a essere il più gettonato per gli abbandoni degli animali, non solo cani ma anche tanti gatti e conigli”.

Il piccolo Calippo oggi vive insieme alla famiglia che lo ha adottato al termine del percorso di riabilitazione al Rifugio Enpa di Faenza.

Lucky, il cane fortunato che non sarà macellato a Yulin. Gli attivisti: «Stop al festival crudele».  Alessandro Sala su Il Corriere della Sera ilo 31 maggio 2022.

A metà giugno si svolgerà la tradizionale kermesse dedicata alla carne di cane, ancora oggi consumata in alcune zone della Cina e dell’Estremo Oriente. Da una quota minoritaria della popolazione, ma in grado di muovere un grande mercato. 

Lo hanno ribattezzato Lucky, che in inglese significa fortunato. Perché tale lo è stato veramente. Non si sa come si chiamasse prima e neppure quale fosse la sua vita. Di certo la sua esistenza sarebbe finita presto e nel peggiore dei modi: macellato e sezionato per essere venduto a pezzi in un negozio specializzato in carne di cane a Yulin, cittadina della provincia di Guangxi nota per l’omonimo festival che si svolge ogni anno in occasione del solstizio d’estate. La storia di questo esemplare di Akita Inu è però cambiata dopo essersi incrociata con quella di alcuni attivisti cinesi, che lo hanno visto incatenato all’esterno della bottega con un cartello accanto che spiegava chiaramente che la sua carne era in vendita. E che lo hanno acquistato prima che il suo destino potesse compiersi.

«Dai suoi comportamenti socievoli e dall’abitudine a stare al guinzaglio è evidente che un tempo sia stato un cane da compagnia — spiegano dalla Humane Society International, che ha rilanciato la sua storia e che da tempo è impegnata nelle campagne contro questa cruenta abitudine — . Con tutta probabilità era stato rubato». Una sorte che tocca a molti cani in questa parte della Cina, che nel resto del mondo ha conquistato notorietà proprio grazie al «Festival del litchi e della carne di cane», che celebra una tradizione che anche in Estremo Oriente sta ormai scomparendo ma che è ancora viva in alcune aree rurali. Il festival in realtà non è poi così tradizionale: è stato lanciato nel 2010 per questioni potremmo dire di marketing, proprio per rilanciare un’abitudine alimentare sempre più in disuso.

«La maggior parte delle persone in Cina non mangia i cani — sottolinea una nota della Hsi — e anche a Yulin i sondaggi dimostrano che il 72% degli abitanti non se ne nutra regolarmente, malgrado gli sforzi dei commercianti di promuoverla. In tutta la nazione si registra una significativa opposizione al commercio di carne di cane e cresce la sensibilità per il benessere degli animali, quelli da compagnia in particolare». Era stato proprio il governo di Pechino, tramite il ministero dell’Agricoltura, a diramare una dichiarazione ufficiale, nel 2020, per sottolineare che cani e gatti non vanno considerati bestiame per il consumo umano. In due grandi città della Cina continentale, Shenzhen e Zhuhai, il consumo di carne di questi animali è stato del tutto vietato, con il consenso del 75% della popolazione.

Insomma, una tradizione che ormai non è più sentita dalla stragrande maggioranza dei cinesi. Tuttavia per i grandi numeri del Paese, anche una percentuale piccola della popolazione finisce con il rappresentare un grosso mercato. Non è un caso che il festival di Yulin riscuota comunque un discreto successo, con appassionati che ogni anno arrivano da tutta la provincia meridionale, attratti dalla prospettiva di assaporare stufato di cane o bocconcini di carne croccante venduti nei ristoranti o nelle bancarelle in stile street food che durante quei giorni riempiono la città.

«Lucky si è salvato per un pelo perché nel negozio era rimasta in vendita solo una carcassa, facendo di lui il prossimo — spiega Peter Li, specialista di politica cinese di Hsi —. Ma si tratta solo di uno tra milioni di cani che soffrono per mano dei commercianti in tutta la Cina e uno dei migliaia che finiscono a Youlin per l’evento del solstizio d’estate. Molti di questi sono rapiti dai cortili delle abitazioni o addirittura dagli abitacoli delle vetture parcheggiate».

I gruppi animalisti cinesi stanno sollecitando le autorità provinciali a vietare il raduno di quest’anno, considerando che la Cina è in piena emergenza Covid. Ma al momento non risultano interventi in questo senso. «Mentre altrove nel Paese le città sono in isolamento a causa della pandemia — fa notare Liang Jia, attivista del Guangxi — non ha alcun senso incoraggiare le persone, come fanno i commercianti di carne di Yulin, a viaggiare attraevrso la Provincia per partecipare al festival. Oltre alla spaventosa crudeltà che verrà inflitta a migliaia di cani e gatti che saranno uccisi a bastonate, si tratta di un evidente rischio per la salute pubblica. Sarebbe estremamente imbarazzante per le autorità se il festival fosse responsabile di un contagio di massa».

L’amore e il rispetto per i nostri pelosetti. Mi pare che rendere pubblici all’intero mondo scatti e ritratti degli animali domestici violi la loro privatezza: che è sacra. Lisa Ginzburg su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Maggio 2022.

Mi conto tra le persone che non smettono di sorprendersi per la quantità di scatti fotografici di animali che vengono quotidianamente postati sui social. Gatti, cani – cani grandi e cagnolini; quando possibile, cavalli, uccelli. Criceti e conigli.

Che cosa diciamo quando raccontiamo dei nostri adorati animali domestici? Quali sentimenti stanno appostati dietro le loro immagini, così private nel raccontare amore e tenerezza, ma tanto poco private nel momento in cui vengono rese pubbliche? Cosa davvero esprimono, queste fotografie che poco trasmettono di noi, di noi esseri umani catapultati sull’amore per i non umani?

Sarà certamente una mia idiosincrasia personale, ma delle immagini di animali domestici nulla capisco: né di loro, né di chi le condivide. Provo piuttosto una forte sensazione di straniamento, sbalzata come mi sento in una dimensione che sento opaca, non trovandosi né dal lato umano né da quello animale.

Non che il mio istintivo rigetto per questo genere di «bestiario» elida il rispetto profondo che nutro nei confronti degli animali. Al contrario: piuttosto, come anche nel caso dei bambini sia piccoli che più grandicelli, mi pare che renderne pubblici all’intero mondo scatti e ritratti violi la loro privatezza (privacy): che è sacra, e sacra dovrebb’essere tenuta in considerazione. Non possiamo consultarci con animali domestici e bambini sul piacere che provano o non provano a trovarsi messi «in vetrina», visibili a chiunque. E «postandoli», sono convinta si faccia loro un torto – sarò all’antica a ritenere così, ma nessuno mi convincerà del contrario.

Riguardo agli animali, non che non li ami, anzi li adoro, e spessissimo mi ritrovo a constatare l’intensità del loro stare al mondo, la loro maniera di viverlo e di abitarlo. È di mattina presto un gabbiano dall’occhio rotondissimo e lo sguardo truce; è un piccione che come fosse cieco, ciecamente si avventa su briciole di pane; è un cucciolo di pastore maremmano di incantevole bellezza; sono gatti accoccolati in un anfratto di vicolo, o che selvaggi si azzuffano. Tutto degli animali è lì a dirci la vita, la complessità delle relazioni, la guerra e la pace: combattimenti spietati, improvvise possibili svolte di tenera fraternità. Con presaga e poetica visione, la scrittrice Anna Maria Ortese parlò nel corso di pagine bellissime del sacro rispetto che dobbiamo agli animali. Quegli animali che lei con geniale estro definiva «le piccole persone». Ecco, a nessuna persona, per piccola che sia, andrebbe fatto torto, nessun genere di torto, compreso quello di violare la sua privatezza.

Ciò detto, quella su cui soprattutto mi interrogo è a ogni modo un’altra questione. Cosa realmente intende esprimere chi di continuo carpisce immagini di animali e poi le riproduce condividendole con il mondo intero? Amore e devozione nei loro confronti, certo; e tuttavia, non anche, implicitamente, un alto grado di difficoltà sul fronte dell’antropologia? La ritrosia a confrontarsi direttamente con i simili ? Un senso di fallimento e solitudine per una generale condizione di amarezza procurata dai rapporti con gli altri umani? Amare animali e animaletti, averne in casa, prendersi cura di loro, senza dubbio è qualcosa di nobile e bellissimo. Se diventa una fuga dall’umano, certo un po’ meno. E se l’amore per gli animali domestici si trasmuta in una forma di rifugio, in una dimensione che svolge funzione di conforto e ristoro dalla cattiva comunicazione (o totale non comunicazione) con gli altri nostri uguali, allora qualche dubbio è salutare e sacrosanto farselo venire.

L’amore non andrebbe traslato: quella pure è una forma di manipolazione. Proiettare sulle «piccole persone», gli animali domestici, le nostre frustrazioni, le nostre ferite d’amore, i nostri scompensi, di qualunque genere essi siano. Quello anche è mancanza di rispetto. Onoriamo i nostri animali lasciando loro la libertà di non assumere ruoli che non sono i loro. Proteggiamoli dalle nostre proiezioni, dalle nostre amarezze, dai nostri rimpianti, dalla nostra solitudine bisognosa di affetto. Oltre a non condividere di continuo scatti dei loro musetti di felini, canini, rapaci e roditori, lasciamoli liberi. Liberi dalle nostre forme di amore traslato (e perciò soffocante). Sarà un’alta forma di rispetto, e dunque di grande amore.

Cani, gatti e altri animali: per loro abbiamo speso 2.600 milioni di euro. I dati del rapporto Assalco Zoomark: il settore del pet care è in costante crescita. Solo per il cibo il fatturato è aumentato del 8,4%. Salgono anche giochi e prodotti per l’igiene. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.

Gli animali domestici sono sempre di più membri a tutti gli effetti delle nostre famiglie. Li riconosce come tali il 96% degli italiani, che in 9 casi su 10 affermano di nutrirli e curarli molto meglio rispetto al passato. Non solo: l’85% di chi condivide la propria esistenza con cani o gatti lo fa ad un livello ormai paritetico, consentendo loro di partecipare ad ogni aspetto della vita famigliare. Nel 77% dei casi gli animali domestici hanno libero accesso ad ogni ambiente e ad ogni angolo della casa. Sono alcuni dei numeri che emergono da un indagine condotta da Bva-Doxa in occasione del XV Rapporto Assalco-Zoomark, ovvero la fotografia del settore del pet care in Italia, su un campione rappresentativo della popolazione italiana.

Il sentiment degli italiani nei confronti degli animali domestici è ben noto e i numeri del mercato che ruota attorno all’accudimento degli animali di casa lo confermano. Nel corso del 2021 il solo comparto dell’alimentazione per cani e gatti ha generato, nei diversi canali di vendita, un valore di 2.533 milioni di euro, con un incremento complessivo del fatturato dell’8,4% e dei volumi del 5,9%. Si conferma dunque un trend di costante crescita che ha trovato conferma anche negli ultimi due anni caratterizzati dalla pandemia. Questi sono stati particolarmente favorevoli alle adozioni di nuovi amici di casa, con un incremento di circa il 9%, dovuto tra l’altro alla maggiore disponibilità di tempo garantita dallo smart working e la riscoperta della dimensione domestica e famigliare indotta da lockdown e zone rosse. Non solo: quasi la metà (48%) di coloro che ancora non hanno animali domestici sarebbe intenzionato ad averne in futuro, dopo avere affrontato i problemi di mancanza di spazi adeguati o di tempo libero che sono oggi ostacolo all’allargamento del branco famigliare. La scelta di rimandare l’ingresso di un animale denota forte consapevolezza sul ruolo che gli animali hanno oggi nella vita famigliare: non si prende un cane (o un gatto) per lasciarlo tutto il giorno solo in casa a fare la guardia, o semplicemente ad aspettare, ma lo accogliere per condividere un lungo pezzo di vita insieme.

Questa maggiore attenzione si traduce anche in scelte più mirate dal punto di vista della, con l’acquisto di cibo e di prodotti per l’igiene mirati e di qualità. Di qui il differenziale tra l’incremento in volumi e in valore: sempre più persone acquistano per i loro animali prodotti premium e superpremium. Il mercato offre oggi una ampia gamma di cibi e di accessori studiati per le diverse necessità dei pet che oltre a rispondere al meglio ai fabbisogni dietetici consentono anche un miglioramento delle condizioni di vita e di conseguenza della longevità. Il 73% delle persone interpellate nel sondaggio Doxa ha fatto sapere che nell’ultimo quindicennio è arrivata a smettere di dare a cani e gatti gli avanzi della tavola, pratica d’altri tempi oggi fortemente sconsigliata dagli stessi veterinari.

Il rapporto Assalco Zoomark viene pubblicato ormai da 15 anni. «In questo intervallo - commenta Gianmarco Ferrari, presidente di Assalco, l’associazione delle imprese italiane del pet care — è cambiato l rapporto con gli animali da compagnia. Gli italiani sono più consapevoli dei benefici della convivenza con i pet, sia nella dimensione famigliare sia in quella pubblica. La pandemia ha ulteriormente alimentato il processo che vedevamo in atto da tempo e oggi gli animali d’affezione sono a tutti gli effetti membri della società. È cresciuta di conseguenza la sensibilità delle istituzioni che si è tradotta ad esempio nell’inserimento della tutela degli animali tra i principi della Costituzione».

Gli animali domestici presenti nelle nostre case hanno raggiunto nel 2021 quota 64,7 milioni, di cui 30 milioni di pesci, 13 milioni di volatili, 10 milioni di gatti, 8,7 milioni di cani e poco più di 3 milioni tra piccoli mammiferi e rettili. Sono cani e gatti a raccogliere il grosso dei volumi di mercato, rispettivamente il 46,3% e il 53,7% del comparto cibo. In crescita sono anche i prodotti per l’igiene, i giochi e gli accessori che hanno fatto registrare un giro d’affari di oltre 77 milioni di euro con una crescita del 5,8% rispetto all’anno precedente. l’80% dei proprietari, del resto, a dichiarare di acquistare regolarmente questi prodotti mentre il 69% ammette di concedere saltuariamente dei regali ai propri amici in forma di snack, giochi o capi di abbigliamento.

Alessandro Sala per corriere.it il 17 maggio 2022.

Salute, sicurezza alimentare e benessere degli animali sono tra loro un unicum interconnesso; i cittadini europei sono favorevoli a prestare sempre più attenzione alle tematiche relative al mondo animale; e anche la politica si sta iniziando a muovere con numeri significativi. Per questo c’è grande ottimismo tra i promotori dell’iniziativa #EuforAnimals, progetto promosso dall’associazione ambientalista belga Gaia e sostenuto da una quarantina di associazioni per la protezione degli animali dell’intero continente.

Ieri al Parlamento Europeo a Bruxelles è stata presentata una specifica interrogazione orale da parte del deputato danese dei progressisti Niels Fuglusang. Ma la vera notizia è che al suo fianco, come co-firmatari, c’erano altri 126 europarlamentari di diverse nazioni e appartenente a diverse forze politiche.

Un consenso trasversale che lascia ora ben sperare. 127 parlamentari sono il 17% dell’intera assemblea. Si tratta ancora una minoranza relativa, ma decisamente non trascurabile. Oltretutto si tratta — fanno notare i sostenitori — dell’interrogazione orale tematica più supportata mai registrata nella storia di Bruxelles. Inoltre, le adesioni alla campagna, a prescindere dalle firme in calce all’interrogazione, hanno già superato quota 180. 

L’interrogazione chiede di introdurre la figura del commissario per il Benessere animale, come estensione delle funzioni già attribuite al responsabile della Salute e della sicurezza alimentare. Non si tratterebbe solo di una denominazione formale: il nuovo nome comporterebbe anche una riorganizzazione della struttura commissariale con la creazione di un direttorato ad hoc sugli animali.

Va da sé che questo si tradurrebbe in un rafforzamento dell’intera tematica animale in una maggiore attenzione agli argomenti correlati. Si attende ora una risposta da parte della Commissione guidata da Ursula Von Der Leyen, che non potrà non tenere conto anche del fatto che a sostegno dell’iniziativa c’è stata una pure raccolta di oltre 160 mila firme da parte di cittadini europei. 

«È fondamentale che ci sia un commissario per il benessere degli animali in Europa — fanno notare Animal Equality e Animal Law Italia, due delle organizzazioni italiane che aderiscono a #EuforAnimals — ed è questo quello che gli europei vogliono. La lobby dell’industria della carne cerca di impedire molti i progressi che i cittadini chiedono invece di portare avanti in maniera netta e chiara».

La richiesta era stata accompagnata anche da un sondaggio Ipsos realizzato lo scorso giugno, da cui emergeva che il 70% degli europei sarebbe favorevole ad un commissario ad hoc per il benessere degli animali. Una risposta la si avrà quando la Conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari la metterà in calendario durante una seduta plenaria dell’Europarlamento, trasformandola in risoluzione.

Da leggo.it il 16 luglio 2022.

San Francisco è invasa di acciughe. Nella celebre città californiana le acciughe piovono letteralmente dal cielo. Il fenomeno che ormai si ripete da un mese sta iniziando a infastidire i residenti che parlano di giardini, tetti e auto coperti da decine di pesci provenienti dalle acque costiere. 

E lo strano fenomeno sarebbe da ricondurre al cambiamento climatico e alle basse temperature delle acque della Bay Area, la celebre baia in prossimità della città metropolitana.

Con il repentino abbassamento delle acque la baia si è riempita di plancton, cibo molto apprezzato dalle acciughe che si sono riversate in massa nella zona costiera di San Francisco. Erano anni che non si vedevano così tante acciughe nella zona. 

E a festeggiare della presenza delle acciughe non sono stati soltanto mammiferi marini come balene, delfini, focene e leoni di mare, ma anche migliaia di pellicani. Sono infatti decine gli avvistamenti di giganteschi stormi di pellicani. Quasi imbarazzati dalla quantità di cibo, provano a catturare quante più alici possibile.

Da qui derivano i problemi di trasporto: spesso, infatti, le acciughe sfuggono dal loro becco, precipitando a terra causando l'anomalo fenomeno che sta facendo impazzire i cittadini.

E un evento così non poteva non essere condiviso sui social. Le prime testimonianze sono giunte proprio da lì: già un mese fa, sul network Reddit, alcuni utenti discutevano dei primi casi di questa insolita pioggia, ipotizzando che si trattasse di una sfida nata su TikTok. Ma in realtà è un problema molto più delicato legato al cambiamento climatico. 

Negli stessi giorni, si aggiungeva un aggiornamento pubblicato dall'Otolith Geochemistry & Fish Ecology Laboratory (laboratorio di ricerca della University of Davis), in cui si annunciava che la stagione della schiusa per le acciughe sarebbe stata particolarmente ricca.

La temperatura delle acque della Baia di San Francisco, essendo più bassa delle medie stagionali, ha provocato la risalita delle acque profonde. Il fenomeno consiste in uno spostamento massiccio, dagli abissi alla superficie dell'oceano, delle acque fredde, estremamente ricche di plancton.

Agostino Gramigna per corriere.it il 16 luglio 2022.

Potrà sembrare una bizzarria. Una cosa da social, a cui si è fatta l’abitudine. Ma i milioni di «Mi piace» accumulati dall’«esercito delle rane» su Tik Tok hanno allarmato persino la comunità scientifica britannica. Come ha raccontato, con non poca apprensione, il quotidiano The Guardian.

Tutto è cominciato a febbraio. Un utente di TikTok, residente nel Regno Unito, ha fatto sapere di aver iniziato le operazioni per la costituzione di un esercito di rane. L’idea bizzarra gli è venuta osservando «un tipo di uova in uno stagno poco profondo vicino a casa sua». Attraverso dei video, alcuni anche recenti, ha poi dichiarato di aver raccolto più di 1,4 milioni di uova che si sono schiuse in girini in una piscina che ha costruito in un cortile. «Volevo dare vita al più grande esercito di rane della storia», ha affermato trionfalisticamente. «L’anno prossimo creerò uno stagno gigante per 10 milioni di rane».

Per non esser da meno, dall’altra sponda dell’Oceano un altro entomologo improvvisato, un altro utente di TikTok, ha dato notizia di voler rilasciare 100 milioni di coccinelle nel Central Park a New York. In entrambi i casi, rane e coccinelle, l’impatto è stato fortissimo: i due hanno accumulato centinaia di milioni di visualizzazioni, supportati e incoraggiati a proseguire nel loro piano.

Il Guardian ha precisato di non aver potuto confermare in modo indipendente la veridicità degli account di entrambi gli utenti né tantomeno quella del contenuto dei video. Sta di fatto che il leader dell’«esercito delle rane» ha più di 2 milioni di follower e oltre 20 milioni di «Mi piace»; mentre l’ideatore delle «incursione di coccinelle» ha più di 42 milioni di visualizzazioni sui suoi video. La loro enorme popolarità ha finito per preoccupare gli scienziati.

Interpellata sulla vicenda, una biologa della conservazione presso il Center for Biological Diversity, Tierra Curry, ha dichiarato senza mezzi termini: «La cosa mi fa rabbrividire. Il trasferimento di specie come rane e farfalle può avere gravi ripercussioni. Stanno danneggiando gli animali. Così si crea un vettore per malattie e specie invasive». 

Chris Nagano, che ha lavorato per 27 anni come biologo di specie in via di estinzione presso il Fish and Wildlife Service degli Stati Uniti, aggiunge: «Non ho dubbi che queste persone possano aver pensato di fare una buona cosa, in realtà potrebbero portare queste popolazioni di animali all’estinzione».

Gli esperti temono che il modo in cui opera TikTok stia esacerbando alcune problematiche. TikTok differisce da piattaforme come Instagram e Twitter. È, come dire, alimentata da persone che un utente non segue. Sono degli algoritmi che fanno emergere i contenuti da tutto il Web. «Per questo è probabile che gli utenti pubblichino contenuti sempre più inaspettati, per aumentare la loro visibilità» — ha affermato Ioana Literat, professore della Columbia University. «L’etica di TikTok amplifica davvero l’insolito e la creatività. Le persone non hanno più bisogno di creare un seguito nel tempo, devono solo fare una cosa stravagante o inaspettata che diventi virale e i follower arriveranno più tardi».

I seguaci dell’esercito di rane hanno chiesto come possono raccogliere le uova. Mentre il leader della «raccolta» coccinella ha promesso che, a seconda del numero dei “Mi piace”, comprerà 100 milioni di coccinelle e farà un’invasione a New York. «È un’acrobazia di popolarità che può avere conseguenze estremamente negative —, ha sentenziato Curry — senza dimenticare che alcune iniziative potrebbero avere degli aspetti illegali». 

Per questo ha invitato le persone al rispetto delle leggi esistenti e a segnalare tali attività su TikTok alla loro agenzia statale per la fauna selvatica. E TikTok? Come ha reagito? «Per ora non ha risposto alla nostra richiesta di commento», hanno fatto sapere dal Guardian.

Dagotraduzione da Sfgate il 17 maggio 2022.

Sono rumorosi. Sono selvaggi. Sono disordinati. E secondo i residenti delle Hawaii, sono ovunque. Le galline selvatiche stanno mettendo in seria difficoltà la popolazione. I legislatori hanno provato a fermarli con un programma quinquennale, perché ormai sono considerati «un pericolo per la strada e per la salute». 

«Cantano in qualsiasi momento, di mattina presto, di pomeriggio, la notte» ha detto un residente di Pearl City. «E poi cagano dappertutto. Quindi ogni volta che esco di casa devo guardare dove metto i piedi».

Il New York Times ha raccontato che negli ultimi 800 anni i polli sono sempre vissuti sull'isola, in aree come Kailua e Kauai, ma la popolazione di uccelli selvatici è esplosa in parte a causa dei turisti che danno loro da mangiare spazzatura e cibo per gatti. Anni dopo, il National Geographic ha confermato che l'uragano Iwa e l'uragano Iniki hanno contribuito a far esplodere i pollai sull'isola, consentendo agli uccelli di riprodursi senza controllo: da allora, la popolazione è aumentata vertiginosamente.

Le Hawaii hanno quindi intrapreso una battaglia lunga anni con la popolazione di uccelli selvatici: i legislatori hanno recentemente imposto severe multe di 500 dollari a chi dà loro da mangiare e la città di Honolulu ha lanciato il proprio programma speciale di gestione dei polli nel 2016. Land and Natural Resources fornisce anche istruzioni specifiche su come catturare e uccidere gli uccelli se vagano per le case dei residenti. 

Ma queste battaglie non stanno andando molto bene. L'Associated Press ha riferito che negli ultimi due mesi, la città e la contea di Honolulu hanno posizionato trappole in cinque aree e hanno catturato solo 67 polli, per un costo di 7.000 dollari. Ciò equivale a 104 dollari per uccello. L'Associated Press afferma che catturare i polli è costoso perché le trappole vengono vandalizzate e rubate, anche se non è chiaro chi le stia danneggiando e perché. Ora, i funzionari della città stanno cercando di rispondere alle disperate richieste di aiuto del pubblico e allo stesso tempo di trovare una soluzione conveniente.

Il problema è così grave che un disegno di legge presentato nella legislatura statale delle Hawaii ha cercato di stabilire un programma finanziato dallo stato per affrontare i polli selvatici. Sfortunatamente per i residenti di Oahu afflitti dai polli, tuttavia, il disegno di legge 2195 del Senato non è riuscito ad avanzare. 

Secondo le testimonianze scritte di individui delle Hawaii che hanno risposto alla proposta di legge registrata all'inizio di marzo, i polli "aggressivi" hanno «sopraffatto la comunità». I residenti affermano che danneggiano le proprietà, defecano ovunque, ostruiscono le strade, si piazzano sugli alberi di mango e da lì emettono forti «ridacchiamenti» dall’alba al tramonto.

«Molti di noi lavorano per lunghe ore, anche con i doppi turni, e non riuscire a dormire a causa del cinguettio e del canto dei galli e dei polli selvatici è stato davvero un onere e una difficoltà ingiusta», ha scritto Majid Joneidi, residente alle Hawaii. 

«Dall'alba al tramonto, ogni giorno c'è un canto costante e lavoro da casa, quindi è difficile e talvolta imbarazzante se devo fare una chiamata perché sembra che sono in un cortile», ha testimoniato Desiree Garner, che sostiene il programma. «Non è mai stato così prima e non sono sicura di come siano arrivati in questa zona, se per cibo o altro».

Alexander Esin ha scritto che ci sono più di 100 polli selvatici e galli che vagano per le strade di Kanuku Street e Lokowai Place. Esin deve «evitarli per tutta la carreggiata», mentre i residenti come Murdoch Ortiz li hanno visti creare «il caos» saltando sui bidoni della spazzatura e strappando i sacchi, spargendo immondizia e detriti ovunque. 

Ma i polli non sono solo rumorosi e disordinati; sono distruttivi. Sharon Peine ha scritto che scavano cortili, servitù, aree di spalla e giardini, «persino foraggiando sotto muri e marciapiedi», danneggiando gravemente le infrastrutture locali. «Questo è folle e deve essere corretto!» ha sottolineato.

Da focus.it il 13 maggio 2022.  

Gli esemplari maschi di antechino, piccolo marsupiale australiano, sono gli unici mammiferi con semelparità, cioè si riproducono una sola volta nella vita. I giovani maschi vivono con la madre oltre lo svezzamento ed ad agosto settembre si allontanano dalla famiglia e si "trasformano": i loro livelli degli ormoni sessuali (gonadotropine) e dello stress si alzano, il sistema immunitario collassa (esponendoli a malattie e parassiti).

Diventano aggressivi, smettono di mangiare e di dormire e infine muoiono. Ma in quel periodo hanno un unico obiettivo: l'accoppiamento. E si danno alla pazza gioia: si riproducono anche per 12 ore con quante più femmine. Se serve, si azzuffano con altri maschi per la priorità nell'accoppiamento, senza sosta. A settembre gli esemplari maschi sono tutti morti.

Anche altre specie hanno questo comportamento. Il camaleonte di Labord, del Madagascar, vive da novembre a febbraio o marzo: cresce, si accoppia, deposita le uova e muore.

I salmoni migrano, nuotando contro corrente per raggiungere la loro destinazione. Una volta deposte le uova, le femmine muoiono quasi immediatamente, mentre i maschi vivono un po' più a lungo per difenderle.  Anche gli insetti non fanno eccezione: i fuchi esistono principalmente per fare sesso con l'ape regina. Si accoppiano in successione, poi muoiono o sono uccisi dalle operaie.

Da leggo.it il 28 aprile 2022.

Ha affrontato due pitbull per difendere la figlia e nella lotta è riuscita ad accoltellare a morte uno dei due cani. Sono stati momenti di terrore puro quelli vissuti da una mamma californiana quando la bambina di un anno è stata aggredita da un pitbull mentre era in braccio alla nonna nella loro casa di Pico Rivera, cittadina della Contea di Los Angeles. 

Secondo quanto ricostruito, domenica scorsa intorno alle 22.30, i cani sono entrati in casa correndo dal cortile verso la cucina. Lì uno dei due animali è saltato sopra la piccola attaccandola. Pochi istanti e la madre si è precipitata in soccorso. «L'ho pugnalato per allontanarlo da mia figlia. Tra il cane e mia figlia, ho scelto mia figlia. Ho fatto quello che dovevo perché non voleva lasciarla andare» ha raccontato la mamma a Fox11.

La donna morsa in faccia e al braccio è stata medicata in ospedale: ferite nell’attacco anche la bambina, la nonna e una sorella. «Aveva preso mia nipote per una gamba e quando ho cercato di allontanarlo mi ha morso la mano», ha raccontato la nonna. «Il cane l'ha azzannata alla gamba, alla caviglia e alla spalla. In questo momento è in terapia intensiva. È forte» ha aggiunto.

La famiglia ha spiegato che i due pitbull vivevano con loro da circa quattro mesi senza aver mai mostrato comportamenti aggressivi prima dell'incidente di domenica sera. Le autorità hanno riferito, riporta l'Independent, che il secondo cane sarà soppresso.

Clemente Pistilli per repubblica.it il 25 aprile 2022.

"Quest'anno facciamo cento anni e abbiamo regolare licenza comunale. Facessero pure la legge, ma l'autorizzazione a noi non possono toglierla" Luigi Molon gestisce " Casa Rosa", in via dell'Imbrecciato, in zona Portuense, e parla con orgoglio e passione di quell'antico cimitero per animali realizzato a Roma un secolo fa.

Nonostante non vi sia ancora una legge sui luoghi di sepoltura per i migliori amici dell'uomo, nella capitale le prime tombe pet risalgono infatti al ventennio e tutto nacque proprio dalla volontà di Benito Mussolini di poter seppellire la gallina che era stata compagna di gioco dei figli. Il duce si rivolse al veterinario Antonio Molon, padre di Luigi, che curava i suoi alani e che era proprietario di una pensione per cani.

Da lì nacque " Casa Rosa", il più antico cimitero per animali d'Italia. "Fu un fatto un po' insolito - racconta il proprietario del cimitero - e ci tengo a dire che fu Mussolini a cercare mio padre e non il contrario". Poi la voce si è sparsa e in via dell'Imbrecciato sono ora sepolti circa mille animali, dai piccioni a un leone, o meglio una leonessa, di nome Greta. " Non ho mai fatto il conto delle sepolture che facciamo ogni anno. La gente mi telefona e, quando mi danno conferma, due ore dopo, spazio permettendo, già sono pronto per le inumazioni", sostiene Molon.

Richieste che arrivano sia da gente comune che da vip, che vanno a far visita ai loro amici a quattro zampe quasi tutti i giorni. A " Casa rosa" riposano così i cani e i gatti dei Savoia, quelli di Peppino De Filippo, Sandro Pertini, Giovanni Leone, Aldo Fabrizi, Brigitte Bardot, Palma Bucarelli, Federico Fellini e Anna Magnani, oltre agli animali di tanti magistrati e senatori. "Ogni animale sepolto ha una sua storia ".

Ma sull'identità dei vip ancora in vita che hanno bussato e continuano a bussare alla sua porta Luigi Molon non si lascia sfuggire una parola. "Sono cose talmente personali che molti capiscono e altri no. Per tale ragione non posso dire chi ha sepolto qui il proprio animale " , sottolinea. Aggiunge però che nel cimitero, oltre al leone e a tanti cani e gatti, ci sono anche due scimmie, papere, conigli, piccioni, pappagalli, cavalli, criceti e pure un passero.

All'ingresso di " Casa rosa" un monumento ricorda pure "quelli che non hanno un padrone", mentre all'interno c'è una stele con la "Preghiera del cane". "La stessa lingua italiana definisce le spoglie di un uomo cadavere e quelle di un animale carcassa. La differenza pesa " , conclude Luigi Molon. Ma con la nuova legge molto potrebbe cambiare e "Casa Rosa", con le sue tombe caratterizzate da dediche, lumini, giochi, guinzagli e altri oggetti appartenuti agli animali lì sepolti, potrebbe non essere più il solo cimitero pet a Roma, diventando solo il più antico della capitale e del resto d'Italia.

Massimo Arcangeli per “Libero quotidiano” il 23 aprile 2022.

I macellai saranno contenti di saperlo. Nel dialetto meneghino ottocentesco, si legge nel glorioso Vocabolario milanese-italiano di Francesco Cherubini (Milano, Imp. Regia Stamperia, vol. III, M-Q, 1841, p. 7), le «persone civili» preferivano macellar (e macell) al popolaresco becchée (e beccaria).

Quest' ultima parola, già documentata, nella sua schietta variante toscana, nel Purgatorio di Dante («Figliuol fu' io d'un beccaio di Parigi», XX, 52), aveva via via ceduto il passo a macellaio, e lo stesso era avvenuto per beccheria rispetto a macello: «Per Luogo dove si vende la carne macellata è oggidì voce usata in Toscana più comunem. che Beccherìa» (Dizionario universale critico-enciclopedico della lingua italiana dell'abbate D'Alberti di Villanuova, Lucca, Domenico Marescandoli, tomo quarto, K-O, 1803, s. v. macello).

I veneziani, dal canto loro, tenevano separato il luogo di macellazione delle carni (macello) dall'esercizio commerciale deputato alla loro vendita (beccheria): «In Venezia (...) si distingue il Macello dalla Beccheria. Il primo è il luogo dove propriamente si macellano gli animali, l'altra dicesi la Bottega dove si vende al minuto la carne macellata» (Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Venezia, Andrea Santini e Figlio, 1829, s. v. macèlo).

Macello discende dal latino macellum, designante in origine un mercato adibito alla vendita di carne e altri generi alimentari. Dalla voce latina, prestata all'antica lingua di Roma dal greco (mákellon, di probabile origine semitica), avrebbe quindi preso le mosse macellarium ("venditore di generi commestibili"), che si sarebbe poi sviluppato in macellaio (e varie altre forme, tra regionali e dialettali: da macellaro a mascellaio).

Sull'evoluzione semantica del termine, non bastasse la taccia di "persona bestiale o sanguinaria", o di "chirurgo maldestro o incapace", avrebbe pesato come un macigno anche Jacopone da Todi con la sua «lengua macellaia» ("bestemmiatrice, blasfema"). Ignorata, la categoria, anche da Numa Pompilio.

Il re, secondo la tradizione, aveva distribuito la popolazione plebea, artigiana e operaia in otto collegi, più un nono per le arti e i mestieri(minori)restanti: vasai(figuli) e calzolai (sutores); tintori (tinctores) e conciatori(coriarii); falegnami (fabrii tignarii) e orefici (aurifices); flautisti (tibicines) e lavoratori del rame (fabri aerarii). Assenti, coi tessitori e i lavandai, i panettieri e i lavoratori del ferro (fabri ferrarii), anche i poveri macellai.

Dagotraduzione dal Daily Star il 19 aprile 2022.

Un grande gorilla che vive nello zoo di Lincoln Park di Chicago è così dipendente dagli smartphone che non si è nemmeno accorto che un altro gorilla lo stava attaccando. I custodi dello zoo sono stati costretti ad adottare misure che impediscano alle persone di mostrare i loro iPhone ad Amare, gorilla di pianura orientale, perché è ossessionato dai selfie e dai video di YouTube. 

I funzionari hanno costruito una "zona cuscinetto" con una corda per impedire ai visitatori di mostrare ad Amare i loro schermi, dopo che il gorilla è stato attaccato da un gorilla rivale mentre era distratto dal dispositivo di un frequentatore dello zoo.

Sono preoccupati che Amare possa essere vittima di bullismo per il suo amore per gli schermi, che usa per guardare le foto delle famiglie delle persone, degli animali domestici o persino le foto di se stesso. 

Il direttore dello zoo Stephen Ross ha dichiarato al Chicago-Sun Times: «Siamo sempre più preoccupati dal fatto che troppo del suo tempo venga speso guardando le foto delle persone, preferiamo davvero che trascorra molto più tempo con i suoi compagni di truppa imparando a essere un gorilla».

Ross ha aggiunto: «Come genitori, vogliamo dare ai nostri figli delle scelte, vogliamo che diventino adulti, ma ogni tanto dobbiamo guidare quelle scelte per il loro bene. E invece di permettere loro di sedersi e guardare la TV tutto il giorno, magari li incoraggiamo ad uscire e interagire con i loro amici». 

«È qualcosa a cui pensano tutti i genitori responsabili e, per molti versi, è simile a quello che stiamo facendo qui». Si dice che Amare sia particolarmente vulnerabile perché ama sedersi proprio accanto alla parete di vetro, da dove i visitatori dello zoo potevano facilmente avvicinarsi prima dell'introduzione della "zona cuscinetto".

I guardiani dello zoo hanno avvertito che si tratta di un circolo vizioso, perché più è grande l’interesse che mostra per gli smartphone, più è probabile che le persone gli mostrino i loro schermi. 

Ross ha dichiarato: «Chiediamo al pubblico di collaborare con i custodi per il benessere futuro e lo sviluppo di Amare in un gorilla adulto».

Marina Valensise per “Il Messaggero” il 18 aprile 2022.

«Vengo con Isabella, prepara la copertina termica. No, Aldo ci raggiunge dopo la visita dal fisioterapista». Isabella non è la sorella, la cugina, la cognata, e Aldo non è lo zio e nemmeno il suocero. Sono cani, cagnoni, cagnoloni. Un'enorme Goldendoodle e pelosissima, abbandonata in un cesto dei rifiuti quando era un batuffolino bianco, e diventata l'amore del suo padrone e un Labrador color miele, salvato da un destino cinico e baro, grazie a un'adozione fortunosa dopo la morte improvvisa della sua padrona. 

Isabella, Aldo, Enzo, Zerlina e Bellatrix, nella varietà della razza canina, bassotto, King Charles, spinone nano, cocker blu roano che siano, testimoniano l'ultimo salto di civiltà e il suo paradosso. Rappresentano da un lato l'umanizzazione del bestiale, poiché incarnano il ruolo di figlia, marito, amante, compagno di chi vive con e per loro, diventandone il referente emotivo esclusivo; ma dall'altro lato, rappresentano la bestializzazione dell'umano, visto il primato che la vita animale assume agli occhi del contemporaneo per la sua naturalità, il suo abbandonarsi spontaneo al flusso dell'esistenza senza pensieri, senza angosce, senza tormenti metafisici.

L'AFFEZIONE Basta guardarsi intorno, una domenica di primavera a Villa Borghese, per scoprire il legame simbiotico che unisce il passante al suo cane, e rendersi conto dell'evoluzione rispetto al rapporto con gli animali domestici che intrattenevano i nostri nonni e bisnonni. Che sia un progresso ineluttabile lo spiega l'animalista tedesca autrice di questo diario struggente del suo infinito amore per la vecchia Shira, un labrador tredicenne per la quale ha, di punto in bianco, abbandonato la sua carriera di ricercatrice, specialista dei lupi e guida al Parco nazionale di Yellowstone.

Da allora Elli H. Radinger è diventata una scrittrice free lance e dopo il primo bestseller, La Saggezza dei lupi, ha deciso di raccontare per filo e per segno la sua vita di fricchettona, abituata a viaggiare da sola, a vivere per un anno fra i boschi del Minnesota, in una capanno gelato senza acqua né luce, per amore di un selvaggio americano, poi mollato, tagliando la legna, costruendo con le mani una canoa per pescare le anguille, fino quando, tornata sui propri passi, non ha deciso di dedicarsi anima e corpo prima a una trovatella tirata fuori da un canile, e poi al suo vecchio cane, per spiegare al mondo la ricchezza di uno scambio umano senza pari con l'animale vivente e morente, fonte inesauribile di amore, pazienza, amicizia e gratitudine.

L'IMPORTANZA Chi odia i cani, non sopporta di averli fra i piedi e addirittura li teme come una minaccia, si astenga dal leggerlo. Ma chi invece ne è incuriosito, si ferma ad accarezzarli per strada, e sogna pure di prendersene uno nel suo trilocale senza balconi, anche a costo di mandare in crisi il matrimonio, con questo libro capirà l'importanza che il cane ha assunto oggigiorno per noi umani. 

Persino Sigmund Freud che passò tutta la vita a studiare la psiche umana, a settant' anni suonati smise di disprezzare i cani, grazie alla principessa Maria Bonaparte, sua allieva: «I cani amano i loro amici e mordono i loro nemici, in contrasto con le persone, che sono incapaci di puro amore e nelle loro relazioni devono sempre mescolare amore e odio».

Lo studioso delle nevrosi e dei complessi di colpa aveva scoperto nella razza canina «la simpatia senza ambivalenza, la semplificazione della vita liberata dal conflitto difficilmente sopportabile con la civiltà - la bellezza di un'esistenza compiuta in sé». 

LA CONSAPEVOLEZZA Muovendosi nel suo solco, l'etologa tedesca ne continua la dimostrazione a oltranza, offrendo una congerie di esempi, aneddoti, spunti di riflessioni che con l'amore e la dedizione canina corroborano la consapevolezza del puro esistere e il piacere del vivere senza pensieri, senza inquietudini, abbandonandosi all'eterno presente, all'immediatezza irriflessiva dell'hic et nunc, e insegnano, grazie al segreto divino canino, a coltivare la ricerca di un senso pieno dell'esistenza, in nome della stessa finitezza della vita. 

Cosa fare se il cane sta male? Niente ansia, ma neppure troppa leggerezza. L’eccessiva apprensione non aiuta ad essere razionali. Ma bisogna saper cogliere i segnali che ci arrivano dai nostri animali: sono creature fragili come noi e come noi possono aver bisogno di visite e di cure. Fabrizio Rondolino su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.

Sintesi dell’articolo di Silvia Bergamin per “il Mattino di Padova”, pubblicata da “La Verità” il 14 aprile 2022.  

L'allevatore di animali che puzzano deve risarcire i vicini: lo ha stabilito il tribunale civile di Padova che ha accolto il ricorso di 16 famiglie contro un agriturismo di Fratta, frazione di Santa Giustina in Colle. Le proteste dei residenti contro i cattivi odori emanati da mucche e maiali erano partite nel 2010, ma il Comune non ha chiuso l'allevamento.

Il braccio di ferro si è dunque trasferito in tribunale. Ora il giudice ha stabilito, in base alle consulenze tecniche d'ufficio, che «le lamentate immissioni odorigene» sono «reali», e superano «la normale tollerabilità» con lesione del «diritto al normale svolgimento della vita abitativa e quotidiana». L'allevatore dovrà versare 300.000 euro di risarcimento e attuare «tutti gli interventi necessari a far cessare le molestie olfattive».

Pier Luigi Vercesi per corriere.it il 2 novembre 2022.

Le elefantesse lasciano penzolare a terra le proboscidi abbassando lo sguardo, comprese nel dolore della mamma che ha appena depositato il suo piccolo senza vita sotto all’enorme acacia.

Come in una cerimonia funebre, restano immobili per lunghi minuti, mentre gli altri piccoli, inconsapevoli della tragedia che ha colpito quel gruppo matriarcale, continuano a giocare tra loro. Siamo nella riserva Torra, nel Damaraland, nord-ovest della Namibia, alla confluenza di due fiumi ora totalmente asciutti.

Il piccolo, nemmeno una settimana di vita, non ha retto la fatica a cui si è dovuto sottoporre il gruppo per cercare acqua: tutti i pozzi della zona erano fuori uso. La morte risale probabilmente ad almeno 12 ore prima. Ad ogni tappa, la madre straziata dal dolore deposita il piccolo sotto ad un albero e chiede i conforto delle altre elefantesse.

Abbiamo assistito a questo drammatico episodio mentre con un gruppo di lettori del Corriere della Sera stavamo raggiungendo un campo base per poi raggiungere la costa della Namibia che si affaccia all’oceano Atlantico. Le guide dicono che in tanti anni non avevano mai assistito ad un evento simile. Poi il gruppo, mesto, riprende il cammino nella speranza di trovare una pozza. La madre è inconsolabile, riavvolge nella proboscide il suo piccolo e, con la forza della disperazione, si accoda alle consorelle.

Noemi Penna per lastampa.it il 29 novembre 2022.

Quando gli abitanti di un villaggio indiano si sono trovati davanti una dozzina di elefanti riversi per terra hanno subito pensato al peggio. Ma erano fortunatamente ancora vivi, e grande è stato lo stupore quando hanno capito che erano solo "ubriachi".  I grandi vasi di liquore mahua in fermentazione erano rotti e completamente svuotati e gli elefanti si erano addormentati dopo aver fatto "baldoria".

Come riporta il Press Trust of India, l'insolito "rave" è avvenuto alle porte di un villaggio del distretto di Keonjhar. "Siamo andati nella giungla intorno alle 6 del mattino per preparare il mahua e abbiamo scoperto che tutti i vasi erano rotti e il liquore in fermentazione mancava", ha riportato Naria Sethi ai giornalisti indiani. "Abbiamo anche scoperto che gli elefanti stavano dormendo. Hanno consumato il liquore fermentato e si sono ubriacati". 

Gli abitanti del villaggio non sono stati in grado di svegliare gli elefanti addormentati, quindi hanno chiamato i funzionari della fauna selvatica i quali hanno deciso di utilizzare dei tamburi per fare un rumore abbastanza forte da smuoverli e farli disperdere nella giungla. 

Kartick Satyanarayan di Wildlife Sos, ente che aiuta a salvare e riabilitare la fauna selvatica in India, ha dichiarato al Times of India di avere dei dubbi sulla storia perché "di solito un elefante si prende cura del resto del branco, quindi sembra un po' insolito", ma ha anche notato che il mahua è noto per essere apprezzato dagli elefanti. "Lo adorano. Quando ne sentono l'odore, possono infilare la loro proboscide ovunque e persino abbattere muri". Dopo il cicchetto "al massimo barcollano", ma vederli addirittura addormentati riversi per terra gli sembra troppo.

Ad oggi non ci sono prove scientifiche che dimostrino che gli elefanti con la loro enorme stazza possano ubriacarsi. In ogni caso, il loro amore per il mahua può rivelarsi mortale. Ad aprile, il Times of India ha riferito che un branco di elefanti ha ucciso cinque persone nella catena forestale di Jaisingh Nagar e che erano diventati così violenti proprio perchè avevano bevuto il liquore tipico.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 aprile 2022.

L’elefante Jumbo Chan Chao, 18 anni, si stava preparando a far fare un giro ai turisti all'Ayutthaya Elephant Palace, nel centro della Thailandia, quando il suo addestratore, Peerapat, ha iniziato a frustargli la testa con una barra di metallo appuntita. 

Il custode, anche lui 18enne, ha trafitto la pelle spessa e coriacea di Chan con l'uncino e ha causato tanto dolore all'elefante da farlo crollare a terra. Chan Chao è ora in cura da veterinari locali con profondi tagli alla testa. 

Nel video che è stato diffuso si vede anche il momento in cui Peerapat viene afferrato per la collottola dal direttore del campo e costretto a inginocchiarsi ai piedi dell'elefante e a chiedere scusa. 

Il filmato dell'incidente angosciante è stato ripreso da un turista che ha affermato che il trattamento li ha lasciati "in lacrime". Hanno detto che «vogliono solo che gli elefanti siano trattati con gentilezza».

Il personale del parco degli elefanti da allora ha licenziato l'addestratore (o mahout) e gruppi per i diritti degli animali hanno presentato una denuncia alla stazione di polizia locale. Il tenente di polizia Samart Raksasak ha confermato oggi che gli agenti avevano visto il video e avviato un'indagine. Ha detto: «La persona nel video sarà interrogata e gli ufficiali controlleranno l'elefante per le ferite». 

Il gruppo per i diritti degli animali Watchdog Thailand, che ha presentato una denuncia alla polizia, ha affermato che il caso ha mostrato "gravi violenze" contro gli elefanti. Un portavoce ha dichiarato: «Il proprietario del campo ha rimosso il giovane visto nel video, ma riteniamo che occorra apportare miglioramenti fondamentali. Nella clip si possono vedere gravi violenze contro l'elefante. Speriamo di vedere miglioramenti nella gestione del benessere degli animali nel campo degli elefanti e daremo seguito all'esito dell'indagine». 

La controversa attrazione è tipica dell'ex capitale della Thailandia: dozzine di elefanti vengono vestiti con abiti rossi e dorati per offrire ai turisti un giro panoramico.

In seguito all'incidente, il mahout ha affermato che Chan Chao era "teso" perché aveva incontrato un altro elefante adulto pochi istanti prima. Peerapat ha detto di aver usato la frusta solo per controllare Chan Chao e impedirgli di diventare aggressivo. «Sono molto dispiaciuto per l'incidente e ammetto tutto. Mio padre lavorava qui e io sono cresciuto con Chan Chao da quando eravamo entrambi bambini». 

«Il gancio non viene utilizzato spesso, ma solo quando l'elefante è testardo. Se non vengono controllati, potrebbero diventere feroci». 

Il veterinario Thongthae Meephan, il gestore dell'attrazione, ha affermato che le ferite sulla testa dell'elefante sarebbero «guarite in meno di una settimana». 

Il gruppo per i diritti degli animali PETA ha promosso a lungo una campagna per il divieto e il boicottaggio di qualsiasi luogo che «sfrutti» elefanti o altri animali nell'industria turistica. Il vicepresidente Jason Baker ha dichiarato: «Gli elefanti utilizzati nell'industria del turismo vengono spesso portati via dalle loro case e dalle famiglie frenetiche quando sono solo cuccioli».

«Questi animali traumatizzati vengono regolarmente picchiati fino alla sottomissione con ganci dalla punta di metallo in modo che da costringerli a trasportare persone o a eseguire trucchi ridicoli per i turisti».

Paolo Travisi per “il Messaggero” il 7 aprile 2022.

Occhi tenerissimi e sguardo dolce, sembra mancare solo la parola. Chi ama i cani vive ogni giorno queste situazioni. Ed è lecito chiedersi se gli amici fidati dell'uomo si siano adattati al nostro stile di vita domestico, e perché no, anche al nostro modo di comunicare le emozioni con lo sguardo, usando i muscoli facciali per chiedere attenzione. Grazie alla loro espressività, infatti, gli influencer costruiscono carriere e fortune postando immagini sui social.

Uno studio americano, condotto dai ricercatori della Duquesne University di Pittsburgh, sotto la guida di Anne Burrows, ha esaminato i muscoli mimetici, quelli utilizzati per le espressioni facciali, scoprendo che dal punto di vista fisiologico, i cani hanno molta più somiglianza con gli esseri umani che con i lupi, stirpe da cui provengono. E già tre anni fa un'altra ricerca sosteneva che un muscolo specifico intorno agli occhi dei nostri amici fido, si fosse evoluto al punto da rendere possibile all'animale di alzare il sopracciglio in modo implorante e irresistibile.

Semplice adattamento, frutto delle note teorie darwiniane, o selezione della razza innestata proprio dall'addomesticamento indotto dall'uomo nei secoli? «Non è un adattamento naturale, nel senso che tutti i caratteri estetici che i cani hanno sviluppato hanno portato alla creazione di parametri graditi all'uomo e queste sono anomalie, perché i cani non sono animali selvatici che devono adattarsi geneticamente all'ambiente per sopravvivere» spiega Francesco Filiciotto, biologo e veterinario dell'Istituto scienze polari del Cnr, aggiungendo che «la selezione operata dall'uomo sta riducendo la varietà genetica, per creare razze sempre più adatte ai nostri gusti, mentre nei gatti sono meno evidenti perché la selezione è meno spinta».

La storia evolutiva del cane ha inizio nel Paleolitico, quando i lupi si avvicinavano alle feste umane attorno al fuoco, mangiando gli scarti di cibo, finché l'uomo non ha capito di poter stabilire una connessione con il lupo, divenuto la prima specie addomesticata. L'ipotesi degli scienziati americani è che dietro a quelle espressioni così tenere e comunicative dei cani (effetto di 16 movimenti facciali che talvolta si combinano tra loro) ci siano delle fibre muscolari che sono in grado di contrarsi più rapidamente, come quelle degli uomini, consentendo espressioni facciali più espressive, ma portando a una rapida stanchezza i muscoli interessati.

Ai lupi che ululano alla luna, allungando i muscoli del viso, questo non accade, perché hanno una porzione di fibre muscolari a contrazione lenta, andate perse con l'addomesticamento. Ecco la differenza sostanziale che ha portato alle espressioni umanizzate di fido. «Faccio un esempio. Nel corso degli anni si sono cercati cani sempre più bassi, con il femore molto corto, che si sono fatti incrociare con altri con una struttura completamente diversa, con l'obiettivo di portare questo carattere secondario nella nuova razza» spiega ancora Filiciotto. Però c'è un'altra questione, centrale nella ricerca sviluppata all'Università di Pittsburgh, che riguarda proprio le espressioni in funzione delle emozioni.

«È probabile che ci sia stata una selezione di razze da parte dell'uomo che ha portato nel tempo i cani a un'espressione più umana» precisa l'esperto del Cnr, anche perché Darwin ci ha insegnato che l'adattamento di ogni specie è funzionale alla sopravvivenza. Ogni specie si evolve per meglio vivere in un determinato habitat, perché l'obiettivo di ogni animale, uomo compreso, è sopravvivere.

Infine «possiamo anche ipotizzare che il cane abbia adottato una sorta di empatia e di imitazione, adattandosi alle esigenze estetiche dell'uomo, come una forma secondaria di sopravvivenza, per migliorare le condizioni di vita dell'animale. Come dire, se piaccio così cerco di adeguarmi, ma sostenere che il genoma si sia modificato in funzione di uno stato emotivo, parametro non misurabile dalla genetica, non è possibile». Plausibile che la verità stia nel mezzo. In parte selezione dell'uomo, in parte adattamento per vivere in salotto.

 Cosa ci insegnano gli animali? Con Angelo Vaira iniziamo un viaggio nella loro mente. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 29 marzo 2022.

Riparte sul Corriere.it la webserie «Animal Minds»: Angelo Vaira ci porta a conoscere il cane e gli altri animali attraverso la loro mente. «Impariamo a pensare come loro, scopriremo molto della natura e di noi stessi». 

Non chiediamoci cosa possiamo insegnare noi agli animali. Chiediamoci piuttosto cosa gli animali possono insegnare a noi. Osserviamoli, ascoltiamoli, cerchiamo di capire i meccanismi che guidano la loro mente, che regolano il loro rapporto con la natura e il mondo che li circonda. Passiamo dall’essere insegnanti, non sempre all’altezza a dire il vero, all’essere allievi. E scopriremo che di cose da imparare ce ne sono davvero parecchie.

«Da loro possiamo apprendere per esempio le chiavi della salute e del benessere — sottolinea Angelo Vaira, dog coach e zooantropologo, autore della videoserie «Animal Minds» che, dopo il successo della precedente stagione (rivedi QUI tutte le puntate), riparte mercoledì 30 marzo sul Corriere.it —. Gli animali trascorrono la loro esistenza all’aria aperta e esposti alla luce solare, adottano una corretta alimentazione per la loro specie, non lesinano sull’attività fisica. Questo permette loro di essere nella giusta forma e condizione per affrontare la vita. Non è difficile. Non serve inseguire mode o teorie complicate. Basta osservare e imparare dalla natura, che funziona bene da sempre anche a prescindere da noi».

Nella nuova serie della rubrica non si parlerà dunque solo della relazione con il cane ma in generale del nostro rapporto con il mondo naturale e la biodiversità, della nostra interazione con il regno animale — di cui noi stessi facciamo parte (è quell’Animalia a cui abbiamo dedicato questa sezione del nostro sito) — e l’ambiente che lo e ci circonda. Ma il cane continuerà ad essere il principale protagonista di questo film della vita. E non per caso: «Il rapporto con un cane — spiega Vaira — è una soglia attraversata la quale non si vede più il mondo come lo si vedeva prima. La relazione che si crea tra noi e il nostro compagno di vita, se vissuta nel modo corretto, è una sorta di passepartout che ci permette di accedere al mondo animale nel suo complesso. Capire i comportamenti e il modo di pensare del nostro cane, ci consente di interpretare anche il comportamento delle altre specie e i meccanismi della natura».

Affinché tutto ciò accada occorre però una predisposizione d’animo. Amare un cane, o amare gli animali in senso lato, non significa semplicemente possederli o in qualche modo interessarsene . «Anche un appassionato di farfalle può definirsi amante degli animali — dice ancora Vaira —, ma catturarle e appenderle con degli spilli sul fondo di una bacheca non è propriamente interagire con loro, avere una relazione empatica. Se invece accolgo un cane in famiglia e stabilisco con lui un rapporto paritetico, quel legame mi porta ad interrogarmi sulle mie ma anche sulle sue emozioni, a provare a guardare il mondo con i suoi occhi e ad interpretarlo con la sua mente».

Un ragionamento che può essere esteso anche al mondo selvatico, pur partendo dalla consapevolezza che secoli di domesticazione hanno reso il cane (ma può valere anche per il gatto) quello che oggi è, ovvero un membro a tutti gli effetti della società umana. «In generale — aggiunge l’esperto — bisogna sempre pensare che ogni animale ha una propria mente e una propria visione del mondo, un proprio modo di esprimere emozioni e anche affettività. E ognuno di loro ha anche un proprio senso di esistere. Se si mette un leone in un zoo si toglie il senso della sua vita. E non solo per la privazione della libertà: un leone ha bisogno del suo habitat per poter vivere secondo la propria natura, che comporta anche la predazione o la vita in branco».

La prima puntata della nuova serie sarà dedicata all’utilizzo della voce nella comunicazione con il cane. Voce e linguaggio sono due cose completamente diverse tra loro. L’errore è spesso quello di utilizzare parole per comunicare con l’animale, come faremmo con un bambino o con un’altra persona, quando invece questi percepisce non il loro significato, bensì il loro suono, la loro tonalità, la loro modulazione, la gestualità che le accompagna. Di qui l’utilizzo di alcuni accorgimenti per fare arrivare il messaggio giusto nel modo giusto Tra gli altri temi che saranno affrontati ci sono aspetti pratici, come la gestione del guinzaglio con un cane che «tira», o più relazionali, come la «terapia della calma» o la gestione della perdita, ovvero il momento in cui il cane ci lascia per vecchiaia o malattia. E, come detto, argomenti che non riguardano nello specifico il cane ma il nostro rapporto con la natura. «Anche la natura è in grado di pensare — conclude Vaira — e quei pensieri noi possiamo leggerli. Vi spiegherò come fare».

L’Italia dei gatti: amati dai cittadini, poco considerati dalle istituzioni. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

Il rapporto di Legambiente: triplicate nel 2020 le adozioni di gatti, ma resta il problema della mancata registrazione all’Anagrafe felina. Meno dell’8% dei nostri Comuni è in regola con la gestione degli animali nelle città. 

Gli italiani amano i gatti, le istituzioni italiane — invece — li considerano poco. A confermarlo sono alcuni dati contenuti nel X rapporto nazionale «Animali in Città» di Legambiente, analizzati in esclusiva dal Corriere della Sera. Un affetto quello per i felini che non è venuto meno, nemmeno con la pandemia. Anzi. Nel 2020 sono stati, infatti, presi in adozione nel nostro Paese oltre il triplo dei gatti rispetto all’anno precedente (42.081 nel 2020, contro i 12.495 del 2019; qui tutti i dati del report). Eppure, tra i primi problemi evidenziati nel report dell’associazione ambientalista vi è quello della registrazione dei felini, al momento facoltativa nel nostro Paese (diversamente da quanto avviene per i cani). All’indagine di Legambiente hanno risposto in modo completo 656 amministrazioni comunali (l’8,3% del campione contattato), tra cui il 50% dei Comuni capoluogo, e 50 aziende sanitarie (il 44,6% del campione). 

Non solo la spesa pubblica è prevalentemente condizionata dai canili rifugio, ma a dispetto della stima tra i dieci e i quindici milioni di gatti presenti in Italia, i dati ufficiali riportano poco più di 798.089 gatti registrati (dato Ministero della Salute, banca dati anagrafe animali d’affezione, aggiornato a gennaio 2021) in tutta Italia. Solo la Lombardia è dotata di una legge regionale che, dal primo gennaio 2020, prevede l’obbligo di registrare anche ogni gatto che entra a far parte di una famiglia. Guardando agli amici felini, il rapporto nazionale è di un gatto iscritto all’anagrafe degli animali d’affezione ogni 72,4 cittadini: a primeggiare, in questa categoria, sono la Valle d’Aosta (un gatto ogni 31,4 abitanti) e la Provincia autonoma di Bolzano (un gatto ogni 32,6 cittadini). Per avere un raffronto, a livello nazionale, il rapporto tra cani iscritti all’anagrafe degli animali d’affezione e cittadini è di un cane ogni 4,7 abitanti, con Umbria e Sardegna che primeggiano in positivo (rispettivamente un cane iscritto ogni due cittadini e un cane ogni 2,8), e Puglia e Calabria fanalini di coda (rispettivamente un cane iscritto ogni 7,4 e ogni 9,6 cittadini). In generale, meno dell’8% dei nostri Comuni è in regola con la gestione degli animali nelle città.

Grazie ai dati forniti dalle amministrazioni comunali e dai servizi veterinari delle aziende sanitarie, l’analisi di Legambiente mostra anche come solo il 39,2% dei Comuni dichiara di avere colonie feline sul proprio territorio. Considerando i numeri relativi al numero dei cittadini residenti le amministrazioni che risultano più amanti dei gatti registrati in anagrafe sono Banari, in provincia di Sassari, con 1 gatto ogni 3,2 cittadini; Gavirate, in provincia di Varese, con 1 gatto ogni 5,9 cittadini; Aviano, in provincia di Padova, con 1 gatto ogni 7,7 cittadini. Solo — e non è certo una ripetizione — il 28,5% dei Comuni dichiara di sapere quanti gatti vi siano «ospitati». Il 6,1% dei Comuni dichiara, infatti, di avere anagrafato più del 90% dei gatti presenti nelle colonie feline, la cui corretta gestione è uno degli elementi che facilita il buon rapporto con gli animali in città o che, al contrario, può ingenerare frequenti conflitti (per le cucciolate «in strada», per questioni igienico-sanitarie legate alla presenza di cibo, ecc...), e poco più del cinque per cento (5,2%) delle amministrazioni li ha sterilizzati. Più in generale, è il 14% dei Comuni ad aver avviato campagne per la sterilizzazione dei gatti; il 9,1% a dichiarare di avere gattili sanitari sul proprio territorio, mentre solo il 5,9% ha oasi feline. È bene sottolineare come in Italia la presenza di strutture di accoglienza per i gatti randagi sia più esigua di quella dei canili sanitari o dei rifugi per cani, con un enorme divario tra Nord e Sud Italia. Sebbene esista una legge, la legge 281 del 91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, essa non prevede l’obbligo di un certo numero di gattili per regione. 

Non va, certo, meglio sul fronte delle campagne di adozione, portate avanti sono dall’8,2% dei Comuni. Una fotografia impietosa, alla quale Legambiente chiede di porre rimedio con alcune azioni concrete, che vogliamo ribadire — con maggiore forza — oggi, 17 febbraio, in occasione della Festa del gatto, che qui abbiamo ricordato con alcune frasi. 

1- L’approvazione da parte del governo della norma nazionale per l’obbligatorietà dell’anagrafe di tutti i gatti domestici;

2 - La realizzazione da parte delle amministrazioni regionali e comunali — con un cronoprogramma che prenda l’avvio sin da subito — della mappatura completa, entro il 2023, delle colonie feline presenti nei contesti urbani e periurbani; di una campagna puntuale di anagrafe e sterilizzazione, entro il 2025, di tutti gli animali presenti nelle colonie feline; l’apertura, entro il 2030, di nuovi 500 gattili sanitari per consentire un’adeguata risposta pubblica sanitaria alle popolazioni libere e domestiche di gatti presenti nelle città (pochi mesi fa Legambiente ha creato un «Ecosportello» per gli animali feriti o in difficoltà).

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 5 aprile 2022.

Ci sono persone, tra cui vari scrittori, convinti che i gatti siano straordinari. E io sono tra queste, per cui ogni volta che esce un libro che narra le gesta di un micio vissuto accanto al suo custode, uomo o donna che sia, non mi trattengo: devo leggerlo, una sorta di imperativo categorico. Nei giorni scorsi è giunto sulla mia scrivania un volume edito da Mursia, curato da Marina Alberghini e Luca Ortino. Titolo: Gatti dall'altrove. Titolazione di cui mi sfugge il significato ma che comunque mi ha spinto a divorare 217 pagine, parecchie delle quali originali o addirittura istruttive.

Numerosi amanti dei felini sono considerati dai loro simili deficienti, gente rammollita che si intenerisce davanti a una tigre in miniatura dal pelo fitto. Non parliamo delle cosiddette "gattare", reputate prive di senno perché assistono e soccorrono vari randagi a cui si affezionano in modo morboso. Io per costoro nutro invece simpatia e affetto poiché nel loro attaccamento agli animali vedo una forma di amore disinteressato e assai intenso. 

Ogni saggio che viene pubblicato sui gatti me lo bevo con piacere, in esso trovo la conferma che la mia passione per le bestie (escluse le zanzare) non è coltivata in solitudine. E ciò mi rincuora. Fin da piccolo adoravo accarezzare i cuccioli che incontravo con la loro mamma in cortile. Giocavo con essi ore e ore mentre la proprietaria della gatta mi osservava sorridendo. Desideravo assai possedere una di quelle bestiole, tuttavia mia madre era ostile all'adozione. Questa proibizione generava in me molta frustrazione.

Cosicché dovetti aspettare di compiere 14 anni per realizzare il mio sogno, quando la mia famiglia si trasferì in una villetta in periferia, contornata da un po' di terreno. Finalmente ebbi il permesso di introdurre nella mia abitazione un gattino bianco e nero, di pelo lungo, che chiamai "Vecio". Era stupendo e con me campava in simbiosi, lo imboccavo e lo lisciavo senza requie. Ovunque andassi mi correva appresso. 

La sera, quando si trattava di andare a dormire, Vecio mi aspettava davanti alla porta della camera in attesa che io vi entrassi. Non sbagliava un colpo, varcava la soglia e, non appena mi fossi coricato, balzava sul letto e, non bastasse, si infilava sotto le lenzuola dove rimaneva immobile fino al mattino. Annidi stretta vicinanza, il mio attaccamento a lui è stato assoluto. Allorché, spesso, gli parlavo, faceva delle smorfiette. La sua morte mi stese in un dolore fisico.

Anni dopo mi sposai e, dato che mia moglie è più gattolica di me, recuperammo una micetta, Amalia, che era appassionata di tennis. Mio figlio Mattia la poneva sul pianoforte e le lanciava delle palline di carta, che lei respingeva con precisione. Le piacevano queste partite. 

Quando mia figlia Fiorenza rincasava da scuola, soleva fare quattro chiacchiere accanto al portone con un compagno e Amalia si arrabbiava. Miagolava furiosa, pretendeva che la ragazza salisse da lei e la smettesse di starsene lì a blaterare con il suo amico. La presenza felina nelle mie dimore è sempre stata dominante e foriera di episodi stravaganti. Una notte avvenne un fatto curioso. 

La luce del salone in cui trascorrevamo il dopocena si accese, poi si spense, poi si riaccese di nuovo. Io e mia moglie ci svegliammo spaventati. Pensammo: «Saranno quegli stupidi dei nostri figli». Ci alzammo per verificare l'accaduto. Incredibile, era la micia che, seduta su un mobiletto in prossimità dell'interruttore, si divertiva ad azionarlo. La mia consorte scherzando diceva: «Possibile che in questa famiglia anche i gatti siano cretini?».

Non aveva tutti torti. Però lei stessa un tardo pomeriggio mi telefonò al Giornale, da notare che non mi chiama mai, per sollecitarmi a raggiungere quella sera la nostra abitazione a Bergamo, dove avrei trovato una sorpresa. Non mancai di obbedire, ovviamente. E, introdottomi nel mio appartamento, considerata l'ora, mi recai nella stanza della mia metà e vidi che accanto al suo corpo giaceva un gattino. 

Domanda mia: «E questo qui da dove cazzo viene?». Risposta gelida: «L'ho visto mezzo rincoglionito per strada e l'ho preso, mi faceva pena». Scoppiai a ridere. Quando abitavo sulle colline orobiche e avevo un parco di 6000 metri, ogni tanto qualcuno buttava oltre il cancello un felino trovatello. E io me lo tenevo. Un pomeriggio ero seduto su una panchina con Fiorenza, ultima figlia, e avvertimmo un miagolio disperato.

La mia erede, pure gattolica, si rivolse al cane, Ciro, come a un fratello: «Senti? Deve essere un micetto, vai a prenderlo». Ciro scattò e solo due minuti dopo si presentò con un gattino in bocca, del quale poi diventò amico inseparabile. Adesso risiedo a Milano, ho un pezzullo di giardino dove gironzolano quattro miei gatti, le imprese dei quali, almeno di uno di loro, meritano un cenno. Giuliano, un micione rosso, naturalmente trovatello, ogni anno a ottobre sparisce e sta via un mese secco. 

Noi ci disperiamo, lo cerchiamo dovunque, niente. Assenza ingiustificata e prolungata. Dove diavolo sarà finito quell'imbecille? Dopo trenta giorni di angoscia, la mattina presto, udiamo un miagolio insistente, ci alziamo per controllare: è lui, lo scapestrato. Lo esamino, è in splendida forma. Dove vada, chi lo curi, perché scompaia costituiscono misteri. Ma noi siamo felici che sia riapparso e di dargli tanta pappa. I nostri quattro zampe ci rallegrano la vita.

Leoni e altri animali selvatici allevati per essere uccisi dai cacciatori di trofei, l’Italia prova a dire basta. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 2 marzo 2022.

Proposta di legge alla Camera per il divieto di importazione ed esportazione di parti di fauna selvatica protetta. Pene fino a 3 anni e ammende fino a 300 mila euro. 

Il giovane leone si avvicina fiducioso alla rete del recinto. Accosta il capo con la criniera ancora incompiuta e si lascia accarezzare dalla mano di uno dei guardiani. Non lo teme e del resto non ne avrebbe motivo: è probabilmente la stessa mano che ogni giorno gli prepara il pasto. Non sa che quella stessa mano sarà probabilmente anche la stessa che lo condurrà su un camioncino e che poi lo farà scendere in mezzo alla savana. Non in un punto qualsiasi: vicino ad grosso pezzo di carne, in posizione sufficientemente scoperta da poter essere inquadrato dal mirino dei fucili di precisione ed essere abbattuto. Il suo destino era quello fin dall’inizio: essere allevato, ucciso e, infine, sezionato: il capo verrà imbalsamato e trasformato in trofeo da appendere al muro; la pelliccia diventerà un tappeto; le ossa saranno probabilmente destinate al mercato della medicina tradizionale orientale.

Si chiama «canned hunting», vale a dire caccia in scatola, ed è l’evoluzione in peggio del tradizionale safari. Il cacciatore in questo caso non deve neppure fare fatica: viene accompagnato sul posto in cui la preda è presente — a volte l’area in cui gli animali vengono rilasciati è addirittura recintata — e non deve fare altro che prendere la mira e sparare. Il leone, ma vale anche per altri grandi mammiferi, sarà colto di sorpresa e non riuscirà né a reagire nè a scappare, cosa che peraltro non gli verrebbe neppure spontanea essendo cresciuto in cattività, senza dunque alcuna esperienza del mondo naturale, senza avere mai allenato l’istinto e senza avere mai sperimentato l’agguato o la fuga. Il cacciatore di fatto non caccia, si limita a uccidere come un soldato di un plotone di esecuzione. Ma, del resto, per molti le sole cose che contano sono la foto ricordo di fianco alla carcassa e il trofeo imbalsamato da esibire a casa propria. Diversi video sul web documentano la pratica della «caccia in scatola». Che ha purtroppo estimatori in tutto il mondo.

L’Italia potrebbe però porsi all’avanguardia nel mettere un freno a queste pratiche: è stato presentato oggi, alla vigilia della Giornata mondiale della fauna selvatica, una proposta di legge (atto della Camera n. 3430, primi firmatari i deputati Vittorio Ferraresi e Francesca Flati del M5S) che punta ad istituire il divieto di importazione ed esportazione di trofei di specie protette da punire, in caso di violazione, con un ammenda fino a 200 mila euro (e 300 mila in caso di recidiva) e l’arresto fino a tre anni. I trofei oggetto di violazione sarebbero confiscati e distrutti oppure, sentita la commissione Cites, utilizzati ai fini didattici. L’importazione dei trofei di caccia in Italia è tuttora legale. «Puntiamo a contrastare l’uccisione di specie protette e a rischio di estinzione che potremmo non vedere mai più e le violenze che vengono perpetrate contro di esse — spiega l’on. Ferraresi —. La tutela della biodiversità è un importante fattore anche per la sopravvivenza dell’essere umano e quando intaccata mette a rischio il futuro e la qualità di vita delle prossime generazioni».

Non si tratta di una iniziativa velleitaria. L’importazione di trofei avviene più frequentemente di quanto si pensi. I dati diffusi da Humane Society International, che da anni è in prima linea contro questa pratica, evidenziano come l’Unione Europea sia il secondo principale importatore di questi trofei, dopo gli Stati Uniti. Nel quadriennio tra il 2014 e il 2018, in particolare, sono stati importati nel nostro continente quasi 15 mila trofei di caccia di 73 specie protette a livello internazionale. Di questi sono 322 quelli che hanno avuto come destinazione l’Italia. Numeri non troppo diversi sono stati registrati anche nel biennio 2019-2020, quando nel nostro territorio sono arrivati 105 trofei di 13 differenti specie di mammiferi e questo nonostante le restrizioni ai viaggi dovute, nella seconda parte del biennio, alla pandemia da Covid-19. Nel quadriennio 2014-2018 l’Italia è risultata il primo importatore di trofei di ippopotamo, il quarto di leone e il quinto di elefante africano. L’80% dei trofei di leoni sarebbe riconducibile a «canned hunting».

«Approvando questa proposta di legge — commenta Martina Pluda, direttrice per l’Italia di Humane Society International, che affianca l’iniziativa parlamentare — l’Italia avrebbe la possibilità di schierarsi dalla parte della fauna selvatica e della sua reale tutela, azzerando il numero di animali protetti cacciati per divertimento, mercificati e importati quali macabri trofei come motivo di vanto. Sarebbe un passo che incontra il favore degli italiani, contrari a questa pratica elitaria e fuori dal tempo che non ha nulla a che vedere con la conservazione delle specie e della biodiversità». Secondo i risultati di un sondaggio commissionato da HSI Europe a Savanta ComRes, l’86% degli italiani intervistati si oppone alla caccia al trofeo di tutti gli animali selvatici e il 74% è a favore di un divieto di importazione. La petizione #NotInMyWorld lanciata da HSI in Italia a sostegno della campagna ha già raccolto più di 40.000 firme.

La caccia ai trofei di animali selvatici alimenta un giro d’affari da cui molti traggono ampi profitti, ma non più di tanto l’economia locale, anche se gli allevatori di animali selvatici (è un ossimoro ma è così) e i tour operator che offrono pacchetti all inclusive a ricchi cacciatori di tutto il mondo sostengono che questa attività sia in realtà funzionale al pil del territorio e anche alla biodiversità, visto che molte specie iconiche della natura selvaggia sono in realtà in via di estinzione. Ma non vi è alcun criterio scientifico nel modo in cui le specie vengono allevate, non ci si preoccupa di nutrire adeguatamente gli animali, di sviluppare la loro indole naturale, di favorire linee genetiche forti, insomma di renderle adatte ad un reinserimento in natura. Perché di fatto questi animali non saranno mai reimmessi nell’ambiente ma solo lasciati liberi per pochi minuti, prima di essere abbattuti da una raffica di proiettili. E quand’anche degli esemplari dovessero essere liberati, sarebbero deboli e inadeguati alla sopravvivenza.

«È dimostrato come la caccia al trofeo metta a rischio la conservazione delle specie — spiega Audrey Delsink, direttore Wildlife per Hsi Africa —. Impatta negativamente sulla dinamica della popolazione, diminuendo i tassi di concepimento, riducendo la sopravvivenza dei cuccioli e degli adulti e aumentando la mortalità in specie come leoni, leopardi e puma, solo per citarne alcuni». Uno studio su 8 Paesi africani, citato dalla stessa Delsink, dimostrerebbe come il turismo nel suo complesso contribuisca al prodotto interno lordo delle nazioni in percentuali tra il 3 e il 5%, ma come quello legato ai cacciatori di trofei non superi lo 0,03%.

La storia del fenicottero Pink Floyd 492: fuggito da uno zoo 17 anni fa e ancora libero. Beatrice Montini su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2022.

Il fenicottero avvistato il 10 marzo in Texas. Era fuggito nel 2005 da uno zoo del Kansas e se ne erano perse le tracce circa 4 anni fa. Ha 25 anni. 

Pink Floyd era già diventato una leggenda quando il 27 giugno 2005, in una notte di tempesta, era riuscito a fuggire dallo zoo di Wichita, in Kansas. Una fuga resa possibile dal fatto che a 492 (questo è il numero sulla fascetta di riconoscimento che gli era stata messa su una zampa) non erano ancora state tagliate le ali, pratica usata negli zoo (con metodi diversi) proprio per impedire a questi splendidi volatili migratori di andarsene.

Secondo i funzionari dello zoo 492, anche grazie al forte vento di quei giorni, era riuscito a volare verso sud. Mentre dell'altro fenicottero che era sparito quella notte insieme a lui (il suo numero era 347) non si era saputo più nulla, di Pink Floyd c'erano stati diversi avvistamenti nel corso degli anni. In Texas, Wisconsin, Louisiana dove era stato segnalato mentre girellava insieme ad altri volatili selvatici. «Ogni due anni girava la voce di un avvistamento lungo la costa del Golfo - hanno raccontato dallo zoo - ma il Texas è sempre stato il suo posto preferito».

Così 492 era diventato una vera star per gli appassionati di bird watching soprattutto quando aveva iniziato a fare coppia con un altro fenicottero, Hdnr, anche lui - si legge nelle cronache locali- fuggito da uno zoo dello Yucatan. Ma da quattro anni gli avvistamenti erano cessati. Gli esperti erano certi che l'animale fosse morto.

Invece 492 aveva ancora qualche sorpresa per noi umani. Ed eccoci alle ultime news. Come scrivono i media Usa, Pink Floyd è stato ripreso in un video girato il 10 marzo scorso vicino a Port Lavaca, in Texas. I funzionari ambientali della zona sono certi che si tratti di lui proprio per la fascetta con il numero . Nel video 492 zampetta sulla sabbia circondato da altri uccelli marini. Tranquillo e - probabilmente - felice.

Lo zoo non ha mai cercato di ricatturarlo, troppo difficile e pericoloso per lui e gli altri animali selvatici. E poi Pink Floyd la libertà se l'è certamente guadagnata.

Si stima che abbia 25 anni. Questi animali, da liberi, possono arrivare fino a 50.

Fasano, otto daini in fuga dallo zoo Safari: scattano le ricerche.  Non si tratta di animali aggressivi per l’uomo, l'appello della struttura ai cittadini: «Se li avvistate chiamateci». La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Aprile 2022.

Otto daini sono fuggiti oggi pomeriggio dallo Zoosafari di Fasano.

Lo ha comunicato la direzione della struttura che sta monitorando la situazione. Tutte le forze dell’ordine sono state allertate così come prevede il piano per la sicurezza in casi simili. I veterinari e il personale dello zoo, coordinati dal direttore della sicurezza Cosimo Tasco, hanno pattugliato per ore tutta la zona per cercare gli animali e riportarli nei recinti. Le ricerche sono state sospese poco fa perché il buio non consente di procedere, ma riprenderanno domani mattina alle prime luci del giorno con l’ausilio dei cani.

I daini sono fuggiti da un’apertura nella rete di recinzione creata probabilmente da ladri a caccia di pecore. Ad accorgersi della fuga è stato il guardiano nella consueta ronda pomeridiana che ha allertato subito la direzione.

Si precisa che i daini non sono animali pericolosi, non sono aggressivi e non attaccano l’uomo. Raccomandiamo però agli automobilisti attenzione e cautela per evitare incidenti. Invitiamo i cittadini che dovessero avvistare i daini a contattare lo Zoosafari al numero 0804414455. Ecco le foto degli animali in fuga dalla cattività.

(ANSA l'1 aprile 2022) - La polizia colombiana ha localizzato e sequestrato ieri nell'aeroporto internazionale di Bogotà, in Colombia, un contenitore di plastica contenente 143 tarantole del tipo conosciuto come Mygalomorphae, che stava per essere imbarcato su un aereo cargo diretto a Città del Messico. Lo ha reso noto Radio Blu. 

E' stata la stessa compagnia che aveva ricevuto l'incarico di spedire il grosso pacco, a richiamare, dopo l'esame con uno scanner, l'attenzione degli agenti della divisione ambientale della polizia, che hanno provveduto alla sua apertura. L'ispezione ha permesso di appurare che, insieme ad una grossa scatola di scacchi che copriva il tutto, erano state sistemate confezioni di plastica e di vetro di varie dimensioni con all'interno numerosissimi variopinti ragni.

Gli agenti, precisa l'emittente, hanno quindi proceduto ad un censimento del contenuto, giungendo alla conclusione che si trattava di 131 tarantole vive, e 12 già morte per le approssimative condizioni di aerazione dell'imballaggio. Dopo aver verificato che la documentazione allegata alla spedizione non conteneva le autorizzazioni per l'esportazione dei ragni, hanno aperto un'indagine per risalire al mittente, e successivamente ai destinatari del pacco.

Nell'ultimo anno, ha reso noto l'assessorato all'Ambiente di Bogotà, sono stati sequestrati nell'aeroporto cittadino 19.943 animali che si cercava di esportare illegalmente, fra cui 5.165 uccelli, 11.625 rettili e 3.153 mammiferi.

Diana Romersi per il “Corriere della Sera” il 30 marzo 2022.

«Passo le notti nel furgone per proteggere le mie pecore», racconta Massimiliano Cesari, 46 anni, pastore da sempre. Lungo i campi collinari del parco di Veio, in zona Giustiniana, a ridosso del Grande raccordo anulare le visite dei predatori si fanno sempre più frequenti.

«Negli ultimi due mesi abbiamo avvistato i lupi almeno dieci volte, anche branchi da cinque animali, l'ultima sortita c'è stata sabato scorso», dice Cesari mentre mostra il furgone allestito per la notte. La coperta a scacchi grigio-arancione è piegata sul cruscotto, vicino al cuscino prestatogli dal figlio: «Mi ha detto "Papà così stai più comodo", ma si può fare questa vita? Se non si troverà una soluzione dovrò chiudere».

Poco distante dal gregge, nel cono d'ombra del fondo valle, sembra che qualcuno si sia divertito a farlo a brandelli un cuscino. «Ecco cosa rimane», dice il pastore sollevando il campanaccio di ferro estratto da un batuffolo di lana. L'allevamento conta 2mila ovini allevati allo stato semi-brado, come vuole la filiera d'eccellenza italiana.

Qui si produce latte per il pecorino romano Dop (Denominazione di origine protetta) e agnello Igp (Indicazione geografica protetta). «Le reti anti-lupo funzionano per piccoli appezzamenti di terreno, non su 300 ettari di pascolo», spiega il pastore. Anche i cani non sono sempre la soluzione: «Il gregge è diviso in più gruppi e ne rimane sempre qualcuno scoperto, i cani non sono radiocomandati».

Cesari racconta che da novembre 2019 le pecore uccise dai lupi sono state almeno 50.

«Ma saranno di più - dice - Cinquanta sono gli esemplari ritrovati con segni evidenti dell'aggressione». Poi ci sono i «danni collaterali», che sono i più ingenti: «Le pecore che vivono lo stress dell'attacco producono meno latte, ci vogliono 15 giorni per ritornare alla normalità».

E se il lupo torna prima, si ricomincia daccapo. «In passato una pecora mi produceva in un anno fino a 3 quintali e mezzo di latte, adesso la media è scesa a 2 quintali e mezzo». Conti alla mano la perdita economica annuale «si aggirerebbe intorno ai 150mila euro». «Purtroppo sono numerosi gli allevatori dell'hinterland romano costretti a prendere provvedimenti estremi, come quello di dormire in auto, per proteggere il gregge», spiega Niccolò Sacchetti, presidente Coldiretti Roma.

Il Lazio è la seconda regione italiana per latte prodotto, dopo solo la Sardegna. Gli allevamenti ovinocaprini registrati nel territorio regionale risultano oltre 10mila. «Servono dei provvedimenti urgenti per ripristinare una situazione di normalità e tutelare prodotti di pregio. In un momento così delicato per il settore agricolo, ulteriormente gravato dopo la pandemia anche dalle ripercussioni del conflitto in Ucraina, abbiamo il dovere di tutelare il Made in Lazio». A farsi portavoce delle aspettative dei colleghi è lo stesso Cesari: «Non vogliamo che i lupi vengano abbattuti - chiarisce l'allevatore - ma solo che il problema venga gestito adeguatamente, cosa che al momento non accade, come succede per i cinghiali».

Rachele Turina per “Libero Quotidiano” il 27 Febbraio 2022.

Quando il nostro cane muore, sprofondiamo in una sofferenza inconsolabile. Ma, se di cani ne abbiamo due, l'altro soffre insieme a noi e, forse, più di noi. Nel 1969 la psichiatra Elizabeth Kübler Ross formulò le cinque fasi di elaborazione del lutto negli uomini: lo neghiamo, ci arrabbiamo, lo sopprimiamo, ci deprimiamo e, finalmente, lo accettiamo. 

Come reagiscono, invece, i nostri amici a quattro zampe alla perdita di un loro simile? Se lo sono chiesti Federica Pirrone, ricercatrice di Etologia Veterinaria dell'Università degli Studi di Milano, e il suo gruppo di studio, che hanno intervistato, in collaborazione con l'Università degli Studi di Padova, oltre 400 individui a cui era morto un cane, mentre in casa ne viveva almeno un altro. E i risultati mettono a tacere gli scettici: l'animale a quattro zampe prova, come noi, sentimenti.

«Quasi il 90% degli intervistati ha osservato cambiamenti negativi nel comportamento del cane sopravvissuto dopo la morte dell'altro cane», spiega Pirrone, «specialmente se i due animali erano legati da una relazione particolarmente amichevole o, addirittura, genitore-figlio». 

Nei fatti, la solitudine del cane, abbandonato dal compagno di giochi, si traduce in uno stato generale di apatia, che si protrae fino a sei mesi.

«Stando ai racconti dei proprietari, i cani, nei giorni successivi alla perdita, avanzavano il cibo nella ciotola, giocavano di meno e trascorrevano la maggior parte del tempo a sonnecchiare», continua Pirrone, «perdendo l'amico con cui condividevano giochi e pisolini, quindi una figura di riferimento sociale, i cani in questione avevano interrotto una serie di attività routinarie. E proprio queste alterazioni a livello comportamentale sottintendono una sofferenza nell'animale». 

L'indagine non si è limitata a un'analisi comportamentale del soggetto, ma si è inoltrata nella sfera delle emozioni: l'animale, orfano del compagno, manifesta paura.

«Dopo la morte del compagno, i cani sono apparsi impauriti», prosegue Pirrone, «sul cambiamento emotivo, a differenza di quello comportamentale, potrebbe aver pesato lo stato emotivo del padrone: il livello di paura era maggiore nei cani i cui proprietari mostravano segni più evidenti di sofferenza, rabbia e trauma psicologico in seguito alla morte del proprio animale». 

I risultati non lasciano spazio a dubbi: i cani soffrono, al pari dell'uomo, per la perdita di un componente della loro specie.

«Siamo abituati a pensare che gli animali non abbiano una coscienza e non provino sentimenti», sottolinea Ines Testoni, direttrice del Master Death Studies & The End of Life dell'Università di Padova, «ma le nostre ricerche hanno già mostrato come tra caregiver e animale da compagnia si instauri un legame di attaccamento e che questo può influenzare il comportamento del cane sopravvissuto». 

Quella coordinata da Pirrone è solamente la seconda fase di uno studio ben più articolato, che, per la prima volta nella ricerca scientifica internazionale, indaga contemporaneamente il lutto nell'animale e nel suo proprietario.

«In un primo momento abbiamo esaminato la reazione nel padrone, sottoponendolo a un questionario», precisa Pirrone, «il terzo step, invece, sarà l'osservazione diretta del proprietario e del suo animale, con l'obiettivo di ottimizzarne la risposta». 

Sì, perché il fine della ricerca è pratico: imparare a prevenire il tracollo, emotivo e comportamentale, del proprio pet, e, in caso, essere in grado di gestirlo. 

«È importante capire come aiutare l'amico a quattro zampe che subisce una perdita, imparando a riconoscere i sintomi della sua sofferenza e supportandolo» spiega la ricercatrice.

A quel punto, il padrone, che sta soffrendo a sua volta perla morte del cane, è chiamato a uno sforzo in più, quello di dimostrare affetto all'animale sopravvissuto, condividendo con lui attività ludiche e armandosi di pazienza. 

«Bisogna mantenere il più possibile inalterata la sua routine di pasti e uscite a spasso», chiarisce Pirrone, «siamo tenuti a mettere in atto tutta una serie di precauzioni, perché il benessere del nostro cane dipende da certo senso di prevedibilità e certezza che non possiamo fargli mancare».

David Leavitt per “La Lettura – Corriere della Sera” il 27 Febbraio 2022.

Sei settimane fa a Toby, il nostro adorato Bedlington terrier, è stata diagnosticata una massa tumorale nell'addome con metastasi ai polmoni. Dato che Toby ha nove anni e il cancro è in uno stadio così avanzato, abbiamo deciso di risparmiargli un'operazione e la chemioterapia e passare direttamente alle cure palliative.

Ci è stato detto che sarebbe morto nel giro di poche settimane, forse di giorni. Mentre sto scrivendo, sta bene, molto meglio rispetto al momento della diagnosi. Come percepisci il tempo? Percepisci il tempo? Pensi di doverci proteggere? Pensi che siamo noi a dover proteggere te? Se la tua risposta è sì a entrambe le domande, questo ti provoca angoscia esistenziale? 

Quando andavamo allo stagno a vedere le anatre e tu abbaiavi, come le vedevi? Come amiche? Nemiche? Prede? (Di solito tu gli uccelli non li guardi nemmeno). E ora che le anatre sono partite e nello stagno non ce ne sono più, senti la loro mancanza?

Perché abbai quando l'automobile di un estraneo si ferma nel vialetto di casa, ma quando è la mia macchina a fermarsi nel vialetto non abbai? È perché riconosci il rumore del motore della mia macchina? O perché la mia macchina ha un odore tutto suo? 

È per il ritmo dei miei passi quando mi avvicino alla porta? Cosa ti passa per la testa quando senti le parole «giro in macchina»? Cosa ti passa per la testa quando senti la parola «bocconcino»?

Perché quando sei nel nostro letto, dormi rivolto nella direzione opposta rispetto a noi? Come hai fatto a scoprire come si apre la maniglia della porta del bagno? Perché bevi l'acqua dal water anziché dalla tua ciotola? Pensi che il water sia una fonte? 

Come fai a sapere quando manca un'ora al momento della pappa? Lo capisci dalla luce che cambia? Dal mio umore che cambia? Dalla posizione del sole e della luna che cambia? Com'è per te la sensazione di fame? 

Perché sradichi sempre i gigli? È qualcosa che ha a che fare con i gigli in sé? È qualcosa che ha a che fare con il cane che c'è dall'altra parte della recinzione accanto a cui sono piantati i gigli? È qualcos' altro? Capisci che la mia mente è dentro la testa?

Mi consideri assurdamente lungo? Ti consideri più proporzionato di me? Come percepisci l'età? Sai quanto sei invecchiato rispetto alla prima volta che ci siamo visti? Sai quanto sono invecchiato io rispetto alla prima volta che ci siamo visti? 

Capisci che siamo destinati a invecchiare a velocità diverse? Ti confonde il fatto che, dopo essere stato più giovane di me per tutta la vita, adesso ti ritrovi a essere più vecchio di me? Ti sembro tragico? Comico? Volgare? Intelligente? Indolente? Noioso? Poco collaborativo? Affettuoso? Negligente? Patetico? Capisci cos' è la morte?

Capisci che tra chi hai conosciuto, ci sono persone che rivedrai e altre che non vedrai più, in certi casi perché sono morte? Quando hai ucciso quello scoiattolo, hai capito di averlo ucciso? 

Quando hai strappato dal tuo scoiattolo-giocattolo il meccanismo che produceva il suono, hai capito di non averlo ucciso? Ricordi tua madre? Perché quando c'è un temporale vai sempre a nasconderti dietro la sedia sul lato destro della stanza e mai dietro a quella che c'è a sinistra?

Cosa pensi quando vedi un altro cane? Dipende dal cane? Se sì, da quale aspetto del cane dipende se lo considererai un amico o un nemico? Ho ragione a supporre che non ti piacciano i cani neri? Questo fa di te un razzista? 

La prima volta che hai tirato fuori la soletta da una mia scarpa e l'hai lanciata all'altro capo della stanza, ti sei divertito a farlo? È perché quella prima volta ti sei divertito così tanto che da qual momento in poi l'hai fatto altre centinaia di volte? È corretto che io chiami «gioco» quel tuo tirare fuori le solette dalle mie scarpe? Posso dire agli altri: «Il mio cane si è inventato un gioco?». Perché tiri fuori le solette solo dalle mie scarpe sinistre?

Secondo te perché sogno spesso di fare le valigie all'ultimo momento? Perché spesso in quei sogni tu sei una delle cose che devo mettere in valigia? Perché in quei sogni quando salgo sul taxi per l'aeroporto, all'improvviso mi ricordo di essermi dimenticato di prendere qualcosa? Perché in quei sogni sei così spesso tu la cosa che ho dimenticato di prendere?

Perché nei miei sogni l'aeroporto è sempre Malpensa? Perché quando mi sveglio da quei sogni e ti vedo dormire accoccolato accanto a me, mi sento addolorato? Tu cosa sogni? Capisci cosa vuol dire «abbastanza»? Capisci cosa vuol dire «troppo»?

Capisci di essere malato? La prospettiva della tua morte ti spaventa quanto spaventa me? Come farò a vivere senza di te? (traduzione di Fabio Cremonesi) 

Aiutiamo i coguari ad attraversare l'autostrada. Simone Porrovecchio su La Repubblica il 22 Febbraio 2022.

Il primo “Ponte verde” della California sarà finito nel 2024. Altri sorgeranno in Canada e Tanzania. Servono al transito delle specie selvatiche. E a evitare i troppi incidenti.  

È rarissimo incontrare un lupo in California. Nella contea di Los Angeles l'ultimo esemplare è stato ucciso nel 1922. Per questo l'anno scorso l'avvistamento di un giovane lupo grigio a soli quaranta chilometri dai grattacieli di Downtown ha appassionato ambientalisti, ricercatori e giornalisti che da mesi ne monitoravano gli spostamenti attraverso un collare Gps applicatogli alla nascita in un parco dell'Oregon, dove era nato un anno prima.

Da lastampa.it il 22 febbraio 2022.

Finnegan, «un cane noto per il suo olfatto esemplare», ha ricevuto un “obituary” (in italiano “coccodrillo”, ossia un lungo necrologio scritto da un redattore in forma di articolo giornalistico) sul New York Times: «Loro, come noi, hanno vite che meritano di essere ricordate», ha scritto Alexandra Horowitz, la sua padrona, che è anche titolare di un Dog Cognition Lab al Barnard College, il 'braccio' femminile della Columbia University. 

A differenza della stampa italiana, dove il ricordo postumo delle personalità trova posto nelle sezioni del giornale di cui sono state protagoniste, nel mondo anglo-sassone, esiste una vera e propria pagina dei necrologi: una "Spoon River' di ritratti scritti da giornalisti specializzati che dedicano le loro giornate a fare esclusivamente questo. Finnegan, morto a New York a 14 anni, però era un cane. Scrivendone l'obit per la pagina delle opinioni, la Horowitz ha approfittato della circostanza per farsi paladina di una causa.

«La sezione Obit non pubblica ritratti di animali a dispetto del fatto che un necrologio è la commemorazione di una vita e anche gli animali hanno vite», scrive la psicologa canina, e cita l'opinione di William McDonald, il responsabile degli obit, secondo cui «sarebbe incongruo vedere la storia di un animale accanto a quella di uomini e donne che hanno vissuto vite esemplari». 

Questa è una "assurdità" che la Horowitz vorrebbe corretta: «Nel 18esimo secolo la parola 'obituary' era applicata a qualsiasi morte. I giornali dell'Ottocento erano pieni di necrologi di cani». Anche il 'New York Times' ne ha pubblicati tanti, come notizie pero', anche se nel formato sempre più simili all'obit di una persona, con l'età, causa della morte, breve biografia e i motivi della fama: come per Gus, l'orso di Central Park o Laika la prima cagnolina a volare nello spazio.

«La realtà - commenta la Horowitz - è che, nell'esaltare l'importanza della vita umana sopra quella degli altri animali, l'obit di un cane ai più sembra grottesco». Possono cambiare le cose? L'opinione della psicologa dopo tutto è stata pubblicata con ampio risalto, accanto a quelle sull'Ucraina e la politica interna a stelle e strisce. Il terreno è fertile in un momento in cui la 'pet economy' sta attraversando un boom. Negli Usa sei famiglie su dieci hanno un animale da compagnia, ma il Covid ha accelerato il fenomeno, le adozioni sono raddoppiate e i prezzi dei cuccioli da allevamento sono alle stelle a causa della richiesta del mercato.

I millennials coccolano i loro animali domestici come bambini e spendono su di loro una parte crescente dei loro guadagni. Ed ecco dunque il perché l'obit di Finnegan, che veniva riconosciuto per strada come una star dopo esser apparso in trasmissioni televisive, secondo la Horowitz non dovrebbe apparire una stranezza: «Gli obit indicizzano i valori della nostra cultura, e in questa cultura abbiamo sempre più imparato a valorizzare la vita non umana».

M.R. per "Libero quotidiano" il 22 febbraio 2022.

A Livorno c'è un assassino seriale di gatti. O forse più di uno. Gente che si diverte a fare razzia di meravigliosi felini per il gusto di vederli soffrire. E morire. Fregandosene della sofferenza degli eventuali proprietari, per non parlare di quella inflitta agli stessi animali colpevoli non si sa bene di quale reato. Fatto sta che in poco meno di un anno, dieci mesi per la precisione, dalla città toscana ne sono spariti ben cinquanta. Di loro non si sa più nulla. 

Un mistero che ha spinto l'associazione dei veterinari ad assumere addirittura una criminologa per studiare il profilo del criminale o dei criminali di gatti, perché proprio nessuno è riuscito a venire a capo di un mistero che ha tutti i contorni di una trama di un film dell'orrore. Soltanto che nemmeno scomodando un professionista si è riusciti a mettersi sulle tracce di chi si diverte a far sparire i felini.

E non si è fatto vivo nemmeno qualcuno a trasmettere dei particolari, ad indicare delle piste da seguire agli inquirenti, per sbrogliare la matassa. Così, è scesa in campo l'Aidaa, l'Associazione italiana difesa animali ed ambiente, che in un primo momento ha offerto un contributo di 3mila euro a chi avesse fornito informazioni utili. Ma ancora niente. 

Per questo la ricompensa adesso è passata da 3mila a 5mila euro a favore di chi «aiuterà ad individuare e denunciare alla pubblica sicurezza e con la propria testimonianza far condannare in via definitiva i responsabili di questi crimini». «Sappiamo che quello delle ricompense è un metodo piuttosto crudo», fanno sapere dall'Aidaa, «ma non non vogliamo agire fuori dalla legge, anzi con questa iniziativa vogliamo invogliare la gente che sa a parlare.

Non accettiamo segnalazioni anonime ma prendiamo in considerazione quelle segnalazioni che porteranno alla condanna definitiva di questi criminali. La gente», proseguono dall'Associazione animalista e ambientalista, «dovrebbe andare a denunciare per senso civico, ma a volte una piccola ricompensa può aiutare a sciogliere le lingue, e qui siamo di fronte a un crimine che non può e non deve restare impunito».

Il gatto è tra gli animali domestici più amati e si calcola che ce ne siano 7,3 milioni "ospiti" presso le famiglie italiane e quindi, a tutti gli effetti, considerati animali domestici, anche se non tutti iscritti all'anagrafe degli animali da affezione, alla quale ne risultano appena 600mila. Ci sono poi i gatti randagi, il cui numero esatto è difficilmente misurabile. La somma di quelli censiti dalle Asl e dalle associazioni di volontariato ci consegna qualcosa come 3,6 milioni, mentre si stia che siano almeno il doppio. Animali gestiti spesso dai volontari, dai gattari e dalle gattare, che dedicano buona parte del proprio tempo all'assistenza e alla cura dei randagi.

Miriam Romano per "Libero quotidiano" il 15 febbraio 2022.  

Il trucco è sempre lo stesso. Come esche fotografie di cuccioli dalle zampe tozze e musi dolci. Cagnolini spacciati per esemplari rarissimi in modo da spillare più quattrini possibile a facoltosi proprietari. Su siti costruiti ad hoc spiccano soprattutto le immagini dello Spitz nano di Pomerania, razza ricercatissima, quattro zampe molto di moda tra i vip in cerca dei cani più singolari. Quello con le ciglia bianche o con il contorno delle zampe più pronunciato. 

 Dettagli che renderebbero i cani in questione ambiti tra gli amatori. Ma è tutta una truffa. Dietro siti internet ben costruiti con tanto di descrizioni minuziose e fotografie realistiche, ci sono trafficanti di cuccioli dell'Est che hanno negli anni ingannato centinaia di persone. I truffatori hanno la stessa trafila: importano animali da compagnia che vengono venduti come esemplari di razza. 

In realtà hanno i pedigree falsi e le certificazioni veterinarie fatte da medici senza scrupoli che attestano falsamente la buona salute del cucciolotto. Dietro le immagini patinate divulgate sul web, si nascondono storie intricate di cani maltrattati. Cuccioli svezzati troppo presto dalle madri per essere venduti il prima possibile. Quattro zampe costretti a vivere in luoghi angusti, con porzioni risicate di acqua e di cibo. Ma soprattutto cani "creati" appositamente, attraverso incroci di razze illegali. I bersagli dei truffatori sono vip, calciatori e profani della cinofilia. 

Il cliente acquista attraverso il web un cucciolo di razza, sborsando fino a quattromila euro, per poi ricevere un meticcio creato da incroci fuorilegge, destinato ad avere vita breve. A "cascarci" negli anni scorsi calciatori come Totti, Nainggolan, Zaza, Sorensen e Pussetto. Ma dopo centinaia di truffe segnalate, i trafficanti sono stati acciuffati. Sui tavoli della giustizia pendevano denunce di persone che avevano acquistato "Chihuahua", "Bulldog francesi" ed esemplari di volpino nano. 

Così tre procure italiane hanno aperto un'inchiesta internazionale sul traffico di cuccioli gestito dalle zoomafie che operano tra Slovacchia, Ungheria e Italia. Le indagini dei carabinieri della forestale sono partite da più di un anno dalla procura di Ravenna e a macchia d'olio sono arrivate anche alle procure di Roma e Milano. Gli indagati, per ora, sono due: un romano di 41 anni e una ungherese di 38. Maltrattamenti di animali, truffa, frode in commercio, traffico internazionale e violazione della normativa sulla tracciabilità animale le accuse nei loro confronti.

 Spacciandosi per allevatori sui social e su siti, sono riusciti a convincere i clienti che il cucciolo che stavano comprando era una variante molto rara della razza, ottenuta attraverso manipolazioni genetiche quindi dal costo elevato. In realtà si trattava di un cane con gravi malformazioni, malattie genetiche e nella maggior parte dei casi con un'aspettativa di vita di pochi mesi.  

All'arrivo dell'animale i "truffati" si sono trovati un cane che non solo non assomigliava a quello indicato e che avevano scelto, ma che a pochi giorni di distanza dall'acquisto l'animale era morto, davanti ai loro occhi. «Purtroppo, è una realtà che c'è da molti anni», spiega il veterinario Gino Conzo, «ci capita di imbatterci in cani affetti da malattie congenite con i proprietari convinti di aver acquistato invece una razza forte e non soggetta a patologie. Il mio consiglio? Non andare alla ricerca dell'esemplare raro, ma di un cane di cui prendersi cura». 

Australia, un investimento da 35 milioni di dollari per proteggere i koala. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.

Dal 2018 sterminato il 30% degli animali per incendi e malattie. L'Australia investirà 35 milioni di dollari nei prossimi quattro anni per tutelare i suoi koala, come annunciato dal premier Scott Morrison. «I koala sono una delle icone più amate e riconosciute del nostro Paese, sia qui che in tutto il mondo e vogliamo impegnarci a proteggerli per le generazioni a venire», ha dichiarato spiegando che il fondo speciale sarà utilizzato per «ripristinare l'habitat approfondire la conoscenza e rafforzare la ricerca sulla salute dei koala».

Dal 2018, circa il 30% dei koala australiani sono stati sterminati da incendi boschivi, siccità e disboscamento, secondo l'Australian Koala Foundation. In particolare la popolazione di koala in Australia ha subito gravi perdite in occasione degli incendi del 2019 , che hanno distrutto più di 12 milioni di acri di terra solo nel New South Wales. Inoltre, di recente i koala australiani sono minacciati dalla diffusione della clamidia, una malattia a trasmissione sessuale che può causare cecità e cisti nell'animale con conseguenze che vanno dall'infertilità alla morte.

Il koala è definito «vulnerabile» dall'Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (Iucn), che cataloga le specie a rischio di estinzione: «Ci sono tra i 100mila e il mezzo milione di koala in natura, ma per l'Australian Koala Foundation afferma che sono circa 58mila».

Natale Costa per “il Venerdì di Repubblica” il 15 febbraio 2022.

Sarà difficile trangugiare allo stesso modo un bicchiere di latte dopo aver visto Cow, film di Andrea Arnold in streaming su Mubi l'11 febbraio dopo la première al festival di Cannes. Il ragionamento attorno alla figura femminile imprigionata e sfruttata dei precedenti Fish Tank e American Honey si approfondisce qui nel suo primo documentario, in cui descrive la vita di Luma, mucca da latte che sopporta suo malgrado la routine imposta dagli sfruttatori umani: una vita di gravidanze ripetute per fornire vitelli e ricche mungiture, inframmezzate da forzati accoppiamenti. 

«Ho iniziato a ideare questo film otto anni fa» racconta la regista «pensando al rapporto profondo con la natura che ho sin da quando ero una bambina abituata a stare all'aperto e a contatto con gli animali, perché mio padre ne portava a casa sempre uno nuovo: un cane, un gatto, una pecora dal mercato e così via. Anche noi siamo animali e volevo risvegliare questa consapevolezza e anche far riflettere sul rapporto con gli altri animali che usiamo a nostro beneficio. E ho scelto una vacca da latte perché la sua è una vita di duro lavoro che mi ha fatto pensare al ruolo delle donne». 

La regista ha scelto di assumere il punto di vista dell'animale, osservando l'ambiente attraverso gli occhi di Luma. «La mia direttrice della fotografia Magda Kowalczyk è entrata nel recinto con una cinepresa a mano e si è trasformata letteralmente in una mucca per raggiungere un rapporto di intimità con gli animali. Ho scelto di concentrarmi su una fattoria normale, né troppo grande come quelle industriali né idealizzata come le vediamo in certi film, e poi ho scelto i fattori più disponibili a permetterci di passare a trovare e filmare Luma lungo un arco temporale di quattro anni». 

La natura del documentario permette di entrare in contatto con l'animale, che si trasforma da mera comparsa a individuo, ad esempio di fronte a scene come la cura del vitello susseguente al parto e lo strazio per la successiva separazione forzata: «Dal di fuori le vacche sembrano tutte uguali», spiega Arnold «ma in realtà non è così: abbiamo scelto Luma anche perché ce l'avevano descritta come particolarmente esuberante. Così mi sono affidata a lei e sono stata ampiamente ripagata dalla sua spiccata personalità». 

Tommaso Rodano per il "Fatto quotidiano" il 14 febbraio 2022.  

Certi gatti fanno giri immensi e poi ritornano. Ashes, il felino di una famiglia del Maine (Usa) è tornato a casa dopo sei anni e un peregrinare di oltre 2mila chilometri, secondo il Guardian. "Denise Cilley, di Chesterville, ha detto di essere rimasta scioccata nel ricevere un messaggio vocale la scorsa settimana in cui le veniva annunciato che il suo gatto, Ashes, era stato localizzato in Florida. 

Ashes era scomparso nel 2015 durante una festa per il decimo compleanno di sua figlia". La famiglia di Ashes, nel frattempo, si era comprensibilmente rifatta una vita: "L'hanno cercato per un po' e hanno purtroppo concluso che probabilmente era stato vittima di un predatore", ha detto Janet Williams, l'amica di famiglia che aveva preso la custodia temporanea del gatto in Florida. Lo studio di un veterinario ha confermato l'identità del felino, grazie al microchip impiantato quando era cucciolo. Come sia arrivato in Florida rimane un mistero. 

Silvia Morosi per corriere.it il 12 febbraio 2022.

Dal 2016 un coccodrillo si aggira nelle acque intorno alla città di Palu, nell'isola di Sulawesi (in Indonesia), con una ruota da moto incastrata attorno al collo. Le autorità locali e alcuni residenti hanno cercato, più volte, di catturarlo temendo che crescendo, potesse rimanere soffocato. Per salvare l'animale — lungo più di 5 metri — era stato anche deciso di offrire una ricompensa a chiunque fosse riuscito a liberarlo. Anche Matthew Nicholas Wright, presentatore televisivo australiano ed esperto della specie, nel 2020 aveva tentato — senza successo — di bloccarlo e liberarlo.

Ora il coccodrillo, soprannominato «buaya kalung ban» («coccodrillo con una collana di pneumatici») è stato liberato da Tili, un 35enne del luogo. «Ho catturato il coccodrillo da solo. Stavo chiedendo aiuto alle persone qui, ma erano spaventate», ha detto l'uomo come riportato dalla Reuters , che ha seguito il rettile per tre settimane e ha messo a punto una trappola con polli e anatre come esca. Dopo due tentativi, è riuscito a portare a riva il coccodrillo — legandolo con delle corde e facendosi aiutare da alcune persone del luogo per portarlo a riva — e ha rimosso la gomma con una sega. «Non sopporto di vedere gli animali feriti e sofferenti».

Secondo le autorità qualcuno ha deliberatamente messo lo pneumatico intorno al collo del coccodrillo nel tentativo di catturarlo per tenerlo come animale domestico.

L'esemplare è un raro coccodrillo siamese (Crocodylus siamensis), originario del Sud-est asiatico, specie a rischio di estinzione: è classificato come «gravemente minacciato» di estinzione dall’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura (IUCN)

Shayla Amore per Vice.com il 9 febbraio 2022.

Nell'estate del 2018, un cucciolo di scimpanzé albino è stato avvistato nella riserva forestale di Budongo in Uganda, il primo ad essere visto in natura. Con la sua pelliccia bianca e la pelle pallida, lo scimpanzé provocò un'immediata eccitazione. Altri scimpanzé facevano chiamate d'allarme e "waa abbaia", rumori che di solito segnalano un incontro con un animale potenzialmente pericoloso. 

Il 19 luglio, scimpanzé adulti hanno ucciso il cucciolo. È stato un tragico incidente, ha ricordato Susana Monsó, filosofa dell'Universidad Nacional de Educación a Distancia di Madrid e autrice di Possum di Schrödinger . Ma ciò che ha trovato più sorprendente è stato il comportamento degli scimpanzé dopo la morte del cucciolo. 

Sebbene i primati avessero esibito richiami di paura quando l'albino era in vita, una volta morto, si sono fermati. Quindi gli si avvicinarono prontamente, ispezionarono la sua pelliccia e il suo corpo e gli pulirono la schiena.  

Per Monsó, che ha studiato se gli animali hanno un concetto di morte, questo incidente fornisce un indizio che gli animali hanno qualche idea che morte significhi, per lo meno, "non si muoverà più". 

"Quando hanno visto per la prima volta il cucciolo albino, si aspettavano che accadesse qualcosa di spaventoso", ha detto. “Poi, nel momento in cui è morto, non ne erano affatto spaventati. Ciò significa che le loro aspettative sono cambiate".  

Sappiamo che gli animali spesso si comportano in modi particolari verso i membri morti della loro stessa specie. I corvi si radunano ed emettono forti richiami. Scimpanzé nella foresta di Taï in Africa sono stati visti coprire cadaveri con rami frondosi. Nel 2015, quando una femmina di scimpanzé selvaggia è morta, il maschio con cui aveva avuto una relazione per tre anni e mezzo ha impedito ai giovani di avvicinarsi a lei mentre "eseguiva diversi comportamenti di contatto ravvicinato e di custodia". 

Alcune madri primati trasportano il corpo del loro cucciolo morto per giorni o settimane o mangiano parti del cadavere mummificato. Sono stati visti elefanti radunarsi, interagire o trasportare i corpi dei loro cuccioli. I delfini a volte tengono a galla cadaveri e nel 2011 una madre balena beluga ha portato il suo cucciolo morto per circa una settimana. 

Un campo chiamato tanatologia comparata documenta queste pratiche e confronta il modo in cui specie diverse interagiscono con la morte e il morente. In sospeso su questa ricerca ci sono domande più filosofiche: cosa significano veramente questi comportamenti? Gli animali agiscono in modo istintivo, ormonale e inconsapevole? Oppure, quando interagiscono con i loro morti, hanno un certo livello di comprensione del concetto di morte?

Quando si interpreta il comportamento animale, c'è sempre il rischio di antropomorfismo o di proiettare emozioni e pensieri simili a quelli umani su animali non umani. Ma potrebbero esserci ancora modi per sondare se gli animali hanno un concetto di morte con l'aiuto della filosofia, definendo cosa sia un concetto di morte come minimo e combinando osservazioni di animali allo stato brado con esperimenti in laboratorio. 

Imparare se gli animali possono afferrare tali concetti ci aiuterà a capire meglio le loro menti e potrebbe avere importanti implicazioni per il modo in cui li trattiamo. Ma alle prese con il concetto di morte è un fatto a lungo considerato solo umano. Dimostrare che anche gli animali possono comprenderlo, anche su scala più piccola, significherebbe che non siamo i soli ad affrontare la nostra mortalità. 

Non c'è niente di più umano che essere angosciato dalla morte o chiedere, come fece Lev Tolstoj: "C'è un significato nella mia vita che non venga distrutto dalla morte che inevitabilmente mi attende?"  

Ma dal mondo antico all'Illuminismo e in poi, filosofi e scienziati hanno avuto opinioni contrastanti sul fatto che condividiamo questo tratto con animali non umani, poiché avere un concetto di morte è legato a domande più ampie sulla coscienza animale.  

Aristotele pensava che gli esseri umani fossero diversi dagli altri animali perché abbiamo un'"anima razionale", mentre gli animali avevano "anime sensibili", che potevano rispondere alle impressioni sensoriali ma non hanno la capacità di pensiero razionale.  

Cartesio era meno generoso: credeva che gli animali fossero solo "meccanismi" o "automi", non molto diversi da un complesso orologio a cucù . "Non c'è nessuno che porti le menti deboli più lontano dalla retta via della virtù di quella di immaginare che le anime delle bestie siano della stessa natura della nostra", scrisse il filoso francese.

Il filosofo italiano Giambattista Vico ha scritto che un'usanza umana che separa gli esseri umani dagli animali è la sepoltura dei morti, il barone de Montesquieu ha scritto che gli animali possono soffrire la morte ma non sanno cosa sia, e Arthur Schopenhauer ha affermato che gli animali vivono nel presente e hanno cognizione della morte solo quando accade a loro, mentre gli umani ricordano il passato e anticipano il futuro con la consapevolezza della propria mortalità. Come scrisse Jean-Jacques Rousseau: "Un animale non saprà mai cosa significa morire, e la conoscenza della morte e dei suoi terrori è una delle prime acquisizioni che l'uomo ha fatto nell'allontanarsi dalla condizione animale".

"L'elenco continua nel 20° secolo con filosofi come Martin Heidegger, antropologi come Ernest Becker o biologi come Theodosius Dobzhansky che hanno fatto affermazioni simili", ha affermato André Gonçalves, ricercatore presso il Primate Research Institute dell'Università di Kyoto a Inuyama, in Giappone. "La storia di come gli animali rispondono alla morte è lunga, anche se dispersa e per lo più confinata alle note a piè di pagina, da Aristotele a Darwin fino ai giorni nostri". 

Questa storia probabilmente ha influenzato coloro che in seguito hanno osservato gli animali rispondere alla morte. Per la maggior parte del 20° secolo, comportamenti come il trasporto di un neonato morto sono stati visti come animali che non erano in grado di distinguere tra vivi e morti e non valeva la pena indagare. "Le scimmie non riconoscono la morte, perché reagiscono ai loro compagni come se questi fossero vivi ma passivi", scrisse la primatologa Solly Zuckerman nel 1932 . 

A causa di questo punto di vista, è stata prestata poca attenzione a ciò che gli animali hanno fatto con i loro morti fino al 2010 , quando una pubblicazione ha descritto la morte di una femmina di scimpanzé anziana. Gli esseri umani hanno osservato la cura pre-morte dello scimpanzé, altri scimpanzé che cercavano segni di vita al momento della morte, la figlia adulta dello scimpanzé femmina che stava con lei tutta la notte, il suo cadavere veniva pulito e, in seguito, il luogo in cui era morta evitato . 

"Senza simboli o rituali legati alla morte, gli scimpanzé mostrano diversi comportamenti che ricordano le risposte umane alla morte di un parente stretto", hanno scritto il professore di psicologia James Anderson e i suoi colleghi all'Università di Kyoto. “Gli esseri umani sono unicamente consapevoli della mortalità? Proponiamo che la consapevolezza della morte degli scimpanzé sia stata sottovalutata”. 

Negli ultimi 15 anni, il campo della tanatologia comparata ha preso sul serio questa indagine. (Nella mitologia greca, Thanatos era la personificazione della morte.) Si è concentrato sulla catalogazione su come gli animali rispondono alla morte, sul confronto tra le specie e sull'essere aperti all'idea che queste risposte non siano solo "automi".

Un documento del 2019 ha descritto come gli esseri umani abbiano rimosso un neonato macaco morto da sua madre, che ha poi visitato regolarmente il suo luogo di sepoltura per almeno due giorni. Gli scimpanzé sono stati osservati in quello che viene chiamato "silenzio sbalordito", quando i loro soliti rumori di chiamata cessano dopo la morte di uno scimpanzé.

Dopo la morte della femmina adulta di scimpanzé osservata da Anderson, scrisse : “Il giorno successivo, i tre scimpanzé sopravvissuti furono profondamente sottomessi. Dall'area diurna hanno guardato in silenzio come due guardiani hanno calato Pansy dalla piattaforma, l'hanno portata nel corridoio di uscita, l'hanno messa in un sacco per cadaveri e l'hanno caricata su un veicolo che è stato poi portato via. Rimasero sottomessi il giorno successivo mentre la zona notte veniva pulita”. 

Molti concordano sul fatto che le grandi scimmie mostrano compassione per i morenti, ma non è chiaro se abbiano una comprensione della morte. Molti tanatologi sono invece giunti alla conclusione opposta: che gli animali che osservano non hanno un concetto di morte. Come si chiedeva Charles Darwin in The Descent of Man: "Chi può dire cosa provano le mucche quando circondano e fissano intensamente un compagno morente o morto?"

"Ho una posizione semi-agnostica rispetto ad altre specie che hanno un concetto di morte", ha detto Gonçalves. “Gli animali sociali non umani non sono sempre del tutto indifferenti alla morte; hanno reazioni ed eseguono tutti i tipi di comportamenti che lo circondano, e penso che ciò meriti ulteriori indagini. "  

Comprendere il “concetto” di morte è diverso dal poter classificare o distinguere i morti dai vivi. Le formiche eseguono la "necroforesi", che è quando rimuovono le formiche morte dai loro nidi, il che significa che possono dire quali sono morte e quali sono vive. Ciò che le formiche rilevano non è il concetto di morte, ma una sostanza chimica chiamata acido oleico prodotta dalle formiche morte. È stato dimostrato che se metti acido oleico su qualsiasi oggetto nel nido, le altre formiche lo rimuoveranno. 

Altri animali hanno capacità di discriminazione simili, che non sono una comprensione concettuale. È qui che la filosofia può fornire una guida, secondo Monsó. Per chiedere se gli animali hanno un concetto di morte, è necessario innanzitutto definire quale sarebbe un "concetto minimo" di morte o quali sono i requisiti minimi che un animale dovrebbe soddisfare per poter concludere che sanno di cosa si tratta. 

Gli esseri umani hanno un concetto complesso di morte, appesantito dal bagaglio culturale e da una miriade di risposte emotive. Questo è parte del motivo per cui molti accademici potrebbero non credere che gli animali possano comprendere il concetto di morte, ha affermato Jennifer Vonk, psicologa comparata alla Oakland University. Non ci sono state molte prove che gli animali non umani possano rappresentare significati astratti e non osservabili.

Ma proprio come quando proviamo a valutare se gli animali possiedono una sorta di capacità di linguaggio o di comunicazione, non iniziamo chiedendoci se possono scrivere sonetti. Scomponiamo il linguaggio nelle sue parti fondamentali e ci chiediamo se gli animali hanno prima una comprensione cognitiva di quelle.

Monsó ha iniziato da studi di psicologia dello sviluppo in cui i bambini umani vengono intervistati sulla morte. Tali sottocomponenti della morte sono: non funzionalità, irreversibilità, universalità, mortalità personale, inevitabilità, causalità e imprevedibilità. 

Alcuni elementi, come l'inevitabilità e la mortalità personale, fanno certamente parte del concetto umano di morte, ma Monsó ha sostenuto che l'essenza di un concetto rudimentale di morte non ha bisogno di includerli. Al suo interno, ha proposto Monsó, sono fondamentali solo la non funzionalità e l'irreversibilità. Ciò significherebbe che un animale comprende che la morte rende un individuo non funzionale e che il suo non funzionamento è permanente.

Dagotraduzione dal Mirror il 7 febbraio 2022.

Dopo aver scoperto un enorme ragno peloso di 15 centimetri che si era sistemato sul cruscotto della sua auto l’australiano Chris Taylor ha deciso di adottarlo, e lo ha chiamato "Steve". 

Il 42enne responsabile della sicurezza ha permesso a Steve di vivere liberamente all'interno della sua auto per un anno intero, durante il quale il ragno ha raddoppiato le sue dimensioni.

Essendo ormai diventato abbastanza affezionato al suo clandestino a otto zampe, Chris non ha intenzione di mostrargli la porta a breve. «È apparso un giorno, circa un anno fa, sul cruscotto quando mi sono fermato al semaforo. Era solo circa la metà delle sue dimensioni ma l'ho visto crescere. L'ho fatto uscire dall'auto alcuni mesi fa, ma il giorno dopo era di nuovo sotto l'aletta parasole, quindi per qualche motivo gli piace stare nella mia macchina». 

Per fortuna, Chris non è generalmente troppo spaventato dai ragni. Ma ammette di non «apprezzare quando mi cade in grembo», un pensiero che senza dubbio farà rabbrividire gli aracnofobi ovunque. 

Inoltre, non è troppo entusiasta quando il suo compagno di guida «appare 10 cm sopra la mia testa sul cielo mentre guido a 120 km/h». 

«L'ho chiamato Steve, perché no? Ho visto che mi è stato detto, però, che è una femmina. Quando ho dei passeggeri in macchina spesso si spaventano o urlano. Steve è bravissimo a tenermi più vigile quando guido».

Anche se a Chris piace Steve, non direbbe ancora che sono i migliori amici. Tuttavia, ammette di essere più che felice di lasciarla a vivere nella sua macchina. Non solo per l'azienda, ma perché nessuno vuole più farsi un giro con lui, risparmiandogli un sacco di soldi. 

«La lascerò stare, sto risparmiando perché nessuno vuole più un passaggio. Mi piace ma non direi che siamo amici intimi. Sarei un po' triste se decidesse di andarsene. Guidare è molto più eccitante con lei lì dentro».

Da lastampa.it il 7 febbraio 2022.

Le autorità colombiane hanno deciso di inserire gli ippopotami, una specie non autoctona portata nel Paese dal narcotrafficante Pablo Escobar, nell'elenco delle specie invasive. Uno studio infatti ha mostrato i rischi ambientali causati dall'invasione di questa specie negli ecosistemi strategici, rischi che hanno un impatto anche su alcune specie locali come il lamantino.

Pablo Escobar importò quattro ippopotami, tre femmine e un maschio, da uno zoo degli Stati Uniti nel 1981: entrarono per far parte della collezione di animali esotici nella sua Hacienda Napoles ma ora si sono riprodotti senza controllo. La decisione annunciata dal ministero dell'Ambiente e' il primo passo per definire azioni concrete per far fronte alla situazione.  

Dagotraduzione dal Daily Mail l'1 febbraio 2022.

Un famoso cacciatore di serpenti indiano sta combattendo tra la vita e la morte dopo essere stato morso alla coscia da un cobra reale di 3 metri mentre cercava di metterlo in sicurezza. Vava Suresh, 48 anni, noto nello stato del Kerala dove è apparso in TV, stava effettuando un salvataggio nel vicino Tamil Nadu quando è stato morso. 

Il video scioccante girato da un locale mostra il momento in cui il cobra si è alzato e ha morso Suresh sulla coscia destra mentre cercava di metterlo in un sacco. Incredibilmente, è riuscito a finire di mettere il serpente nella borsa prima di perdere i sensi e di essere portato d'urgenza in ospedale, dove ora è in terapia intensiva. 

Suresh è stato inizialmente portato in una scuola medica privata a Kottayam, a breve distanza da dove è stato morso per la prima volta, ma lì è stato colto da un infarto. Dopo aver scoperto che il cuore funzionava solo al 20% del suo ritmo normale, i medici hanno deciso di trasferirlo in un ospedale più grande a Kottayam per un trattamento specialistico.

È stato tenuto lì durante la notte, con i medici che hanno detto martedì mattina che ha risposto al trattamento. Suresh è ancora privo di sensi e in terapia intensiva, ha riferito l'Hindustan Times , ma ha iniziato a respirare da solo. 

I medici hanno avvertito che ci vorrà del tempo prima che tutti gli effetti del veleno diventino evidenti e non è possibile dire se Suresh si riprenderà completamente. Nel corso di una carriera durata due decenni, Suresh afferma di aver salvato migliaia di serpenti e di essere stato morso centinaia di volte. 

Secondo l'Hindustan Times, aveva appena finito di riprendersi in ospedale da un altro morso di serpente quando lunedì è uscito per recuperare il cobra. Venerdì una famiglia nel villaggio di Kurichy aveva chiamato Suresh per riferire di un cobra che avevano trovato dormire vicino a una stalla abbandonata nella loro proprietà.

Suresh aveva detto alla famiglia che era "impegnato", ma si è offerto di uscire lunedì se il rettile si fosse trovato ancora lì.

I cobra reali sono serpenti altamente velenosi che iniettano una potente neurotossina usando brevi zanne attaccate alla mascella superiore. Sebbene il veleno in sé non sia particolarmente letale, i cobra reali hanno ghiandole velenifere più grandi di qualsiasi serpente, e possono iniettare grandi quantità di veleno, rendendolo fatale. 

Un cobra reale con ghiandole velenifere piene e abbastanza tempo per dispiegarle può iniettare abbastanza neurotossina in un morso da uccidere 20 persone o un grande elefante. La tossina agisce attaccando i nervi e il cervello, paralizzando i muscoli che controllano la respirazione e la frequenza cardiaca, portando in genere ad arresto cardiaco o asfissia in appena 30 minuti. 

L'unico trattamento noto consiste nell'iniettare il sito del morso iniziale con antiveleno il più rapidamente possibile.   Se non è disponibile alcun antiveleno, le vittime possono anche essere collocate su macchine per la respirazione fino a quando i loro polmoni non sono in grado di funzionare normalmente. 

Cristiano Tinazzi per "il Messaggero" il 27 gennaio 2022.  

È morto ieri in Georgia, all'età di 61 anni, Ozzie, il gorilla maschio più anziano del mondo. A darne notizia è stato lo zoo di Atlanta, dove l'animale - considerato una vera leggenda - viveva dal 1988, anno in cui venne inaugurata nella struttura la sua foresta pluviale africana (la Ford African Rain Forest). Le cause del decesso non sono ancora note, ma la morte di Ozzie arriva a pochi giorni da quella di Choomba, sua compagna di habitat, anche lei molto longeva: aveva 59 anni. 

I veterinari dello zoo hanno deciso di sopprimerla perché la sua salute era molto peggiorata e l'animale stava soffrendo troppo. Ozzie e Choomba vivevano insieme da più di 15 anni. Lui era l'unico membro rimasto della prima generazione di gorilla che erano arrivati ad Atlanta con l'apertura della foresta pluviale. «Nelle ultime 24 ore era in cura poiché presentava sintomi tra cui gonfiore facciale, debolezza e incapacità di mangiare o bere», viene spiegato nella nota dello zoo. 

Lo scorso settembre Ozzie aveva contratto il Covid, probabilmente da un custode del parco, insieme ad altri 12 gorilla, ed era stato vaccinato contro il virus. Ha avuto una vita lunghissima questo gorilla che viveva da decenni nello zoo di Atlanta ed era molto noto e amato: 61 anni corrisponderebbero quasi a 100 anni di un essere umano.  

La vita media di un gorilla infatti è di circa 40 anni. Se Ozzie ha vissuto così a lungo è perché non ha vissuto nel suo habitat naturale ma in cattività. I veterinari hanno fatto il possibile per salvarlo, ma purtroppo non hanno potuto far altro che constatarne il decesso. Per indagare sulle cause del decesso sarà fatta una necroscopia. 

La sua morte segna un profondo lutto per lo zoo di Atlanta. Il Ceo e tutti coloro che si sono presi cura dell'animale per anni hanno subito un brutto colpo. Ozzie faceva parte del lavoro e della vita quotidiana di tante persone, era un'icona dello zoo ed era amato dai visitatori. Non lascia solo i dipendenti del parco, ma anche tutta la progenie: la figlia Kuchi, i figli Kekla, Stadi e Charlie, la nipote Lulù, la pronipote Andi e il pronipote Floyd. 

Da tg24.sky.it il 23 gennaio 2022.

“Kefir viene spesso e volentieri scambiato per un cane” dice la russa Yulia Minina. Kefir vive a Stary Oskol (nella Russia orientale), ha 22 mesi, è un esemplare di Maine Coon e pesa quasi 13 chili. “Ha tutto il tempo di diventare ancora più grande” dice la sua padrona “perché, da quanto mi dicono, questa razza – conosciuta anche come ‘procione del Maine – cresce fino ai 3-4 anni di età”.

Le immagini

Le foto del singolare felino stanno facendo il giro del Web. La storia di Yulia e del suo gatto è stata ripresa per prima dal britannico The Sun ma anche il Daily Mail e il New York Post stanno dedicando spazio alla vicenda. “Questo gatto è grande come un cane e dolce come un bambino” continua ancora la ragazza. “E' molto intelligente e si comporta sempre bene.

Quando amici e conoscenti vengono a casa, tutta l’attenzione è per lui e si lascia accarezzare volentieri”. "Ha una precisa abitudine” chiosa Yulia. “Di notte gli piace arrampicarsi su di me e dormire. Quando era più piccolo non mi creava nessun problema, ma ora è diventato grosso e pesante e, ovviamente, mi è molto difficile dormire così”.

La razza Maine Coon

Fino alla scoperta della razza di gatti Savannah, negli anni '80, il Maine Coon era considerato la razza felina domestica più grande del mondo. Muscoloso e dal pelo lungo e folto, un esemplare maschile ha un peso medio di 8 chili mentre un esemplare femminile può raggiungere i 5 chili e mezzo, per una lunghezza (compresa la coda) di quasi un metro. 

Ed è proprio un esemplare di Maine Coon a detenere, dal 2018, il record di gatto più grande del mondo: il suo nome è Barivel, è lungo 120 centimetri, ed è residente a Vigevano, in provincia di Pavia. 

Da leggo.it il 22 gennaio 2022.

Un uomo di 49 anni, David Riston, è stato trovato morto nella sua abitazione nella Contea di Charles, in Maryland, dove viveva con almeno 124 serpenti di varie specie, anche velenosi. Secondo quanto riporta l'Independent, l'uomo  teneva i rettili in terrai su scaffali di metallo. 

Tra i serpenti trovati, alcuni dei quali sono illegali in Maryland, vi sono pitoni, serpenti a sonagli, cobra e mamba neri. La polizia ha avviato un'indagine sulla morte dell'uomo, ma non ritiene che si tratti di omicidio. 

David Riston è stato trovato morto nella sua casa di Pomfret mercoledì sera, circondato dai suoi animali in gabbia, alcuni dei quali sono così pericolosi che è illegale tenerli come animali domestici negli Stati Uniti.

Non è ancora chiaro come sia morto e gli investigatori devono ancora dire se uno dei serpenti possa aver ucciso Riston. I deputati dello sceriffo della contea di Charles sono stati chiamati in una casa nell'isolato 5500 di Rafael Drive a Pomfret intorno alle 18:00 mercoledì sera dopo aver ricevuto una chiamata ai servizi di emergenza da un vicino, che ha detto di essere andato a controllare il proprietario della casa, che non vedeva dal giorno prima, e l'ho ha visto attraverso una finestra che giaceva  sul pavimento.

I serpenti velenosi

Riston, che secondo quanto riferito viveva da solo, aveva un permesso valido che gli permetteva di tenere serpenti e rettili, ma secondo la legge del Maryland è illegale possedere serpenti velenosi. Solo due gocce del veleno ad azione rapida di un mamba nero possono uccidere un essere umano spegnendo il sistema nervoso e infliggendo la paralisi.

Un cobra sputante può spruzzare veleno dalle sue zanne negli occhi della sua vittima da 3 metri di distanza, causando cecità. Entrambe le razze sono illegali da tenere come animali domestici negli Stati Uniti. Si diceva che tutti i serpenti nella casa di Riston fossero stati ben curati dal loro proprietario. I vicini terrorizzati sono stati rassicurati sul fatto che se qualcuno degli altri serpenti è scappato, il freddo inverno li ucciderà prima che arrivino molto lontano.

Oltre mille visoni morti in un allevamento in Abruzzo per intossicazione alimentare. Beatrice Montini su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Gli animali sono morti a fine agosto ma la notizia è stata diffusa solo adesso dopo un’investigazione della Lav. Sono circa 6mila i visoni ancora presenti negli allevamenti dopo lo stop definitivo deciso a dicembre. Che fine faranno? 

Oltre mille visoni morti in un allevamento di Castel di Sangro (l’Aquila). Ad ucciderli non è stata però l’epidemia di Covid - che ha colpito anche questi animali - o altre infezioni virali tipiche di questi animali, ma un’intossicazione alimentare. La notizia arriva a poche settimane dalla definitiva chiusura degli allevamenti di animali da pelliccia decisa dal governo dopo anni di pressing da parte di cittadini e associazioni.

La morte dei visoni risale a fine agosto ma la notizia è stata diffusa solo adesso anche grazie a un’investigazione sotto copertura della Lav. Le immagini (qui il video integrale) mostrano i corpi dei visoni accatastati in cassette di plastica (della frutta) all’interno della cella frigorifera dell’allevamento proprio vicino alla carne di pollo destinata all‘alimentazione degli altri visoni (circa 30) che sono sopravvissuti all’intossicazione. Sulla base degli accertamenti condotti dall’Istituto Zooprofilattico Sperimentale di Abruzzo-Molise (laboratori di Isernia e Teramo) è infatti confermato che la causa principale della morte improvvisa - e dolorosa - di 1.035 visoni sia dovuta proprio ad un’intossicazione alimentare, a causa della somministrazione di carne evidentemente deteriorata o infettata.

«È scandaloso come l’industria della pelliccia continui a farsi vanto dei propri sistemi di certificazione cosiddetti responsabili quando invece è palese che gli animali soffrono oltre che per le gravi privazioni cui sono sottoposti anche per la scarsa attenzione e cura con cui vengono gestiti», dichiara Simone Pavesi, Responsabile Lav Area Moda Animal Free.

Al momento dello stop definitivo agli allevamenti di animali da pelliccia, scattato a gennaio 2022, nelle 5 aziende ancora presenti in Italia restano circa 5.900 visoni. A breve dovrà essere adottato un decreto del ministro delle Politiche agricole alimentari e forestali che stabilirà le modalità di «cessione degli animali» a strutture ad hoc (dove potranno trascorrere il resto della loro vita) e anche i criteri di indennizzo per gli allevatori.

Covid, criceti contagiati a Hong Kong. Duemila saranno abbattuti. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 gennaio 2022.

La decisione delle autorità dopo la scoperta di alcuni casi positivi tra persone che hanno lavorato in negozi di animali della città. Sospetti su partite di roditori importati dall’Olanda.

Sono circa 2mila i criceti che le autorità di Hong Kong hanno deciso di abbattere dopo che undici di loro sono risultati positivi al coronavirus in un negozio di animali. Tra quelli che verranno eliminati ci sono i criceti acquistati dal 22 dicembre e che le autorità hanno raccomandato di «non baciare o abbandonare per strada». I proprietari dovranno effettuare un test per verificare un’eventuale positività al virus. Gli esperti della sanità ritengono infatti che «non si può escludere una trasmissione del coronavirus da animale a uomo» e viceversa.

Nel corso di una conferenza stampa Leung Siu-fai, direttore del Dipartimento per l’agricoltura, la pesca e la conservazione (Afcd), ha indicato come sospette due importazioni dall’Olanda del 22 dicembre e 7 gennaio. Immediato è scattato il divieto di vendere e importare i roditori. Le autorità sanitarie hanno spiegato di aver condotto test per verificare la presenza del coronavirus su 178 criceti, conigli e cincillà presso il negozio di animali Little Boss e il magazzino associato a Causeway Bay. I test sono stati effettuati dopo che una dipendente del negozio, 23 anni, è risultata positiva alla variante Delta.

Da oltre tre mesi non si registravano casi simili in città. Nell’indagine è emerso che un addetto alla pulizia delle gabbie dei criceti è risultato positivo al Covid-19, come anche una donna di 67 anni che si era recata nel negozio l’8 gennaio, come ha spiegato Chuang Shuk-kwan, capo del ramo delle malattie trasmissibili del Center for Health Protection (Chp). La figlia della donna è risultata negativa, mentre il marito positivo a un primo test. La famiglia dovrà osservare la quarantena. (fonte: Adnkronos)

Legambiente: solo il 7,8% dei comuni italiani ha una gestione degli animali «sufficiente». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 17 gennaio 2022.

La decima edizione del report «Animali in città» di Legambiente: Prato, Verona e Modena le città più virtuose.  

Attenzione delle amministrazioni ancora inadeguata, poca prevenzione per il randagismo e grandi disparità territoriali. È quanto emerge dal X rapporto nazionale «Animali in città» (qui la versione integrale) elaborato da Legambiente sulla gestione degli animali nei centri urbani, presentato simbolicamente oggi, 17 gennaio, nel giorno di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali domestici. L’indagine si basa sui i dati del 2020 e ha coinvolto 656 amministrazioni comunali e 50 aziende sanitarie. Quattro le macroaree di valutazione delle performance e delle risposte alle esigenze nel vivere la relazione con gli animali d’affezione e da compagnia che riguardano oltre 30 milioni di italiani. Quattro le macroaree prese in considerazione: quadro delle regole (regolamenti comunali e/o ordinanze sindacali), valevole solo per i comuni; risorse impegnate e risultati ottenuti; organizzazione delle strutture e servizi al cittadino; controlli (qui avevamo raccontato la nascita dell'«Ecosportello» di Legambiente per gli animali feriti o in difficoltà).

Il 47,4% dei comuni interpellati dichiara di avere attivato un ufficio o un servizio dedicato agli animali,, ma solo uno su 13 (il 7,8%) raggiunge una performance almeno «sufficiente» (Prato, Verona e Modena sono risultati i migliori). Il 76% delle aziende sanitarie ha almeno un canile sanitario o un ufficio di igiene urbana veterinaria: in questo caso, i risultati migliori sono stati registrati nelle ATS di Brescia, della Montagna (Sondrio) e in quella di Vercelli. Guardando ai costi sostenuti da Comuni e Aziende sanitarie per i servizi ai cittadini e ai loro amici a quattro zampe, nel 2020 la spesa pubblica nel settore (in calo rispetto al 2019) è stimabile in quasi 193 milioni di euro, pari a 14 volte la somma impegnata per tutte le 31 aree marine protette in Italia o a 55 volte quella destinata alle 19 riserve naturali statali. La spesa media pro capite si attesta invece a 2,4 euro per i Comuni e a 0,85 euro per le aziende sanitarie. Vale la pena sottolineare come la gran parte dei costi in Italia sia assorbita dalla gestione dei cani presso i canili rifugio.

X rapporto #AnimaliIncittà? 

I Comuni spendono il 61,8% del bilancio destinato al settore per i canili rifugio. Meno della metà delle Aziende sanitarie fa prevenzione contro il randagismo.

Nell’anno della pandemia, secondo i dati forniti dai comuni, cresce di oltre tre volte, rispetto al 2019, il numero di gatti adottati. Nello specifico sono 42.081 nel 2020, contro i 12.495 del 2019. Parallelamente, tuttavia, si assiste a un calo nelle adozioni dei cani nei canili. Queste, infatti, diminuiscono del 20% rispetto all’anno precedente (dalle 19.383 nel 2019, alle 16.445 nel 2020), coerentemente con i dati dichiarati di nuove iscrizioni in anagrafe canina (85.432 nel 2019, contro le 67.529 nel 2020). A livello nazionale, il rapporto tra cani iscritti all’anagrafe degli animali d’affezione e cittadini è di un cane ogni 4,7 abitanti. Umbria e Sardegna che primeggiano in positivo (rispettivamente un cane iscritto ogni due cittadini e un cane ogni 2,8). Puglia e Calabria occupano le ultime posizioni (rispettivamente un cane iscritto ogni 7,4 e ogni 9,6 cittadini). Guardando agli amici felini, il rapporto nazionale è di un gatto iscritto all’anagrafe degli animali d’affezione ogni 72,4 cittadini. A primeggiare, in questa categoria, sono Valle d’Aosta (un gatto ogni 31,4 abitanti) e PA Bolzano (un gatto ogni 32,6 cittadini). 

«Nell’anno della pandemia, l’attenzione e la cura della pubblica amministrazione per gli animali risultano ancora insufficienti e inadeguate a garantire il benessere nei centri urbani», dichiara Giorgio Zampetti, direttore generale di Legambiente. Per il 2020 l’indagine evidenzia «le disparità tra Nord e Sud e il permanere di problematiche che, complice la crisi sanitaria e socio-economica, rischiano di acuirsi: un’Italia indietro sulle sterilizzazioni di cani e gatti, dove persiste la piaga dei cani vaganti che rappresentano il maggior costo per la collettività, manchevole nell’attuare regolamenti che favorirebbero una più armonica e sicura convivenza con gli animali, con uno scarso livello di conoscenza della biodiversità animale che sempre più spesso abita i territori urbanizzati». Prendersi cura di persone e animali «è prendersi cura del pianeta e del benessere di tutti», conclude Zampetti. Legambiente ha avanzato sei proposte concrete e misurabili per migliorare l’approccio verso i nostri amici: l’anagrafe unica nazionale per tutti gli animali d’affezione o da compagnia; i patti di comunità per la tutela e la cura degli animali; il potenziamento del servizio pubblico, con nuovo personale e maggiori strutture fino alla realizzazione di aree e servizi dedicati nelle aree urbane; la valorizzazione del ruolo del volontariato. Anche in questa edizione l’associazione ha premiato le realtà virtuose che si sono distinte nell’offerta di servizi e in azioni dedicate alla prevenzione e alla migliore convivenza con gli animali d’affezione, padronali o selvatici in città.

Da repubblica.it il 24 novembre 2022. 

Aprire la porta di casa e trovare un cinghiale placidamente addormentato sullo zerbino. E' quello che è successo stamattina ad una famiglia di Genova, in via Poligono di Quezzi. L'animale apparentemente stava dormendo, probabilmente si è rifugiato nel portone perché non in buone condizioni di salute. L'uomo cha chiamato la polizia locale e sono state avvisate le guardie regionali per la cattura dell'animale. 

La Liguria è una delle regioni dove è stata riscontrata la peste suina nei cinghiali, l'animale sarà quindi sottoposto agli esami del caso, per altro in città i cinghiali sono ormai una presenza quotidiana nelle strade delle alture e nel letto del torrente Bisagno, ma è la prima volta che qualcuno se li è trovati addirittura in casa.

Luisa Mosello per la Stampa il 16 luglio 2022.

Sono i nostri nuovi vicini di casa, di strada, di spiaggia. La convivenza fra cinghiali ed esseri umani in tutta Italia sta diventando sempre più stretta. Per questo occorre saperne di più sul loro comportamento. Lo abbiamo chiesto a Paolo Varuzza, biologo che si occupa della gestione della fauna selvatica per enti pubblici e privati.

Sono pericolosi?

«Generalmente no. Si tratta di animali selvatici quindi nel caso di incontri fortuiti con l'uomo tenderanno a scappare o a mantenere una distanza di sicurezza. Discorso diverso nel caso di animali che si ritrovano senza via di fuga o peggio ancora feriti». 

In questi casi cosa accade?

«Se sono vicini a persone, viene meno la loro la naturale diffidenza e potrebbero aggredire. Anche per il bisogno di procurarsi del cibo. Ma sono casi rari: di fondo il cinghiale ha paura dell'uomo e non ha un'indole predatoria, se non su piccole specie animali». 

Sono più aggressivi i maschi o le femmine?

«Maschi e femmine tendono a vivere in maniera diversa: i primi, adulti, da isolati, e le seconde in branco. Le femmine potrebbero aggredire se ritengono di dover difendere i piccoli. Ma in genere proprio perché vanno in giro in branco sono facilmente individuabili». 

E se invece sbucassero all'improvviso come ci si deve comportare?

«Occorre mantenere la calma e lasciarli in pace: non mostrare reazioni di paura, non urlare e non minacciarli per non far percepire loro una situazione di potenziale pericolo che potrebbe sfociare in un'aggressione. E non scappare. Va usato il buon senso. Basta mantenersi a debita distanza e se abbiamo con noi un cane tenerlo saldamente al guinzaglio». 

Cosa potrebbe portare a un'aggressione?

«I casi di aggressioni nei confronti dell'uomo sono per lo più frutto di abitudini sbagliate generate da comportamenti scorretti. Prima di tutto non si dovrebbe mai fornir loro del cibo. Si tratta di una pratica anche proibita da una legge nazionale e da numerose ordinanze sindacali. Il cinghiale si abitua a una facile fonte alimentare e farà di tutto per difenderla facendo poca differenza tra gli scarti alimentari di cassonetto e un fresco sacchetto della spesa portato da una persona». 

Quali danni fisici potrebbe provocare?

«Potrebbero mordere, in maniera molto dolorosa e quindi fare molto male, ma ce la si cava con un'antitetanica al Pronto Soccorso e al più con un ciclo di antibiotici. Nulla di allarmante». 

Nessun rischio di malattie da contatto?

«No. I cinghiali non sono fonte di malattie dirette. Se così fosse io che sono stato a contatto con migliaia di esemplari sarei stato sempre male... Le patologie che riguardano l'uomo passano attraverso il consumo errato delle loro carni. Per esempio la zoonosi che si chiama trichinella e si contrae in genere mangiando carne e salumi non controllati». Sono anche veicolo delle peste suina africana.

«Sì, che non colpisce l'uomo ma che rappresenta un'emergenza che deve essere gestita in maniera appropriata per scongiurare problemi importanti per tutto il comparto legato agli allevamenti zootecnici e alla filiera che interessa i suini e non solo». 

E cosa ci dice della questione della loro riproduzione?

«Che ci sono diversi luoghi comuni sulla biologia e la gestione della specie difficili da sfatare. Come il mito dei cinghiali che partoriscono "come conigli" o della sterilizzazione come panacea a tutte le problematiche generate dalla specie che è capace di aumentare con tassi di crescita incredibili. Da noi i parti sono in linea con quelli di altre aree europee». 

A che velocità si riproducono?

«Normalmente il periodo riproduttivo coincide con il tardo autunno con il picco delle nascite tra aprile e maggio. Ma non è raro avere parti già in pieno inverno fino a tutta la primavera e non di rado anche agli inizi dell'autunno». Ci sono studi approfonditi sulla specie? «Nonostante sia una specie importantissima dal punto di vista sociale, economico, ecologico e anche alimentare qui da noi sono pochissimi. E posso aggiungere che nel nostro Paese le indicazioni tecnico-scientifiche vengono ignorate dal mondo politico, ambientalista e venatorio».

Vittorio Feltri per "Libero quotidiano" il 20 gennaio 2022.

Sono convinto che i cinghiali che scorrazzano a Roma non vadano combattuti, bensì apprezzati e possibilmente premiati. Infatti, lungi dall'essere nocivi, essi sono gli unici che tentino- senza riuscirci appieno - di tenere pulita la città. Certamente non sono animali elegantissimi, hanno pure fama di essere aggressivi, però è un fatto che siano i soli ad arginare il dilagare dei rifiuti. 

Per un motivo semplice: li mangiano essendone ghiotti. In effetti, poveracci, nelle campagne non trovano di che nutrirsi e, non essendo scemi come gli uomini, raggiungono la capitale che è cosparsa di monnezza, rovistando tra la quale pescano sempre qualcosa da mettere sotto i denti. E in tal modo alleggeriscono le strade dalle schifezze abbandonate dai romani non perché siano sozzoni, piuttosto perché la raccolta dei rifiuti e lo smaltimento dei medesimi sono leggende metropolitane.

Se gli spazzini non esistono e la distruzione delle porcherie è una attività sconosciuta, quindi per nulla praticata, ovvio che subentrino i cinghiali per occuparsi della nettezza urbana. Condannarli a morte in quanto sostituiscono il personale municipale non soltanto è ingiusto, ma anche svantaggioso, poiché senza gli apri la Città eterna sarebbe sepolta totalmente dalla spazzatura. Questi animali in sostanza sono provvidenziali, in loro assenza si realizzerebbe un disastro, dato che il Lazio (e non solamente l'Urbe), non essendosi mai dotato di termovalorizzatori, non è in grado di eliminare gli scarti delle famiglie ed è costretto a inviarli, allo scopo di ridurli in cenere, in altre regioni munite di impianti appositi, o addirittura all'estero, il che comporta costi stratosferici.

Un'altra considerazione benevola sui diffamati cinghiali. Quando abitavo, fino ad alcuni anni fa, a Ponteranica, su una collina vicino a Bergamo, allorché al venerdì sera rincasavo, spesso davanti al cancello scorgevo una femmina della bestia in questione attorno alla quale gironzolavano alcuni piccoli. Uno spettacolo. Io scendevo dalla macchina senza intenti aggressivi e la cinghialona non ha mai dato segni di insofferenza nei miei confronti.

Pascolava tranquilla a pochi metri da me, teneva a bada la sua prole, da brava mamma, senza mai fornire indizi di nervosismo. Quanto ai cinghialini, nessun problema: erano carini e docili, più miti di tanti ceffi che si incontrano di frequente nei centri abitati. Un'ultima notizia che riguarda i cervi, il cui numero a Como e dintorni è aumentato a dismisura. Molti comaschi si lagnano perché i cornuti brucano l'erba. E li vorrebbero abbattere. Quale ingiustizia sarebbe! Cosa volete che mangino se non l'erbaggio? Lasciateli in pace. I cervi sono innocui come bambini.

Da leggo.it il 12 novembre 2022.

 Tragico incidente in provincia di Mantova. Un uomo di 92 anni è stato caricato e aggredito da un cinghiale che si era introdotto nell'azienda agricola del figlio. Le condizioni dell'anziano sono subito apparse gravi ed è subito stato trasportato in eliambulanza all'ospedale di Cremona dove si trova in rianimazione e ha dovuto subire l'amputazione di un braccio e di una gamba. 

Il dramma si è verificato nella giornata di mercoledì 9 novembre in una azienda agricola di San Giovanni del Dosso, nel basso mantovano. L'anziano si trovava da solo nella sua abitazione quando ha improvvisamente sentito i suoi cani abbaiare in continuazione. A quel punto, attirato dai continui guaiti degli animali, l’uomo è uscito e ha visto un cinghiale sull'aia, probabilmente arrivato dalla strada. 

Appena l'anziano si è avvicinato, l'animale selvatico, forse innervosito dalla presenza dei cani e affamato per la mancanza di cibo, ha aggredito l’uomo, mordendolo sia a un braccio che a una gamba e all’addome. Quando il figlio e il nipote della vittima hanno fatto ritorno a casa hanno visto il 92enne a terra, sanguinante, e il cinghiale che si stava allontanando.

L'uomo è stato prontamente soccorso e trasportato in gravi condizioni in ospedale. Il sindaco di San Giovanni del Dosso, Angela Zibordi, ha diffuso una nota per mettere in guardia i concittadini soprattutto di notte quando si trovano in auto e, nel caso di un avvistamento di cinghiale, li ha consigliati «di avvertire subito le autorità».

Come annunciato anche dal sindaco di San Giovanni del Dosso, adesso è iniziata la caccia all'animale. Per questo motivo è stato avviato un continuo monitoraggio per seguire piste utili all’individuazione del cinghiale, non solo nella provincia di Mantova ma anche in quella di Modena. Nell'incidente anche uno dei cani del 92enne sarebbe rimasto gravemente ferito, nel tentativo di salvare il suo padrone.

Jacob Thorburn per dailymail.co.uk il 26 gennaio 2022.

Un cinghiale si è trasformato da braccato a cacciatore dopo aver morso a morte un italiano che gli aveva sparato. 

Così Giulio Burattini, 36 anni, è morto dissanguato davanti al padre mentre i due erano a caccia nei pressi della riserva naturale del Pigelleto di Piancastagnaio, in Toscana, lo scorso mercoledì. 

Secondo i media locali, Giulio aveva sferrato un colpo contro la bestia, che è crollata a terra mentre. Ma con sorpresa dell'uomo, il cinghiale è balzato in piedi e gli ha morso la parte superiore della gamba destra mentre lui si avvicinava, recidendogli l'arteria femorale e uccidendolo.

Secondo quanto riferito, il suo ultimo messaggio è stato un grido disperato ai suoi amici attraverso il suo walkie-talkie: "Aiuto, aiuto, sto morendo". 

Le squadre di soccorso forestale e i servizi di emergenza si sono precipitati per cercare di rianimare il 36enne, quando però ormai aveva perso troppo sangue: è morto davanti al padre veterinario, che ha avuto bisogno di cure per lo shock.

La Procura di Grosseto ha rifiutato di indagare sul caso, spiegando che l'incidente è stato causato da un animale selvatico e che non ci sono implicazioni penali legate alla morte di Burattini. Originario di Castell'Azzara, l'uomo lascia la moglie e una figlia di sette anni. 

Cacciatore di 36 anni ucciso da un cinghiale a Castell’Azzara, nel Grossetano. Giampiero Casoni il 20/01/2022 su Notizie.it.

Il colpo che ha solo ferito l'animale e la reazione fatale: un cacciatore di 36 anni è stato ucciso da un cinghiale fra le province di Siena e Grosseto.

Tragedia di caccia in Toscana, dove un cacciatore di 36 anni è stato ucciso da un cinghiale a Castell’Azzara, nel Grossetano: secondo quanto appurato dopo il terribile incidente con esito fatale dopo aver sparato Giulio Burattini è stato caricato dall’animale e colpito a morte alla coscia. 

Cacciatore ucciso da un cinghiale nella riserva del Pigelleto fra Siena a Grosseto

Una battuta di caccia fatale dunque, quella nella riserva naturale del Pigelleto di Piancastagnaio proprio al confine tra le province di Siena e Grosseto. Battuta le cui fasi salienti sono state ricostruite dai carabinieri della territoriale, che hanno accertato come Giulio abbia prima sparato all’indirizzo di un grosso verro ma senza ucciderlo sul colpo. 

Il colpo, la carica e la terribile ferita: cacciatore ucciso da un cinghiale 

A quel punto l’animale avrebbe caricato e colpito con le zanne la coscia del cacciatore, recidendogli di netto l’arteria femorale.

I colpi “a falce, menati dal basso in alto da un animale che può pesare oltre un quintale e che ha quasi tutta la massa muscolare su collo e “sella” (il dorso) sono tragicamente efficaci. 

L’aiuto chiesto via radio e i soccorsi inutili: cacciatore ucciso da un cinghiale durante una tragica battuta

Pare che Giulio, che faceva il battitore, cioè lo stanatore del cinghiale con i cani, abbia dato l’allarme via radio invocando aiuto, A quel punto sono arrivati i compagni di battuta che hanno cercato invano di fermare il sangue ed allertato il 118, ma l’uomo è deceduto in pochi minuti. 

Siamo un Paese di sciacalli. E forse non è una brutta notizia. Alex Saragosa su La Repubblica il 14 Gennaio 2022.

Maschio e femmina di sciacallo: i branchi sono dominati da una coppia, che è l’unica a riprodursi. Vivono già in Veneto, Lombardia e soprattutto in Friuli. Ora che sono arrivati anche in centro Italia c’è da capire se madre natura metterà ordine tra loro, i lupi, i caprioli e i cacciatori.

Arriva il mini lupo, o la maxi volpe, se preferite. Alla fauna italiana si può infatti ormai aggiungere il Canis aureus, lo sciacallo dorato, un canide che come peso, intorno ai dieci chili, sta a metà fra lupo e volpe, e che è ormai così diffuso da essere stato poche settimane fa ripreso da una videocamera vicino a Prato,

Da lastampa.it il 18 gennaio 2022.

Gli abitanti del distretto di Rajnandgaon, nello stato del Chhattisgarh sono in subbuglio per la nascita di un vitello che in molti considerano la reincarnazione del dio Shiva. Il vitellino, partorito tre giorni fa, in coincidenza con il Makar Sankranti, la festa del sole e del raccolto, ha infatti tre occhi, come il dio ritenuto molto potente, e quattro lobi.

Nonostante l'impegno del veterinario locale, che si sforza per spiegare che si tratta di una rara malformazione genetica, da quando la notizia si è diffusa nella regione, un fiume di persone si sta riversando verso la stalla della "miracolosa" reincarnazione. La coda di chi è in attesa di prostrarsi di fronte al vitellino, già sommerso da monetine, bastoncini di incenso, ghirlande di fiori, noci di cocco, si allunga di ora un ora. E accanto a chi è fermamente convinto della presenza del dio, arrivano ogni giorno moltissimi curiosi.

Meno contento, il proprietario Neeraj Chandel, laicamente preoccupato per la salute dell'animale. «Non appena è nato, avevo pensato che la terza palpebra sulla fronte fosse una ferita», spiega. E aggiunge: «Questo vitellino mostruoso ha anche la lingua insolitamente lunga, e ha difficoltà a farsi allattare. Non prende abbastanza latte dalla mamma. Inoltre, tutte le persone che vogliono venerarlo e si spingono nella stalla per toccarlo lo innervosiscono».

La feroce caccia al lupo che indigna la Scandinavia. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera il 15 gennaio 2022. 

Finlandia e Svezia hanno stabilito nuove quote di abbattimento. La Norvegia ha dato il via libera all’uccisione del 60 per cento di quelli presenti sul suo territorio. L’esperto: «Ecosistema a rischio».  

Non c’è posto per il lupo in Norvegia, e anche nel resto della Scandinavia non è tanto benvoluto. Finlandia e Svezia hanno stabilito nuove quote di abbattimento che hanno spinto diverse organizzazioni animaliste a fare appello all’Unione Europea affinché intervenga per «fermare la strage», nel rispetto della direttiva Habitat. Ma è la posizione della Norvegia, esterna all’Ue, a preoccupare di più i biologi.

Il lupo grigio europeo era quasi estinto su tutto il territorio del Vecchio Continente, sterminato sistematicamente per secoli. In molti Paesi, Italia compresa, negli ultimi anni si è proceduto a piani di ripopolamento. In Scandinavia non è mai del tutto scomparso grazie ai branchi che dalla Russia si sono spostati verso occidente, coprendo distanze di migliaia di chilometri nei boschi. Quest’inverno, però, la Finlandia ha deciso di seguire l’esempio dei Paesi vicini: ha autorizzato per la prima volta in sette anni l’uccisione di 20 lupi. E se la Svezia ne ha già abbattuti quasi 27 (la sua quota nazionale), la Norvegia ne vuole far sparire ben 51.

Il governo di Oslo, che non deve adeguarsi alle direttive europee ma solo alla Convenzione di Berna sulla conservazione della fauna selvatica (meno vincolante) ha infatti dato via libera all’uccisione del 60 per cento dei lupi presenti sul suo territorio. Resteranno in vita solo tre branchi, in un’area protetta pari ad appena il 5% del Paese, al confine con la Svezia. Una decisione politica, non fondata su dati scientifici, che pone a rischio la sopravvivenza della specie. I lupi danno fastidio agli allevatori perché predano le pecore (meno le renne che si trovano in genere più a nord) e soprattutto sono invisi ai cacciatori, una lobby molto potente in Norvegia.

«Le politiche di abbattimento dovrebbero essere guidate dalla scienza e non da pressioni politiche — dice Piero Genovesi, responsabile coordinamento fauna di Ispra —. Prelievi come quelli pianificati in Norvegia contrastano con l’obiettivo di mantenere popolazioni vitali, per quanto contenute in modo da evitare impatti troppo rilevanti sul bestiame e sulla selvaggina». Perché è importante salvare il lupo? « In Europa abbiamo assistito ad una crisi fortissima dei carnivori. Il lupo, come l’orso, è però un anello essenziale degli ecosistemi. L’Italia, come altri Paesi, dimostrano che possono coesistere con le attività dell’uomo come la pastorizia e la caccia».

Margherita Montanari per corriere.it il 16 gennaio 2021.

Era stata morsa per ben due volte in pochi mesi da un ragno violino. La prima a settembre scorso, la seconda a novembre. Sempre nello stesso punto, la schiena e sempre mentre si trovava al gattile San Bartolo di Pesaro, dove andava spesso per dar da mangiare ai gatti randagi.

Non poteva immaginare che quelle due iniezioni di veleno sarebbero state all’origine di un malore improvviso e fatale. Cristina Calzoni, 46 anni, di Gabicce Mare, la sera di venerdì 14 gennaio è crollata sul pavimento di casa, ed è morta davanti al compagno Gilberto Del Chierico, che, dopo un tentativo di rianimarla con un massaggio cardiaco ha chiamato il 118.

Il personale sanitario alle 22 ha constatato il decesso della donna. Da qualche mese Calzoni stava seguendo una cura antidolore, dopo che nel giro di pochi mesi era stata punta per ben due volte da un ragno molto velenoso. Non era successo nulla di male con la prima puntura, che aveva tamponato con qualche pomata e medicinale specifico per far passare l’arrossamento e il prurito.

Poi è arrivata la seconda, a novembre. Il dolore si è trasformato e con il tempo la dose di veleno ricevuta è risultata così fastidiosa da costringere la 46enne a rivolgersi al centro specializzato antiveleni di Bologna, per avere una cura più adatta. 

Niente autopsia

È vicino ai flaconi di quei medicinali, prevalentemente antidolorifici, che l’hanno trovata i sanitari allertati dal compagno l’altra sera, distesa a terra e senza vita. Un malore improvviso, apparentemente inspiegabile, tanto che sono intervenuti anche i Carabinieri, per chiarire se possa essersi trattato di una morte provocata da un sovradosaggio dei farmaci prescritti. La procura non ha disposto l’autopsia, ma solo un accertamento esterno del corpo. Cristina era appassionata di musica, natura e con una grande sensibilità per gli animali. E proprio nel dar da mangiare a gatti randagi era stata morsicata per ben due volte dal ragno violino. Un ragno di piccole dimensioni e dall’aspetto apparentemente insignificante, ma estremamente pericoloso. Una morte improvvisa che ha colto impreparati i tanti amici della donna, informati da un post su Facebook di Del Chierico. “La mia amata Cristina, ieri alle 19.30 , mi ha dato l’ultimo bacio. Grazie per esserci stata, dolce leonessa”, il post scritto dal compagno.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 gennaio 2022.

L’account Twitter dei parchi nazionali della Tanzania ha condiviso un video sorprendente, una leonessa che scorta il cucciolo di uno gnu alla sua mandria. Il felino e il piccolo gnu camminano fianco a fianco nel parco nazionale del Seregenti. 

Il comportamento della leonessa è così insolito che il portavoce dell’autorità dei parchi della Tanzania, Pascal Shelutete, ha ipotizzato con la BBC che gli istinti materni della leonessa abbiano superato i suoi naturali istinti predatori.

I leoni sono “ipercarnivori generalisti”, cioè mangiano soprattutto carne, di qualunque specie. Zebre e gnu sono gli animali da preda presi di mira più spesso dai leoni perché enti nei movimenti e quindi più facili da catturare rispetto ad antilopi e gazzelle, e meno pericolosi dei bufali. 

I leoni adulti sani devono consumare in media tra i 5 e i 7 chili di carne al giorno, e siccome non succede loro tutti i giorni di portare a casa una preda, è molto insolito vedere una leonessa perdere un’occasione simile.

Questa però non è la prima volta che una leonessa protegge e nutre un animale che normalmente ucciderebbe. Nel documentario "Surviving the Serengeti" del 2015 si vedeva un cucciolo di gnu, nato pochi minuti prima ma separato dalla madre, trovarsi faccia a faccia con una leonessa adulta in cerca di preda. 

In una svolta miracolosa degli eventi, proprio mentre la leonessa è pronta a uccidere, si ferma e permette allo gnu di strofinarsi il naso su di lei. Qualche istante dopo, la leonessa è raffigurata mentre rotola con lo gnu, permettendo al cucciolo di rannicchiarsi accanto al suo corpo caldo come se fosse la sua stessa prole, prima di liberare l'animale appena nato e lasciarlo per incontrare sua madre.

Nel 2002 i guardacaccia di un parco nazionale del Kenya sono rimasti perplessi quando una leonessa ha adottato non uno, ma due animali da preda in altrettanti mesi. I guardiani del Samburu National Park hanno detto che la leonessa ha preso un cucciolo di antilope sotto la sua ala nel gennaio 2002, prima di imbattersi in un altro cucciolo poche settimane dopo. 

Invece di squarciare all'istante il delicato animale, la leonessa ha condotto il piccolo all'ombra di un albero di acacia, dove ha iniziato a pulirlo e in seguito lo ha protetto dagli altri leoni. Inizialmente i comportamentisti animali hanno concluso che doveva aver scambiato i due cuccioli per piccoli di leone randagio. Ma a febbraio, la leonessa ha permesso alla vera madre di nutrire la sua prole, prima di scacciarla. Gli esperti di fauna selvatica sono rimasti sbalorditi da questo comportamento perché suggeriva che la leonessa non avesse scambiato il piccolo per un cucciolo di leone, ma avesse semplicemente deciso di prendersene cura. 

La leonessa ha allattato con la piccola antilope per due settimane, prima che un altro leone l’attaccasse e l’uccidesse mentre lei dormiva. 

Nelle settimane successive, tuttavia, il personale del parco ha detto che la leonessa ha seguito regolarmente branchi di antilopi, senza mai attaccarli, scegliendo invece di dare la caccia ai facoceri. 

Maria Vittoria Prest per blitzquotidiano.it il 29 novembre 2022.

Un coraggioso branco di delfini ha salvato un nuotatore britannico da uno squalo di due metri che stava per sferrare un attacco mortale. Una vicenda che ha dell’incredibile, sembra uscita da un copione di Disney, quella dei delfini che salvano da uno squalo bianco di due metri un giovane ragazzo inglese che nuotava nelle acque aperte dello Stretto di Cook in Nuova Zelanda sperando di realizzare il sogno di nuotare con i delfini. 

Adam Walker sostiene che le eroiche creature abbiano formato un cerchio protettivo intorno a lui per respingere la bestia sott’acqua mentre lui, ignaro del pericolo, stava già lottando contro le onde tumultuose.

Il giovane stentava a credere ai suoi occhi quando è spuntato un branco di delfini che ha iniziato a nuotare in cerchio intorno a lui. Ed ha ammesso di non aver notato l’enorme squalo mentre era in acqua e di essersene accorto solo quando è uscito. 

I delfini sono spesso aggrediti dagli squali nell’oceano e si affidano l’uno all’altro per proteggersi. Tendono a reagire agli attacchi usando il loro grande muso per pungolare i predatori, colpendo il loro ventre o le branchie: si uniscono in branchi e si difendono dall’attacco di uno squalo inseguendolo e speronandolo.

Sono in grado di proteggere i membri vulnerabili dei loro branchi e delle loro famiglie, come i giovani delfini e gli esemplari feriti o malati. Il giovane Adam Walker ha dichiarato che il sogno di nuotare con i delfini si era avverato e gli piace pensare che lo stessero proteggendo e guidando verso casa.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 gennaio 2022.

Secondo un nuovo studio, le femmine di delfino hanno un clitoride funzionale simile a quello di un essere umano. Un team di scienziato guidato dal Mount Holyoke College del Massachussets ha scoperto che i delfini tursiopi hanno una struttura simile al clitoride nell’ingresso vaginale con nervi sensoriali e corpi erettili. 

Per lo studio, i ricercatori hanno condotto un’analisi dettagliata sui clitoridi di 11 femmine che erano morte naturalmente e hanno trovato forti prove a sostegno della funzionalità dell’organo. Questo lavoro ha rivelato molte somiglianze tra la struttura del delfino e il clitoride di una donna umana, e in particolare che il tessuto erettile assomiglia a quello di un essere umano, il che significa che probabilmente svolge un ruolo nel fornire piacere.

All’interno del tessuto del delfino c’è spazio per far scorrere il sangue, consentendo all’area di gonfiarsi e alla struttura simile al clitoride di diventare dura. I delfini, proprio come gli umani, fanno sesso non solo per riprodursi, ma anche per creare legami e piacere. 

«Ogni volta che sezionavamo una vagina, vedevamo questo clitoride molto grande ed eravamo curiosi di sapere se qualcuno lo avesse esaminato in dettaglio per vedere se funzionava come un clitoride umano», ha detto Patricia Brennan del Mount Holyoke College, autrice principale ed esperta di genitali animali. 

«Sapevamo che i delfini fanno sesso non solo per riprodursi, ma anche per consolidare i legami sociali, quindi sembrava probabile che il clitoride potesse essere funzionale».

La prima caratteristica è stata la presenza di strutture di tessuto erettile, con molti vasi sanguigni. «Significa che si tratta di tessuti che in realtà si gonfiano di sangue, proprio come un pene, e il clitoride umano», ha detto Brennan. Brennan ha anche affermato di aver trovato due diversi tipi di tessuto erettile, gli stessi degli esseri umani. Uno è chiamato il tessuto spugnoso e l'altro è il corpo cavernoso. 

Brennan e il suo team hanno trovato fasci nervosi molto grandi sotto la pelle, tre volte più sottili rispetto alle regioni adiacenti. Il che significa che quest'area è più sensibile. La scoperta finale sono stati i corpuscoli genitali, che sono strutture sensoriali che si trovano nel clitoride e nel pene umani. «Studiare e comprendere i comportamenti sessuali in natura è una parte fondamentale della comprensione dell'esperienza animale e potrebbe anche avere importanti applicazioni mediche in futuro».

È stato anche scoperto che i delfini tursiopi diventano sessualmente aggressivi con gli umani. Proprio l'anno scorso, i funzionari del Regno Unito hanno avvertito i nuotatori di fare attenzione ai delfini che si comportavano in modo sessuale nei confronti delle persone. 

E nel 2020, sono emerse riprese di una donna che è stata inaspettatamente aggredita da un delfino. L'agente di viaggio Pripri Rose, 36 anni, di Miami, Florida, si stava godendo una vacanza a Varadero, Cuba, quando ha deciso di visitare l'acquario locale insieme a mamma Magda, 60 anni.

Cambogia: morto Magawa, il roditore che «sniffava» le mine antiuomo. Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022.

Gli era stata data anche una medaglia e il titolo di HeroRat per aver trovato nella sua carriera oltre cento mine e altri ordigni

Cambogia in lutto per la morte di Magawa, il roditore che riusciva con il suo olfatto a identificare la presenza di esplosivi. Nel corso della sua «carriera», durata cinque anni, aveva scoperto oltre cento mine antiuomo e altri esplosivi in una terra martoriata da questo tipo di ordigni che ogni anno provocano ancora decine di vittime e centinaia di feriti.

Il nome non gli rende giustizia

Magawa era un ratto gigante africano (Crycetomis gambianus), aveva otto anni e nonostante l’aspetto da topo e il nome da criceto non era né uno né l’altro: apparteneva a una famiglia distinta di roditori endemica dell’Africa. Con i criceti condivide le tasche guanciali nelle quali accumula il cibo, soprattutto frutti e corteccia di palme. Sono animali sociali che vivono in colonie e possono essere addomesticate tanto da diventare animali da compagnia.

Ricerca di esplosivi

In Tanzania venne istruito a cercare esplosivi dall’organizzazione belga Apopo. Dopo un anno venne inviato in Cambogia dove il suo fiuto aiutò gli sminatori a bonificare un’area di 141 mila metri quadrati infestati da mine antiuomo, una superficie grandi come venti campi di calcio. Pesava 1,2 chili ed era lungo 70 centimetri (coda compresa) ma era sufficiente piccolo e leggero e anche se passava sopra una mina non innescava il meccanismo di scoppio. In 20 minuti riusciva a identificare la presenza di mine in una superficie grande come un campo da tennis, mentre una persona munita da metal-detector ci avrebbe impiegato da uno a quattro giorni, a seconda della sua esperienza in questo settore.

La medaglia

Nel 2020 a Magawa gli venne assegnata la Medaglia d’oro Pdsa, la massima onorificenza britannica per gli animali che hanno contribuito con il loro impegno a salvare o migliorare l’esistenza degli umani. Magawa, che poteva fregiarsi anche del titolo di HeroRAT, è stato il primo topo a ricevere la medaglia in 77 anni di storia. Si era «ritirato» nello scorso giugno perché aveva rallentato l’attività a causa della vecchiaia. L’associazione Apopo ha reso noto che fino agli ultimi giorni aveva continuato a giocare e a mostrare interesse, poi dallo scorso settimana era caduto in una sorta di apatia. «Se ne è andato serenamente», hanno riferito. Ciao Topo Eroe.

Dagotraduzione dal Sun il 4 Gennaio 2022. C’è un filmato che continua a commuovere il web: è quello dell’incontro tra la scimpanzé Mama, 59 anni, ormai anziana e prossima alla morte, e Jan van Hooff, il guardiano dello zoo dove l’animale è vissuto per oltre quarant’anni, il Royal Burgers’ Zoo di Arnhem, nei Paesi Bassi. 

Mama è vecchia, ed è affetta da una malattia. Sente la morte avvicinarsi, così se ne sta raggomitolata in un angolo, e rifiuta il cibo. Ma una settimana prima di andarsene, van Hooff va a trovarla, succede qualcosa. All’inizio lo scimpanzé fatica a riconoscerlo, ma quando si accorge che si tratta di lui, grida di gioia e sorride, allunga il braccio per toccarlo, per accarezzarlo, per abbracciarlo. E accetta un po’ si cibo dalle sue mani.

I due si sono conosciuti nel 1972, e Mama fu tra le prime a fondare la colonia di Arnhem, dando vita a una delle comunità di scimpanzé più grandi e famose. Mama è morta il 5 aprile 2016.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 gennaio 2022.

È morto all’età di 8 anni il topo Magawa, diventato famoso perché addestrato a rilevare le mine antiuomo, tanto da essere stato insignito del George Cross, la più alta decorazione civile del Regno Unito. 

Durante i suoi 5 anni di carriera, Magawa, che è stato addestrato dall’ente di beneficenza belga APOPO, ha trovato 71 mine antiuomini e 28 munizioni inesplose in Cambogia, sgombrando più di 13 ettari. Apopo ha fatto sapere che il topo marsupio gigante africano «è morto pacificamente durante il fine settimana». Ha trascorso, hanno detto, «la maggior parte della scorsa settimana a giocare con il suo solito entusiasmo, ma ha iniziato a rallentare» nei suoi ultimi giorni e si è interessato meno al cibo. «Il suo contributo ha consentito alle comunità in Cambogia di vivere, lavorare e giocare; senza paura di perdere la vita o l'incolumità fisica».  

Magawa si era ritirato lo scorso giugno dopo che il suo conduttore Malen aveva detto che il roditore stava iniziando a «rallentare» mentre si avvicinava alla vecchiaia ed era tempo di «rispettare i suoi bisogni». 

Mesi prima, il gigantesco topo marsupio africano, che può fiutare esplosivi novantasei volte più velocemente delle soluzioni convenzionali, è stato premiato per il suo lavoro e gli è stata assegnata una medaglia d'oro PDSA in miniatura, l'equivalente animale della George Cross. È diventato il primo topo nei 77 anni di storia dell'ente di beneficenza a ricevere un tale premio.

Magawa è rimasto con l'ente di beneficenza, che ha sede in Tanzania, per alcune settimane ancora per «fare da mentore» a un nuovo gruppo di topi che erano stati recentemente valutati dal Cambodian Mine Action Center (CMAC). 

APOPO ha aggiunto: «Ogni scoperta che ha fatto ha ridotto il rischio di lesioni o morte per il popolo della Cambogia». Parlando lo scorso giugno, il suo gestore Malen ha dichiarato alla BBC: «La performance di Magawa è stata imbattuta e sono stato orgoglioso di lavorare fianco a fianco con lui. È piccolo, ma ha contribuito a salvare molte vite, consentendoci di restituire alla nostra gente la terra sicura di cui tanto aveva bisogno il più rapidamente ed economicamente possibile». 

Morto Magawa il topo eroe che ha scovato oltre 100 mine. Fausto Biloslavo su Il Giornale il 13 gennaio 2022.

Un eroe, che ha scoperto oltre 100 ordigni esplosivi, soprattutto mine anti uomo in Cambogia dove sono saltate in aria sui residuati di guerre terribili e dei khmer rossi 40mila persone. Per di più decorato con una medaglia d'oro al valore per «il coraggio nel salvare vite e la dedizione al dovere». Non stiamo parlando di un veterano degli artificieri in carne e ossa con braccia e gambe, ma di un animale solitamente considerato simbolo di sporcizia e schifezza, un topo-eroe. Magawa, ratto cerca mine, si è spento serenamente nel fine settimana dopo essere diventato una leggenda.

Un chilo e mezzo per 70 centimetri era un ratto nato in Tanzania e addestrato dalla Ong belga Apopo nella ricerca di mine ed esplosivi. A tre anni Magawa è stato trasferita sul campo di «battaglia» a Siem Rep, in Cambogia, un Paese dove ci sono sei milioni di mine. Il topastro, grazie al peso piuma e alla velocità innata, riusciva a fiutare un'area minata grande come un campo da tennis in 20 minuti. Gli sminatori ci metterebbero giorni. Baffoni, muso a punta e grandi orecchie annusava il terreno e se «sniffava» i componenti chimici degli esplosivi si fermava sul posto, come i cani anti mina, per segnalare il pericolo.

«Era piccolo, ma ha contribuito a salvare molte vite» ha dichiarato Malen, la giovane cambogiana che lavorava con Magawa. Il suo nome significa «capace di fare cose» e ha ufficialmente scoperto 71 mine e 38 ordigni inesplosi. La sua carriera di «artificiere» peloso con una lunga e sottile coda è durata cinque anni. Nel 2020 è stato il primo topo a ricevere la medaglia d'oro di un ente britannico di beneficenza veterinario della Gran Bretagna. Fino ad allora l'onorificenza era stata concessa solo ai cani eroi, che si sono distinti in guerre come quella afghana.

Il topo eroe portava con orgoglio la medaglia al collo con un nastrino blu e compiuti gli 8 anni lo scorso novembre era andato in pensione da poco. «Magawa trascorreva la maggior parte del tempo giocando con il suo solito entusiasmo - ha annunciato la Ong che l'accudiva in Cambogia - Con l'avvicinarsi della fine settimana, sembrava più lento e dormiva di più, mostrando meno interesse per il cibo negli ultimi giorni».

Del topo eroe resteranno le immagini delle sue ricerche sui campi minati, al guinzaglio dei veri artificieri, che annusa a destra e a manca per salvare vite.

"Gli animali insegnano a essere umani". Stefano Giani il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. Il regista di "Il lupo e il leone" nelle sale a breve: "Mi rivolgo ai bambini".

Se una cosa è impossibile, Gilles de Maistre la fa. Una laurea in filosofia, un passato da reporter tra guerre, carestie, disastri naturali e trascorsi da documentarista per la tv francese, coltiva due interessi prioritari. Gli animali e i bambini. La sintesi perfetta del film Il lupo e il leone, in uscita nelle sale il 20 e rivolto non solo ai più piccoli ma anche agli adulti, che hanno molto da imparare da questa ragazzina, Alma (la canadese Molly Kunz), trovatasi a convivere con un cucciolo di lupo e uno di leone e a difenderli dagli interessi di spregiudicati biologi e imprenditori circensi.

Primo punto ai limiti dell'irrealtà, la convivenza di predatori di opposte specie.

«Era una sorta di sfida nata in Sudafrica, sul set del mio film precedente. Volevo mostrare l'armonia che può crearsi tra anime antitetiche. Il felino potrebbe sbranare il cane».

E invece

«Non solo non lo aggredisce, ma si crea una fratellanza insospettabile tra i due animali, oltretutto dello stesso sesso».

Un insegnamento.

«È uno dei messaggi che ho tentato di lanciare. Conoscersi aiuta la coabitazione e facilita i rapporti. Crescendo insieme c'è un legame che nessuno può rompere. Qualunque sia la natura di ognuno».

Mozart (il lupo) e Dreamer (il leone) sono diventati adulti in coppia.

«Sono inseparabili. All'epoca delle riprese avevano tre anni. Tutti e due sono nati in Canada e la loro complicità ha stupito anche la troupe e gli stessi allevatori. Il loro comportamento non è finto né indotto. Ma spontaneo».

Quindi non appartengono alla natura ma all'uomo.

«Sono nati in cattività e sottratti a una vita di sofferenza nelle gabbie di uno zoo. Negli spettacoli di un circo. Al traffico di animali. A loro - e non solo a loro - è stata offerta una vita dignitosa».

Seconda forma di irrealtà: un leone non è autoctono in Canada.

«Molti felini sono stati introdotti in Nord America, nella regione di Calgary. Si è scoperto che si ambientano facilmente ai climi rigidi, grazie al pelo che s'ispessisce con il calare della temperatura. Tutti loro però hanno un ricovero riscaldato dove dormire la notte o ripararsi dalle intemperie».

Che esperienza è stata girare un film con loro?

«Un incubo (ride). Li abbiamo lasciati liberi di esprimersi, ma restano pur sempre un lupo e un leone. Dovevamo proteggere loro, ma anche gli altri animali che vivono liberi, i 70 componenti della squadra delle riprese... E ovviamente i farmer che si occupano di loro nella quotidianità».

Quando ha allestito il set?

«Abbiamo iniziato prima della pandemia, poi il virus ha bloccato tutto. Il governo canadese ci ha imposto di tornare in Francia e ci ha aiutato economicamente quando la situazione è migliorata e abbiamo potuto riprendere il lavoro che ancora rimaneva».

Fra i temi del film c'è il rispetto. A chi è destinato?

«Ai bambini. Non ascoltano telegiornali e non hanno modo di informarsi altrimenti. È importante far sapere loro che i pericoli si chiamano caccia, sfruttamento commerciale degli animali, traffico di pellicce, sperimentazione. Il circo e lo zoo sono una metafora di queste emergenze estreme, che anche loro potranno e dovranno combattere».

Consigli agli adulti?

«Sempre rispetto. Gli animali sono fondamentali per la vita del pianeta e dobbiamo averne cura. Senza di loro, moriamo anche noi».

Lei ha figli?

«Ne ho sei, dai cinque anni ai trenta. Due ormai adulti e quattro sotto i quindici».

Hanno già visto il film?

«Centinaia di volte. Mia moglie ha scritto la sceneggiatura e loro hanno dato idee e ci hanno messo più volte il naso. Sul set li avevo sempre intorno. Hanno dato il loro apporto di vivacità e spontaneità».

Programmi futuri?

«Affronterò il tema della deforestazione dell'Amazzonia raccontando la storia di una ragazzina che coinvolge il suo insegnante agorafobico per salvare il suo amico giaguaro in pericolo. Dovrebbe intitolarsi Jaguar my love. Uscirà tra un paio d'anni». Stefano Giani

·        Un Microchip per tutti.

Microchip: Cos’è e in quali specie si utilizza. Da Bluvet.it.

Il microchip è un transponder formato da una capsula di vetro biocompatibile, che viene iniettata sottopelle attraverso l’utilizzo di apposite siringhe sterili monouso. Vediamo per che specie si utilizza e a cosa serve.

Indice dell'articolo

Cos’è il microchip?

Microchip è obbligatorio per il cane

Il microchip nei gatti

Microchip per il furetto

Tartaruga di terra: obbligo di microchip

Mircrochip per animali non convenzionali: come funziona

Microchip per i conigli

Microchip del cane: a cosa serve

Microchip nel cane: vediamo il costo 

Cos’è il microchip?

Il microchip è un transponder formato da una capsula di vetro biocompatibile, che viene iniettata sottopelle nella zona del collo (per convenzione sul lato sinistro del soggetto), attraverso l’utilizzo di apposite siringhe sterili monouso.

Non è affatto dannoso, né procura dolore in fase di inserimento: sfrutta la tecnologia R.F.ID (Radio Frequency Identification), quindi onde a radiofrequenza, che si attivano solo quando viene avvicinato il lettore. 

Al suo interno c’è un chip decodificabile solo da veterinari abilitati, attraverso il quale si può scoprire la carta d’identità del cane, gatto o di qualunque animale lo possegga.

È l’unico sistema identificativo internazionale consentito, essendo dotato di una sequenza di 15 numeri, che permette di conoscere:

il paese di provenienza e residenza dell’animale

il codice identificativo dell’azienda di produzione del microchip stesso

l’identificazione del soggetto

del proprietario a cui fa capo.

Microchip è obbligatorio per il cane

Il microchip, introdotto nel 1991, è obbligatorio per il cane e sostituisce il tatuaggio, pratica decisamente più cruenta e oramai non più utilizzata.

L’inserimento del microchip va fatta entro i due mesi di vita del cane, altrimenti si rischia una sanzione fino ad ottanta euro.

Il microchip nei gatti

Per il gatto è obbligatorio in caso di espatrio, ma lo è anche per le nuove adozioni e i nuovi nati in tutta la Lombardia dal primo gennaio 2020.

Le caratteristiche dei microchip utilizzati per i gatti sono le medesimi dei microchip utilizzati per i cani. 

Microchip per il furetto

Anche per il furetto è obbligatorio il microchip per l’espatrio mentre rimane un atto volontario per rimanere in Italia.

Per le specie non convenzionali le linee guida in uso a livello internazionale sono quelle codificate dalla British Veterinary Zoological Society (BVZS) e dall’American Association of Zoo Veterinarians (AAZV).

Tartaruga di terra: obbligo di microchip

Si tratta di specie animali a rischio di estinzione, ed è per questo che le normative ne disciplinano il possesso, l’acquisto, l’alienazione ed il trasporto stabilendo dei requisiti stringenti.

Il possesso di una tartaruga può derivare esclusivamente o dall’acquisto o dalla nascita in cattività da un esemplare detenuto.

Non vi sono altre strade possibili: è vietato prelevare l’animale dal suo habitat naturale.

Sia che la tartaruga venga acquistata, sia che nasca da un esemplare in proprio possesso, la legge prevede obbligo di microchip.

Il microchip va inoculato entro il primo anno di vita dell’animale, fermo restando l’obbligo di denunciarne la nascita entro 10 giorni dall’evento; se invece ne acquistiamo il possesso tramite atto di compravendita, il venditore ha l’obbligo di trasmetterci il Documento CITES ed il modulo di cessione.

La tartaruga, inoltre, dovrà già possedere il microchip. 

Il sito standard di inoculo, per i cheloni è rappresentato dalla coscia sinistra in posizione sottocutanea

Eccezioni sono rappresentate da:

cheloni di grandi dimensioni (in cui risulti difficoltoso estendere l’arto per la lettura del dispositivo) nei quali il sito di inoculo è rappresentato dalla faccia dorsale del carpo sinistro in posizione sottocutanea .

specie mordaci o aggressive in cui è preferibile inoculare il trasponder nella muscolatura alla base della coda sul lato sinistro.

Mircrochip per animali non convenzionali: come funziona

Le marcature ammesse negli “animali non convenzionali” sono di due tipi.

Per i mammiferi e rettili il microchip, per gli uccelli un anello chiuso inamovibile applicato alla zampa. 

Nel momento in cui si decide di acquistare una specie non convenzionale, è importante assicurarsi che questa rientri in un elenco delle specie detenibili.

L’organo che tutela le specie di fauna e flora protette e la loro compravendita è il CITES (Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora). 

L’animale deve essere venduto dall’allevatore già correttamente microchippato o identificato e con regolare denuncia.

Microchip per i conigli

Ad oggi non esiste un obbligo di microcippare un coniglio da compagnia, ma al fine di tener monitorata e tutelata la popolazione cunicola è fortemente consigliata l’applicazione.

Microchip del cane: a cosa serve

L’introduzione della pratica del microchip ha portato moltissimi vantaggi alla salute e al benessere del cane.

Ecco i principali:

Il microchip scoraggia l’abbandono. Sapere che si verrebbe subito scoperti disincentiva questa pratica disumana e ingiusta, che purtroppo è ancora molto diffusa.

Il microchip aiuta i cani dispersi. Attraverso la lettura dei dati, è possibile riportare a casa a tutti quei cani che si sono persi e non riescono a ritrovare il loro legittimo proprietario.

Il microchip identifica i cani vaccinati. La lettura dei dati presenti nel microchip permette di vedere se un cane è vaccinato, ad esempio contro la rabbia, oppure no.

Il microchip permette di mettersi in viaggio. Senza questo strumento infatti i cani non possono viaggiare all’estero.

Microchip nel cane: vediamo il costo

Ulteriore vantaggio del microchip è il costo davvero molto contenuto: non esiste una tariffa univoca, perché cambia da regione a regione, ma nella gran parte dei cani il prezzo si attesta intorno ai 10.00 euro.

Il pagamento va fatto alla ASL di appartenenza, ma l’iniezione può essere effettuata presso un qualsiasi studio veterinario accreditato ad effettuare questo tipo di operazioni.

Non ci sono davvero motivazioni per rifiutarsi di iniettare il microchip al proprio cane.

Anzi, al contrario si tratta di un vero e proprio atto di amore che facciamo nei suoi confronti, dimostrandogli che da quel momento in cui ci prenderemo cura di lui e ci assumeremo tutte le responsabilità legate al suo benessere e al suo accudimento.

·        Il Cane.

Noemi Penna per lastampa.it il 3 dicembre 2022.

Quante volte hai pensato: “Vorrei poterlo fare anch’io!”. I cani dormono decisamente di più degli umani e anche se potremmo essere gelosi delle loro abitudini in tema di sonnellini, è importante capire se il nostro quattrozampe ha un ritmo di sonno-veglia corretto o se c’è qualcosa che non va. 

Di quanto sonno ha bisogno il mio cane?

La quantità di sonno di cui il tuo cane ha bisogno dipende da molti fattori: età, razza, livello di attività e condizioni ambientali. Potrebbe capitare di confrontarsi sul tema con altre persone. Sfortunatamente, paragonare ciò che fa il tuo cane con le abitudini di un altro potrebbe non essere il modo migliore per valutare ciò che è normale. Ma se il tuo cane generalmente dorme tra le 12 e le 14 ore al giorno, probabilmente non hai nulla di cui preoccuparti. Se sommando tutti i pisolini si superano le 15 ore al giorno, dovresti prestare più attenzione a come si comporta quando è sveglio. Se cambia abitudini, è letargico o ti sembra “disconnesso” urge una visita dal veterinario.

Cambiamenti da monitorare

Anche piccoli cambiamenti nella vita del tuo cane potrebbero portare a grandi cambiamenti nelle abitudini del suo sonno. Hai recentemente iniziato un nuovo lavoro o cambiato la tua routine giornaliera? Anche questo può influire, soprattutto se cambia la tua presenza a casa. Generalmente un cane che rimane a casa da solo per lunghi periodi può annoiarsi, sentirsi solo e dormire di più. Se avete aumentato il tempo di gioco, la durata delle passeggiate o avete iniziato uno sport insieme, è normale che sia più stanco e quindi si riposi di più. Anche la nuova presenza in casa di un gattino turbolento potrebbe indurre il tuo cane a cercare un posto tranquillo dove riposare. In tutti questi casi potrebbe volerci del tempo prima che si adattino al cambiamento e tornino al loro normale schema del sonno. 

Questione d’età

Quando si parla di sonno, anche l’età è un fattore determinante. Proprio come i bambini hanno bisogno di più sonno degli adulti, i cuccioli potrebbero necessitare di 15-20 ore di nanna al giorno per aiutare il loro sistema nervoso centrale, il sistema immunitario e i muscoli a svilupparsi correttamente. I cuccioli potrebbero anche aver bisogno di un aiuto per stabilire l’orario in cui andare a dormire: spegni tutte le luci, riduci i rumori, spegli la tivù e crea una routine che induca il tuo quattrozampe ad andare a cuccia. Con l’avanzare dell’età i cani tenderanno nuovamente ad aver bisogno di più sonno e impiegheranno anche più tempo per addormentarsi.

Problemi di salute

I cani anziani a volte possono diventare meno attivi a causa del dolore articolare e questo potrebbe invece ridurre il suo sonno. Il veterinario ti aiuterà a capire se c’è un problema medico e darti dei consigli utili in merito. Proprio come accade con i sogni, i cani di grossa taglia tendono a dormire più spesso rispetto ai più piccoli. Terranova, San Bernardo, mastini e Grandi Pirenei sono particolarmente noti per essere dei grandi dormiglioni.

Ma se il tuo cane dorme eccessivamente, e questa abitudine è accompagnata da un cambiamento nell’alimentazione, nello stimolo della sete o della minzione, questa combinazione potrebbe indicare diabete canino o malattie renali. E’ sempre una buona idea guardare come si comporta il tuo cane anche mentre dorme. Un cane che va in apnea o russa può essere maggiormente a rischio di problemi respiratori. Chi dorme così profondamente da non sentire nemmeno suonare il campanello, d’altra parte, potrebbe avere problemi d’udito.

Diario giornaliero

Come avrete capito, quando si tratta di schemi di sonno non c’è una risposta facile o univoca. Se sei preoccupato per i ritmi di sonno-veglia del tuo animale domestico tieni traccia di tutti i suoi comportamenti quotidiani, dal mangiare al giocare. Dire “il mio cane dorme tutto il giorno” non è sufficiente per capire un potenziale problema, quindi assicurati che il tuo veterinario abbia abbastanza informazioni per scoprire cosa sta succedendo.

Ecco cosa prova Fido quando è adottato. Trauma o gioia? Il cucciolo «sottratto» alla mamma o l’adulto raccolto al canile. In Italia 3,4 milioni di «affidi».

Raffaella Direnzo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Novembre 2022.

Il rapporto tra uomo ed animali non è fatto solo di emozioni, ma anche di azioni che inducono ad un legame basato sulla fedeltà. Le prime incisioni risalgono forse a più di 8000 anni fa e raffigurano una scena di caccia che proviene da Shuwaymis, una regione collinare del nord-ovest dell’Arabia Saudita, suggerendo che gli umani hanno imparato l’arte di addestrare i cani da migliaia di anni.

IL TRAUMA DEI CUCCIOLI «Non è facile immaginare in modo sicuro quale sia lo stato psicologico di un animale, ma qualche supposizione possiamo farla», spiega il Dr. Roberto Marchesini, Medico veterinario, studioso di etologia filosofica e di zooantropologia, direzione della scuola di interazione uomo animale. «Se parliamo di un cucciolo di tre mesi, quindi ancora con la mamma, è evidente che la separazione produce un senso di vulnerabilità che dev’essere subito compensato attraverso un legame forte. Il cucciolo - prosegue - è in fase di attaccamento, per cui ci vedrà come base sicura, vale a dire un riferimento indispensabile per sentirsi sereno».

«Se, viceversa - prosegue -, adottiamo un cane da un canile, le emozioni saranno differenti e legati alla gioia di far parte di un gruppo, uscendo dall’anonimato sociale della condizione del canile. In entrambi i casi la natura sociale del cane lo porterà a vivere l’esperienza relazionale con serenità e appagamento».

LA SCELTA DELL’ADOZIONE Sarebbero circa 3,4 milioni di italiani che tra il 2020 e il 2021 hanno adottato cani. Diversi sono gli aspetti e i motivi che affascinano e richiamano l’interesse ad adottare un pet. La tendenza ad accudire e a prenderci cura di tutto ciò che riteniamo fragile e vulnerabile, trasforma i cuccioli in qualcosa di irresistibile che suscita la tenerezza».

cagne e micetti Si parla di baby schema per riferirci ad alcuni caratteri che rendono riconoscibile un cucciolo anche da parte di soggetti di un’altra specie. Per esempio: gli occhi grandi rispetto alla testa, la forma sferica del cranio, il mantello soffice, il muso schiacciato, le zampette corte. «Siamo molto sensibili verso il richiamo dei cuccioli, molto di più degli altri mammiferi, che comunque presentano anch’essi fenomeni di adozione transpeciem: per esempio, cagne che adottano micetti, gatte che adottano cuccioli di ratto o di riccio. In noi questo comportamento è molto comune e in antropologia viene definito maternage, ossia allattamento al seno di cuccioli di altra specie», afferma l’etologo.

LA BIOFILIAÈ un termine introdotto da Edward Wilson per ipotizzare un’estetica innata dell’essere umano che vede nelle forme della natura il senso del bello. Già Edmund Burke sottolineava il rapporto tra essere umano e fenomeni naturali sconvolgenti - mozzafiato o produttori di vertigine - il senso del sublime proprio del romanticismo. «Non deve meravigliare tutto questo, perché sappiamo che gli orientamenti estetici sono già presenti in natura anche da parte di altri animali, ne è un esempio l’uccello giardiniere, ma possiamo individuare un’estetica della natura che ha avuto una parte non secondaria nel processo di evoluzione, come già individuato dallo stesso Charles Darwin».

RUOLO EDUCATIVO DEI PET «La tradizione pedagogica - e mi riferisco ad autori come Pestalozzi, Rousseau, Lombardo Radice, Tolstoj - ha più volte rimarcato l’importanza formativa del rapporto del bambino con le altre specie. La valenza educativa di questa relazione si gioca sullo sviluppo dell’immaginario, sulla capacità comunicativa, sull’empatia e sui comportamenti prosociali», conclude il Dr. Marchesini.

Il grande problema del nostro tempo nasce dall’incapacità di comprendere il valore di questa relazione: l’animale viene banalizzato, ridotto a un’entità fumettistica e antropomorfizzato, perdendo così le sue valenze in questo processo di denaturazione. La libertà, peraltro, se arrendevole allo scodinzolio rischierebbe di diventare promotrice di oceaniche speculazioni non di progresso, ma di gesti ambigui, irresponsabili e immorali.

La Francia dedica un memoriale ai suoi cani eroi di guerra. Niccolò Locatelli su La Repubblica il 23 Ottobre 2022.

Oltre a essere compagni di giochi e di vita in tempo di pace, i cani danno un contributo spesso decisivo in tempo di guerra. Fiutano esplosivi, si mettono sulle tracce dei fuggitivi, aiutano gli umani nella lotta ai terroristi e ad altri nemici. 

La Francia ha deciso di tributare il giusto riconoscimento al ruolo che giocano i cani nella tutela della sicurezza nazionale dedicando un memoriale ai “cani eroi”, civili e militari. 

Il monumento è stato inaugurato questa settimana. La scultura, voluta dall’ente cinofilo francese, è opera dell’artista franco-colombiano Milthon; raffigura un cane e un soldato della prima guerra mondiale rannicchiati assieme. 

Il memoriale sorge davanti al municipio di Suippes, nel dipartimento della Marna, in un luogo doppiamente simbolico. Questa parte di Francia è nota per le tremende battaglie che furono combattute qui durante la prima guerra mondiale ed è probabile che una scena come quella scolpita nel monumento sia davvero accaduta.

Suippes inoltre oggi ospita il canile militare più grande d’Europa: oltre 550 esemplari appartenenti al 132° reggimento di fanteria cinofila sono infatti addestrati qui da oltre 650 umani. Qualcuno dei quattrozampe ha anche partecipato all’inaugurazione del memoriale, sfoggiando orgoglioso le sue medaglie militari. 

Le reclute canine hanno un’età media di 18 mesi, ma ogni tanto viene selezionato anche qualche cucciolo. Provengono prevalentemente dalla Francia o da paesi vicini: Germania, Olanda, Est Europa. Dopo l’addestramento sono impiegate sia in patria sia all’estero; ogni esemplare è assegnato a un militare umano.  

Essere reclutati non è una passeggiata: i cani vengono sottoposti a un test per capire la loro voglia di mordere, di giocare e la loro resistenza allo stress. La qualità più importante è la stessa che viene richiesta agli uomini: il coraggio. 

Un bimbo si avvicina troppo al bestiame, il cane Snow lo salva dal peggio. Fulvio Cerutti su La Repubblica il 25 Ottobre 2022. 

Il piccolo Sky, un anno, stava giocando nel cortile. Ma l'incontro di un bovino si stava trasformando in una tragedia

Un bambino gioca fuori di casa. Non lontano da lui ci sono alcuni bovini che stanno mangiando l'erba. In pochi istanti la curiosità del piccoletto rischia di trasformarsi in una tragedia. Ma a evitarlo ci pensa il cane di casa, una femmina di Pastore tedesco.

Tutto è avvenuto nella provincia di Phetchaburi, in Thailandia. È pomeriggio e Pasakorn Saiphat, 25 anni, osserva il figlio Sky camminare fuori di casa: "Porto sempre i miei figli fuori per giocare. Camminiamo sempre intorno alla strada vicina dove è più tranquilla" racconta l'uomo.

Sky ha solo un anno. Il suo passo è incerto, ma ovviamente la possibilità di muoversi lo spinge dove la sua curiosità lo porta. E a pochi metri da lui c'erano alcuni bovini che stavano mangiando l'erba del prato. Troppo interessante per non esserne attratti: Sky si avvicina a loro. Uno di questi, probabilmente infastidito, gli va incontro con la testa bassa. L'atteggiamento è quello di un animale che vorrebbe solo essere lasciato in pace e non apprezza di essere disturbato. Sembra volergli dare un avvertimento, ma è anche possibile che stia per caricarlo. 

"È successo tutto molto velocemente. Stavo per prendere in braccio mio figlio quando una dei bovini si è avvicinato a lui infastidito e lo ha quasi attaccato" racconta ancora il padre. È in quei brevi ma drammatici istanti che entra in scena Snow: il cane di famiglia percepisce la situazione di pericolo e si lancia in aiuto del suo piccolo amico. Con pochi balzi si dirige abbaiando verso la minaccia e il bovino scappa subito insieme agli altri animali anche loro spaventati dall'intervento inatteso. 

La scena, ripresa da alcune telecamere di sicurezza, mostra il padre che, con Sky fra le braccia, richiama ripetutamente il cane perché non capitino altri problemi. "È successo tutto in meno di un minuto. Se non fosse stato per il nostro amato cane, mio figlio si sarebbe ferito gravemente o sarebbe potuto succedere qualcosa di peggio. Siamo rimasti tutti scioccati e sollevati allo stesso tempo. Sono molto grato al mio Snow". E quella gratitudine si è trasformata in una bella porzione della sua carne preferita.

Cani abbandonati si mettono in fila ordinata per ricevere il cibo in Ucraina, il volontario: "Sbalordito". Fulvio Cerutti La Repubblica il 25 Ottobre 2022.

L'autore della fotografia Nate Mook: "Spero che possa ispirare le persone a sostenere gli animali che qui hanno bisogno di molto aiuto in questo momento"

Cinque cani. Fermi, rigorosamente in fila indiana e distanziati. Tutti tranquilli, educatamente in paziente attesa di qualcosa di cui hanno un gran bisogno: il cibo. Capita in Ucraina, più precisamente in una strada di Kramatorsk dove è stata allestita una “stazione” per la distribuzione di alimenti per i quattrozampe. Molti sono diventati randagi con lo scoppio della guerra: alcuni smarriti, altri abbandonati dai proprietari fuggiti dall’orrore dei bombardamenti russi.

A far conoscere questa storia è stata una fotografia pubblicata su Twitter da Nate Mook, statunitense impegnato da mesi in Ucraina a sostegno di rifugiati e progetti umanitari e uno degli organizzatori dell'allestimento stazioni di alimentazione per gli animali in tutte le città ucraine.

"Sono rimasto sbalordito. Non avevo mai visto niente di simile - ha detto Mook a SBS News -. Questi sono animali che vivevano nelle case e le loro famiglie se ne sono andate e non hanno necessariamente nessuno che si prenda cura di loro in questo momento. Si raggruppano in branchi, ed è per questo che sono tutti insieme e sono molto, molto organizzati. Sono animali molto intelligenti e in questo momento hanno paura degli umani”. 

Mook, imprenditore e regista, è stato recentemente Ceo di World Central Kitchen, un'organizzazione non governativa senza fini di lucro dedicata alla fornitura di pasti in seguito a disastri naturali. Nel 2017, per esempio, ha guidato i soccorsi alimentari a Porto Rico dopo l'uragano Maria. Ora nella sua esperienza in Ucraina Mook ha notato una mancanza di supporto o assistenza per gli animali, che oltre ai traumi della guerra devono soffrire anche la fame. Per questo ha partecipato all’installazione di stazioni di alimentazione per animali domestici e ha recentemente contribuito a consegnare circa 230 chilogrammi a un santuario di Sviatohirsk che ospita animali domestici trovati a vagare per le strade della città appena liberata.

(ANSA il 13 ottobre 2022) - Un professore universitario è finito sotto processo a Firenze come 'stalker' a causa dell'abbaiare dei suoi tre cani. Per l'accusa, l'uomo sarebbe rimasto "incurante delle segnalazioni reiterate e delle iniziative giudiziarie del vicino" e avrebbe cagionato alla famiglia "volontariamente e consapevolmente" un "perdurante e grave stato d'ansia".

 Sulla vicenda, riportata dalla stampa locale, interviene Oipa - Organizzazione internazionale protezione animali spiegando che "l'abbaio del nostro cane non ci rende automaticamente responsabili per legge", ma è bene tenere sempre presente "che un quattrozampe che abbaia frequentemente manifesta un disagio che può essere curato per farlo vivere meglio. Affidiamoci quindi a un buon veterinario o a un educatore cinofilo".

"A prescindere se la legge sia o meno dalla nostra parte, dobbiamo sempre garantire il rispetto della convivenza civica evitando rumori molesti costanti e in orari meno appropriati - spiega l'avvocato Claudia Taccani, responsabile dello Sportello legale dell'Oipa -. È bene sapere, anzitutto, che l'eventuale disturbo di uno o più cani può determinare, secondo il Codice civile, la responsabilità per le così dette 'immissioni' come, per esempio, rumori, bisogni, odori, qualora superino, come prevede la legge, la 'normale tollerabilità'".

Ma "si è responsabili solo in caso di un'accertata intensità e costanza del rumore, in questo caso dell'abbaiare, e quando questo provoca un disturbo effettivo ai vicini, i quali hanno l'onere della prova". Ancora, secondo l'orientamento giurisprudenziale prevalente, per "disturbare la quiete pubblica deve esservi la segnalazione di più soggetti che denunciano l'accaduto. La sussistenza di un rumore che rappresenta disturbo alla quiete pubblica, a causa dell'abbaiare del cane, deve comunque essere provato".

 Il cane, si conclude, "ha 'diritto di abbaiare' purché non sia superata la normale tollerabilità: di rilievo è una sentenza del giudice del tribunale di Lanciano che ha confermato l'orientamento giurisprudenziale prevalente, tenendo conto dell'esigenza naturale del cane che, come nel caso sottoposto al giudice, vivendo in aperta campagna svolge anche la funzione di tutela della proprietà". (ANSA).

Perché il mio cane sospira? Noemi Penna su La Repubblica il 16 Novembre 2022.

Sollievo, stanchezza, rilassamento o delusione sono alcuni dei motivi che ti portano a sospirare. Ma anche i cani provano la stessa gamma di emozioni quando lo fanno? La maggior parte delle volte no, ma ci sono dei segnali che possono farcelo capire. 

Ma che cos’è un sospiro?

Sospirare è una funzione corporea naturale. La maggior parte dei respiri sono silenziosi e non udibili. Un sospiro, invece, è più lungo e “rumoroso”. A livello scientifico, un sospiro è un respiro lungo e profondo circa il doppio del volume di uno normale. E ha una funzione ben specifica: allungare i polmoni. Un respiro profondo gonfia forzatamente i minuscoli alveoli che ricoprono i polmoni, in cui avviene lo scambio fra ossigeno e anidride carbonica nel sangue. 

Linguaggio del corpo

Come avrete capito, la maggior parte dei sospiri del vostro cane sono fisiologici e servono appunto per distendere i polmoni. Ma in alcuni casi possono essere volontari e traducibili in emozioni, sia positive che negative. Quando il sospiro è combinato agli occhi semichiusi generalmente comunica piacere. Con gli occhi completamente aperti, comunica delusione. Altre volte è un semplice segnale emotivo che interrompe un’azione, come ad esempio l’aver finito un bocconcino prelibato. Ma anche se nessuno può conoscerne realmente il significato, è più frequente che possano indicare una delusione perché in caso contrario si trasforma in un gemito o un lamento. In ogni caso, per capirlo cerca di tenere d’occhio il linguaggio del corpo e il comportamento generale del tuo animale quando lo senti sospirare. Ti sembra angosciato, stanco, assonato, calmo o contento? Più indizi raccogli, meglio sarai in grado di capirne il significato. 

Sbadiglio camuffato

Anche gli sbadigli possono spesso essere scambiati per sospiri poiché corrispondono a un respiro più profondo. Tuttavia, uno sbadiglio richiede anche una bocca spalancata, mentre un sospiro può essere fatto attraverso una bocca chiusa o anche solo il naso. Anche i gemiti sono in qualche modo simili ai sospiri ma in quel caso il rumore che senti viene emesso effettivamente dalle sue corde vocali e non dal respiro in sé. Infine, anche l’ansimare è simile al sospiro poiché comporta un respiro insolito abbinato a un suono, ma la differenza sostanziale è che l’ansimare comporta tanti brevi respiri mentre il sospiro è solitamente singolo e più lungo. Il respiro pesante del tuo cane potrebbe anche essere collegato ad allergie. 

Contatto visivo

Se il cane è seduto, completamente vigile e ti guarda mentre sospira, potrebbe essere un suo tentativo per comunicarti un problema. Se è abbinato anche a gemiti o brontolii eccessivi, può essere un segno di dolore o disagio. In questo caso è bene fare un controllo veterinario, con urgenza se sono abbinati a letargia, mancanza di energia o appetito: potrebbero essere infatti causati da infezioni, diabete, problemi al fegato o al cuore, ipoglicemia e tutta una serie di altre malattie.

IL CASO. Morsa al volto da pitbull di famiglia, è ricoverata a Lecce. Seconda aggressione in pochi mesi. Una bambina di sette anni di Monteroni ha riportato profonde ferite alla faccia ed è in cura al reparto di chirurgia pediatrica del «Fazzi». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Settembre 2022.

Una bambina di sette anni è rimasta ferita al volto dopo essere stata morsa dal cane di famiglia, un pitbull, mentre si trovava in casa con i genitori e la nonna, quest’ultima presente al momento dell’aggressione. L’episodio è accaduto ieri sera a Monteroni (Lecce). La piccola, soccorsa e condotta al pronto soccorso dell’ospedale «Vito Fazzì» di Lecce, ha riportato profonde ferite al volto ed è ricoverata nel reparto di chirurgia pediatrica. Non è in pericolo di vita.

Sono stati i sanitari del pronto soccorso ad allertare gli agenti del posto fisso di Polizia facendo avviare le indagini.

Era già stata morsa pochi mesi fa dallo stesso cane la bimba di sette anni aggredita ieri sera in casa a Monteroni dal pitbull di famiglia. La prima aggressione risalirebbe allo scorso 30 maggio e anche in quel caso si rese necessario il ricovero in ospedale per la piccola.

Dopo la segnalazione da parte dei carabinieri ad Asl e Procura, il cane venne posto sotto sequestro e affidato al proprietario, il nuovo compagno della madre della bimba. L'animale è tuttora sotto sequestro e affidato in custodia al proprietario.

Operata la bimba dai medici della Chirurgia pediatrica

La bambina morsa dal cane al viso nella sua casa a Monteroni di Lecce è stata operata dai medici della Chirurgia pediatrica e della Chirurgia plastica dell’ospedale Vito Fazzi di Lecce. La piccola - ha spiegato in serata Luciano Leanza, dirigente medico del reparto di Chirurgia Plastica - ha riportato «profonde ferite lacero contuse del volto, in particolare della guancia sinistra e del padiglione auricolare sinistro con perdita di sostanza cutanea e dei tessuti molli che ha richiesto un delicato intervento ricostruttivo con lembi locali e con tecniche di chirurgia plastica ricostruttiva per garantire, vista l’entità del trauma, un recupero morfo funzionale ed estetico».

«Resta chiaro che le complicanze infettive legate al trauma e alla sede anatomica richiedono assistenza costante da parte nostra - ha aggiunto - e non si escludono altri interventi ricostruttivi. I sanitari si riservano di sciogliere i dubbi sulla prognosi dopo aver scongiurato complicanze di natura infettiva. Il post operatorio è regolare, la piccola paziente è tranquilla».

Lecce, il pitbull di famiglia azzanna bimba di 7 anni e le strappa la guancia: l'aveva già aggredita pochi mesi fa. La Repubblica il 13 settembre 2022 

L'animale appartiene al compagno della madre e meno di quattro mesi fa aveva azzannato la bambina: era stato posto sotto sequestro ma lasciato sotto lo stesso tetto. Trasportata d' urgenza all'ospedale di Lecce, la piccola è ora ricoverata in prognosi riservata con una profonda lesione al volto

E' stata aggredita per la seconda volta in meno di quattro mesi dallo stesso cane, un pitbull che vive in casa con lei, una bambina di sette anni a Monteroni che ora è ricoverata in ospedale con una profonda lesione al volto. Dopo il primo episodio del 30 maggio scorso in seguito al quale il cane era stato posto sotto sequestro ma lasciato sotto lo stesso tetto della piccola, nuovamente l'animale si è avventato contro la bimba mordendola al volto e lacerandole una guancia.

La bambina, subito soccorsa è stata trasportata in ospedale dove è stata ricoverata in codice rosso nel reparto di chirurgia pediatrica dell'ospedale Vito Fazzi di Lecce. La ferita è profonda ma la bimba non è in pericolo di vita ed è già stata sottoposta ad un intervento chirurgico per la ricomposizione della ferita dai medici della Chirurgia pediatrica e della Chirurgia plastica del Fazzi. Quando è avvenuto il fatto, la bambina era in casa con la nonna, la mamma e il compagno della donna che è il proprietario del cane. A lui l'animale era stato affidato dopo il sequestro.

Sarebbe stata la nonna ad accorgersi di quanto stava avvenendo e a soccorrere per prima la piccola bloccando il cane ed evitando conseguenze più gravi. Successivamente, all'arrivo all'ospedale , sono stati i sanitari del pronto soccorso, valutando le condizioni di arrivo in ospedale della piccola paziente, ad informare dell'accaduto gli agenti del posto fisso della Polizia dell'ospedale. Agenti che hanno avviato le indagini per ricostruire l'accaduto ed accertare le eventuali responsabilità dei presenti. Del fatto sono stati anche informati i servizi sociali. Il cane è stato ieri stesso preso e portato in un canile convenzionato con il Comune dove viene tenuto sotto osservazione. Gli esperti dovranno valutarne il livello di aggressività e pericolosità e verrà anche  sottoposto ad analisi per verificare la presenza di eventuali malattie che possano essere trasmesse alla piccola.

"La bambina ha riportato profonde ferite lacero contuse del volto, in particolare della guancia sinistra e del padiglione auricolare sinistro - ha commentato il dottor Luciano Leanza, dirigente medico del Reparto di Chirurgia Plastica del Fazzi - con perdita di sostanza cutanea e dei tessuti molli che ha richiesto un delicato intervento ricostruttivo con lembi locali e con tecniche di chirurgia plastica ricostruttiva per garantire, vista l'entità del trauma, un recupero morfo funzionale ed estetico. Resta chiaro che le complicanze infettive legate al trauma e alla sede anatomica richiedono assistenza costante da parte nostra e non si escludono altri interventi ricostruttivi. I sanitari si riservano di sciogliere i dubbi sulla prognosi dopo aver scongiurato complicanze di natura infettiva. Il post operatorio è regolare, la piccola paziente è tranquilla", ha concluso il medico.

Secondo la ricostruzione fatta dalle forze dell'ordine il 30 maggio scorso si era verificato un episodio analogo e il cane anche in questo caso si era avventato al viso della bambina ferendola. Anche in quella circostanza era stato necessario correre al pronto soccorso per curare le ferite. E proprio dopo quell'episodio  il cane era stato sottoposto a sequestro e affidato al proprietario, il compagno della mamma.

Troppo pesanti sugli elicotteri: San Bernardo, addio soccorso. Addio fiaschette al collo, gli escursionisti in difficoltà ad alta quota dovranno votarsi non più a San Bernardo ma chissà a chi. Andrea Cuomo il 5 Settembre 2022 su Il Giornale.

Addio fiaschette al collo, gli escursionisti in difficoltà ad alta quota dovranno votarsi non più a San Bernardo ma chissà a chi. La Svizzera manda in pensione il più popolare cane di montagna, declassato alla meno avventurosa (pur se non meno commendevole) mansione di sostegno ad anziani, bambini e disabili. I primi a cambiare lavoro saranno i sette cuccioli di San Bernardo, cinque femmine e due maschi, nati un mese fa alla Fondazione Barry di Martigny (nel cantone del Vallese) dalla prima cucciolata di mamma Edène, due anni di età.

Il fatto è che i San Bernardo sono ormai troppo grandi e pesanti per salire sugli elicotteri del soccorso alpino. «Il San Bernardo - spiega Fabien Marmy, presidente del gruppo dei cani da valanga del Vallese romando - non è più utilizzato a causa delle sue dimensioni e del suo peso, che può raggiungere gli 80-85 chili. Occorre infatti poter portare il cane in braccio per metterlo nell'elicottero. E poi si tratta anche di una questione di posto nell'abitacolo». Meglio labrador, pastori tedeschi, pastori australiani e Golden retriever, che pesano in media meno di 35 chili e sono «particolarmente resistenti».

A lungo utilizzati per accompagnare i viaggiatori e per ritrovare e salvare i dispersi nella neve e nella nebbia, i San Bernardo - con il caratteristico bariletto di legno al collo per dispensare un conforto alcolico molto gradito alle basse temperature - è nell'immaginario collettivo considerato il migliore amico dell'uomo delle nevi. Per un lungo periodo gli esemplari di questa razza sono intervenuti in particolare nella zona del Gran San Bernardo, dove vivevano. Ma «con l'utilizzo degli elicotteri, i soccorritori hanno preferito loro razze più leggere», spiega Manuel Gaillard, responsabile cinofilia alla Fondazione Barry.

Circa trenta San Bernardo vivono stabilmente alla Fondazione e ogni anno nascono in media 20-25 cuccioli con pedigree. Se taluni rimarranno a Martigny per proseguire l'allevamento, la maggior parte sarà collocata in famiglie accuratamente selezionate. I cuccioli di Edène possono essere seguiti quotidianamente grazie alla webcam sul sito web della fondazione.

Daniela Mastromattei per “Libero quotidiano” il 26 agosto 2022.

Con un'Europa che comincia ad arricchirsi, a partire dal XV secolo, negli ambienti aristocratici spuntano i primi animali da compagnia, come testimoniano i dipinti di quel periodo con padroni o padroncine che tengono in braccio il proprio cagnolino, sinonimo di ricchezza. Sono cani di piccola taglia, spesso spaniel di razza inglese, quelli che compaiono nell'arte Elisabettiana portando in età Vittoriana la nascita del pedigree per indicare i discendenti di un animale domestico, con particolare attenzione agli alberi genealogici.

E a partire dal XIX secolo è la classe media in ascesa che comincia a mostrare interesse per i cagnolini di razza con genitori iscritti in un registro ufficiale. Siamo nel secolo dei Kennel Club del Regno Unito, fondato nel 1873 e considerato il più antico club cinofilo al mondo, seguito poi dall'American Kennel Club, nato nel 1884. Qualche anno più tardi arrivano le mostre canine: la prima al Kennel Club a Birmingham risale al 1891.

Da allora, ne sono passati di anni, oggi non sono solo gli aristocratici o i ricchi a scegliere di avere una bestiola. Nelle case degli italiani ci sono oltre 14 milioni di cani, mentre i bambini nel Belpaese sono circa 8 milioni. E non sono tutti labrador retriever o golden retriever, razze simbolo di lealtà e stabilità, che i veterinari consigliano per chi ha figli piccoli, insieme al pastore tedesco reso popolare dal film Rin Tin Tin.

O dalmata, che con La carica dei 101 famoso cartone animato Disney del 1961, determinò negli Stati Uniti un moltiplicarsi di richieste di esemplari bianchi a chiazze nere. Così come è accaduto per i collie, dopo il successo della serie di Lassie. Purtroppo la scelta del cane spesso viene fatta sulla spinta delle mode: al momento al primo posto c'è il bulldog francese, più comune di quello inglese. 

È un seduttore. Felice, giocoso, ma anche molto dolce, è un compagno perfetto sia per i bambini che per gli anziani. Attaccatissimo al suo proprietario, l'animale ideale per chi vive in appartamento.

 Secondo una recente ricerca le razze di cani brachicefali, ossia che presentano il muso schiacciato, come il carlino e il bulldog francese o inglese, piacciano tanto. Dimmi che cane hai e ti dirò chi sei. Attraverso la scelta di un determinato animale, del nome che gli si dà e del modo in cui viene trattato emerge una determinata personalità. Chi ama vedere sul proprio divano un alano o un pitbull è ovviamente diverso per sensibilità e temperamenteto da chi preferisce portare a spasso un chihuahua o uno yorkshire terrier.

Sempre più italiani scelgono di avere un animale domestico e se ne prendono cura come un vero e proprio membro della famiglia. Tanto che oggi si celebra la Giornata Mondiale del Cane (nata nel 2004 negli Stati Uniti), e chissà quanti al proprio pet porteranno pure un regalino. 

«Se non hai un cane, almeno uno, non c'è necessariamente qualcosa di sbagliato in te, ma ci può essere qualcosa di sbagliato nella tua vita», direbbe Vincent van Gogh. Perché chi vive con un animale ride di più. E non sono solo le loro smorfie e i loro comportamenti buffi a rendere i proprietari più allegri, ma è la loro presenza e il loro affetto che mettono di buon umore. Insomma, fanno bene anche alla salute: chi ha un cane rischia in misura minore di soffrire di depressione.

Non solo: uno studio dell'American Heart Association ha rilevato che le persone con una ipertensione al limite, hanno visto i valori scendere dopo 5 mesi dall'adozione di un cane. Gli over 65 che hanno un animale domestico fanno circa il 30% in meno di visite mediche rispetto a chi non ne ha. I cani aiutano nella socialità: uno studio delle Università di Liverpool e Bristol sostiene che avere un cane migliora la socialità e aiuta a fare nuove amicizie.

Oltre a favorire gli innamoramenti durante le passeggiate al parco, con la complicità dei cuccioli, i primi a fare nuove amicizie. E ancora: migliorano l'autostima. I motivi sono da ritrovare nel rilascio di ossitocina, ormone che favorisce l'affettività e l'empatia, ma anche nella produzione di serotonina, l'ormone del buonumore e nella riduzione del cortisolo, che provoca lo stress.

Altro che sedute dallo psicologo un cagnolino, vi fa uscire di casa quando non ne avete voglia; vi obbliga ad essere più attivi, a muovervi. E a tenervi in forma. Scegliete quello che più vi piace: bassotto o barboncino, pechinese o boston terrier, volpino di Pomerania o maltese tra i più adatti per vivere in casa. Oppure recatevi in un canile, e quello che si innamorerà di voi al primo sguardo portatelo a casa. Renderete felice una delle povere bestiole abbandonate da persone indegne.

Giornata mondiale del cane, ma c'è ancora chi lo mangia. Jacopo Fontaneto su La Repubblica il 25 Agosto 2022

Campagna internazionale contro la pratica di cucinare i cani promossa da stopeatingdogs.com 

In Cina c'è un festival dedicato alla carne canina, consumata anche nel Sudest asiatico. In Occidente usata solo in condizioni di necessità estrema, durante la guerra o in caso di incidenti sui ghiacciai. La curiosità, Barack Obama in un suo libro: "Da ragazzino il mio patrigno me la fece mangiare"

Molto più facile “mangiare da cani” che mangiarsi un cane. Oggi, almeno, e per fortuna. Tuttavia, il consumo della carne del più fedele amico dell'uomo non è affatto scomparso dalla faccia della terra: in molte zone della Cina è d'uso comune e a Yulin, nello Guangxi Zhuang, c'è addirittura un festival dedicato a quest'orribile consuetudine culinaria, che vede il massacro di migliaia di animali in appena una decina di giorni. Un evento che suscita polemiche e indignazione in tutto il mondo, con proteste internazionali.

Più in generale, sono ancora decine di milioni i cani uccisi e cucinati ogni anno nel mondo. E vale la pena ricordarlo, nella giornata a loro dedicata, il 26 agosto.

Una pratica alimentare oggi lontana da ogni riferimento alla cultura occidentale ma con qualche eccezione tra le più insospettabili: ad esempio, l'ex presidente statunitense Barack Obama che, nel libro autobiografico “Dreams from my father”, racconta di quando, giovanissimo, il patrigno indonesiano Lolo Soetoro gli fece mangiare carne di cane (che ricorda come “dura”) insieme ad altre piuttosto singolari come quella di serpente (“più dura”) e alla cavalletta arrosto (“croccante”). 

Anche oggi il consumo di carne di cane è concentrato nella cucina del Sudest asiatico: in Corea del Sud resta uno degli ingredienti del Bosintang, una delle zuppe più celebri del Paese, ma è considerato un ingrediente ricercato anche a Timor Est e nell'isola di Tonga, nel cuore del Pacifico.

Per i vietnamiti è addirittura afrodisiaca: al suo macabro consumo, secondo per numeri solo a quello cinese, si collegano anche precetti astrologici, che la ritengono un potente portafortuna se mangiata alla fine del mese lunare (i ristoranti specializzati che la servono aprono solo durante quel periodo). Presunte (e mai accertate) proprietà medicinali ne favoriscono il consumo anche in Uzbekistan, mentre a Thaiti, oggi Polinesia Francese, l'abuso di una cucina canina portò addirittura all'estinzione di una particolare razza autoctona.  

Sarebbe invece un falso mito una presenza (per quanto isolata) della dog's meat in Svizzera: la leggenda metropolitana fu alimentata da due articoli pubblicati una decina d'anni fa dal Bund e del Tages Anzeiger con l'intervista a un contadino locale che, in anonimato, aveva dichiarato di affumicarsi la carne di cane in casa. L'articolo provocò in ogni caso uno tsunami internazionale, tanto da spingere persino la tv svizzera a chiarire la situazione, con un pizzico di ironia: “No, i bimbi non li porta la cicogna, gli unicorni non esistono e gli svizzeri non mangiano i cani”. 

Se è vero che in moltissimi Paesi del mondo, Europa compresa, non esistono leggi che impediscono in modo diretto ed esplicito il consumo della carne di cane, lo stesso è comunque (e per fortuna) impossibile grazie alle norme che tutelano gli animali. In particolare, in Italia ogni tipo di macellazione “legale” è regolamentata: ovviamente, non è affatto prevista quella della carne di cane o di gatto. Per di più, va ricordato che uccidere un animale volontariamente rientra nei reati connessi al maltrattamento con tutte le aggravanti previste dal codice penale. 

Alla legge dell'uomo si unisce anche quella divina: in particolare, le regole ebraiche del Kasherut (la disciplina degli alimenti consumabili dagli israeliti) e i precetti religiosi islamici ne vietano espressamente il consumo. Pur con alcune deroghe, come ricorda ancora Barack Obama nel suo libro: il patrigno Lolo, come molti indonesiani, seguiva infatti un tipo di Islam che lasciava spazi ai resti delle più antiche fedi animistiche e indù: “Spiegò – cita il libro - che un uomo assumeva i poteri di qualunque cosa mangiasse: un giorno, promise, avrebbe portato a casa un pezzo di carne di tigre da condividere”. 

E i cristiani? Niente testi sacri in merito, ma va ricordato che già Paolo VI assicurò a un bimbo in lacrime per la scomparsa del suo cane che “un giorno rivedremo i nostri animali nell'eternità di Cristo”. Chissà. 

Nella storia alimentare occidentale, il consumo della carne di cane si è verificato quasi esclusivamente in condizioni di necessità estrema: in Germania le testimonianze storiche partono Federico il Grande, nel XVIII secolo, fino alle grandi crisi del Novecento, quando l'inflazione mise sul lastrico l'intero Paese e i cittadini arrivarono a cibarsi di qualsiasi tipo di animale.

Anche Francia è accertato il consumo di “viande de chien” (e persino di topo) nel corso dell'Assedio di Parigi (1870-71), mentre nel 1910 ne è riportata la vendita in alcune macellerie e mercati, come quello di Saint Germain. 

Nel 1904, il New York Times riportava la notizia di minatori rimasti senza provviste costretti a cibarsene lungo il fiume Tanana, in Alaska, ai tempi della corsa all'oro. 

Ghiacci e cani. Questi ultimi salvarono l'uomo (loro malgrado) nelle zone più inospitali del pianeta a costo della loro stessa vita: si cibò dei propri cani da muta la spedizione di Shackleton diretta al Polo Sud nel 1915, dopo che la nave Endurance restò bloccata tra i ghiacci. E non fu l'unico caso: tre anni prima, sempre in Antartide, anche Douglas Mawson e Xavier Mertz, rimasti senza provviste, furono costretti a bollire e a razionare gli animali che trainavano le slitte: per la cronaca, il secondo morì in pochi giorni mentre Mawson, che invece sopravvisse, affidò al suo diario una testimonianza drammatica di quei giorni: “Tutto il mio corpo sta marcendo per mancanza di nutrimento adeguato. Ho i polpastrelli congelati, piaghe infette, le mucose del naso distrutte, le ghiandole salivari che rifiutano di funzionare, la pelle che si stacca dal corpo”. 

La triste galleria del consumo di carne di cane nell'Europa contemporanea si chiude con gli anni drammatici della seconda guerra mondiale: in particolare, è accertato il consumo di salsicce di cane nell'Olanda occupata dalla Germania (così come era avvenuto in Belgio nel corso della prima guerra mondiale).

In condizioni normali, la carne di cane fu d'uso comune già presso i popoli antichi: Greci e Romani, secondo quanto riportato da Ippocrate e Plinio il Vecchio, ma anche nell'impero Azteco (almeno secondo le fonti dei Conquistadores spagnoli). 

Nel suo Grande Dizionario di Cucina, Alexandre Dumas ricordava che “il capitano Cook, affetto da una malattia molto grave, fu curato con del brodo di cane” e censiva il consumo di carne arrostita nell'Africa nera, arrostita, presso i nativi Kamtchadales del Canada, e tra gli abitanti delle isole oceaniche. 

E l'hot-dog americano, la cui tradizione letterale è “cane caldo”? Tranquilli, mai usata la loro carne! Ma le due leggende più accreditate sull'origine del panino con la salsiccia più famoso del mondo hanno comunque attinenza con gli amici a quattro zampe: una prima versione vuole che il nome richiami la forma allungata del cane bassotto, lo Dachshund, inizialmente usato come sinonimo delle salsicce Frankfurter e in seguito semplificato, appunto, in hot-dog. Una seconda versione vuole il termine inventato da un venditore ambulante nel 1867 che, non riuscendo a vendere i suoi wurstel, per attirare l'attenzione del pubblico si inventò che fossero fatti di carne di cane, incuriosendo gli avventori e facendo crescere le vendite: i colleghi lo imitarono, e nacque così il nome del celebre panino farcito. L'unico “dog” che, oggi, vale davvero la pena di addentare.

Estratto dell’articolo di Michela Allegri per “il Messaggero” il 23 agosto 2022.

Se il cane del vicino abbaia tutta la notte e impedisce di riposare agli altri abitanti del quartiere, il proprietario può venire condannato a pagare un risarcimento, anche sostanzioso: il mancato riposo notturno può provocare danni alla salute. 

A stabilirlo è la Corte di Cassazione, che ha confermato la sentenza con cui i giudici di secondo grado - la Corte d'appello di Caltanissetta - avevano riconosciuto un risarcimento per i danni provocati dai continui guaiti di due cani lasciati tutte le notti sul terrazzo di un appartamento all'interno di un condominio.

Gli animali, ululando in continuazione, hanno reso impossibili le notti dei vicini, che non riuscivano nemmeno a prendere sonno. Uno dei dirimpettai ha deciso di fare causa, sostenendo che il mancato riposo gli ha provocato danno alla salute. E i giudici gli hanno dato ragione. 

Nella denuncia si parla di «cupi ululati, nonché continui e fastidiosi guaiti, specie nelle ore notturne e di riposo». C'è un altro dettaglio: i due animali venivano tenuti sia sul terrazzo dell'abitazione, sia «sul terreno comune», nonostante le proteste dei vicini.

La vittima ha anche detto di avere avuto danni pure dal punto di vista lavorativo, tanto da essere stata licenziata perché non era più in grado di concentrarsi e di svolgere al meglio le sue mansioni: ha sostenuto di avere perso il lavoro per avere fatto troppe assenze per malattia, provocate proprio dallo stress causato dal mancato riposo prolungato. 

[…] La norma stabilisce che «chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l'arresto fino a 3 mesi, o con l'ammenda fino a euro 309.

Si applica l'ammenda da euro 103 a euro 516 a chi esercita una professione o un mestiere rumoroso contro le disposizioni della legge o le prescrizioni dell'Autorità». In questo caso, oltre al risarcimento, i proprietari dei due cani dovranno anche pagare le spese di giudizio: altri 2.700,00 euro.

Prima adottati, poi abbandonati: triste record per gli animali in Puglia. Si moltiplicano i proprietari senza cuore. Liste d’attesa nei rifugi. Le associazioni accusano: «Gli animali non sono giocattoli da buttare per strada. Durante il lockdown troppe adozioni irresponsabili». Antonella Fanizzi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2022.

Canili e rifugi scoppiano. In Puglia il numero degli abbandoni è più che raddoppiato. Le cifre oscillano perché tanti animali vengono lasciati nelle periferie o nelle campagne e non tutti poi trovano ospitalità nelle strutture, sfuggendo dunque al monitoraggio. «Riceviamo in media dalle 10 alle 15 segnalazioni al giorno di persone che vogliono sbarazzarsi immediatamente del proprio cane», denuncia Patrizia Giaquinto, coordinatrice dell’associazione «Nati per amarti» che gestisce il canile sanitario di Bari.  

La triste storia di Kira e la piaga dell’abbandono degli animali

Una cagnolina meticcia è stata legata a un palo della luce dalla sua mamma umana e lasciata sul ciglio di una strada a Foggia. Il video, pubblicato sulla pagina dell’associazione Guerrieri poi diffuso dall’Enpa ha fatto il giro dei social grazie anche alla giornalista Selvaggia Lucarelli. E la vicenda riaccende i riflettori su una delle piaghe dell’estate

Le adozioni durante la pandemia È anche colpa della pandemia. Troppe famiglie a cuor leggero hanno adottato o acquistato, da rivenditori autorizzati oppure da spacciatori clandestini, i quadrupedi sia per combattere la solitudine che ha toccato il picco nei periodi di lockdown, sia per dare un amico ai bambini, costretti a restare chiusi in casa persino durante le ore scolastiche. 

In Italia nel corso dell’emergenza sanitaria sono stati adottati e poi rifiutati 117mila cani: quando è scattato il «liberi tutti», e il cane non è più servito a giustificare la passeggiata serale nonostante il coprifuoco, il 63% dei padroni si è giustificato dicendo che l’animale è diventato difficile da gestire e il 37% che causava danni materiali. 

Il cane non è un giocattolo «Qualcuno – tuona la coordinatrice pugliese della Lav-Lega antivivisezione, Sara Leone - ha pensato di regalare un giocattolo ai bambini, ma un cane o un gatto sono per sempre, e fanno parte del nucleo familiare. Vorrei ricordare a tutti che l’abbandono è un reato: l’articolo 727 del codice penale prevede l’arresto fino ad un anno e un’ammenda che va dai mille ai 10mila euro». Spesso il cane resta per molto tempo nel luogo dove viene lasciato, con la speranza che il padrone lo recuperi. Se ha il microchip è possibile risalire al proprietario e instaurare nei suoi confronti il processo penale. Quando il cane non ha il microchip, viene portato nel canile sanitario ed entra in un regime di controllo per la quarantena. Dopo questo periodo passa nel canile normale, dove è disponibile per essere adottato. 

In tutta Italia ha fatto scalpore il caso di Foggia. Una donna ha legato il meticcio a un palo davanti agli occhi del figlio in lacrime. Né Kira, la quattrozampe tradita, né tantomeno il suo padroncino avrebbero mai immaginato che la loro amicizia sarebbe stata spezzata da una madre indifferente persino al dolore del piccolo. La scena è stata ripresa da un telefonino di un passante ed è rimbalzata sui social. La donna è stata così individuata e denunciata. L’animale nel frattempo è stato salvato e affidato a una giovane coppia.  

Sara Leone lancia un appello: «Prendete i randagi dai canili perché hanno i microchip e il passaporto sanitario. Chi vuole andare in vacanza, e non può portare gli animali con sé, può affidarli ai dog-sitter, alle pensioni o meglio ancora optare per alberghi, villaggi o B&B che accettano gli animali. È in crescita la percentuale delle strutture che non mettono più gli animali alla porta». 

Liste d’attesa nei rifugi comunali Patrizia Giaquinto non nasconde le difficoltà vissute dai volontari, sempre più stanchi, che si prendono cura dei cani: «Molti padroni sono senza scrupoli. Ogni estate si celebra il medesimo dramma, ma i rifugi autorizzati sono ormai oltre il limite della capienza. I Comuni dovrebbero farsi carico del problema che cresce in maniera esponenziale». 

La rinuncia da parte delle famiglie in povertà Daniela Fanelli, che in Puglia coordina a livello regionale l’associazione Enpa (l’Ente nazionale per la protezione degli animali), aggiunge un’ulteriore chiave di lettura a giustificazione dell’impennata degli abbandoni: «Non tutti i padroni dei cani che si privano dell’affetto del peloso sono senza cuore. Qualcuno, sempre a causa della pandemia, ha perso il lavoro. Nutrire e curare un cane ha un costo e se la famiglia tira a campare con il reddito di cittadinanza oppure è costretta a saldare i debiti contratti negli ultimi due anni perché gli affari sono andati male, non ha le risorse sufficienti per continuare a gestire l’animale. In tanti ci contattano e chi chiedono aiuto. In Puglia però sono pochi i canili sanitari o i rifugi convenzionati con le amministrazioni comunali. A Bari per esempio ci sono le liste d’attesa perché la priorità viene data, come è normale che accada, ai randagi: i branchi che si aggirano nei quartieri sono una potenziale fonte di pericolo per i residenti. Chi ha comunque la necessità di affidare ad altri il proprio animale, alle volte cade nell’illecito: di fronte all’ennesimo diniego, mette il cane in macchina e lo scarica in un paese limitrofo per far perdere le tracce». 

Le campagne di sensibilizzazione L’Enpa è pronta a far ripartire la campagna di sensibilizzazione che periodicamente coinvolge le scuole, interrotta negli ultimi due anni proprio a causa del picco dei contagi Covid e delle limitazioni ai contatti. I bambini e i ragazzi sono il veicolo migliore per educare gli adulti a osservare comportamenti etici e virtuosi. Gli animali non sono oggetti, eppure in questa estate degli abbracci ritrovati, molti di loro sono stati buttati via.

Gravina in Puglia, 32 cani rinchiusi in un box: liberati, proprietario denunciato. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Luglio 2022.

Gli animali, privi di microchip, sono stati trovati in un sito privato recintato in Contrada Barisci

Trentadue cani, rinchiusi in costruzioni di cemento in pessime condizioni igienico ambientali, sono stati sequestrati dai carabinieri della Forestale di Altamura. Gli animali, privi di microchip, sono stati trovati in un sito privato recintato in Contrada Barisci, a Gravina di Puglia. L'operazione è stata condotta con i servizi veterinari dell’Asl e con i volontari della Lega Antivivisezionista Onlus, sezione di Corato, che hanno permesso, grazie alla loro segnalazione, di intervenire e trarre in salvo i cani. Il proprietario dei 32 animali è stato deferito all’autorità giudiziaria. Sequestrate anche le costruzioni in cemento dove erano rinchiusi i cani in quanto completamente abusive.

Il traffico illegale di cani che non conosce crisi: l’Europa «domanda» 8 milioni di cuccioli ogni anno. La moda del «cucciolo di razza» alimenta un traffico milionario. L’impegno della fondazione Cave Canem per salvare cani e gatti anche grazie a giovani detenuti. Redazione Animalia su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.

Maltesi, yorkshire, pinscher, chihuahua, french bulldog: il loro numero delle case degli italiani, e in generale un po’ in tutta Europa, è notevolmente aumentato durante la pandemia. Molto spesso la richiesta di tali razze supera l’offerta, ed è così che si alimenta un mercato parallelo di cui poco si conosce, ma che genera enormi affari e arricchisce trafficanti senza scrupoli. È questo uno degli aspetti raccontati nell’inedito docufilm Pedigree dream, curato dal regista finlandese Jon Erik West. Un’inchiesta che racconta il fenomeno del traffico degli amici a quattro zampe negli ultimi anni passando al setaccio 12 Paesi europei (Italia compresa) attraverso la voce diretta di attivisti, investigatori, giuristi, allevatori e veterinari, trasportatori e trafficanti. Questi ultimi anche a volto scoperto: in tutto oltre 50 testimonianze che aprono una finestra su un mondo inesplorato, e le cui dimensioni apparivano difficili da immaginare prima d’ora. 

Si stima che la domanda annuale di cuccioli in Europa sia di circa 8 milioni di unità, raggiungendo un volume economico enorme: «La federazione europea dei veterinari — ha spiegato West durante la presentazione romana dell’inchiesta avvenuta presso la fondazione Cave Canem — ha quantificato in 1,5 miliardi di euro l’anno il valore del commercio illegale di cuccioli, una cifra cui l’Italia contribuisce in maniera forte rispetto agli altri Paesi». La conferma del coinvolgimento italiano arriva da una delle voci raccolte dal team d’inchiesta, quella dell’ufficiale dei carabinieri Massimiliano Conti, comandante del raggruppamento Cites: «Nell’ultimo decennio — ricorda — sono stati operati circa 6mila sequestri di cuccioli per un valore di commerciale di 5 milioni di euro, con la conseguente denuncia di circa 400 persone». Questo, ovviamente, è un risultato parziale, poiché molto sfugge ancora all’opera repressiva delle forze dell’ordine. Il dato «sommerso», per quanto ipotetico, è di gran lunga superiore: Coldiretti, ad esempio, stimava in 300 milioni di euro il giro del mercato nero raggiunto nel 2021, quando la pandemia ha portato nelle case italiane oltre 3 milioni di nuovi cuccioli. 

Come mai questo triste primato italiano? «La vicinanza con l’est Europa — ha spiegato West — facilita sicuramente gli scambi. Ma c’è anche un tema di carattere legislativo a contribuire: nel Regno unito, ad esempio, è vietato importare cuccioli al di sotto di sei mesi di età. E questo è un forte deterrente al mercato nero». Le immagini dell’inchiesta scorrono impietose: cuccioli di pochi giorni stipati nei furgoni, deformati e traumatizzati per il resto della vita. Merce di scambio di un sottobosco criminale ignorato, talvolta, anche dai più sinceri amanti degli animali. Una mania, quella dei batuffoli di pelo accolti nelle cucce domestiche per la gioia di tanti bimbi, che porta a conseguenze impensabili, anche sotto il profilo genetico, poiché la salute dei cani da allevamento è sempre più «problematica». Alcuni Stati ne stanno prendendo atto e vi pongono drasticamente rimedio: è il caso della Norvegia che ha recentemente vietato l’allevamento di due razze canine dal muso schiacciato, il Cavalier King Charles spaniel e il Bulldog inglese, prendendo atto della sofferenza causata all’animale da questa peculiare selezione genetica. 

«Pedigree dream», che debutterà ufficialmente a settembre in Gran Bretagna, è stato sostenuto, tra gli altri, dalla fondazione Cave Canem di Roma, ente no profit tutto al femminile, nato dalla volontà di Adriana Possenti (fondatrice e presidente) e Federica Faiella (vicepresidente) , due donne sin da subito al timone della neonata onlus. Una realtà che opera sul doppio binario della difesa dei diritti e del benessere animale e quello dell’inclusione sociale. I cani, dunque, come “strumento” di riscatto, e a loro volta riportati ad una dimensione «domestica» anche laddove erano stati bollati come difficili, magari con un background di maltrattamento e abbandono culminata dentro le gabbie di un canile. Il mutuo aiuto persona- animale è il principio ispiratore di molti progetti di inclusione sociale della fondazione. Tra questi «Cambio rotta», un percorso di giustizia riparativa, rivolto a giovani autori di reato quando ancora minorenni, che scontano il proprio periodo di messa alla prova svolgendo attività socialmente utili e formative a favore dei cani senza famiglia costretti a vivere in canile. «Superata la messa alla prova — spiega la responsabile Faiella — coloro i quali si sono distinti per l’impegno e per le capacità nell’aiutare i cani ospitati nel canile usufruiscono di un training intensivo e beneficiano di borse di studio per acquisire la qualifica di educatore cinofilo, riconosciuta a livello regionale. Ai migliori viene offerto, successivamente, un incarico professionale: l’obiettivo è ridurre il rischio di recidiva e offrire loro una nuova prospettiva di vita: dei 31 partecipanti, 8 giovani hanno avuto una borsa di studio e 4 hanno ottenuto un incarico professionale». 

Anche il progetto «Fuori dalle gabbie» si ispira allo stesso principio, volendo dare una seconda possibilità ad animali e detenuti. Per quanto riguarda la rinascita dei quattro zampe cosiddetti «irrecuperabili», invece, Cave Canem ha all’attivo il progetto «Nessuno escluso», realizzato presso il canile di Valle Grande di Roma, ma anche altre strutture: il canile intercomunale di Modena, il canile Punto & Virgola di Magreta (Modena), il canile comunale di Spoleto, il canile comunale di Napoli e quello di Foggia. «Negli anni — spiega la fondazione — abbiamo dimostrato che la maggior parte dei cani che vengono definiti tali e condannati a essere classificati in queste categorie sono invece potenzialmente recuperabili e molto spesso idonei all’adozione». E così tra il 2020 e il 2021, degli 856 cani ospitati a Valle Grande, ben 687 sono stati adottati ( compresi quelli valutati con il ‘bollino rosso’ ad indicarne la difficile gestibilità) con un risparmio per le casse pubbliche di 1.191.086 euro.

Storie inumane: la colpa di essere pitbull (ma sotto accusa siamo noi). Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.

Costruiti come macchine da guerra, sono i cani più abbandonati nei canili e lì spesso resteranno. Cosa abbiamo sbagliato?

Lucky, a dispetto del nome, fortunato non è. È un Amstaff di 5 anni e già da tre vive nel Parco Canile di Milano. Se non troverà la famiglia giusta — e più passa il tempo più è difficile che ciò avvenga —, dietro le sbarre di una gabbia trascorrerà la sua intera esistenza. Anche Lion è un Amstaff di 5 anni e vive qualche chilometro più in là, nel canile di Segrate, dove è arrivato già dotato di microchip di riconoscimento. Ma il suo proprietario risulta ora irreperibile. Camillo invece è un pitbull di circa due anni: non ha microchip e nessuno lo ha reclamato dopo che è stato trovato vagante nelle strade di Torino. Al canile sanitario di Bari è appena arrivata anche Samsara, incrocio di pitbull di un anno che nonostante la giovane età è stata già abbandonata due volte.

«Mission impossibile»

Storie di cani reietti, bollati come «cattivi», destinati ad una vita da ergastolani per espiare colpe non loro, perché dietro troppa aggressività c’è sempre un proprietario inadeguato. La legge italiana non prevede soppressioni dei randagi, ed è un bene: non sono considerati un fastidio di cui sbarazzarsi, come in altri Paesi, e c’è il tempo per provare a trovare loro una nuova casa. Ma per «pitbull and co». l’adozione rischia di essere una mission impossible. Terrier di tipo bull (ovvero gli incroci tra bulldog e terrier) e molossoidi sono una parte consistente dei cani presenti nei rifugi italiani. L’Ente nazionale protezione animali stima che nei 66 che gestisce sul territorio nazionale siano in media il 25%, ovvero uno su quattro. «Ma in alcune regioni registriamo punte di uno su tre», sottolinea Giusy D’Angelo, responsabile Recupero comportamentale dell’Enpa. «Nel canile di Palermo si arriva anche al 40%», aggiunge.

Va meglio — invece — a Milano dove la percentuale complessiva nei tre canili sanitari varia dal 14% del 2018 (230 su 1.658 cani) al 16% del 2020 (162 su 1.029) come risulta dall’indagine statistica svolta da Elena Cezza per la Lega per la difesa del Cane. «Va però detto che in molti casi si tratta di animali provenienti dal Sud tramite le staffette», puntualizza Cezza, «perché a Milano il randagismo è praticamente debellato. Il patentino previsto dal regolamento comunale non è una panacea, ma è un buon precedente perché stabilisce che a un diritto, quello di adottare un cane della razza preferita, corrisponda anche un dovere, quello di sapersene prendere cura». Su scala nazionale i numeri parlano di una situazione che sta sfuggendo di mano, che mette in difficoltà operatori e volontari nella quasi indifferenza delle istituzioni. Molti cani arrivano dopo sequestri da parte delle forze dell’ordine, a seguito di aggressioni a persone, come conseguenza di un randagismo che in diverse regioni d’Italia non viene affrontato.

Rieducazione, cure mediche e fiducia nel genere umano

«I Comuni si sentono dereponsabilizzati sapendo che tanto ci siamo noi», sottolinea Ilaria Di Cola che con l’amica Manuela Bellaiuto gestisce il portale UnPitbullPerAmico che in 12 anni di attività è riuscito a fare adottare 350 pitbull recuperati in tutta Italia dalle situazioni più difficili. «Detto così sembra tanta roba», evidenzia Ilaria, «ma purtroppo si tratta solo di una goccia nel mare. E dietro c’è un lavoro complesso fatto di rieducazione dei cani, di cure mediche perché quelli reduci dai combattimenti arrivano davvero malconci, di ricostruzione della fiducia nel genere umano. E di ricerca della famiglia giusta a cui affidarlo». Un impegno che toglie ogni ritaglio di tempo perché Ilaria e Manuela sono volontarie e nella vita fanno altro: assicuratrice a Latina la prima, stampatrice a Pinerolo (Torino) la seconda. A farle incontrare è stata la passione per i bulli, intesi come pit. Ma è una passione onerosa: tenere i cani in pensione, pagare i veterinari e gli istruttori cinofili, i trasporti, il cibo.

Centinaia di euro per ogni animale: «Facciamo tutto grazie alle donazioni». Proprio perché loro i pitbull li amano in modo davvero viscerale («Quando ne incontri uno non ne vorresti più fare a meno per tutta la vita»), sono in prima linea nel chiedere una legge che blocchi le nuove nascite o che le riduca fortemente, limitando le riproduzioni a pochi selezionati allevatori. Può sembrare una posizione estrema, ma non lo è. In altri Paesi, come la Gran Bretagna, la detenzione dei pitbull è già vietata. E le restrizioni sono fortissime in Germania, Francia, Spagna. Negli ambienti animalisti e cinofili, che pure spesso non si trovano sulla stessa linea, sono in molti a pensare che certi incroci debbano essere evitati. «I cani non sono tutti uguali», aggiunge Cezza, «lo sono solo nel diritto di essere considerati esseri senzienti». Un chihuahua e un rottweiler non sono insomma la stessa cosa, per quanto molti lo sostengano. Perché a un certo punto entrano in gioco le motivazioni di razza, ovvero le caratteristiche comportamentali e caratteriali che ogni tipo di cane si porta con sé.

Il problema delle cucciolate casalinghe

Elena Garoni, veterinaria e docente universitaria e a sua volta attivista nei canili, a questo tema ha dedicato un libro (Piacere di conoscerti, edizioni Tea) e una recente campagna social. «I pitbull sono cani che nascono per i combattimenti con i tori», spiega. «Sono incroci tra molossi e terrier: i primi sono cani possenti, selezionati in origine per i lavori più pesanti; i secondi hanno un forte istinto predatorio, che li porterebbe ad attaccare qualunque cosa si muova attorno a loro, e hanno un’energia inesauribile». Queste caratteristiche, che nel tempo sono state estremizzate, li rendono potenziali macchine da guerra. «Ma sono al tempo stesso cani dal cuore d’oro con le persone del proprio nucleo familiare», aggiunge la dottoressa «perché hanno un forte istinto di affiliazione e sanno donare grande affetto ai loro proprietari, che sono il loro punto di riferimento». Solo che la vita in società è un’altra cosa. Ma chi allora può toglierli dai canili? Chi è il compagno ideale di un pitbull? Garoni non ha dubbi: «È una persona consapevole che la sua vita è destinata a cambiare per sempre». Gestire un pitbull nel modo corretto significa avere molto tempo da dedicargli («almeno due ore al giorno in cui svolgere molta attività all’aperto»); essere consapevoli di non poter frequentare luoghi affollati, non poter usufruire delle aree cani perché sarà difficile per i propri animali socializzare con cani sconosciuti. Esattamente il contrario di quanto fanno molti proprietari che, senza un’adeguata preparazione, in una sorta di delirio di onnipotenza scelgono un pitbull dicendo: io riuscirò a gestirlo. Quasi sempre non sarà così. Le nostre città sono piene di questi cani. È come sempre una questione di mercato: c’è un’elevata richiesta perché sono ancora in molti a subire il fascino del cane bello e dannato, che in certi ambienti fa pure status symbol. E c’è il problema delle cucciolate casalinghe, che sfornano molti nuovi pit, con incroci incontrollati, che fanno sì che una razza già di per sé complicata assuma caratteristiche che la rendano sempre più ingestibile.

«Un’arma» in mano alla criminalità

Il business che c’è dietro le compravendite illegali — in rete si trovano cuccioli a prezzi che vanno da 80 a 1.200 euro — finisce con l’arricchire la criminalità, che tra l’altro si avvale di questi cani anche per difendere i fortini della droga, per la protezione delle prostitute, per i combattimenti clandestini, che sono una realtà ancora presente nelle regioni meridionali. «Tutte le strutture sono in overbooking» ammette sconsolata Giusy D’Angelo, « per ogni cane che viene adottato dal canile ne entrano tre e se tra questi ci sono pitbull o molossi il rischio è che i box restino occupati a lungo e non ci sia spazio per altri e neppure il tempo per gli operatori per occuparsi di loro in modo adeguato. Siamo in emergenza, ma quella vera esploderà tra un paio di settimane: il caldo, lo stress estivo, la cattiva organizzazione delle vacanze faranno aumentare come sempre i casi di aggressioni e morsicature. E alla fine in tanti verranno a bussare da noi e diranno la solita frase: ”non posso più tenerlo”».

Carne di cane, il festival di Yulin in Cina. La polizia salva 386 animali, ma sono migliaia quelli macellati. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Intercettato un trasporto illegale di cani destinati al macello della città cinese tristemente nota per la fiera. In tutta l’Asia ogni anno sono 30 milioni quelli sacrificati per diventare pietanze. 

Sono stati confiscati e, in questo modo, sono stati salvati dalla macellazione. Sono 386 i cani destinati al macello di Yulin, la città che ospita ogni anno il tristemente noto «Festival del litchi e della carne di cane», che la polizia della città di Shaanxi ha recuperato da un camion che li stava trasportando verso il loro destino. Gli animali sarebbero stati uccisi, sezionati e serviti durante i giorni della kermesse che continua a richiamare migliaia di appassionati del genere.

Il consumo di carne di cane è ormai limitato a poche zone in Estremo Oriente, dove un tempo era molto diffuso ma dove sempre di più si sta diffondendo la percezione di cani e gatti come animali d’affezione e non cibo. Ma quel che resta delle antiche abitudini è comunque sufficiente per alimentare un ingente traffico con migliaia di esemplari che vengono sacrificati alla «tradizione». Secondo le stime di Humane Society International (Hsi), una delle associazioni più attive nel contrasto a questo fenomeno, sarebbero circa 30 milioni gli animali che ogni anno vengono uccisi per la loro carne. I cani macellati sono spesso di provenienza privata, ovvero vivevano in famiglie a cui sono stati poi sottratti. Bande criminali ne fanno incetta con l’avvicinarsi del 21 giugno, data in cui l’evento prende il via, prelevandoli dai giardini quando sono incustoditi o togliendoli con la forza alle persone. Solo una parte di quelli inviati al macello sono cani vaganti accalappiati o provenienti da allevamenti.

Il problema non è solo di tipo culturale: sarebbe facile per gli organizzatori di eventi di questo genere o per i ristoratori che servono carne di cane nei loro locali sostenere — e lo fanno — che non c’è differenza tra il consumo di questi animali e quello di bovini o pesci o volatili che sono regolarmente presenti nei menù occidentali. Ma al di là del sentimento popolare, che anche in Cina è sempre più orientato a non considerare i cani come pietanze (alcuni sondaggi confermano che più del 75-80 per cento delle persone che vivono in Cina o Corea del Sud sono contrarie a questa pratica alimentare), sono le condizioni igienico-sanitarie in cui l’intero processo di macellazione avviene a destare preoccupazione. Come hanno più documentato i gruppi di attivisti che si battono per porre fine a questo mercato, le soppressioni, il sezionamento e la vendita delle parti di carne si svolgono spesso direttamente all’aperto nei cosiddetti «wet market», i mercati bagnati (dal sangue lasciato colare sul terreno). E’ in questi luoghi che batteri e virus trovano terreno fertile per proliferare e possono trasmettersi anche all’uomo.

Il camion rosso con i 386 cani stipati nel cassone è stato avvistato su un’autostrada a circa 800 chilometri da Yulin. Era carico di gabbie in cui gli animali erano ristretti in condizioni precarie, nel caldo soffocante e senza acqua a disposizione. Intercettato dalla polizia, il conducente non ha saputo dimostrarne la provenienza ed è stato costretto a cambiare direzione e a seguire gli agenti. I cani, traportati temporaneamente in un rifugio, sono stati confiscati e di loro si sono poi presi cura decine di attivisti che li hanno sfamati e dissetati e che, una volta trascorsi i 21 giorni di quarantena previsti dalla procedura, chiederanno di poterli ospitare in una struttura di Humane Society per poi provare a trovare loro una nuova sistemazione, anche facendoli adottare fuori dalla Cina con l’aiuto delle associazioni animaliste internazionali.

«È stato orribile vedere così tanti cani in uno stato così spaventoso — racconta a Humane Society International l’attivista Lin Xion, che era presente sul posto — . Probabilmente si trovavano sul camion da giorni, disidratati e affamati, molti di loro visibilmente feriti e malati. Potevamo vedere i loro volti pietrificati dietro le sbarre delle gabbie e sapevamo che erano diretti ai macelli di Yulin dove sarebbero stati uccisi a bastonate». Gli attivisti cinesi chiedono che le autorità adottino una politica di «tolleranza zero» nei confronti dei trafficanti di cani, perché l’intera filiera è sostenuta dal commercio illegale, senza cui probabilmente iniziative come queste non potrebbero esistere. «Il massacro legato al consumo della carne di cane getta vergogna sul nostro Paese — dice ancora Lin Xion — e quindi continueremo a lottare finché non vedremo la fine di questa sofferenza». «Senza l’intervento della polizia — aggiunge Peter Li, specialista in politica cinese di Human Society International — questi cani avrebbero incontrato la morte in un macello di Yulin. Oltre a essere un incubo per gli animali, questa manifestazione, alimentata per la gran parte da ladri di cani, è in chiaro contrasto con le misure adottate nel Paese per prevenire la diffusione del Covid».

Si è parlato di richiamo alla tradizione, ma il festival è in realtà una iniziativa piuttosto recente. Viene organizzato dal 2010 su iniziativa dei commercianti di carne di cane che cercano così di contrastare il calo delle vendite dovuto alle mutate abitudini della popolazione. «Nel 2020 il ministero per l’Agricoltura cinese ha dichiarato ufficialmente che i cani sono da considerarsi animali da compagnia e non “bestiame” destinato al consumo — ricorda una nota di Humane Society —. Nello stesso anno, due grandi città della Cina , –Shenzhen e Zhuhai, hanno vietato il consumo di carne di cane e gatto. La carne di cane è inoltre vietata a Hong Kong, Singapore, in Taiwan, Thailandia, nelle Filippine, nella provincia di Siem Reap in Cambogia e in 17 città e reggenze dell’Indonesia».

Cani morsicatori, sono davvero cattivi. Gli episodi di cronaca, come quello recente di Cerignola, li mettono in cattiva luce. Ma quasi sempre si tratta di animali che hanno alle spalle storie di coercizione, prepotenza e prevaricazione. E che, seppure adottabili, rischiano di trascorrere l’intera vita in gabbia. Alessia Colaianni su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Mostri. Cattivi. Spesso sono definiti così i cani protagonisti di episodi di aggressione, quelli che leggiamo tra le cronache e che a volte hanno epiloghi drammatici. Un esempio è la recente vicenda accaduta in Puglia, a Cerignola, in cui due pitbull hanno ucciso un anziano e ferito il loro proprietario. Ci limitiamo a prendere conoscenza dell’accaduto, ma non ci domandiamo quasi mai cosa succeda dopo e, soprattutto, perché alcuni cani arrivino a manifestare questi comportamenti.

Cerchiamo di dare delle risposte a questi interrogativi insieme a Enrica Ceccarini, educatrice cinofila professionista che si occupa della rieducazione di cani problematici e del loro recupero cognitivo-comportamentale. Nonostante le differenze normative legate alle singole regioni e a volte alle province, esistono delle prassi comuni. Il cane morsicatore, così è definito, può essere di proprietà o condurre una vita libera, essere un cane di quartiere o randagio. Nel primo caso, una volta che il ferito è giunto al pronto soccorso (o dal veterinario, se si tratta di un altro cane o animale), viene stilato un referto e la segnalazione è inviata alla Asl che procede con una visita medica. Il cane è quindi obbligato a rimanere in quarantena, solitamente per 10 giorni, al fine di escludere la possibilità che l’aggressione sia legata ai sintomi della rabbia. Trascorso questo periodo, il proprietario può decidere di rivolgersi a uno specialista per iniziare un percorso riabilitativo o rinunciare alla proprietà e abbandonare il cane in canile. Per i cani a vita libera l’iter è simile, ci sarà il coinvolgimento della polizia municipale e della Asl di competenza che, coordinandosi, provvederanno ai controlli e all’ingresso in canile. Tutti i cani segnalati sono, inoltre, inseriti in un apposito registro.

Quale può essere il futuro di un cane etichettato come morsicatore, quindi pericoloso, nonostante sia potenzialmente adottabile? Ceccarini, che lavora da 14 anni nel recupero di cani fobici e morsicatori per conto di privati o in collaborazione con canili e rifugi, spiega: «In canile è molto difficile che un cane riesca a seguire un percorso di riabilitazione cognitivo-comportamentale perché il contesto ambientale non è idoneo. Si parla di animali che da esseri liberi si trovano a vivere in box in cemento con altri individui. Poi, il più delle volte, non ci sono i fondi per finanziare questo tipo di attività». Ricordiamo che in Italia non è più prevista la soppressione, tranne in presenza di patologie conclamate, come danni neurologici che il veterinario attesta irrecuperabili, ingestibili e che costituirebbero un pericolo per la salute pubblica. La maggior parte dei cani protagonisti di un’aggressione è destinata, quindi, a rimanere in gabbia per il resto della sua vita.

Per quali motivi un cane arriva ad aggredire un altro cane o un essere umano? Le ragioni sono molteplici. C’è l’aggressività, una disposizione innata del cane osservabile, ad esempio, durante la predazione o la difesa del territorio, e che non necessariamente arriva al morso. Ci sono poi i comportamenti aggressivi che possono avere una base motivazionale o emotiva. I comportamenti aggressivi su base motivazionale sono legati ai bisogni, ai desideri dei cani, e possono variare a seconda della razza: un esempio può essere quello del pastore maremmano abruzzese che protegge il gregge di pecore al pascolo da un qualsiasi intruso. In questa situazione il cane può arrivare a mordere, ma solitamente le reazioni sono più strutturate e vi è un maggiore controllo.

I comportamenti aggressivi su base emotiva sono molto diversi, come illustra Ceccarini: «Parliamo di tutti quei comportamenti che derivano da un’emozione in squilibrio. Di solito le emozioni che sostengono questi comportamenti sono la paura, l’irritazione, il disagio e la rabbia. È esattamente come per noi esseri umani che, trascinati da questo tipo di emozioni, perdiamo il controllo. Anche nel cane succede la stessa cosa: è possibile che ci sia un blackout cognitivo, una perdita di controllo e di lucidità. Sono le situazioni in cui i comportamenti aggressivi sono più pericolosi».

Osservare o sperimentare l’aggressività di un cane spaventa, incrina o addirittura frantuma la nostra fiducia in lui , anche quando è stato un nostro compagno di vita. Eppure il recupero è possibile. Ceccarini ne è testimone con il suo lavoro e con la sua esperienza personale, infatti condivide le sue giornate con Big Jack, un incrocio di pastore tedesco grigione di 41 chili che aveva morso sei persone, di cui una resa invalida a vita e un’altra, il suo vecchio addestratore, ferito gravemente nella zona tra gola e spalla. Cani dal passato difficile, che incutono timore, ma che sono sulla via della riabilitazione con l’aiuto di professionisti capaci.

«Esistono tante storie a lieto fine — assicura Ceccarini —. I margini di successo, per quanto riguarda i cani in canile, dipendono dalla capacità della struttura. Purtroppo in canile è molto difficile creare le condizioni adeguate e il contesto di agio emozionale che possa permettere a un cane con convinzioni consolidate legate ai comportamenti aggressivi di spaziare, di aprire il ventaglio delle sue capacità cognitive e imparare che ci sono altre strade per comunicare, per allontanare le persone, senza arrivare al morso». Per i cani di proprietà è più semplice, a patto che la famiglia umana sia disposta a rivolgersi a un educatore e a collaborare nel processo di recupero.

I cani morsicatori non sono cani cattivi. Sono animali che quasi sempre hanno vissuto, soprattutto nel periodo sensibile dell’apprendimento, in uno scenario emotivo di coercizione, prepotenza, prevaricazione, che li ha spinti a esplodere. «Il dolore che i cani vivono e che li porta ad aggredire, oltre a essere veramente profondo, è la chiave del problema — ci ricorda Ceccarini —. Il non sentirsi compresi, ascoltati, protetti, aiutati, conduce spesso a questa escalation che arriva a manifestarsi con tanta violenza. Ma, nel momento in cui un cane morde, è perché il dolore è diventato incontenibile e non trova più altro modo per esprimerlo». Sarà l’elaborazione di quel dolore che renderà un cane, così come un essere umano, migliore. Un individuo sereno a cui guardare senza timore e diffidenza.

Quell’istinto di protezione dei maremmani che non ha eguali. Fabrizio Rondolino su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.

I pastori maremmani abruzzesi amano la vita all’aria aperta, che splenda il sole o che tuoni la tempesta: è nella loro natura, e i nostri non fanno eccezione. C’è qualcosa di primordiale, qualcosa di atavico nel loro legame all’ambiente naturale, di cui si sentono e sono parte integrante. Soltanto di rado, dunque, entrano in casa: qualche volta magari per salutare prima di ritornarsene alle loro faccende, altre volte per restare qualche ora con noi – mai però, salvo casi rarissimi, per tutta la notte, perché di notte un maremmano è sempre molto impegnato a vigilare sulla sua comunità e a respingere eventuali intrusi. 

Non tutti, naturalmente, si comportano allo stesso modo: Valentino, per esempio, ama più dei suoi compagni di branco le mura domestiche (del resto non è un maremmano «puro»: la taglia e l’aspetto tradiscono un progenitore meticcio, o di chissà quale altra razza), e in casa rimane più a lungo; Sandro conosce un paio di luoghi particolarmente freschi d’estate e caldi d’inverno — per esempio la scala interna — e lì si piazza anche per una mezza giornata; Bonnie invece – che più degli altri incarna, per aspetto e per carattere, l’essenza del maremmano – è la più restìa a rimanere fra quattro mura: salvo quando, più o meno un paio di volte la settimana, sembra sentire il bisogno di confermare e rafforzare il nostro rapporto, e allora trascorre qualche ora nello studio accanto a me, o la sera sul lettone.

Quasi mai però si ritrovano tutti e tre insieme in casa, mentre spesso capita di vederli vicini in giardino, a sonnecchiare o a scrutare l’orizzonte o a sgranocchiare il pane secco che offro loro ogni mattina e di cui vanno tutti ghiottissimi. C’è però un’eccezione, e mi ci è voluto un po’ di tempo per capire che cosa determinasse questo loro comportamento. Quando ci sono ospiti, e soprattutto ospiti che i cani non conoscono o conoscono poco, tutti e tre si sdraiano intorno a noi, in camera da pranzo o in salotto. Non fanno nulla, semplicemente stanno lì. Non chiedono cibo né coccole, non si spostano, sembrano proprio non curarsi di nulla. Ma — me ne sono accorto dopo un po’ — se un ospite si muove bruscamente o si alza, anche i cani scattano: scattano come scatta un maremmano, s’intende, e cioè sollevano il testone e si guardano intorno, come se fossero in attesa. È questo il modo del maremmano di vigilare. Cessato il pericolo — l’ospite si è riseduto o è andato in un’altra stanza — tornano a poltrire. Ma non si allontanano.

Perché si comportano così? Ho concluso che questa presenza silenziosa e tenace del branco riunito ha a che fare con l’innato istinto di protezione del maremmano, che si prende cura della propria comunità facendo in modo di averla sempre sott’occhio, e dunque sotto controllo, quando è presente un potenziale pericolo. È una presenza discreta, direi una forza di dissuasione: sembrano giganteschi e innocui peluche persi nei loro sogni, ma potrebbero diventare soldati implacabili (chi ha visto il ringhio di un maremmano, che ne trasforma completamente l’aspetto, sa di che cosa parlo). Da quando ho scoperto questo nuovo fenomeno, come potete immaginare, il mio amore per la razza, sebbene sia già immenso, è cresciuto un altro po’. La sensazione di affetto e di protezione che sanno trasmettere è unica.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 15 giugno 2022.

Secondo uno studio, il bulldog sarebbe il cane più malsano della Gran Bretagna, motivo per cui diversi veterinari stanno consigliando di non comprarlo più e stanno facendo pressioni per vietarne momentaneamente l’allevamento, almeno finché non verrà selezionato per riportarlo alle condizioni del 1800. Il muso piatto tipico dei bulldog infatti causa ai cani una vita di sofferenze e problemi di salute, che sono circa il doppio rispetto a quelli delle altre razze.

In origine il bulldog era un cane muscoloso e atletico, mentre ora è allevato come cane da esposizione. Questo cambio di destinazione ha via via accentuato caratteristiche come la postura abbassata, il corpo tozzo e le pieghe sul muso, esponendo gli esemplari a malattie respiratorie e oculari, che in alcuni casi possono essere anche 20 volte più presenti rispetto alla media. 

La grande popolarità di bulldog e carlini francesi sui social è alla base di questo strazio. Negli anni celebrità come David Beckham, Gerard Butler e Paris Hilton hanno più volte condiviso scene dalla loro vite con questi cani, rendendoli “carini” agli occhi della gente e causando un eccessivo allevamento di nuovi cuccioli, la cui richiesta è sempre crescente.

Paesi come la Norvegia e l’Olanda hanno già vietato i bulldog inglesi da anni, per questo ora il Royal Veterinary College sta cercando di sensibilizzare la popolazione inglese, per evitare un ban definitivo anche sul territorio britannico. 

Tyson Fury: 23mila euro per un Rottweiler addestrato. Da Pogba a Sterling la mania degli sportivi inglesi per i cani da guardia costosissimi. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.

Il campione dei pesi massimi si aggiunge ai calciatori che hanno fatto questa scelta un po’ per tendenza, un po’ perché effettivamente la criminalità nel Regno Unito sembra aver preso di mira le abitazioni delle celebrità.

Un cane da difesa anche per Tyson Fury

Un cane affidabile che sappia fare da guardia alla casa e al giardino, tenendo lontani ladri e malintenzionati. Sempre più sportivi hanno fatto questa scelta, ultimo fra tutti Tyson Fury, che per il suo rottweiler addestrato non ha badato a spese, pagandolo l’equivalente di 23.400 euro. Per lui è stata questa la scelta migliore per difendere casa e famiglia dalla criminalità, facendo affidamento agli addestratori della Elite Protection Dogs, realtà che prepara gli animali esclusivamente per protezione, magari già con esperienza nelle unità cinofile della polizia.

Ashley Cole

Lo scorso aprile una rapina in casa con tanto di coltello puntato sotto il collo della moglie è stato motivo per l’ex terzino di Arsenal, Roma e Chelsea di comprarsi un cane altrettanto preparato a difendere lui e la sua famiglia in caso di altre irruzioni nella propria abitazione. Secondo l’ex calciatore 23mila euro assolutamente ben spesi per un pastore tedesco che sta completando in questi giorni il proprio addestramento.

Jack Grealish

A maggio c’è chi ne ha voluti addirittura due. È il caso dell’attaccante del Manchester City Jack Grealish, già amante degli animali, ma intenzionato a prendere una coppia di pastori tedeschi per difendere il suo spazio domestico, prova che la tendenza si sta diffondendo sempre di più, soprattutto tra i calciatori.

Rio Ferdinand

Non fa eccezione l’ex difensore del Manchester United Rio Ferdinand, che di fatto avrebbe compiuto la stessa scelta di Grealish, optando per una coppia di cani da guardia. Una cifra complessiva che si aggira intorno ai 45mila euro, con i due nuovi bodyguards a quattro zampe che faranno compagnia al chihuahua che Ferdinand già aveva in casa.

Raheem Sterling

Per la sua villa del Cheshire, Raheem Sterling, attaccante della nazionale inglese e del Manchester City, ha invece preferito la protezione di un rottweiler, proprio come Tyson Fury. Quasi 20mila euro per il cane addestrato che ha chiamato Okan. Soprattutto per lui che vive in campagna, quindi con uno spazio esterno non sempre facile da monitorare, un cane addestrato è sembrata la scelta migliore, proprio come hanno ragionato molti suoi colleghi.

Mikel Arteta

Alla cifra di 20mila sterline (circa 22.000 euro) l’allenatore dell’Arsenal Mikel Arteta ha acquistato un pastore olandese. Anche questo animale proviene dall’allevamento specializzato in cani da guardia Elite Protection Dogs, che conferma il suo servizio di addestramento e vendita per i clienti famosi.

Jack Wilshere

Arteta è solo l’ultimo di una lunga serie, perché prima di lui già l’ex centrocampista dei Gunners, che attualmente gioca per l’Aarhus in Danimarca, aveva investito nello stesso ambito, acquistando un dobermann.

Hugo Lloris

Il portiere francese, attuale capitano del Tottenham, ha scelto invece un pastore belga pagandolo 15mila sterline (circa 16.500 euro), memore di quanto era accaduto al compagno di squadra Dele Alli, minacciato con un coltello da due rapinatori.

Pogba, Rashford e Jones

Non solo Londra, perché anche a Manchester alcuni calciatori hanno fatto lo stesso ragionamento, come nel caso delle star dello United Paul Pogba (che ha preso un rottweiler, che dovrebbe portare con se anche in caso di trasferimento alla Juve), Marcus Rashford e Phil Jones. Affidandosi a un’altra agenzia specializzata, Chaperone K9, i tre giocatori dei Red Devils hanno scelto il proprio amico a quattro zampe per avere una maggiore protezione, sempre per cifre che si aggirano intorno alle 15mila sterline (16.500 euro circa).

Kieran Trippier

Il terzino inglese, che gioca ora nel Newcastle United, aveva seguito, quando si trovava a Londra, la stessa tendenza, acquistando un rottweiler addestrato per l’equivalente di 20mila sterline (circa 22.000 euro), sempre prendendolo dalla specializzata Chaperone K9. Poi se l’era portato a Madrid, per poi farlo rientrare in Inghilterra.

John Terry

Stessa scelta anche per tanti ex calciatori, come la leggenda del Chelsea John Terry, ex vice allenatore dell’Aston Villa e ora commentatore, che prese nel 2019, proprio a seguito di altri episodi di criminalità ai danni di alcuni calciatori, Coco, un pastore tedesco che avrebbe protetto da quel momento in poi lui e la sua famiglia.

Un sorriso e un inchino, così i cani comunicano nel gioco. Priscilla Di Thiene su La Repubblica il 28 Maggio 2022.

Basta una frazione di secondo fatta di segnali quasi invisibili ma fondamentali per dare vita al gioco, che per i cani significa anche conoscersi e affidarsi. Studio italiano sul lupo cecoslovacco.

"Giochi di mani giochi da villani", noto proverbio delle nonne di un tempo, quando il gioco tra bambini trascendeva e ci scappava uno spintone di troppo. I cani in queste circostanze fanno qualcosa in più e soprattutto prima: "sorridono".

A svelarci la corretta interpretazione di questi segnali, il sorriso e l'inchino, emessi dai cani in una sessione di gioco, sono state le ricerche di Veronica Maglieri, dottoranda della professoressa Elisabetta Palagi, docente presso l'Unità di Etologia del Dipartimento di Biologia dell'Università di Pisa, Fosca Mastrandrea, studentessa magistrale del corso in "Conservazione ed Evoluzione" e di Anna Zanoli, Dottore di Ricerca all'Università di Torino.

Ecco perché Fido non dà più la zampa. Zoppie, come individuare le cause diverse dai traumi: deficit nutrizionali, tumori o malattie ossee. Raffaella Direnzo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Maggio 2022.

Se un cane continua a correre normalmente su quattro zampe generalmente non ha dolore, ma nei cani molto generosi - come quelli da caccia, da lavoro o sportivi - spesso la voglia di correre può essere più forte del dolore che immancabilmente si accentuerà dopo il lavoro. Abituati a passeggiate quotidiane insieme al nostro pet sarà, quindi, impossibile non notare quando all’improvviso la normale andatura del nostro cane sarà compromessa. «Avremo zoppie di grado variabile da lievi a gravissime sino al mancato appoggio dell’arto e potranno assumere caratteri particolari. Potranno essere ricorrenti (quando si presentano a distanza variabile di tempo), intermittenti (alternati a normale movimento) o che passano da un arto all’altro, caratteristiche queste che, a seconda del tipo di lesione ed a seconda del distretto osseo articolare o muscolare interessato, possono essere di aiuto per la diagnosi», spiega il Prof. Antonio Crovace, Ordinario di Clinica chirurgica Veterinaria e Responsabile della sezione di cliniche veterinarie del Dipartimento delle emergenze e trapianti di organi (DETO) dell’UniBa.

CAUSE - È estremamente importante distinguere le cause di zoppia, poiché i piani diagnostici e terapeutici possono essere molto diversi. «Escludendo gli eventi traumatici diretti ed indiretti bisogna distinguere le zoppie nei cani giovani e le zoppie nei cani adulti, di piccola o grossa taglia. Nei cani giovani frequenti sono l’osteodistrofia ipertrofica – alterazione metabolica del tessuto osseo, segnalata in cani di media e grossa taglia -, le malattie da over nutrizione e le malattie di under nutrizione, quali l’iperparatiroidismo nutrizionale di tipo secondario ed il rachitismo», continua il professore. «Tra le malattie displasiche – crescita anormale del tessuto - possiamo riscontrare zoppie nei cuccioli, particolarmente in quelli di piccola taglia, la lussazione della rotula, la necrosi asettica della testa del femore, l’instabilità scapolo omerale, mentre nei cani di grossa taglia sono causa di zoppia le displasie in tutte le differenti entità; sono frequenti sempre per over nutrizioni ed over integrazione (eccessiva quantità di proteine od amminoacidi essenziali, eccessiva integrazione di calcio etc.) numerose forme di osteocondrosi a differente localizzazione».

«Nei cani adulti si osservano, invece, generalmente zoppie secondarie alle forme displasiche o a malattie giovanili non trattate o ad eventi traumatici, caratterizzate generalmente tutte da artrosi dei vari distretti articolari interessati. A questo proposito bisogna precisare che, mentre nell’uomo l’artrosi è prevalentemente senile o di tipo primario, nei cani l’artrosi è quasi sempre dei cani giovani perché secondaria a malattie note». «Nei soggetti adulti o anziani - particolarmente in alcune razze di cane di grossa taglia - le zoppie gravi possono essere secondarie a neoplasie ossee o articolari o a deficit neurologici».

DIAGNOSI - Manipolazione dell'arto, TAC, Raggi X o risonanza magnetica sono gli esami principali che vengono fatti in questi casi. La valutazione delle zoppie - previsione dei punteggi diagnostici - è possibile ottenerla mediante l'accuratezza delle reti neurali artificiali (ANN) variabili in base ai dati determinati dalla forza di reazione al suolo (GRF), cfr., risultando un’elaborazione precisa – dal 97% al 100% - in una valutazione di chirurgia o terapia farmacologica.

TRATTAMENTO - «Se la zoppia non è causata da eventi specifici ed è per esempio dovuta a lievi traumi, la zoppia può scomparire senza alcun trattamento o soltanto con il riposo od il confinamento. Se invece la zoppia è più grave occorre cercare di definire una diagnosi certa localizzando la sede ed il tipo di lesione (ossea, muscolare, articolare, tendinea, nervosa), per stabilire una terapia adeguata. Si può passare da una terapia alimentare - per stabilire un corretto equilibrio metabolico nel caso di zoppie da malattie dismetaboliche -, a terapie farmacologiche - con antinfiammatori o integratori in caso di artrosi -, sino a terapie chirurgiche, praticate da Medici Veterinari esperti». «I costi possono essere limitati alla sola visita clinica dello specialista a cui ci si rivolge, se egli ritiene che non siano necessari trattamenti che superano il riposo ed il confinamento. Nel caso vengano proposte indagini diagnostiche e terapie mediche e/o chirurgiche - considerate - molto costose il proprietario medesimo ha il diritto di avvalersi di una seconda opinione, consultando altri professionisti».

Non è la razza a determinare il carattere di un cane: il nuovo studio Usa. Alessia Colaianni su Il Corriere della Sera il 28 aprile 2022.

Il genoma di 2.155 esemplari di razze diverse studiato messo in relazione con oltre 18 mila questionari su tratti fisici e comportamentali raccolti nella piattaforma della Darwin’sArk: solo nel 9% dei casi la genetica sembra avere un ruolo (e non esclusivo). 

Il Golden Retriever è amichevole, intelligente e devoto; il Bullmastiff è affezionato, leale e coraggioso. Sfogliando le schede sulle razze canine dell’American Kennel Club, il registro americano di pedigree dei cani di razza, troverete tre aggettivi che ne definiscono le caratteristiche salienti. Ma sarà davvero la razza a indicarci il comportamento di un cane? C’è chi non adotta dai canili e acquista cuccioli dagli allevamenti nella speranza di trovare, sulla base della razza, il cane più adatto alle proprie esigenze. Persino a livello legislativo, in alcune normative locali (anche se non più a livello nazionale), si indicano alcune razze come pericolose, fino al divieto assoluto di allevamento o detenzione in alcuni Stati, mentre le compagnie assicurative impongono premi più alti ai possessori di razze considerate aggressive. Una ricerca che sta per essere pubblicata su Science sembra cambiare le carte in tavola: l’analisi genomica di numerosi cani suggerisce che razza e comportamento non siano così legati.

Sappiamo bene che la storia evolutiva del cane ha origini lontane, ed è da millenni che Homo sapiens seleziona i cani, intenzionalmente o meno. Alcuni ritrovamenti archeologici attestano la presenza di cani moderni già circa 30.000 anni fa, ma è probabilmente da 2000 anni che l’uomo ha iniziato a scegliere degli esemplari per compiti specifici quali la caccia e la guardia, per cui era necessario potenziare certi comportamenti, probabilmente derivanti dalla sequenza predatoria del lupo, e limitarne altri. È solo nell’Ottocento, in epoca vittoriana, che inizia la ricerca di un ideale estetico ripetibile e della purezza di discendenza: nascono le razze moderne e l’idea che siano caratterizzate non solo da un aspetto fisico ben preciso, ma anche da particolari comportamenti.

È realmente così? Kathleen Morrill, dottoranda di ricerca della University of Massachusetts Chan Medical School e del Broad Institute of MIT and Harvard, e le sue colleghe, coordinate da Elinor Karlsson, hanno voluto verificare queste ipotesi lavorando su un campione molto ampio. Hanno studiato i genomi di 2155 cani, combinandoli con i dati contenuti in ben 18.385 questionari sui tratti fisici e comportamentali compilati da proprietari di cani di razza e meticci, raccolti sulla piattaforma di citizen science Darwin’s Ark . Tra i tratti comportamentali presi in considerazione ci sono la socialità verso l’uomo, il livello di attività e controllo degli impulsi (arousal) e la prontezza nel rispondere alle indicazioni (biddability).

Durante la conferenza stampa dedicata allo studio, Elinor Karlsson ha spiegato che inizialmente si occupava di genetica umana collegata allo sviluppo di malattie mentali, quali il disturbo ossessivo compulsivo. I cani sono spesso usati come modelli sperimentali per la ricerca su queste patologie: vivono nel nostro stesso ambiente e i loro disturbi comportamentali possono condividere le stesse cause e simili trattamenti farmacologici. Karlsson non ha mai avuto cani ma, non appena raccontava alle persone che li stava studiando, queste iniziavano a inondarla di foto e informazioni dei loro amici a quattro zampe. La ricercatrice e il suo team hanno capito che questo entusiasmo poteva servire a raccogliere un gran numero di dati. Così si è arrivati alla piattaforma Darwin’s Ark e alla pubblicazione su Science.

Combinando i dati, solo 11 loci genetici sono risultati fortemente associati al comportamento, ma nessuno di questi poteva essere associato strettamente a una razza. Un’eccezione sembra essere rappresentata dall’obbedienza (biddability), che potrebbe essere predetta dalla razza e che varia comunque significativamente tra individui. Secondo i risultati ottenuti, la razza influisce solo per il 9% sul carattere di un cane, e in ogni caso non è stato possibile collegare un dato comportamento esclusivamente a una sola razza.

La questione, in realtà, è molto più complicata di quello che potremmo pensare. Le caratteristiche comportamentali non solo dipendono dall’azione di più geni, ma sono anche influenzate dall’ambiente. Rimanendo però su un piano strettamente genetico, quello che emerge è che il comportamento dei nostri cani si è modellato nel corso di migliaia di anni di evoluzione e selezione, ben prima che venissero forgiate le razze «vittoriane». Se ci siamo illusi di avere dato origine a incroci perfetti per avere sotto controllo il carattere e il temperamento di un cane in così poco tempo, ci siamo sbagliati. Quello che siamo riusciti davvero a selezionare con le razze moderne sono solo i tratti estetici.

(Nell’immagine di questo servizio una parte delle fotografie inviate dalle persone che hanno partecipato al progetto Darwin’s Ark. Oltre ad essere state utilizzate per lo studio, queste fotografie hanno reso gli uffici degli scienziati «tra i più memorabili della UMass Chan Medical School»

·        Il Lupo.

Dopo 2 anni catturato il figlio del «biondo», primo esemplare di cane-lupo in Piemonte. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 28 Ottobre 2022.

Nato da una femmina pura e da un maschio col manto insolitamente chiaro, risultato geneticamente incrociato con il cane. Affidato al Canc di Grugliasco, è stato poi liberato nel parco naturale Orsiera Rocciavré 

Dopo oltre due anni di ricerche il figlio del «biondo» è finito in trappola. È il primo esemplare di lupo-cane in Piemonte, catturato il 25 ottobre nel parco naturale Orsiera Rocciavré nell’ambito della campagna condotta dall’ente di gestione delle Aree Protette delle Alpi Cozie per contenere il fenomeno dell’ibridazione in un branco della bassa Val di Susa.

L’animale catturato è il figlio della coppia formata da una femmina pura e da un maschio da un manto insolitamente chiaro che, dai dati dei monitoraggi, è risultato geneticamente incrociato con il cane.

Il lupo catturato non è stato immediatamente identificato come ibrido, ma è stato ricoverato presso il Canc - Centro animali non convenzionali di Grugliasco in attesa dei risultati delle analisi genetiche. 

L’equipe coordinata dal professor Romolo Caniglia, in meno di 24 ore ha certificato l’ibridazione e il giovane lupo è stato infertilizzato dai chirurghi del Canc, prima di essere liberato dai guardiaparco e dagli agenti della Città Metropolitana, munito di collare satellitare applicato dall’Università di Torino.

La «caccia» era iniziata a gennaio 2020, quando le fototrappole dei guardiaparco avevano permesso di individuare un lupo dal manto chiaro (ribattezzato appunto il «biondo») all’interno del branco che gravita tra le montagne della bassa Valle di Susa. Le caratteristiche morfologiche suggerivano che potesse trattarsi di un ibrido, figlio o nipote di un incrocio tra cane e lupo. La conferma è giunta dalle analisi dei suoi escrementi che hanno permesso di accertare anche la provenienza dell’esemplare da una cucciolata nata nell’alessandrino da una femmina incrociata.

L’ibridazione del lupo è considerata una delle principali minacce alla conservazione della specie e per questo è stata chiesta l’autorizzazione alla cattura. Sotto la supervisione scientifica di Francesca Marucco, dell’Università di Torino e con la consulenza del biologo Luca Anselmo, è cominciato il monitoraggio del branco, formato dalla coppia alfa (maschio ibrido e femmina pura) e da alcuni giovani nati nel 2021, più i cuccioli nati nella primavera del 2022. 

Dopo gli incontri con cacciatori, allevatori, agricoltori e associazioni ambientaliste è stata incrementata l’attività di vigilanza e il personale delle Aree protette delle Alpi Cozie ha studiato una serie di procedure per rendere la presa del lupo meno traumatica. La squadra di cattura, composta dal «trapper», da un veterinario e da due agenti del Parco o della Città Metropolitana, è rimasta a disposizione 24 ore su 24 fino a quando la trappola ha inviato un segnale radio. Il veterinario ha anestetizzato l’animale per il trasporto a valle, il lupo è rimasto nella clinica mobile al campo base e ora è tornato in libertà. Ma non potrà più riprodursi.

Manto grigio o nero? Il lupo scuro è più resistente al virus del cimurro. Anna Lisa Bonfranceschi su La Repubblica il 24 Ottobre 2022.

La ricerca su popolazioni del parco di Yellowstone ha mostrato che gli animali delle zone con più epidemie sono tendenzialmente più neri che grigi. "La resistenza a un patogeno può diventare un segnale che riescono a cogliere"

Un colore, in zoologia, è molto più di un colore. Può dire molte cose. Nel caso dei lupi del Nord America, per esempio, è la cartina tornasole della capacità degli animali di resistere al cimurro. Quelli neri, scrive oggi un team di ricercatori guidati da Tim Coulson della University of Oxford sulle pagine di Science, hanno una capacità maggiore di resistere al virus che causa la malattia. 

Che i colori in zoologia parlino sono gli stessi autori a ricordarlo, spiegando come possano variare a seconda dell'ambiente, della presenza di parassiti e predatori. Ma non solo: i colori, e più generale l'aspetto, possono parlare anche di salute, e influenzare le scelte in materia di accoppiamento. Una nuova prova a sostegno di tutto questo arriva appunto dall'analisi del manto dei lupi in Nord America. 

In alcune zone dominano gli animali grigi, in altre, soprattutto muovendosi verso sud, quelli neri. Ma la geografia col colore ha poco a che fare. Tutto questo sarebbe piuttosto legato alla diffusione di epidemie da cimurro, malattia potenzialmente mortale soprattutto negli animali più piccoli. In particolare un manto nero sarebbe associato alla possibilità di resistere meglio alla malattia, per effetto della variante di una proteina (e quindi di un gene) coinvolto tanto nella determinazione del manto dei lupi che nelle loro difese immunitarie. I ricercatori lo dimostrano attraverso diverse analisi condotte su alcune popolazioni di lupi. 

In alcuni casi hanno determinato la probabilità di un lupo di essere nero dalla presenza di anticorpi diretti contro il virus del cimurro (il canine distemper virus, CDV), dimostrando che esiste una correlazione tra i due caratteri. Ovvero: avere anticorpi contro il cimurro (e quindi aver superato la malattia) è associato a una maggiore probabilità di pelliccia nera, soprattutto tra gli animali più grandi, precisano gli autori. Gli scienziati hanno quindi analizzato popolazioni del parco dello Yellowstone, a partire da metà degli anni Novanta, ovvero da quando sono stati reintrodotti, ricordano. Hanno studiato i tassi di sopravvivenza degli animali di diverso colore durante cinque diverse epidemie di cimurro scoprendo, anche in questo caso, che tra gli animali infettati dal virus quelli neri avevano una probabilità maggiore di sopravvivere. Ma non solo, aggiungono: le probabilità di accoppiamento tra grigi e neri aumentavano in aree interessate dalla presenza del cimurro e la presenza della malattia faceva aumentare i lupi neri. 

Gli animali dello Yellowstone in caso di epidemie, si accoppiano dunque per massimizzare le loro possibilità di sopravvivere, a dimostrazione di come – concludono gli autori – la resistenza a un patogeno può diventare un segnale che gli animali riescono a cogliere. E non solo i lupi probabilmente, scommettono gli autori.

·        Le Galline.

Le terribili condizioni dei polli negli allevamenti che forniscono Lidl. Raffaele De Luca su L'Indipendente  il 29 Novembre 2022

Polli con deformazioni ossee, bruciature sul petto e disturbi neurologici: sono solo alcune delle problematiche emerse da un’indagine condotta dall’associazione Essere Animali in due allevamenti intensivi situati nel nord Italia ed appartenenti ad un fornitore della catena di supermercati Lidl Italia. È nei confronti di quest’ultima, dunque, che l’associazione pone la lente di ingrandimento, ricordando tra le altre cose che quelli oggetto del lavoro investigativo sono allevamenti di grandi dimensioni, capaci di contenere 1 milione di polli da carne per ogni ciclo produttivo. Un dettaglio, quest’ultimo, che non può non conferire ulteriore rilevanza alle drammatiche condizioni documentate, che testimoniano la sofferenza a cui sono destinati i polli d’allevamento.

In tal senso, da premettere è il fatto che ad essere utilizzati negli allevamenti sono razze selezionate geneticamente per raggiungere il peso di macellazione in sole sei settimane: un tasso di crescita che – come precisato dall’associazione – se fosse applicato agli esseri umani porterebbe un neonato a raggiungere un peso di 300 kg all’età di due mesi. Non saranno un caso, dunque, le deformazioni ossee documentate attraverso le immagini e che evidentemente generano diverse difficoltà. Dalle riprese, che sono state effettuate negli scorsi mesi, sono infatti emersi problemi ad alzarsi e camminare per gli animali, la cui attività locomotoria può inoltre facilmente essere limitata in maniera ulteriore, visto che come sottolineato dall’associazione la densità di allevamento può arrivare anche a 20 animali per metro quadrato.

Oltre a tutto ciò, sono state documentate anche alcune bruciature sul petto dei polli derivanti dal contatto prolungato con la lettiera, carica di ammoniaca rilasciata dalle deiezioni, ma non solo. Come anticipato sono stati testimoniati casi di animali affetti da disturbi neurologici, tra cui ad esempio la torsione innaturale del collo, mentre altri sono stati trovati morti a causa delle estreme condizioni di allevamento. Per non parlare poi dei pulcini di pochi giorni di vita, gettati dall’incubatoio con forza a terra, e dei metodi di abbattimento riservati agli esemplari malati. Come sottolineato dall’associazione, infatti, l’abbattimento d’emergenza di pulcini e polli malati “viene eseguito con modalità cruente e illegali”, con gli animali colpiti con sbarre di ferro e spinti con forza contro gli abbeveratoi per provocarne lo schiacciamento e dunque la morte, che però non sempre avviene. Nelle immagini ottenute con una telecamera nascosta si vedono infatti gli animali che continuano a dimenarsi e a sbattere le ali (il che induce a pensare ad un abbattimento non effettuato in maniera appropriata) ed i lavoratori che “invece di ripetere la procedura per porre fine alle loro sofferenze come previsto dalla legge, li gettano in un secchio, condannandoli molto probabilmente a una lunga agonia“. Insomma, ad essere state documentate da Essere Animali sono vere e proprie violenze sugli animali da parte di alcuni lavoratori, motivo per cui l’associazione ha “denunciato l’allevamento per i reati di maltrattamento e uccisione di animali”.

L’obiettivo dell’associazione, però, è quello di far sì che Lidl aderisca all’European Chicken Commitment (ECC), impegno che propone alle aziende di adottare una serie di criteri minimi di benessere animale atti a ridurre la sofferenza dei polli. A voler portare la catena di supermercati a prendere tale decisione, nello specifico, è la campagna #LidlChickenScandal, lanciata dalle principali organizzazioni europee per la protezione degli animali. “In qualità di leader della grande distribuzione in Italia con 700 supermercati, e presente in 31 Paesi nel mondo con una rete di oltre 11.550 punti vendita, Lidl ha il potere di contribuire a ridurre drasticamente le sofferenze di milioni di polli allevati anche nelle filiere dei suoi fornitori”, ricorda in tal senso Essere Animali, precisando che “sottoscrivendo l’impegno dello European Chicken Commitment, potrebbe migliorare il benessere dei polli che crescono negli allevamenti della sua catena di fornitura”. D’altronde, oltre 300 aziende in tutta Europa hanno già aderito all’ECC, tra cui anche Lidl Francia, ma nel resto d’Europa Lidl non ha ancora preso alcuna decisione. La società sembra però essere spinta fortemente a farlo visto che, come sottolineato da Essere Animali, l’indagine è apparsa anche in un servizio andato in onda su Rai News 24, mentre la petizione è stata sottoscritta da circa 20mila persone. I consumatori, dunque, sono sempre più consapevoli di ciò che si cela dietro la produzione di carne, e sono decine di migliaia coloro che si schierano a favore di una maggiore tutela degli animali.

[di Raffaele De Luca]

«Basta uccidere i pulcini maschi». La richiesta dei ministri dell’Agricoltura. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 23 Ottobre 2022.

I titolari dei dicasteri dei diversi Paesi Ue hanno ribadito la necessità di superare la selezione cruenta che avviene spesso negli allevamenti di galline ovaiole 

Superare una volta per tutte la pratica delle uccisioni di massa di pulcini maschi nelle operazioni di sessaggio delle galline ovaiole. Detto così suona tecnico. Tradotto in altri termini vuol dire smettere di eliminare per triturazione o in una sorta di camera a gas i piccoli appena nati che non possano essere utili alla produzione di uova. Ovvero se non sono femmine. A chiederlo sono diversi ministri dell’Agricoltura di Stati Ue che hanno avanzato una proposta specifica nei giorni scorsi a Bruxelles, in occasione dell’ultimo consiglio Agrifish. La nota è stata avanzata da Germania e Francia e sostenuta da Austria, Belgio, Cipro, Finlandia, Irlanda, Lussemburgo e Portogallo. Manca l’Italia, ma il nostro Paese, assieme ai due proponenti e ad Austria e Lussemburgo, ha già normato il divieto di uccisione sistematica dei pulcini maschi. E in quei giorni il nostro governo era a operatività limitata, con i ministri di Draghi in uscita e quelli di Meloni ancora in panchina.

La proposta di francesi e tedeschi prevede di rendere obbligatoria ovunque, nella Ue, l’eliminazione graduale degli abbattimenti di massa dei maschietti improduttivi. Esistono infatti oggi nuovi metodi che permettono di determinare il sesso del nascituro già nell’uovo («in ovo sexing») evitando una pratica cruenta che viene tuttavia considerata la più rapida e indolore per l’eliminazione di milioni di pulcini ogni anno. La domanda che molti si pongono è perché i polletti non possano essere lasciati in vita e cresciuti per poi essere consumati come carne. E la risposta è che gli esemplari di ovaiola non sono considerati adatti a questo scopo, essendo più piccoli e crescendo meno rapidamente dalla varietà Broiler, il classico pollo da allevamento industriale che garantisce dimensioni maggiori e tempi di sviluppo più veloci, e quindi maggiori guadagni.

La richiesta di abolire questa pratica a livello europeo era già stata presentata nel luglio 2021. Ora viene ripresentata anche con l’intento di uniformare le metodologie produttive, non solo per motivazioni di tipo etico ma anche per mettere tutte le aziende europee nelle stesse condizioni e garantire una corretta concorrenza. Non solo. Dai ministri è arrivata anche la proposta di estendere il divieto di commercializzare nel territorio comunitario uova provenienti da aziende extra-Ue che continuino a praticare l’eliminazione selettiva dei pulcini, altrimenti sarebbe una beffa per gli operatori europei, e di destinare adeguati fondi per aiutare le aziende ad attuare la transizione.

In Italia il divieto era stato sostenuto nel luglio 2022 da una campagna di Animal Equality e da una proposta della deputata M5S Francesca Galizia. Lo stop definitivo al ricorso a questa pratica è stato fissato nel 2026, per dare modo alle aziende agricole di adeguarsi. Il Commissario europeo per la sicurezza alimentare Stella Kyriakides ha definito l’uccisione dei pulcini di un giorno un «fenomeno inquietante», suggerendo che la proposta di un divieto europeo dell’uccisione di questi animali potrebbe rientrare nella prossima revisione della legislazione europea sul benessere animale.

«L’Unione europea ha bisogno di un progetto ambizioso che ponga fine all’uccisione sistematica, inutile e crudele di milioni di pulcini maschi ogni anno — sottolinea Alice Trombetta, direttrice di Animal Equality Italia— . Si tratta di un intervento che, oltre a evitare la sofferenza di questi animali indifesi, esprime in modo chiaro un messaggio all’industria delle uova e all’intero comparto alimentare: i cittadini non intendono più tollerare lo sfruttamento estremo inferto agli animali usati per la produzione alimentare a vantaggio del profitto di un’industria che non rispetta tutti gli individui».

Sintesi dell’articolo di Pietro Tabarroni per “Corriere Bologna” pubblicata da “la Verità” il 24 giugno 2022.

Lite da cortile a Copparo (Ferrara) contro il gallo Garibaldi, che da circa un anno, estate e inverno, lancia la sveglia troppo presto: già alle 4 del mattino. Parte della cittadinanza è in sommossa ed è anche scattata una raccolta di firme a sostegno di una petizione per fare traslocare il pennuto con la forza, ma gli animalisti si oppongono. 

Un vertice si è svolto nella sede dei vigili urbani per decidere che cosa fare. Garibaldi era scappato dalle bancarelle del mercato del venerdì trovando rifugio in un terreno il cui proprietario, Alberto Vezzali, lo ha battezzato con un nome adatto alla sua indole indomita.

Carlo Ottaviano per "il Messaggero" il 19 giugno 2022.  

È tra le filiere che stanno meglio nel settore agroindustriale, l'unica della zootecnia italiana totalmente autosufficiente (produce il 108,4% del consumo interno di polli e il 97% di uova), ma ora si trova a dover fare i conti con le conseguenze della guerra in Ucraina per via dell'impennata dei costi dei mangimi, delle materie prime e dell'energia.

In pochi mesi, le aziende avicole hanno bruciato 800 milioni di euro, di cui 450 solo nella fase agricola. «Però sui prezzi delle materie prime dichiara Antonio Forlini, presidente di Unaitalia, l'associazione di categoria dobbiamo essere chiari: oltre al conflitto Russia-Ucraina, paghiamo la corsa all'approvvigionamento preventivo da parte della Cina, le difficoltà di produzione legate ai cambiamenti climatici e siamo di fronte a dinamiche speculative, in atto da quasi 2 anni, che devono essere fermate».

I DATI DELL'ISMEA I dati Ismea dicono che nel primo trimestre 2022, a fronte di un aumento generalizzato dei costi agricoli del 18,4%, la carne avicola ha registrato incrementi dei costi produttivi del 21,1% per la carne e del 50% per le uova. Ad incidere maggiormente è il mangime, che assorbe il 60% dei costi di produzione, aumentati del 33% nel primo trimestre 2022 e di un ulteriore 40% ad aprile su base annua. In particolare, ad aprile il mais è cresciuto del 59%, la soia del 15% e l'orzo del 90%. 

«Non possiamo più dare per scontata la nostra autosufficienza», afferma Forlini. «È tempo - aggiunge - di abbandonare le logiche del passato in un'ottica strategica di medio lungo periodo, che significa limitare la dipendenza dall'estero e garantire la nostra capacità produttiva, mettendo in campo tutti gli strumenti possibili, dal Pnrr alla Pac, alle nuove tecnologie. Ma anche procedere verso una graduale transizione green che miri alla sostenibilità ambientale e sociale contemporaneamente a quella economica per le aziende».

Novemila sono gli allevamenti (con 133 milioni di capi, al netto dei 16 milioni di polli abbattuti in autunno a seguito della epidemia aviaria che ha colpito principalmente Veneto e Lombardia) e 64 mila addetti, di cui 38.500 nella fase di allevamento e 25.500 nell'industria di trasformazione. Il valore complessivo del comparto è di 5,9 miliardi di euro, compresi gli allevamenti di tacchini, anatre e conigli (questi in calo dell'8,1%). Dalla vendita delle carni provengono 4.830 milioni e altri 1.070 milioni per le uova. 

Mediamente, ogni italiano nel 2021 ha consumato 213 uova. In effetti solo il 68% è andato alle famiglie (145 uova a testa), mentre il restante 32% (68 uova per abitante) è stato impiegato dall'industria e nell'artigianato alimentare e per le collettività e quindi consumato attraverso pasta, dolci e preparazioni alimentari varie.

IL PRIMATO L'Italia, con 12,1 miliardi di uova prodotte nel 2021, è tra i maggiori produttori in Europa, con nessun Paese dell'Ue presente nella top ten di allevatori di polli e produttori di uova. In testa la Cina (che da sola vale più di un terzo del mercato mondiale), India e Indonesia. 

Nel 2021 è cresciuto l'export delle carni (+8,3%), soprattutto di pollo, passato a 131mila tonnellate (+12,2%). In lieve flessione sono invece i dati del consumo interno (1 milione 267mila tonnellate, cioè -2%, con un consumo pro-capite di 21,43 kg) che si riallinea alla situazione pre Covid. 

Negli ultimi 5 anni (2017-2021), le carni avicole avevano comunque registrato un aumento degli acquisti del 9% in quantità e del 19% in valore, mostrando una dinamica di gran lunga più favorevole rispetto all'intero comparto delle carni. La carne di pollo rimane di gran lunga la carne più consumata dagli italiani, anche nel 2021: il 72% la mangia almeno una volta alla settimana - pochissimo più di carne e pesce - seguita a lunga distanza da manzo (54%), maiale (50%), vitello (46%).

In media - certifica l'indagine Doxa 2021 - il pollo è consumato quasi due volte a settimana. Gli avicoltori temono adesso che l'aumento dell'inflazione (+6,8% a maggio su base annua) spinga i consumatori a risparmiare sul carrello della spesa e che ci siano fasce della popolazione non più in grado di fare acquisti. Per questo, Unaitalia ha avviato una collaborazione con Banco Alimentare con l'obiettivo di «donare - spiega Giovanni Bruno, presidente del Banco Alimentare - cibo nutrizionalmente prezioso, come eccedenze di carne e uova a chi si trova in difficoltà».

Dagotraduzione da Daily Mail il 7 giugno 2022.

Uno studio su quasi 5.000 persone dell’Università di Pechino è arrivato a una sorprendente scoperta che ribalta i luoghi comuni legati al consumo di uova: mangiare uova regolarmente non aumenta il colesterolo cattivo come si pensava, ma al contrario, ha effetti benefici sulla nostra salute perché riduce il rischio di infarti e ictus.  

Gli studiosi cinesi hanno appurato che i partecipanti all’indagine che mangiavano un uovo intero al giorno avevano livelli più alti di proteine sane e colesterolo buono nel sangue e livelli più bassi di quello cattivo. 

Questa combinazione riduce il rischio di malattie cardiovascolari prevenendo l'ostruzione delle arterie, che a sua volta riduce il rischio di infarti e ictus. 

Secondo lo studio, le persone che mangiano uova hanno un livello più alto di APOA1, una proteina che è un importante elemento costitutivo del colesterolo buono. 

I ricercatori dell'Università di Pechino hanno esaminato 4.778 adulti cinesi di età compresa tra 30 e 79 anni e hanno scoperto che le persone che consumavano tra le quattro e le sette uova a settimana avevano livelli elevati di APOA1.

L'APOA1 è un elemento costitutivo della lipoproteina ad alta densità (HDL), il "colesterolo buono" che trasporta la sostanza grassa al fegato per essere scomposta.

L'HDL mantiene le arterie e i vasi sanguigni liberi dall'accumulo di depositi di grasso. 

Lo studio ha anche riscontrato che coloro che avevano mangiato meno uova avevano livelli più bassi di proteine benefiche e livelli elevati di quelle dannose. 

L'autore principale, il professor Canqing Yu, esperto di epidemiologia e salute pubblica presso l'università cinese, ha affermato che i risultati forniscono una potenziale spiegazione sul motivo per cui il consumo moderato di uova fa bene alla salute cardiovascolare.

Tuttavia, il team ha aggiunto che sono necessari ulteriori studi per confermare i loro risultati. 

Galline ovaiole troppo sfruttate, il 97% di loro ha più ossa rotte. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera l'1 Marzo 2022.

L’eccessiva produzione (323 uova all’anno in media) fa sì che il calcio venga dirottato dal sistema scheletrico ai gusci. E questo rende gli animali estremamente fragili. 

La quasi totalità delle galline ovaiole, anche quelle allevate negli allevamenti biologici, riporta fratture alle ossa, in particolare allo sterno. E questo è dovuto non tanto e non solo a scontri, cadute e collisioni in capannoni sovraffollati. Ma anche al loro eccessivo sfruttamento: costrette a produrre uova in maniera intensiva — ogni esemplare ne produce mediamente 323, ovvero quasi uno al giorno — e spesso in età ancora giovane, il calcio delle loro ossa non ha sufficiente tempo per rigenerarsi, essendo utilizzato dall’organismo anche per la produzione dei gusci. Ossa più fragili, dunque, e più soggette a traumi e fratture.

È la conclusione a cui sono giunti i ricercatori dell’Università di Berna, che hanno sottoposto a radiografie 150 galline per un periodo di 10 mesi raccogliendo risultati impressionanti: il 97% degli esemplari nell’arco del periodo di osservazione riportava infatti una o più fratture, con una media di tre per ogni animale. Lo studio è stato realizzato in Svizzera ma il problema , sostengono gli autori della ricerca, è generalizzato. «Le modalità attuali di allevamento delle galline e di altri animali — sottolinea il dr. Harno Würbel, docente di Benessere degli animali alla Facoltà di Medicina Veterinaria — il dolore e la sofferenza sono inevitabili. Non sono metodi sostenibili». Anche uno studio danese, diffuso lo scorso anno, aveva evidenziato la stessa problematica, così come altre ricerche effettuate negli anni in diverse nazioni. I ricercatori svizzeri hanno fatto però ricorso alla radiografia, anziché alla semplice palpazione, e questo ha permesso di rilevare un numero maggiore di fratture. Il 97% di esemplari feriti indica che la presenza di fratture è la regola, anche quando non si parla di allevamenti intensivi con capannoni sovraffollati. Lo studio danese evidenziava, tuttavia, qualche differenza nell’incidenza delle fratture in base alle modalità di detenzione delle galline, con frequenze minori nel caso di esemplari allevati all’aperto.

Il dolore non sempre viene manifestato in maniera evidente dagli animali. Tuttavia ci sono dei segnali che possono far intuire che qualcosa non va: galline che si muovono più lentamente o che impiegano più tempo per alzarsi o che tendono ad abbeverarsi di più dalle fontanelle con acqua addizionata di antidolorifici presenti in molti allevamenti.

«Noi denunciamo da anni l’impatto degli allevamenti intensivi sulla salute delle galline ovaiole e dei loro piccoli — commenta Alice Trombetta, direttrice esecutiva di Animal Equality Italia che oggi ha rilanciato la ricerca dell’ateneo elvetico —. Lo studio dell’Università di Berna è la riprova che si tratta di un sistema produttivo ancora troppo basato sullo sfruttamento che non tiene adeguatamente conto del benessere degli animali e che genera inutile sofferenza, in contrasto con qualsiasi forma di benessere animale». Animal Equality ricorda inoltre che in Italia sono allevate circa 40 milioni di galline ovaiole che, secondo dati dell’associazione, nel nostro Paese vivono per il 40% in gabbie. Sono invece tra i 25 e i 40 milioni i pulcini maschi di questa specie che vengono uccisi appena nati (essendo maschi non potranno infatti produrre uova e, di conseguenza, per l’industria sono «inutili»). Nelle settimane scorse era stato approvato alla Camera un emendamento che prevede che entro la fine del 2026 i pulcini non siano più triturati vivi e su cui il Senato non si è ancora espresso.

·        Il Cavallo.

La leggenda era vera: i cavalli Chincoteague sono i discendenti dei destrieri dei conquistadores. Anna Lombardi su La Repubblica il 24 agosto 2022.  

La storia dei pony sull'isola di Assateague, tra il Maryland e la Virginia. Uno studioso ha studiato il dna e scoperto che la loro discendena non è solo fantasia

Gli antenati spagnoli dei Pony Chincoteague. Sì, una leggenda antica quanto gli Stati Uniti ha sempre raccontato come i mitici cavallini selvatici che popolano l’isola Assateague, fra Virginia e Maryland discendano dai puledri trasportati dai conquistadores. Oggi piccoli di statura perché si nutrono principalmente di alghe, si sarebbero salvati da un galeone affondato, approdarono a nuoto su quel lembo di terraferma. Ebbene: ora la casuale scoperta fatta da un paleontologo francese dà nuovo fondamento a quel mito.

La saga di quei mini destrieri, molto robusti ed estremamente intelligenti, qui negli Stati Uniti, è estremamente popolare. Resa celebre da un famoso racconto per bambini, Misty of Chincoteague di Marguerite Henry, pubblicato nel 1947: storia di un gruppo di cavalli che scampa ad un naufragio nuotando fino all’isola di Assateague. E di due bambini che secoli dopo risparmiano per comprare il puledro Misty insieme alla sua mamma Phantom. Dopo una serie di vicissitudini, lasceranno la giumenta libera di raggiungere il suo amato stallone – e campione di nuoto – Pied Piper. Tenendo con sé solo il cavallino.  

Da allora l’isola – divisa a metà da una recinzione visto che, è proprio il caso di dirlo, è a cavallo fra i due stati americani - è una meta turistica per tutti coloro che amano la natura selvaggia. D’altronde, qui i pony vivono allo stato brado. E chi si accampa sulla spiaggia può vederli scorrazzare liberi e felici: anche se è meglio non avvicinarsi troppo, perché non sono affatto amichevoli e mordono chi allunga troppo le mani verso il loro morbido pelo. Gli esemplari che vivono dal lato della Virginia sono 150, quelli del Maryland 90. I due Stati fanno molta attenzione a non far crescere ulteriormente la popolazione, dato che già oggi il cibo basta appena per tutti. Ma una volta l’anno, il primo mercoledì di luglio, le due mandrie si riuniscono grazie all’opera dei locali vigili del fuoco: che per l’occasione si improvvisano cowboy e conducono tutti gli esemplari a fare una bella nuotata fino alla vicina Chincoteague: sì l’isola che gli ha dato il nome, che sta leggermente più a largo. Un po’ festa, che culmina il giorno dopo in un’asta dove vengono venduti gli esemplari in surplus.  

Ma come si è arrivati a rintracciare le origini dei cavallini? Ci sono voluti gli studi sulle mucche di Nicolas Delsol – paleontologo del Florida Museum of Natural History - per dare fondamento alla vecchia leggenda. Lo studioso infatti si occupa usualmente di bovini. E stava proprio studiando antichi fossili di mucca ritrovati fra i resti di un villaggio spagnolo eretto ad Haiti nel 1500 quando ha trovato un dente evidentemente appartenuto a tutt’altra razza. Evidentemente di cavallo, certo: ma con pochissimo Dna in comune con quelli presenti in America ora.

Delsol ha dunque drenato tutti gli archivi del dna animale d’America: scoprendo che il parente più prossimo di quei destrieri vissuti centinaia di anni fa erano proprio i pony di Chincoteague. Una scoperta, che ha dato di fatto sostanza alla vecchia storia. «Non possiamo sapere se la leggenda sia vera: ma è evidente che i Chincoteague, discendono dai cavalli spagnoli presenti nelle colonie dei Caraibi cinque secoli fa», ha dunque spiegato lo studioso al Washington Post che alla scoperta ha dedicato un ampio servizio. «E ora riusciremo a proseguire questo filone di studi, non ho dubbi: capiremo meglio il ruolo svolto dai cavalli nella società coloniale spagnola».

I cowboys toscani che umiliarono Buffalo Bi. Luca Bocci il 4 febbraio 2022 su l'Arno - Il Giornale.

Sebbene sia popolarissima tra gli stranieri, l’immagine da cartolina della Toscana non ci ha mai troppo appassionata. Per come la vediamo noi, per capire il carattere di questa terra speciale bisogna andare oltre ai filari di cipressi e alle città d’arte per guardare nelle parti più selvagge di questa regione. Nessuna zona è più selvaggia ed indomabile di quella che si estende a cavallo del confine col Lazio, tanto speciale da essersi conquistata un posto d’onore nell’immaginazione dei toscani. Dopo che vi abbiamo raccontato la storia di Domenico Tiburzi, il Robin Hood toscano, ora tocca ad un’altra leggenda della Maremma, la famosa vittoria contro i cowboys di Buffalo Bill riportata dai butteri in una sfida che ha fatto storia. 

Il famoso showman americano offrì l’equivalente di un anno di paga di un buttero se fossero riusciti a domare e cavalcare uno dei suoi famosi mustangs per cinque minuti. I butteri ci riuscirono, tra gli applausi scroscianti del pubblico. Sebbene tutti in Toscana conoscano questa storia, ben pochi sanno esattamente come andarono le cose e persino dove si tenne la famosa sfida. Quando hai tra le mani una bella storia, a cosa servono i dettagli? Basta e avanza per dimostrare che siamo i migliori! Peccato, perché si tratta davvero di una storia incredibile, che spiega perché il buttero sia diventato il simbolo non ufficiale della Maremma.

Come i loro cugini d’oltreoceano anche i cowboys toscani non se la passano per niente bene, pagati poco per un lavoro che rimane faticosissimo. Ora che le paludi sono state bonificate ed i latifondi sono una memoria lontana, i giorni dei butteri sono contati. Se capitate da quelle parti d’estate, potete ancora vedere come vivono in uno dei tanti spettacoli organizzati nella zona.

La storia dei cowboys toscani e di come siano diventati delle leggende viventi in questo episodio di What’s Up Tuscany, il podcast dedicato a tutti coloro che amano questa terra e la gente che la rende unica al mondo. Fateci sapere cosa ne pensate partecipando alla conversazione sui nostri canali social. Ogni feedback è graditissimo, quindi non esitate! 

LA SFIDA TRA I BUTTERI E BUFFALO BILL

La famosa disfida non avvenne in Toscana ma a Roma, l’8 marzo 1890. Per garantirsi un poco di pubblicità gratuita Buffalo Bill era solito lanciare una sfida pubblica ai cavallerizzi di ogni paese che visitava, mettendo in palio un grosso premio per chiunque riuscisse a battere i suoi famosi cowboys. Nessuno di solito accettava la sfida ma le cose andarono in maniera ben diversa all’ombra del Cupolone. Mentre stava allestendo la sua enorme arena vicino alle caserme del Regio Esercito nella periferia della capitale, a Prati di Castello, Buffalo Bill fece il giro dei salotti bene per farsi pubblicità. Durante una di queste feste, l’ospite d’onore, dopo un bicchiere di troppo, iniziò a vantarsi del fatto che “nessuno può battere i miei cowboys”. Lì vicino passava uno dei più illustri membri dell’aristocrazia locale, Onorato Caetani, conte di Sermoneta. Il nobile di cavalli se ne intendeva parecchio e fu ferito dalla spacconeria dell’americano. Caetani rispose alla scommessa di Buffalo Bill con un’altra: avrebbe messo a disposizione sette dei suoi stalloni più selvaggi della sua tenuta di Cisterna, nell’Agro Pontino, vicino a Latina. Se i cowboys fossero stati in grado di domare questi cavalli intrattabili, che erano stati rifiutati da ogni cliente, avrebbe ammesso la sconfitta e pagato.

Un cronista del Messaggero passava da quelle parti e rilanciò sulle pagine del quotidiano la sfida del nobile romano, sfida che fu fatta propria dal pubblico, che si presentò in massa in quello che sarebbe diventato uno dei quartieri più chic della capitale. La sfida si tenne il 4 marzo ed i cowboys dimostrarono che sapevano il fatto loro. Gli ci vollero solo 15 minuti per catturare e domare i sette stalloni. Il pubblico ci rimase male ma applaudì a scena aperta la tecnica dei cowboys, mentre Buffalo Bill se la rideva contando i soldi degli incassi. Non tutti furono impressionati dai cowboys, primi tra tutti gli esperti italiani. I cowboys giocavano sporco, facevano male ai cavalli, li facevano sanguinare, andavano in venti contro un singolo cavallo. Così son buoni tutti, dissero. Buffalo Bill non la prese benissimo e rilanciò la sua solita scommessa: avrebbe dato cento dollari a chiunque fosse stato in grado di catturare e montare i cavalli selvaggi del West per almeno cinque minuti. La somma fece impressione, specialmente ai butteri. Loro ci mettevano un anno per guadagnarli – il che spiega perché furono diversi a far sapere di voler raccogliere la sfida.

Il giorno della sfida, l’8 marzo, pioveva come Dio la mandava. Molti butteri non si presentarono nemmeno, ma nove si fecero vivi, qualcuno a cavallo, altri a piedi. Le cronache dell’epoca raccontano come fossero più di ventimila ad affollare l’arena a Prati, nonostante il nubifragio. E qui la storia e la leggenda iniziano a divergere. Sebbene ogni toscano giuri e spergiuri che i butteri venivano dalla Maremma, in realtà erano tutti originari dell’altra area “maledetta” del centro Italia, quell’Agro Pontino ancora ben lontano dall’essere bonificato. Intuendo la mala parata, Buffalo Bill cambiò le regole della sfida. Per incassare i cento dollari, ognuno di loro avrebbe dovuto catturare, sellare e montare per cinque minuti uno dei suoi stalloni selvaggi. I butteri non la presero per niente bene. Se i cowboys potevano mettersi venti contro uno, perché mai loro dovevano fare da soli? I primi due, Alfonso Ferrazza e Augusto Imperiali, ce la fecero senza troppi problemi. “Augustarello” catturò, montò il suo cavallo e fece diversi giri dell’enorme arena, grande quanto quattro campi di calcio, tra l’entusiasmo del pubblico. Tutto molto bello, ma se la prese un po’ troppo comoda. Buffalo Bill aveva da concludere il suo spettacolo ed i butteri gli stavano mandando in tilt la scaletta. Senza aspettare gli altri butteri, montò sul suo stallone bianco ed annunciò al pubblico che la sfida era finita. La gente pensò che avesse ammesso la sconfitta, il che spiega gli applausi scroscianti – le cose non stavano proprio così. In realtà Buffalo Bill non ne voleva sapere di pagare la scommessa e, una volta finito lo spettacolo, fece sapere che i butteri non avevano vinto perché ci stavano mettendo troppo tempo.

Augustarello e soci prima protestarono vivamente, poi diedero vita alla classica rissa da saloon senza saloon, iniziando a pestare chiunque gli capitasse a tiro. Alla fine, i cento dollari rimasero nelle tasche di Buffalo Bill. La sera, ad un party organizzato dal Conte di Sermoneta, fu sentito ammettere che i butteri erano stati bravissimi e gli offrì dello champagne dopo aver fatto saltare i tappi con dei colpi precisissimi del suo famoso Winchester. I butteri avrebbero sicuramente preferito contare i suoi dollari. Il pubblico romano se la legò al dito e rise delle scuse dell’americano. Per loro l’eroe era Augustarello, mentre l’americano si beccò il soprannome di “Er cappellaccio” e una generosa dose di sarcasmo sferzante. Nonostante avesse incassato parecchio, Buffalo Bill non portò mai più il suo Wild West Show nella capitale. Un caso? Forse, ma nessuna delle sfide lanciate dai butteri laziali e toscani fu mai accettata, nemmeno per il centenario della disfida. Poco importa, il mito della storica vittoria dei butteri era nato lo stesso.

Le leggende si comportano un po’ come gli pare, senza preoccuparsi troppo della realtà. Se funzionano e hanno presa sul pubblico, prosperano lo stesso. L’impresa dei butteri di Latina fu fatta propria dai cugini della Maremma, specialmente da quelli di Albarese, dove sono sopravvissuti fino ai nostri giorni. Il pubblico romano non si è certo dimenticato di loro. La vittoria di Augusto Imperiali è stata raccontata in diversi libri, inclusa una graphic novel pubblicata nel 2010. La storia d’amore tra gli italiani e il Far West è continuata incontrastata, passando dalle pagine dei fumetti di Tex Willer ed i mille emuli di Bonetti fino alle centinaia e centinaia di spaghetti western, la musica di Ennio Morricone e chi più ne ha più ne metta.

Come successo nel vero West ai cowboys, anche i butteri non se la passano per niente bene, relegati come sono al ruolo di comparse in spettacoli folkloristici abbastanza tristi. Nel 2011 ci pensò un articolista del New York Times a raccontare come stessero i butteri nel nuovo millennio. Loro, i butteri, non sono cambiati per niente. Come i loro antenati rimangono l’espressione dell’anima di questa terra selvaggia, impossibile da domare.  

Luca Bocci

Il tesoro equestre del Quirinale che affascinò la regina d’Inghilterra. Giovanni Battista Tomassini su La Repubblica il 25 gennaio 2022.  

La Biblioteca del Quirinale custodisce una delle più ricche collezioni di libri sull'equitazione e i cavalli d'Italia. Eredità del periodo sabaudo, testimonia il profondo legame storico del palazzo che è sede della Presidenza della Repubblica con la "civiltà del cavallo", che ha caratterizzato per secoli la cultura europea. 

Testimoni diretti raccontano che, quando fu ricevuta al Quirinale dal presidente Napolitano, durante la sua visita di stato in Italia nel 2014, la regina Elisabetta ostentasse un'aria cortese, ma vagamente annoiata. Pare che un lampo d'interesse, se non addirittura d'entusiasmo, ne abbia acceso lo sguardo solo quando l'allora direttrice della Biblioteca del Quirinale, Lucrezia Ruggi d'Aragona, le mostrò alcuni volumi antichi. La passione viscerale della sovrana inglese per i cavalli è universalmente nota, meno noto è invece che il Quirinale custodisce quella che è probabilmente la più ampia collezione di libri di argomento equestre presente nel nostro paese. Furono proprio alcuni degli esemplari più pregiati di quella collezione a suscitare l'interesse di Elisabetta II che, abbandonato il protocollo, si informò sulla loro provenienza e ne ammirò le belle illustrazioni.

Questa raccolta di volumi unica, che comprende quasi cinquecento opere dedicate all'equitazione e alla veterinaria, è un'eredità del periodo sabaudo. Raoul Antonelli, che ha loro dedicato un bel catalogo ragionato (consultabile sul sito internet del Quirinale in pdf), ritiene che le opere siano state raccolte nel periodo che va dal 1770  sino alla fine dell'Ottocento. A sovrintendere a tutto il complesso delle Scuderie e Razze reali era preposto il Grande Scudiero del Re, uno dei "grandi" della corte sabauda insieme al Ministro della Real Casa, al Primo Aiutante di campo del re, al Prefetto di palazzo e al Gran Cacciatore.

Al Grande Scudiero era affidata, oltre alla supervisione delle scuderie reali propriamente dette, anche e soprattutto la politica per l'incremento della produzione equina nel Regno. Erano alle sue dipendenze tutti i "Depositi di cavalli stalloni" del Regno (a Chivasso, Venaria Reale, Annecy, Paulilatino e, dopo il 1860, anche a San Rossore, Monterotondo, Persano). Inoltre, nel 1769, alla Venaria Reale, accanto agli allevamenti era stata creata una scuola di veterinaria, che fu la prima in Italia e la seconda in Europa, dopo quella di Lione.

Secondo Antonelli, sarebbe proprio nei tre poli delle scuderie reali, della scuola di veterinaria e della scuola militare di equitazione, con sede sempre alla Venaria Reale, che si sarebbe andata costituendo la collezione di libri di argomento equestre poi trasferita al Quirinale. Come dimostrano molte delle dediche, scritte a mano o a stampa, presenti sui volumi della collezione, una parte di questi libri erano appartenuti a Emilio Sailer, che fu ispettore della scuola militare di equitazione, divenne, poi, primo cavallerizzo di Vittorio Emanuele II e, all'indomani dell'unità d'Italia, direttore delle Regie razze di San Rossore.

La raccolta comprende molto di quello che in materia di cavalli è stato scritto e pubblicato in Europa, tra il XVI e il XIX secolo. Non solo opere in italiano, ma anche in francese e tedesco. Un vero tesoro nascosto, che va dagli Ordini di cavalcare di Federico Grisone, primo trattato d'equitazione pubblicato a stampa, alla metà del XVI secolo, sino all'edizione del 1940 dell'Annuario ufficiale delle corse ad ostacoli e corse piane per cavalli da caccia. Ne fanno parte alcuni dei più bei libri della storia della trattatistica equestre, come il Cavallo frenato, magnifico repertorio di briglie rinascimentali di Pirro Antonio Ferraro, pubblicato postumo, nel 1602 e poi ripubblicato nel 1620 (è questa l'edizione in possesso del Quirinale), oppure la Scuola equestre (1805) di Federico Mazzucchelli, illustrata dalle splendide tavole che rappresentano gli esercizi del maneggio realizzate, dalla bottega dei fratelli Bordiga, su disegni di Basilio Lasinio.

Con l'avvento della Repubblica, la collezione di libri del Quirinale attirò l'attenzione del secondo Presidente, Luigi Einaudi, che fu il primo a risiedere nel Palazzo. Da intellettuale e appassionato bibliofilo (fu tra l'altro il fondatore dell'omonima casa editrice), Einaudi si interessò alla biblioteca, occupandosi personalmente della sua prima sistemazione. Se ne trova traccia in una curiosa corrispondenza con il filosofo e storico Benedetto Croce al quale il presidente Einaudi si rivolse, con una lettera di suo pugno datata 1° febbraio 1951, perché un libraio antiquario gli aveva proposto di arricchire la raccolta di libri dedicati "a cavalli, cavalieri, ecc. ecc." con uno "stupendo esemplare in legatura napoletana detta a tappeto", opera di Giuseppe D'Alessandro, Duca di Pescolanciano, pubblicato nel 1723. A Croce, grande studioso della storia del Regno di Napoli, il presidente chiedeva di sapere se l'autore del libro fosse noto e se, in sostanza, valesse la pena acquistarlo. Lo stesso giorno, Croce gli rispondeva così:

"Mio caro Einaudi,

La nobiltà napoletana era famosa in Europa per il suo amore pei cavalli. Ne parla il Vasari nelle Vite, ma c'è di più e di meglio: una allusione satirica di Shakespeare, nel Mercante di Venezia, se ben ricordo. Perciò non è meraviglia che da quell'ambiente uscissero parecchi libri sull'arte del cavalcare. Uno dei più noti è quello del Duca di Pescolanciano, la cui prima edizione trovo citata come del 1711 e la seconda è quella che tu hai presente del 1723. Io l'ho trovato più volte presso i librai e se non ne ho fatto acquisto è perché troppo quell'arte è distante dalle mie abitudini. Il libro ha certamente non piccolo valore di curiosità, per tutte le incisioni. Il D'Alessandro componeva anche versi e si ha di lui una Selva poetica stampata nel 1713 e un'Arpa morale stampata nel 1714.

Saluti affettuosi dal tuo

B. Croce

Il libro è effettivamente uno dei più belli, almeno dal punto di vista editoriale, tra quelli pubblicati in Italia di argomento equestre e contiene una galleria di ritratti dei "più bei cavalieri del Regno di Napoli", davvero splendida.  Einaudi seguì il consiglio di Croce e acquistò il volume, che infatti figura nel catalogo della Biblioteca.

Nel 2008 è stato il Presidente Giorgio Napolitano ad aver promosso la riorganizzazione della Biblioteca del Quirinale, che oltre ai fondi storici ha un importante settore di studi giuridici e di diritto costituzionale, a supporto dell'attività istituzionale connessa all'esercizio delle funzioni presidenziali. Nel novembre 2010 è stata inaugurata la nuova sede, nei locali attigui alla scala del Mascarino (quella che porta allo Studio alla Vetrata, dove il Presidente della Repubblica svolge le consultazioni per la formazione dei governi).  La Biblioteca è aperta agli studiosi che ne facciano richiesta (tutte le informazioni).

La collezione di libri dedicati all'equitazione e alla veterinaria della Biblioteca è, d'altronde, solo uno dei tanti segni della "civiltà del cavallo" di cui il Palazzo del Quirinale reca memoria. A cominciare dal nome della piazza antistante il palazzo che, a partire dal Cinquecento, venne detta Piazza di Monte Cavallo. Per volontà di Papa Sisto V, infatti, nel 1585 due statue colossali, raffiguranti i Dioscuri che trattengono per le briglie dei cavalli scalpitanti, vennero collocate al centro della piazza e ai loro piedi venne realizzata una fontana. Le statue, risalenti al III secolo d.C., provenivano dalle antiche terme di Costantino. La loro collocazione venne poi modificata nel 1786, mentre la fontana venne cambiata nel 1818, per assumere l'aspetto che ha tutt'oggi. Per estensione la stessa Reggia fu nota per secoli come Palazzo di Monte Cavallo. Sull'altro lato della Piazza ci sono poi le settecentesche Scuderie monumentali, oggi sede di mostre d'arte, mentre all'interno del Palazzo, oltre a una decine delle più belle carrozze di casa Savoia (vere opere d'arte su ruote), sono anche custoditi, nel cosiddetto Gabinetto Storico, finimenti di pregio: come il corredo della carrozza usata da Napoleone in occasione dell'incoronazione a re d'Italia il 26 maggio del 1805, i finimenti della bardatura del cavallo del viceré d'Italia Eugenio di Beauharnais e alcune splendide bardature arabe doni di sultani e re nord africani. Non va infine dimenticato che il Reggimento Corazzieri, guardia d'onore del Presidente della Repubblica, è un corpo scelto di carabinieri a cavallo. Un motivo in più per visitare questo Palazzo splendido, sede della più alta istituzione dello Stato, ricco di tesori d'arte e di testimonianze storiche.

Sua Maestà il Purosangue Orientale, l’arabo doc che resiste in Sicilia. Irene Carmina su La Repubblica il 15 gennaio 2022.

A Palermo dal 1 al 3 aprile di scena i cavalli più belli del mondo con l’Arabian horse cup

Un milione e quattrocento mila euro per un cavallo arabo purosangue. Considerato che in giro se ne trovano anche a tre milioni di euro, lo sceicco che lo scorso inverno se l’è aggiudicato deve aver pensato di aver fatto, se non un affare, un ottimo acquisto. Si sa, le cose belle costano e lo stallone originario della penisola araba, in fatto di bellezza, straccia tutti gli avversari. Il postulato estetico del mondo equestre, d’altronde, resta saldo da millenni. Prendete Napoleone. Che l’imperatore francese fosse vanitoso è storia nota. Non tutti sanno invece che, tra i suoi vezzi, ci fossero i cavalli. Voleva solo i cavalli più belli, purosangue arabi rigorosamente grigi. Ne aveva più di cento. E allora la vecchia storia del cavallo bianco di Napoleone non è il capriccio di un umorista. Era grigio, ma poco importa: era un purosangue arabo. “Marengo”, fedele compagno di battaglia di Bonaparte ad Austerlitz e Waterloo, fu una delle carte in più per conquistare mezza Europa. E stavolta non era un vezzo, ma una strategia precisa. 

Il cavallo più antico e più nobile tra le oltre 200 razze equine è, infatti, anche il più resistente. 160 chilometri senza fatica, instancabile. Su e giù per la steppa mongola, avanti e indietro nel deserto africano e nessuna traccia di stanchezza. Lo sapevano Gengis Khan e Alessandro Magno che lanciavano il grido di battaglia sempre e solo in sella al loro Asil, com’è chiamato lo stallone che risale al 3000 a.C. Qualità non da poco la resistenza, ma neppure l’unica. Il cavallo purosangue è leale, coraggioso, intelligente. George Washington ne aveva uno, mentre il presidente Mattarella un paio di mesi fa si è dovuto “accontentare” di ricevere in dono dal neopresidente algerino Abdelmadjid Tebboune uno stallone berbero, il cugino meno glamour del purosangue. È anche agile, elegante e così bello da diventare leggendario. Tante le leggende sulla sua origine, alcune legate a Salomone altre a Maometto, e inciso nel Corano c’è proprio l’allevamento del purosangue come dogma religioso.

E leggenda dopo leggenda, battaglia dopo battaglia, Asil è diventato l’oggetto del desiderio dei milionari di mezzo mondo. Un business di alta gamma, con prezzi che oscillano tra i 6mila euro per i giovani esemplari e i tre milioni di euro per i campioni dei concorsi equestri. «Ci sono tanti fattori che condizionano il prezzo di un purosangue arabo: il primo è la genealogia, la linea egiziana è la più cara, ma ce ne sono tante altre come la polacca e la russa», spiega Nino Culcasi, che da dodici anni organizza l’ “Arabian horse cup” di Palermo, lo show internazionale che dall’1 al 3 aprile aprirà la stagione 2022 dei grandi eventi sportivi dedicati al cavallo arabo puntando i riflettori sulla gara di morfologia, la sfilata di bellezza giudicata da esperti provenienti da tutto il mondo.

Dei 27.700 arabi purosangue presenti nei mille allevamenti italiani, circa il 10 per cento risiede proprio nell’Isola, dove si è sviluppata anche una specie autoctona che tra gli appassionati vanta il presidente della Regione Nello Musumeci: «Il cavallo purosangue orientale che origina direttamente dal purosangue arabo: il suo sangue è 100 per cento di cavallo arabo del ceppo siriano Kuhaylan, un caso unico al mondo considerato che gli altri cavalli arabi sono un incrocio dei cinque ceppi e non hanno conservato questa purezza - precisa Amedeo Cultreri, segretario dell’Associazione nazionale italiana del cavallo orientale -

L’isolamento riproduttivo, l’ambiente, la posizione geografica, la morfologia del territorio e il clima della Sicilia sono stati determinanti nella conservazione di questa razza che è rimasta identica al suo capostipite». Un primato tutto siciliano che è stato certificato dagli studi genetici condotti dell’Università di Catania incrociati con le ricerche americane. 

Unico ceppo, purezza massima, numero ridotto di esemplari. Se ne contano in totale 250, in maggioranza femmine, di cui più del 95 per cento è stanziato nell’Isola. L’Istituto di incremento ippico di Catania ne ha più di tutti, 15, e fornisce agli allevatori siciliani gli stalloni idonei alla riproduzione. Sono circa trenta gli allevatori siciliani, hanno pochi esemplari - tre, cinque, al massimo dieci - e sono sparsi per tutta l’Isola, «mentre i pochi allevatori presenti nel resto d’Italia hanno pochissimi cavalli e li hanno acquistati in Sicilia a un prezzo minimo di 3mila euro». D’altronde, il Pso, acronimo che sta per purosangue orientale, è una peculiarità tutta siciliana, la cui comparsa nella regione più a sud d’Italia si perde nella notte dei tempi: «Ci sono monete puniche di zecca siciliana del 300 a.c. che raffigurano il purosangue orientale – spiega Cultreri – ma del Pso si parla ufficialmente dal 1875, l’anno in cui Vittorio Emanuele II ha istituito lo Stud Book, il libro genealogico dei cavalli purosangue in cui è iscritto il Pso, custodito presso il Ministero dell’agricoltura».

Potenza, testa corta, zona fra gli occhi estesa, orecchie piccole, collo non molto lungo, petto profondo, posteriore ampio, linee arrotondate. Queste le caratteristiche del purosangue orientale, che lo rendono l’avversario da battere nelle gare di endurance, le competizioni di resistenza sulle lunghe distanze. L’ultima vittoria è di Marta, la puledra siciliana nata nel 2017 che quest’anno si è aggiudicata la medaglia d’oro del Trofeo Nazionale Mipaaf di Città delle Pieve del 2021. Se oggi l’endurance è essenzialmente l’unico campo di confronto sportivo del Pso, in passato la razza siciliana si destreggiava anche nelle gare di galoppo all’Ippodromo di Siracusa. Il tempo plasma le tendenze in fatto di cavalli, e non solo per le competizioni sportive. Dopo l’ascesa agli inizi del ‘900, gli anni ‘50 rilegano nel dimenticatoio il purosangue orientale, segno delle mode che influenzano i tempi. Poi la risalita in auge della razza siciliana che va per la maggiore per il trekking e diventa uno dei capisaldi del turismo d’altura. Da quel momento, niente più discese per il mercato del lusso equestre che resiste anche al Covid e diventa, sempre più, un affaire senza tempo.

·        L’Asino.

Lasciate stare i «ciucci», animali eleganti. Michele Mirabella e la disamina sociale sulla parola «ciuccio». Il termine usato e abusato per gli insuccessi a scuola e nello sport. Ognuno conserva il suo personale ricordo. Michele Mirabella su La Gazzetta del mezzogiorno il 28 Agosto 2022.

«Ciuccio» è parola, se non dialettale, certo popolaresca. Si sa che ciuccio, nel Sud, è denominazione famigliare dell’asino, detto anche somaro. E somaro ha tutta l’aria di derivare da soma, ovvero dal fardello con cui il mite equino ha in sorte amara di doversi sobbarcare per tutta la vita. Se così non è, domando scusa ai lessicografi: evidentemente sono ciuccio in etimologia. Eh si, perché, secondo la vulgata, ciucci si è quando si resta ignoranti. Tutti sanno che, a parte le competenze fisiologiche e mirabilmente naturali assorbite nella quiete della gestazione, ignoranti delle vicende del troppo breve miracolo della vita, si nasce e non c’è, in questo, niente di male, di innaturale, ma si ha il dovere di non restarlo, ignoranti, altrimenti scatta l’appellativo: ciuccio. Non saprei spiegare la ragione per la quale a costoro, agli ignoranti renitenti al miglioramento e alla emancipazione dal buio del non sapere, sia stata data la denominazione asinina. Da che io ricordi è stata praticata largamente, almeno in Italia.

Il maestro Perboni, nell’indimenticabile libro Cuore, non credo che abbia mai dato del somaro neanche al pur scavezzacollo Franti. Anni dopo ebbe successo una canzone cantata dall’indimenticabile Natalino Otto, che s’intitolava La classe degli asini: «Signorina Maccabei! Venga fuori, dica lei. Dove sono i Pirenei?»

«Professore, io non lo so, lo dica lei!»

«E sentiamo Massinelli, il mio re degli asinelli, dove sono i Dardanelli?»

«Professore, io non lo so, lo dica lei».

Ho ancora nelle orecchie, orecchie lunghe d’asino, s’intende, la voce di tanti maestri pugliesi che davano del ciuccio ad ognuno degli scolari o, per far prima, davano della ciuccia a tutta la classe. Uno, in particolare, tra i miei docenti, sentenziava che eravamo ciucci e presuntuosi. L’aggravante non era nulla in confronto alla sentenza ultimativa e dialettale: Si ciucc e t’ n’ prisc. «Sei somaro e ne godi, te ne vanti», si potrebbe tradurre. Si può esser ciucci anche in altri campi, non solo nel sapere o nell’apprendimento. Si urlava «ciuccio!» anche al giocatore di pallone che faceva «violino», mancava, cioè, clamorosamente una palla, un passaggio o un tiro in porta.

La mia «ciucciaggine» come portiere di calcio causò una decisiva sconfitta in una partita ginnasiale. La mia classe perse otto a zero. Sentii dare del ciuccio ad un solista di banda durante un’esecuzione di Traviata! nella cassa armonica del mio paese durante una festa della Madonna Immacolata. In quell’occasione fu ciuccio anche il mest fuc, ovvero il mastro addetto ai fuochi pirotecnici. Insomma si è ciucci, da noi, quando non si è bravi e pronti a fare il proprio mestiere, quando non si rispetta il proprio lavoro e non si dimostra d’aver segni di ravvedimento. Asini, quindi, se non si studia e se si vuole restare ignoranti.

La locuzione era e, per quanto ne so, è ancora, potentemente nazionale, italiana, ma, anche, europea e si radica nell’antico. Re Mida inalbera mostruose orecchie d’asino come vergogna estrema. Un bel capolavoro di contrappasso per uno che trasformava in oro tutto quello che toccava. E tracima la denominazione nell’immaginario collettivo colto e non colto. Basti ricordare le orecchie d’asino che spuntano a Pinocchio riottoso nel rifiutare l’istruzione. I manuali di zoologia non forniscono argomentazioni sufficienti a dimostrare una particolare propensione del somaro a scansare gli studi, anche quelli semplici ed a portata di muso.

Inoltre trovo che l’asino sia un bellissimo animale, la sua espressione è dolce, la sua figura è elegante, le sue splendide orecchie sono un capolavoro di agilità. Non ci sono prove scientifiche che non sia versato negli studi o che intenda restare ignorante, non più d’un cavallo, un passerotto o una rana (e la capra?). Diciamo che, da questo punto di vista, è una bestia come le altre. In più è paziente, robusto, coerente, anche se dicono che sia testardo. Non è vero, quello è il mulo, un figlio che l’asino farebbe volentieri a meno di mettere al mondo. O è l’asina? Non ricorderò mai la differenza tra mulo e bardotto. Sono ciuccio anche in zoologia. Insomma, mi piacerebbe liberare l’asino da questa soma faticosa di regalare agli ignoranti il suo nome dignitoso.

Non dimentichiamo che Gesù lo ha scelto per tenergli compagnia e riscaldare la sua algida greppia. E se è stato lì a testimoniare la buona novella, come poteva essere apatico e ignorante, noncurante del sapere e testardo nel respingere la luce dell’intendimento? Per tutte queste ragioni rinuncio a dare del ciuccio a qualcuno che si sta dando molto da fare per lasciar scoprire la sua ignoranza senza lacune in quasi tutte le discipline, ma soprattutto in Storia e si accanisce a maltrattare quella e la lingua italiana. Le liste elettorali ne annoverano qualcuno di troppo. Bisogna trovare un’altra parola lasciando in pace il mondo animale. Si accettano suggerimenti. Ma, prima di tutto, non votateli.

·        Le pecore.

Gabriele Ferrari per focus.it il 2 dicembre 2022.

Le pecore non sono solo un animale ma anche un simbolo, non necessariamente positivo, di chi obbedisce agli ordini altrui e segue il capo senza farsi troppe domande: pensate per esempio al dispregiativo "pecorone". Ora un nuovo studio della Université Côte d'Azur sembra volerle vendicare, o quantomeno riconoscere loro una complessità sociale che va al di là della struttura "uno guida, gli altri seguono". Pubblicato su Nature, lo studio dimostra che, almeno in certe condizioni, le greggi di pecore non hanno un solo capo, ma si alternano democraticamente (e casualmente) alla guida del gruppo.

Lo studio ha per ora un solo limite: è stato condotto su gruppi di piccole dimensioni, composti da 2 a 4 esemplari di femmine della stessa età. Queste mini-greggi sono stati osservati durante la giornata e da debita distanza (il luogo di osservazione era la cima di una torre vicino ai loro campi), per scoprire come si comportano quando non vengono guidate da un'"entità" esterna (per esempio, un pastore).

Il team ha scoperto che le pecore alternano momenti in cui brucano l'erba ad altri in cui si muovono in gruppo in cerca di altri pascoli; e che ogni volta che si spostano, il gruppo cambia leader: una pecora si mette alla guida e le altre la seguono ordinatamente. Il nuovo capo è scelto ogni volta in maniera casuale, o almeno così sembra.

In realtà, dietro questa forma di alternanza democratica ci potrebbero essere dei motivi pratici. Ogni esemplare, infatti, ha una diversa conoscenza dell'ambiente circostante: potrebbe, per esempio, conoscere la location di un prato particolarmente verdeggiante che le altre pecore non hanno mai visitato, e aspettare il suo momento di condurre per mostrarglielo.

Inoltre, sapere che prima o poi toccherà a te "fare il capo" aiuta anche ad accettare con più serenità le decisioni degli altri leader, e a evitare possibili conflitti. Il limite dello studio è tutto nelle dimensioni delle greggi considerate: non sappiamo (ancora) se la "rotazione dei leader" avviene anche in gruppi più numerosi, e se la presenza di maschi cambia qualcosa in termini di leadership. Per il team che ha condotto la ricerca si preannunciano dunque altri viaggi in cima alla torre di osservazione.

·        Il Maiale.

Paolo Travisi per leggo.it il 16 agosto 2022.

Il maiale, animale domestico, proprio come se fosse un cane. A decretarlo la sentenza del Tar di Pescara che ha messo la parola fine ad una controversia tra il Comune di Montesilvano, nel pescarese ed una residente che teneva nel cortile di sua proprietà, Monaldo, un maiale vietnamita. 

Il tribunale amministrativo, come riporta un articolo de Il Centro, ha stabilito che il maiale non costituisce «una concreta ed effettiva minaccia per l’incolumità dell’igiene pubblica». E dunque può rimanere a vivere nello stabile, a meno che il comune non faccia ricorso al Consiglio di Stato.

Ad accendere la diatriba, era stato proprio il primo cittadino del comune abruzzese, Ottavio De Martinis, che aveva ordinato «lo sgombero del maiale vietnamita di circa 100 chili dal cortile sottostante il condominio con la sua delocalizzazione nel termine di 30 giorni, al fine di rimuovere lo stato di pericolo igienico sanitario e di una migliore tutela dell’igiene pubblica e privata». 

Il sindaco, dunque, era convinto che l'animale rappresentasse un pericolo per la comunità di Montesilvano, ma il parere dei magistrati amministrativi è stato di segno contrario. Per il Tar, l’ordinanza del Comune è «illegittima» e, per questo, è stata annullata. 

Monaldo come un cane domestico

Per la proprietaria di Monaldo, Patrizia Silvestri, la soddisfazione è grande. Tra l'altro Monaldo è iscritto all’anagrafe canina e ha anche il microchip ed infatti nella sentenza del Tar di Pescara si legge anche che: «Monaldo, quale animale d’affezione addetto a pet-therapy, può sinanche vivere in una civile abitazione, dato che la sua gestione non si discosta molto da quella di un cane. Inoltre, ad evidenziare il deficit di istruttoria, v’è la circostanza del peso dell’animale stimato in 100 chili mentre il peso del maiale vietnamita maschio arriva al massimo a 43 chili». 

Secondo la relazione presentata dal dipartimento di Prevenzione dell’Ausl di Pescara, nel momento del sopralluogo nella casa in cui vive Monaldo insieme alla sua proprietaria «non erano stati avvertiti odori molesti e che le condizioni igieniche erano buone, né erano stati rilevati liquami sversati sul suolo che al contrario venivano regolarmente asportati con segatura».

Dagotraduzione da Npr il 14 febbraio 2022.

Ellie il maiale panciuto si accoccola a Wyverne Flatt quando guarda la TV e a volte si gira per fargli accarezzare la pancia. Il maiale da 50 kg è «famiglia», dice Flatt, un animale di supporto emotivo che lo ha aiutato durante il divorzio e la morte di sua madre. 

I funzionari del suo villaggio a nord di Canajoharie la vedono in modo molto diverso. Per loro, il maiale è un animale da fattoria che Flatt ospita illegalmente nel villaggio. 

Il caso potrebbe presto essere discusso in un processo penale. Ma ha già attirato l'attenzione dei partigiani del maiale che credono che gli animali dovrebbero essere rispettati come compagni invece che come semplici fonti di cibo.

«Non potrei mai sognare di dare via qualcuno che fa parte della mia famiglia», ha detto recentemente Flatt mentre accarezzava il maiale nella sua cucina. «Lei è molto intelligente. È più intelligente dei miei cani. Penso che possa in qualche modo concentrarsi su di te quando ti senti male perché vuole entrare e coccolarti con te». 

Ellie è un maiale vietnamita alto fino al ginocchio con un mantello nero e zoccoli che sbattono sul pavimento. Flatt viveva nella Carolina del Sud quando ha preso il maiale nel 2018, ed era «grande come una scarpa». È arrivata al nord con Flatt nel 2019 quando si è trasferito a Canajoharie, un modesto villaggio sul fiume Mohawk.

Tutto è iniziato quando un ufficiale è andato a trovare Flatt a casa per una richiesta di permesso di costruzione e si è accorto dell’animale. Gli ha intimato di liberarsene ma sei mesi dopo il maiale era ancora lì. 

Così a Flatt è stato formalmente intimato di liberarsene perché violava il codice locale che vieta gli animali da fattoria nel villaggio. La violazione di un codice di zonizzazione è un reato ai sensi della legge statale. 

Flatt dice che il villaggio sta prendendo di mira il suo maiale, che secondo lui è pulito e intelligente. Molti dei suoi vicini hanno firmato dichiarazioni giurate dicendo che Ellie gli piace.

Il sindaco del villaggio Jeff Baker ha detto che il consiglio non ha commenti mentre il caso giudiziario è pendente. Ma un avvocato del villaggio ha scritto che il maiale è un potenziale pericolo per la salute pubblica. Ha sostenuto che se «ogni cittadino deridesse apertamente i codici di zonizzazione del villaggio ... vivremmo in una società senza legge». 

Gli animali di supporto emotivo sono diventati comuni negli ultimi decenni. Dopo anni di passeggeri che hanno portato maiali, conigli, uccelli e altri animali sugli aeroplani, i funzionari federali dei trasporti nel 2020 hanno affermato che le compagnie aeree non dovevano più ospitare animali di supporto emotivo.

E Flatt non è il primo proprietario di maiali in cerca di supporto emotivo che vuole entrare in conflitto con le leggi locali sull'edilizia abitativa. 

Nel 2019, a una famiglia nel sobborgo di Buffalo di Amherst non è stato permesso di tenere un maiale panciuto, di nome Pork Chop, che sostenevano essere un animale di supporto emotivo per la nuora. A una donna dell'Indiana nel 2018 è stato detto di sbarazzarsi del suo maiale di supporto emotivo per ragioni simili. 

Anche se gli americani tengono da decenni maiali più piccoli come animali domestici, i loro sostenitori affermano che sono ancora visti da alcune persone come poco più che bestiame.

Tuttavia, molti comuni in tutto il paese consentono ai residenti di tenere i maiali come animali domestici. Alcune leggi locali a volte specificano che i maiali da compagnia devono avere un peso specifico. Altre leggi consentono solo maiali panciuti. 

Canajoharie ha approvato una nuova legge a gennaio che chiarisce le sue leggi sulla detenzione di animali, citando un'ondata di violazioni. Gli animali da fattoria sono ancora vietati dalla legge, che stabilisce regole per i residenti che cercano una sistemazione ragionevole.

Flatt ha detto di aver ricevuto offerte da persone per ospitare Ellie fuori dal villaggio, ma vuole combattere per mantenerla. 

«Spero che questo crei un precedente che le persone inizino a capire che si tratta di animali domestici», ha detto. «Non sono qualcosa che porti a casa, macelli e mangi».

Simone Valesini per today.it il 16 novembre 2022.

Può dispiacere ammetterlo, visto che sono sul menù della nostra specie da migliaia di anni, ma i maiali ci somigliano molto. Sul fronte biologico, tanto che i trapianti di organi e tessuti di maiale nell'uomo è considerata una delle più promettenti frontiere della chirurgia per i prossimi anni. 

Ma anche su un piano più profondo: i maiali sono infatti animali intelligenti, che costruiscono gruppi sociali con rapporti complessi e intricati, molto simili ai nostri. Un esempio? In caso di liti, un maiale “spettatore” può decidere di intervenire per sedare gli animi, consolando l'aggredito o rabbonendo l'aggressore per evitare che persista nei suoi atteggiamenti violenti.

La scoperta arriva da uno studio dell'Università di Torino, pubblicato negli scorsi giorni sulla rivista Animal Cognition. La ricerca, guidata dai socio-biologi Giada Cordoni e Ivan Norscia, ha coinvolto 104 maiali domestici allevati allo stato semi-brado in un agriturismo etico sulle colline torinesi. 

Per sei mesi gli scienziati hanno monitorato le interazioni all'interno del branco di suini, prendendo nota dei conflitti avvenuti, e degli esiti che hanno avuto. Grazie a un campionamento genetico sono stati anche ricostruiti i legami di parentela tra gli animali, in modo da verificare se i legami di sangue influenzassero le relazioni e la risoluzione dei conflitti.

E in effetti, una prima somiglianza con la nostra specie è emersa proprio nel comportamento che hanno in caso di litigi con i propri familiari: i comportamenti indirizzati alla riconciliazione sono infatti molto più comuni tra animali non imparentati, rispetto a quanto non avvenga tra consanguinei. 

In qualche modo, i maiali non sembrano badare tanto alla forma quando si tratta di fare la pace con i propri familiari (con i quali un buon rapporto è probabilmente dato per scontato anche al termine di un conflitto), mentre si impegnano al contrario in atteggiamenti pacificatori quando i conflitti coinvolgono esemplari con cui non sono imparentati, e con i quali i rapporti potrebbero rimanere tesi, compromettendo a lungo andare la coesione del branco. 

Guardano al comportamento degli altri membri del branco esterni al conflitto, i ricercatori hanno notato esiti differenti legati a quale dei due esemplari coinvolti nella lite viene approcciato dall'esemplare spettatore. Se il maiale esterno al conflitto decide di interagire con l'aggredito, il suo intervento sembra avere un effetto consolatorio, riducendo l'ansia della vittima (calcolata in termini di comportamenti come scuotere il corpo o la testa, masticare a vuoto, grattarsi o sbadigliare, che esprimono una condizione di stress dell'animale).

Se invece decide di approcciare l'aggressore, il risultato è una riduzione di nuovi comportamenti violenti nei confronti della vittima o di altri maiali del branco. In qualche modo, insomma, l'intervento dello spettatore sembra indirizzato a calmare l'aggressore, così da stroncare sul nascere nuove potenziali tensioni.

Entrambi i tipi di intervento di maiali estranei al conflitto (sia quelli indirizzati a consolare la vittima che quelli per calmare l'aggressore) sono risultati molto più comuni se uno dei due esemplari coinvolti nel litigio era imparentato direttamente con l'animale spettatore. Come interpretare i risultati? Gli autori della ricerca ammettono che si tratta di uno studio svolto su un unico gruppo di maiali, in condizioni di semi cattività, e i risultati potrebbero quindi non risultare veri in situazioni diverse, o in caso di branchi di maiali selvatici.

Pur con questi limiti, i comportamenti osservati lascerebbero supporre che questi animali possiedano capacità di regolazione socio-emozionale, con cui possono intervenire per modificare le conseguenze emotive di un conflitto. Proprio come noi, insomma, dopo un litigio anche un maiale può avere bisogno di una spalla su cui piangere, o di un amico che lo aiuti a calmarsi.

·        I Rettili.

Bimbo di quattro anni morso da una vipera, trasferito all'ospedale Meyer. Quotidiano.Net il 20 agosto 2022.

Gualdo Cattaneo (Perugia), 21 agosto 2022 - È stato trasferito all’ospedale Meyer di Firenze un bambino di 4 anni, di Gualdo Cattaneo, che è stato morso al braccio da una vipera. I fatti si sono verificati giovedì sera e il piccolo è stato inizialmente trattato all’ospedale di Foligno, dove è stato stabilizzato e ha ricevuto le prime cure. Le sue condizioni sono definite dai sanitari buone.

Bimbo di quattro anni morso da una vipera, trasferito all'ospedale Meyer

Il bambino è giunto al pronto soccorso pediatrico dell’ospedale di Foligno - riferisce l’Usl Umbria 2 - e quindi di lui si sono occupati i sanitari dell’Unità operativa di Pediatria diretti dalla dottoressa Beatrice Messini, in costante contatto col Centro antiveleni di Pavia. Il bimbo dopo esser stato sottoposto ai primi esami ematochimici e ad un doppler, è stato trattato con siero antivipera.

Venerdì poi, seppur in buone condizioni cliniche generali e con i parametri vitali nella norma, è stato trasferito con una ambulanza, accompagnato da un pediatra e da un rianimatore del ’San Giovanni Battista’, al polo specialistico dell’ospedale Meyer di Firenze per la somministrazione di una seconda dose di siero, effettuata ieri l’altro pomeriggio. I medici del Meyer, in contatto con i colleghi folignati, hanno confermato che ieri il bimbo era vigile e reattivo.

Veleno di vipera, cosa fare e cosa evitare dopo un morso. Quotidiano.Net il 20 agosto 2022.

Firenze, 20 agosto 2022 - È durante la primavera, a partire dal mese di marzo, che le vipere si incontrano più facilmente, perché vagano per le campagne, nei boschi, nelle colline e non solo, alla ricerca di una compagna. Sono serpenti velenosi presenti in quasi tutte le regioni d’Italia, e si possono incontrare ovunque, anche nei prati e soprattutto dove l’erba è alta o ci sono mucchi di pietre. Difficile incontrarla in luoghi aridi, perché predilige quelli in cui c’è l’acqua, vicino ai ruscelli, laghi, paludi o fiumi. Essendo un animale a sangue freddo, di giorno esce per riscaldarsi al sole e se minacciata attacca facilmente.

Di seguito qualche indicazione utile, ricavata da siti di primo soccorso, che certamente non vuole sostituire il fondamentale intervento dei sanitari competenti. La prima cosa da fare infatti, se morsi da una vipera, è contattare immediatamente il 118.

Come riconoscere una vipera

Ha una testa schiacciata e quasi triangolare se vista dall’alto, un corpo affusolato che presenta disegni a zig zag, e lungo che può arrivare fino a 80 centimetri, dal colore che va dal grigio al rossiccio. Ha una coda a punta e la pupilla è verticale come quella dei felini, e non circolare come invece lo è quella degli altri serpenti.

I segni del suo morso

È semplice riconoscere il morso di una vipera, perché lascia due punti rossi ben visibili, distanti un centimetro l’uno dall’altro, che sono i segni lasciati appunto dai due denti veleniferi.

Gli effetti del veleno

La zona del corpo che viene morsa si arrossa e si gonfia. Il primo sintomo del veleno è il formicolio, poi sopravviene la cianosi (la zona diventa di colore bluastro) che si espande rapidamente. Il soggetto avverte dolore e dopo un’ora sopraggiungono tutta una serie di altri sintomi: nausea, dolori muscolari, diarrea, a volte si vomita sangue, lo shock può far perdere conoscenza e si può arrivare anche al collasso.

Cosa fare quando si viene morsi da una vipera

Chiamare subito il 118. Avendo cura di spostare il meno possibile la persona ferita, è importante trasportarla in breve tempo in ospedale. La persona che viene morsa deve essere sdraiata e rimanere immobile e tranquilla, perché ogni movimento e agitazione può far spargere più repentinamente il veleno.

Qualche centimetro sopra la ferita si deve stringere un laccio o un bendaggio, non troppo stretto perché non si deve fermare la circolazione del sangue ma solo quella linfatica per rallentare la diffusione del veleno. Sulla parte del corpo che è stata morsa si può applicare del ghiaccio e si può lavare la zona con acqua e sapone. 

Cosa non si deve fare

Non bisogna assolutamente lavare la ferita con alcol o prodotti che lo contengono, perché è capace di aumentare la tossicità del veleno. Non si deve mai cercare di succhiare con la bocca il veleno, perché attraverso microferite presenti in bocca il soccorritore può assumere a sua volta il veleno.

Non si deve dare da bere all’infortunato sostanze alcoliche, perché essendo vasodilatatori producono come conseguenza un abbassamento della pressione.

Non serve a nulla fare un’incisione della cute tra i segni del morso, perché il veleno entra in circolo con la circolazione linfatica.

Non si deve iniettare il siero se non si è in ospedale, per due motivi: perché dopo ore tenuto a temperatura ambiente si altera e perde la sua efficacia; e poi perché la sua reazione va attentamente monitorata: in caso di shock può essere fatale.  Maurizio Costanzo 

·        La Tartaruga.

Fernanda, ricompare la tartaruga gigante delle Galapagos creduta estinta un secolo fa. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 15 giugno 2022.

Si chiama Fernanda: è la prima trovata dal 1906.

Sopravvive ancora alle Galapagos la specie di tartaruga gigante dell’isola di Fernandina (Chelonoidis phantasticus) che si pensava ormai estinta. Lo dimostra l’analisi del dna effettuata su un esemplare femmina attualmente vivente di nome «Fernanda», l’unica della sua specie identificata dopo oltre un secolo di ricerche. Come si legge nello studio pubblicato sulla rivista Communications Biology dai ricercatori dell’Università di Princeton insieme alla biologa italiana Adalgisa Caccone, dell’università di Yale, la tartaruga gigante dell’isola Fernandina era nota finora solo per un singolo esemplare, trovato dall’esploratore Rollo Beck nel 1906 e oggi conservato in un museo. 

Per oltre un secolo sono state condotte numerose ricerche per individuare altri esemplari, che non hanno però portato a nessun risultato. A (ri)accendere le speranze era stata nel 2019 — come abbiamo raccontato — proprio la scoperta di Fernanda. Dopo aver sequenziato il suo genoma, i ricercatori lo hanno confrontato sia con quello dell’esemplare nel museo che con quello delle altre 13 differenti specie di tartarughe giganti delle Galapagos. Dai risultati è emerso che Fernanda e la tartaruga da museo appartengono alla stessa specie e sono geneticamente distinte da tutte le altre (qui la storia di Diego e George, le due tartarughe simbolo dell’isola). 

«Per molti anni si è pensato che l’esemplare originale individuato nel 1906 fosse stato trapiantato sull’isola, perché era l’unico nel suo genere. Ora invece sembra che fosse uno dei pochissimi in vita un secolo fa», ha sottolineato lo zoologo Peter Grant. «Fernanda» oggi vive protetta presso il Galapagos National Park Tortoise Center: si stima che abbia superato il mezzo secolo di vita, ma ha dimensioni piuttosto contenute, probabilmente perché la sua crescita è stata frenata dalla scarsa vegetazione. «Il ritrovamento di un esemplare vivo dà speranza e apre anche nuove domande, perché rimangono ancora molti misteri», conclude l'italiana Caccone. 

Nata una tartaruga gigante delle Galápagos albina: «È la prima volta al mondo». Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022.

L’evento festeggiato al Tropiquarium di Servion, in Svizzera. La portavoce della struttura: «Un fenomeno mai stato osservato prima, né negli zoo né in natura».

Un evento straordinario. È nata — in cattività, al Tropiquarium di Servion, in Svizzera — la prima tartaruga gigante delle Galápagos (Chelonoidis niger) albina (contraddistinta dalla totale assenza di pigmentazione), nell’ambito di un programma di conservazione della specie a rischio estinzione. «Abbiamo avuto la sorpresa di un cucciolo albino. Un fenomeno mai visto nello zoo e in natura», ha dichiarato la portavoce della struttura. «Siamo stati sorpresi di scoprire un piccolo albino tra i nostri cuccioli di tartaruga gigante» (qui la storia di «Fernanda», la tartaruga gigante delle Galápagos creduta estinta un secolo fa).

L'ALBINISMO NEL MONDO ANIMALE

L’albinismo è raro nelle tartarughe con circa un caso su 100mila individui, «rispetto a circa un caso ogni 20.000 individui negli esseri umani». In generale, nel mondo animale, espone anche a diversi pericoli chi ne è affetto: non solo per l’estrema sensibilità della pelle, ma anche perché impedisce di mimetizzarsi e nascondersi rispetto a possibili predatori. La madre dell’esemplare nato in Svizzera, che pesa più di 100 chilogrammi, ha deposto cinque uova l’11 febbraio scorso e il piccolo è venuto alla luce il primo maggio. A rendere ancora più incredibile quanto accaduto è il tasso di successo dell’accoppiamento in questa specie estremamente basso: circa il 3%.

DARWIN ALLE GALAPAGOS

La tartaruga gigante delle Galápagos (Chelonoidis niger) appartiene alla famiglia Testudinidae endemica dell’omonimo arcipelago dell'Oceano Pacifico, celebre (anche) per gli studi effettuati dal naturalista britannico Charles Darwin che vi arrivò il 15 settembre 1835. Il suo viaggio — e la catalogazione di oltre un centinaio di specie — è raccontato in The Voyage of the Beagle, pubblicato per la prima volta n el 1839. Le testuggini giganti, che abitano le Isole Galápagos, al largo dell'Ecuador, sono le più grandi oggi viventi: possono raggiungere i 300-320 chilogrammi di peso e arrivare a superare anche i 100 anni di età. La specie si è differenziata nelle diverse isole dell'arcipelago in tredici sottospecie (inizialmente erano 15, ma 2 si sono estinte) che si distinguono tra loro per forma e misure del carapace (qui la storia di Diego e George, le due tartarughe simbolo dell’isola).

·        I Coralli.

Per la prima volta dei coralli allevati si sono riprodotti. Francesca Naima su L'Indipendente il 28 novembre 2022.

Alle volte l’intervento umano può essere d’aiuto invece che distruttivo, e ne è esempio il successo del primo vivaio offshore istallato dalla Reef Restoration Foundation (RRF), un’organizzazione senza scopo di lucro che monitora e tutela la Grande Barriera Corallina, ecosistema di grande importanza situato al largo della costa del Queensland (Australia) ma che da tempo è minacciato e in forte diminuzione. In uno dei trentatré vivai installati dalla RRF nel corso degli anni col fine di ripopolare la barriera corallina, i coralli Acropora si sono riprodotti per la prima volta.

Il riscaldamento dei mari, connesso al generale cambiamento climatico in atto, devasta gli ecosistemi e la biodiversità. La Grande Barriera Corallina, fondamentale quanto fragile e delicata, è da tempo sottoposta a gravi rischi. Noto è il cosiddetto fenomeno dello sbiancamento, che si verifica quando le temperature dell’acqua sono più alte della media o a causa di agenti inquinanti, virus o batteri e possono portare i coralli, animali coloniali che ospitano circa un milione di specie diverse e proteggono la costa dissipando fino al 97% dell’energia delle onde, a morire. Le attività umane invasive e altri fattori di stress locali e globali hanno portato alla perdita di più della metà delle barriere coralline del mondo negli ultimi 30 anni. Per farsi un’idea, la scomparsa delle colonie di corallo a cui si affidano circa il 25% di tutte le specie marine, equivale a perdere ogni foresta pluviale del pianeta. Circa il 70% di tutto l’ossigeno atmosferico viene infatti prodotto dall’oceano e le barriere coralline sono una parte fondamentale dell’equilibrio della vita oceanica.

Per scongiurare il peggio, la Reef Restoration Foundation agisce da tempo così da salvare i coralli e ripopolare la colonia; nel vivaio che prende il nome di “nursery” Welcome Bay, installato nel 2018 al largo della Fitzroy Island – paradiso tropicale e Parco Nazionale caratterizzato da grandi ricchezze naturali – i biologi marini della RRF hanno constatato la prima riproduzione in assoluto dei coralli Acropora, genere appartenente alla famiglia delle Acroporidae e tra i più popolosi. Un evento che segna una svolta positiva, avvenuto dopo quattro anni di sperimentazioni grazie anche al contributo della comunità attenta anch’essa a salvare i coralli.

La specie che vive sulla Terra da circa 500 milioni di anni può sopravvivere anche se “allevata artificialmente” perché, come è stato constatato circa due settimane fa, gli Acropora hanno portato a termine un processo naturale dì riproduzione. La notizia diffusa dalla stessa RRF rappresenta un ottimo esempio di come il progresso umano possa essere utilizzato per salvaguardare piuttosto che continuare a distruggere. L’obiettivo dei biologi è ora continuare a tutelare e arricchire la Grande Barriera Corallina, una delle più grandi e importanti, riconosciuta come hotspot globale per la biodiversità (zona caratterizzata da livelli di diversità biologica particolarmente elevati). L’antico habitat misura 344.000 km2 e si estende per 2.300 km, è quindi grande come la Germania o lo stato del Montana ed è infatti visibile anche dallo spazio. Con più di 1.000 isole, 2.000 chilometri quadrati di mangrovie e 6.000 chilometri quadrati di alghe, gli studiosi hanno compreso quanto impellente sia assicurare la sopravvivenza della Grande Barriera Corallina e la speranza è che anche i leader mondiali possano capirne l’importanza, piuttosto che continuare con un triste “ambientalismo di facciata“. [di Francesca Naima]

·        I Pesci.

Dal pesce drago stalker al pesce pipistrello che cammina: le sorprendenti specie avvistate a Cocos. Noemi Penna su La Repubblica il 17 Novembre 2022.

Il pesce pipistrello (Crediti foto: Benjamin Healley e Yi-Kai Tea) 

Le Isole Cocos sono un paradiso ancora inesplorato dell'oceano Indiano. Ed è nelle sue profondità che i biologi marini hanno trovato delle creature incredibili. Sotto la guida di Tim O'Hara del Museum Victoria Research Institute, il team di scienziati ha mappato gigantesche montagne sottomarine e incontrato una moltitudine di animali di acque profonde addobbati con luci scintillanti, dalla pelle gelatinosa e bocche piene di zanne.

 I biologi hanno impiegato sei giorni solo per raggiungere le isole Cocos da Darwin, a bordo della nave da ricerca Investigator dell'agenzia scientifica nazionale australiana Csiro. E "le vere star dell'esplorazione sono stati i pesci", spiega O'Hara: "Abbiamo trovato pesci mai visti prima, con organi bioluminescenti e antenne che escono dalle loro teste. Sono semplicemente straordinari".

Tra l'enorme varietà di vita che hanno avvistato, uno dei più inquietanti è stato senz'altro il pesce vipera che ha enormi denti simili a zanne, visibili anche quando la bocca è chiusa. C'erano poi un'anguilla cieca fino a quel momento sconosciuta, che vive a 5 mila metri di profondità ed è ricoperta da una pelle gelatinosa trasparente, e un pesce drago stalker, con l'insolita abitudine di spiare altri animali con una luce rossa bioluminescente, un colore che la maggior parte degli animali di acque profonde non riesce a vedere.

Il pesce vipera (Crediti foto: Benjamin Healley e Yi-Kai Tea) 

Intorno ai 4 mila metri hanno trovato un Beccaccino snello che con la sua lunga coda può raggiungere un metro di lunghezza nonostante la sua esigua circonferenza toracica. Ma "avvistare il Pesce pipistrello di acque profonde è stato il punto culminante. Si siede sul fondo del mare come una frittella e si pavoneggia sulle pinne come se avesse le gambe. Poi sfodera una piccola esca nascosta in una cavità del muso, presumibilmente sperando di indurre la preda a pensare che sia un gustoso verme".

Ci vorranno anni prima che gli esperti si facciano strada attraverso tutti gli esemplari e le testimonianze raccolte dalla spedizione, ma O'Hara stima che tra il 10% e il 30% sono sicuramente specie nuove per la scienza. E non si può che essere entusiasti davanti a tutte le scoperte scientifiche che emergeranno in futuro da questa missione.

Le conseguenze degli allevamenti intensivi sullo stato di salute dei pesci. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 31 ottobre 2022.

Gli scienziati dell’Istituto nazionale di Veterinaria di Oslo hanno già precedentemente documentato che una rapida crescita dei pesci aumenta l’incidenza di problemi agli occhi nei salmoni di allevamento della Norvegia. Ulteriori studi negli ultimi anni hanno invece portato alla luce il fatto che i pesci di allevamento diventino sordi, con alte percentuali tra la popolazione allevata che sfiorano il 100% nel caso di alcune specie come i salmoni. 

Uno studio del 2017 dell’Università di Melbourne in Australia ha documentato appunto che la crescita troppo rapida e forzata, negli allevamenti ittici, in contrasto con quella naturale e fisiologica dei pesci che vivono in mare, conduce alla sordità attraverso delle malformazioni ossee nell’apparato uditivo dei pesci. Ciò avviene quando formazioni ossee presenti anche nell’uomo, gli otoliti, normalmente composte da un minerale chiamato aragonite, contengono soprattutto un altro minerale, chiamato vaterite, che è più leggero e forma cristalli più grandi e instabili. Piccole variazioni, che possono però comportare gravi conseguenze. Gli studiosi australiani hanno analizzato le condizioni degli allevamenti e verificato l’importanza di diverse variabili quali la temperatura dell’acqua, la dieta, il corredo genetico, l’esposizione alla luce, il rumore (le vasche affollate sono piene di suoni) e altro, e poi controllato oltre mille campioni provenienti da allevamenti di salmoni di Norvegia, Cile, Scozia, Australia e Canada.

Una deformità in cui l’aragonite è sostituita da cristalli di vaterite, secondo lo studio in questione, è anomala in natura. Tuttavia, è estremamente comune nei pesci d’allevamento, con una prevalenza media di 3,7 volte maggiore rispetto alle loro controparti selvatiche e, nello studio più recente, colpisce il 100% del salmone norvegese d’allevamento. La formazione di vaterite è irreversibile una volta iniziata. A causa di queste differenze, la sostituzione dell’aragonite con la vaterite provoca probabilmente una grave perdita dell’udito riducendo la funzione dell’otolito, con un potenziale impatto sul benessere dei pesci.

L’incidenza di vaterite nei pesci di allevamento a crescita più lenta (29%) non era bassa come nelle popolazioni selvatiche, secondo gli studi pubblicati da Reimer e colleghi, nel 2016), il che potrebbe indicare che siano proprio le condizioni forzate e i fattori strutturali negli stabilimenti ittici, derivanti dalle esigenze dell’industria, ad essere la causa di queste anomale malformazioni ossee negli otoliti.

Gli allevamenti ittici sono “controllati” ma problematici 

Gli allevamenti di pesce e molluschi sono un qualcosa di istituzionalizzato e “controllato” da tanti anni, ma ciò non significa automaticamente che portino vantaggi o benefici per la salute delle persone, e meno ancora per quella dell’Ambiente. È del tutto evidente che far crescere qualsiasi essere vivente in condizioni diverse e forzate rispetto a quelle che sono naturali per la sua specie, comporterà delle anomalie e dei problemi, anche e soprattutto a carico del corpo, oltre che della salute mentale. Da diversi anni ormai raccomando di limitare fortemente il consumo di pesce allevato e mangiare soltanto il pesce pescato, che non è soggetto a trattamenti antibiotici e ad un’alimentazione spinta a base di mangimi di mais e soia OGM, tipica degli allevamenti in acquacoltura. 

Anche gli allevamenti intensivi di bovini e polli sono qualcosa di “istituzionale”, controllato dai Ministeri e dalle organizzazioni veterinarie, ma gli studi mostrano sempre più come questi allevamenti siano un grave danno per la salute del cittadino e anche dell’Ambiente. Anche la vendita di tabacco e sigarette è “istituzionale”, eppure reca solo malattie e morte, oltre agli enormi profitti delle multinazionali che ne gestiscono il business, ma nient’altro. Molte cose sono istituzionali ma questo non significa che siano salutari per il nostro benessere o la nostra alimentazione.

A chi dobbiamo credere allora? La risposta è: a chi studia di continuo nel mondo medico e scientifico, si aggiorna e non si limita a seguire le pratiche che sono “istituzionali” ma osserva e indaga gli aspetti di salute e nutrizione con uno sguardo critico e migliorativo. Ad esempio Slow Food, Legambiente, WWF e altri enti che si occupano di salute ambientale e dell’uomo producono da anni degli studi sulla qualità del pesce e raccomandano di evitare il pesce d’allevamento. Perché non dare uno sguardo ai loro studi e informarsi più a fondo sul pesce che compriamo? Pensiamo forse che le esigenze di profitto e rapido accrescimento dell’industria ittica siano più aderenti alle buone pratiche di allevamento e benessere basate sui risultati degli studi scientifici? Ne dubito fortemente. [di Gianpaolo Usai]

 Da lastampa.it il 18 settembre 2022.

Un nuovo pesce marino è emerso dalle acque australiane. Il pescatore Trapman Bermagui, che vive e lavora a Sydney, lo ha catturato e fotografato lo scorso 12 settembre, condividendo la foto sul suo profilo Facebook alla ricerca di qualcuno che potesse svelare l'arcano. Di che specie si tratta? 

Il misterioso squalo ha un aspetto decisamente insolito, quasi "preistorico", con la pelle ruvida, il muso a punta, occhi grandi e una serie di denti aguzzi e decisamente sporgenti. Nuotava in acque molto profonde, a circa 650 metri di profondità. E questo può spiegare la conformazione insolita dei suoi occhi. 

Alcuni hanno trovato una somiglianza con lo squalo cookiecutter, un piccolo squaliforme dal corpo allungato a forma di sigaro, ma secondo il suo scopritore non ha niente a che vedere con l'esemplare.

Secondo Dean Grubbs, direttore del laboratorio costiero e marino della Florida State University, la specie risulta essere un Centroscymnus owstoni, un palombo. «Nelle mie indagini in mare aperto, ne ho catturati alcuni nel Golfo del Messico e alle Bahamas. Provenivano da una profondità compresa tra i 740 e 1160 metri», quindi un po' più in profondità di questo. 

Il professore Christopher Lowe, direttore del Long Beach Shark Laboratory della California State University ritiene invece che si tratti di «uno squalo aquilone d'acque profonde, già avvistato nelle acque d'Australia». L'indagine è aperta.

Dagotraduzione dal Guardian il 4 marzo 2022.

Uno studio dello Yale-NUS College di Singapore ha scoperto che diversi marchi di cibo per animali tra i loro ingredienti utilizzano specie in via d’estinzione, tra cui squali, elencandoli genericamente come «pesce d’oceano». «La maggior parte dei proprietari di animali domestici è probabilmente amante della natura e sarebbe allarmato nello scoprire di contrivuire inconsapevolmente alla pesca eccessiva di popolazioni di squali» hanno detto gli autori dello studio, Ben Wainwright e Ian French.

Le popolazioni di squali sono sovrasfruttate in tutto il mondo, tanto che hanno subito un calo di oltre il 70% negli ultimi 50 anni. In quanto predatori apicali, sono cruciali per l'equilibrio della catena alimentare oceanica e la perdita di squali ha avuto effetti a catena sui letti di fanerogame (piante marine) e sulle barriere coralline. 

La vendita di pinne di squalo è stata ampiamente pubblicizzata e nota in tutto il mondo. L’uso di prodotti a base di quali in oggetti di uso quotidiano come cibo per animali o cosmetici invece è un contributo silenzioso al depauperamento della loro popolazione.

Utilizzando il codice a barre del DNA, gli scienziati hanno testato 45 prodotti alimentari per animali domestici di 16 marchi a Singapore. La maggior parte dei prodotti utilizzava termini generici come "pesce", "pesce dell'oceano", "esca bianca" o "pesce bianco" nell'elenco degli ingredienti per descriverne il contenuto, mentre alcuni elencano specificamente tonno o salmone. Altri non hanno indicato affatto il pesce. 

Dei 144 campioni sequenziati, 45 - circa un terzo - contenevano DNA di squalo. Le specie più frequentemente identificate erano lo squalo blu, lo squalo seta e lo squalo pinna bianca del reef. Lo squalo seta e lo squalo pinna bianca del reef sono elencati come "vulnerabili" nella Lista rossa dell'Unione internazionale per la conservazione della natura (IUCN). Sono stati anche identificati prodotti contenenti DNA dello squalo donnola falcetto, dello squalo naso aguzzo dei Caraibi e dello squalo tigre delle sabbie, tutte specie vulnerabili.

Gli autori suggeriscono che la carne potrebbe essere prelevata da carcasse di squali scartate dopo la rimozione delle preziose pinne, o potrebbe riflettere un crescente commercio di carne di squalo. Chiedono un'etichettatura degli ingredienti più accurata in modo che le persone sappiano cosa stanno dando ai loro animali domestici e da dove provengono. 

Il dottor Andrew Griffiths, un ecologista dell'Università di Exeter, ha affermato che l'ultimo lavoro ha fatto seguito alla ricerca del suo team e di altri che hanno rivelato la presenza del DNA di squalo nei prodotti alimentari per il consumo umano, inclusa la vendita di pesce spina e carne di squalo martello in fish and chips.

Per gli alimenti per animali domestici, ha affermato, la mancanza di norme sull'etichettatura specifica significava che un'ampia varietà di specie vulnerabili può essere inclusa legalmente. «Non ci sono regole specifiche contro questo», ha detto. «Potresti inconsapevolmente prendere qualsiasi pesce». 

I risultati sono pubblicati sulla rivista Frontiers in Marine Science.

Elena Marisol Brandolini per "il Messaggero" l'11 febbraio 2022.  

Tra un anno sarà attivo un allevamento di polpi per uso commerciale nel porto di Las Palmas de Gran Canaria, il primo di questo genere al mondo. Le ricerche avviate dall'Instituto Español de Oceanografía, del ministero della Scienza, hanno prodotto per la prima volta, nel 2018, la nascita di polpi in cattività, aprendo così la via allo sfruttamento commerciale di questa specie in allevamenti acquatici.  

Sarà infatti la multinazionale gallega Nueva Pescanova a realizzare il progetto entro il 2023, battendo sul tempo i potenti concorrenti del Messico e del Giappone. L'impresa ha annunciato di volere investire 65 milioni di euro per la sua attuazione, assicurando una produzione di 3.000 tonnellate di polpi all'anno, grazie al lavoro di 300 nuovi addetti, su una superficie di 52.000 metri quadrati. Il piano, sostenuto dall'amministrazione delle Canarie, è in attesa di ottenere il visto di sostenibilità ambientale. 

Ma è proprio da questo punto di vista, e ancor più da quello etico, che si è manifestata la protesta di ambientalisti e scienziati all'installazione dell'allevamento di questi animali, considerati estremamente intelligenti e capaci di sentire dolore, piacere, allegria, aggressività. Come ha dimostrato anche il documentario, vincitore dell'Oscar nel 2021, Il mio amico in fondo al mare. Elena Lara, direttore dell'area ricerca dell'organizzazione internazionale Compassion in World Farming, nell'ottobre scorso ha chiesto al governo spagnolo di non permettere l'apertura di questo allevamento. 

«Perché questi animali sono incredibili. Sono solitari e molto intelligenti, perciò chiuderli in vasche sterili senza stimoli cognitivi, è dannoso per loro». D'altra parte, i polpi sono animali selvaggi, non come i polli e i maiali di cui si sa come migliorare le condizioni di allevamento e non esisterebbe modo di sacrificarli senza causare loro grande sofferenza. 

Da tempo, infatti, nella comunità scientifica internazionale, sono note le caratteristiche peculiari di questi animali, uniche in un invertebrato, simili a quelle di alcuni mammiferi. Il polpo (octupus vulgaris) ha una vita breve che varia da uno a oltre quattro anni, vive nei fondali rocciosi delle acque tiepide o tropicali degli oceani che gli consentono di nascondersi, è capace di mimetizzarsi. 

E' privo di scheletro, ha tre cuori per pompare e distribuire in tutto il corpo il sangue colorato di blu, per effetto dell'emocianina che contiene rame; ha un sistema nervoso molto sviluppato con un numero di neuroni sei volte superiore a quello dei topi, collegati per la gran parte ai tentacoli. Secondo il biologo dell'evoluzione Jakob Vinther, dell'università di Bristol, la sua intelligenza è comparabile a quella umana: presenta abilità per risolvere problemi, manifesta allegria e curiosità. 

Come conferma Stacey Tonkin, che assieme ad altre quattro persone partecipa a un progetto dell'acquario di Bristol e passa le sue giornate a giocare con DJ, un polpo del Pacifico. Tonkin dice che il colore di DJ cambia a seconda del suo stato d'animo. E presto il Regno Unito riconoscerà, per legge, questo livello di coscienza, documentato da oltre 300 studi scientifici che affermano che i polpi sono essere sensibili e possono sperimentare emozioni. 

E quanto, perciò, sia impossibile allevarli in cattività garantendo loro un alto livello di benessere. Il polpo viene mangiato quasi ovunque, dal Mediterraneo, all'Asia, agli Stati Uniti. Così, la quantità di polpi allo stato selvaggio sta diminuendo e il loro prezzo sale: ogni anno se ne pescano 420.000 tonnellate (dati Fao), oltre 10 volte la quantità che veniva catturata nel 1950 e il valore delle esportazioni si è triplicato in venti anni. 

L'impresa impegnata nella realizzazione del progetto di allevamento nelle Canarie non ha ancora chiarito come verranno distribuiti gli spazi, né quali misure verranno adottate per rendere meno dolorosa la soppressione degli animali. Gli ideatori sostengono di volere alleggerire la pressione della domanda di polpo sulle popolazioni di pescatori. Ma, affermano scienziati e ambientalisti, l'allevamento in cattività dei polpi potrebbe sortire l'effetto contrario, per la necessità di approvvigionarsi di quantità importanti di pesce per la loro alimentazione. 

In Spagna. Allevare polpi non è una buona idea. Anna Prandoni su L'Inkiesta l'8 Febbraio 2022.

Un’azienda spagnola ha annunciato che inizierà a commercializzare i polpi d'allevamento già dalla prossima estate e che il prodotto sarà sui piatti di tutto il mondo entro il 2023. Ma non si sa se qualcuno sappia come allevare questi cefalopodi in cattività, a causa della loro dieta e della necessità di un ambiente attentamente controllato.

La notizia che il primo allevamento di polpi commerciale al mondo è più vicino a diventare realtà è stata accolta con sgomento da scienziati e ambientalisti. Come ormai è noto, questi molluschi cefalopodi sono considerati “senzienti” e intelligenti, in grado di provare dolore ed emozioni, e i loro protettori sostengono che non dovrebbero mai essere allevati commercialmente per essere trasformati in cibo.

In questo video la notizia della prima “fabbrica” di polpi è spiegata bene, e racconta quali sono le perplessità.

Sul fatto che i molluschi siano senzienti non sembrano esserci dubbi, e il lavoro della biologa Stacey Tonkin è lì a dimostrarlo: giocare con un polpo gigante del Pacifico fa parte del suo lavoro e quando alza il coperchio del serbatoio per nutrire la creatura conosciuta come DJ – abbreviazione di Davy Jones, questa spesso esce dalla sua caverna per vederla e attacca le braccia sul vetro che le separa, se e è di buon umore. I polpi vivono fino a quattro anni, quindi, a un anno, è un adolescente: «Si comporta decisamente come ti aspetteresti da un adolescente: alcuni giorni è davvero scontroso e dorme tutto il giorno. Altri giorni è davvero giocoso e attivo e vuole solo mettersi in mostra».

In questo contesto, la corsa alla scoperta del segreto per allevare il polpo in cattività va avanti da decenni. Ma per fortuna farlo sembra particolarmente difficile: le larve mangiano solo cibo vivo e hanno bisogno di un ambiente attentamente controllato.

Ma multinazionale spagnola, Nueva Pescanova (NP) sembra aver battuto società in Messico, Giappone e Australia, e potrebbe avere vinto la sfida. Ha infatti annunciato che inizierà a commercializzare il polpo d’allevamento, come spiega BBC in un articolo,  la prossima estate, per venderlo nel 2023. L’azienda si è basata sulla ricerca condotta dall’Istituto oceanografico spagnolo (Instituto Español de Oceanografía), esaminando le abitudini di riproduzione del polpo comune, Octopus vulgaris. La fattoria commerciale di NP avrà sede nell’entroterra, vicino al porto di Las Palmas, nelle Isole Canarie, secondo PortSEurope. È stato riferito che la fattoria marina produrrà 3.000 tonnellate di polpo all’anno. Si dice che l’azienda abbia affermato che aiuterà a impedire che così tanti polpi vengano catturati in natura.

Nueva Pescanova ha rifiutato di rivelare qualsiasi dettaglio sulle condizioni in cui saranno tenuti i polpi, nonostante le numerose richieste della BBC. Le dimensioni delle vasche, il cibo che mangeranno e il modo in cui verranno uccisi sono tutti segreti.

BBC spiega come si stia muovendo la contro parte: questi piani di sviluppo sono stati denunciati da un gruppo internazionale di ricercatori come “eticamente ed ecologicamente ingiustificati”. Il gruppo di campagna Compassion in World Farming (CIWF) ha scritto ai governi di diversi paesi , tra cui la Spagna, esortandoli a vietarlo. La dottoressa Elena Lara, responsabile della ricerca del CIWF, è arrabbiata: «Questi animali sono animali fantastici. Sono solitari e molto intelligenti. Quindi metterli in vasche sterili senza stimolazione cognitiva, è sbagliato per loro». E chiunque abbia visto il documentario vincitore dell’Oscar 2021 – My Octopus Teacher – è d’accordo con questo approccio.

I polpi non hanno scheletri per proteggersi e sono animali altamente territoriali: potrebbero essere facilmente in pericolo in cattività e – se ci fosse più di un polpo in una vasca – gli esperti dicono che potrebbero iniziare a mangiarsi a vicenda.

Se l’allevamento di polpi dovesse aprire in Spagna, sembra che le creature allevate lì riceverebbero poca protezione rispetto alla legge europea in materia, che considera alcuni cefalopodi invertebrati come esseri senzienti, ma la legislazione dell’UE sul benessere degli animali da allevamento si applica solo ai vertebrati, creature che hanno la spina dorsale. Inoltre, secondo il CIWF, attualmente non esiste un metodo scientificamente validato per la loro macellazione.

L’UE ha recentemente pubblicato linee guida che riconoscono la “mancanza di buone pratiche di allevamento” e le “lacune nella ricerca” nell’impatto dell’acquacoltura sulla salute pubblica e animale

Nueva Pescanova afferma sul suo sito Web di essere «fermamente impegnata nell’acquacoltura come metodo per ridurre la pressione sui fondali di pesca e garantire risorse sostenibili, sicure, sane e controllate, a complemento della pesca». Ma la dottoressa Lara del CIWF sostiene che le azioni di NP sono puramente commerciali e l’argomento ambientale dell’azienda è illogico: «Non significa che i pescatori smetteranno di pescare».

Sostiene che l’allevamento di polpi potrebbe aumentare la crescente pressione sugli stock ittici selvatici. I polpi sono carnivori e hanno bisogno di mangiare da due a tre volte il loro stesso peso di cibo per vivere. Attualmente circa un terzo del pesce catturato in tutto il pianeta viene trasformato in mangime per altri animali e circa la metà va in acquacoltura. Quindi il polpo d’allevamento potrebbe essere nutrito con prodotti ittici provenienti da stock già sovrasfruttati.

La dottoressa Lara ha anche un’altra preoccupazione: i consumatori attenti potrebbero essere portati a pensare che mangiare polpo d’allevamento sia meglio che mangiare polpo catturato in natura: «Non è affatto più etico: l’animale soffrirà per tutta la vita», dice. E un rapporto del 2019 – guidato dalla professoressa associata di studi ambientali alla New York University, Jennifer Jacquet – sostiene che vietare l’allevamento di polpi non lascerebbe gli esseri umani senza cibo a sufficienza. Significherà «solo che i consumatori benestanti pagheranno di più per polpi selvatici sempre più scarsi», afferma.

Ma che differenza c’è tra allevare polpi e allevare suini, per esempio? Il tempo. Poiché i maiali sono stati addomesticati per molti anni, abbiamo una conoscenza sufficiente dei loro bisogni e sappiamo come migliorare le loro vite, afferma la dott.ssa Lara. «Il problema con i polpi è che sono completamente selvatici, quindi non sappiamo esattamente di cosa hanno bisogno o come possiamo fornire loro una vita migliore».

E poi, oggi, interviene la questione etica: dato ciò che sappiamo su di loro, è davvero necessario allevarli in serie per mangiarli o possiamo scegliere una strada diversa per la nostra alimentazione?

Addio alla caccia alle balene, la svolta storica dell’Islanda. Alessandra Muglia su Il Corriere della Sera il 5 febbraio 2022.

Con Norvegia e Giappone è l’unico Paese che consente ancora questa pratica. Dal 2024 l’impegno ad abolire la pratica (non più redditizia e contestata) 

Oggi forse anche il capitano Achab si darebbe all’osservazione delle balene invece di dare la caccia a Moby Dick. Persino l’irriducibile Islanda ne ha preso atto: i cetacei possono rendere più da vivi che da morti. Così si avvia a relegare gli arpioni nei musei anche l’ultimo Paese al mondo —insieme a Norvegia e Giappone — in cui è ancora consentito praticare la caccia alle balene. E’ stata la ministra della Pesca, la verde Svandis Svavarsdottir, a chiarirlo: «Per il governo attualmente ci sono poche ragioni per rinnovare le autorizzazioni di pesca oltre la loro scadenza nel 2023 — ha scritto la ministra sul quotidiano Morgunsbladid — Oggi questa attività non rende più, non vale più lo sforzo né la disapprovazione del mondo. Vista la bassa domanda di mercato l’Islanda prevede di abolire la caccia delle balene dal 2024», ha annunciato.

Più che un tracollo repentino, un lento e progressivo declino per un’attività che per secoli è stata un pilastro della sopravvivenza degli abitanti dell’isola: da quando nel 2006 Reykjavik decise di interrompere la moratoria internazionale in vigore dal 1986, anno dopo anno è diventato evidente che non si trattava più di un’attività redditizia per il Paese che nel tempo ha diversificato la sua economia.

Nelle ultime tre estati – la stagione della caccia – gli arpioni sono rimasti praticamente inutilizzati nelle acque dell’isola del Nord Atlantico: solo una balenottera è stata uccisa, ben sotto il tetto dei 426 esemplari consentiti dal 2019 al 2023. Non è più economicamente sostenibile cacciare balene nelle acque islandesi perché la zona di interdizione alla pesca attorno all’isola è stata estesa e le baleniere sono costrette a viaggiare sempre più lontano, ha spiegato Gunnar Jonsson, l’amministratore delegato di Ip Utgerd, una delle due società baleniere islandesi. L’altra compagnia, la Hvalur, ha evidenziato il problema della forte concorrenza con il Giappone, i cui prodotti a base di balena sono sovvenzionati dal governo. E pure i crescenti requisiti di sicurezza alimentare imposti per la carne di importazione dal Paese nipponico, principale mercato di smercio per l’Islanda.

La realtà è che si tratta di un’industria anacronistica basata su una pratica controversa: il consumo di carne di balena è in calo in Giappone come in Islanda. Gli islandesi, sempre più avversi alla sua caccia, hanno praticamente smesso di consumarla. Solo il 3% di loro la mangia regolarmente, secondo un sondaggio di qualche tempo fa. In Giappone i consumi sono in picchiata: 9 abitanti su 10 dicono di non averla mai comprata nell’ultimo anno, soltanto gli anziani la apprezzano e ci sono migliaia di tonnellate di prodotto stoccato nei congelatori, stima una ricerca commissionata dall’International Fund for Animal Welfare. Eppure il governo di Tokyo in nome della sovranità e della tradizione ha ingaggiato una lotta con la comunità internazionale sfilandosi nel 2018 dalla Iwc che nel 1986 ha sancito l’intoccabilità dei cetacei in via d’estinzione.

La Norvegia sta incontrando difficoltà simili, con i balenieri che faticano a onorare le loro quote e le flotte che continuano ad assottigliarsi. Lo scorso anno le 14 imbarcazioni ancora in attività avevano cacciato un totale di 575 balene, meno della metà di quelle autorizzate. Ma per ora nessun dietrofront ufficiale all’orizzonte.

Reykjavík fa da apripista anche nelle strategie di riconversione. Quasi archiviata la caccia alle balene, l’Islanda sta investendo sempre più sulla loro valorizzazione come attrazione turistica. Il whale watching rappresenta una delle principali attrazioni turistiche nazionali: genera oltre 11 milioni di euro all’anno con più di 200 mila turisti. Nelle gelide acque islandesi è possibile avvistare oltre venti specie di cetacei, come megattere, balenottere minori, capodogli e orche, ed è uno dei migliori luoghi d’Europa per avvistare le balene tutto l’anno. Le balene islandesi, già minacciate dai cambiamenti climatici e dall’impoverimento dei mari dovuto alla pesca industriale, potranno almeno nuotare senza il timore di essere cacciate.

Strage di pesci nel Golfo di Biscaglia. «Colpa di un super-peschereccio». Paolo Foschi  su Il Corriere della Sera il 5 Febbraio 2022.

La denuncia degli ambientalisti: la nave Margiris, già bandita dall’Australia, ha gettato in mare almeno 100 mila melù morti.  

Strage di pesci nel Golfo di Biscaglia, tratto di oceano Atlantico compreso fra la costa occidentale della Francia e quella settentrionale della Spagna. Un enorme branco galleggiante di melù (utilizzati per produrre il surimi) morti è stato avvistato a circa 300 chilometri di distanza da La Rochelle. Le carcasse - secondo quanto denunciato dall’associazione ambientalista Sea Sheperd France e confermato dalle autorità locali - sono state gettate in acqua da quello che è considerato una specie di mostro marino costruito dall’uomo, il mega peschereccio Margiris, 143 metri di lunghezza, il secondo più grande al mondo, in seguito alla rottura delle gigantesche reti utilizzate per la pesca. I pesci morti sarebbero almeno 100 mila, l’area interessata copre una distesa di circa 3mila metri quadrati, come testimoniato da foto e video pubblicate sui social. Il governo francese e la Commissione Ue hanno annunciato un’indagine.

Il Margiris in passato era già stato messo al bando dell’Australia per i metodi di pesca considerati ad altissimo impatto sugli ecosistemi marini. Il Margiris ha riconosciuto di aver avuto un incidente, la rottura delle reti. Lamya Essemlali, l’attivista che guida l’ong Sea Sheperd France, ha raccontato all’agenzia Reuters la storia del super-peschereccio che dopo essere stato «bandito» dalle acque australiane è gestito da una compagnia olandese, ha una rete lunga 600 metri ed è in grado di contenere fino a 6mila tonnellate di pesce.

In visita a Saint-Jean-de-Luz (nei Pirenei atlantici), il ministro francese della pesca, Annick Girardin, non ha esitato a definire le immagini scioccanti; e anche il commissario Ue per l’Ambiente, Virginijus Sinkevicius, ha promesso un’indagine. Secondo la Pelagic Freezer-Trawler Association, l’associazione europea dei pescherecci da traino congelatori, la rete del Margiris si è rotta «accidentalmente» all’alba, di giovedì, ma si tratta di un evento «molto raro»: «In linea con la normative Ue, l’accaduto è stato registrato sul giornale di bordo e segnalato alle autorità dello Stato di bandiera della nave, la Lituania». «La Francia difende la pesca sostenibile e questo non lo rispecchia. Se dovesse essere provata una violazione, verrebbero adottate sanzioni nei confronti dell’armatore responsabile» ha annunciato il ministro Girardin. Sea Shepherd da anni si batte per vietare la pesca invernale nel Golfo di Biscaglia, anche per proteggere i delfini della zona.

ACCIUGHE. Giacomo A. Dente per “il Messaggero” l'1 gennaio 2022.  Sono più delle donne che amò Don Giovanni le ricette dove acciughe e alici (due nomi diversi per lo stesso pesce!) compaiono nella nostra cucina. Dai fiori di zucca al tortino di aliciotti con indivia della tradizione ebraica romanesca, dalle puntarelle alla bagna caôda, diventa davvero difficile immaginare una irruzione più gioiosa e marina nei sapori della nostra cucina. 

«Le acciughe sono il pane del mare. Sono abbondanti, si possono cucinare in mille modi, e sono anche molto sane», spiega Arturo Scarci anima, insieme alla moglie Mary, di Meglio Fresco pescheria bistrot romana, dove le acciughe scottadito spruzzate di origano e aceto sono un imperdibile. L'Italia dei campanili non si smentisce così nemmeno sulle acciughe.  

Una tappa in Cilento e ci si imbatte nelle alici di menaica, dal nome di una pesca antica: le barche escono al tramonto e la rete, la menaica, con le maglie strette al punto giusto, intrappola gli esemplari più grandi, che muoiono in questo modo dissanguati. Da quel momento, alternate a strati di sale e conservate in vasi di terracotta, dopo una maturazione di almeno tre mesi, queste alici dalla carne chiara e dal profumo gentile sono pronte a essere consumate. 

Cambia il nome delle reti, che nel Golfo di Catania sono chiamate tratte, e cambia quello delle acciughe, i masculini, ma la tecnica e i sapori sono gli stessi. «Ma anche da noi in Liguria le acciughe sono un affare serio», dicono con una sola voce Luca e Lorena, titolari di Quintilio ad Altare, storico paese delle vetrerie nell'entroterra di Savona, a due passi dal Piemonte. 

«Anche senza citare le acciughe sublimi e di carne soda di Monterosso, nelle Cinque Terre, da noi questo pesce parla delle antiche vie del sale. Lungo sentieri da vertigine i contrabbandieri del sale lo nascondevano infatti sotto strati di alici, come si legge nel romanzo di Nico Orengo Il salto dell'acciuga. Dobbiamo a loro la penetrazione nel basso Piemonte di quella che è diventata la base per costruire, fra l'altro, quel trionfo di aglio e acciughe che è la bagna caôda». 

Altra tecnica altre storie si vivono anche a Cetara, borgo di pescatori della Costiera amalfitana, dove le alici sono una religione, che si tratti del cuoppo, il cartoccio di pesce fritto, oppure della pasta con la colatura, un sapore che deriva da una tecnica arcaica, che rimanda al garum dei romani ed è autentica alchimia di concentrazione del mare in un liquore limpido, color dell'ambra, quintessenza golosa di alicitudine per regalare sapore assoluto a una pasta. 

Ma siamo davvero sicuri che le acciughe siano cibo povero? La smentita ci viene dalla moda e dai foodies, oggi tutti stregati dalle alici del Cantabrico. Spiega Alessandro Roscioli, salumeria con cucina romana, «dai mari della Costa Nord della Spagna, arriva un prodotto perfetto per concentrazione salina, carnoso, sapido, elegante, perfetto nei filetti (ricavati da mani gentili femminili), elegante anche nella lunga stagionatura. Soprattutto - e qui Roscioli si regala una risata - l'Oceano e i pesci sono spagnoli, ma è stata l'immigrazione italiana di fine 800, specie quella siciliana, quella che ha creato la competenza dei marinai cantabrici». 

·        I Crostacei.

Il gambero rosso di Mazara non esiste.  ALBERTO GRANDI Il Domani il 14 settembre 2022

Alcuni mesi fa è apparsa la notizia che il famoso gambero rosso di Mazara del Vallo in realtà non esiste.

Come è prassi in questi casi, alla banale constatazione di carattere biologico e genetico, è seguita una violentissima polemica che sta tra il politico e il gastronomico.

Si è sempre detto che il gambero rosso provenga dalle acque immediatamente frontali le coste di Mazara del Vallo: niente di più falso.

ALBERTO GRANDI. Insegna Storia dell'alimentazione e Storia dell'integrazione europea all'Università di Parma. Si occupa di corporazioni medioevali e di regolazione dei mercati in età preindustriale. Ha pubblicato oltre cinquanta saggi e articoli scientifici in Italia e all'estero, tra i quali spicca il best seller Denominazione di Origine Inventata, Mondadori, 2018.

·        Api e Vespe.

Noemi Penna per lastampa.it l'1 novembre 2022.

Si dice che il minimo battito d’ali di una farfalla sia in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo. Ma lo sapevate che anche uno sciame di api potrebbe influenzare il meteo? 

Il “butterfly effect” ci dice che anche la più piccola azione o decisione può produrre un grande cambiamento nel breve e nel lungo periodo. Ma se c’è un piccolo insetto in grado di fare grandi cose, quella è l’apis mellifera. La scoperta, che i ricercatori inglesi hanno fatto misurando i campi elettrici intorno agli alveari, rivela che le api che viaggiano in sciame possono produrre tanta elettricità atmosferica quanto un temporale. E questo può addirittura influenzare gli eventi meteorologici.

Carica elettrostatica

La ricerca, pubblicata sulla rivista scientifica iScience di Cell, svela quello che sinora si riteneva possibile solo su piccola scala. Le api possono sbattere le ali più di 230 volte al secondo e i loro minuscoli corpi possono raccogliere carica positiva sia “sbattendo” contro le molecole d’aria che dall’atterraggio su superfici caricate elettricamente.

E quando entra in gioco l’attrito, l’elettricità statica emerge e fa sì che gli elettroni, che sono caricati negativamente, saltino da una superficie all’altra. Questo gradiente di potenziale elettrostatico – che può dare una scossa equivalente a quando tocchi una maniglia dopo aver camminato su un tappeto – può anche “caricare” i fulmini attraverso l’attrito dei grumi di ghiaccio all’interno delle nuvole. 

Scossa evolutiva

Leggenda vuole che questo fenomeno sia stato dimostrato per la prima volta da Benjamin Franklin, quando con suo figlio si ritrovò a pilotare un aquilone durante un temporale, notando che la corda bagnata conduceva “scintille” a una chiave attaccata alla sua estremità.

Ma “solo di recente abbiamo scoperto che la biologia e i campi elettrostatici sono intimamente collegati e che ci sono molte affinità insospettabili su diverse scale spaziali, che vanno dai microbi nel suolo alle interazioni pianta-impollinatore, passando dagli sciami d’insetti”, spiega il ricercatore Ellard Hunting, biologo dell’Università di Bristol. “Gli effetti elettrostatici emergono in tutto il mondo degli insetti. Consentono alle api di attirare il polline così come aiutano i ragni a tessere ragnatele caricate negativamente, attraendo e intrappolano i corpi caricati positivamente delle loro prede”. 

Più di una tempesta

Per verificare se le api producono cambiamenti considerevoli nella nostra atmosfera, i ricercatori hanno posizionato un monitor elettrico e una telecamera vicino a diverse colonie. Nei tre minuti in cui gli insetti sono usciti in gruppo dall’alveare i ricercatori hanno scoperto che il gradiente è aumentato a 100 volt per metro. E mentre lo sciame volava all’unisono, l’effetto è aumentato fino a mille volt per metro, rendendo la densità di carica di un grande sciame di api circa sei volte maggiore delle tempeste di polvere elettrificate e otto volte maggiore di una nuvola temporalesca.

Da corrieredelveneto.corriere.it il 18 settembre 2022.

Non ce l’ha fatta Armin Hochrainer, il cuoco altoatesino di 39 anni che tre settimane fa, per la precisione il 31 agosto scorso, era stato punto da una vespa mentre stava lavorando all’interno della cucina di un albergo a 4 stelle della val Ridanna, Bolzano. 

Soccorsi immediati

Erano stati i colleghi a prestargli i primi soccorsi, dopo che Hochrainer aveva perso i sensi a causa della reazione allergica innescata dalla puntura e del conseguente shock anafilattico. Gli uomini del Soccorso alpino erano riusciti a rianimarlo con il defibrillatore, prima del trasporto con l’elicottero Pelikan 2 all’ospedale San Maurizio, dove è morto giovedì notte. 

Sulla pagina Facebook di Armin Hochrainer il cordoglio di amici e conoscenti e il ricordo delle lunghe serate passate in compagnia. «Ora balla in un posto migliore», si legge in uno dei tanti messaggi.

Wang Can: l’influencer cinese che ha mangiato una vespa viva. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 16 settembre 2022.

La prende con le bacchette mentre ancora sbatte le ali e poi la mette in bocca. Risultato? L’influencer cinese Wang Can rimedia un viso deformato e una pioggia di critiche che hanno reso il suo caso mondiale 

Non è una novità che una delle attività preferite dagli influencer asiatici sia riprendersi mentre mangiano, né che dall'altra parte del mondo ci siano milioni di spettatori che per qualche ragione vanno in catarsi guardandoli. Il fenomeno — che si chiama Mukbang — sta evidentemente prendendo una piega pericolosa. Dopo la storia di Tizi, la blogger cinese che ha postato un video mentre fa a pezzi e cucina uno squalo bianco, a finire sotto i riflettori ora è un ragazzo che mangia un insetto vivo potenzialmente letale: si tratta di Wang Can, cinese anche lui, balzato agli onori delle cronache per aver divorato una vespa mentre ancora sbatteva le ali.

Il video che fa discutere

«Anche se ho un po' paura, la mangerò comunque», dice l'influencer nel video choc postato sul social cinese Douyin, dove il giovane ha un seguito di 560mila follower. Se lo ha fatto davvero? Sì: e si è pure ripreso mentre tiene l'insetto con le bacchette e poi se lo infila in bocca. Risultato: urla, improperi per il dolore e il viso deformato dal gonfiore. Una specie di «trofeo di guerra» però per Wang Can che, imperterrito, mostra fiero il volto deturpato riprendendosi in primo piano mentre beve il «rimedio» per la puntura: il congee, un particolare porridge di riso. «Pericoloso, non imitare», scrive a caratteri cubitali (e con un briciolo di testa) nel post che accompagna il video (e che per scelta non mostriamo), in cui si presenta come «l'influencer che mangia vespe e si è ritrovato con le labbra a forma di salsiccia». 

Le critiche

Rimosso da Douyin dopo la segnalazione di qualche utente evidentemente scosso a causa del contenuto, il video è però riapparso su TikTok, attirando una marea di critiche. In moltissimi hanno sottolineato il rischio concreto che qualcuno possa imitare Wang Can. In più gli hanno chiesto di pentirsi per il gesto fatto e per averlo raccontato.

La risposta

L’influencer ha risposto con altri due video, sempre su Douyin (ma usando un profilo secondario a causa della sospensione dell'account): prima ha voluto rassicurare i follower mostrandosi con il viso meno gonfio mentre continua a mangiare riso. Poi ha condiviso una sorta di ammissione di colpa.

«In primo luogo — dice nel video riparatore — voglio ringraziare chi mi ha supportato. Ora userò questo canale per darvi alcuni aggiornamenti e postare video positivi, di qualità, per tutti. Non ammetterò la sconfitta, non cadrò. A me, Wang Can, non manca il coraggio di ricominciare». 

Un caso mondiale

Intanto la storia, raccontata inizialmente dal South China Morning Post, ha fatto il giro del mondo. Noi, davanti all'ennesimo influencer che, pur di attirare l'attenzione e racimolare like, compie azioni estreme, non possiamo che interrogarci su certi contenuti social, inequivocabilmente pericolosi, sugli effetti che possono sortire e sullo spirito di emulazione.

Vespe orientalis, famiglia assalita in Francia. Il padre è in gravi condizioni. Redazione Esteri su La Repubblica il 30 Agosto 2022.

E' accaduto durante una passeggiata in un'area verde a Biache-Saint-Vaast, vicino ad Arras (Calais). Punto anche un bimbo di 18 mesi. Una settimana prima in un bosco della Loira tre ciclisti erano stati aggrediti dagli insetti, due erano finiti in ospedale in codice rosso

L'emergenza per l'aggressività delle vespe orientalis non si registra solo a Roma, dove nei giorni scorsi è stato segnalato un abnorme aumento della presenza di questi insetti. Nell'ultima settimana anche in Francia ci sono stati alcuni gravi episodi di aggressione dell'uomo da parte di questa specie di vespe. L'ultimo nella serata di lunedì 29 agosto, quando una coppia di trentenni con il loro bambino di 18 mesi stava facendo una passeggiata nel parco pubblico de la Flanerie, a Biache-Saint-Vaast, vicino ad Arras (Passo di Calais), sulle coste settentrionali del Paese. Il padre, riferisce "La voix du Nord", ha riportato decine di punture ed è stato trasportato in gravi condizioni al centro ospedaliero di Arras, e poi trasferito a Lens visto il peggioramento della sua condizione sanitaria. Anche la madre e il figlio sono stati ricoverati ad Arras, ma con lesioni più lievi. I vigili del fuoco intervenuti per mettere in sicurezza il giardino pubblico hanno trovato i nidi degli insetti, identificandoli come vespe orientalis, caratterizzate da un diffuso colore rossiccio.

Già domenica 21 agosto nel comune di Briennon, nella Loira, tre ciclisti erano stati assaliti da un nugolo di vespe. Stavano facendo una gita in mountain bike dentro un bosco quando sono stati assaliti dagli insetti, con una aggressività giudicata dagli etologi francesi "senza precedenti". Due dei tre malcapitati, di 51 e 72 anni, hanno riportato una cinquantina di punture ciascuno e sono stati trasportati in ospedale in codice rosso. Un attacco sorprendente per la virulenza che l'apicultore dell'Haut-Forez Pierrick Marnat, ai media locali, ha giustificato con la particolare siccità registrata quest'anno, che rende le vespe più stressate e maggiormente aggressive.

·        Gli Uccelli.

Un’inchiesta svela le drammatiche condizioni degli allevamenti di quaglie. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 25 Novembre 2022

Condizioni di sovraffollamento, esemplari stressati che si beccano o si strappano le penne a vicenda e pulcini incastrati con le zampe nelle maglie della rete metallica: sono queste alcune delle criticità emerse da un’indagine realizzata dall’associazione Essere Animali in diversi allevamenti intensivi italiani di quaglie, che come documentato vengono rinchiuse in gabbia per la produzione di uova e carne. Quello che emerge è nel complesso un quadro molto preoccupante, da cui si evince che – al pari degli altri animali – anche le quaglie allevate intensivamente sono condannate ad una vita di sofferenze.

Dall’indagine, infatti, è nello specifico emerso che in ogni gabbia vengono ammassate circa 50 quaglie, che arrivano ad avere ognuna a disposizione uno spazio di circa 10 x 10 centimetri. Oltre ad assicurare poco spazio agli animali, poi, le gabbie sono spoglie, dato che al loro interno non viene fornito alcun arricchimento ambientale, come ad esempio un substrato dove razzolare, becchettare o in cui fare i bagni di sabbia. Per le quaglie, dunque, è praticamente impossibile muoversi liberamente ed esprimere i comportamenti tipici della loro specie, come volare, correre, esplorare, razzolare e becchettare. Ovviamente, tutto ciò induce stress e frustrazione nelle quaglie, il che può a sua volta portare ad una maggiore aggressività negli animali. È per questi motivi quindi che le quaglie, come anticipato, si beccano o si strappano a vicenda le penne, rendendosi così protagoniste di atti che con ogni probabilità rappresentano una manifestazione del disagio vissuto.

Le sofferenze per le quaglie però non finiscono di certo qui: lo stress e la frustrazione derivanti dallo stato in cui versano, infatti, indeboliscono il loro sistema immunitario aumentando la possibilità di contrarre malattie, ed a quanto pare non a caso sono stati trovati esemplari ammalati ed agonizzanti nonché altri morti. Inoltre, la stessa superficie sulla quale appoggiano le zampe può causare alle quaglie problemi di non poco conto. Il pavimento in rete metallica, infatti, può provocare malformazioni, gonfiori e ferite alle zampe, mentre un pericolo ancora maggiore è riservato ai pulcini, che come documentato possono rimanere incastrati con le zampe nelle maglie della rete. Altro triste particolare testimoniato dall’associazione, infine, è quello legato all’impossibilità di volare. Le quaglie, infatti, generalmente quando sono spaventate spiccano istintivamente il volo per fuggire, ma trovandosi all’interno delle gabbie nel momento in cui lo fanno sbattono la testa contro il piano superiore delle stesse, rischiando di ferirsi anche in maniera grave.

Accetta Advertisement cookie per visualizzare il contenuto.

«Non si tratta di piccole aziende familiari, gli allevamenti di quaglie sono sistemi intensivi dove gli animali vengono rinchiusi in condizioni drammatiche», ha dunque affermato il Responsabile investigazioni di Essere Animali Francesco Ceccarelli, sottolineando come sia «vergognoso» il fatto che «nel nostro Paese simili metodi di allevamento siano ancora consentiti». È proprio per chiedere al Governo italiano di schierarsi in maniera chiara contro l’uso delle gabbie negli allevamenti, del resto, che l’associazione ha diffuso l’investigazione assieme ad End the Cage Age, una coalizione formata da oltre 20 organizzazioni italiane ( tra cui Essere Animali) negli scorsi mesi, il cui scopo è appunto quello di assicurarsi che l’esecutivo assuma una posizione netta in tal senso. Nello specifico, tramite una petizione firmata da quasi 26mila persone e tuttora sottoscrivibile, la coalizione chiede al Governo di sostenere l’impegno della Commissione europea di eliminare gradualmente l’uso delle gabbie negli allevamenti europei e di promuovere anche a livello nazionale l’adozione urgente di una normativa che ne vieti l’utilizzo. Richieste che, alla luce di questa indagine, appaiono oltremodo motivate. [di Raffaele De Luca]

Angelica Ratti per “Italia Oggi” il 24 aprile 2022.

Più ci si avvicina ai tropici più gli uccelli risultano colorati. Il fenomeno si spiega con la necessità di farsi notare fra le numerose specie. Uno studio pubblicato il 4 aprile sulla rivista Nature Ecology & Evolution, elaborato da alcuni ricercatori britannici e ungheresi sostiene questa tesi. I ricercatori dell'università di Sheffield e di Debrecen hanno analizzato le piume di 4.500 specie di passeriformi, ordine che raggruppa più della metà degli uccelli.

Studiare un campione così enorme permette di appurare se esiste una regola su grande scala secondo la quale gli uccelli hanno le piume più colorate quanto più vivono vicino all'Equatore. E questo anche in relazione all'abbondanza di risorse alimentari nell'ecosistema e un regime alimentare più ricco di pigmenti come lo sono i frutti tropicali.

I ricercatori non si sono accontentati di analizzare i colori come si vedono a occhio nudo, ma hanno aggiunto la gamma degli ultravioletti che gli uccelli, contrariamente agli umani, percepiscono. Se l'uomo non è capace di distinguere tra maschio e femmina di cinciarella, ad esempio, questi ultimi, invece si riconoscono grazie alle loro differenze di colore nello spettro dei ultravioletti. Inoltre, hanno preso delle foto di maschi e femmine di ciascuna specie analizzando i colori sul fianco, pancia e schiena.

Il risultato è che non soltanto i passeriformi tropicali sono più colorati rispetto a quelli che vivono nelle regioni dal clima temperato, ma le regioni tropicali ospitano anche una proporzione maggiore del previsto di specie tra le più colorate al mondo, ha detto l'autore dello studio, Christopher Cooney dell'università di Sheffield, confermando il fenomeno la cui dimostrazione sfuggiva.

·        I Felini.

Noemi Penna per lastampa.it il 21 ottobre 2022.

Non c’è altezza o posizione che tenga. L’istinto di un gatto lo porterà sempre ad atterrare sulle quattro zampe. Ed è tutta una questione di fisica, o meglio, di riflessi: quando inizia una caduta, l’apparato vestibolare nelle orecchie comunica rapidamente con gli occhi, riuscendo così a determinare la posizione esatta da tenere per cadere in piedi, o comunque nel modo meno impattante possibile. 

Corpo anti caduta

I gatti vantano un’invidiabile elasticità della colonna vertebrale, oltre all’assenza della clavicola che gli conferisce maggiore possibilità di movimento. Quando l’istinto dice loro di girarsi rapidamente, riescono ad inarcare la schiena e puntare le zampe verso il basso solo perché le loro vertebre non sono rigide come le nostre e attutiscono l’impatto col terreno senza danni. Altro plus sono i cuscinetti che hanno sotto le zampe, che fungono proprio come degli ammortizzatori, rendendo l’atterraggio più dolce. E anche la coda sembra aiutare nella capriola.

La prova scientifica

La capacità dei gatti di atterrare sulle zampe ha a lungo sconcertato gli etologi. Il primo a studiarne la tecnica fu il fisiologo francese Etienne-Jules Marey, nel 1894: utilizzando una fotocamera cronofotografica è riuscito a catturare una caduta con 60 fotogrammi al secondo, riuscendo per la prima volta a vedere a rallentatore i movimenti che permettono ai felini di girarsi in aria. 

La sua scoperta, pubblicata dalla rivista Nature, ha messo le prime basi scientifiche di quello che oggi viene chiamato il riflesso di raddrizzamento del gatto, ovvero la sua capacità innata di orientarsi mentre cade. Questa peculiarità inizia a manifestarsi entro il primo mese di vita e si perfeziona fra le sei e le nove settimane.

Paracadute vivente

I gatti hanno anche altre caratteristiche fisiologiche che li aiutano in questa impresa. Le loro dimensioni ridotte, la struttura ossea leggera e la pelliccia spessa riducono la loro velocità. Oltre a questo, sono in grado di orientare i loro arti orizzontalmente dopo aver raggiunto la velocità massima, in modo che l’impatto sia distribuito in modo più uniforme su tutto il corpo. Insomma, è come se indossassero un paracadute. Ma l’altezza minima richiesta affinché ciò avvenga in modo sicuro è di almeno 90 centimetri. 

Danni da impatto

Grazie a tutte queste peculiarità, i gatti atterrano spesso illesi. Tuttavia, questi super poteri non sono in grado di sfatare sempre fratture, mascelle rotte e denti frantumati, oltre a lesioni articolari, ai tendini o ai legamenti. Con uno studio pubblicato nel 1987 sul Journal of American Veterinary Medical Association si scoprì che le ferite aumentavano a seconda dell’altezza della caduta. 

Ma questo fino ai sette piani: superata quella soglia, i gatti riportavano incredibilmente meno ferite. Addirittura è stato riportato il caso di un gatto sopravvissuto illeso a una caduta di 46 piani. Ma quelle ricerche probabilmente non hanno tenuto conto delle lesioni agli organi interni e delle conseguenze neurologiche.

Cosa fare in caso di caduta

I proprietari dovrebbero essere consapevoli dei problemi che possono verificarsi quando un felino cade. I gatti sono per natura degli arrampicatori, quindi non è facile impedire loro di saltare sul divano o sul piano di lavoro. Ma è bene che balconi e finestre vengano sempre messe e tenute in sicurezza per evitare incidenti. Se si assiste alla caduta del proprio micio da un’altezza superiore i due metri, bisogna osservalo attentamente per un paio di giorni.

Alcune ferite sono immediatamente evidenti mentre altre non lo diventano prima di alcune ore. I primi sintomi da non sottovalutare sono un’andatura rigida, difficoltà nella respirazione, letargia o problemi nel mangiare, se gli cade il cibo dalla bocca o sbava eccessivamente. Se si è causato una ferita che sanguina è bene avvolgerlo in un asciugamano per evitare infezioni e portarlo subito dal veterinario.

 Noemi Penna per lastampa.it il 16 ottobre 2022.

Saranno pure noti per la loro natura distaccata, ma anche un felino abitualmente "gelido" può occasionalmente strofinare la sua rasposa lingua su un piede, un braccio o una faccia. Ci sta mostrando un po' di affetto, vuole "assaggiarci" o il motivo è un altro? 

I gatti domestici dormono in media 14 ore al giorno e trascorrono fino a un quarto delle loro ore di veglia a leccarsi. Un'azione importantissima, che mantiene pulito il loro pelo e sana la loro pelle, che svolgono con l'aiuto delle centinaia di spine affilate, cave e rivolte all'indietro che ricoprono le loro lingue. Le papille sono fatte di cheratina, la stessa molecola di cui sono fatti i capelli e gli artigli, e si comportano come un velcro. 

Ma oltre all'autogrooming esiste anche l'allogrooming, ovvero la tendenza che hanno i gatti a leccarsi fra di loro, fra fratelli, genitori e figli, e anche con l'uomo. «Si ritiene che comportamenti amichevoli come l'allogrooming rafforzino la relazione tra le persone coinvolte», spiega Kristyn Vitale dell'Unity College del Maine. 

I gatti si lanciano in leccate amichevoli fra loro «prima o dopo un incontro di gioco», ma «a differenza della marcatura olfattiva - con le testatine, ad esempio -, l'allogrooming non è un modo che i gatti usano per marcare le loro proprietà. I comportamenti territoriali sono quelli che promuovono la difesa attiva di un luogo. Il leccare è invece un comportamento di affiliazione, di costruzione di legami, ma anche un modo per attirare l'attenzione». Insomma, se mentre accarezzate il vostro micio lui si farà scappare una leccatina, è perchè vi vuole bene, non perchè avete qualche invitante odore sulla mano.

Serenella Iovino per “la Repubblica” il 7 ottobre 2022.

Povero gatto di Schrödinger. Chiuso in una scatola in cui c'è o non c'è un pericoloso veleno, può essere insieme vivo e morto, dipende da come lo guardiamo. Niente panico: è solo un esperimento mentale di meccanica quantistica. Sì, ma perché non un topo, un coniglio o un canguro? Non lo sapremo mai. Resta il fatto che, mentre ragionava sul principio d'incertezza, al grande fisico austriaco sia venuto in mente proprio un gatto.

D'altronde, pensiamoci: non è incerta la natura stessa di questo animale, sfuggente a carezze e a definizioni, insieme familiare e misterioso, effabile e ineffabile? Perché nei gatti, nel loro comportamento, nei loro affetti e movimenti, non c'è davvero alcunché di certo o prevedibile: i gatti capitano. Così dice un filosofo, Timothy Morton, che li chiama addirittura alieni: alieni intraterrestri.

E non intende gatti letterari, come Behemoth de Il maestro e Margherita di Bulgakov, che parla, cammina su due zampe, mangia con le posate e paga pure il biglietto del tram. Gli alieni qui sono i gatti veri, che anche quando li crediamo domestici (ossia, il contrario di alieni) sono sempre pronti a sdomesticarsi. Lo conferma la biologia: tra Felis silvestris e Felis catus il confine è sottilissimo e non è chiaro nemmeno se siano due specie diverse. Però si incrociano, e la loro prole è fertile a sua volta. Insomma: nell'incertezza, si lasciano aperte tutte le porte.

Perché effettivamente decidono loro, ed è anzi opinione diffusa presso gli archeozoologi che i gatti si siano addomesticati da soli. Accadde circa diecimila anni fa, nella Mezzaluna fertile, quella parte di Levante tra Egitto, Turchia e Iran, dove sorse prima che altrove l'agricoltura. Intorno ai granai c'era cibo, e soprattutto c'erano topi. 

Fu così che piccoli felini appartenenti alla specie Felis lybica lybica invasero letteralmente le città e i villaggi neolitici. Topi a parte, fu un bene per tutti: gli abitanti umani si accorsero presto che avere gatti in case e granai era un vantaggio, e i gatti capirono subito che un po' di compagnia umana (con annessi benefit in termini di cibo e riparo) in fondo non guastava. Iniziò così la storia del commensalismo tra umani e gatti, e forse anche la storia dell'economia mercantile, perché senza gatti intorno ai siti di stoccaggio o sulle navi sarebbe stato impossibile tenere a bada i roditori. Insomma, tra i nomi del gatto dovrebbe esserci anche questo: Felis catus oeconomicus.

Non una cosa banale, il nome del gatto. Una ricerca svolta da etologi giapponesi nel 2019, per esempio, sostiene che i gatti capiscano quando li chiamiamo, ma solo se ci conoscono. Molto spesso, tuttavia, semplicemente decidono di ignorarci.

Forse quel che gli etologi giapponesi non sanno è che i gatti hanno più di un nome, ma per questo ci vogliono i poeti, che in fatto di gatti sono molto scientifici. Secondo T. S. Eliot, che nel 1939 scrive un turbinoso poema felino, The Old Possum' s Book of Practical Cats ( Il libro dei gatti tuttofare ), ogni gatto ha tre nomi. Il primo è il nome d'uso familiare: Pietro, Augusto, Alonzo. Poi c'è il nome «particolare e peculiare», quello che gli conferisce dignità propria, come farebbe un soprannome o un nome di battaglia. Infine ce n'è un altro: il nome segreto, il suo «profondo inscrutabile e unico NOME». 

E quello, dice Eliot, quello lo conosce solo il gatto. Con la levità di una danza e l'allegria di un rap (in inglese il ritmo dei versi è travolgente - e non è un caso che dall'Old Possum' s Book sia tratto Cats , uno dei musical più longevi di Broadway), Eliot ci sta spingendo a fare un salto ulteriore. Il nome arcano dei gatti ne sancisce infatti la dimensione teologica, da sempre presente nella figura felina.

Naturalmente, il pensiero va ai gatti egizi, animali sacri a Iside e divinità essi stessi, come la dea-gatta Bastet, che vegliava sulla casa, sulle donne e sulla fertilità. Ma non è solo questo. La vera dimensione teologica cui allude Eliot è piuttosto quella di una teologia negativa: un discorso sul divino che, come i gatti, rifiuta gli attributi con cui noi umani delimitiamo ciò che non tollera limiti.

E qui facciamo ancora un altro salto, stavolta verso i grandi felini: quelli che non hanno nomi per noi ma solo nomi per sé, inaccessibili a chi li guarda attraverso uno specchio e per enigmi. A guidarci è Jorge Luis Borges, enigmatico poeta di specchi e padrone di gatti (il suo, «bianco e celibe», si chiamava Beppo). L'immaginazione di Borges è popolata da giaguari, puma, leoni, ma soprattutto da tigri: azzurre, d'oro, magiche, infinite. Da bambino, ne vede una camminare avanti e indietro nella gabbia dello zoo, e da allora gli ritorna in visioni notturne, e in poesie e racconti che sembrano sogni a loro volta.

La sua tigre è una fiera e un archetipo, insieme oggetto metafisico e carnalissimo soggetto di muscoli e luce, di artigli e di pelo. In un racconto famoso, La scrittura del dio, la figura della tigre si confonde con quella del giaguaro (in guaranì, lingua indigena sudamericana da cui viene "giaguaro", jaguarete indica entrambi gli animali). 

Prigioniero per anni in una cella da cui vede il felino, un sacerdote indio comprende che le macchie sulla sua pelle sono l'alfabeto con cui comunica il dio: «dire la tigre è dire le tigri che la generarono, i cervi e le testuggini che divorò, il pascolo di cui si alimentarono i cervi, la terra che fu madre del pascolo, il cielo che dette luce alla terra». La tigre è il materializzarsi di un logos pardo e indio, che vive e parla e pensa nella carne della sua creazione.

Ma il linguaggio dei grandi felini, specie a queste latitudini, non è necessariamente divino. Può anche essere un universo ibrido di segni umano-animali. Questo porta a ulteriori ibridazioni, per esempio nella figura del runa puma, un uomo che ha guardato negli occhi il predatore ed è riconosciuto come puma a sua volta, non solo dall'animale ma anche dalla sua comunità, ai cui membri spesso appare in sogno. 

Ne parla l'antropologo Eduardo Kohn, studioso di culture amazzoniche, in un libro straordinario, Come pensano le foreste. 

Ma è il momento di fare l'ultimo salto: dai felini venerati e sognati a quelli che vivono e soffrono. Vale la pena ricordare, infatti, che non solo molti dei grandi felini sono a rischio estinzione («La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito tuttora ci minacciano | ma della loro scomparsa», scrisse la poetessa milanese Daria Menicanti), ma anche i gatti non se la passano tanto bene: solo negli Usa viene soppresso il 70% dei randagi catturati. In Italia però dal 1991 esiste una legge che protegge le colonie feline e che vieta a chiunque di «maltrattare i gatti che vivono in libertà». Quanto possa non si sa, ma è importante che ci sia.

Anarchici, vittime, cavie, alleati, commensali, opportunisti, santi, poeti e navigatori. Quante cose sono i felini, grandi e piccoli. Pensiamoci, quando sentiamo il micio che ronfa placido sul sofà.

Perché, chissà? Forse non sta ronfando, ma meditando: il suo «ineffabile effabile / effineffabile / profondo inscrutabile e unico NOME».

Sua maestà il nostro caro amico gatto. Serenella Iovino su La Repubblica il 5 Ottobre 2022.  

Si sono addomesticati da soli diecimila anni fa, nella Mezzaluna fertile. Per gli Egizi erano divinità, hanno ispirato la letteratura e poi i musical. Ecco tutti i segreti dei felini di cui non possiamo fare a meno

Povero gatto di Schrödinger. Chiuso in una scatola in cui c'è o non c'è un pericoloso veleno, può essere insieme vivo e morto, dipende da come lo guardiamo. Niente panico: è solo un esperimento mentale di meccanica quantistica. Sì, ma perché non un topo, un coniglio o un canguro? Non lo sapremo mai. Resta il fatto che, mentre ragionava sul principio d'incertezza, al grande fisico austriaco sia venuto in mente proprio un gatto.

Da tg24.sky.it il 15 agosto 2022.

“Kefir viene spesso e volentieri scambiato per un cane” dice la russa Yulia Minina. Kefir vive a Stary Oskol (nella Russia orientale), ha 22 mesi, è un esemplare di Maine Coon e pesa quasi 13 chili. “Ha tutto il tempo di diventare ancora più grande” dice la sua padrona “perché, da quanto mi dicono, questa razza – conosciuta anche come ‘procione del Maine – cresce fino ai 3-4 anni di età”.

Le immagini

Le foto del singolare felino stanno facendo il giro del Web. La storia di Yulia e del suo gatto è stata ripresa per prima dal britannico The Sun ma anche il Daily Mail e il New York Post stanno dedicando spazio alla vicenda. “Questo gatto è grande come un cane e dolce come un bambino” continua ancora la ragazza. “E' molto intelligente e si comporta sempre bene. 

Quando amici e conoscenti vengono a casa, tutta l’attenzione è per lui e si lascia accarezzare volentieri”. "Ha una precisa abitudine” chiosa Yulia. “Di notte gli piace arrampicarsi su di me e dormire. Quando era più piccolo non mi creava nessun problema, ma ora è diventato grosso e pesante e, ovviamente, mi è molto difficile dormire così”.

La razza Maine Coon

Fino alla scoperta della razza di gatti Savannah, negli anni '80, il Maine Coon era considerato la razza felina domestica più grande del mondo. Muscoloso e dal pelo lungo e folto, un esemplare maschile ha un peso medio di 8 chili mentre un esemplare femminile può raggiungere i 5 chili e mezzo, per una lunghezza (compresa la coda) di quasi un metro. 

Ed è proprio un esemplare di Maine Coon a detenere, dal 2018, il record di gatto più grande del mondo: il suo nome è Barivel, è lungo 120 centimetri, ed è residente a Vigevano, in provincia di Pavia.

Noemi Penna per repubblica.it il 9 novembre 2022.

Chi ha un gatto sa esattamente di cosa stiamo parlando. Ancor di più se ha sentito, almeno una volta nella vita, i suoi artigli entrare nella pelle mentre il peloso di casa era teneramente impegnato a impastare sulla sua pancia. Questa azione che i gatti compiono alternando ritmicamente le zampe anteriori su una superficie morbida – ricordando, appunto, una persona che impasta – ha una origine profonda. Si tratta infatti di un “residuo dell’infanzia”: ogni micio compie quest’azione per la prima volta poche ore dopo la nascita, quando ancora non vede, per massaggiare il petto della madre e stimolare la produzione di latte. Ma perché continua a farlo anche da adulto?

Ricordo d’infanzia

Sulle zampe i gatti hanno delle ghiandole odorifere che vengono stimolate attraverso la pressione. Facendo la pasta, un gatto marca il suo territorio e se lo fa anche su di te, vuol dire che gli piaci. In qualche modo questa azione gli ricorda infatti la mamma. E sebbene i gatti adulti non abbiamo più bisogno di essere allattati, l'azione dell'impastamento è probabilmente associata a sentimenti confortanti. Ognuno lo fa a modo suo, mostrando un atteggiamento rilassato. Ma non è raro che durante questa azione alcuni gatti possano persino sbavare, come se avessero realmente l’aspettativa di ricevere del latte, e fare le fusa (link all’altra guida). Oltre ai ricordi, l’azione ha anche un’importante componente istintiva, dato che fanno regolarmente la pasta anche i gatti abbandonati alla nascita o mai allattati dalla madre.

Rivendicare il proprio spazio

Essendo creature territoriali, da adulti l’impasto è un modo per loro efficace per rivendicare un loro spazio. Marcando con il proprio odore una coperta, un cuscino o un maglione, credono che nessun altro animale si avvicinerà, ritagliandosi così uno spazio esclusivo. In similitudine al girare in cerchio dei cani, i gatti usano questa tecnica anche sul luogo dove hanno deciso di schiacciare un pisolino. Questo perché i loro antenati avevano bisogno di appiattire l’erba o il terreno per renderli più comodi e rilevare eventuali pericoli prima di mettersi a loro agio, esponendosi a un predatore.

Fare un po’ di stretching

Fra i tanti motivi per cui i gatti fanno la pasta, ce n’è anche uno tutt’altro che sentimentale. Proprio come gli esseri umani hanno bisogno di un po’ di stretching di tanto in tanto, anche i mici impastando allungano le zampe. Il movimento alternato di estendere gli arti durante l'impastamento, infatti, risveglia i muscoli e stimola la circolazione. Ma qualunque sia la motivazione, e anche se ci scappa un’artigliata, secondo gli esperti è importante non punirli perché si tratta di un gesto istintivo che difficilmente controllano: la cosa migliore da fare è accarezzarli, spostandoli delicatamente se hanno scelto un luogo inopportuno.

Perché si dice che i gatti hanno nove vite? Noemi Penna su La Repubblica il 15 Novembre 2022.

Lo avrete sentito dire mille volte: i gatti hanno nove vite (o sette, a seconda dei casi). Ma qual è il significato del famoso detto? 

Le origini della leggenda

I gatti hanno davvero nove vite? Se ve lo stavate davvero chiedendo, la risposta è no. Il proverbio originariamente dice: “Un gatto ha nove vite. Per tre gioca, per tre si smarrisce e per le ultime tre resta”. E si tratta di una citazione inglese che persino William Shakespeare conosceva, tanto da averla citata nel suo “Romeo e Giulietta”. Per questo motivo, il mito risale almeno al 1500 ma potrebbe avere origini più antiche. 

Culto egiziano

Come sappiamo, i gatti affascinano l’uomo dal tempo degli antichi egizi. Hanno iniziato a fare il loro accesso nelle case e nei luoghi di culto 12 mila anni fa proprio perché gli egiziani li consideravano delle creature divine con poteri soprannaturali. E potrebbe essere la capacità della dea Bastet di passare dal corpo di donna a quello di un gatto ogni volta che voleva ad aver promosso l’idea che i gatti abbiano vite multiple. Tuttavia, quando i gatti arrivarono in Inghilterra erano venerati più per la loro capacità di tenere lontani i roditori dalle case che di reincarnarsi.  

Perché nove vite?

Il numero nove ha un significato in numerologia, soprattutto per la sua composizione di tre gruppi di tre, come la struttura del proverbio inglese. Nove è anche simbolico nelle culture islamica, greca e cattolica romana. E se un gatto “torna in vita” più volte, il numero nove ha senso se visto da un punto di vista mistico. Qui in Italia come in Spagna si dice che i gatti abbiano sette vite, altro numero altamente simbolico: sette sono i doni dello Spirito Santo nel cristianesimo, sette sono i giorni della settimana, sette sono i sacramenti. Le leggende arabe e turche, invece, attribuiscono ai gatti “solo” sei vite. Nonostante le differenze nel numero, la credenza di fondo è che i gatti vivano più di una vita in una volta sola. 

Gatti senza paura

Chiunque viva con un gatto conosce alcune delle sue abilità impressionanti. Sfilano sui cornicioni, camminano sulle ringhiere, s’infilano in spazzi piccolissimi e possono fare dei salti incredibilmente alti e precisi. Niente di sovrannaturale, però: per i salti è tutto merito delle loro zampe posteriori, così forti che possono facilmente farli saltare sei volte la loro altezza. C’è poi il mito della caduta, ovvero l’abilità del gatto di cadere sempre in piedi anche da grandi altezze, senza riportare conseguenze. Come potete leggere qui questo è tutt’altro che vero: i gatti vantano un’invidiabile elasticità della colonna vertebrale, oltre che di un incredibile istinto che gli permettono di girarsi in aria senza problemi. Poi le loro dimensioni ridotte, la struttura ossea leggera e la pelliccia spessa riducono la loro velocità nella caduta, come se indossassero un paracadute. Ma anche loro riportano danni da impatto, anche se spesso si tratta di traumi interni, quindi non subito visibili. 

Perché i gatti dormono così tanto? Noemi Penna su La Repubblica il 13 Novembre 2022.

Più della metà dei gatti dorme tra le 12 e le 18 ore al giorno. E man mano che invecchiano tendono a dormire ancora di più rispetto a quando erano giovani. Nulla di strano quindi se vedi il tuo micio passa gran parte della giornata dormendo: non è questione di pigrizia, questa è proprio la sua indole.

Sveglia crepuscolare

Diversamente da uomo e cane, i gatti hanno uno schema del sonno polifasico, il che significa che dormono più volte al giorno anziché in un unico lungo periodo. Questi sonnellini durano in media 78 minuti. Tuttavia, i gatti dormono comunemente per periodi di tempo che vanno da 50 a 113 minuti. Anche il loro metabolismo è governato da un ritmo circadiano di sonno-veglia di 24 ore, ma sono principalmente crepuscolari, il che gli fa vivere due picchi di attività: uno al mattino presto prima dell’alba e uno la sera dopo il tramonto. Un istinto dettato dalla loro innata natura predatoria.

Sonno vigile

Anche i gatti attraversano diverse fasi del sonno e sperimentano la fase Rem. Ma nella maggior parte delle loro ore di sonno, rimangono comunque vigili e anche se sembrano dormire profondamente, sono pronti a riattivarsi in un attimo. Questo perché sia anatomicamente che psicologicamente sono strutturati per procacciarsi il cibo e difendersi dai predatori più grandi.

Per capire se il proprio gatto sta sperimentando un sonno più profondo, basta guardare se gli occhi si muovono dietro le palpebre chiuse, sia orizzontalmente che verticalmente.  

Non è mai troppo?

Come tutti gli animali, i gatti hanno bisogno di dormire per sopravvivere. Il sonno svolge anche un ruolo nella formazione della memoria e nel potenziamento del sistema immunitario. Ma ci sono una serie di motivi naturali per cui le abitudini del sonno del tuo gatto possono cambiare. Ad esempio, se il tuo gatto ha svolto molte attività per un periodo di tempo prolungato, potrebbe richiedere più sonno del previsto. Anche un cambiamento di ambiente, come un trasloco o l’arrivo di un nuovo membro della famiglia, può influire sulle abitudini del sonno del micio di casa. Tuttavia, un sonno insolito o schemi di veglia eccessiva possono indicare un problema di salute da tenere sotto osservazione. 

Cause della letargia

I gatti con malattie renali tendono a mangiare meno, bere di più, dormire di più ed essere più vocali di notte. Anche i gatti sordi dormono di più, probabilmente perché il loro sonno non viene facilmente disturbato dai rumori. Altri sintomi includono un aumento delle vocalizzazioni durante il giorno e la notte, riduzione dell’appetito e perdita di peso. Fra le patologie più comuni che includono la letargia c’è l’ipotiroidismo: questa carenza dell’ormone tiroideo può comparire sia nei gatti giovani che anziani e include la perdita di peli a ciocche e la diminuzione dell’appetito. 

Cause della diminuzione del sonno

Ci sono poi delle situazioni che rendono il tuo gatto particolarmente irrequieto, tanto da toglierli il sonno. Giocare regolarmente con il gatto può aiutare a regolarizzarlo. Ci sono poi delle patologie che possono disturbare il ciclo del sonno come l’ipertiroidismo, che rende un gatto eccessivamente eccitabile e con maggiore appetito, nonostante la perdita costante di peso. C’è poi la Fiv, l’immunodeficienza felina, che colpisce sia i gatti domestici che quelli selvatici, alterando il loro sistema immunitario e disturbando notevolmente i modelli di sonno e causando difficoltà nell’addormentamento. Se osservi un cambiamento insolito, specialmente se insieme ad altri sintomi, è sempre bene rivolgersi al proprio veterinario. 

Le fusa, una musica da «vibrazioni». Il gatto e il suo modo di comunicare le emozioni: «onde» che fanno bene allo stress e al cuore degli umani. Raffaella Direnzo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Maggio 2022.

Sebbene i gatti siano più indipendenti di molti altri animali domestici, decidere di adottarli è un impegno importante: è sradicare erbacce dal proprio cuore, togliere egoismo e seminare amore puro, incondizionato, per costruire un presente di azioni insieme al nostro pelosetto. La versatilità delle caratteristiche comportamentali dei gatti - consapevoli dei pro e contro - è una delle ragioni per cui così tante persone amano la compagnia felina, ma soprattutto, possedere un animale domestico oltre a fornire una miriade di benefici per la salute, ha alcuni vantaggi specifici dei gatti.

Le fusa e le vibrazioni positive

Un gatto che fa le fusa crea vibrazioni a una frequenza di 20-140 HZ e gli studi hanno dimostrato che le frequenze nella gamma 18-35 HZ hanno un effetto positivo sulla mobilità articolare dopo un infortunio. «Le fusa del gatto sono un rumore respiratorio prodotto dalla vibrazione ritmica della laringe e dalla turbolenza dei flussi d’aria ad essa correlata, sia durante l’inspirazione che durante l’espirazione. La concezione classica considera questa vocalizzazione come una via usata dal gatto per trasmettere le proprie emozioni (positive, indicatore di benessere) ad un altro membro del gruppo sociale, sia esso un conspecifico o anche il proprietario (è luogo comune che il gatto faccia le fusa quando è contento). «La teoria che prediligo», spiega il Prof. Angelo Quaranta, ordinario di Fisiologia degli animali domestici, UniBa, «suggerisce che il gatto faccia le fusa per se stesso, per il proprio benessere, attraverso un processo di autostimolazione e senza necessariamente la volontà di comunicare. Il suono delle fusa potrebbe avere un effetto sulle onde cerebrali del gatto attraverso il fenomeno della risonanza e risposta in frequenza, con un effetto tranquillizzante». Un gatto che fa le fusa è uno dei suoni più confortanti al mondo ed è stato anche a lungo associato a un'abilità di guarigione terapeutica sulle ossa e sui muscoli umani. Una ricerca condotta dall’Università americana di Wisconsin-Madison, ha dimostrato che i felini domestici hanno la capacità di «riaggiustare» da soli la mielina, la sostanza gelatinosa che avvolge le fibre nervose e le protegge. «I problemi di demielinizzazione nei gatti sono insoliti: nello studio citato i gatti riuscirono a guarire da una forma di demielinizzazione indotta sperimentalmente», sottolinea il docente.

L’effetto terapeutico di micio

«Ma l’aiuto più grande che un gatto può dare ad un malato di sclerosi multipla è attraverso la Terapia assistita con gli Animali (TAA), in quanto può divenire, nell’ambito di un progetto serio e ben strutturato, un vero coterapeuta per quella persona: il contatto, le interazioni affettive ed anche le fusa risultano sicuramente molto piacevoli per il paziente umano suscitando effetti positivi e misurabili attraverso specifici test di tipo fisiologico e psicologico».

Possedere un gatto può abbassare i livelli di stress, che a sua volta avrà un effetto a catena sul rischio di malattie cardiovascolari. Prove scientifiche, infatti, mostrano che i proprietari di gatti hanno un rischio inferiore – di circa il 30% - di malattie cardiache e ictus e che le fusa di un gatto possono calmare il sistema nervoso e abbassare la pressione sanguigna. «Le fusa possono essere correlate a contesti piacevoli per il gatto (come l’allattamento, la toelettatura, le carezze) ma anche spiacevoli (stress, traumi chirurgici, cure mediche), sebbene l’effetto sia, in entrambi casi, quello di aumentare l’attività beta del cervello con un risultato rilassante e antidolorifico. Il contesto chiarisce la differenza: le caratteristiche acustiche delle fusa cambiano a seconda del significato e del contesto di produzione».

Le allergie e l’ambiente

Nel 2002, il National Institutes of Health ha pubblicato uno studio che ha rilevato che i bambini di età inferiore a un anno, che sono stati esposti a un gatto, hanno meno probabilità di sviluppare tutti i tipi di allergie, poiché l'elevata esposizione degli animali domestici nella prima infanzia sembra proteggere non solo dall'allergia agli animali domestici, ma anche da altri tipi di allergie comuni, come l'allergia a acari della polvere, ambrosia ed erba. Se sei preoccupato per la tua impronta di carbonio - misura che esprime il totale delle emissioni di gas serra- , è meglio possedere un gatto che un cane. Uno studio del 2009 ha rilevato che le risorse necessarie per nutrire un cane nel corso della sua vita creano la stessa impronta ecologica di quella di un fuoristrada, mentre, i gatti, che mangiano meno in generale, solo di una piccola berlina. Oltre ad essere estremamente indipendenti ed a richiedere una manutenzione inferiore rispetto ai cani, non è raro che i gatti vivano fino a 20 anni.

La piaga ancora irrisolta del traffico illegale di tigri. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 7 novembre 2022.

Ogni anno, a livello mondiale, centinaia di tigri sia vive che morte divengono un prodotto immesso sul mercato nero: è quanto si evince da un nuovo rapporto di Traffic, una Organizzazione non governativa che si occupa di monitorare il commercio di animali e piante selvatiche. Dal lavoro – con cui è stato analizzato il fenomeno a partire dal mese di gennaio del 2000 fino a quello di giugno del 2022 – è emerso che, tra tigri intere e parti del loro corpo, almeno 3.377 esemplari sono stati sequestrati dalle autorità competenti in questi 22 anni e, di conseguenza, si stima che mediamente circa 150 tigri vengano confiscate annualmente. Quello del commercio illegale risulta dunque essere un fenomeno preoccupante: la sua rilevanza è infatti confermata dai tanti sequestri avvenuti in giro per il mondo, con i dati che “mostrano una tendenza in aumento”.

A tal proposito, nella prima metà del 2022 ad essersi distinte in senso negativo sono state l’Indonesia, la Thailandia e la Russia, che hanno registrato aumenti significativi del numero di sequestri rispetto al periodo gennaio-giugno dei due decenni precedenti. A preoccupare è soprattutto l’Indonesia, che ha già sequestrato più tigri nella prima metà del 2022 (18) rispetto a tutte le confische del 2021 (16): numeri oltremodo allarmanti se si considera che si tratta della patria della “tigre di Sumatra”, una specie ad alto rischio di estinzione la cui popolazione selvatica è stimata tra i 400 ed i 500 esemplari. «È uno sviluppo inquietante per la tigre in pericolo di estinzione e un avvertimento per tutte le sottospecie di tigri», ha quindi affermato la coautrice del rapporto Ramacandra Wong, sottolineando che «non c’è mai stata una maggiore urgenza di intensificare la lotta nei confronti del crimine contro la fauna selvatica in tutti gli stati dell’area».

Tralasciando l’analisi riferita esclusivamente all’ultimo anno e tornando a parlare dell’intero periodo oggetto del rapporto, bisogna ricordare che i sequestri sono avvenuti principalmente nei 13 Tiger Range Countries (TRC), ovverosia i paesi in cui le tigri vagano ancora libere. Al primo posto troviamo l’India, patria di oltre la metà della popolazione mondiale di tigri selvatiche, che si afferma come il paese con il maggior numero di tigri confiscate (893) nonché di episodi di sequestro (759). C’è poi la Thailandia, che nonostante abbia riportato un numero di episodi di sequestro (65) minore rispetto alla Cina ed all’Indonesia (rispettivamente 212 e 207 episodi) si è classificata al secondo posto della classifica relativa al numero di tigri confiscate (403). Alle sue spalle proprio la Cina, con 367 tigri sequestrate, e l’Indonesia, con 319 esemplari confiscati.

Il commercio illegale, però, preoccupa per tutta una serie di altri dettagli legati soprattutto ai paesi del sud-est asiatico. I Tiger Range Countries del sud-est asiatico sono infatti alle prese con ulteriori problemi legati al commercio illegale, come ad esempio il rifornimento degli animali oggetto dello stesso ad opera delle strutture che li tengono in cattività. In particolare la Thailandia ed il Vietnam hanno avuto un ruolo di primo piano, con l’81% e il 67% delle tigri sequestrate nei rispettivi paesi che provengono – o comunque si sospetta che provengano – da strutture che li tengono in cattività. Inoltre, nei paesi del sud-est asiatico il commercio illegale prospera anche sul web. Il monitoraggio del mercato online effettuato da TRAFFIC, infatti, ha posto la lente di ingrandimento su un solido commercio di alcune parti del corpo delle tigri, con 675 profili Facebook impegnati nella vendita di tali prodotti. Al primo posto si piazza il Vietnam con 515 profili, mentre al secondo troviamo la Thailandia con 53 account ed al terzo la Cambogia con 28.

Venendo infine alle “merci più sequestrate”, la pelle di tigre è risultata essere il prodotto confiscato più frequentemente, seguito dall’intero animale e dalle sue ossa. La presenza delle tigri intere nei sequestri è però aumentata nei primi sei mesi del 2022 rispetto agli ultimi anni, così come negli ultimi anni sono aumentati i sequestri di denti e artigli di tigre. Insomma i prodotti tipici del mercato nero sono i più disparati, ed il loro ritrovamento non è di certo relativo solo al recente passato: come detto in precedenza, infatti, il rapporto copre un periodo di tempo di 22 anni. «Le prove mostrano chiaramente che il bracconaggio e il commercio illegale non sono minacce temporanee», ed «a meno che non vogliamo vedere le tigri selvatiche spazzate via dalla nostra vita, le azioni immediate e limitate nel tempo devono essere una priorità», ha dunque non a caso affermato la coautrice del rapporto Kanitha Krishnasamy. [di Raffaele De Luca]

Tigri a rischio estinzione: il commercio illegale e il ruolo dell’Italia. Beatrice Montini  su Il Corriere della Sera il 16 Febbraio 2022.

Nel mondo da tempo ci sono più tigri in cattività che selvatiche. In Sud Africa il nuovo business dell’allevamento che, secondo gli animalisti, incentiva il traffico illegale in cui è coinvolta anche l’Italia. Lav: «Chiediamo al governo di intervenire». 

Si stima che al mondo siano rimaste al massimo 3.900 tigri selvatiche. Circa la metà di quelle allevate in cattività (8mila). Ma la mancanza di dati certi non permette alle autorità di avere un adeguato controllo su traffici illeciti e sfruttamento commerciale di questa specie a rischio estinzione.

I dati parlano da soli: in India - che ospita il 75% della popolazione mondiale di tigri in natura - nel 1947 gli esemplari erano 40 mila. Nel 2018 ne erano rimaste 2.967, un numero bassissimo eppure definito «storico» dal premier Narendra Modi.

Caccia, distruzione dell’habitat, paura, superstizioni: da secoli il felino più grande del mondo viene costantemente minacciato dall’uomo. Secondo alcune culture, le loro ossa tritate rendono più forti, mentre per altre, gli organi genitali possono aumentare la virilità e gli occhi sono in grado di curare malattie della vista. La pelliccia è ancora considerata una merce pregiata, simbolo di lusso e di potere. Così come i vari «trofei». Mentre i cuccioli vengono venduti come animali da compagnia.

L’allevamento in Sud Africa

Al centro del traffico internazionale della tigre c’è oggi il Sud Africa che, secondo un recente rapporto dell’organizzazione animalista tedesca Four Paws (leggi qui) - sta «palesemente violando gli accordi internazionali sul commercio di specie selvatiche» (ndr, convenzione di Washington - Cites). Non essendo native del Paese, spiega l’organizzazione animalista, le tigri non godono di protezione legale e proprio grazie a tali vuoti legislativi l’allevamento delle tigri sta diventando ancora più lucroso di quello dei leoni (che lo scorso anno il governo ha annunciato di voler proibire). Il rapporto afferma che la mancanza di normative efficaci riguardanti l’allevamento privato e il commercio commerciale di grandi felini vivi da questo Paese sta «incentivandone il commercio illecito e sta contribuendo al declino delle popolazioni di grandi felini in tutto il mondo». Il Sud Africa esporta ogni anno un gran numero di tigri vive allevate in cattività, ma anche parti di esse.Tra il 2011 e il 2020, almeno 359 tigri vive sono state esportate dal Paese principalmente in Vietnam, Cina e Thailandia, noti punti caldi per la domanda di parti di tigri e per il commercio illegale destinato alla produzione di medicine tradizionali e pellicce. Circa 255 di queste sono state vendute agli zoo. Ben 54, invece, i « trofei» esportati dal Paese.

Il ruolo dell’Italia

«Sebbene il focus del rapporto sia sull’industria sudafricana, le evidenze che ne emergono sottolineano la necessità di un cambiamento globale e urgente, per proteggere dall’estinzione i grandi felini come le tigri», spiega la Lav che sottolinea come l’Europa e anche l’Italia abbiano - purtroppo - un ruolo non indifferente in questi traffici. Basti pensare che - sempre secondo i dati diffusi dall’associazione - l’Italia e la Francia sono infatti responsabili, da soli, del 50% del traffico europeo.

Come è possibile? «Italia e Francia sono i Paesi con la presenza maggiore di aziende circensi - spiega al Corriere Andrea Casini, responsabile Animali Esotici della Lav - che sono autorizzate a detenere e allevare le tigri e quindi di fatto sono uno dei centri “di produzione” di questi animali». Le tigri possono in questo caso essere anche legalmente vendute ad altri circhi. «Ma il risultato è che non si ha idea di quante ce ne siano e spesso dove finiscano - sottolinea ancora Casini - Anche perché non esiste un registro unificato e un database degli animali esotici presenti sul territorio. Quindi è impossibile fare i controlli».

Un caso esemplare recente è quello delle dieci tigri trasportate da Latina alla Russia. «La fine di questi animali venduti e trafficati - spiega sempre Casini - è purtroppo quella di diventare medicina tradizionale cinese: e quindi di essere uccisi e smembrati». Se una tigre viva vale dai 3mila ai 5mila euro, il guadagno per una tigre morta va infatti dai 15mila ai 20mila euro.

La soluzione possibile

Uno dei problemi nel definire il ruolo dell’Italia nel traffico del commercio illegale di tigri è - ancora una volta - l’impossibilità di ottenere dati univoci. Ad esempio: secondo i dati ufficiali le tigri dichiarate in Italia sono 24 . Ma il numero «reale» (ottenuto incrociando evidenze della presenza di questi animali in circhi, zoo etc.) è almeno di 400.

La soluzione? «Oggi in Italia siamo di fronte ad un possibile cambiamento positivo per le tigri e gli animali esotici, in generale - sottolinea ancora la Lav - Entro l’8 maggio, infatti, il ministero della Salute è chiamato ad approvare il Decreto Attuativo della Legge 53 che vieterà totalmente la riproduzione, la detenzione e il commercio di animali selvatici ed esotici, comprese le tigri. Le disposizioni contenute in esso, se rispetteranno come dovrebbero l’Articolo 14 lettera q) della Legge 53 votata e approvata dal nostro Parlamento, avranno impatti importanti sui circhi e sugli allevamenti privati di tutti gli animali selvatici. Solo attraverso questi cambiamenti epocali si potrà tornare, ma non come prima».

Valeria Arnaldi per "il Messaggero" il 17 febbraio 2022.

Il gatto è una piccola ma potente cura per chi lo ospita in casa. Una sorta di toccasana, che, studi alla mano, fa bene alla salute, alla mente e al cuore. Una ragione in più, in caso occorresse, per festeggiare i mici di casa e non solo, oggi, che in tutta Italia si celebra la Giornata nazionale del Gatto, ricorrenza istituita nel 1990 dopo un referendum tra i lettori di una rivista specializzata, gattari o gattofili dunque, e che ha trovato appassionati sostenitori dal Nord al Sud del Paese, tra chi i gatti li ha in casa o li ha avuti, chi magari li vorrebbe o chi è amico dei randagi, ben felice di portare cibo e magari aprire le porte del proprio appartamento quando fa freddo. 

Un amore ricambiato. I gatti, infatti, stando a uno studio australiano pubblicato nel 2015 su Anthrozoos, aiutano le persone a sentirsi meno nervose, più sicure di sé e felici. Secondo i ricercatori, la loro presenza farebbe bene anche sul lavoro, aumentando la concentrazione. Non solo.  

Da un'altra ricerca, pubblicata su Psychosomatic Medicine è emerso che i piccoli hanno davvero un potere calmante, che influisce in modo positivo sulla nostra frequenza cardiaca. E per il Journal of the Royal Society of Medicine, basta un mese di vita con un micio per veder ridotti mal di testa, mal di schiena e addirittura raffreddore. 

«Sappiamo dalle evidenze scientifiche che gli animali da compagnia ci aiutano su tantissimi fronti, anche sul versante terapeutico, non a caso la pet therapy è riconosciuta dal 2003 spiega Cinzia Correale, psicologa esperta di pet therapy dell'Ordine degli Psicologi del Lazio Il gatto è un animale che da sempre ci incuriosisce per le sue peculiari caratteristiche. Si dice che sia più diffidente del cane e si esprima meno nella relazione. Per molti, sarebbe lui a sceglierci nel rapporto e, quindi, secondo tale punto di vista, farsi volere bene da un micio sarebbe una questione di merito». Un sollecito per l'autostima. 

Il gatto sceglie per istinto: conosce e riconosce le qualità relazionali di una persona, i suoi sentimenti e i suoi stati d'animo. La pandemia e, in particolare, il lockdown, hanno aumentato l'attenzione sui cuccioli di casa, rivelando nuovi talenti. Non a caso, le adozioni sono aumentate.  

«Una ricerca dell'università di Lincoln ha evidenziato proprio gli effetti positivi della compagnia dell'animale nel contrasto alla solitudine prosegue non si tratta di sostituire il rapporto uomo-uomo, ma i gatti sono validi alleati per mantenere la routine. É proprio sulla nostra routine che la pandemia ha impattato in modo più forte, sospendendola. Avere un pet di cui prendersi cura, sentire la responsabilità di un altro essere, impedisce di lasciarsi andare. E aiuta a non abbandonarsi alla tristezza e a difendersi dall'angoscia. Chi non ha la forza di prendersi cura di sè sente comunque l'impegno a occuparsi del proprio micio». 

I gesti necessari a garantire il benessere del felino di casa hanno aiutato e aiutano tanti a dare ritmo alle giornate. «I gatti non fanno miracoli, certo, non si possono caricare di tale aspettativa, ma contribuiscono molto anche a mantenere l'igiene mentale. Il senso di responsabilità verso un animale domestico diventa un modo per contrastare la depressione, favorisce la prevenzione, perchè consente la drammatizzazione dei propri bisogni: ci prendiamo cura di noi, badando in realtà agli altri. Questa è una prerogativa degli esseri umani. E gli animali, in un certo senso si offrono». 

I mici sono utili in tanti modi. Uno per tutti, le fusa. «Studi scientifici hanno dimostrato che le fusa regolano il sistema nervoso afferma Cinzia Correale dunque il battito cardiaco ma anche il livello di cortisolo, ossia l'ormone dello stress, e quello di endorfine che ci fanno sentire bene». La presenza di un gatto in casa è positiva ad ogni età. 

«Avere un animale nella propria abitazione aiuta il bambino a rapportarsi con l'altro e nelle fasi di crescita, ciò significa sviluppare il rispetto per soggetti diversi da sè. In età avanzata, fa compagnia. Esistono perfino lezioni di yoga pensate per esseri umani con gatti, a riprova del fatto che stare insieme fa bene alla salute». 

L’Italia dei gatti: amati dai cittadini, poco considerati dalle istituzioni. Silvia Morosi su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

Il rapporto di Legambiente: triplicate nel 2020 le adozioni di gatti, ma resta il problema della mancata registrazione all’Anagrafe felina. Meno dell’8% dei nostri Comuni è in regola con la gestione degli animali nelle città. 

Gli italiani amano i gatti, le istituzioni italiane — invece — li considerano poco. A confermarlo sono alcuni dati contenuti nel X rapporto nazionale «Animali in Città» di Legambiente, analizzati in esclusiva dal Corriere della Sera. Un affetto quello per i felini che non è venuto meno, nemmeno con la pandemia. Anzi. Nel 2020 sono stati, infatti, presi in adozione nel nostro Paese oltre il triplo dei gatti rispetto all’anno precedente (42.081 nel 2020, contro i 12.495 del 2019; qui tutti i dati del report). Eppure, tra i primi problemi evidenziati nel report dell’associazione ambientalista vi è quello della registrazione dei felini, al momento facoltativa nel nostro Paese (diversamente da quanto avviene per i cani). All’indagine di Legambiente hanno risposto in modo completo 656 amministrazioni comunali (l’8,3% del campione contattato), tra cui il 50% dei Comuni capoluogo, e 50 aziende sanitarie (il 44,6% del campione). 

Non solo la spesa pubblica è prevalentemente condizionata dai canili rifugio, ma a dispetto della stima tra i dieci e i quindici milioni di gatti presenti in Italia, i dati ufficiali riportano poco più di 798.089 gatti registrati (dato Ministero della Salute, banca dati anagrafe animali d’affezione, aggiornato a gennaio 2021) in tutta Italia. Solo la Lombardia è dotata di una legge regionale che, dal primo gennaio 2020, prevede l’obbligo di registrare anche ogni gatto che entra a far parte di una famiglia. Guardando agli amici felini, il rapporto nazionale è di un gatto iscritto all’anagrafe degli animali d’affezione ogni 72,4 cittadini: a primeggiare, in questa categoria, sono la Valle d’Aosta (un gatto ogni 31,4 abitanti) e la Provincia autonoma di Bolzano (un gatto ogni 32,6 cittadini). Per avere un raffronto, a livello nazionale, il rapporto tra cani iscritti all’anagrafe degli animali d’affezione e cittadini è di un cane ogni 4,7 abitanti, con Umbria e Sardegna che primeggiano in positivo (rispettivamente un cane iscritto ogni due cittadini e un cane ogni 2,8), e Puglia e Calabria fanalini di coda (rispettivamente un cane iscritto ogni 7,4 e ogni 9,6 cittadini). In generale, meno dell’8% dei nostri Comuni è in regola con la gestione degli animali nelle città.

Grazie ai dati forniti dalle amministrazioni comunali e dai servizi veterinari delle aziende sanitarie, l’analisi di Legambiente mostra anche come solo il 39,2% dei Comuni dichiara di avere colonie feline sul proprio territorio. Considerando i numeri relativi al numero dei cittadini residenti le amministrazioni che risultano più amanti dei gatti registrati in anagrafe sono Banari, in provincia di Sassari, con 1 gatto ogni 3,2 cittadini; Gavirate, in provincia di Varese, con 1 gatto ogni 5,9 cittadini; Aviano, in provincia di Padova, con 1 gatto ogni 7,7 cittadini. Solo — e non è certo una ripetizione — il 28,5% dei Comuni dichiara di sapere quanti gatti vi siano «ospitati». Il 6,1% dei Comuni dichiara, infatti, di avere anagrafato più del 90% dei gatti presenti nelle colonie feline, la cui corretta gestione è uno degli elementi che facilita il buon rapporto con gli animali in città o che, al contrario, può ingenerare frequenti conflitti (per le cucciolate «in strada», per questioni igienico-sanitarie legate alla presenza di cibo, ecc...), e poco più del cinque per cento (5,2%) delle amministrazioni li ha sterilizzati. Più in generale, è il 14% dei Comuni ad aver avviato campagne per la sterilizzazione dei gatti; il 9,1% a dichiarare di avere gattili sanitari sul proprio territorio, mentre solo il 5,9% ha oasi feline. È bene sottolineare come in Italia la presenza di strutture di accoglienza per i gatti randagi sia più esigua di quella dei canili sanitari o dei rifugi per cani, con un enorme divario tra Nord e Sud Italia. Sebbene esista una legge, la legge 281 del 91 in materia di animali di affezione e prevenzione del randagismo, essa non prevede l’obbligo di un certo numero di gattili per regione. 

Non va, certo, meglio sul fronte delle campagne di adozione, portate avanti sono dall’8,2% dei Comuni. Una fotografia impietosa, alla quale Legambiente chiede di porre rimedio con alcune azioni concrete, che vogliamo ribadire — con maggiore forza — oggi, 17 febbraio, in occasione della Festa del gatto, che qui abbiamo ricordato con alcune frasi. 

1- L’approvazione da parte del governo della norma nazionale per l’obbligatorietà dell’anagrafe di tutti i gatti domestici;

2 - La realizzazione da parte delle amministrazioni regionali e comunali — con un cronoprogramma che prenda l’avvio sin da subito — della mappatura completa, entro il 2023, delle colonie feline presenti nei contesti urbani e periurbani; di una campagna puntuale di anagrafe e sterilizzazione, entro il 2025, di tutti gli animali presenti nelle colonie feline; l’apertura, entro il 2030, di nuovi 500 gattili sanitari per consentire un’adeguata risposta pubblica sanitaria alle popolazioni libere e domestiche di gatti presenti nelle città (pochi mesi fa Legambiente ha creato un «Ecosportello» per gli animali feriti o in difficoltà).

Legambiente: «Triplicate le adozioni di gatti. Ma i Comuni spendono il 61% del budget per i canili». su Il Corriere della Sera il 17 febbraio 2022.

Nell’anno della pandemia cresce di oltre tre volte, rispetto al 2019, il numero di gatti adottati (42.081 nel 2020, contro i 12.495 del 2019). È quanto emerge dal X rapporto nazionale «Animali in città» elaborato da Legambiente. Nella realtà, però, mentre i felini sono molto amati dagli italiani e dalle italiane, sono poco considerati dalle amministrazioni comunali, a differenza dei cani. A livello nazionale, ad esempio, il rapporto tra cani iscritti all’anagrafe degli animali d’affezione e cittadini è di un cane ogni 4,7 abitanti, con Umbria e Sardegna che primeggiano in positivo. Guardando agli amici felini, invece, il rapporto sul piano nazionale è di un gatto iscritto all’anagrafe degli animali d’affezione ogni 72,4 cittadini: a primeggiare, in questa categoria, sono Valle d’Aosta (un gatto ogni 31,4 abitanti) e la Provincia autonoma di Bolzano (un gatto ogni 32,6 cittadini). Senza dimenticare, poi, che nel 2020 su una spesa pubblica nel settore di quasi 193 milioni di euro (in calo rispetto al 2019), il 61,8% del bilancio è stato destinato alla gestione dei canili rifugio.

·        La Lontra.

Nel Lazio torna la lontra: era considerata estinta. Pasquale Raicaldo su La Repubblica il 24 settembre 2022.

Nell’ambito del monitoraggio nazionale finanziato dal Wwf è stato scoperto un nuovo nucleo nel fiume Garigliano e nei suoi affluenti. Ma in Italia, con una popolazione di 800-100 individui, la specie resta in pericolo

Non l'hanno ancora vista, ma c'è. Ed è una notizia, perché da queste parti - nei fiumi del Lazio - la lontra, del tutto invisibile dal 2000, era stata dichiarata estinta. Tracce ed escrementi, invece, lasciano ormai pochi dubbi: la ricolonizzazione del centro Italia da parte del mammifero abbraccia anche il fiume Garigliano e parte dei suoi affluenti, in provincia di Frosinone, dove sembra essersi insediato un nuovo nucleo di lontre. Un novità che arriva nell'ambito di un progetto per il censimento della lontra, promosso e finanziato dal Wwf, con focus dedicati nelle regioni dove il mustelide è assente, o quasi, dalla Val d'Aosta alla Liguria, dalla Toscana all'Emilia Romagna.

Quest'estate la prima sorpresa, nel Lazio: il Wwf l'ha resa pubblica proprio alla vigilia "World Rivers Day", la Giornata Mondiale dei fiumi, che si celebra domenica 25 settembre. "Ho girato per un mese in lungo e in largo i fiumi del Lazio, a piedi o in canoa, in una dimensione straordinariamente selvatica, lontano dalla civiltà, trovando quelli che sono inequivocabilmente i segni della presenza di un nucleo del mammifero, non sappiamo ancora quanto numeroso", spiega il biologo Simone Giovacchini, responsabile dei censimenti del mustelide nel Lazio.

Censimenti che arrivano a quarant'anni dal precedente monitoraggio a circa dieci dal Piano di Conservazione per la lontra (PACLO), curato da Ispra e nel cui ambito il Wwf ha attivato la collaborazione dell'Università del Molise, con l'appassionata competenza di esperti come Anna Loy, con cui è stato redatto un protocollo standardizzato raccomandato dall'Otter Specialist Group dell'Iucn (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura). Con volontari e appassionati, dunque, si è tornati a cercare la lontra in tutta Italia: l'obiettivo è - spiega una nota del Wwf - è "quello di raccogliere informazioni aggiornate sulla presenza della specie nelle aree periferiche all'areale attuale, concentrato nel centro-meridione, ma anche sui fattori di disturbo antropico che limitano le possibilità di espansione". Perché in Italia la popolazione di lontra è tra le più minacciate e isolate d'Europa: tra gli 800 e i 1000 individui, numero considerato dagli esperti ben al di sotto del limite vitale minimo. 

"Eppure eravamo fiduciosi sulla possibile presenza della lontra nel Lazio - spiega Antonio Canu, esperto in gestione di aree protette e di lontre, che segue dal 1984 -  e l'esame delle 'spraint' (è il termine tecnico con cui vengono chiamate le fatte della lontra, ndr) non lascia alcun dubbio: in una fase di evidente espansione del mustelide, il Lazio - territorio facilmente raggiungibile dalle regioni dove è invece regolarmente censito, come la Campania - registra un ritorno della lontra". Un'ottima notizia, naturalmente, per la biodiversità di quest'area e per il futuro di un animale affascinante e carismatico, non di rado erroneamente confuso con la nutria, mammifero roditore originario del Sud America, una specie aliena e particolarmente invasiva. "Il 99% delle segnalazioni di lontra che ci arrivano afferiscono proprio alle nutrie, c'è ancora molta confusione nel grande pubblico. - riattacca Canu - E la loro presenza nei fiumi italiani, alimentata dalla scarsa presenza di potenziali predatori, è un problema: andrebbero messi a punto strumenti per il controllo della popolazione delle nutrie". Ma questa è un'altra storia, naturalmente.

Decisamente più positive le considerazioni a margine del ritorno della lontra nel Lazio. "Se la lontra torna a popolare un territorio - prosegue Canu - è perché vi si ricreano condizioni ideali, che riguardano in particolare la sua alimentazione, con una buona quantità di pesci, e l'assenza di un rilevante disturbo antropico. Vuol dire, in soldoni, che le politiche di tutela stanno in qualche modo funzionando". Già, perché - con la sua ricerca di habitat fluviali integri e in buona salute - la lontra è un po' una cartina di tornasole. E le strategie nazionali ed europee di conservazione, che hanno visto direttamente coinvolto il Wwf, hanno già portato alla riunificazione dei due nuclei meridionali - che gli esperti considerano gli unici vitali del Paese - e alla ripresa in alcune regioni confinanti. Così come sembra ormai appurato anche il ritorno, benché al momento piuttosto timido, nell'area alpina, circostanza direttamente legata all'espansione della specie da Austria e Slovenia e a qualche segnale nel versante francese-ligure. 

E chissà dunque che non sia davvero un momento propizio perché si generi un trend positivo di ripopolamento, dopo aver sfiorato il rischio di estinzione della specie in Italia, scongiurato anche e soprattutto grazie alle oasi del Wwf, dove la lontra si è quasi sempre palesata, da Serre-Persano, Grotte del Bussento e Lago di Conza in Campania a Pantano di Pignola e Policoro in Basilicata, fino a Cascate del Verde in Abruzzo. Del resto, già negli anni '80 il Wwf in Italia aveva lanciato un allarme dando vita al Gruppo Lontra Italia e coordinando il primo e unico monitoraggio nazionale dalla primavera del 1984 all'autunno del 1985: solo il 6% dei 1.300 siti monitorati erano effettivamente occupati dalla specie. 

"Ma la lontra in Italia non si è mai estinta nel corso degli anni - aggiunge Giovacchini - ed è riuscita a sopravvivere alle diverse minacce esercitate dall'uomo sui fiumi. Certo, il suo trend di crescita è più lento nel nostro Paese rispetto alle altre popolazioni dj lontra presenti nel resto d'Europa, ma notizie come le nuove evidenze nel Lazio fanno ben sperare per il ritorno di una natura selvatica sui fiumi italiani, sui quali una convivenza tra uomo e fauna è possibile. La ricerca di un equilibrio nello sfruttamento della risorsa acqua da parte delle attività antropiche è un qualcosa a cui non possiamo sottrarci per poter tendere ad una vera sostenibilità ambientale".

·        Lo Yeti.

Noemi Penna per lastampa.it il 7 novembre 2022.

Quella che è la prima chiara evidenza fotografica dell'abominevole uomo delle nevi che si aggira sull'Himalaya ha certificato la sua vera natura, tutt'altro che umana. A lasciare le enormi tracce che negli anni hanno alimentato il mito dello yeti, è stato infatti un orso bruno tibetano. Già precedenti ricerche avevano dimostrato, attraverso analisi genetiche, che il mostro era in realtà un orso. Ma un gruppo di ricercatori impegnato in altre ricerche lo ha immortalato in una foto che è stata a lungo discussa, ma ora - finalmente - accettata anche dalla comunità scientifica internazionale.

Nonostante l'immagine risalga al 2013, è stata appena pubblicata la ricerca condotta da Madhu Chetri del National Trust for Nature Conservation, offrendo una chiara e inequivocabile spiegazione che vuole mettere a tacere il folklore locale sulla leggendaria creatura che si aggira nella regione dell'Himalaya. 

Quello che la popolazione locale crede essere una metà uomo, metà animale, "massiccio, feroce e vorace, specialmente per la carne di cavallo", "una creatura che speri di non incontrare mai", è un Ursus arctos pruinosus, una rara sottospecie di orso bruno che vive nell'altopiano tibetano orientale, conosciuto come Dom gyamuk. 

"Quando mi hanno mostrato per la prima volta le impronte, mi hanno detto che l'animale non ha i talloni", racconta Chetri. Durante l'estate successiva, gli abitanti del villaggio gli mostrarono delle fosse, alcune delle quali profonde più di 2 metri scavate, dicevano, dalla creatura in cerca del suo cibo preferito, la marmotta himalayana. "Fu nel settembre 2007, quando mi trovavo nella zona di Damodar Kunda nel Mustang, che lo vidi per la prima volta con i miei occhi", racconta. "Ho usato un cannocchiale e ci ho montato una telecamera per registrarne il movimento". Ma l'illuminazione era scarsa e, tuttavia, l'orso non poteva essere identificato con certezza dal video risultante.

Nel 2013 Chetri stava studiando i leopardi delle nevi quando, grazie a una delle trappole fotografiche installate ad alta quota, ha immortalato inequivocabilmente l'orso. Sebbene già si pensasse che gli orsi bruni vagassero nelle zone d'alta quota del Nepal, fino a quel momento nessuno li aveva mai visti o studiati. Ed essendo così raro e poco conosciuto, nessuno aveva idea di che aspetto avesse e quali fossero le sue reali dimensioni e abitudini rispetto ad altri orsi.

"Identificare le specie e le sottospecie di animali che si trovano nel Paese è il primo passo verso la sua conservazione, e quel primo passo è stato compiuto per l'orso bruno tibetano in Nepal", conclude, volendo archiviare definitivamente il mistero.

·        L’Orso. 

60 esemplari rimasti. Le sofferenze dell’orso marsicano sono lo specchio di un Pianeta compromesso. Greenkiesta su L'Inkiesta il 23 Settembre 2022

Un nuovo documentario Sky Original, in uscita il 24 settembre, dà voce ai lamenti di una delle 15 specie animali della Terra a rischio estinzione, focalizzandosi anche sull’impegno quotidiano di chi lotta per tutelare il plantigrado

Il fragile sovrano del Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise. Una delle specie inserite nella lista rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn). Stiamo parlando dell’orso bruno marsicano, animale sempre più raro e che tra qualche decennio potremmo ammirare solo in fotografia: secondo il Wwf è ormai ridotto a quota 50-60 individui, relegati in una piccola porzione dell’Appennino centrale. Abbiamo meno di 30 anni per «creare le condizioni affinché il plantigrado possa espandersi in maniera naturale nel territorio». 

Sky ha dedicato a questo meraviglioso animale un documentario di 90 minuti che racconta le sue difficoltà di sopravvivenza in un Pianeta sempre più logorato dalla crisi climatica e ambientale. Il titolo è “L’ultimo Orso” ed è disponibile sabato 24 settembre su Sky Nature, in streaming su NOW e on demand. 

Il documentario Sky Original racconta anche l’impegno quotidiano degli addetti ai lavori dello «Yellowstone italiano» e della cittadinanza per preservare, tutelare e valorizzare l’orso marsicano, nella speranza di vedere il suo nome uscire dalla lista dello Iucn: dalle attività di monitoraggio ai censimenti, passando per il controllo GPS di alcuni esemplari. 

Protagonista assoluto de “L’ultimo Orso” è Juan Carrito, il cucciolo nato assieme ad altri tre esemplari da mamma Amarena durante il lockdown: «Juan Carrito è stata una sfida incredibile che ha messo a dura prova il personale del Parco, nelle sue molteplici professionalità, tutte impegnate ad assicurare la conservazione dell’orso. Ma è stata anche la messa a sistema di tutte le istituzioni impegnate per assicurare che territori potenzialmente idonei alla vita dell’orso marsicano siano effettivamente a misura d’orso», racconta Giovanni Cannata, presidente del Parco nazionale d’Abruzzo Lazio e Molise. 

Juan Carrito «ha tenuto col fiato sospeso un’intera regione. Un anno di riprese per raccontare il complesso lavoro che ogni giorno tiene impegnate decine di persone nella salvaguardia di una specie unica e affascinante. Patrimonio di tutti noi», spiega Massimiliano Sbrolla, il regista del documentario. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

·        Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Trema la terra al Sud è strage in Basilicata. Il sisma del 1980. L’epicentro in Campania. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Novembre 2022.

«Trema il Sud. Un disastro»: così «La Gazzetta del Mezzogiorno» del 24 novembre 1980 dà notizia del tragico terremoto avvenuto in Irpinia la sera prima. «Alle 19.35 di ieri la tranquilla domenica del Sud è stata sconvolta da una tremenda scossa di terremoto, con epicentro a Eboli, di intensità tra il 9° e il 10° della scala Mercalli. Altre sei sono seguite sino alle 21.33. È mancata la luce, la gente si è riversata per le strade anche in tutta la Puglia. Poi il quadro di ora in ora sempre più drammatico: centinaia, forse, i morti nel Potentino e in Campania». Gli inviati sui luoghi del disastro testimoniano il dolore dei cittadini lucani e pugliesi: «A Potenza la paura è negli occhi di tutti. La città, ancora a tarda sera, vive il suo terribile choc. Il terremoto è stato di inaudita violenza e ha devastato tre quarti dell’abitato. Non è possibile fare un bilancio dei morti e dei feriti».

Le stime ufficiali parlano di circa 2700 vittime, ma il conteggio finale è ancora incerto. Il sisma, durato 90 interminabili secondi, distrugge piazze, strade, case; abbatte campanili, chiese, ospedali; stermina intere famiglie e segna per sempre la storia di quei luoghi e dei sopravvissuti. In Puglia la violenza del sisma ha provocato danni e feriti soprattutto nel foggiano.

A Bari «le scosse telluriche susseguitesi a pochi secondi una dall’altra provocano scene di panico indescrivibili. Dopo i primi attimi di terrore, resasi conto di quanto stava accadendo, la gente si è immediatamente riversata fuori casa. Interi condomini si sono svuotati in pochi minuti. Il tempo di arraffare cappotti e coperte e poi la corsa verso la campagna. Come se tutti si fossero passati parola. [...] Le strade d’uscita dalla città alle 20 erano completamente intasate».

Il terremoto è stato avvertito anche da chi in quel momento era al cinema o a teatro: al Piccinni lo spettacolo che era in corso è stato sospeso, ma è stato comunque ripreso oltre mezz’ora dopo con una trentina di spettatori. «Nel momento in cui scriviamo, la paura in città non accenna a diminuire. Numerose famiglie sostano ancora per strada e si preparano a passare la notte all’addiaccio. Attrezzati con cappotti e coperte per ripararsi dal freddo, si commentano ancora i terribili, lunghissimi secondi delle scosse. Qualcuno, a questo ricordo, ancora piange». La cronaca di Vito Carbone si chiude con una nota curiosa: «A Bari nessuno ricorda una scossa così forte. Si intrecciano le ipotesi, le più disparate, su alcuni segni premonitori del sisma. Qualcuno fa cenno al fatto che ieri mattina intorno a mezzogiorno sono "saltati" tutti i semafori nel centro murattiano. Solo una coincidenza?».

Da ansa.it il 9 novembre 2022. 

Due scosse di terremoto molto forti, poco dopo le 7, sono state percepite in varie zone delle Marche, da Ancona a Fano e Urbino. Sono state numerose le scosse di terremoto rilevate dall'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia al largo della costa marchigiano-pesarese. 

La più forte è stata di 5.7 alle 7.07, poi un'altra di magnitudo 4 alle 7.12. Poi tra le 7.15 e le 7.35, l'Ingv segnala altre nove scosse da 3.6 a 2.4. Sono una ventina le scosse di magnitudo superiore a 2 che si sono susseguite dopo la prima di 5.7 nella costa adriatica tra Fano e Pesaro. Dalla lista dei terremoti dell'Ingv risulta che la più forte è stata di punto 4, seguita da una di 3.8.

"I lampioni di illuminazione pubblica oscillavano come fuscelli, tutto tremava forte, una sensazione terribile e la gente si è riversata in strada", racconta un abitante di Fano. Non ci sarebbero, secondo le prime informazioni, danni visibili sui palazzi ma ci sono fessurazioni e crepe in diverse abitazioni. 

"Stiamo facendo controlli, molta gente è in strada e al momento non risultano danni ingenti però stiamo facendo tutti i controlli possibili su tutti gli edifici pubblici. Le scuole sono state chiuse in maniera precauzionale. C'è stato grande spavento perchè la botta è stata forte e quindi temiamo conseguenze", racconta all'ANSA il sindaco di Pesaro Matteo Ricci.

Nelle Marche gente in strada e tante segnalazioni ai vigili del fuoco di crepe e fessurazioni nelle pareti di abitazioni sono arrivate ai vigili del fuoco. La clinica privata Villa Igea sta evacuando parzialmente la struttura. A Palazzo delle Marche, sede dell'Assemblea legislativa, sono caduti alcuni frammenti di intonaco negli uffici. Nel frattempo il personale del Consiglio regionale delle Marche è stato invitato a rimanere a casa in lavoro agile.

Al Pronto soccorso dell'ospedale regionale di Ancona sono stati una decina gli accessi per persone rimaste ferite nei momenti di fibrillazione, agitazione e paura: non si tratta di feriti in crolli ma di traumi minori su persone che stavano scappando dopo le scosse o di crisi di panico.

In diverse città delle Marche sono state precauzionalmente sospese le lezioni scolastiche e universitarie. In particolare a Fano, Pesaro, Senigallia e Ancona scuole chiuse le scuole di ogni ordine e grado. La sindaca di Ancona Valeria Mancinelli, ha comunicato che "in via precauzionale vengono sospese le lezioni di tutte le scuole della città, di ogni ordine e grado, dai nidi alle superiori. Anche l'Università resta chiusa.

A Pesaro docenti e studenti dell'istituto tecnico professionale Benelli sono all'esterno della scuola e non entrano nelle classi per ragioni di prudenza. Stessa situazione anche all'istituto Bramante Genga.

"Appena 6 minuti dopo il sisma il Centro allerta tsunami ha diramato un messaggo di informazione, che non è un messaggio di allerta ma informa che c'è stato il sisma per attivare i controlli lungo le coste", ha detto all'ANSA Alessandro Amato dell'Ingv, che coordina il centro allerta Tsunami sottolineando che, allo stato attuale "il rischio non c'è". "Ci sarebbe stato con una magnitudo più grande di 6.5. Il messaggio che abbiamo diramato si attiva per terremoti di 5.5 in mare o lungo la costa nel Mediterraneo. Se ci fosse stato uno Tsunami si sarebbe sviluppato pochi minuti dopo".

Traffico ferroviario sospeso in via precauzionale nei pressi di Ancona, sulla Linea adriatica, per sospetti danni ai binari e per svolgere verifiche dopo le forti scosse di terremoto che si sono succedute nelle Marche: almeno quattro con epicentro sulla costa marchigiana nella zona di Fano (Pesaro Urbino) di cui la prima di magnitudo 5.7 alle 7:07 percepite anche nel sud delle Marche. Al Vvf arrivate anche segnalazioni di ascensori bloccati e caduta di calcinacci. Intanto molti sono scesi in strada e c'è molta paura tra la popolazione.

Circolazione ferroviaria sospesa in via precauzionale e per controlli sulla linea Adriatica, tra Rimini e Varano, sulla Ancona-Roma, tra Falconara e Jesi, e sulla Rimini-Ravenna, tra Gatteo e Cesenatico, a seguito di una scossa di terremoto che ha interessato la zona. Nessun treno è fermo in linea. Si stanno verificando le condizioni di sicurezza per attivare eventuali servizi sostitutivi su strada. Il provvedimento si è reso necessario per consentire ai tecnici di Rete Ferroviaria Italiana (Gruppo FS) i controlli previsti dalle normative di sicurezza sullo stato della linea dopo l'evento sismico.

Il sisma è stato avvertito distintamente in quasi tutta l'Italia centro settentrionale. A Bologna e in Romagna la scossa è stata sentita specialmente ai piani alti delle case. Diverse segnalazioni oltre che da Bologna anche da Rimini, Ravenna, Cesena. Il sisma è stato avvertito anche in Umbria e nel Lazio.

Paolo Virtuani per corriere.it il 9 novembre 2022. 

Dopo il terremoto avvenuto alle 7.07 di mercoledì in Adriatico davanti alla costa delle Marche, il più forte in quella zona da circa un secolo, qualcuno ha messo in relazione la scossa con le trivellazioni alla ricerca di idrocarburi degli scorsi anni, criticando la ripresa delle estrazioni che il governo vuole autorizzare per rendere l’Italia meno dipendente dal gas di importazione. 

Dopo sei ore dalla scossa principale di 5.7 (magnitudo locale, la rilevazione più rapida) e di 5.5 (magnitudo momento, la più accurata e significativa), l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv) ha registrato 64 scosse successive di varia intensità.

Ci può essere una relazione tra il terremoto odierno e le trivellazioni in Adriatico?

«Eventi sismici in Adriatico ci sono sempre stati, anche molto prima che iniziassero le trivellazioni», risponde il geologo marchigiano Endro Martini, della Società italiana di geologia ambientale. «Quando l’Ingv non aveva ancora diffuso i dati scientifici accurati dell’evento di questa mattina, sui social qualcuno ha iniziato a mettere in relazione terremoto e trivellazioni». 

Le trivellazioni avvengono alla stessa profondità dove si sono scatenate le onde sismiche?

«No, le piattaforme in mare trivellano fino a una profondità massima di 3-4 chilometri. Il sisma di mercoledì si è innescato a una profondità di 7,6 chilometri, a una distanza di 30 chilometri dalla costa della provincia di Pesaro Urbino secondo i dati forniti dai rilevamenti dell’Ingv».

La struttura geologica della zona dove è avvenuto il terremoto può essere influenzata dalle estrazioni?

«La scossa è avvenuta nell’ambito di una situazione geologica profonda con strutture che governano faglie e movimenti dell’evoluzione geologica dell’Appennino», secondo il geologo Carlo Meletti dell’Ingv. «Sono da mettere in relazione a un meccanismo di compressione dell’Appennino verso l’Adriatico, come il terremoto che è avvenuto in Emilia nel 2012 e nel passato a Rimini nel 1916 e a Senigallia nel 1930».

 Esistono terremoti che sono stati provocati da attività antropiche? Negli Stati Uniti, in particolare in Oklahoma, dopo l’inizio delle estrazioni con la tecnica denominata fracking sono stati registrati molti terremoti fino a una magnitudo di 5.0 in zone dove in precedenza non erano mai avvenuti.

«La situazione geologica delle aree centrali degli Stati Uniti è completamente diversa da quella dell’Adriatico», prosegue Endro Martini. «Ricordo inoltre che in Italia il fracking è vietato per legge proprio per i problemi che causa a livello superficiale».

In passato l’estrazione di idrocarburi ha provocato fenomeni di subsidenza nella zona del Ravennate, nel delta del Po e del Polesine. I sindaci della zona sono contrari alla ripresa delle estrazioni proprio per questo timore.

«C’è stata subsidenza, ma nel caso del Ravennate ci sono studi che hanno dimostrato che è stata dovuta anche all’eccessivo sfruttamento delle falde freatiche».

Qual è la posizione dei «No-Triv»?

«Il Rapporto Ichese, commissionato dopo il terremoto dell’Emilia nel 2012, non escludeva in linea di principio una correlazione tra estrazione e sismicità», risponde Enrico Gagliano vice portavoce del Coordinamento nazionale No Triv. «Nel caso esistano dubbi, specie in zone sismiche, per il principio di precauzione bisognerebbe evitare le trivellazioni esistenti e non dare ulteriori autorizzazioni».

Per l'Ingv non ci sono nessi. L’Italia che trema, giornata di terremoti da Nord a Sud: “Nessun legame tra le scosse”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 22 Settembre 2022.  

L’Italia ha tremano per tutta la giornata, percorsa da sud a nord da terremoti, scosse più o meno grandi che hanno fatto preoccupare. Per esempio nelle Marche, solo una settimana fa colpite da un tremendo alluvione che ha causato undici vittime e due dispersi. La terra ha tremato anche in Liguria, Sicilia, in Emilia Romagna e in Toscana. L’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) ha comunque chiarito: “Non c’è alcun nesso fra il terremoto di magnitudo 3,9 avvenuto nelle Marche, quello di magnitudo 4,1in Liguria e quello di magnitudo 3,6 che ha colpito la Sicilia, nella zona dell’Etna: non c’è alcuna relazione, le distanze fra i luoghi in cui sono avvenuti i terremoti sono di centinaia di chilometri perché possa esserci un nesso”.

Le dichiarazioni sono state rilasciate all’Ansa dal sismologo Carlo Meletti, della sezione di Pisa. La prima scossa era stata avvertita alle 4:21 in provincia di Catania. L’epicentro è stato individuato a quattro chilometri da Paternò, a una profondità di dieci chilometri. Questa mattina in tarda mattinata due scosse erano state avvertite nelle Marche. Un sisma magnitudo 4.1 alle 12:24 con ipocentro a 24 km di profondità e una scossa magnitudo 3.6 un minuto dopo (ipocentro a 10 km), entrambi con epicentro a 4 km a sudovest da Folignano (AP). Sono seguite le repliche magnitudo 2.0 alle 12:27, a 23 km di profondità, e magnitudo 2.5 alle 12.35 (ipocentro 25 km).

Quando sono state avvertitele due scosse di terremoto, ad Ascoli Piceno la gente è uscita in strada. Sono uscite anche alcune scolaresche, come quelle della scuola media ‘Cantalamessa’, che si sono radunate nel campetto dell’istituto. Altre scuole invece non hanno fatto uscire gli alunni. Non ci sono state scene di panico. Nessun danno segnalato a persone o cose. La Regione Abruzzo aveva fatto sapere che la situazione “é sotto controllo. al momento non si registrano danni a cose e persone. Come da protocollo gli studenti delle scuole sono stati fatti evacuare per sicurezza”. Per le due scosse di terremoto avvertite nell’Ascolano, in particolare la prima di magnitudo 4.1, è stata sospesa la circolazione dei treni lungo la linea ferroviaria Ascoli Piceno-Porto d’Ascoli. Il sindaco di Ascoli Piceno, Marco Fioravanti, ha disposto l’immediata apertura del Coc, Centro operativo comunale.

La terra ha tremato nel primo pomeriggio anche in Liguria. L’Ingv ha registrato una scossa tra 3.9 e 4.4 di magnitudo, nitidamente avvertita nel centro della città. Il traffico ferroviario è stato sospeso tra Genova e Recco, la gente è uscita da case e uffici, incluso il palazzo della Regione Liguria. I treni sono rimasti fermi fino alle 20:00 per le verifiche a quattro linee. La scossa è stata avvertita anche nell’entroterra e nel levante. Alcune pietre e calcinacci si sono staccati da una chiesa di Pieve Ligure, a 7 km dall’epicentro. Sempre nel primo pomeriggio una scossa di magnitudo 3.2 era stata avvertita sulla costa calabra sud-orientale, in provincia di Reggio Calabria.

Le ultime scosse in ordine di tempo, sono state quelle registrate sull’Appennino tosco-emiliano, a distanza di circa un minuto una dall’altra. L’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia rileva una scossa di magnitudo 3.8 a otto chilometri da Pievepelago, in provincia di Modena, poco prima delle 17.50, a una profondità di 14 chilometri. La seconda è stata di magnitudo 3.2 a otto chilometri da Fosciandora, in provincia di Lucca, a una profondità di 13 chilometri, a poca distanza dalla prima. Nessun danno è stato segnalato al momento. Queste scosse sono state percepite anche a Firenze.

L’Ingv in Italia registra 16mila scosse all’anno in media, nel 2016 se ne contarono 100mila. Pochi eventi superano in genere la magnitudine 4. “In genere – ha spiegato il sismologo Carlo Meletti a Repubblica – due terremoti sono legati se avvengono a poche decine di chilometri di distanza. Non è possibile che lo siano, se in mezzo ci sono centinaia di chilometri. In Emilia ad esempio avevamo registrato due scosse in due faglie quasi contigue, la prima il 20 maggio 2012 e la seconda il 29 maggio, di magnitudo simili. Quel fenomeno è stato molto studiato. Ipotizziamo che l’energia liberata dalla prima scossa si sia accumulata sulla faglia contigua, accelerandone la rottura”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

New Town, Old Town. Report Rai PUNTATA DEL 18/04/2022 Chiara De Luca

Progetto c.a.s.e a L'Aquila, a distanza di 13 anni in che stato sono? ​​​​​​

Il 29 settembre 2009, a L’Aquila viene inaugurata la prima new town, del progetto c.a.s.e 19 insediamenti antisismici, Sostenibili e Ecocompatibili costruiti nell’immediato post sisma che colpì l’Abruzzo il 6 aprile 2009. Il progetto, che comprende circa 4400 alloggi arredati e accessoriati, fu completato in soli 100 giorni. A distanza di 13 anni in che stato sono?

NEW TOWN, OLD TOWN di Chiara De Luca Immagini di Alfredo Farina e Tommaso Javidi

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO 4 milioni di profughi. 100mila sono arrivati nel nostro paese e si è posto anche il problema della loro ospitalità. Ecco, noi una proposta stasera ce l’abbiamo e toglierebbe anche da un brutto imbarazzo che durerebbe da 13 anni, da quando cioè sono stati inaugurati degli alloggi in pompa magna. La nostra Chiara De luca

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il 29 settembre 2009, a L’Aquila viene inaugurata la prima new town, del progetto C.A.S.E.: 19 insediamenti antisismici, sostenibili e ecocompatibili costruiti nell’immediato post sisma che colpì l’Abruzzo il 6 aprile 2009. Furono voluti dal governo Berlusconi e dall’allora dipartimento di protezione civile guidato da Guido Bertolaso, per dare un tetto a circa 15mila sfollati. Il progetto che comprende circa 4400 mila alloggi arredati e accessoriati fu completato in soli 100 giorni e costò oltre 800 milioni di euro provenienti da fondi europei, pubblici e dalle donazioni dei cittadini. A distanza di 13 anni una parte di questi appartamenti è ridotta in queste condizioni

ANTONIO PERROTTI - RAPPRESENTANTE ASSOCIAZIONE COMITATUS AQUILANUS Ma penso che al momento saranno abitate un 40 per cento. Molti con i lavori sono rientrati il deterioramento, la mancata manutenzione

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per fortuna molti aquilani sono riusciti a rientrare nelle loro case e oggi dei 4.400 alloggi 2.900 sono abitati, 4 sono stati affidati a famiglie afghane. 50 posti letto invece sono stati assegnati ai profughi ucraini

PERSONA 1 Io vengo dall’Ucraina, regione di Donetsk. Sono nella nazionale ucraina di ciclismo. Siamo venuti un mese fa e ci hanno fornito alloggio e cibo, aspettiamo la fine di questa guerra

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Tra gli ucraini ospitati nelle new town c’è anche la nazionale di ciclismo

PERSONA 2 Quando è cominciato il conflitto noi eravamo in Turchia. Era impossibile tornare a casa, hanno annullato tutti i biglietti per l’Ucraina

CHIARA DE LUCA La tua famiglia è ancora in Ucraina? Stai cercando un modo per riportarli da te?

PERSONA 2 Non è possibile perché ho 3 figli maschi e due hanno più di 18 anni, quando hai più di 18 anni non è possibile uscire dall’Ucraina. Perché devono prendere le pistole per la guerra

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Chi potrebbe ricongiungersi con la sua famiglia invece è l’allenatore della nazionale di ciclismo

CHIARA DE LUCA La tua famiglia è lì?

PERSONA 3 No, è in Germania. Per ora è in Germania

CHIARA DE LUCA Sono riusciti a scappare, non possono venire qui?

PERSONA 3 Non c’è posto per ora

CHIARA DE LUCA Chi è che vi ha detto che non c’è posto?

PERSONA 4 Il comune de L’Aquila

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, il posto ci sarebbe, circa 1.500 appartamenti al momento sono vuoti solo che o sono inagibili o lasciati nell’incuria più totale

CHIARA DE LUCA Son sul groppone del comune de L’Aquila

ANTONIO PERROTTI - RAPPRESENTANTE ASSOCIAZIONE COMITATUS AQUILANUS Esattamente, si sta cercando in maniera disperata di riciclarli

PIERLUIGI BIONDI - SINDACO DELL’AQUILA Una parte importante, circa 500, sono stati messi a disposizione del demanio e corpo dei nazionali dei vigili del fuoco per far nascere a L’Aquila la prima scuola di formazione del corpo

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO mentre si cerca un modo per riutilizzarli, quelli non abitati sono lasciati all’incuria totale.

CHIARA DE LUCA Chi è che ha la responsabilità

PIERLUIGI BIONDI - SINDACO DELL’AQUILA La responsabilità e generalizzata innanzitutto di chi fa le infrazioni e ruba dentro le case, perché un reato rubato. Come se le rubano la macchina la colpa è la sua perché magari non ha messo l’allarme o il blocco sterzo, non è colpa di nessuno è colpa di una situazione emergenziale CHIARA DE LUCA Ma perché attualmente alcuni di questi edifici sono in questo stato degradato

PIERLUIGI BIONDI - SINDACO DELL’AQUILA Sono in questo stato perché noi interveniamo mentre interveniamo da un’altra parte si degrada un altro edifico, però non è uno scenario apocalittico

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Lo scenario è questo

GIUSTINO MASCIOCCO - CONSIGLIERE COMUNALE È proprio un abbandono totale, non si è cercato di trovare una soluzione che poteva essere anche quelle di abbattere le piastre che non potevano essere manutenute e non si potevano in qualche modo gestire.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, la manutenzione straordinaria è stata garantita dallo Stato. Dal 2010 al 2014 con un finanziamento di 10 milioni di euro. E poi dal 2015 il Comune ha ricevo dal Cipe altri fondi per la manutenzione per un totale di 11 milioni euro.

CHIARA DE LUCA A guardarlo non si direbbe che c’è una manutenzione

GIUSTINO MASCIOCCO - CONSIGLIERE COMUNALE bisognerebbe interpellare la corte dei conti per vedere se quelle somme sono state spese bene o male

CHIARA DE LUCA Come vengono utilizzati questi fondi?

PIERLUIGI BIONDI - SINDACO DELL’AQUILA Vengono utilizzati per le convenzioni della gestione del calore, per la gestione delle pulizie, per la gestione degli ascensori, e poi per interventi di manutenzione

CHIARA DE LUCA La sua amministrazione come intende risolvere questa problematica?

PIERLUIGI BIONDI - SINDACO DELL’AQUILA La parte degradata stiamo attenendo i soldi per riqualificarli o per demolirli con un progetto che si chiama SCU sede del servizio che è stato finanziato con 60 milioni di euro dal fondo complementare al PNRR dedicato alle aree sisma.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Quanto ci sono costate queste case per poi vederle ridotte così dopo 13 anni? Avrebbero dovuto essere antisismiche e sono con le impalcature a sorreggere i balconi. Nel 2009 quando sono state costruite, più di 800 milioni di euro. Poi nel 2010 la Protezione Civile ha affidato alla Manutencoop 10 milioni di euro per la manutenzione straordinaria. Dal 2015 il Cipe sempre per la manutenzione, altri 11 milioni di euro al Comune che ora potrà anche godere, dice il sindaco che gestisce il patrimonio, di 60 milioni di euro che arrivano dal Pnrr. Questo perché sono destinati alla sede anche del Servizio Civile Universale. Il sindaco dice “dobbiamo decidere se questi appartamenti li dobbiamo abbattere definitivamente o riqualificare”. Che però, voglio sottolineare, non è proprio esattamente la stessa cosa. Ma è il modo giusto questo per spendere i soldi del Pnrr? Che cosa abbiamo pagato in tutti questi anni? Sostanzialmente una malagestione, sicuramente il peccato originale.

ILARIA BOSI, ITALO CARMIGNANI per il Messaggero il 5 gennaio 2022. Norme affastellate una sull'altra, quasi fossero frasi di un rebus e non indicazioni decisive, due diverse gestioni straordinarie senza quasi mai un'interazione e tanta, tantissima burocrazia. Vista dalla Corte dei Conti la ricostruzione del dopo sisma somiglia a una torre di Babele in cui le voci s' inseguono senza trovare quasi mai un tono unico. 

Perché secondo i giudici contabili a causare lungaggini e lentezze è proprio l'assenza di un'organizzazione preposta alla gestione della ricostruzione di quel sisma che nel 2016 devastò il Centro Italia e che fino al 2021 non ha trovato ancora una pace ricostruttiva. Lungaggini che hanno ingessato la macchina del post sisma 2016, determinando una voragine tra la fase operativa dell'emergenza e l'avvio del processo di ricostruzione. Cinque anni abbondanti, che tanto hanno pesato sulla rinascita di quelle aree interne già interessate da un progressivo spopolamento, una fuga quasi inarrestabile.

LA RELAZIONE È a tratti impietoso, ma fornisce anche preziosi suggerimenti per la gestione delle future calamità, il quadro emerso dall'indagine svolta dalla Corte dei Conti (Sezione centrale controllo e gestione delle Amministrazioni dello Stato). Più di 250 pagine, in cui il presidente Carlo Chiappinelli e il consigliere Carmela Mirabella fotografano quanto accaduto nella gestione delle fasi successive al sisma che nel 2016 ha messo in ginocchio Lazio, Marche, Umbria e Abruzzo. Un'analisi lucida e molto articolata, in cui si osservano le criticità che hanno riguardato la complessa struttura commissariale, le procedure utilizzate per la ricostruzione degli edifici privati e degli immobili pubblici, l'attività posta in essere dal 2016 ad oggi.

IL SUGGERIMENTO «Fra le cause del ritardo nell'attuazione degli interventi previsti in seguito al sisma del 2016 osserva la Corte dei Conti in uno dei passaggi cruciali - vi è anche la mancanza di un'organizzazione preposta alla gestione della ricostruzione, a fronte di strutture già operative per la gestione delle emergenze (Protezione civile). Vista la natura del territorio del nostro Paese, più volte devastato dagli eventi sismici, vi è la necessità di uno studio per disciplinare, anche con opportuni interventi legislativi, l'organizzazione della fase successiva all'emergenza, mediante modelli idonei a velocizzare l'avvio delle fasi di ricostruzione». Il sisma del 2016 è stato evidenziato - ha causato gravissimi danni infrastrutturali agli edifici pubblici e privati, al patrimonio culturale, alla rete dei servizi essenziali e alle attività economiche delle quattro regioni interessate, comportando una gestione straordinaria (distinta da quella emergenziale) delle attività volte alla ricostruzione, affidate ad un Commissario straordinario del Governo oltre a quattro vice-Commissari, individuati nei Presidenti di Regione. 

I DATI «La stima dei danni, inizialmente quantificati in 16,5 miliardi di euro, dei quali 2,8 destinati all'emergenza, è stata sottoposta ad aggiornamento, in via di ultimazione, solo di recente. Dal 2016 al 2020, per le attività della gestione commissariale sono stati previsti 4,118 miliardi di euro, dei quali 2,568 trasferiti alla stessa». La verifica dei magistrati contabili ha accertato il limitato utilizzo delle risorse disponibili, con un'inversione di tendenza a partire dalla seconda metà del 2020, a seguito delle numerose modifiche organizzative e procedurali adottate nell'ambito delle misure di semplificazione e accelerazione. Il finale è un viatico per Giovanni Legnini, l'attuale commissario straordinario che rilancia: «Si tratta della prima analisi approfondita sulla gestione pubblica dei processi di ricostruzione post sisma. Perciò ringrazio la Corte dei Conti, condivido l'invito per un modello gestionale più efficace». Almeno fino alla prossima pagella.

·        Ed Omissioni…

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 25 novembre 2022.

Era il 18 gennaio 2017, in Abruzzo nevicava forte da giorni, ci fu anche una scossa di terremoto. Sulla carta tutto doveva essere a posto: in Prefettura, a leggere i documenti inviati al ministero dell'Interno e alla presidenza del Consiglio, già da quarantotto ore era attiva una sala operativa. 

Peccato che non fosse affatto così. La sala operativa arriverà troppo tardi. «Le indagini hanno dimostrato - spiega il pm di Pescara, Andrea Papalia - in modo chiaro la falsità delle circostanze rappresentate in queste note, finalizzate evidentemente ad attribuire alla Prefettura una apparente tempestività e capacità di intervento nell'emergenza».

E il cardine di una ricostruzione giunta ai penultimi passi nel tribunale di Pescara. Ieri il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, ha voluto concludere personalmente la requisitoria contro l'ex prefetto Francesco Provolo, l'ex presidente della Provincia Antonio Di Marco, il sindaco Ilario Lacchetta, più tanti funzionari In tutto sono 25 gli imputati. Ma è su Provolo che ricadrebbe la responsabilità maggiore, tanto che per lui la procura chiede una condanna a 12 anni (8 per disastro colposo e 4 per depistaggio). Chiedono 11 anni per Lacchetta. E giù a scendere.

«Sono sgomento - replica il difensore di Provolo, l'avvocato Giandomenico Caiazza - perché si parte da una richiesta incredibile per un presunto reato colposo. Dimostreremo che il prefetto non ha responsabilità in queste morti, ma è il risultato di un processo a fortissima attenzione mediatica». Per Rigopiano, secondo la procura sono tanti i responsabili di un «collasso di sistema».

Anzi «un fallimento dell'intero sistema». Già, perché non si salva davvero nessuno a rileggere quella catastrofe. Non i dirigenti comunali e provinciali nella gestione della viabilità sconvolta. Non chi diede i permessi urbanistici più antichi: hotel era stato realizzato in una zona notoriamente esposta a valanghe. Non la Regione Abruzzo che per 25 anni tralascia la pur vitale Carta valanghe. «Evidentemente la politica valuta altre priorità».

Bellelli sottolinea che nel comune di Farindola fino al 2005 si riuniva regolarmente la commissione Valanghe; dopo non più, guardacaso dopo che l'hotel tra i monti viene ristrutturato, si arricchisce di una Spa, diventa un'attrazione di lusso. Il danno agli interessi economici sarebbe stato grave e infatti Bel lelli parla esplicitamente di «clientelismo». 

Fu gravemente insufficiente, secondo la ricostruzione dei pm, soprattutto il comportamento della Prefettura. E i depistaggi che seguirono, servivano a coprire gli errori. «Non ci sono grandi misteri da svelare. Parliamo di un prefetto di provincia che lascia cadere nel vuoto una richiesta di aiuto». Che le carte siano state «aggiustate» a posteriori, non stupisce più di tanto il procuratore di Pescara. «L'infedeltà dei servitori dello Stato che depistano e sviano, purtroppo, fa parte della triste ed endemica storia di questo Paese. Nascondere la telefonata del povero Gabriele D'Angelo... Far credere che la Sala operativa sia stata istituita dal 16 gennaio. Alcuni esponenti dello Stato hanno tentato di fuggire dalle proprie responsabilità».

"Rigopiano, tragedia frutto di malgoverno e clientele". Chiesti 12 anni per l'ex prefetto di Pescara e 11 per il sindaco di Farindola: "Richieste d'aiuto ignorate". Patricia Tagliaferri il 25 Novembre 2022 su Il Giornale.

C'è un depistaggio dietro alla tragedia dell'hotel di Rigopiano, di Farindola, in Abruzzo, travolto il 18 gennaio del 2017 da una valanga che provocò 29 morti. Ma nessun mistero da svelare, assicura il procuratore Giuseppe Bellelli nella requisitoria andata avanti per due giorni che si è conclusa ieri con richieste di condanne per oltre 150 anni. Solo «l'inefficienza grave della Prefettura» di Pescara, che tardò a coordinare i soccorsi aprendo sale operative solo sulla carta per attribuirsi capacità di intervento nell'emergenza in realtà mai avute e che hanno invece dimostrato il «fallimento di un intero sistema».

«Omissioni sistemiche» che hanno trasformato in una trappola il resort, con 40 persone dentro, sommerso da una massa di 120 tonnellate di neve che si staccò dal Gran Sasso dopo la massiccia ondata di nevicate che in quei giorni si abbatterono su gran parte dell'Italia. Una strage le cui immagini impressionanti sono state proiettate in aula. «La vicenda è il frutto di gravi omissioni, da parte di Comune, Provincia, Regione e Prefettura, e responsabilità da parte di una classe dirigente protagonista di malgoverno e impegnata a soddisfare interessi clientelari invece che quelli dei cittadini», ha stigmatizzato il pm Anna Benigni. «L'infedeltà dei servitori dello Stato che depistano e sviano, purtroppo, fa parte della triste ed endemica storia di questo Paese», ha detto il procuratore capo ripercorrendo la vicenda del depistaggio che vede imputati tra gli altri l'ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo, per il quale è stata sollecitata la pena più alta: 12 anni. «Non c'è un anarchico che cade dal balcone della questura, non ci sono tracce scomparse dal cielo di Ustica, non c'è un'agenda rossa trafugata. Parliamo di un prefetto di provincia che lascia cadere nel vuoto una richiesta di aiuto», è uno dei passaggi più significativi della requisitoria. Con Provolo rischiano condanne severe altri rappresentanti delle istituzioni e numerosi funzionari. Anche il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, per il quale sono stati chiesti 11 anni e 4 mesi.

Bellelli ha parlato della telefonata tenuta «nascosta» di Gabriele D'Angelo, il cameriere dell'hotel morto dopo aver provato in ogni modo a scongiurare la tragedia e del tentativo di far credere che la sala operativa fosse stata istituita dal 16 gennaio. Depistaggi, appunto, «condotte con cui alcuni esponenti dello Stato hanno tentato di fuggire dalle proprie responsabilità». Il procuratore ha poi stigmatizzato il fatto che in 25 anni non si è riusciti a realizzare una Carta valanghe e che dal 2005 non si è più riunita la commissione valanghe del Comune di Farindola. «Evidentemente la politica valuta altre priorità», ha detto. Durante le indagini sono state rintracciate due note prefettizie che, in seguito all'allerta meteo, documentavano falsamente l'istituzione fin dal 16 gennaio della sala operativa provinciale di Protezione civile e del Centro coordinamento soccorsi, mentre l'effettivo insediamento si verificherà solo la mattina del 18 gennaio. Troppo tardi per salvare gli ospiti dell'hotel. «Oggi riassaporiamo la giustizia, sperando che il giudice confermi le richieste», ha commentato Gianluca Tanda, portavoce dei familiari delle vittime. Soddisfatta del lavoro della Procura, Mariangela Di Giorgio, mamma di Ilaria Di Biase, una delle giovani vittime, «anche se nessuno ci può ridare nostra figlia, il suo sorriso e i suoi progetti». L'avvocato Nicola Pisani, legale di parte civile per la Regione Abruzzo, ha definito le richieste «significative», ma non per questo «fondate».

Distorsione della funzione giudiziaria. Processo Rigopiano, il dolore oltre la giustizia: in aula proiettati i volti delle 29 vittime. Angela Stella su Il Riformista il 25 Novembre 2022

Dopo la mostra al Tribunale di Livorno con le foto di uomini condannati per femminicidio con tanto di nome, città, anno, arma del delitto e pure il nome della vittima, dopo che a Bolzano, nel processo a carico di Benno Neumair, la pm ha chiesto, all’inizio della propria requisitoria, un minuto di silenzio – tanto era il tempo che a suo dire l’imputato avrebbe impiegato per strangolare il padre –, ieri la distorsione della funzione giudiziaria è andata in scena a Pescara, nel processo per la tragedia di Rigopiano.

Come tutti purtroppo ricordano il 18 gennaio 2017 una valanga investì un hotel provocando la morte di 29 persone. Per la prima volta, ieri, in aula, dopo oltre due anni di processo, sono stati fatti tutti i nomi delle vittime e, addirittura, mostrati anche i loro volti. È stato, riferisce l’Ansa, il sostituto procuratore Anna Benigni durante la sua requisitoria a colmare la lacuna, causata dalla formula processuale del rito abbreviato, durante il quale si saltano alcuni passaggi e non viene ricostruita l’intera vicenda, lasciandola quindi alle conclusioni dell’accusa. “Il dolore che tutti hanno provato di fronte a questa tragedia è stato il motore di questo ufficio, e a questo dolore vogliamo dare una risposta”: ha detto la Benigni. Ma è davvero questa la ragione che deve spingere a chiedere delle condanne? Tra i numerosi parenti delle 29 vittime c’è stata commozione durante “l’appello” e qualche lacrima, “è come se ci fossimo riappropriati del processo, ci ha molto colpito il gesto non scontato del pm, ci ha fatto piacere in qualche modo”, hanno dichiarato a freddo i parenti che come sempre hanno partecipato alle udienze con la pettorina bianca che ricorda a sua volta i nomi di tutti e che in ognuna porta stampato il volto del parente deceduto.

Ma passiamo ai veri protagonisti del processo penale: gli imputati. Secondo l’accusa, i principali responsabili sono il Comune di Farindola e la Provincia di Pescara, e si aggiunge il comportamento della Prefettura e le mancanze amministrative gravi della Regione Abruzzo. La pena più alta, 12 anni, è stata chiesta per l’ex Prefetto di Pescara, Francesco Provolo, mentre 11 anni e 4 mesi, sono stati chiesti per il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, e 6 anni per l’ex presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco. L’accusa rappresentata dal procuratore capo, Giuseppe Bellelli e dai sostituti procuratori Anna Benigni e Andrea Papalia, ha puntato il dito sulle responsabilità dei dirigenti comunali e provinciali nella gestione dell’emergenza e della viabilità sconvolta per il grave maltempo di quei giorni, e sui permessi urbanistici: l’hotel era stato realizzato in una zona notoriamente esposta a valanghe e di conseguenza avrebbe dovuto essere chiuso e la strada sgomberata. È stata scandagliata anche l’attività della Regione Abruzzo per la mancata realizzazione e approvazione della Carta Valanghe: pesanti le richieste per i dirigenti regionali in quello che è stato definito “un collasso di sistema”, anzi “un fallimento dell’intero sistema”.

Insufficiente, secondo la ricostruzione dei pm, il comportamento della Prefettura per la mancata tempestività ed efficacia nell’emergenza, tanto che è proprio per l’ex prefetto Provolo la richiesta della condanna più severa, appesantita dal filone del cosiddetto “depistaggio”, che in aula il capo della Procura Bellelli ha liquidato sottolineando che “non ci sono grandi misteri oggi da svelare. C’era – ha proseguito Bellelli – l’inefficienza grave della Prefettura, non ci sono grandi depistaggi italiani: non c’è un anarchico che cade dal balcone della Questura, non ci sono tracce scomparse dal cielo di Ustica, non c’è una agenda rossa trafugata. Parliamo di un prefetto di provincia che lascia cadere nel vuoto una richiesta di aiuto”. Secondo la Procura, ci sono tante responsabilità diffuse: quelle dei dirigenti comunali, provinciali e regionali, per la viabilità e la carta valanghe, per i permessi, per gli ex sindaci di Farindola, per i tecnici che non certificarono il vero e anche per la società proprietaria di Rigopiano. Per il gestore Bruno Di Tommaso, infatti, la richiesta è stata di 7 anni e 8 mesi. Angela Stella

Estratto dell’articolo di Stefano Buda per “Il Messaggero” il 27 Ottobre 2022.

«Ventinove morti non scioperano, ma vogliono giustizia». È il messaggio che compare su uno degli striscioni esposti dai familiari delle vittime, ieri mattina, davanti al tribunale di Pescara, prima dell'ennesima udienza di rinvio del processo sul disastro dell'Hotel Rigopiano. Tra scioperi, problemi tecnici ed emergenza Covid, si tratta del quindicesimo slittamento. «Siamo delusi e infuriati dice Giampaolo Matrone, il pasticcere di Monterotondo che è sopravvissuto alla tragedia nella quale ha perso la moglie Valentina Cicioni Sono passati sei anni e il processo non è ancora iniziato, tanto che iniziamo a chiederci se ci sia davvero interesse affinché questo processo venga celebrato. È una vergogna». 

A far saltare di nuovo l'udienza, questa volta, è stato lo sciopero degli avvocati del foro di Avezzano, che protestano contro la carenza di personale amministrativo negli uffici giudiziari locali: due difensori degli imputati sono marsicani e, aderendo alla mobilitazione, hanno costretto il giudice a rinviare tutto a novembre. […]

Paola Ferretti ha raggiunto Pescara, appositamente per il processo, dalla provincia di Macerata. È il suo modo di onorare la memoria del figlio Emanuele Bonifazi, receptionist del resort, morto sotto le macerie all'età di 31 anni. «Proviamo tanta amarezza e ciò che sta accadendo è atroce spiega lei perché continuiamo a invecchiare e giorno dopo giorno cresce in noi il terrore di morire senza riuscire a dare giustizia ai nostri angeli». […] 

Rincara la dose il presidente del Comitato vittime di Rigopiano, il romano Gianluca Tanda, che nell'hotel abruzzese ha perso il fratello Marco di 25 anni. «È il terzo sciopero che va ad interferire con il processo e inizia a sembrarci davvero strano che queste astensioni vengano proclamate ogni volta che c'è un'udienza su Rigopiano osserva Tanda Non siamo i soli a ritenere che il processo sul caso Rigopiano sia uno dei più importanti che si stanno tenendo in questo momento nel Paese e dunque crediamo che debba andare avanti e che meriti la massima attenzione». […]

Su un altro striscione compare un vero e proprio d'atto d'accusa. «L'incapacità, l'incompetenza e il menefreghismo hanno ucciso i nostri angeli recita la scritta - La giustizia italiana sta uccidendo noi familiari». A pochi metri di distanza tre persone reggono un telo bianco con le immagini delle 29 vittime: 29 volti, sereni e sorridenti, di persone come tante, strappate alle proprie vite e ancora in attesa di verità e giustizia.

In aula è il procuratore capo di Pescara, Giuseppe Bellelli, a farsi interprete del malessere delle parti civili, invocando «impegno, da parte di ciascuno, affinché il processo cammini con maggiore speditezza». Anche il gup Gianluca Sarandrea, che ha annusato il clima di rabbia e disappunto, tenta di rassicurare i familiari delle vittime. «Nelle prossime due udienze andremo avanti ad oltranza con l'esame dei periti sono le sue parole Poi avrà inizio la discussione e qualora ci rendessimo conto che è necessario intensificare il calendario delle udienze, valuteremo insieme se aggiungerne altre».

Si tornerà in aula, dunque, il 9 novembre, per una tre giorni che si annuncia fittissima. Tutti gli imputati hanno chiesto e ottenuto il rito abbreviato e ciò potrà certamente contribuire ad accorciare i tempi del processo. Il confronto con il pool di super esperti del Politecnico di Milano, che hanno ricevuto l'incarico dal giudice, segnerà un passaggio di particolare importanza: spetterà infatti a loro fornire chiarimenti, per certi versi dirimenti, sulle ragioni del disastro e sulle eventuali responsabilità degli imputati. In particolare, ci sarà da sciogliere il nodo del nesso di causalità in riferimento all'eventuale incidenza delle scosse di terremoto sulla valanga.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 13 ottobre 2022.

Un giudice ha sentenziato che il risarcimento ai familiari di tre dei ventiquattro condomini morti nel terremoto dell'Aquila (2009) va decurtato del trenta per cento per concorso di colpa. La colpa dei tre è di essere stati così incauti da non fuggire per tempo, e non vorrei aggiungere il mio sdegno allo sdegno ampio e diffuso. 

Piuttosto mi sbalordiscono sempre i calcoli in percentili di colpe e concorsi, in un incidente d'auto come in un terremoto: la burocratizzazione e la computazione dell'immane sarà senz'altro indispensabile, ma mi rimane inconcepibile.

All'Aquila fui ricevuto da un giornalista del Centro, Giustino Parisse. A Onna salimmo sul cumulo di macerie che era stata casa sua, metà crollata e metà ancora in piedi. Mi indicò, quasi intatta e squadernata, la camera da letto sua e di sua moglie, e mi indicò due punti, all'incirca dove si trovavano le due camere da letto polverizzate. Poi andammo nel piccolo prefabbricato dove abitava. 

Mi preparò il caffè, ci sedemmo uno di fronte all'altro e mi raccontò dei suoi figli, un maschio e una femmina. Poche ore prima della scossa finale, la figlia lo aveva implorato: papà, andiamocene da qui. Stai tranquilla, non succede nulla, rispose lui. Poi la raggiunsi in camera - continuò - e lei in lacrime disse che saremmo tutti morti sotto quella casa.

Tutti no, disse Giustino, ci morirono sotto lei e suo fratello che dormivano nella metà collassata. Raccontava e piangeva e io piangevo con lui, e ci sarebbe voluto un grande Dio, altro che un giudice, per discernere in quel pianto la colpa, il senso di colpa, il dolore e l'immenso amore.

Estratto dall'articolo di Angelo De Nicola e Marcello Ianni per “Il Messaggero” il 12 ottobre 2022.  

È una colpa, per le vittime sotto le macerie del crollo, non essere usciti di casa dopo due scosse di terremoto molto forti che seguivano uno sciame sismico che durava da mesi. E’ destinata a far discutere la sentenza in sede civile del Tribunale dell’Aquila, riferita al crollo di uno stabile in centro del capoluogo abruzzese nel sisma del 6 aprile 2009 in cui morirono 24 persone sulle 309 totali. 

Sì perché la sentenza choc va a toccare il tasto più delicato delle inchieste e dei processi che si sono susseguiti in questi tredici anni dal 2009: le rassicurazioni («Lo sciame sismico? Beviamoci su un bel bicchiere di Montepulciano» disse Bernardo De Bernardinis, allora vice capo della Protezione civile) alla popolazione fatte ai massimi livelli.

«E’ fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime - si legge a pagina 16 della sentenza firmata dal giudice Monica Croci del Tribunale civile dell’Aquila in composizione monocratica -, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile. Concorso che può stimarsi nel 30 per cento», ovvero la misura di cui verrà decurtato il risarcimento danni stabilito. 

“Condotta incauta”, quindi. Una visione diametralmente opposta allo «state tranquilli, lo sciame sta liberando energia» che venne dagli organi dello Stato nei giorni a ridosso della grande scossa (6.3 della scala Richter). Il 31 marzo 2009, cinque giorni prima del sisma, si riunì all’Aquila la “Commissione Grandi Rischi” per fare il punto sullo “sciame” in atto almeno da novembre. Il tono rassicurante del verbale di quella riunione venne accolto come una promessa che nulla di grave sarebbe accaduto.

E in tal senso la sentenza di primo grado del “Processo alla Grandi Rischi” condannò a sei anni i sette componenti di quella Commissione, appunto «per aver rassicurato». Una sentenza clamorosa che fece il giro del mondo. Poi, in Appello quel giudizio venne del tutto ribaltato: assolti i membri della Commissione “perché il fatto non sussiste”, a eccezione di De Bernardinis, condannato a due anni. […] 

La sentenza del Tribunale civile riguarda solo alcune delle 24 vittime. Dopo la tragedia, gli eredi dei deceduti, avendo dalla loro perizie che attestavano irregolarità in fase di realizzazione dell’immobile e una «grave negligenza del Genio civile nello svolgimento del proprio compito di vigilanza sull’osservanza delle norme poste dalla legge vigente, in tutte le fasi in cui detta vigilanza era prevista», avevano citato in giudizio (per milioni di euro) sia i ministeri dell’Interno e delle Infrastrutture e Trasporti per le responsabilità della Prefettura e del Genio Civile nei mancati controlli durante la costruzione; sia il Comune dell’Aquila per responsabilità analoghe e le eredi del costruttore (nel frattempo deceduto).

In particolare il Tribunale, ha riconosciuto una corresponsabilità delle vittime ricorrenti pari al 30% perché ha ritenuto siano stati imprudenti a non uscire dopo la seconda scossa (in quella tarda serata si verificarono due forti scosse: una verso le 23 e una verso l’una di notte, prima di quella tragica delle 3.32); ha condannato i Ministeri e le eredi del costruttore, mentre ha respinto le domande nei confronti del Comune. […]

Estratto dell’articolo di Stefano Dascoli e Marcello Ianni per “il Messaggero” il 14 ottobre 2022.

«Mancando di conoscenze tecnico-specialistiche, la popolazione non aveva alcun elemento per poter ritenere che a una prima scossa ne sarebbe potuta seguire una successiva più potente a così breve distanza temporale». E, dunque, le due giovani studentesse Maria Urbano, 20 anni e Carmen Romano, 21, morte nel crollo del condominio di via Campo di Fossa 6B, non avevano alcuna colpa nell'aver deciso di restare in casa nella drammatica notte del sisma dell'Aquila, il 6 aprile 2009.

Lo ha stabilito, nell'aprile del 2021, il giudice del Tribunale del capoluogo abruzzese, Emanuele Petronio, in una sentenza (pende il giudizio d'Appello) diametralmente opposta a quella della sua collega Monica Croci che, il 9 ottobre scorso, in una causa civile del tutto simile (intentata da familiari diversi), che riguarda il crollo dello stesso palazzo, ha invece sancito che le vittime hanno una colpa - in concorso -, fissata a una percentuale del 30 per cento, per non essere uscite di casa dopo le due scosse (3.9 e 3.5) che hanno preceduto quella principale delle 3.32, che oggi l'Ingv quantifica con magnitudo Richter 6.1.

Un verdetto, quello recente, che ha indignato gli aquilani, che hanno deciso di presidiare il Parco della Memoria, costruito per onorare le 309 vittime del 2009, con una manifestazione spontanea. Stesso fatto, giustizie differenti. 

Eppure un precedente c'era, evidentemente ignorato o riletto in chiave differente. Ed è un precedente clamoroso perché riguarda lo stesso identico condominio, quello in via Campo di Fossa 6B, il cui crollo ha prodotto il più alto numero di vittime quella notte, ben 27, tra cui molti giovani. Tra questi Maria Urbano e Carmen Romano, appunto. Amiche, si erano trasferite dalla Campania all'Aquila per studiare. [...]

I familiari delle due ragazze, nel chiedere il risarcimento, hanno citato la locataria dell'appartamento e il condominio (difeso dall'avvocato Luciano Dell'Orso).

Quest' ultimo ha poi chiamato in causa gli enti, in particolare il ministero degli Interni (a cui fanno capo Prefettura e Regione) e quello delle Infrastrutture e dei Trasporti (a cui rispondono Genio civile e Provincia).

In questo aspetto le due cause differiscono. In quella che ha scatenato le polemiche (nella quale sono confluiti quattro procedimenti simili) i familiari hanno citato i ministeri, i quali a loro volta hanno chiamato in causa il condominio. Anche nel 2021 il giudice, a seguito delle perizie dei consulenti tecnici, era giunto a sentenziare «le condotte difformi dalle prescrizioni normative in capo a ognuna delle figure professionali coinvolte nella realizzazione dell'edificio», condotte «in nesso eziologico» con il crollo.

Insomma, quel condominio presentava gravi carenze strutturali, dal progetto alla costruzione. E su questo il giudice Petronio si è concentrato, liquidando invece l'ipotesi del concorso colposo delle ragazze, per non essere uscite dall'edificio dopo le prime scosse, come «condotta che non può ritenersi violativa di alcuna precisa regola cautelare»: la popolazione non aveva elementi tecnici e conoscenze per decidere.

Ragionamento che, qualora fosse stato noto, non deve aver convinto la collega Croci che, invece, ha ritenuto «fondata l'eccezione del concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire - così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall'edificio al verificarsi della scossa - nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6, concorso che può stimarsi nella misura del 30 per cento, con conseguente proporzionale riduzione del credito risarcitorio». Insomma, parzialmente colpevoli della loro stessa morte, con tanto di taglio dei risarcimenti ai familiari. [...] 

(ANSA il 12 ottobre 2022) - "E' una sentenza che ci ha meravigliato: ma da dove è venuto questo concorso di colpa? Persino la Cassazione ha confermato la condanna per uno dei componente della Commissione Grandi Rischi". E' il commento all'Ansa dell'avvocato Maria Grazia Piccinini, madre di Ilaria Rambaldi, 25enne studentessa morta il 6 aprile 2009 all'Aquila nel crollo della casa di Via Campo di Fossa. "Come si può oggi dire che i ragazzi dovessero stare fuori quando tutti ricordano certe rassicurazioni? - prosegue la mamma di Ilaria - Sconcerta poi che questo giudice che ha già fatto sentenze di risarcimento per il sisma si ricordi di questa cosa solo ora".

"La storia è proprio l'opposto, e cioè che questi ragazzi andarono a dormire alle due di notte perchè si erano sentiti dire che più 'scossette' c'erano, più energia si scaricava - prosegue l'avvocato Piccinini - la verità è che furono rassicurati". Questa sentenza verrà impugnata in Appello dalla famiglia, conferma la mamma-legale di Ilaria. Che ha poi ricordato come dopo le vicende della prima sentenza sulla Grandi Rischi, nella quale ci furono tanti condannati, la vicenda si è esaurita legalmente con la Cassazione che ha condannato nel 2016 a 2 anni di reclusione per omicidio colposo e lesioni dell'ex vice capo dipartimento della Protezione civile, Bernardo De Bernardinis.

Nella sentenza della Cassazione si legge che "Esulava dai compiti istituzionali" della commissione Grandi rischi, alla vigilia del terremoto del 6 aprile 2009, "la gestione della comunicazione esterna, affidata in esclusiva all'organo titolare dei compiti di prevenzione", ovvero alla Protezione civile, mentre l'informazione scientifica non si può imprigionare in una "camicia di forza". Non solo: si è trattato di una "scorretta condotta informativa" e una "comunicazione di contenuto inopportunamente e scorrettamente tranquillizzante", ha finito per indurre "taluni destinatari all'abbandono di consuetudini di comportamento autoprotettivo rivelatosi fatale".

Da open.online.it il 12 ottobre 2022.

Il tribunale civile dell’Aquila del terremoto del 6 aprile 2009 dice che si è verificato un “concorso di colpa”. A pagina 16 della sentenza firmata dalla toga Monica Croci in comprensione monocratica si legge che «è fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile. Concorso che può stimarsi nel 30 per cento», ovvero la misura di cui verrà decurtato il risarcimento danni stabilito.

La sentenza si riferisce a una palazzina distrutta completamente dal sisma. L’aspetto penale era stato archiviato perché i presunti responsabili erano deceduti nel corso degli anni. Ora arriva il tribunale civile. Con una sentenza che farà discutere. 

Il Messaggero racconta oggi che dopo la tragedia gli eredi dei morti hanno presentato perizie che attestavano l’irregolarità delle costruzioni. Tra cui una «grave negligenza» del Genio Civile nella vigilanza sulle norme antisismiche. Per questo avevano citato in giudizio il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il Comune de L’Aquila. Oltre agli eredi dei costruttori.

Ma il Tribunale ha riconosciuto la corresponsabilità delle vittime ricorrenti pari al 30%. Perché ha ritenuto siano stati imprudenti a non uscire dopo la seconda scossa. Ovvero quella dell’una di notte, due ore prima di quella delle 3,32. Il giudice ha comunque condannato i ministeri e le eredi del costruttore. Ha invece respinto le domande nei confronti del Comune.

«Le vittime a L'Aquila sono morte anche per colpa loro». La sentenza choc e la rabbia dei parenti. Linda Di Benedetto su Panorama il 13/10/22. Secondo i giudici che hanno ridotto del 30% gli indennizzi le persone sarebbero colpevoli di non essere uscite dalle loro case dopo le prime scosse Vergona, rabbia, stupore, e tanto fastidio. È quello che oggi stanno vivendo centinaia di persone a L'Aquila dopo la sentenza choc per parte delle vittime del terremoto del 6 aprile 2009 dove persero la vita 309 persone. Per il tribunale civile infatti ci sarebbe stata una condotta incauta di alcune delle 24 persone rimaste uccise nel crollo di uno stabile nel centro del capoluogo abruzzese. Proprio così secondo la sentenza firmata dal giudice Monica Croci le vittime sono responsabili della loro morte per non essere uscite di casa dopo due scosse di terremoto molto forti. " E' fondata l'eccezione di concorso di colpa delle vittime - si legge nella sentenza - costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile”. Quindi sono morti anche per colpa loro. Il Tribunale ha riconosciuto così una corresponsabilità delle vittime ricorrenti pari al 30%. L’altra parte di responsabilità è ricaduta sul Ministero dell'Interno e delle Infrastrutture (15% ciascuno) e le eredi del costruttore (40% di responsabilità). Una sentenza che ha sconvolto i parenti delle vittime. «Sono basita è la prima volta che le vittime sono coinvolte in un concorso di colpa perché dormivano. C’è qualcuno che ha dimenticato di dare l’allarme e ci sono delle condanne per questo. Mia figlia è rimasta sotto le macerie dell’Aquila perché le era stato detto che più scosse ravvicinate scaricavano l’energia evitando così la scossa grande»-racconta commossa Maria grazia Piccinini madre di una delle vittime Ilaria Rambaldi morta nel palazzo insieme al fidanzato. Quando ha sentito sua figlia l’ultima volta? «Ho sentito mia figlia per l’ultima volta alle 22, mi disse che stava controllando dall’home page del suo computer Ncv (applicazione per i terremoti) che avevano installato anche gli altri studenti e ha notato quella sera dei movimenti sismici nelle Eolie. Era rassegnata a convivere con questa situazione. Mi raccontava che dicevano ai ragazzi di farsi un bicchiere di Montepulciano e andare a dormire. Aveva solo 25 anni e studiava ingegneria edile». Cosa ne pensa della sentenza?

«Il giudice che ha emesso questa sentenza si è occupato di tutti i risarcimenti delle vittime proprio perchè si è cercato di dare un’uniformità di giurisprudenza ma è stata la prima volta che si è verificato un fatto del genere e non se ne capisce il motivo. Mia figlia secondo questo Tribunale ha voluto la morte nonostante nessuno avesse dato l’allarme. È una sentenza infondata di una gravità incredibile perché oltre ad esserci una differenza di trattamento rispetto alle altre vittime è uno schiaffo sonoro alle vittime e alle famiglie». A entrare nel dettaglio della sentenza è l’avvocato Wania della Vigna che si è occupato in questi anni di diversi procedimenti delle vittime del terremoto all’Aquila Cosa può dirci della sentenza? «Ieri sera sono stata una delle prime persone a ricevere la sentenza. Io come avvocato sono rimasta basita rispetto a questa corresponsabilità delle vittime “colpevoli” di aver dormito nella loro casa durante le scosse di terremoto. Per me la sentenza sotto il profilo giuridico è illogica e contraddittoria per due motivi fondamentali». Quali sono? «Il primo motivo che dovrebbe escludere la responsabilità delle vittime è la condanna degli enti e del ministero che avevano l’obbligo giuridico di difendere l’incolumità di chi dormiva nella struttura e che assorbe qualsiasi altra condotta. Quindi il comportamento delle vittime non incide ne sul crollo ne sulla morte. Mentre il secondo aspetto fondamentale dal punto di vista giuridico è che non si rimprovera il comportamento avuto nella scossa delle 3,32 ma durante le scosse precedenti nella notte tra il 5 e il 6 aprile. Così facendo ci si dimentica quasi che il vice capo della protezione civile è stato condannato in via definitiva con sentenza in giudicato dalla cassazione penale, per aver indotto le vittime a stare in casa dando un messaggio rassicurante; ossia che le scosse erano positive e inefficaci a produrre un terremoto scatenante. Proprio per quel messaggio le vittime hanno abbandonato ogni condotta precauzionale e sono rimaste in casa». Duro anche il commento del Presidente del comitato delle vittime del terremoto dell’Aquila Vincenzo Vittorini

«È una sentenza che lascia sbalorditi. È stato davvero scandaloso emettere un giudizio di questo tipo, un ulteriore salto nel buio dopo tutti questi anni. È l’ennesima beffa nei confronti di quei ragazzi fuori sede che aveva scelto il loro futuro universitario. Mi sembra assurda questa decisione, soprattutto dopo che avevano ricevuto il messaggio tranquillizzante di stare in casa. È una sentenza che lascia l’amaro in bocca perché è senza giustizia e senza verità».

Da corriere.it il 14 Giugno 2022.

La valanga che il 18 gennaio del 2017 ha travolto l’hotel Rigopiano provocando la morte di 29 persone non fu innescata dalle scosse di terremoto che quel giorno interessarono l’Abruzzo. 

È quanto ha stabilito, come riferisce il Tgr Abruzzo, la sesta sezione del tribunale civile di Milano che ha respinto il ricorso di indennizzo intentato contro una compagnia assicurativa dalla società proprietaria dell’albergo che invocava, appunto, il nesso di causalità tra il sisma e la valanga in merito ad una polizza relativa ai soli danni da terremoto.

Poche ore prima del catastrofico evento che provocò la morte di 29 persone in Abruzzo erano state registrate alcune scosse di terremoto ritenute una «coda» dell’evento che aveva interessato le zone confinanti zone del Lazio e delle Marche.

Quella pronunciata oggi dal tribunale di Milano è la prima sentenza sulla tragedia dell’hotel. «Siamo contenti perché a cinque anni dalla tragedia di Rigopiano c’è un prima sentenza di un tribunale della repubblica italiana - afferma il Comitato dei parenti delle vittime - Riguarda il nesso di causalità tra il sisma e la valanga, un aspetto molto importante assai dibattuto soprattutto nel processo penale ancora in corso e al vaglio dei consulenti. Un primo pezzo di giustizia in memoria delle vittime di Rigopiano a cinque anni dalla tragedia».

Quanto stabilito a Milano è importante al fine del processo penale perché esclude che il crollo possa essere stato provocato da elementi esterni all’eccezionale nevicata. Al centro dell’inchiesta restano la sicurezza e la tenuta dell’albergo in cui si trovavano le 29 vittime al momento della valanga.

La struttura era stata costruita su una zona considerata «ad alto rischio» per le valanghe. Un’inchiesta per abusi edilizi era stata aperta dopo un ampliamento dell’albergo nel 2007 ma gli imputati erano stati tutti assolti «perché il fatto non sussiste».

Per la tragedia dell’hotel la procura di Pescara aveva invece emesso nel novembre del 2017 23 avvisi di garanzia (tra i quali tre ex governatori dell’Abruzzo): tutte le accuse erano state archiviate due anni più tardi. L’indagine riguarda ora solo il gestore dell’albergo, gli ex sindaci di Farindola 8il comune nel cui territorio è compreso Rigopiano) e alcuni impiegati del medesimo municipio.

Il Tribunale decide su una causa di risarcimento. Strage di Rigopiano, prima sentenza dopo 5 anni: “Non fu terremoto a causare la valanga”. Vito Califano su Il Riformista il 14 Giugno 2022 

Non furono scosse di terremoto a innescare la valanga che il 18 gennaio del 2017 travolse l’Hotel Rigopiano. Morirono 29 persone in quella tragedia in Abruzzo. La sesta sezione del tribunale civile di Milano ha stabilito che non fu alcun sisma a provocare la strage. La sezione ha respinto il ricorso di indennizzo intentato contro una compagnia assicurativa dalla società proprietaria dell’albergo, la quale invocava, appunto, il nesso di causalità tra il sisma e la valanga in merito ad una polizza relativa ai soli danni da terremoto.

La valanga travolse l’hotel alle 16:40 del 18 gennaio. Quella stessa mattina diverse violente scosse di terremoto di magnitudo superiore a cinque interessarono l’Aquilano, a una quarantina di chilometri in linea d’aria da Rigopiano. La prima sentenza di un tribunale sulla tragedia del resort esclude dunque la causalità. Il processo principale sta intanto per entrare nel vivo. La sentenza potrebbe arrivare entro la fine dell’anno.

Gli esperti incaricati dal giudice – il sismologo Paolo Gasperini e il nivologo Massimiliano Barbolini – nella loro consulenza tecnica hanno sostenuto la tesi del distacco naturale escludendo che la valanga sia stata provocata dal terremoto. I parenti delle vittime hanno parlato di “un esito che conferma le nostre convinzioni. La valanga non fu innescata dal terremoto. Primo pezzo di giustizia in memoria delle vittime di Rigopiano a cinque anni dalla tragedia“.

Il comitato parenti delle vittime di Rigopiano ha affermato: “Siamo contenti perché a cinque anni dalla tragedia di Rigopiano c’è una prima sentenza di un tribunale della repubblica italiana. Riguarda il nesso di causalità tra il sisma e la valanga, un aspetto molto importante assai dibattuto soprattutto nel processo penale in corso e al vaglio dei consulenti nominati dal Gup Sarandrea”. La decisione del tribunale civile è stata comunicata in primis dal TGR Abruzzo.

Quello che ha stabilito la sesta sezione è importante anche ai fine del processo pensale: si esclude il crollo per elementi esterni all’eccezionale nevicata. Restano al centro la sicurezza e la tenuta dell’albergo all’interno del quale si trovavano le vittime. La struttura era stata costruita su una zona considerata “ad alto rischio” per le valanghe. Dopo un ampliamento della struttura nel 2007 era stata aperta un’inchiesta per abusi edilizi. Gli imputati erano stati tutti assolti “perché il fatto non sussiste”.

La procura di Pescara aveva emesso nel novembre del 2017 23 avvisi di garanzia, tra i quali i tre ex governatori dell’Abruzzo tra i destinatari. Le accuse erano tutte state archiviate due anni più tardi. L’indagine riguarda ora solo il gestore dell’albergo, gli ex sindaci di Farindola, il comune nel cui territorio è compreso Rigopiano, e alcuni impiegati del medesimo municipio.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Paolo Mastri Patrizia Pennella per “il Messaggero” il 4 maggio 2022.

Il furto, di per sé, è poca roba, perché cinque anni dopo da rubare tra quelle pietre intrise di sangue e lacrime, c'è soltanto il dolore della memoria. Conta il gesto, la voglia di portarsi a casa come macabri trofei un Monopoli e altri due giochi da tavolo dissotterrati dalle macerie dell'Hotel Rigopiano. Conta il pessimo gusto di scattarsi un selfie a perenne ricordo dell'impresa: insomma, tutto il repertorio da sciacalli dell'orrore che immancabilmente va in scena dopo le grandi sciagure. 

Ma c'è anche tanta sostanza nell'arresto di una giovane coppia, 22 anni lui, 23 lei, beccata subito dopo il raid nell'area della tragedia costata la vita a 29 persone e traumi pesanti agli 11 sopravvissuti. 

L'intera zona, infatti, è ancora sottoposta a sequestro per le esigenze di una giustizia che ancora fatica a prendere il passo giusto per evitare l'oltraggio della prescrizione, purtroppo già in vista almeno per i reati minori. Almeno in linea teorica, con una perizia tecnica ancora in corso, la contaminazione dei luoghi potrebbe anche incidere sull'individuazione delle cause della valanga piombata sull'albergo alle 16.41 del 18 gennaio 2017.

Un'area centrale nella sorte del processo con 30 imputati in corso davanti al gup di Pescara e per questo motivo da sempre interdetta persino ai parenti delle vittime, che a più riprese tornano a chiedere permessi di accesso, per portare almeno un fiore nel punto esatto dove i loro cari hanno trovato la morte nel pieno di una vacanza che sognavano come indimenticabile. Paradossale il caso di Alessio Feniello, il papà di Stefano, che per la violazione dei sigilli si beccò un decreto di condanna diventando di fatto il primo colpevole accertato nella strage del resort. E oggi commenta: «Il furto un'assoluta bassezza». 

I FATTI I due arrestati martedì, invece, non avevano amico o parenti da piangere. Volevano soltanto provare un brivido. Per quanto il dispositivo di controllo dell'area sotto sequestro sia piuttosto capillare, a notarli è stato il maresciallo comandante della stazione carabinieri forestali Parco di Farindola, che durante un pomeriggio di libertà era andato a camminare nella zona panoramica alle falde del Monte Siella, versante nord orientale del Gran Sasso d'Italia.

Alla vista dei due forestieri ha intuito quello che purtroppo frulla nella testa di molti. Li ha fermati immediatamente, chiamando in soccorso i colleghi della stazione di Castelli, il paese delle ceramiche che dista soltanto pochi chilometri, e della compagnia di Penne. Le indagini lampo, basate sull'esame dei filmati delle telecamere di sicurezza, hanno ricostruito tutte le fasi dell'impresa. 

Dalla violazione dell'area sotto sequestro, ben evidenziata con recinzioni e cartelli informativi, fino all'introduzione nei resti della sala biliardo, quella in cui i quattro bambini estratti vivi trovarono riparo dietro un muro miracolosamente risparmiato dalla bomba di neve. Qui hanno a lungo rovistato tra le poche cose rimaste, impossessandosi alla fine di tre giochi da tavolo. Scena finale, il selfie con il bottino. Disgustati i familiari delle vittime: «Quello è un luogo sacro rispetto per 29 angeli».

CACCIA AL SOUVENIR L'arresto in flagranza è stato convalidato ieri dal Gip di Pescara, che ha subito rimesso in libertà la coppia alla quale sarà intestato l'ennesimo fascicolo satellite della tragedia di Rigopiano. Chissà se sono i primi, nonostante un dispositivo di controllo indubbiamente capillare. Di certo, ammettono gli investigatori con disincanto, non saranno gli ultimi ad essere attratti dallo spettacolo dell'orrore.

La caccia al souvenir della tragedia risponde a un istinto talmente naturale da aver spinto, a novembre di tre anni, il curatore fallimentare della società proprietaria dell'hotel a mettere all'asta scorte di vino, pezzi di ceramiche di Castelli miracolosamente intatti e arredi del centro benessere. Pezzi di dolore altrui aggiudicati per un assegno da 1800 euro. Una goccia in un mare di debiti da due milioni e mezzo.

Rigopiano, 5 anni dalla tragedia: storia, vittime, sopravvissuti, il processo e com’è l’hotel oggi. Debora Faravelli il 18/01/2022 su Notizie.it. La storia del dramma di Rigopiano cinque anni dopo tra vittime, superstiti, processo e resti dell'hotel. 

Sono passati cinque anni dalla tragedia di Rigopiano, dove il 18 gennaio 2017 una slavina travolse e distrusse un hotel causando un bilancio di 29 vittime e 11 superstiti. Nonostante il tempo trascorso, la verità e la giustizia per una delle tragedie più gravi che hanno riguardato l’Abruzzo non è ancora arrivata.

Dove si trova Rigopiano

Rigopiano è una località turistica montana del territorio del comune di Farindola, in provincia di Pescara, situata alle falde sud-orientali del Gran Sasso d’Italia.

La storia della tragedia di Rigopiano

Il dramma va contestualizzato all’interno di giorni colpiti da intense nevicate in cui i comuni ai piedi del versante pescarese del Gran Sasso erano isolati e spesso senza energia elettrica e l’hotel oggetto della tragedia irraggiungibile.

Una condizione che aveva già spinto alcuni ospiti della struttura a chiedere di lasciarla e il suo proprietario a invocare la liberazione della strada intorno al resort (richiesta di aiuto non ascoltata).

Il 18 gennaio, dopo una serie di scosse di terremoto particolarmente forti, una slavina di neve da 120 tonnellate si staccò dal massiccio orientale del Gran Sasso e sommerse quasi completamente l’hotel. Al momento erano presenti 40 persone tra cui 28 clienti e 12 membri dello staff.

Subito dopo i fatti, un cuoco ospite della struttura che si trovava nel parcheggio esterno dell’albergo lanciò l’allarme dicendo che c’era stata una valanga e la struttura era crollata. Quando però la prefettura contattò il direttore dell’hotel, costui disse di non saperne nulla e che “non mi risulta sia successo niente“. A quel punto il titolare dell’hotel contattò diverse volte il 112 e il 113, ma le sue richieste vennero liquidate come un falso allarme.

Solo dopo più di due ore una volontaria della Protezione Civile credette al racconto e attivò la macchina dei soccorsi, messa davvero in moto la mattina del giorno successivo a causa delle difficoltà di raggiungere l’hotel. Il cuoco e il tuttofare della struttura, che al momento della slavina erano all’esterno dell’albergo, vengono recuperati dagli uomini del soccorso alpino. I restanti, tra sopravvissuti e vittime, vennero estratti in un lasso di tempo di una settimana.

Rigopiano, chi sono le vittime

Questi i nomi delle 29 vittime della tragedia:

la coppia di Osimo composta da Marina Serraiocco e Domenico Di Michelangelo, genitori del piccolo Samuel;

Cecilia Martella, una dipendente dell’hotel;

Valentina Cicioni, infermiera del Gemelli che si trovava in vacanza con il marito Giampaolo Matrone, sopravvissuto;

Tobia Foresta e la moglie Bianca Iudicone;

Luciano Caporale e la moglie Silvana Angelucci, parrucchieri di Castel Frentano (Chieti);

Marco Tanda, il pilota di 25 anni della Ryanair originario di Gagliole, e la fidanzata Jessica Tinari;

Alessandro Riccetti, receptionist di 33 anni;

i camerieri Gabriele D’Angelo e Alessandro Giancaterino;

l’amministratore dell’hotel Roberto Del Rosso​;

Linda Salzetta, dipendente del centro benessere;

Nadia Acconciamessa e Sebastiano Di Carlo, mamma e papà del piccolo Edoardo Di Carlo, sopravvissuto;

Barbara Nobilio e il marito Pietro di Pietro;

Sara Angelozzi e Claudio Baldini, coppia in vacanza grazie ad un regalo;

Marinella Colangeli​, che gestiva la Spa;

Paola Tomassini e Marco Vagnarelli, in vacanza per un soggiorno di due giorni;

Ilaria Di Biase, cuoca dell’hotel;

Luana Biferi, impiegata calciatrice del Pescara;

Stefano Feniello, compagno di Francesca Bronzi (salvata);

il rifugiato senegalese Faye Dame;

Emanuele Bonifazi, dipendente dell’hotel.

I sopravvissuti alla strage di Rigopiano

Oltre a Giampiero Parete e Fabio Salzetta, rispettivamente ospite che ha dato l’allarme e tuttofare dell’hotel che si trovavano all’esterno della struttura, si sono salvati:

la moglie di Parete, Adriana Vranceanu, e i due figli, il piccolo Gianfilippo e Ludovica;

i due bambini Edoardo Di Carlo e Samuel Di Michelangelo;

Giampaolo Matrone, titolare di una pasticeria di Monterotondo;

Vincenzo Forti e la fidanzata Giorgia Galassi, gestore di una pizzeria lui e studenteessa lei;

Francesca Bronzi, 25enne di Silvi Marina.

Rigopiano, a che punto è il processo

Sulla vicenda è stato aperto un fascicolo a pochi giorni dai fatti ma, a distanza di cinque anni, il processo è ancora impantanato nell’udienza preliminare con la prescrizione che incombe. Gli imputati sono in totale 30 e tra essi vi sono l’ex presidente della Provincia di Pescara Antonio Di Marco, il prefetto dell’epoca Francesco Provolo, il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta e il suo predecessore Antonio De Vico (che durante il loro mandato hanno autorizzato lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’Hotel Rigopiano), rappresentanti della Regione Abruzzo, della Provincia di Pescara, della Prefettura di Pescara e del Comune di Farindola e figure riconducibili alla proprietà dell’albergo distrutto.

29 di essi hanno chiesto il rito abbreviato mentre uno, l’ex sindaco De Vico, non lo ha fatto. Il 28 gennaio 2022 era attesa una nuova udienza in cui il gup Gianluca Sarandrea avrebbe dovuto decidere sul rinvio a giudizio o sul proscioglimento, ma probabilmente verrà rinviata al 12 aprile.

Questo perché il giudice ha affidato a tre consulenti, due ingegneri e un nivologo del Politecnico di Milano, una super perizia dato che quelle della Procura e delle difese erano diametralmente opposte su alcuni aspetti. I consulenti incaricati hanno chiesto e ottenuto un rinvio di 90 giorni e per questo l’udienza slitterà in primavera.

Il rischio è che il reato di base, quello cioè di disastro colposo (dirimente tra l’altro ai fini dei risarcimenti), cada in prescrizione. Per evitare che ciò accade sarà necessario chiudere i tre gradi di giudizio entro due anni e mezzo.

Rigopiano, com’è l’hotel oggi

Nonostante il tempo passato, il terreno su cui giaceva l’Hotel Rigopiano non ha subito grandi cambiamenti dal giorno della tragedia. Pochi metri prima di arrivare, lungo la strada, c’è parcheggiata la Fiat Panda di Nicola Colangeli, papà di Marinella, una delle vittime che lavorava nella struttura. Ogni mattina, da cinque anni, l’uomo ripercorre quei nove chilometri e sale fino ai resti dell’albergo: “È più forte di me, la accompagnavo ogni mattina al lavoro, l’ho fatto per nove anni“.

L’ingresso dell’hotel è sbarrato da una rete su cui chiunque può lasciare un ricordo e da un cartello che avvisa del sequestro giudiziario. A sinistra dell’ingresso, sotto il totem che ricorda le quattro stelle del resort, c’è il memoriale con i volti dei deceduti, i fiori, i ceri e i pensieri. Dietro la rete c’è la sagoma di un’auto, totalmente imbiancata, che nessuno ha mai toccato.

Qualche metro più su il territorio è tutto ricoperto di neve da cui spuntano qua e là gli unici segni di ciò che era: l’ottagono della Spa, alcuni pilastri, qualche costruzione destinata ai servizi rimasta in piedi.

Rigopiano, cinque anni fa la valanga che uccise 29 persone. Il 18 gennaio 2017 una slavina travolse l'hotel Rigopiano a Farindola. Morirono 29 persone dopo ore interminabili di soccorsi. Le famiglie delle vittime chiedono giustizia. ALESSIA ARCOLACI su Vanity Fair.it il 18 Gennaio 2022.  

Quando la valanga ha travolto l'hotel Rigopiano, dentro c'erano 40 persone. Era il 18 gennaio 2017, un mercoledì pomeriggio in cui la neve caduta cominciava ad essere troppa e anche chi era arrivato al resort per godersi la natura e riposarsi voleva andarsene. Ma le strade erano bloccate, si doveva aspettare. 

Poi, la tragedia. A dare l'allarme per primo fu Giampiero Parete, un cuoco in vacanza che al momento della slavina stava andando alla macchina. È lui a chiamare il 118 dicendo che una valanga ha sommerso l'hotel Rigopiano di Farindola. Sono le 17.08, pochi minuti prima del distacco di 120mila tonnellate di neve avvenuto alle 16.41. Si susseguono diverse chiamate, la funzionaria della Prefettura crede si tratti di un falso allarme. Prima dell'arrivo dei soccorsi passeranno 20 ore e per una settimana non si fermeranno mai. 

Accanto a Parete c'è il tuttofare dell’hotel Fabio Salzetta, sono i primi due superstiti. Cinque anni dopo, le famiglie delle vittime e i sopravvissuti aspettano giustizia. «Noi lottiamo da cinque anni per dare giustizia ai nostri angeli e per far sì che mai più si ripeta quello che è successo a Rigopiano», ripetono i fondatori del Comitato vittime. «Ora più che mai abbiamo bisogno del vostro contributo, affinché non si spengano i riflettori su una tragedia italiana che si poteva e si doveva evitare». Tra loro c'è Giampaolo Matrone, pasticcere romano che a Rigopiano ha perso sua moglie Valentina, madre insieme a lui di Gaia. «È stata come una tromba d'aria, una botta di vento fortissima, qualcosa che è difficile descrivere. Sono stato sbalzato via, mia moglie Valentina era accanto a me, ma da quel momento non l'ho più vista», aveva raccontato in  quest'intervista a Vanity Fair poco dopo la tragedia. 

Per sessanta ore Giampaolo ha impiegato tutte le sue forze per rimanere in vita, nonostante fosse schiacciato sotto nove metri cubi di macerie, neve, alberi, piastrelle. «Mentre ero là sotto il primo pensiero è stato per mia figlia Gaia, mi ripetevo che dovevo tornare per lei. Mi addormentavo, sognavo, mi risvegliavo e vedevo Valentina come un angelo, forse dentro di me sapevo già che lei non ce l'aveva fatta. Mi chiedevo cosa fosse successo e se Gaia stesse bene perché non sapevo se c'era stato un forte terremoto e avesse colpito anche Roma. Non sapevo niente». Mentre le ore passavano Giampaolo non sentiva nessuno intorno a lui, solo quando i soccorritori hanno individuato la zona in cui poteva trovarsi, ha sentito delle voci chiamarlo.

Cinque anni dopo, l'iter giudiziario è ancora in corso. Il processo che vede trenta imputati accusati a vario titolo di omicidio, lesioni colpose plurime, disastro colposo, abusi edilizi e falso ideologico non è ancora realmente partito. La prossima udienza è fissata per il 28 gennaio. Intanto, come ogni anno, a Farindola oggi si ricordano le vittime con una fiaccolata, l'alzabandiera e i fiori accanto alla lapide dedicata alle vittime.  I loro nomi : Jessica Tinari (24), Marinella Colangeli (32), gestiva la spa dell'albergo, Roberto Del Rosso, proprietario e gestore dell’hotel Rigopiano di 53 anni, Cecilia Martella (24), Ilaria Di Biase (22), impegnata come cuoca, Piero Di Pietro (54), Marco Vagnarelli (44) e Paola Tomassini (46), Alessandro Riccetti (33), Luciano Caporale (54) e Silvana Angelucci (46), Stefano Feniello (28), Marco Tanda (25), Marina Serraiocco (38) e Domenico Di Michelangelo (41), Emanuele Bonifazi (31), Luana Biferi (30), Sara Angelozzi (40) e Claudio Baldini (40), Linda Salzetta (31), Gabriele D'Angelo (32), Nadia Acconciamessa (47), Alessandro Giancaterino (42), Valentina Cicioni (33 anni), Dame Faye (42), Foresta Tobia (59) e Bianca Iudicone (50), Sebastiano Di Carlo (49), Rosa Barbara Nobilio (51).

I morti della tragedia di Rigopiano ancora senza giustizia: perché il processo non è partito. Sono trascorsi cinque anni dalla valanga che il 18 gennaio 2017 ha travolto l’hotel Rigopiano uccidendo 29 persone. Trenta gli imputati in un processo mai realmente iniziato che vede accusa e difesa scontrarsi sull’origine della slavine e le eventuali responsabilità. A cura di Chiara Ammendola su Fanpage.it il 18 Gennaio 2022.  

È il 18 gennaio 2017 quando una valanga travolge l'albergo Rigopiano-Gran Sasso Resort a Farindola in Abruzzo. La forza con cui la neve si abbatte sulla struttura, che in quel momento ospita 40 persone tra clienti e personale, la sposta di decine di metri. Sono le 17,40 e due superstiti lanciano l'allarme. Iniziano le operazioni di soccorso che dureranno giorni, il bilancio sarà drammatico: 29 morti e 11 persone sopravvissute. A distanza di cinque anni da quello che viene considerato uno dei più tragici incidenti che la storia d'Europa ricordi l'iter giudiziario procede ancora lentezza: trenta gli imputati di un processo mai realmente iniziato accusati a vario titolo di omicidio, lesioni colpose plurime, disastro colposo, abusi edilizi e falso ideologico. Oggi nel giorno del quinto anniversario della tragedia di Rigopiano, come ogni anno ci sarà una fiaccolata, l'alzabandiera, la deposizione dei fiori sulla lapide e una messa per ricordare le 29 vittime.

Perché il processo sulla tragedia di Rigopiano non è ancora iniziato

Intanto il prossimo 28 gennaio si terrà una nuova udienza di quello che è il processo mai realmente iniziato sulla tragedia di Rigopiano per la quale sono state rinviate a giudizio trenta persone. In 29 hanno scelto il rito abbreviato, mentre l'ex sindaco di Farindola Antonio De Vico ha chiesto e ottenuto lo scorso ottobre il rito ordinario. Tra gli imputati ci sono rappresentanti della Regione Abruzzo, della Provincia di Pescara, della Prefettura di Pescara e del Comune di Farindola oltre ad alcuni rappresentanti dell'albergo distrutto e 7 prefettizi accusati di depistaggio in un fascicolo poi riunito al procedimento madre. Un processo mastodontico è stato definito negli anni che è ancora in attesa delle perizie definitive sulle quali si basa lo scontro tra accusa e difesa, ovvero sull'origine della valanga del 18 gennaio, i tempi di verificazione, l'entità e i suoi effetti sul territorio. Per questo il gup del Tribunale di Pescara, Gianluca Sarandrea ha nominato un collegio di periti che faccia luce su questo aspetto che gli accertamenti prodotti dall'accusa e dalle difese non sono riusciti a chiarire in maniera univoca. Se da un lato la perizia dell'accusa punta sulla mancata realizzazione della carta valanghe, sullo sgombero delle strade di accesso al resort in quota e sul presunto tardivo allestimento del centro coordinamento soccorsi, quella delle difese verte sulla fatalità, sul carattere imprevedibile del sisma che ha preceduto la valanga. L'elaborato peritale inizialmente doveva essere depositato lo scorso 12 gennaio e poi discusso nel corso della prossima udienza fissata per il 28 gennaio. I periti, tre docenti del Politecnico di Milano, ossia gli ingegneri Claudio e Marco Di Prisco e il nivologo Daniele Bocchiola, hanno però chiesto una proroga di 90 giorni che comporterà un nuovo allungamento dei tempi del processo, che i legali sperano possa concludersi entro il 2022. 

Cosa è successo a Rigopiano il 18 gennaio 2017

Tra le 16.45 e le 16.49 del 18 gennaio 2017 una valanga si stacca dalla cima del monte Siella travolgendo l'hotel Rigopiano, un ex rifugio del Cai trasformato in un resort, che sorge a Farindola (Pescara), in Abruzzo. Una slavina formata da neve, ghiaccio e detriti per un peso complessivo di 120mila tonnellate che sposta di 48 metri i piani superiori dell'albergo e di quasi dieci quelli inferiori. Alle 17.40 arriva una chiamata: è  Giampiero Parete, un ospite, che si trova all'esterno della struttura insieme a Fabio Salzetta, operaio manutentore dell'albergo. "È caduto, è caduto l’albergo", le parole pronunciate dall'uomo al suo datore di lavoro che avverte così i soccorritori che però non gli credono. Nelle ore precedenti la neve ha causato diversi disagi in tutta la provincia di Pescara e non solo. La neve cade ininterrottamente da giorni e gli ospiti dell'hotel Rigopiano sono bloccati all'interno della struttura proprio a causa degli oltre due metri di neve caduti nelle ore precedenti. Da quella chiamata i soccorritori impiegheranno quasi 20 ore per raggiungere l'albergo e iniziare le ricerche. Venerdì 20 gennaio vengono salvate otto persone, tra le quali la moglie e i due figli di Parete e altri due bambini, che però rimarranno orfani. Sabato 21 gennaio i soccorritori riescono a liberare Giampaolo Matrone, rimasto intrappolato per 62 ore insieme alla moglie Valentina Cicioni, che però muore.

Chi sono i morti della valanga di Rigopiano

Valentina Cicioni, 32 anni, di Monterotondo, è solo una delle 29 vittime della tragedia del Rigopiano che ha ucciso 15 uomini e 14 donne tra ospiti, proprietari e dipendenti dell'albergo. Tra gli ospiti ci sono Claudio Baldini e la moglie Sara Angelozzi, entrambi 40enni, di Atri, in provincia di Teramo, Luciano Caporale, 54 anni, e la moglie Silvana Angelucci, 46 anni, parrucchieri di Castel Frentano (Chieti), Sebastiano di Carlo, 49 anni,  ristoratore di Loreto Aprutino e la moglie Nadia Acconciamessa, 47 anni, di Pescara (il figlio, Edoardo, si è salvato n.d.r.), Domenico di Michelangelo, 41 anni, poliziotto, e la moglie Marina Serraiocco, 36 anni, di Osimo (il figlio, Samuel, si è salvato n.d.r.), Piero Di Pietro, 53 anni, allenatore di calcio, e la moglie Rosa Barbara Nobilio, 51 anni, di Loreto Aprutino, Stefano Feniello, 28 anni, residente a Silvi Marina (la sua fidanzata, Francesca Bronzi, si è salvata n.d.r.), Marco Tanda (25 anni), pilota di aereo di Macerata e la fidanzata Jessica Tinari (24 anni) di Vasto, Foresta Tobi, 60 anni, dipendente dell'agenzia delle Entrate e la mogli, Bianca Iudicone, 50 anni, di Montesilvano e Marco Vagnarelli, 44 anni, con la compagna Paola Tommasini, 46 anni, di Castignano (Ascoli). 

E ancora il proprietario dell'hotel Roberto Del Rosso, 53 anni, il maitre dell'hotel Alessandro Giancaterino, 42 anni, di Farindola, i receptionist Alessandro Riccetti, 33 anni, di Terni, ed Emanuele Bonifazi , 32 anni, di Pioraco (Macerata), il cameriere Gabriele D'Angelo, 31 anni, di Penne (Pescara) e la cuoca Ilaria De Biase, 22 anni, di Chieti, Marinella Colangeli, 32 anni, di Farindola (Pescara) che gestiva la Spa dell'hotel, Cecilia Martella, 24 anni, di Atri, e Linda Salzetta, 31 anni, di Farindola, che lavoravano nel centro benessere. Il fratello Fabio Salzetta si è salvato perché si trovava fuori dall'hotel al momento della valanga. Infine Luana Biferi, 30 anni, calciatrice che lavorava nello staff dell'albergo, di Bisenti (Teramo) e il tuttofare Dame Faye, 30 anni, rifugiato senegalese.

Rigopiano, 5 anni dopo lo sfregio ai 29 morti e alle famiglie: verso la prescrizione. Se questa è giustizia...Libero Quotidiano l'08 gennaio 2022.

Il 18 gennaio saranno ben 5 anni dal giorno della tragedia di Rigopiano, quando un intero hotel venne travolto e raso al suolo da una valanga nel comune di Farindola, in Abruzzo. Persero la vita 29 persone. Pur essendo trascorso molto tempo, il processo sembra essere infinito. Per certi versi è possibile dire che debba ancora iniziare. L'iter, infatti, come riporta La Stampa, è ancora in una fase preliminare. E a rallentare i tempi è il possibile slittamento di una super perizia ordinata dal tribunale. Prevista per il 28 gennaio, potrebbe essere spostata a causa della complessità tecnica della materia

Nello stesso giorno dovrebbe tenersi pure l'udienza per il rinvio a giudizio dell’ex sindaco di Farindola, Antonio De Vico, colpevole secondo l'accusa di aver fatto costruire l'hotel in quella zona. A differenza di quest'ultimo, gli altri 29 imputati hanno scelto il rito abbreviato. Il rischio, però, è che i reati cadano in prescrizione. Una situazione che tormenta i familiari delle vittime, desiderosi di giustizia per se stessi e i propri cari. I reati contestati - sottolinea il quotidiano torinese - vanno dal crollo di costruzioni all’omicidio e lesioni colpose, dall’abuso d’ufficio al falso ideologico. 

"Per accelerare i tempi sarà determinate la super perizia", ha detto Paola Ferretti, madre di Emanuele Bonifazi, l'addetto alla reception dell’hotel morto a 31 anni. Poi, in preda allo sconforto, ha aggiunto: "Speriamo che questo sia l’anno giusto perché oramai il vaso è colmo. Mi sento una cittadina ferita perché il nostro sistema giudiziario offre più diritti agli imputati che alle vittime". Demoralizzato anche  il papà di Jessica, Mario Tinari: "La giustizia italiana purtroppo funziona molto male, è troppo burocratica, troppo farraginosa, alcuni reati rischiano la prescrizione e io sinceramente dopo 5 anni non mi fido più". Francesco D’Angelo, fratello gemello di Gabriele, morto a 32 anni mentre lavorava come cameriere, ha detto: "La sentenza di questo processo è già stata scritta e non è a favore dei nostri morti". 

Grazia Longo per “la Stampa” l'8 gennaio 2022. C’ è il dolore, per nulla lenito dai cinque anni trascorsi. E c’è la rabbia, per un processo infinito che ancora non rende giustizia. Tra dieci giorni, il 18 gennaio, saranno cinque anni esatti dalla tragedia dell’hotel Rigopiano, nel comune di Farindola, in Abruzzo, raso al suolo da una valanga che seppellì 29 vittime. Non mancheranno la fiaccolata, l’alzabandiera e la messa ma, mentre si preparano a quella giornata di memoria, i parenti di chi non c’è più non nascondono amarezza e frustrazione.  

E non potrebbe essere altrimenti, considerato che l’iter giudiziario è ancora alla fase preliminare. Il 28 gennaio si attende la super perizia ordinata dal tribunale che, tuttavia, potrebbe slittare per una proroga dovuta alla complessità tecnica della materia, determinando così un ulteriore allungamento dei tempi.

Nella stessa giornata si svolgerà l’udienza in cui il giudice potrebbe decidere il rinvio a giudizio dell’unico imputato che ha scelto il rito ordinario, l’ex sindaco di Farindola, Antonio De Vico, che secondo la pubblica accusa «avrebbe dovuto impedire la realizzazione dell’hotel e comunque non ha adottato le norme di salvaguardia che avrebbero impedito decessi e lesioni agli ospiti della struttura».  

Gli altri 29 imputati coinvolti hanno invece scelto il rito abbreviato e c’è da augurarsi che la sentenza arrivi entro il 2022, o non molto oltre, altrimenti alcuni reati cadranno in prescrizione. I reati contestati vanno, a vario titolo, dal crollo di costruzioni o altri disastri colposi, all’omicidio e lesioni colpose, all’abuso d’ufficio e al falso ideologico. 

Ma l’abuso d’ufficio si prescrive in 5 anni, il falso in sette anni e mezzo, mentre ne occorrono 15 per mandare in prescrizione il crollo. «Per accelerare i tempi sarà determinate la super perizia» esordisce Paola Ferretti, una delle anime del Comitato familiari delle vittime, madre di Emanuele Bonifazi, addetto alla reception dell’hotel, morto a 31 anni.  

E il suo avvocato di parte civile, Alessandro Casoni, precisa: «Se la perizia ordinata dal Tribunale dopo il contrasto tra quella della Procura e quelle degli imputati, verrà depositata entro il 28 gennaio, la discussione del rito abbreviato potrà avere inizio e le sentenze potranno arrivare entro la fine del 2022. Ovviamente, invece, per il rito ordinario ci vorranno anni». 

Quanto alle prescrizioni, l’avvocato Casoni non sembra preoccupato: «Il rischio è reale se i tempi si allungano, ma bisogna conteggiare i 6 mesi di sospensione del periodo post sismico e gli oltre due mesi del lockdown 2020».  

Paola Ferretti aggiunge: «Speriamo che questo sia l’anno giusto perché oramai il vaso è colmo. Mi sento una cittadina ferita perché il nostro sistema giudiziario offre più diritti agli imputati che alle vittime. E non è giusto. Ho 59 anni ma, per la sofferenza causata dalla scomparsa di mio figlio, me ne sento addosso 20 di più e vivo nel terrore di morire senza che lui ottenga giustizia. Tra l’altro a mio figlio non è stata neppure riconosciuta dall’Inail la morte sul posto di lavoro».

Gianluca Tanda, presidente del Comitato, è il fratello di Marco, pilota della Ryanair, che ha perso la vita a 25 anni insieme alla fidanzata Jessica Tinari, 24 anni, mentre si trovavano in vacanza al Rigopiano. «Non solo siamo sfiniti e logorati per quest’attesa senza fine di un processo che ristabilisca la verità, ma dobbiamo anche fare conto con delle incongruenze assurde imposte dalla burocrazia. Da tempo abbiamo una statua della Madonna donataci dal Comune di Orosei da sistemare nella montagna di fronte a quella dov’è avvenuta la valanga ma non ci danno il permesso perché dicono che quella è una zona di valanghe. L’avessero stabilito prima di costruire l’hotel non staremmo qui a piangere i nostri cari».  

Profondamente sfiduciato è anche il papà di Jessica, Mario Tinari: «Era la mia unica figlia, la mia stella, faceva l’estetista ed era benvoluta da tutti. Io e mia moglie Gina andiamo al cimitero due volte al giorno e viviamo alla giornata, senza una meta. La giustizia italiana purtroppo funziona molto male, è troppo burocratica, troppo farraginosa, alcuni reati rischiano la prescrizione e io sinceramente dopo 5 anni non mi fido più». 

Non vuole dilungarsi sull’aspetto giudiziario, «perché tanto è una battaglia continua» Martina Remigio, zia diventata mamma adottiva di Samuel Michelangelo, sopravvissuto alla slavina dopo essere rimasto sepolto sotto le macerie per 50 ore. Purtroppo persero la vita il suo papà, Dino Michelangelo e la sua mamma, Marina Serraiocco. 

Oggi Samuel vive a Chieti, dov’è stato adottato dallo zio materno Giuseppe Serraiocco e sua moglie Martina che ribadisce: «Il dolore per quello che è accaduto non è scomparso, ma con l’approssimarsi dell’anniversario si fa ancora più acuto».  

Completamente disilluso è, infine, Francesco D’Angelo, fratello gemello di Gabriele che morì a 32 anni mentre lavorava come cameriere al Rigopiano: «La sentenza di questo processo è già stata scritta e non è a favore dei nostri morti. Io non sono mai stato un gran lettore, eppure mi sono letto tutte le 88 mila pagine del fascicolo e posso dire che tante cose non sono venute a galla, secondo me ci sono altri responsabili che l’hanno fatta franca. Spero che non succeda altrettanto per i 30 imputati anche se, mi spiace dirlo, ho seri dubbi».

·        Le Valanghe.

Vajont, frana di morte e disperazione. Ottobre 1963, la sciagura nella valle del Piave. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Ottobre 2022.

«Apocalisse nella valle del Piave»: l’11 ottobre 1963 La Gazzetta del Mezzogiorno racconta il disastro che si è abbattuto la sera del 9 ottobre nel Vajont, di cui non aveva potuto dare notizia il giorno prima.

«La più alta diga ad arco del mondo, una delle realizzazioni più ardite della tecnica idraulica, è stata anche strumento di uno dei più grandi disastri che si ricordino, certamente il più grande nella storia delle dighe», si legge sul quotidiano. Tra il 1957 e il 1963 la morfologia della valle del torrente Vajont era stata profondamente modificata dalla costruzione di una imponente diga a doppio arco.

Un’enorme frana, 260 milioni di metri cubi di terra, precipita la sera del 9 ottobre 1963 nel neo-bacino idroelettrico artificiale dal soprastante pendio del Monte Toc: la conseguente tracimazione dell’acqua provoca l’inondazione e distruzione di diversi abitati tra cui Longarone, e la morte di 1.917 persone, tra cui 487 bambini e ragazzi con meno di 15 anni.

«È cominciato con un cupo brontolio di massi; poi l’immane catastrofe. La frana precipitata nel bacino idroelettrico del Vajont ha provocato – dicevano stasera alla prefettura di Belluno - duemila e duecento morti: sono quelli accertati finora. Di certo ora c’è che il Comune di Longarone e parte delle sue frazioni sono stati cancellati dalla faccia della terra», scrive l’inviato della «Gazzetta» Vittorio Cossato.

La catastrofe poteva essere evitata? È la tragica domanda che si pongono tutti: «L’interrogativo appare giustificato dal fatto che, da tempo, a più riprese, da uno e dall’altro dei due versanti dei monti che concorrono con la diga a formare il lago, sono caduti macigni. Altre volte su l’una e l’altra pendici si sono verificati smottamenti. Le popolazioni, insomma, erano allarmate. Tanto allarmate che il comune di Longarone aveva reso edotto del timore del pericolo il Genio Civile di Belluno. Una commissione anzi è venuta nei giorni scorsi da Roma, ha fatto delle indagini e dei rilievi e poi si è riservata di dare la risposta. Purtroppo questa è la risposta: questa tremenda sciagura», conclude Cossato. Pochi giorni dopo, funzionari del Ministero dei lavori pubblici e alcuni dirigenti della Sade, Società adriatica di elettricità, che si era occupata della progettazione della diga del Vajont, vengono messi in stato d’accusa della magistratura.

Il processo si concluderà nel 1972 con la condanna del dirigente della Sade Alberico Biadene, il quale sconterà un anno e 6 mesi di reclusione, e dell’ispettore del Genio Civile, Francesco Sensidoni.

Vajont, 9 ottobre 1963: la più grande carneficina italiana in tempo di pace. Salvatore Righi su L'Indipendente il 9 ottobre 2022.

Gli orologi da tasca, ingialliti e ancora infangati, fermi tutti alle 22.39 di quel nove ottobre. Pezzi di muri appesi a qualche trave tranciata. Rottami arrugginiti di automobili che sembrano divorate. Fogli di carta scritti a penna con calligrafie chiare, doloranti e dolorose: “Qui sotto c’è la famiglia Rossi”. “Questa è la casa di Bianchi”. La colata giallastra di acqua e detriti, lunga come un rosario di dolore e appoggiata come un coperchio di cemento sulla verticale del paese, e come un macigno sulla coscienza dell’Italia. 1.917 vite. Millenovecentodiciassette uomini, donne e bambini strappati insieme da una vita che è finita per tutta una vallata nello stesso momento, come premendo un interruttore. Polaroid in bianconero lasciate dalla valanga di acqua che è sbucata con un baccano infernale dal buio della notte, una notte gentile di luna e stelle, una di quelle notti di autunno in cui si sentono ancora i profumi dei campi, ed è piombata giù dalla montagna come una motocicletta che schizza via da una curva, come un gigantesco colpo di coda di Moby Dick sulla barca dei suoi cacciatori.

Un’onda alta come dieci palazzi

Un mare di acqua che si è polverizzato in goccioline, un temporale in un firmamento stellato, prima di abbattersi per terra con la forza di due bombe atomiche. 50 milioni di metri cubi di liquido, sassi, terra, alberi, venuti giù con tutto quello che hanno trovato e frullato sul proprio cammino. Un’onda alta come dieci palazzi di dieci piani, un inferno precipitato come la fine del mondo mentre al bar erano tutti davanti alla tv per una partita di Coppa dei Campioni, da quella enorme diga che faceva il solletico al cielo, coi suoi 261 metri e sessanta centimetri. Un’opera perfetta nel posto sbagliato, appoggiata su una montagna di pastafrolla, spaccata da una frana gigantesca e antica, risvegliata e inesorabilmente diretta verso il basso coi suoi 270 milioni di metri cubi. La diga ad arco doppio più alta del mondo, un orgoglio italiano, e tutti gonfiavano il petto e battevano le mani. Tutti, tolti quelli che ci vivevano sotto, davanti e intorno. Loro non battevano le mani e non erano per nulla tranquilli. Anzi, avevano una paura maledetta, a dirla tutta.

Dolomiti insanguinate

Sono passati 59 anni dal disastro del Vajont, da quel 9 ottobre 1963: la più grande carneficina italiana in tempo di pace, una delle peggiori da quando l’uomo coltiva per lucro o per balordaggine la sciagurata idea di piegare la natura e disporne a proprio piacimento. I pochi superstiti della notte in cui la “banca dell’acqua”, come chiamavano un invaso da 150 milioni di metri cubi, ha ingoiato una fetta di montagna e ha tracimato, ormai hanno i capelli d’argento, gli occhi ancora pieni di dolore e paura, le parole tuttora incredule, le mani appesantite da gesti ripetuti tante volte, nel tracciare il racconto di quello che tutt’ora si fatica a capire e accettare. Ma le parole con cui Dino Buzzati ha attaccato il suo pezzo per il Corriere, raccontando il disastro del Vajont, restano stampate sulle pietra delle dolomiti che da quel mercoledì sera di tanti anni fa sono striate di sangue, il sangue di una tragedia con troppe vittime e pochissimi colpevoli: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è caduta sulla tovaglia. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri, il sasso era grande come una montagna e sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi».

«Hai trovato tua madre?»

La tristissima conta riporta ufficialmente 1.917 morti, ma i cadaveri recuperati furono 1.500 in tutto. Oltre 400 avevano meno di 15 anni, la meglio gioventù del Piave cancellata in meno di quattro minuti, il tempo che ci ha messo lo tsunami a scavalcare le solidissime pareti di calcestruzzo della diga e arrivare a fondo valle percorrendo circa un chilometro e mezzo, dopo che comunque si era spaccato in tre fronti, prima irrorando come un geiser immenso l’altro versante del lago, poi incanalandosi nella forra del Vajont che è dannatamente stretta e alta, una micidiale catapulta naturale, da cui è stato sparato a cancellare in tutto una decina tra centri abitati e frazioni: oltre a Longarone, piombando con la furia delle Erinni sulla valle del Piave, anche Rivalta, Villanova, Faè e Pirago. Raccontano ancora con orrore dei pescatori veneziani che nei giorni successivi hanno trovato cadaveri impigliati nelle loro reti, corpi martirizzati e trascinati senza misericordia dal Piave, gonfiato da quell’onda fino dentro alla pancia del mare. E degli scampati che, come miracolati, nei terribili giorni a seguire si aggiravano su quella distesa di rovine e silenzio chiedendosi reciprocamente “hai trovato tua mamma?”, “hai trovato i tuoi fratelli?”, senza riuscire a dire altro.

Panoramica della Valle del Vajont poco dopo il disastro del 9 ottobre 1963. Si nota la frana di 260 milioni di metri cubi staccatasi dal Monte Toc e precipitata nel bacino artificiale 

Una storia di potere e di poteri

La storia del Vajont è il prototipo e insieme il dagherrotipo di una tragedia annunciata e per nulla impedita: un omicidio colposo di massa, come da sentenze dei tribunali che hanno processato l’imperizia, l’arroganza e l’avidità degli uomini che sapevano e non hanno detto, non hanno fatto, non hanno impedito il massacro. Una lunga vicenda di controlli rimandati all’infinito, di cantieri aperti di nascosto, di bugie più o meno grandi, di carte, perizie e documenti che c’erano e poi sparivano, di dubbi e prove messi a tacere o smentiti in una sinergia perfetta tra lo Stato e il privato, che poi sono finiti gomito a gomito sul banco degli imputati. Qualcuno usa la parola assassinio, la portentosa macchina della giustizia italiana è riuscita a trovare solo due colpevoli, in un esercito molto nutrito tra attori protagonisti e comparse, tra manager, ingegneri, geologi, esperti, ministri e capi. Il Vajont come una storia di potere e di poteri, di interessi e di giochi incrociati tra pubblico e privato, tra politica e affari. Per questo, sempre terribilmente attuale.

Gli otto imputati per il disastro del Vajont in tribunale a L’Aquila. Da sinistra verso destra, in prima fila: Alberico Biadene e Almo Violin; in seconda fila: Roberto Marin, Augusto Ghetti e Dino Tonini; in terza fila: Pietro Frosini, Curzio Batini e Francesco Sensidoni 

Oro trasparente

Una storia che è cominciata quando l’oro che faceva girare il mondo, o perlomeno l’Italia, non era quello nero, il petrolio, ma quello trasparente. C’è stato un tempo, ormai lontano, in cui da noi la corsa all’oro era quella all’acqua, intesa come strumento gratuito, regalato da Giove pluvio e madre natura, per produrre energia elettrica. Prima, c’era stata una guerra con sanzioni pesanti da ammortizzare, prima, altra analogia con tempi attuali di guerre e sanzioni. E poi, a guerra finita, c’era un Paese che voleva risollevarsi sulle proprie gambe e mettersi a correre. C’era il boom economico da nutrire di corrente elettrica per far camminare forte le aziende e con loro gli italiani e i loro sogni.

Il caso, o il destino, a seconda del nome che vogliamo dare alle cose, ha voluto che proprio tra quelle montagne aspre, dure, piene di costoni brulli ma anche di foreste e prati, malghe e campi strappati alle rocce, ci fosse un enorme giacimento dell’oro liquido, tra fiumi, torrenti e corsi d’acqua. Tanta acqua da produrre elettricità per tutto il Triveneto, un quindicesimo del fabbisogno naturale. Il progetto era semplice e la Sade, Società adriatica di elettricità, ci aveva visto lungo e con largo anticipo. Più che altro, era tutto molto chiaro nella testa del suo fondatore, l’ineffabile Giuseppe Volpi, classe 1877, un uomo con un curriculum iniziato con l’epopea fascista e finito, dopo una virata ad ampissimo raggio all’antifascismo, a mettere il sigillo e le alti al Grande Vajont, ossia il progetto di un maestoso sistema di dighe e centrali idroelettriche (una decina in tutto) che grazie al Piave e col bacino del Vajont come perno, avrebbero potuto e dovuto garantire acqua e corrente elettrica al Paese, portando lavoro, benessere e tanti soldi in vallate dove da sempre si viveva coltivando la terra, allevando bestiame e cercando fortuna altrove, per chi non si accontentava e sognava un posto fisso.

Il conte Volpi dalla Tripolitania al Piave

Grazie alla sua fedeltà al partito fascista, Volpi fu nominato Conte di Misurata, ma soprattutto Governatore della Tripolitania, nonché ministro delle Finanze dal ’25 al ’28, nonché padre della Biennale di Venezia, la sua città, e della Coppa Volpi ad essa collegata. A lui, nel ’33, fu dedicato un testo unico su “acque e impianti elettrici”, quando decise di investire tutti i soldi fatti col tabacco nel business della corrente elettrica, fondando nel 1905 proprio in laguna la Sade: capitale sociale 300mila lire. La drammatica notte di Longherone e degli altri paesi del Vajont, quel 9 ottobre del ’63, era cominciata un quarto di secolo prima, quando il geologo Giorgio Dal Piaz, un autorità in materia che poi in questa storia comparirà molto spesso, aveva studiato il caso e prodotto una consulenza: correva il 1928. Volpi era anche presidente della Confederazione fascista degli industriali e in questa situazione vide un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire.

Via libera da Roma

Infatti non gli scappò: il 15 ottobre 1943, strane similitudini di date, quello che restava del regime dopo l’8 settembre gli regalò il via libera per il progetto del Grande Vajont, i prodromi della storia che 20 anni dopo è culminata nell’ecatombe sotto al monte Toc, da cui si è staccata la gigantesca frana: per inciso, in dialetto friulano “toc” significa pezzo, ma anche “marcio”. La Quarta sezione del Consiglio superiore dei lavori pubblici, al ministero omonimo, accolse l’istanza del conte Volpi e gli spianò la strada per mettere le mani sull’acqua del Piave: la decisione fu presa con 13 membri presenti su 34 aventi diritto, quindi in assenza del numero legale, e anche questo forse fu un segno del destino nella terribile e triste storia del Vajont.

Tina, giornalista partigiana

Il conte Volpi è passato a miglior vita nel ’47, ma il progetto Grande Vajont era già pronto, avviato e autorizzato. Infatti la Sade già da prima aveva cominciato a comprare o espropriare i terreni di montagna che si trovavano sul percorso delle dighe, delle condotte e delle centrali idroelettriche, offrendo spesso ai contadini e ai montanari un pezzo di pane in luogo del vero valore dei loro appezzamenti. Anche per questo, in questa storia ci sono state anche voci non allineate, voci fuori dal coro. Poche, pochissime, ma potenti. Come nel caso di Clementina Merlin, per tutti Tina, all’epoca dei fatti giovane corrispondente de L’Unità. Famiglia di origini povere, la madre “cioda” cioè bracciante agricola, il padre emigrante stagionale, ultima di sei figli ma senza superstiti fra i maschi: un fratello disperso in Russia, l’altro comandante partigiano ucciso sul campo e medaglia d’argento al valore militare, lei stessa ancora ragazzina fu staffetta nella sua brigata.

Espropri e carabinieri

Si era fermata alla terza elementare, ma con un racconto inviato al giornale fu scelta per mandare all’Unità corrispondenze dalle montagne di cui conosceva, avendole vissute sulla propria pelle, tutte le loro ferite: l’emigrazione, la povertà, la fatica matta per tirare fuori il pane quotidiano da quei campi appoggiati a fondovalle. Fu lei a raccontare sulle colonne del giornale fondato da Antonio Gramsci le vicende di Erto e Casso, dei paesi e della gente di montagna che veniva sfrattata dalle proprie case e dalle proprie terre per fare spazio alla Sade e al suo grande progetto di produrre e vendere elettricità per il Paese. Pochi spiccioli per comprarsi tutto, la minaccia di far arrivare i carabinieri se qualcuno puntava i piedi o non voleva cedere: per anni, nelle vallate sopra al torrente Vajont, Tina Merlin ha vissuto e descritto scene che col senno di poi, riecheggiano altre, molto più recenti, suggeriscono di vallate spianate per l’alta velocità, di altre battaglie di altri montanari dei tempi nostri, in un cerchio che si chiude spesso e che restituisce tutta l’attualità del Vajont e della sua storia.

Processo ad una cronista

L’unica voce contro, quella di Tina, per di più voce di donna, perché per la narrazione dell’epoca la Sade portava “benessere e lavoro” per tutti, e pareva brutto, oltre che scomodo, fare i bastian contrari e illuminare le tante zone d’ombra di quelle sorti magnifiche e progressive dell’energia elettrica italiana. Fu definita uno “Stato nello Stato”, la Sade, per il suo potere di influenzare la politica e per il suo peso specifico nelle stanze dei bottoni. Fu anche denunciata per notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico, per un articolo del 5 maggio 1959 intitolato “La Sade spadroneggia, ma i montanari si difendono”. Il processo a Milano durò ben poco, il tempo che il giudice Salvini lo aprisse e facesse parlare gli abitanti di Erto, scesi in città per testimoniare che Tina Merlin aveva scritto la verità. Raccontarono anche della frana da 800mila metri cubi che era scesa dal monte Toc minacciosa, uno dei tanti presagi funesti di questa storia, e delle loro preoccupazioni per il futuro con quella diga e quell’enorme invaso davanti alle loro case. La Merlin fu assolta con formula piena, “ha ragione lei” disse il giudice. Intorno a lei, un silenzio assordante. 

Silenzio stampa assordante

Di tutta la vicenda, dai primi espropri di terre alla costruzione della diga, passando per frane, terremoti, operai morti sul lavoro, autorizzazioni fantasma e collaudi addomesticati, nemmeno una riga o una parola sui giornali. A cominciare dal Gazzettino che in quelle contrade dolomitiche da sempre ha un monopolio, e dalle cui colonne non uscì nemmeno una virgola fuori posto. Anche perché, secondo qualcuno, il suo storico azionista di riferimento, Giuseppe Volpi – ancora lui, il conte di Misurata eroe dei due mondi e con le mani in pasta ovunque – quando ha ceduto le sue quote di maggioranza negli anni ’40 alla Democrazia Cristiana, sottoscrisse con loro un tacito accordo. Una specie di assicurazione sull’onore e sugli affari, diciamo. Perché il Gazzettino fosse molto morbido, diciamo, con gli imprenditori e i capitani di industria che avevano cambiato casacca al cambiare del vento bellico, come il conte Volpi che dopo l’8 settembre 1943 diresse la prua verso la Svizzera dove diventò un fervente sostenitore, e finanziatore, dell’antifascismo. E poi, ovviamente, che la redazione e i suoi giornalisti avessero un occhio di riguardo per la Sade che sulle dolomiti cercava acqua da tradurre in oro, ma creava ricchezza e posti di lavoro, quindi non bisognava disturbarla più di tanto.

L’ingegnere scomodo

Tra i pochi ribelli del Vajont, l’ingegner Renzo Desidera, capo del Genio civile di Belluno, che nel luglio 1959 fece chiudere un cantiere abusivo della Sade e per questo fu trasferito da un giorno all’altro dal ministro dei Lavori pubblici in persona, il democristiano Giuseppe Togni. Un politico di lungo corso, dodici volte ministro, che fu il primo sponsor politico della Sade: sua anche la nomina della Commissione di collaudo della diga: correva l’1 aprile 1958 e la faraonica opera sarebbe stata conclusa due anni dopo, con l’impiego di 360mila metri cubi di calcestruzzo.

Una cicatrice sulla montagna

Dei cinque membri della Commissione, tuttavia, almeno due avevano un palese conflitto di interessi. E questo fu l’andazzo delle cose fin dal principio, fin da quando cioè la Sade nel 1957 aprì il cantiere senza aspettare l’autorizzazione da Roma: aveva l’abitudine di anticipare il governo, per cosi dire. Non attese nemmeno il via libera ministeriale per il collaudo dell’invaso, prima che a novembre 1960 sul monte Toc, sul versante sinistro del lago, comparisse un’enorme cicatrice lunga quasi due chilometri e mezzo, a circa due terzi della pendice. L’ennesima prova che bisognava lasciar perdere tutto, come consigliò un geologo austriaco, Muller. La diga fu l’opera giusta, fatta come Dio comanda, visto che non si è spostata di un centimetro nemmeno in quell’inferno. Ma nel posto sbagliato, in un posto dove proprio non era il caso di piantare nemmeno una tenda canadese, perché i versanti dell’invaso non avrebbe garantito sicurezza e stabilità all’opera.

Il tunnel della colpa

C’era infatti una paleofrana sotto ai prati e ai boschi, sotto alle case e alle stalle dove i montanari portavano le bestie per l’alpeggio. Una specie di enorme zolle lunga due chilometri che era destinata a scivolare inesorabilmente verso il basso, ossia verso il bacino della Sade. Il sasso caduto nel bicchiere, di cui parlava Buzzati, era quella massa di 270 milioni di metri cubi di detriti e terra che i montanari sentivano muoversi, con terribili boati e scosse, fino a che non riuscirono più a chiudere le porte delle case o a usare la macchina, perché le case e le strade erano dissestate e spostate dal movimento della frana. Tutti, alla Sade e al governo, avevano capito che c’era la frana e che non si sarebbe mai più fermata: la loro colpa imperdonabile fu quella di continuare col progetto, nascondere le prove e l’evidenza dei fatti e far credere alla popolazione che era tutto a posto. Sicuramente non erano in buona fede gli esperti che negavano il pericolo e nel frattempo, per conto della Sade, nel 1961 hanno progettato e realizzato un tunnel di “sorpasso frana”. Ossia una galleria lunga circa 1.8 chilometri (costata un miliardo di lire) che avrebbe collegato le due parti del bacino in caso di frana, garantendo al torrente Vajont la possibilità di continuare la sua corsa verso il Piave.

Acqua ultimo freno

Un by-pass all’interno del bacino che sarebbe servito, appunto, nel caso si fosse verificato il disastro. Proprio questa variante al progetto, in sede giudiziaria, fu considerata tra le prove che la Sade sapeva e si preparava al peggio. Gli ingegneri si illusero, forse, di poter gestire questo tracollo semplicemente alzando o abbassando il livello dell’invaso che avrebbe potuto arrivare al massimo a 721 metri sul livello del mare. Ma ogni volta che aprivano i rubinetti, l’effetto sul versante franoso sotto al monte Toc era devastante. L’acqua era penetrata nelle falde, rendendo ancora più scivolosa la superficie sulla quale stava precipitando l’enorme zolla. E alla fine, nei giorni precedenti il disastro, quando si vedevano già le chiome degli alberi piegate dal precipitare della montagna, l’ennesimo abbassamento dell’invaso ebbe come conseguenza il definitivo distacco della frana, che non aveva più nemmeno la pressione dell’acqua a tenerla salda.

Macabro listino

Certamente la fretta della Sade di cedere a Enel i suoi impianti, compreso quello del Vajont, per la nazionalizzazione dell’energia decisa poco tempo prima dal Parlamento, ha accelerato il corso di una tragedia che ormai era solo rinviata. All’apertura del processo, erano quattromila le parti civili che hanno chiesto il risarcimento, Enel si impegnò a pagare 10 miliardi, purché venisse ritirato il 90% dei ricorsi nel procedimento in cui era imputata. Fu anche stabilito un gelido tariffario: 3 milioni per la perdita di un coniuge, 1 milione e mezzo per quella di un figlio, 800mila lire per un fratello o sorella conviventi. In sede penale, i capi di imputazione per gli 11 rinviati a giudizio col vecchio rito, tra di loro figure apicali di Sade, Ministero e mondo accademico, recitavano disastro colposo di frana aggravato dalla prevedibilità dell’evento, inondazione e omicidi colposi plurimi.

Condanne e condoni

Il processo, celebrato a L’Aquila per evitare condizionamenti, si risolse in primo grado con un colossale colpo di spugna per la Sade, agli imputati principali fu contestato solo il mancato allarme. È in appello però che i giudici hanno stabilito la responsabilità dei manager e la connivenza con apparati dello Stato, le condanne sono state confermate dalla Cassazione appena 14 giorni prima della prescrizione (25 marzo 1971): Alberico Biadene, responsabile opere idrauliche della Sade, e Francesco Sensidoni, capo servizio dighe del ministero dei Lavori pubblici e membro della Commissione di collaudo, furono condannati a 5 e 3,8 anni. Entrambi hanno beneficiato di un condono di 3 anni e Biadene – che la sera del 9 ottobre 1963, poche ore prima dell’ecatombe, mentre il fianco della montagna precipitava a vista d’occhio e gli alberi erano ormai inclinati come birilli, sussurrò “che Dio ce la mandi buona” a colleghi e operai che gli chiedevano il da farsi – ebbe ragione. Almeno per se stesso. [di Salvatore Maria Righi]

Da corriere.it l'11 luglio 2022.

Incredibile valanga in Kirghizistan, venerdì 8 luglio. Nove britannici e un americano hanno rischiato di essere travolti: sono miracolosamente sopravvissuti. 

Un uomo, partecipante ad un tour guidato al passo di Dzhuuku, una delle zone più belle della regione Issyk-Kul sulle montagne del Tian Shan, ha ripreso la caduta della neve. Ha sentito il rumore del ghiaccio che si rompeva e ha iniziato a registrare, forse non immaginando che la valanga sarebbe arrivata fino a lui. 

Il rischio che ha corso è stato enorme, nonostante si fosse assicurato di avere vicino un posto dietro le rocce per ripararsi. La nube di ghiaccio e neve gli è passata sopra con una potenza dirompente. «Si è fatto buio, era difficile respirare: ho pensato che avrei potuto morire» ha raccontato poi. Il resto del gruppo era più lontano: tutti salvi, solo un partecipante è rimasto ferito ad un ginocchio. 

Il dipartimento di Ecologia e Turismo della Kyrgyz State University ha spiegato che la valanga è una conseguenza dei cambiamenti climatici: il ghiacciaio si è sciolto a causa delle elevate temperature e una parte di esso è crollata. Uno studio, pubblicato il 27 maggio su Geophysical Research Letters, ha rilevato che negli ultimi 35 anni le temperature sono aumentate in tutta l’Asia centrale, che comprende parti della Cina, dell’Uzbekistan e del Kirghizistan. In alcune aree, la temperatura media annuale è stata di almeno 5 °C più alta tra il 1990 e il 2020 rispetto a quella tra il 1960 e il 1979. 

Nella catena del Tian Shan, l’aumento delle temperature è stato accompagnato da un aumento della quantità di precipitazioni che cadono sotto forma di pioggia anziché di neve. Le temperature più elevate e l’aumento delle precipitazioni contribuiscono allo scioglimento dei ghiacci ad alta quota.

Ghiacciai alpini ai minimi storici. "Ecco cosa sta succedendo". Alessandro Ferro il 20 Luglio 2022 su Il Giornale.

La tragedia della Marmolada ha fatto aprire gli occhi su un fenomeno che avviene già da tempo: il ritiro e la scomparsa dei ghiacciai a causa del cambiamento climatico. Ecco cosa ci ha detto il prof. Maggi.

Ondate di caldo anomalo che hanno raggiunto picchi impensabili fino a pochi giorni fa, come nel caso del Regno Unito dove si è registrata la temperatura più alta di sempre con i 40,2°C all'aeroporto Heatrow di Londra. Ma questa non è che la punta dell'iceberg di qualcosa che accade ormai da anni sotto i nostri occhi e di cui abbiamo avuto contezza con la tragedia della Marmolada, il cui ghiacciaio non ha retto provocando una strage di escursionisti. Per saperne di più e fare il punto della situazione abbiamo intervistato il prof. Valter Maggi, Ordinario di Geografia Fisica all'Università Bicocca di Milano e Presidente del Comitato Glaciologico Italiano.

Quanto è preoccupante l'attuale ondata di calore che, come abbiamo visto sul Giornale.it, ha fatto schizzare lo zero termico a 4.800 metri?

"Quello che sta succedendo è una situazione eccezionale ma nel solco di quanto accade da ormai 40-50 anni, il riscaldamento che sta interessando l'arco alpino, una delle aree più impattate dall'aumento delle temperature, ben superiori a quelle che riguardano l'aumento globale. È ovvio che se si aggiunge il meccanismo meteo-climatico che ha portato le temperature a raggiungere livelli altissimi e spostare lo zero termico oltre i 4.500 metri, è chiaro che sia fortemente impattante specialmente per i ghiacciai, ormai in ritiro, che stanno subendo un ulteriore colpo alla loro massa.

Perché sono proprio le Alpi a subìre i maggiori effetti del cambiamento climatico?

"Le Alpi si trovano in una zona climatica, l'area Mediterranea, che in generale sta subendo un aumento di temperatura maggiore del valore medio planetario. Le zone di alta montagna sono delle aree dove l'impatto è più significativo per la loro posizione e lo stesso avviene nelle aree artiche con aumenti di temperature maggiori che altrove. Le Alpi stanno sul bordo dell'area mediterranea e i valori sono aumenti del doppio, forse di più".

Qual è lo stato di salute dei ghiacciai?

"I ghiacciai alpini si stanno ritirando da decenni. Ultimamente il ritiro è diventato ancora più importante, poco alla volta stanno diminuendo sia in superficie che in volume. Questa situazione interessa un po' tutti i ghiacciai del mondo: noi del comitato glaciologico esistiamo dal 1895 e abbiamo sempre registrato, in genere, delle riduzioni salvo alcuni casi. È una sequenza negativa".

Qual è lo stato del ritiro?

"I ghiacciai si stanno ritirando dall'ultima volta che sono avanzati in modo significativo in quella che noi chiamiamo la piccola età glaciale, il cui acme è avvenuto tra la metà e la fine dell'Ottocento. Alcuni di essi si sono ritirati di oltre il 90% in termini di superficie, altri sono stati un po' più 'fortunati' con un ritiro del 40-50%. Consideriamo che il nostro arco alpino è abbastanza asimmetrico, le montagne più elevate si trovano nella parte occidentale, Monte Bianco e Monte Rosa per fare due esempi. Man mano che ci spostiamo verso est sono mediamente più basse ed è ovvio che con l'innalzamento delle temperature, i ghiacciai occupano le porzioni più elevate delle montagne".

Quali sono le ragioni di questo ritiro?

"La ragione è il riscaldamento climatico-globale che stiamo subendo, nella fase più parossistica, dagli ultimi 50 anni. Il grosso dell'aumento delle temperature è avvenuta dalla fine degli anni Settanta e inizio degli anni Ottanta. Da allora abbiamo un trend in continuo aumento e questo fa sì che se il valore medio di aumento termico, planetario, è di un grado, ci sono delle aree dove evidentemente è più elevato come accade sulle Alpi".

Cosa ci insegna la tragedia della Marmolada?

"È stata una tragedia avvenuta in una situazione imponderabile. È successo in piena stagione estiva, una domenica pomeriggio con il crollo di un pezzo di ghiaccio che sottendeva un sentiero importante che porta in vetta. C'è stata una somma di effetti particolarmente sfortunata che ha portato a questa tragedia. È chiaro che i ghiacciai, man mano che si alzano in quota raggiungono aree in cui c'è una pendenza maggiore, le alte temperature forniscono una grandissima quantità d'acqua. Nel momento in cui la situazione non è più stabile perché il ghiacciaio subisce delle pressioni interne piuttosto elevate, si staccano dei blocchi. Di solito non è una novità, avviene anche altrove ma nel 99% delle volte in posti dove non c'è nessuno.

Ci sono interventi che possono frenare questo ritiro?

"Sì, invertire il trend dell'aumento delle temperature limitando le emissioni, riducendole al massimo facendo in modo che questo trend cambi in modo importante. È l'unico modo per poter agire in modo significativo sui nostri ghiacciai. Si tratta di ecosistemi integrati nel sistema naturale: se aumenta la temperatura, tutto l'ecosistema ghiacciaio si adatta ed è quello che sta succedendo. Interventi diretti non sono possibili: ci sono 903 ghiacciai sulle Alpi, il 90% dei quali in posizione anche abbastanza scomoda da raggiungere".

Quali possono essere le conseguenze di questa situazione?

"I ghiacciai si riducono e tutto ciò che è legato, dall'acqua al turismo, poco alla volta avranno sempre più difficoltà. Esistono bellissimi rifugi con la vista sui ghiacciai ma non si vedono più, per fare un esempio banale. Anche dal punto di vista turistico sarà un problema, bisognerà adattarsi a queste condizioni".

Dobbiamo prepararci ad adattarci?

"Certo che dobbiamo adattarci: sui cambiamenti climatici è tutto un problema di adattamento. La mitigazione potrà avvenire solo in alcuni casi. Ricordiamoci che nell'area delle Alpi vivono circa 40 milioni di abitanti, non stiamo parlando di un posto sperduto in mezzo alle montagne dell'Alaska. Non c'è da stupirsi se il problema può diventare ancora più importante ma non è una novità di questi giorni, se ne parla da decenni".

L'adattamento in cosa consisterebbe?

"Sarà avere la capacità di capire che la montagna cambia, cambia molto velocemente. Pensare di vedere una montagna come 30-40 anni fa non è più possibile, è sempre bella ma in maniera diversa. I ghiacciai sono estremamente veloci nel cambiamento e tutto ciò che cambia velocemente necessita di un adattamento molto veloce. Alcune situazioni vanno ripensate, l'esempio più classico è lo sci d'alta montagna. Aree sciistiche importanti cominciano a non avere più la neve".

In conclusione, la velocità del riscaldamento globale è causato dall'uomo o è un processo naturale?

"Per mestiere devo leggere la letteratura scientifica: è da 40 anni che tutti gli articoli scientifici vanno nella stessa direzione, che c'è un forte impatto dell'uomo sull'atmosfera e come risultato c'è un cambiamento climatico. Non lo dico io, la mia materia è il Paleoclima, ossia la storia prima dell'uomo, conosco la storia naturale, prima che l'uomo impattasse il sistema climatico. Non credo di aver mai letto articoli contrari, poi è chiaro che nel mondo di internet ognuno può scrivere quello che vuole. Se l'intera letteratura scientifica va nella stessa direzione, il sospetto che ci sia qualcosa di reale c'è. Io dico sempre ai miei studenti che mi pagano lo stipendio a prescindere dal fatto che il cambiamento climatico sia dovuto all'uomo o meno, a me non cambia nulla. Quelle che devo passare sono le informazioni scientifiche che vengono dalla comunità scientifica".

Marmolada, la valanga di ghiaccio correva a 300 all’ora: 6 morti, 8 feriti, molti dispersi. «Una carneficina». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.

Il seracco è crollato quando in vetta c’erano 10 gradi. Nel parcheggio al punto di partenza restano 16 auto che nessuno finora è andato a riprendere. Gli esperti: rischio di altri crolli. Ricerche anche con i droni. Le vittime trasportate a Canazei. 

Alcuni salivano, altri scendevano. Erano tutti sul ghiacciaio della Marmolada, fra l’ultimo rifugio e la cima, in una conca che si chiama Pian dei Fiacconi perché lì si arriva fiacchi. All’improvviso, verso le due del pomeriggio, sole a picco e temperatura fuori norma come da parecchio tempo, un pezzo di calotta si stacca dall’alto e si trasforma in una grande cascata di ghiaccio e roccia che travolge tutto e tutti. Tecnicamente un seracco, cioè un enorme blocco che era lì forse da secoli ed è caduto finendo a valle sbriciolandosi in una corsa senza ostacoli. Sarà la più grande tragedia moderna di queste montagne: sei vittime, otto feriti di cui due gravi, molti i dispersi (al punto di partenza sono rimaste 16 automobili che nessuno è andato a riprendere).

«Corpi martoriati»

«C’era gente irriconoscibile, sfigurata, corpi martoriati... d’altra parte la massa caduta è enorme e ha effetti devastanti», racconta Alex Barattin, responsabile del Soccorso Alpino di Belluno che è volato sul luogo della sciagura. Le dimensioni del distacco sono eccezionali: circa 200 metri il fronte che è venuto giù per un chilometro e mezzo a circa 300 all’ora ingigantendosi fino a 400 metri di larghezza. Tutto materiale solido, pochissima neve, consumata anzitempo in questa estate torrida che vede lo zero termico collocarsi ben al di sopra dei 3.343 metri di Punta Penia, la vetta della Marmolada, la più alta delle Dolomiti (ieri alle 13 c’erano 10 gradi in vetta). 

Il procuratore: «Una carneficina»

«Disastro inimmaginabile, una carneficina che difficilmente ci permetterà di identificare subito tutte le vittime, il cui numero sembra purtroppo destinato a salire... conteremo chi non torna», ha sospirato il procuratore di Trento, Sandro Raimondi, che sulla vicenda ha aperto un fascicolo per disastro colposo. Saranno utili le segnalazioni di parenti e amici di persone che ieri non sono rientrate, per le quali si procederà con la comparazione del Dna. In Procura è giunta la telefonata del console rumeno che chiedeva informazioni su alcuni connazionali.

Due cordate

Da una prima ricostruzione pare che le cordate travolte siano almeno due e che fra le vittime ci siano anche le guide. I feriti si sarebbero salvati solo perché si trovavano ai margini della valanga, dove sono stati investiti dallo spostamento d’aria che ha provocato una raffica di detriti. Ha avuto la peggio chi stava a valle. Miracolato invece chi era a monte e ha assistito dall’alto alla spaventosa scena, per poi riprendere a salire verso Punta Penia, dove è stato evacuato dagli elicotteri dei soccorsi che hanno volteggiato per ore sui cieli della Marmolada. Gli stessi soccorritori hanno poi dovuto sospendere le operazioni per ragioni di sicurezza. «C’è il rischio di nuovi distacchi», ha valutato Barattin dopo un sopralluogo.

Le cause

Quanto alle cause del crollo, che saranno naturalmente oggetto dell’indagine della Procura, gli esperti puntano già il dito sulle condizioni climatiche. «Le alte temperature possono creare dei piccoli ruscelli che vanno a insinuarsi nel ghiacciaio erodendone la base e provocando il distacco», ipotizza Cristian Ferrari, presidente della Commissione glaciologica degli alpinisti tridentini e grande esperto di Marmolada, dove era salito anche sabato scorso. «Con il caldo globale i ghiacciai sono sempre più sottili e, quando cadono, vengono giù pezzi come grattacieli», ha aggiunto Reinhold Messner pensando all’impatto del clima malato sui giganti di ghiaccio.

I feriti sono stati ricoverati negli ospedali di Belluno, Treviso, Trento e Bolzano. 

Proprio ieri sulla Marmolada é stato raggiunto il record delle temperature (10 gradi circa in vetta).

«Quel seracchio era lì da secoli»

«Maurizio Dellantonio, presidente del Soccorso Alpino, l’ha puntualizzato: «Quel seracco era lì da centinaia di anni». Le domande alle quali il pm dovrà rispondere sono quelle: è davvero solo colpa del clima o c’è anche qualche responsabilità umana? 

Da open.online il 3 luglio 2022.  

«Che strazio quei cadaveri tra i blocchi di ghiaccio. In tanti anni mai vista una cosa del genere». A parlare è uno degli uomini del Soccorso Alpino arrivato dopo il crollo di un blocco di ghiaccio sulla Marmolada. A causarlo è stato il distacco di un seracco e stamattina riprenderanno le ricerche dei 15 dispersi (le vittime al momento sono 6). I cadaveri finora recuperati sono stati ricomposti nel Palazzo del Ghiaccio di Canazei. In serata sono arrivati i primi familiari per le identificazioni. Quattro sono stati già identificati: sono 3 cittadini italiani ed un ceco. Restano da identificare un uomo e una donna. Fra i dispersi ci sono italiani, tedeschi, cechi e forse anche cittadini rumeni.

I sopravvissuti

«Comunque è molto difficile che ci siano dei sopravvissuti — dice oggi al Corriere uno degli uomini del Soccorso alpino -. Dal sopralluogo fatto in elicottero abbiamo visto che è venuta giù una massa larga 200 metri ed alta 80. Un mare di ghiaccio e detriti che da quota 3.200 è arrivato a circa 1.800 metri. 

Sono rimaste ferite le persone che erano ai margini di questa marea e sono state investite dai detriti o dallo spostamento d’aria». C’è comunque chi si è salvato per un soffio. Come Stefano Del Moro, ingegnere di Borso del Grappa, che si trovava lì insieme alla compagna israeliana. 

«Siamo dei miracolati. Eravamo poco più in alto rispetto al punto in cui ci sono state le vittime. C’è stato un rumore sordo, poi è venuto giù quel mare di ghiaccio. In questi casi è inutile scappare, puoi solo pregare che non venga dalla tua parte. Ci siamo abbracciati forte e siamo rimasti accucciati mentre la massa di ghiaccio ci passava davanti», racconta lui oggi al quotidiano.

Stefano e la fidanzata erano più in alto di duecento metri rispetto alle due cordate tra volte dal ghiaccio, loro erano più in alto di nemmeno cento metri. Della «cascata di ghiaccio e detriti» hanno sentito solo il soffio gelido. 

«Prima li vedevamo dall’alto, ma poi ci siamo girati per proteggerci». Sono tornati indietro e risaliti fino alla capanna di Punta Penia, da dove sono stati portati a valle in elicottero. Elisa Dalvit, trentina di Grumes, affida invece il suo ricordo a Repubblica: «Siamo saliti in quattro dalla ferrata della cresta ovest, ma un quinto ha preferito l’ascensione dalla via normale, facendo la ferratina. È arrivato dopo di noi, ci siamo fermati in vetta ad aspettarlo». Questo «è stato la nostra salvezza. Altrimenti ora saremmo tutti là sotto…».

E.Mar. per “la Stampa” il 3 luglio 2022.  

«Non abbiamo certezza di nulla sui dispersi, al momento. Le chiamate dei famigliari sono parecchie, anche solo per informazioni», dice il direttore della Protezione civile di Canazei Raffaele Del Col. Le sei vittime della valanga di ghiaccio e roccia sono nel paese della Val di Fassa. 

La loro identità è da accertare e secondo gli inquirenti (è stata aperta un'inchiesta per disastro colposo dalla Procura di Trento) potrebbe essere necessario ricorrere all'esame del Dna perché alcuni corpi sono stati dilaniati, travolti, hanno accertato i tecnici del Soccorso alpino, da una massa di materiale scesa a 300 chilometri l'ora. 

Nelle cordate coinvolte c'erano sia alpinisti italiani sia stranieri, accompagnati, secondo i testimoni, da guide alpine. Fra i famigliari che hanno telefonato alla centrale di soccorso alcuni hanno raggiunto nel tardo pomeriggio di ieri il palazzetto del ghiaccio dove c'era anche un'équipe di psicologi.

È stata imponente l'operazione di soccorso che ha impegnato le stazioni sia del Veneto sia del Trentino: cinque elicotteri, unità cinofile, almeno cinquanta uomini per le ricerche a terra. Fino a quando il rischio di nuovi crolli del ghiacciaio ha fatto interrompere le ricerche. 

Il presidente nazionale del soccorso alpino Maurizio Dellantonio parla di «evento straordinario, quella parte di ghiacciaio che è crollata era lì da centinaia di anni». Aggiunge: «Da sopralluogo abbiamo capito che c'era un pericolo a monte del ghiacciaio in quanto la "calotta" di ghiaccio si è staccata, ma è rimasto un pezzetto in bilico, che non è piccolo, parliamo di centinaia e centinaia di metri cubi di ghiaccio. 

Tutta la parte "slavinata" di ghiaccio e roccia è stata monitorata a vista sia dall'alto, con i mezzi aerei, che dai lati. Senza indicazioni certe di eventuali dispersi, perché certezza non ce n'era, noi abbiamo dovuto fermarci. Dobbiamo mettere in sicurezza la zona, cioè restiamo fermi fino a quando quel pezzetto non cade o non lo facciamo cadere». 

Fra i primi soccorritori a raggiungere il ghiacciaio sotto Punta Rocca c'era Luigi Felicetti, della Val di Fassa. Racconta: «Quando ci hanno chiamato hanno detto che è venuta giù la Marmolada. Al nostro arrivo ci siamo trovati davanti ad uno scenario pazzesco, c'erano blocchi di ghiaccio e roccia enormi dappertutto, abbiamo cominciato a cercare e abbiamo trovato le prime vittime».

E spiega: «Erano tutti con corde e ramponi, attrezzatissimi, sono stati davvero tanto sfortunati». Quanto accaduto non era prevedibile, la spaccatura improvvisa di un fronte glaciale, ma una perplessità sulle misure di sicurezza degli alpinisti è data dall'ora in cui erano ancora impegnati (alcuni in salita, altri in discesa) sulla Marmolada: intorno alle 13,30. 

Perplessità che deriva dalle alte temperature che durano ormai da oltre un mese e con lo zero termico tra i 4.000 e i 5.000. In assenza di neve non ci sono pericoli di valanghe, ma le condizioni indicano un aumento del rischio di crolli glaciali.

Ora l'interrogativo più inquietante riguarda i dispersi.

Secondo le testimonianze e dopo il confronto con i gestori dei rifugi i soccorritori, ieri sera, ipotizzavano fossero almeno una quindicina. Per questo si stanno facendo controlli attraverso le auto ai piedi della Marmolada su entrambi i versanti, sia Veneto sia Trentino, per poter risalire alle identità dei proprietari e contattarli. 

Così come è ancora in dubbio se le cordate coinvolte dalla valanga fossero due o quattro, come indicato in un primo momento. Ma a giudicare dalle ipotesi sul numero dei dispersi è possibile che vi fossero anche alpinisti che salivano (o scendevano) in altri gruppi o slegati.

Nel giro di un'ora gli uomini del soccorso alpino si sono resi conto che il pericolo di nuovi crolli poteva aumentare per l'anomala temperatura: alle 14 in vetta alla Marmolada c'erano 10,3 gradi e 5 erano stati i gradi durante la notte. Di qui la decisione di sgomberare la montagna dalle cordate ancora impegnate. 

La ricerca, anche con i cani, si sono concentrate circa 500 metri più in basso dal crollo del dosso glaciale accanto alla cima di punta Rocca. Nella zona alla fine del ghiacciaio che segue la base della montagna e dove piega ad angolo acuto verso la valle. Lì la valanga ha devastato il territorio. Gli uomini del soccorso parlano di «enormi blocchi sia di ghiaccio sia di roccia».

I video mostrano la velocità della valanga, nonostante gli ostacoli incontrati. Non ha lasciato scampo agli alpinisti che pure avevano avvertito il distacco e avevano cercato (secondo le testimonianze dei superstiti) di mettersi in salvo correndo lungo la linea di massima pendenza. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha seguito tutte le operazioni di soccorso, in contatto con il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti, dal soccorso alpino, dai vigili del fuoco e dalle autorità locali, ringraziando i soccorritori «per l'incessante lavoro» ed esprimendo vicinanza alle famiglie di vittime e feriti a nome del governo.

Marmolada, i sopravvissuti al crollo: «Noi abbracciati mentre la valanga ci passava vicino». Alfio Sciacca (ha collaboratore Luca Marsilli) su Il Corriere della Sera il 4 Luglio 2022.

Soccorritori sotto choc: corpi straziati per 1.000 metri. Le salme ricomposte nel Palazzo del Ghiaccio a Canazei, psicologi per assistere i parenti. Un escursionista: «Io vivo per miracolo». 

I soccorritori fanno fatica a descrive le fasi di recupero dei sei morti accertati della tragedia. «Per oltre mille metri abbiamo trovato resti straziati in mezzo a una marea informe di ghiaccio e detriti», racconta Gino Comelli del Soccorso Alpino. «Che strazio quei cadaveri tra i blocchi di ghiaccio e roccia — aggiunge Luigi Felicetti, sempre del Soccorso Alpino —, in tanti anni mai vista una cosa del genere». Le salme sono state ricomposte nel Palazzo del Ghiaccio di Canazei. Qui in serata sono arrivati i primi familiari che dovranno identificare i loro cari. Ad assisterli c’è un nutrito gruppo di psicologi. Sotto un leggera pioggia, è un mesto pellegrinaggio, che proseguirà anche oggi. Non è facile l’identificazione dei cadaveri e in questa fase si sta procedendo mettendo assieme le tante segnalazioni, arrivate anche dall’estero. Si cerca anche di identificare i proprietari delle 16 auto lasciate nel parcheggio attorno al lago Fedaia, punto di partenza per le escursioni in quota.

A poca distanza dal Palazzo del Ghiaccio c’è invece il Centro di coordinamento dei soccorsi per tentare di recuperare un numero imprecisato di dispersi, forse 15. «Comunque è molto difficile che ci siano dei sopravvissuti — dice sconsolato Comelli —, dal sopralluogo fatto in elicottero abbiamo visto che è venuta giù una massa larga 200 metri ed alta 80. Un mare di ghiaccio e detriti che da quota 3.200 è arrivato a circa 1.800 metri. Sono rimaste ferite le persone che erano ai margini di questa marea e sono state investite dai detriti o dallo spostamento d’aria». «Una tragedia che non era prevedibile, malgrado il grande caldo» aggiunge il capo del Soccorso Alpino Nazionale Maurizio Dellantonio. Al momento ogni operazione in quota è sospesa e l’accesso alla Marmolada interdetto. «Il ghiacciaio è ancora estremamente instabile e c’è un altissimo rischio di nuovi crolli», dicono i soccorritori.

Tra tanto dolore ci sono anche i racconti di chi è scampato alla morte per un soffio. Come Stefano Dal Moro, ingegnere di Borso del Grappa, e la sua compagna israeliana. «Siamo dei miracolati. Eravamo poco più in alto rispetto al punto in cui ci sono state le vittime. C’è stato un rumore sordo, poi è venuto giù quel mare di ghiaccio. In questi casi è inutile scappare, puoi solo pregare che non venga dalla tua parte. Ci siamo abbracciati forte e siamo rimasti accucciati mentre la massa di ghiaccio ci passava davanti». Rispetto alle due cordate travolte dal ghiaccio, loro erano più in alto di nemmeno cento metri. Della «cascata di ghiaccio e detriti» hanno sentito solo il soffio gelido. «Prima li vedevamo dall’alto, ma poi ci siamo girati per proteggerci». Dopo la tragedia sono tornati indietro e risaliti fino alla capanna di Punta Penia, da dove sono stati portati a valle in elicottero.

Marmolada, il glaciologo: «Le cause? Il clima cambia, da maggio in quota fa un caldo record». Alessio Ribaudo su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.

Per il professor Renato Colucci (Cnr), docente all’Università di Trieste: «I ghiacciai oggi non sono più in equilibrio e quello sulla Marmolada entro 20 anni sparirà per via dei cambiamenti climatici» 

Il distacco del seracco sulla Marmolada non ha una sola motivazione ma è avvenuto per via di alcune concause. «I ghiacciai a causa dei cambiamenti climatici non sono più in equilibrio, soprattutto, al di sotto dei 3.500 metri — spiega il professor Renato Colucci, docente di glaciologia dell’Università di Trieste e ricercatore del Cnr — perché si è creato un clima diverso da 30 anni fa che non sostiene più la loro esistenza e, purtroppo, eventi tragici come quello accaduto sulla Marmolada sono, probabilmente, destinati a ripetersi. Per questo, serve mantenere la massima attenzione quando si scala».

Ieri sulla Marmolada secondo il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, è stato raggiunto il record delle temperature: con 10 gradi circa in vetta. Che influenza ha avuto sul seracco?

«Più che la temperatura record di un giorno sul seracco hanno influito le temperature anomale che da maggio si registrano in quota. A seconda dei posti, sono state anche di 10 gradi sopra ai valori normali. Poi lo scorso inverno è fioccato poco ed è venuta meno la protezione che la neve fornisce d’estate ai ghiacciai».

Come si spiega la tragedia?

«A questo grave scenario, si è aggiunta la forte ondata di calore dall’Africa: ha, probabilmente, prodotto una grossa quantità di acqua liquida da fusione glaciale che scorreva fra la base della montagna e quella parte di ghiacciaio della Marmolada. Quindi è avvenuto il crollo nelle condizioni peggiori per distacchi di questo tipo: tanto caldo e tanta acqua sotto. Purtroppo succederà ancora anche per via delle condizioni del ghiacciaio».

Come sta il ghiacciaio della Marmolada oggi?

«Se fosse un paziente direi che sta molto male e le sue condizioni peggiorano sempre di più. Sette anni fa avevamo condotto una ricerca con il Cnr in cui avevamo evidenziato come, dal 2004 al 2015, il volume si fosse ridotto del 30 per cento, mentre la diminuzione areale fosse stata del 22 per cento. Per questo avevamo concluso che entro il 2050, o giù di lì, sarebbe scomparso. Da allora, la situazione è peggiorata molto per via dei cambiamenti climatici più accelerati che hanno portato all’aumento delle temperature. Così, la scomparsa del ghiacciaio potrebbe avvenire anche entro vent’anni».

Ricerche con droni ed elicotteri. Chi sono le vittime della Marmolada, le vite spezzate di Paolo, Filippo, Davide: “Dispersi difficile che siano vivi”. Redazione su Il Riformista il 4 Luglio 2022. 

Paolo, Filippo, Tommaso, Davide. Sono alcuni nomi delle otto vittime della strage avvenuta domenica 3 luglio sulla Marmolada, dove il seracco, un ghiacciaio a forma di torre o pinnacolo che di solito deriva dall’apertura di crepacci in una montagna, ha travolto anche la via normale sulla quale stavano salendo gli alpinisti. Viaggiava a una velocità di circa 300 chilometri all’ora.

Al momento il bilancio è di 7 morti, 8 persone ferite (di cui due in gravi condizioni) trasferite negli ospedali di Trento, Bolzano, Belluno, Feltre e Treviso. I dispersi, il cui mancato rientro è stato denunciato dai familiari, scendono a 13 dopo il ritrovamento di un uomo di nazionalità austriaca rintracciato nelle scorse ore. Dieci dispersi sono di nazionalità italiana e tre di nazionalità ceca. Le autorità stanno ancora accertando la proprietà di 4 delle 16 auto parcheggiate nei pressi dei sentieri che portano al ghiacciaio: tutte hanno targhe straniere (1 tedesca, 2 ceche e una ungherese).

Le ricerche stanno andando avanti con l’utilizzo di droni e attraverso un elicottero. E procederanno allo stesso modo nelle prossime ore perché il rischio di ulteriori distacchi non permette di garantire l’intervento via terra. Sono le decisioni prese dai soccorritori visto che è “alquanto impossibile pensare che a più di 24 ore dal crollo possa esserci chi si sia salvato da un fiume di ghiaccio, sassi e rocce“. Una scelta che non mette in pericolo gli uomini che da ieri lavorano senza sosta e senza dimenticare che un altro blocco, alto 40-50 metri, è rimasto ‘sospeso’ e sembra destinato a franare, anche se è improbabile stabilire quando.

Tra le vittime figurano almeno quattro italiani, tra cui due guide alpine della provincia di Vicenza e di quella di Treviso, e un cittadino di nazionalità ceca. I morti sono tutti al Palaghiaccio di Canazei, dove è stata allestita la camera ardente. Qui i parenti possono procedere con il riconoscimento.

Tra le vittime accertate figurano Paolo Dani, 52 anni, guida alpina di Valdagno; Filippo Bari, 27enne di Malo (Vicenza), sposato, padre di un bambino di 4 anni e titolare di un negozio di ferramenta (poco prima della tragedia aveva inviato un selfie ad amici e famiglia: “sono qui!”); Tommaso Carollo, manager di 48 anni di Thiene (Vicenza) sulla Marmolada con la fidanzata (ricoverata in ospedale); Davide Miotti, 51 anni, guida alpina e titolare del negozio di abbigliamento sportivo. Dispersa al momento Erica Campagnaro, moglie di quest’ultimo.

Tra i dispersi ci sono altri alpinisti del Club Alpino Italiano della sezione di Malo. Mancano all’appello anche un altro uomo, sui 50 anni, di Alba di Canazei, una donna e un ragazzo di Pergine Valsugana, in Trentino.

Uno dei due feriti gravi è stato trasferito all’ospedale di Treviso dopo una prima valutazione a Belluno ed è ora in condizioni stabili. Lo riferisce l’azienda sanitaria Ulss n.2. Non è cosciente e quindi non è ancora stato possibile identificarlo: secondo quanto dichiarato dalla struttura ospedaliera ha un importante edema cerebrale e lesioni agli organi interni.

Marmolada, il racconto di un sopravvissuto: “Non ho nemmeno avuto il tempo di provare dolore”.  Asia Angaroni il 05/07/2022 

"Ho corso e poi sono svenuto. È stato tutto così repentino, non ho nemmeno avuto il tempo di provare dolore", racconta Riccardo Franchin al padre. 

4 dispersi sono stati trovati vivi, ma proseguono le ricerche delle 13 persone di cui si sono perse le tracce. Le speranze di ritrovarle in vita, tuttavia, si affievoliscono ora dopo ora. Straziante, ancora colma di paura e angoscia, la testimonianza di uno dei sopravvissuti, Riccardo Franchin.

Marmolada, il racconto di uno dei sopravvissuti

Iscritto al Cai di Noventa Vicentina, non ha mai preso sotto gamba la montagna, “una passione che ha scoperto di recente”, ma “coltivata sempre con raziocinio, studiando, approfondendo, affidandosi a persone esperte”. Lo racconta il padre Mario Franchin. Con Riccardo domenica 3 luglio c’erano anche il 22enne Nicolò Zavatta, la guida alpina Paolo Dani e l’altro vicentino Filippo Bari. “Mio figlio era il primo dei quattro, stavano entrando nel ghiacciaio e a suo dire forse gli altri, dietro di lui, si stavano per legare”, fa sapere il padre.

Il racconto prosegue: “Riccardo mi ha raccontato di aver avvertito un rumore strano e di aver alzato d’istinto la testa, per vedere cosa succedeva sopra di loro. Quando ha visto che la cima stava franando, d’istinto ha iniziato a correre, più veloce che poteva, lui era il primo della cordata a sinistra. Gli stava piovendo addosso la montagna e ha tentato di fuggire“.

Tuttavia, “sono trascorsi pochi istanti, è stato investito da quella valanga e ha subito perso i sensi“.

“È stato tutto così repentino, non ho nemmeno avuto il tempo di provare dolore“, dice Riccardo al suo papà. Dopo essersi ripreso ha avuto “un vuoto. Ero confuso, mi sono ritrovato sulle mie gambe e mi sono guardato attorno. Non ho più visto nessuno”.

Riccardo ha riportato “un trauma al fegato che però i medici dicono che potrà superare senza conseguenze“.

Al Corriere della Sera, il signor Mario aggiunge: “Se mi sento fortunato? Sono un papà miracolato. Miracolato come i medici hanno detto di Riccardo, ma dentro di noi c’è grande apprensione per i tre che erano con lui. Per Nicolò che incontravo in paese e per tutti gli altri che erano lassù”.

Lui morto, lei dispersa. Il tragico destino di Davide ed Erica. Rosa Scognamiglio il 4 Luglio 2022 su Il Giornale.

Davide Miotti è strato travolto dalla valanga di ghiaccio. Sua moglie Erica Campagnaro è ancora dispersa. I due avevano una passione per la montagna e avevano aperto un negozio sportivo. Il ricordo della coppia: "Erano molto uniti"

È salito a 8 il numero delle vittime nel crollo del ghiacciaio sulla Marmolada. Il bilancio dei dispersi, invece, è sceso a 15: quattro persone sono state rintracciate e tratte in salvo. Tra coloro che mancano all'appello ci sarebbero anche 12 italiani. Le ricerche sono state temporaneamente sospese per via del maltempo. Secondo gli operatori del soccorso alpino la possibilità di trovare altri superstiti "si è ridotta a zero".

Davide ed Erica

Uniti dalla passione per la montagna, divisi nella tragedia. È un destino drammatico quello che ha travolto Davide Miotti, 51 anni, e sua moglie Erica Campagnaro. Entrambi originari di Cittadella, in provincia di Padova, più di 20 anni fa avevano deciso di aprire un negozio di abbigliamento sportivo a Tezze sul Brenta (Vicenza), dove si erano trasferiti dopo il matrimonio. La casa, una modesta attività commerciale e due figli: un ragazzo di 15 anni e una ragazza più grande. Poi la tragedia: ieri Davide è stato ucciso dalla valanga di ghiaccio sulla Marmolada. Di Erica, invece, che era in cordata con lui, non si hanno più notizie. "Ricordo Davide come un ragazzo in gamba, un esperto di alpinismo, aveva fatto della sua passione un lavoro, con lui la moglie Erica Campagnaro, una coppia unita, siamo davvero addolorati per questa tragedia", ha raccontato il sindaco di Cittadella Luca Pierobon, amico d'infanzia della coppia. "Erano nati e cresciuti a Cittadella - ha aggiunto - siamo quasi coetanei e abbiamo passato molte serate insieme da ragazzi. Più di 20 anni fa avevano aperto questo negozio super-specializzato per arrampicate ed escursioni in montagna. Si erano per quello trasferiti a Tezze, ma le loro origini sono qui. Siamo davvero addolorati per la famiglia".

​"Nessuna speranza". Lo sconforto dei soccorritori

"Corpi triturati dal ghiaccio"

Sarà difficile, se non addirittura impossibile, procedere al riconoscimento delle vittime senza un test del Dna. Lo ha detto al Corriere.it Mauro Mabboni, uno degli soccorritori che ieri ha raggiunto la Marmolada subito dopo il crollo del seracco. Le valanghe non sono certo una rarità per chi è del mestiere "ma una cosa del genere non l'ho mai vista", ha assicurato Mabboni. Mezzo chilometro di ghiaccio e detriti che sono precipitati ad una velocità di 300 chilometri orari: delle schegge di vetro. "Le persone sono finite nel vortice - ha raccontato - e quello che è successo ai loro corpi è qualcosa che fa male solo a pensarci. Perché bisogna pensare che questa non era neve ma ghiaccio tagliente e roccia. E quindi sono stati triturati".

Così è "esploso" il ghiacciaio che ha travolto gli alpinisti

La sospensione delle ricerche

Le ricerche sono state temporaneamente sospese per via del maltempo che ostacola la visibilità. Ad ogni modo, secondo i soccorritori sarà quasi impossibile individuare altri dispersi. "I droni hanno fatto degli avvistamenti e sono stati fatti dei recuperi di corpi di persone, materiale, corde e con i dati che abbiamo andiamo a vedere. Non abbiamo un numero definitivo", ha spiegato Alex Barattin, delegato del Soccorso alpino a coodinare i soccosi sulla Marmolada aggiungendo che "in questo momento la situazione è critica perché c'è la possibilità di avere dei distacchi, nessuno può entrare nel ghiacciaio. Stiamo monitorando tutto con i droni, laddove riscontriamo qualcosa di dettaglio andiamo a intervenire con l'elicottero. Le operazioni di ricerca ripartiranno oggi appena le condizioni meteo ci permetteranno di continuare".

"Il ghiacciaio è andato giù". Il racconto choc della morte in diretta. Francesca Galici il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

Sono diverse le immagini amatoriali che riprendono il momento del distacco del seracco dalla Marmolada: il ghiacciaio è stato chiuso. 

La tragedia che si è abbattuta sulla Marmolada ha pochi precedenti di questa entità in questa stagione. Un seracco di ghiaccio si è distaccato nei pressi di Punta Rocca, lungo l'itinerario di salita della via normale per raggiungere la vetta, travolgendo due diverse cordate di escursionisti. Sono state 15 le persone coinvolte, tra cui si contano 5 morti e 8 feriti, tra i quali degli stranieri, di cui due in condizioni gravi, e uno/due ancora dispersi. Altre 18 persone sono state evacuate con gli elicotteri. Secondo una prima ricostruzione del soccorso alpino, il distacco è avvenuto dalla calotta sommitale del ghiacciaio della Marmolada, sotto Punta Rocca, una valanga di neve, ghiaccio e roccia che ha travolto nel suo passaggio anche la via normale dove stavano salendo gli alpinisti. Diverse le testimonianze da parte di conosce molto bene quei tratti montuosi.

"Abbiamo sentito un rumore forte, tipico di una frana, poi abbiamo visto scendere a forte velocità a valle una specie di valanga composta da neve e ghiaccio e da lì ho capito che qualcosa di grave era successo. Col binocolo da qui si vede la rottura del seracco, è probabile che si stacchi ancora qualcosa", ha raccontato all'Ansa uno dei responsabili del rifugio Castiglioni Marmolada, testimone del crollo.

Dai suoi social, anche Carlo Budel, gestore del rifugio sulla cima della Marmolada, ha lanciato un messaggio agli escursionisti, mettendoli in guardia per quanto accaduto: "Il ghiacciaio della Marmolada è chiuso a tutti. Oggi è un giorno triste... Altri pezzi di ghiaccio sono a rischio distacco. Oggi da Punta Rocca si è staccato un blocco di ghiaccio gigantesco, ha preso dentro tutta la linea del ghiacciaio, è andato giù fin sotto pian dei Fiacconi. Ha travolto un sacco di persone. Il ghiacciaio da questo momento è chiuso, nessuno può più salire per il ghiacciaio. Oggi sono morte tante persone purtroppo".

Dai social arrivano anche le parole di chi si trovava esattamente in quel punto meno di 24 ore prima del distacco del seracco: "Intanto ringrazio Dio... Questa foto l'ho fatta ieri proprio sotto dove si è staccata la slavina, erano le 13.50. Volevo già spendere ieri 2 parole sulle condizioni del ghiaccio, ma dopo non mi andava di passar geologo... Sempre nella salita un ragazzo è caduto per 100 mt all’inizio del ghiacciaio, riportando delle belle ferite".

Intanto sui social si susseguono le pubblicazioni dei video di chi ha assistito alla caduta della slavina. In molti riferiscono di condizioni inopportune per tentare le salite ai ghiacciai e si chiedono come mai gli accessi non siano stati chiusi prima che si verificasse la tragedia.

Il boato sulla Marmolada: viene giù il ghiacciaio, travolti gli escursionisti. Valentina Dardari il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

Un distacco di roccia sulla Marmolada ha provocato l'apertura di un crepaccio sul ghiacciaio. Una quindicina gli escursionisti coinvolti e almeno 6 i morti.

Il distacco di roccia che si è verificato sulla Marmolada a Pian dei Fiacconi ha provocato l'apertura di un crepaccio sul ghiacciaio. Sono una quindicina le persone rimaste coinvolte, secondo quanto ha reso noto su Twitter il Suem 118 del Veneto che ha propri mezzi impiegati in zona. Sul posto stanno operando 5 elicotteri e l’elisoccorso trentino. Vi sarebbero almeno 8 feriti, due di questi sarebbe in gravi condizioni, tra le persone rimaste coinvolte, e almeno 6 morti. Sono tuttora in corso le ricerche e un punto operativo soccorsi è stato allestito a Canazei. Decine di uomini del Soccorso alpino stanno pattugliando l’area.

Diversi escursionisti morti

I feriti sono stati ricoverati in più ospedali, quelli di Belluno, Treviso, Trento e Bolzano. Secondo le prime informazioni giunte fino a questo momento, il distacco sarebbe avvenuto nel tratto che porta da Pian dei Fiacconi a Punta Penia per la via normale alla vetta della Marmolada. A staccarsi è stata una parte della calotta di Punta Rocca che ha causato una valanga misto neve, ghiaccio e roccia che si è abbattuta lungo la via normale della Marmolada. Il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, sta raggiungendo il Punto operativo di Canazei. L'assessore alla Protezione Civile della Regione del Veneto, Gianpaolo Bottacin, ha spiegato che “per la parte veneta sono già operativi i 2 elicotteri del Suem 118 della Ulss di Belluno. Operativo anche uno degli elicotteri della Protezione Civile della Regione del Veneto per trasportare squadre dei soccorritori alpini con unità cinofile sul posto. Tutte le squadre del soccorso alpino della zona sono state attivate. Già recuperati i primi feriti".

I soccorsi

Bottacin ha anche affermato di essere in contatto con il Capo del Dipartimento della Protezione Civile Fabrizio Curcio per tenerlo informato, e con il Capo della Delegazione del Soccorso Alpino Alex Barattin. Secondo quanto appreso da Agi dalle prime informazioni dei soccorritori in territorio veneto, sarebbero almeno cinque le persone morte e vi sarebbero oltre una decina di feriti. Cinque corpi sarebbero infatti stati estratti dalla massa di ghiaccio ma non ancora recuperati e portati a valle. I 15 escursionisti coinvolti nel crollo erano probabilmente divisi in due cordate. Intanto è stato chiesto anche l'intervento dei droni per la ricerca dei dispersi, secondo quanto fatto sapere dal Soccorso alpino altoatesino. Il fronte del seracco ha un fronte di circa 300 metri. Le elevate temperature in quota sulla Marmolada stanno causando notevoli difficoltà ai soccorritori che operano con molta cautela per evitare ulteriori crolli dei seracchi.

La testimonianza

"Abbiamo sentito un rumore forte, tipico di una frana, poi abbiamo visto scendere a forte velocità a valle una specie di valanga composta da neve e ghiaccio e da lì ho capito che qualcosa di grave era successo. Col binocolo da qui si vede la rottura del serracco, è probabile che si stacchi ancora qualcosa", ha detto l'ANSA uno dei responsabili del Rifugio Castiglioni Marmolada, testimone del crollo del serracco. Carlo Budel, gestore di Capanna Punta Penia, il rifugio sulla cima della montagna, a 3.343 metri, ha scritto su Twitter che il ghiacciaio è chiuso a tutti e che altri pezzi di ghiaccio sono a rischio distacco. Secondo il Servizio Urgenza Emergenza Medica 118 della Regione Veneto sarebbero cinque i morti, i feriti sono 8, di cui 2 risultano in condizioni gravi. Diciotto persone che si trovavano sopra l'area del crollo sono state evacuate. Sono invece però 6 le vittime accertate della valanga, questo è il bilancio ancora provvisorio riferito dal Soccorso Alpino trentino. Ora gli operatori stanno procedendo a chiudere l'area della Marmolada, per mezzo di elicotteri, per il pericolo di ulteriori distacchi. Al momento è in corso una evacuazione totale, anche degli ospiti del rifugio Punta Penia che vengono trasportati a valle con gli elicotteri dato il pericolo del possibile verificarsi di ulteriori valanghe. Intanto si sta procedendo anche al rientro dei soccorritori. Capanna Punta Penia è un rifugio alpino che si trova sulla vetta del gruppo della Marmolada, a cavallo fra Trentino-Alto Adige e Veneto, che era stato costruito da una guida alpina verso la fine degli anni quaranta con i resti di una postazione austriaca risalente alla prima guerra mondiale.

C'è ancora pericolo

Il Soccorso alpino del Trentino ha spiegato che sull'area della valanga di ghiaccio non è attualmente operativo personale per l'elevato pericolo di ulteriori distacchi, ma che invece proseguirà per tutta la serata e nelle ore notturne il presidio dell'elicottero di Trentino Emergenze dotato di Artva a bordo e con agganciata la campana Recco , una tecnologia usata per la ricerca di persone disperse che viene agganciata all'elicottero e consente di captare i segnali provenienti sia da superfici riflettenti che da dispositivi elettronici, per effettuare una ulteriore bonifica dall'alto. La valanga di neve, ghiaccio e roccia ha percorso circa due chilometri lungo il versante trentino e ha coinvolto anche il percorso della via normale, nel momento in cui c’erano delle cordate.

L'allarme al Numero Unico per le Emergenze 112 è arrivato verso le 13.45. I soccorsi della Protezione civile del Trentino sono scattati subito. In campo sono scesi sei elicotteri, il personale del Soccorso alpino e speleologico del Trentino e del Veneto con le unità cinofile, i Vigili del fuoco, la polizia, i carabinieri e la Guardia di Finanza provenienti anche dalle vicine province di Bolzano, Belluno e Venezia. Le operazioni sono coordinate presso la caserma dei vigili del fuoco di Canazei, sede anche del soccorso alpino. Sul posto sono giunti anche il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, e il vicesindaco di Canazei, Diumitri Demarchi. In seguito alla bonifica via terra dei soccorritori e delle unità cinofile, data la pericolosità della situazione a causa della possibilità di distacchi di altre valanghe e anche per evitare il più possibile il pericolo per gli operatori, verso le 15.30 è stato fatto alzare l'elicottero di Trentino Emergenze dotato di Artva a bordo. Sono già state emanate ordinanze di divieto di accesso e percorrenza dell'area interessata dalla valanga dai Comuni di Canazei e Rocca Pietore, fino a quando non sarà accertata la natura del distacco con gli opportuni rilievi glaciologici e geologici.

Marmolada, "corpi smembrati": la carneficina che turba soccorritori e inquirenti. Libero Quotidiano il 03 luglio 2022

La tragedia consumatasi alla Marmolada è addirittura peggio di quello che si potrebbe pensare. Le testimonianze dei soccorritori e le prime notizie provenienti dagli inquirenti sono inquietanti: “La valanga è un disastro inimmaginabile, una carneficina tale che solo difficilmente ci permetterà di identificare con esattezza l’identità delle vittime perché i corpi sono smembrati”, ha appreso l’Ansa da chi si sta direttamente occupando della vicenda. 

La procura ha aperto un’indagine per omicidio colposo a carico di ignoti, ma c’è ben poco da fare contro la natura. “Non ho mai visto una cosa del genere”, ha raccontato uno dei soccorritori, molto turbato da quanto accaduto, con un seracco che si è staccato dal ghiacciaio provocando la morte di almeno 6 persone. “Non è la solita valanga invernale - ha aggiunto - grado due, grado tre: è la natura. Se volessimo fare un paragone con l’edilizia potremmo parlare di un cedimento strutturale. Lo zero termico è oltre i 4mila metri ed è chiaro che è una cosa meteorologica che nemmeno la migliore delle guide può prevedere”.

Dello stesso avviso anche Roberto Padrin, presidente della Provincia di Belluno: “Il cambiamento climatico, con temperature che negli ultimi giorni hanno raggiunto i 10 gradi a 3mila metri è un nemico oscuro contro cui combattere. In montagna stiamo purtroppo vedendo gli effetti più disastrosi”.

(ANSA il 4 luglio 2022) - Sarebbero una trentina le persone che ieri si trovavano sul ghiacciaio della Marmolada al momento del crollo del seracco sommitale, si apprende da ambienti dei soccorritori. Non è chiaro al momento quante di queste persone siano effettivamente disperse e le verifiche sono in corso.

Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 4 luglio 2022.

Filippo aveva fatto un selfie prima di morire. C’è la sua faccia che sembra urlare di gioia, e dietro di lui il ghiacciaio è una discesa di neve sporca e malata, picchiata dal sole come un campo di grano. Sotto aveva scritto: «Guardate dove sono». 

Erano le 13 di ieri pomeriggio. Dicono che la montagna uccide. Ma molte volte è come se fossimo noi a ucciderci in montagna. Aveva mandato quella fotografia al gruppo dei familiari, e la zia gli aveva chiesto se sarebbe salito a Punta Penia. Lui ha risposto che avrebbero fatto manovra e poi avrebbero deciso.

Allora gli avevano chiesto: «Quando torni?». Filippo Bari non ha mai risposto a quella domanda. E non è più tornato. È rimasto sulla Marmolada, in questa terribile domenica d’estate, con il caldo che ci asfissia e la cronaca che ci spaventa, nel crollo di un seracco, dentro a un ghiacciaio che sta scomparendo come scompare a poco a poco quello che conoscevamo delle nostre montagne. 

È rimasto in quella foto che non ha bisogno di parole, con il suo silenzio e la sua immagine di gioia, inghiottito assieme a qualche suo amico e ad altre vittime.

Aveva 27 anni, veniva da Mola, Vicenza, ed era partito assieme ad altri cinque amici per fare questa escursione. Non era un alpinista alle prime armi. Chi lo conosce dice che era uno appassionato, e che era «abbastanza esperto». 

In giorni come questi non basta. In giorni come questi, quando la montagna distrugge le vite, restano volti senza nomi, come quello che nel linguaggio burocratico del pronto soccorso dell’ospedale Ca’ Foncello di Treviso viene identificato come un signore «dall’apparente età di quarant’anni», e di «razza caucasica», per dire che è bianco e dai tratti somatici europei.

Unico segno distintivo «un piercing all’orecchio». Non aveva documenti con sé, rimasti nello zaino sperduto in fondo a un ghiacciaio che non esiste più, ed era in condizioni disperate: i vestiti tecnici erano laceri, ridotti a brandelli, e i sanitari hanno dovuto rimuovere con infinita pazienza i limbelli e i pezzi degli abiti rimasti attaccati sul suo corpo martoriato, «ai lacerti» e alla pelle sanguinante.

La cronaca ha le parole di questo emporio della salvezza che raccoglie le vite vicino all’ultima fermata. Aveva «numerosi traumi e fratture, in particolare allo sterno e alle costole», come recita il referto. 

Anche alcuni organi interni, hanno detto i medici, «hanno subito importanti livelli di sofferenza». È stato intubato e ricoverato in terapia intensiva. Anche questo alpinista con il piercing è l’immagine di questa domenica senza parole.

È stato l’elicottero del Suem 118 decollato dall’ospedale di Treviso non appena era scattato l’allarme. Un medico e un uomo del soccorso alpino si sono calati con il verricello sui ghiacciai e appena lo hanno visto lo hanno issato a bordo. Molti di quegli alpinisti però non si trovano più. Elisa Dalvit, una che si è salvata per miracolo, dice che c’era anche un bambino fra di loro. 

Soltanto per un caso fortuito non era sulla rotta della slavina, perché un amico è arrivato in ritardo, quando gli altri avevano già cominciato a salire, però ha visto quello che succedeva: «Abbiamo sentito un boato, poi la massa di ghiaccio ha spazzato via tre persone, non so quanti altri siano rimasti coinvolti, era pieno di cordate oggi. Ho visto anche una bambina di nove anni partire con due adulti: vi prego, ditemi che è vivo...».

Nessuno gliel’ha ancora detto. Nei racconti di molti testimoni sono proprio queste due immagini che si incrociano, quella di una scampagnata domenicale, di una allegra giornata di festa, e quella della tragedia. La natura non guarda chi c’è. Non è come la guerra che cerca nemici. Colpisce i destini che non la riconoscono. Fra le vittime e i dispersi ci sono italiani, tedeschi e cechi. Mancano due guide all’appello. 

E forse la famiglia che ha visto Elisa, con la bambina. La morte nel dì di festa. Quelle degli alpinisti travolti dall’insostenibile violenza delle pareti di ghiacciai e dei loro crepacci sembrano nelle nostre cronache di dolore quasi dei suicidi d’amore, in territori imprigionati da una passione più forte della regione.

Questo che stiamo vivendo potrebbe essere l’annus horribilis delle tragedie sui picchi del nostro piccolo mondo, una Spoon River disseminata di croci e di storie, che raccoglie fra le sue vittime addirittura più vittime e feriti di prima della pandemia. 

Però noi continuiamo a non fermarci mai. Gianluca Gasbarri, 31 anni, da Roma, innamorato della fotografia e della montagna, che era così famoso che lo intervistavano i giornali, è morto neanche una settimana fa sul Corno piccolo del Gran Sasso davanti a un amico che l’ha visto cercare disperatamente un appiglio che non c’era prima di cadere, perché basta niente per morire in montagna, e l’ha visto aggrapparsi al vuoto e poi precipitare in un attimo, 50 metri di volo. Chissà se ha urlato. Non lo ricorda. Gianluca diceva che le foto più belle «sono quelle senza parole che dicono tutto». 

Come la foto di Filippo, che urla la sua gioia prima di morire. Suo fratello Andrea lo sta ancora cercando negli ospedali: «Non lo abbiamo trovato da nessuna parte». Immagini e storie, fra le croci di questa domenica. Michela che si è salvata, assieme a suo marito, perché era scesa dalla terrazza panoramica della Marmolada appena 15 minuti prima che si consumasse la tragedia, dice che il ghiacciaio aveva «la neve nera, marcia, piena di spaccature», ma che lei non è un alpinista, «noi non siamo scalatori».

Dice che c’erano più di cinquanta persone sulla terrazza, turisti con le scarpe da ginnastica e il telefonino in tasca. Su ci sono dei crepacci, bisogna conoscere il terreno, ed è meglio andare attrezzati, con le guide, solo che a volte non basta: «Purtroppo la natura ci sta facendo pagare quello che stiamo combinando». È che uno non ci crede, che si possa morire in un posto così bello.

Da corriere.it il 4 luglio 2022.

Sono Filippo Bari, guida alpina, Tommaso Carollo, Paolo Dani, Davide Miotti, quattro delle otto vittime identificate e formalmente riconosciute dai parenti. I nomi delle altre 4 vittime al momento non sono stati resi noti.

Crollo sulla Marmolada, 7 morti, 8 feriti, 13 dispersi. Il maltempo impedisce l’arrivo in elicottero del premier Draghi a Canazei, dove arriva in auto. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Luglio 2022

Il giorno dopo il crollo di un enorme seracco dal ghiacciaio della Marmolada, ci sarebbero 15 dispersi. I morti accertati sono 8. Ricerche sospese per il maltempo. Soccorritori: quasi impossibile trovare vivi i dispersi. identificate quattro vittime: Filippo Bari, guida alpina, Tommaso Carollo, Paolo Dani e Davide Miotti

Quella che si è consumata nel pomeriggio di ieri sulla Marmolada, a Punta Rocca, tra Veneto e Trentino-Alto Adige, è una delle peggiori tragedie della montagna di sempre in Italia. “Una carneficina umana” per usare le parole del procuratore di Trento, Sandro Raimondi che ha aperto un fascicolo modello 44 ipotizzando il reato di disastro colposo. Il caldo record che da settimane ha investito tutt’ Italia ha fatto staccare dal ghiacciaio un seracco, un enorme blocco vecchio di secoli che ha investito le cordate di escursionisti che stavano salendo in vetta o scendendo a valle.

“I ghiacciai a causa dei cambiamenti climatici non sono più in equilibrio, soprattutto, al di sotto dei 3.500 metri, perché si è creato un clima diverso da 30 anni fa che non sostiene più la loro esistenza. Purtroppo, eventi tragici come quello accaduto sulla Marmolada sono, probabilmente, destinati a ripetersi. Per questo, serve mantenere la massima attenzione quando si scala» afferma il professor Renato Colucci, docente di glaciologia dell’Università di Trieste e ricercatore del Cnr. “L’alpinista migliore quest’anno è quello che sa adeguarsi alle nuove regole del gioco” commenta Franco Brevini. 

Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha chiamato il presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti, esprimendo il cordoglio per le molte vittime. “Il capo dello Stato”, ha detto Fugatti, “ha voluto trasmettere anche alla nostra comunità oltre che ai parenti delle vittime il proprio cordoglio. Allo stesso tempo ha espresso parole di gratitudine ai soccorritori che si stanno prodigando, in condizioni non certo facili, alla ricerca delle vittime della grossa frana che ieri pomeriggio ha causato morte e devastazione“.

Il premier Mario Draghi era atteso per le 12 a Canazei ma a causa di un temporale in corso l’elicottero non è riuscito ad oltrepassare le nubi ed è dovuto atterrare a Trento. Da qui, si pensava inizialmente, il premier avrebbe dovuto raggiungere il luogo in auto, invece è stato fatto tornare a Verona. Il premier è poi arrivato in auto a Canazei, dove è stata allestita la centrale operativa che coordina le operazioni di soccorso, per fare il punto della situazione con le autorità locali tra cui il governatore del Veneto, Luca Zaia ed i soccorritori, assieme al capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e i presidenti del Veneto e delle province autonome di Trento a Bolzano. 

Draghi ha tenuto poco fa una conferenza stampa, con il presidente della Provincia Maurizio Fugatti, il presidente Arno Kompatscher, ed il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia. Con loro l’ingegner Curcio, capo della Protezione Civile nazionale. “Oggi sono qui a Canazei per rendermi conto di persona di quel che è successo e, vi assicuro, è molto importante essere venuti“, ha sottolineato il premier Draghi, in visita al luogo della tragedia della Marmolada.

“Abbiamo fatto un punto tecnico operativo – ha aggiunto il premier – con tutti quelli che hanno collaborato alle operazioni, ma soprattutto sono qui per esprimere la più sincera affettuosa accorata vicinanza alle famiglie delle vittime, dei dispersi e dei feriti, e alle comunità che sono state colpite da questa tragedia. Voglio ringraziare tutti coloro che hanno lavorato in questo giorno e mezzo“. 

“Oggi l’Italia piange queste vittime e tutti gli italiani si stringono con affetto” ha detto il premier. “Questo è un dramma – ha dichiarato, commosso – che certamente ha delle imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell’ambiente e dalla situazione climatica. Il Governo deve riflettere su quanto accaduto e prendere provvedimenti perché quanto accaduto abbia una bassissima probabilità di succedere e anzi venga evitato”, ha affermato Draghi. “Bisogna prendere dei provvedimenti affinchè quanto accaduto sulla Marmolada non accada più in Italia“, così il premier Mario Draghi, durante un punto stampa a Canazei con le autorità locali.

Oltre agli aspetti operativi, c’è stata una visibile sofferenza umana. Il premier Draghi ha chiesto di fermarsi per pochi minuti con i parenti dei morti e dei dispersi, di chi domenica non è sceso dalla Marmolada: parla con loro, condivide il loro dolore. “È stato un momento toccante – racconterà dopo Zaia – le ricerche le dobbiamo proprio a loro, andremo avanti fino all’estremo“. 

Il premier ha ringraziato innanzitutto i volontari, i vigili del fuoco, il Soccorso Alpino, le forze dell’ordine che hanno lavorando e stanno lavorando anche in queste ore. “Questa tragedia, che era difficilmente prevedibile, deve farci riflettere e deve essere una spinta ad agire per contrastare il cambiamento climatico e il riscaldamento globale. Dobbiamo agire perché non si ripeta una tragedia simile“.

Il presidente della Regione Veneto Luca Zaia ha ricordato con queste parole la tragedia: “Un fronte di ghiaccio largo 200 metri, lungo venti e alto trenta, è precipitato come sapete a valle. da subito abbiamo fornito uomini e mezzi, elicotteri, e stiamo continuando anche se la situazione è ancora altamente pericolosa“.

Dal Piemonte, il presidente Alberto Cirio fa sapere di aver scritto ai colleghi “per esprimere la nostra solidarietà e mettere a disposizione il Soccorso alpino piemontese e il nostro sistema di Protezione civile per qualunque cosa dovesse servire“. 

Un elicottero della Guardia di Finanza dotato con del sistema “Imsi Catcher” per intercettare i segnali di cellulari accesi, anche sotto diversi strati di neve, giungerà a passo Fedaia e opererà sul luogo del disastro della Marmolada. Il sistema è in grado di “leggere” il codice Imei dei terminali dei dispersi, ottenuti dai gestori telefonici e così li può localizzare. Redazione CdG 1947

I morti e i dispersi per la valanga sulla Marmolada: il più giovane, le coppie, la guida esperta. Benedetta Centi, Alice D’Este, Alessandro Fulloni e Marzia Zamattio su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

Nicolò Zavatta, il più giovane e Tommaso Carollo il manager Nella sciagura sulla Marmolada il più giovane dei 10 dispersi italiani (un numero al quale vanno aggiunte anche tre persone provenienti dalla Repubblica Ceca) ha 22 anni. Si chiama Nicolò Zavatta ed è di Barbarano Mossano, nel Vicentino. Ha sempre coltivato l’amore per la montagna ma solo di recente aveva deciso di cimentarsi con l’alpinismo. Qualche giorno fa aveva chiamato la guida alpina Paolo Dani — il cui nome è nell’elenco delle vittime accertate — per chiedergli di avvertirlo in vista di escursioni più impegnative. «Non ti scordare di me, alla prossima voglio esserci anche io» era stata la richiesta. Nicolò si è così aggiunto alla cordata dei vicentini, tutti travolti dal crollo del seracco sulla Marmolada. Una cascata formata da pietrame e pezzi di ghiaccio che ha trascinato a valle diversi gruppi di escursionisti, uccidendone alcuni e risparmiandone altri. Anche il nome di Tommaso Carollo, 48 anni, manager, originario di Thiene e residente a Zané (sempre nel Vicentino), è nell’elenco ufficiale delle vittime. La compagna è invece miracolosamente sopravvissuta ed è tra i feriti ricoverati all’ospedale di Trento. Il sindaco di Zanè Roberto Berti ricorda Carollo con parole addolorate: «Lo conoscevo bene, anche perché con suo papà Ivano dirigeva un’azienda di progettazione e consulenza ingegneristica che ha collaborato e collabora ancora oggi con il nostro municipio. Per la nostra comunità è un momento durissimo». (Leggi il seguito di sotto) Non si sa nulla nemmeno di una coppia di fidanzati, Gianfranco Gallina, cuoco, ed Emanuela Piran, 36 e 33 anni, lui di Montebelluna e lei di Bassano del Grappa. I loro genitori ieri si sono presentati alla sede del Soccorso alpino di Canazei con il volto straziato, ma conservando un’esile speranza nel cuore: «Io cerco mia figlia — ha detto la mamma di Emanuela — e loro il figlio, compagni di vita». Gianfranco e la compagna sono arrivati domenica in Val di Fassa «per fare la cordata sulla Marmolada. Non sappiamo più niente — prosegue la donna — e sabato è l’ultima volta che li abbiamo sentiti. Erano esperti e avevano anche la guida, non sono sprovveduti. Ma è stata la valanga. Hanno fatto anche corsi. Sono bravissimi». E con le lacrime agli occhi, ripete queste parole — «sì, sono bravissimi» — utilizzando il tempo presente. Inghiottita nel distacco dell’enorme blocco anche Liliana Bertoldi, 58enne di Levico Terme, due figlie, esperta alpinista e appassionata di fotografia. Le immagini su social (innumerevoli i suoi scatti in alta montagna: valli, laghi, ghiacciai, le tombe dei caduti della Grande Guerra) la ritraggono su tante vette delle Alpi, sorridente con gli amici, in cordata e sugli sci. La sciagura sulla Marmolada è seguita anche dalle autorità della Repubblica Ceca: «Non abbiamo ancora informazioni ufficiali. Le ricerche sono purtroppo molto complicate...» ha detto ai media di Praga Mariana Wernerova, portavoce del ministero degli Esteri del governo. Nell’elenco iniziale dei dispersi, infine, figurava anche un cittadino austriaco. Che, fortunatamente, è vito: ha dato sue notizie alle autorità consolari di Vienna.Davide Carnielli e la foto dalla vetta «Discesa dal ghiacciaio! Sani e salvi anche sto giro». È questo l’ultimo messaggio pubblicato alle 13.39 sul suo profilo Instagram da Davide Carnielli, l’alpinista trentino di 29 anni di Fornace, consigliere comunale e commerciante nel negozio di ferramenta di famiglia di Pergine Valsugana. Un minuto dopo, alle 13.40 , la valanga che ha travolto il giovane insieme ad altre 27 persone. Questione di un attimo, il tempo di pubblicare quel messaggio, ancora una volta, dopo tante sfide con la montagna — «ma sempre con le attrezzature e il giusto equipaggiamento», ricorda Stefano Moser della società ciclistica Bsr di Meano dove gareggiava con successo. Carnielli, che faceva parte di una cordata di trentini, era un grande sportivo. Il sindaco di Fornace, Mauro Stenico, lo definisce «una persona molto impegnata e amante della natura, un ragazzo che metteva tutto sé stesso in quello che faceva». E a nome di tutta la piccola comunità col fiato sospeso spera «in un miracolo». Filippo Bari e l’ultimo selfieAveva gli occhi accesi da un sorriso pieno: era felice della salita, gli pareva di raggiungere il cielo lì in Marmolada. L’ha raccontato con un selfie anche alla sua famiglia, Filippo Bari, 27 anni, di Malo, padre di un bambino di 4. Poi è sparito, travolto da un fiume di ghiaccio e roccia. «Guardate dove sono!», aveva scritto. Escursionista per piacere, lavorava in una ferramenta del Vicentino e quella sulla Marmolada doveva essere un’uscita preparatoria per una più complicata, prevista per la prossima settimana, con il Cai sul Monte Rosa. A raccontarlo è stato suo fratello Andrea, arrivato a Canazei nella mattinata di ieri: «Filippo era un grande amante della montagna e della natura. Aveva fatto già diverse uscite ad alta quota, sempre accompagnato da persone esperte e con tutta l’attrezzatura necessaria». Filippo Bari era iscritto al Cai di Malo e sarebbe dovuto partire il giorno prima. «Ha rinunciato all’ultimo minuto — racconta Alberino Cocco, ex presidente del Cai di Malo che sabato sarebbe dovuto partire con lui — poi mi ha scritto che sarebbe andato via con un gruppo di amici. Era un escursionista esperto ma in alcuni casi non basta nemmeno quello. È stato un disastro. Non riconosco più la mia Marmolada». Erica Campagnaro e Davide Miotti, la passione per la montagna. Nella lista dei dispersi anche una coppia di padovani, di Cittadella. Davide Miotti di 51 anni ed Erica Campagnaro, di 45, genitori di due figli di 25 e 18 anni. L’uomo, autentico innamorato della Marmolada, ne aveva fatto anche una professione. Già istruttore di alpinismo regionale e nazionale, più di recente guida alpina, teneva corsi al Cai di Castelfranco Veneto (Treviso) e da 24 anni era titolare di un negozio di abbigliamento e accessori per la montagna a Tezze sul Brenta, nel Bassanese. Il suo profilo Facebook è una carrellata di scatti in quota col sorriso. E con lui spesso la moglie. «Fotonica Marmolada» uno degli ultimi post. Quello di due settimane fa, sulla via normale verso Punta Penia, ora sembra una tragica profezia. «È già in pietose condizioni agostane», scriveva. «Davide viveva per la montagna, era estremamente preparato, ma quanto accaduto non era prevedibile», dice il presidente del Cai di Castelfranco Paolo Baldassa. In queste ore sono in tanti ricordarlo sui social. Il nome di Miotti sembrava infatti essere tra i deceduti ma il legale della famiglia smentisce: «È più che comprensibile da parte di figli e familiari il sentimento di speranza di poterlo ancora trovare in vita con la moglie». Paolo Dani, alla guida della cordata Nella vita di Paolo Dani, 52 anni, c’era una passione di quelle che non si riescono a contenere. Amava la montagna e la viveva come fa chi la conosce: con rispetto e attenzione. Quando il costone si è staccato domenica poco dopo le 13:30, dirette verso Punta Penia c’erano due cordate: lui era a capo della prima. Guida alpina di Valdagno, spesso accompagnava gli escursionisti per la «via normale». Dani aveva una moglie e una figlia di 14 anni. Dal 2012 al 2020 è stato a capo del Soccorso di Valdagno, ed era tecnico di elisoccorso nella base di Verona dal 2003, istruttore regionale dal 2006. «Sulla Marmolada ha perso la vita anche il nostro Paolo Dani — scrivono dal soccorso alpino con cui ha lavorato molti anni — è tanto dura realizzare che non ci vedremo più». «Sei sempre stato il mio angelo custode in questa terra ora lo sarai ancora di più da lassù e son certa ti sentirò vicino — dice Michela Soldà su Facebook — buon viaggio con tutto il cuore». Dani era molto conosciuto. Dell’amore per la montagna ne aveva fatto un lavoro. Portava gli altri ad amare quello che per lui era il pane quotidiano: le vette e i profili in lontananza. «Non ci rassegniamo alla sfortuna — dicono gli amici — Ci mancherai molto».

(ANSA il 4 luglio 2022) - I vigili del fuoco hanno presidiato tutta la notte con i droni la zona del crollo in Marmolada e tra poco si alzeranno in volo anche i droni del Soccorso alpino del Trentino. 

Nel frattempo a Canazei sono arrivati due gruppi di parenti di vittime e dispersi, che sono saliti di numero: sono infatti tre o quattro in più dei 16 comunicati ieri. Le vittime sono tutte al Palaghiaccio di Canazei, dove è stata allestita la camera ardente e dove i parenti, in mattinata, inizieranno il doloroso rito dei riconoscimenti dei corpi. Al momento sono 6 le vittime confermate: tre italiani, un cecoslovacco, più un uomo ed una donna non ancora identificati, ma il bilancio è verosimilmente destinato ad aggravarsi.

Le condizioni meteorologiche saranno determinanti per valutare l'intervento diretto dei soccorritori: il freddo e le basse temperature sono fondamentali per garantire un minimo di sicurezza alle operazioni, visto che sulla montagna è rimasto un'enorme quantità di ghiaccio pericolante. Per valutare come procedere sarà fondamentale la valutazione dei meteorologi di Arabba e Meteo Trentino.

Estratto dell’articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 4 luglio 2022.  

[…] «C’era gente irriconoscibile, sfigurata, corpi martoriati... d’altra parte la massa caduta è enorme e ha effetti devastanti», racconta Alex Barattin, responsabile del Soccorso Alpino di Belluno che è volato sul luogo della sciagura. 

Le dimensioni del distacco sono eccezionali: circa 200 metri il fronte che è venuto giù per un chilometro e mezzo a circa 300 all’ora ingigantendosi fino a 400 metri di larghezza. Tutto materiale solido, pochissima neve, consumata anzitempo in questa estate torrida che vede lo zero termico collocarsi ben al di sopra dei 3.343 metri di Punta Penia, la vetta della Marmolada, la più alta delle Dolomiti (ieri alle 13 c’erano 10 gradi in vetta).

Il procuratore: «Una carneficina»

«Disastro inimmaginabile, una carneficina che difficilmente ci permetterà di identificare subito tutte le vittime, il cui numero sembra purtroppo destinato a salire... conteremo chi non torna», ha sospirato il procuratore di Trento, Sandro Raimondi, che sulla vicenda ha aperto un fascicolo per disastro colposo. 

Saranno utili le segnalazioni di parenti e amici di persone che ieri non sono rientrate, per le quali si procederà con la comparazione del Dna. In Procura è giunta la telefonata del console rumeno che chiedeva informazioni su alcuni connazionali. […]

Da open.online il 4 luglio 2022.  

«Che strazio quei cadaveri tra i blocchi di ghiaccio. In tanti anni mai vista una cosa del genere». A parlare è uno degli uomini del Soccorso Alpino arrivato dopo il crollo di un blocco di ghiaccio sulla Marmolada. A causarlo è stato il distacco di un seracco e stamattina riprenderanno le ricerche dei 15 dispersi (le vittime al momento sono 6). I cadaveri finora recuperati sono stati ricomposti nel Palazzo del Ghiaccio di Canazei. In serata sono arrivati i primi familiari per le identificazioni. Quattro sono stati già identificati: sono 3 cittadini italiani ed un ceco. Restano da identificare un uomo e una donna. Fra i dispersi ci sono italiani, tedeschi, cechi e forse anche cittadini rumeni.

I sopravvissuti

«Comunque è molto difficile che ci siano dei sopravvissuti — dice oggi al Corriere uno degli uomini del Soccorso alpino -. Dal sopralluogo fatto in elicottero abbiamo visto che è venuta giù una massa larga 200 metri ed alta 80. Un mare di ghiaccio e detriti che da quota 3.200 è arrivato a circa 1.800 metri. 

Sono rimaste ferite le persone che erano ai margini di questa marea e sono state investite dai detriti o dallo spostamento d’aria». C’è comunque chi si è salvato per un soffio. Come Stefano Del Moro, ingegnere di Borso del Grappa, che si trovava lì insieme alla compagna israeliana. 

«Siamo dei miracolati. Eravamo poco più in alto rispetto al punto in cui ci sono state le vittime. C’è stato un rumore sordo, poi è venuto giù quel mare di ghiaccio. In questi casi è inutile scappare, puoi solo pregare che non venga dalla tua parte. Ci siamo abbracciati forte e siamo rimasti accucciati mentre la massa di ghiaccio ci passava davanti», racconta lui oggi al quotidiano.

Stefano e la fidanzata erano più in alto di duecento metri rispetto alle due cordate tra volte dal ghiaccio, loro erano più in alto di nemmeno cento metri. Della «cascata di ghiaccio e detriti» hanno sentito solo il soffio gelido. 

«Prima li vedevamo dall’alto, ma poi ci siamo girati per proteggerci». Sono tornati indietro e risaliti fino alla capanna di Punta Penia, da dove sono stati portati a valle in elicottero. Elisa Dalvit, trentina di Grumes, affida invece il suo ricordo a Repubblica: «Siamo saliti in quattro dalla ferrata della cresta ovest, ma un quinto ha preferito l’ascensione dalla via normale, facendo la ferratina. È arrivato dopo di noi, ci siamo fermati in vetta ad aspettarlo». Questo «è stato la nostra salvezza. Altrimenti ora saremmo tutti là sotto…».

E.Mar. per “la Stampa” il 4 luglio 2022.  

«Non abbiamo certezza di nulla sui dispersi, al momento. Le chiamate dei famigliari sono parecchie, anche solo per informazioni», dice il direttore della Protezione civile di Canazei Raffaele Del Col. Le sei vittime della valanga di ghiaccio e roccia sono nel paese della Val di Fassa. 

La loro identità è da accertare e secondo gli inquirenti (è stata aperta un'inchiesta per disastro colposo dalla Procura di Trento) potrebbe essere necessario ricorrere all'esame del Dna perché alcuni corpi sono stati dilaniati, travolti, hanno accertato i tecnici del Soccorso alpino, da una massa di materiale scesa a 300 chilometri l'ora. 

Nelle cordate coinvolte c'erano sia alpinisti italiani sia stranieri, accompagnati, secondo i testimoni, da guide alpine. Fra i famigliari che hanno telefonato alla centrale di soccorso alcuni hanno raggiunto nel tardo pomeriggio di ieri il palazzetto del ghiaccio dove c'era anche un'équipe di psicologi.

È stata imponente l'operazione di soccorso che ha impegnato le stazioni sia del Veneto sia del Trentino: cinque elicotteri, unità cinofile, almeno cinquanta uomini per le ricerche a terra. Fino a quando il rischio di nuovi crolli del ghiacciaio ha fatto interrompere le ricerche. 

Il presidente nazionale del soccorso alpino Maurizio Dellantonio parla di «evento straordinario, quella parte di ghiacciaio che è crollata era lì da centinaia di anni». Aggiunge: «Da sopralluogo abbiamo capito che c'era un pericolo a monte del ghiacciaio in quanto la "calotta" di ghiaccio si è staccata, ma è rimasto un pezzetto in bilico, che non è piccolo, parliamo di centinaia e centinaia di metri cubi di ghiaccio.

Tutta la parte "slavinata" di ghiaccio e roccia è stata monitorata a vista sia dall'alto, con i mezzi aerei, che dai lati. Senza indicazioni certe di eventuali dispersi, perché certezza non ce n'era, noi abbiamo dovuto fermarci. Dobbiamo mettere in sicurezza la zona, cioè restiamo fermi fino a quando quel pezzetto non cade o non lo facciamo cadere». 

Fra i primi soccorritori a raggiungere il ghiacciaio sotto Punta Rocca c'era Luigi Felicetti, della Val di Fassa. Racconta: «Quando ci hanno chiamato hanno detto che è venuta giù la Marmolada. Al nostro arrivo ci siamo trovati davanti ad uno scenario pazzesco, c'erano blocchi di ghiaccio e roccia enormi dappertutto, abbiamo cominciato a cercare e abbiamo trovato le prime vittime».

E spiega: «Erano tutti con corde e ramponi, attrezzatissimi, sono stati davvero tanto sfortunati». Quanto accaduto non era prevedibile, la spaccatura improvvisa di un fronte glaciale, ma una perplessità sulle misure di sicurezza degli alpinisti è data dall'ora in cui erano ancora impegnati (alcuni in salita, altri in discesa) sulla Marmolada: intorno alle 13,30. 

Perplessità che deriva dalle alte temperature che durano ormai da oltre un mese e con lo zero termico tra i 4.000 e i 5.000. In assenza di neve non ci sono pericoli di valanghe, ma le condizioni indicano un aumento del rischio di crolli glaciali.

Ora l'interrogativo più inquietante riguarda i dispersi.

Secondo le testimonianze e dopo il confronto con i gestori dei rifugi i soccorritori, ieri sera, ipotizzavano fossero almeno una quindicina. Per questo si stanno facendo controlli attraverso le auto ai piedi della Marmolada su entrambi i versanti, sia Veneto sia Trentino, per poter risalire alle identità dei proprietari e contattarli. 

Così come è ancora in dubbio se le cordate coinvolte dalla valanga fossero due o quattro, come indicato in un primo momento. Ma a giudicare dalle ipotesi sul numero dei dispersi è possibile che vi fossero anche alpinisti che salivano (o scendevano) in altri gruppi o slegati.

Nel giro di un'ora gli uomini del soccorso alpino si sono resi conto che il pericolo di nuovi crolli poteva aumentare per l'anomala temperatura: alle 14 in vetta alla Marmolada c'erano 10,3 gradi e 5 erano stati i gradi durante la notte. Di qui la decisione di sgomberare la montagna dalle cordate ancora impegnate. 

La ricerca, anche con i cani, si sono concentrate circa 500 metri più in basso dal crollo del dosso glaciale accanto alla cima di punta Rocca. Nella zona alla fine del ghiacciaio che segue la base della montagna e dove piega ad angolo acuto verso la valle. Lì la valanga ha devastato il territorio. Gli uomini del soccorso parlano di «enormi blocchi sia di ghiaccio sia di roccia».

I video mostrano la velocità della valanga, nonostante gli ostacoli incontrati. Non ha lasciato scampo agli alpinisti che pure avevano avvertito il distacco e avevano cercato (secondo le testimonianze dei superstiti) di mettersi in salvo correndo lungo la linea di massima pendenza. Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha seguito tutte le operazioni di soccorso, in contatto con il capo della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti, dal soccorso alpino, dai vigili del fuoco e dalle autorità locali, ringraziando i soccorritori «per l'incessante lavoro» ed esprimendo vicinanza alle famiglie di vittime e feriti a nome del governo. 

Andrea Pasqualetto, Alfio Sciacca per corriere.it il 4 luglio 2022.  

Draghi è arrivato a Canazei

Il presidente del Consiglio Mario Draghi è arrivato a Canazei per fare il punto con Protezione civile, soccorritori e autorità locali sulla sciagura della Marmolada. Il premier è arrivato nella località trentina in automobile da Verona, assieme al capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e i presidenti del Veneto e delle province autonome di Trento a Bolzano. 

«Siamo scesi dalla Marmolada 15 minuti prima della tragedia. Faceva caldo, la neve era poca e “marcia”»

(Martina Zambon) Trevigiani, appassionati di montagna senza essere scalatori, Michela e suo marito sono scesi dalla terrazza panoramica della Marmolada una manciata di minuti prima che si consumasse la tragedia. Chi era ancora sulla terrazza ha assistito, poco dopo, impotente, al distacco del seracco di ghiaccio che ha travolto un’intera cordata. E nei ricordi di quei minuti prima del disastro, torna più volte quella «neve nera, marcia».

Soccorritori: quasi impossibile trovare vivi i dispersi

Secondo i soccorritori è quasi impossibile trovare vivi i dispersi. Ci sarebbero ancora 10-15 persone sotto il fronte del crollo. «Non abbiamo un numero definitivo ma dalle 10 alle 15 persone possono essere ancora lì», ha affermato Alex Barattin, delegato del Soccorso alpino per la seconda zona Dolomiti Bellunesi che si trova a Canazei per coordinare i soccorsi sulla Marmolada.

Per quanto riguarda le vittime Barattin ha spiegato: «I droni hanno fatto degli avvistamenti e sono stati fatti dei recuperi di corpi di persone, materiale, corde e con i dati che abbiamo andiamo a vedere. Non abbiamo un numero definitivo». Aggiungendo: «In questo momento la situazione è critica perché c'è la possibilità di avere dei distacchi, nessuno può entrare nel ghiacciaio. Stiamo monitorando tutto con i droni, laddove riscontriamo qualcosa di dettaglio andiamo a intervenire con l'elicottero. Le operazioni di ricerca ripartiranno oggi appena le condizioni meteo ci permetteranno di continuare».

L'ultimo bollettino: sale a 8 il numero dei morti, scarse possibilità di trovare sopravvissuti

Sale a 8 il numero dei morti nel crollo del ghiacciaio sulla Marmolada. Secondo l'Adnkronos, sarebbe ormai «ridotta a zero» la possibilità di trovare sopravvissuti.

Quattro persone ritrovate, ora i dispersi scendono a 15

Quattro persone ritenute disperse nel crollo della Marmolada sono state rintracciate e sono in salvo. Il conteggio dei dispersi scende a 15.

"Li cerchiamo ancora con droni e elicottero?" Marmolada, sorella dispersa: “Perché non li hanno fermati se acqua scorreva?”. Il miracolo di Davide, ritrovato dai genitori. Redazione su Il Riformista il 5 Luglio 2022. 

“Perché nessuno ha fatto un avviso sabato visto che c’era l’acqua che scorreva sotto il ghiacciaio? Perché non hanno fermato le persone? Perché le hanno lasciate andare?”. E’ quanto chiede Debora Campagnaro, sorella di Erica, che risulta ancora dispersa, e cognata di Davide Miotti, guida alpina tra le poche vittime al momento identificate della tragedia della Marmolada. “Davide era espertissimo di montagna, non sarebbe mai partito se ci fosse stato un bollettino di allerta. Ha due figli a casa di 24 e 16 anni”.

Ai giornalisti presenti la donna ribadisce che “se c’è una responsabilità andremo fino in fondo”. E poi, sui soccorsi chiede: “Non tollero che nel 2022 non ci siano strumentazioni adeguate, rivolgiamoci all’estero se necessario, andiamo in Norvegia, Groenlandia, che hanno strumenti per forare il ghiaccio. Ci sono delle vite umane lì sotto, mia sorella magari è ancora viva e noi restiamo qui ad attendere non so cosa”. Il riferimento è alle ricerche che vanno avanti in questi giorni solo con l’ausilio di droni ed elicotteri perché il rischio di ulteriori distacchi non permette di garantire l’intervento via terra.

Per la procura di Trento “in questo momento possiamo escludere assolutamente una prevedibilità e una negligenza o un’imprudenza. Ad affermarlo il procuratore Sandro Raimondi, intervistato dal Tg3. “L’imprevedibilità in questo momento è quella che la fa da protagonista – ha detto -. Per avere una responsabilità bisogna poter prevedere un evento, cosa che è molto molto difficile”. “Quando mi hanno chiamato i carabinieri di Cavalese subito dopo la tragedia – ha ricordato -, mi hanno parlato di situazione quasi apocalittica”. “Daremo una risposta alle famiglie delle vittime. Ci impegneremo al massimo e faremo di tutto per arrivare a capire cosa è successo sul ghiacciaio della Marmolada, accertare, se ci sono responsabilità, anche penali. Ora noi dobbiamo lasciare tutto lo spazio ai soccorritori” ha aggiunto Raimondi.

A oltre 48 ore dalla tragedia di domenica pomeriggio, le vittime accertate sono sette (cinque italiani e due cittadini della Repubblica Ceca), a queste vanno aggiunti i dispersi, che oggi sono scesi a 5 (tutti italiani), perché due coppie di alpinisti stranieri sono state rintracciate ed è stato dato un nome anche a uno dei dispersi che in realtà era ricoverato, senza un nome, all’Ospedale di Treviso.

Si tratta di Davide Carnielli, 29enne consigliere comunale a Fornace (Trento), riconosciuto dai suoi genitori attraverso delle foto scattate dai medici con particolari anatomici inconfondibili sui piedi e un “buchetto” sotto l’orecchio. Il gruppo sanguigno ne ha poi dato conferma. Il giovane ha riportato traumi importanti ed è in prognosi riservata. Inizialmente era stato ritrovato solo il suoi zaino. Ore di forte apprensione per la madre e il padre di Davide che temevano il peggio. Poi il miracolo a due giorni dalla valanga di ghiaccio e detriti.

A dare la notizia è stato il presidente della Regione Veneto Luca Zaia sulla propria pagina Facebook: “Dopo aver parlato con due coppie di genitori ieri a Canazei, nella sala dell’accoglienza dei famigliari dei dispersi sulla Marmolada, ho deciso di far fare alcune foto e confrontarle con i particolari anatomici, per vedere se era possibile arrivare a un riconoscimento” ha spiegato Zaia. “Ebbene questa mattina una coppia di genitori ha ritrovato il proprio figlio. Il paziente in prognosi riservata a Treviso ora ha un nome e un cognome”. Nel momento del crollo si è salvato per miracolo: era l’ultimo di una cordata di 6 persone.

(ANSA il 5 luglio 2022) - - "Perché nessuno ha fatto un avviso sabato, che c'era l'acqua che scorreva sotto il ghiacciaio? Perché non hanno fermato le persone? Perché le hanno lasciate andare?". 

E' l'accusa della sorella di Erica Campagnaro, la donna di Tezze sul Brenta (Vicenza), dispersa assieme al marito Davide Miotti sulla Marmolada "Era una bella giornata di sole, sì, per carità - ha proseguito la donna, arrivata oggi al centro di coordinamento a Canazei - ma se sotto scorre l'acqua... se c'è una responsabilità, andremo fino in fondo", ha concluso.

Da ansa.it il 5 luglio 2022.

Sono scesi a 8 i dispersi dopo il crollo del seracco sommitale in Marmolada. Lo apprende l'ANSA da fonti investigative. Ieri il numero era 13: tra i cinque individuati anche il ragazzo trentino di 30 anni di Fornace ricoverato in prognosi riservata a Treviso, ma che non sarebbe in pericolo di vita. 

I medici del Ca' Foncello avevano accertato al momento del ricovero un importante edema cerebrale e lesioni agli organi interni. Il giovane, in stato di incoscienza, era stato trovato senza alcun documento.

Piano piano, infatti, stanno ricomparendo persone che erano state date per disperse, come ad esempio due alpinisti francesi che sono stati sfiorati dalla frana di ghiaccio e hanno raccontato che, in quel drammatico momento, sulla via normale c'erano almeno 12 persone. 

Un numero che, calcolando i decessi ufficiali con i nomi delle persone che sono state cercate dai parenti, viene considerato realistico. Gli inquirenti hanno ascoltato anche oggi, come nei giorni scorsi, diversi testimoni proprio per cercare di capire quante persone si trovassero sul ghiacciaio al momento del crollo del seracco.

La Marmolada sarà off limits in seguito ad un'ordinanza di chiusura da parte del sindaco di Canazei Giovanni Bernard. IL provvedimento, che ha al momento una durata indefinita, segue l'ordinanza di chiusura parziale di domenica ed è ritenuto necessario per operare in sicurezza e allontanare curiosi dall'aria del disastro. 

"Abbiamo parlato della tragedia della Marmolada come elemento simbolico di quello che il cambio climatico se non governato sta producendo nel mondo. Richiede piena collaborazione di tutti sennò non è governato ". Lo afferma Sergio Mattarella nel palazzo presidenziale di Maputo. "Ci sono Paesi che non si impegnano. Occorre richiamare tutti a assumere impegni ulteriori".

"E' chiaro che con queste temperature ci vuole un livello di prudenza superiore, così come è evidente che la sostenibilità non è una moda ma una necessità". Lo ha detto, commentando la tragedia della Marmolada, il ministro del Turismo Massimo Garavaglia a margine di un incontro sul turismo culturale ad Ascoli Piceno. L'importanza della sostenibilità, ha aggiunto, "ce l'hanno insegnata anche i giovani nel primo congresso mondiale del Turismo Giovanile, organizzato con l'Onu a Sorrento: per la generazione Z, nata dopo il 1997, 2 miliardi nel mondo, la sostenibilità è una delle cose più importanti per scegliere la destinazione turistica".

LE RICERCHE - Durante le ricognizioni svolte in mattinata con i droni lungo la via normale della Marmolada sono stati trovati resti di dispersi e anche effetti personali. Lo ha comunicato il presidente nazionale del soccorso alpino Maurizio Dellantonio. 

Alcuni indumenti, non si sa se riconducibili alle vittime del disastro della Marmolada o a reperti precedenti, sono stati individuati nel corso delle ispezioni con droni. Lo ha riferito ai giornalisti Fausto Zambelli, assistente di volo del nucleo elicotteri della Provincia di Trento. Zambelli ha riferito inoltre che "si vedrà ora se e come recuperare questi reperti, e se questo significhi che vi sono delle vittime o se appartengono a escursioni storiche precedenti".

La tragedia della Marmolada - L'enorme massa di ghiaccio e roccia ha restituito finora sette vittime e otto feriti, due dei quali in maniera grave. Un bilancio ancora parziale per quella che è già passata alla storia come la più grave tragedia della montagna italiana, e che fa 'paura' agli stessi soccorritori, costretti a interrompere ieri per alcune ore le ricerche a causa del maltempo, e indotti ad agire con estrema cautela su una superficie insidiosa e a rischio di ulteriori movimenti e di crolli. 

Ieri ai piedi della Marmolada, a sostenere la comunità dei soccorritori, e a esprimere vicinanza ai territori colpiti, è giunto anche il premier Mario Draghi, che non ha evitato le insidie del maltempo per arrivare fino a Canazei, dove ha tenuto un vertice con amministratori e tecnici, e ha incontrato alcuni familiari delle vittime e dei dispersi. "Oggi l'Italia piange queste vittime - ha detto - e tutti gli italiani si stringono con affetto".

"Questo è un dramma - ha dichiarato, commosso - che certamente ha delle imprevedibilità, ma certamente dipende dal deterioramento dell'ambiente e dalla situazione climatica. Il Governo deve riflettere su quanto accaduto e prendere provvedimenti perché quanto accaduto abbia una bassissima probabilità di succedere e anzi venga evitato", ha affermato Draghi. 

"Bisogna prendere dei provvedimenti affinchè quanto accaduto sulla Marmolada non accada più in Italia", ha ribadito il premier. Il presidente del Consiglio farà il punto con Protezione civile, soccorritori e autorità locali. Il premier è arrivato nella località trentina in automobile da Verona, assieme al capo della Protezione civile Fabrizio Curcio e i presidenti del Veneto e delle province autonome di Trento a Bolzano. 

Alla conta dei dispersi si devono aggiungere però gli occupanti di quattro automobili presenti al campo base, a passo Fedaia, tutte straniere: una tedesca, due della Repubblica ceca e una ungherese. Su di loro nessuna notizia ancora. Chi sa già che un proprio caro non tornerà più a casa e chi ancora spera sono ormai accumunati da uno strazio sempre più simile. 

Le speranze di trovare superstiti è sempre più esile. Le vittime accertate, tre su sette, sono tutte italiane e in particolare della provincia di Vicenza: Filippo Bari, Tommaso Carollo e Paolo Dani. 

Bari, ventisettenne residente a Malo, lavorava in una ferramenta a Isola Vicentina, aveva una compagna ed un figlio di 4 anni. Prima della tragedia aveva inviato un ultimo selfie ad amici e parenti proprio dalla Marmolada. Carollo, 48 anni, era un manager di Thiene; Dani era una guida alpina di Valdagno e aveva 52 anni.

Con il passare delle ore si fa più complicato il recupero di reperti e di corpi. Dopo le sei vittime scoperte domenica, solo una è stata trovata ieri, e sarà sempre più difficile prossimamente, almeno per i resti nella parte più alta della via su cui è arrivata la frana. Alcuni dispersi potrebbero essere precipitati nei crepacci che si trovano lungo la via 'normale'. Più semplice invece dovrebbe essere il recupero delle vittime della parte inferiore, tra ghiaccio e detriti.

Ieri l'elicottero dell'emergenza ha compiuto diversi sorvoli nella zona, tranne che nelle ore in cui sulla zona si è rovesciato un forte temporale, che ha causato anche il ritardo dell'arrivo di Mario Draghi. Come ha spiegato Maurizio Dell'Antonio, del Soccorso Alpino nazionale, è possibile per ora agire con il sorvolo con droni e l'individuazione di qualsiasi tipo di reperto, poi "si va lì in maniera molto veloce, chi scende dall'elicottero fa una sorta di documentazione fotografica, si prende il reperto e ce ne andiamo via. Si va solo a recuperare qualcosa in superficie.

Non possiamo più scavare, la massa di neve si è talmente consolidata che non si può incidere nemmeno con un piccone". E' in arrivo anche uno speciale elicottero della Guardia di Finanza dotato del sistema "Imsi Catcher", che permette di individuare un cellulare sotto diversi strati di neve - ma solo se acceso - attraverso il suo numero IMEI, ossia la sequela di nomi che costituisce un po' la "targa" dell'apparecchio. Insomma si gioca il tutto per tutto nella speranza, sempre più esile, di trovare qualcuno vivo.

Andrea Pasqualetto per corriere.it il 5 luglio 2022.

Da una parte c’è lo strazio di chi non ha più rivisto un figlio, un fratello, una sorella, una madre. Dall’altra l’impotenza dei soccorritori, che non possono scavare nel ghiaccio perché è diventato pericoloso e così duro che non si spacca nemmeno con il piccone. Si temono nuovi crolli e allora cercano i dispersi sorvolando i detriti con droni dotati di termocamere e alcuni elicotteri, fra cui quello della Guardia di finanza dotato del sistema «Imsi Catcher» che intercetta i segnali dei cellulari. 

Osservano dall’alto e scendono solo nel caso in cui venga individuato qualcosa che possa far pensare a una persona, uno scarpone, un vestito, una corda, un resto umano. Perché lì sotto ci sono ancora dieci italiani e tre stranieri, di nazionalità ceca, sui quali gli uomini dei soccorsi scuotono la testa: «Difficile che ci sia qualcuno in vita», conclude amaramente Mauro Mabbioni che su quella distesa di ghiaccio e rocce è andato con la sua squadra rischiando la pelle subito dopo la caduta del grande seracco. E lì si è reso conto che la verità sarà ancor più tragica: «Ai corpi finiti nel vortice è successo qualcosa che fa male al solo pensiero. Non era neve ma ghiaccio tagliente».

E allora il bilancio della sciagura andrà ben oltre le sette vittime accertate , delle quali solo tre sono state identificate, due guide alpine e uno scalatore sportivo, tutti veneti arrivati dalla pianura per trascorrere una giornata ad alta quota. Ci sono poi gli otto feriti, dei quali due sono in rianimazione, uno ancora da identificare. Tutta gente appassionata di montagna, non necessariamente scalatori perché sulla cima della Marmolada si può arrivare anche da provetti escursionisti. Sono stati sorpresi dall’improvviso distacco, mentre si trovavano sul Pian dei Fiacconi, una conca dove talvolta ci si ferma per prendere fiato e cambiarsi. L’enorme blocco di ghiaccio è caduto dalla cima, si è frantumato e ha preso velocità e larghezza travolgendoli in una sorta di centrifuga.

«Ci vorrà l’esame del dna per arrivare a un’identificazione di tutte le vittime», spiegano gli inquirenti, che sulla più grande sciagura di queste montagne hanno aperto un fascicolo per disastro colposo. «La priorità è ora ricomporre i corpi dei deceduti e dare loro un nome, poi cercheremo di capire se ci sono anche delle responsabilità umane, oltre che climatiche.

Esamineremo bene i filmati che abbiamo acquisito», preannuncia il procuratore di Trento, Sandro Raimondi, che dovrà capire se il disastro era evitabile. «Se cioè siamo nel campo dell’imprevedibilità dell’evento, che è possibile, o altro». In queste ultime settimane di gran caldo, con la temperatura sopra gli zero gradi anche in vetta, la calotta è in costante fase di scioglimento. «Si formano dei piccoli ruscelli che possono erodere la base e provocare crolli», spiegano i glaciologi. 

È stato forse sottovalutato il pericolo? Chi deve valutare la sicurezza del vecchio ghiacciaio? «Non è previsto un monitoraggio di questo tipo», assicura il sindaco di Canazei, Giovanni Bernard, che ora ha chiuso per precauzione ogni accesso alle ascese concordando l’ordinanza con i suoi colleghi di Pozza di Fassa e Rocca Pietore, i Comuni su cui ricade la Marmolada, dove passa anche il conteso confine fra Veneto e Trentino. «Cioè — spiega Bernard — il ghiacciaio è oggetto di studio da parte degli esperti che salgono periodicamente per fare indagini sullo scioglimento, cercando di prevederne il futuro. Ma si tratta di un lavoro con finalità scientifiche, non di sicurezza. Se poi qualcuno ha visto un pericolo, certo, avrebbe dovuto segnalarlo. Ma se non l’ha fatto evidentemente non pensava che ci fosse». 

I paladini della fatalità sono molti. Fra questi Dimitri De Gol, il tecnico del Soccorso alpino che domenica è arrivato fra i primi sul teatro del disastro: «Io non ci vedo responsabilità, solo un evento unico di una magnitudo impressionante. Quest’anno lassù è molto secco, molto crepacciato e fa tristezza ma non è colpa di nessuno». Il suo è anche un racconto toccante: «Quando arrivi per primo vedi tutto senza filtri e quello che io ho visto non lo dimenticherò facilmente. C’erano due uomini e due donne, si lamentavano, rantolavano. Solo una delle due era immobile e taceva. Non ce l’ha fatta. Gli altri li abbiamo caricati sull’elicottero e ora credo siano in ospedale, due in terapia intensiva...

Poi ho saputo che sotto c’era anche Paolo, un amico mio di Vicenza, guida alpina. Una cara persona. È stato difficile». Come è stato difficile per l’agente della Polizia cinofila di Moena, intervenuto con Maya, pastore belga, a fiutare vite umane sulla coltre grigia, trovando solo piccoli resti: «Non riesco a parlarne».

Marmolada, il sopravvissuto Riccardo Franchin: «Ho corso, sono svenuto e poi ero solo». Riccardo Franchin, 27enne di Barbarano Mossano (Vicenza) ha raggiunto un rifugio dopo le ferite: «Non ho avuto tempo di provare dolore». Il padre: «Un miracolo». Benedetta Centin su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

«Sentito quel rumore ho alzato la testa: la montagna ci stava piovendo addosso e ho iniziato a correre più che potevo. Questione di pochissimo e sono stato investito dalla valanga. Nemmeno il tempo di provare dolore e ho perso i sensi». Riccardo Franchin, ingegnere 27enne di Barbarano Mossano, nel Basso Vicentino, per i medici dell’ospedale Santa Chiara di Trento è «un miracolato». Da quella marea di ghiaccio e detriti che domenica 3 luglio lo ha inghiottito ne è uscito. Stordito, malconcio, con i segni profondi su gran parte del corpo, ma vivo. Lui, ma non i suoi amici, di cui continua a chiedere con insistenza dal letto di ospedale. In grande apprensione per loro.

Il racconto del padre di Riccardo Franchin: «Passione scoperta di recente»

Iscritto al Cai di Noventa Vicentina, non ha mai preso sotto gamba la montagna. «É stata una passione che ha scoperto di recente — racconta papà Mario Franchin — ma l’ha coltivata sempre con raziocinio, studiando, approfondendo, affidandosi a persone esperte». Come domenica, quando lui e l’amico più giovane, il 22enne Nicolò Zavatta, suo compaesano, stavano scalando la Regina delle Dolomiti insieme alla guida alpina Paolo Dani (che aveva contattato Zavatta) e l’altro vicentino Filippo Bari. L’imprevedibile è accaduto quando stavano per affrontare il ghiacciaio, il tratto più arduo. Una sfida che mette adrenalina. Ma ecco il fragore, il distacco. «Mio figlio era il primo dei quattro, stavano entrando nel ghiacciaio e a suo dire forse gli altri, dietro di lui, si stavano per legare», racconta Mario Franchin. Nelle sue parole sembra di percepire tutta la concitazione e la paura vissute in quei maledetti istanti — perché di istanti si è trattato —, in cui quell’enorme parete di roccia baciata dal sole ha cominciato a scricchiolare e vomitare nella loro direzione una scia di ghiaccio e detriti.

Il racconto: «La corsa quando tutto è crollato, poi ho perso i sensi»

«Riccardo mi ha raccontato di aver avvertito un rumore strano e di aver alzato d’istinto la testa, per vedere cosa succedeva sopra di loro — spiega papà Mario —. Quando ha visto che la cima stava franando, d’istinto ha iniziato a correre, più veloce che poteva, lui era il primo della cordata a sinistra. Gli stava piovendo addosso la montagna e ha tentato di fuggire». Ma la forza sulle gambe e l’istinto di sopravvivenza non sono bastati. «Sono trascorsi pochi istanti, è stato investito da quella valanga e ha subito perso i sensi». Al padre, con quelle terrificanti immagini impresse nella mente e l’emozione che ancora scandisce respiri e parole, il giovane ingegnere ha spiegato: «É stato tutto così repentino, non ho nemmeno avuto il tempo di provare dolore».

Il risveglio: «Ero confuso e mi sono guardato attorno»

Quel mastodontico mostro gelido, spigoloso, graffiante, gli si è riversato contro ed è stato il buio. Un blackout. Si è spenta la mente, chissà se per una manciata di secondi o minuti. Riccardo Franchin parla di aver avuto «un vuoto». Quando si è risvegliato, quando ha iniziato a realizzare, per quanto ancora molto scosso, provato e dolorante, era in piedi. «Ero confuso, mi sono ritrovato sulle mie gambe e mi sono guardato attorno». Il niente. Quella poderosa marea grigia aveva spazzato via uomini e sentieri. Attorno a lui non c’erano più gli altri. «Non ho visto più nessuno», le sue parole.

Il sollievo della famiglia: «È un sopravvissuto»

Le gambe reggevano ancora e ha deciso di muoversi. Si è incamminato verso il rifugio «Capanna Ghiacciaio» e poco dopo ha incontrato uno degli escursionisti che, avendo assistito al disastro, stavano scendendo per prestare i primi soccorsi. A lui Franchin ha chiesto aiuto, ancora sotto choc, con escoriazioni su viso, braccia, gambe e «un trauma al fegato che però i medici dicono che potrà superare senza conseguenze», riferisce papà Mario. Il quale al telefono non nasconde il suo stato d’animo, tra il sollievo di aver ritrovato il figlio vivo e quel peso per coloro che la montagna ha sacrificato. «Se mi sento fortunato? Sono un papà miracolato — e la voce sembra soffocata dall’emozione —. Miracolato come i medici hanno detto di Riccardo, ma dentro di noi c’è grande apprensione per i tre che erano con lui. Per Nicolò che incontravo in paese e per tutti gli altri che erano lassù». 

Marmolada, il carabiniere soccorritore: «Caschi, scarponi, brandelli di corpi: mi calo dall’elicottero e trovo di tutto». Andrea Pasqualetto e Alfio Sciacca, inviati a Canazei su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

Luca Storoni, 47 anni, appuntato scelto: «Nella disgrazia ho perso un amico, cerco qualcosa di lui». «È come se fosse passata una macchina che rotola, e ciò che trova nel suo percorso lo macina». «Domenica ero in cordata, ho sentito come un boato...» 

«In Marmolada partecipo alle ricerche dei dispersi, ma c’ero privatamente anche domenica, quando è successa la tragedia». Luca Storoni, 47 anni, appuntato scelto con qualifica speciale del gruppo Soccorso Alpino dei Carabinieri, è uno degli operatori che in questi giorni si calano sul ghiacciaio alla ricerca dei dispersi. «Domenica ero in cordata con 5 persone, tutti veneti, a un certo punto ho sentito un rumore tipo quello di elicottero provenire dalla montagna; poi è diventato un frastuono. Ho visto come un’esplosione, una massa nera di acqua, ghiaccio e terra. Davanti a me c’era una cordata di alpinisti che è stata travolta in pieno, c’era anche un mio amico, guida alpina. Sono tornato a cercarli con l’elicottero».

Cioè?

«Io sono un soccorritore alpino. Quindi partecipo alle operazioni di ricerca».

Lei è andato a recuperare quei resti...

«Ci ho provato».

In che modo?

«Il drone fa una sorta di mappatura della zona di ricerca, individua oggetti o altro, li geolocalizza e poi noi in elicottero andiamo a prenderli».

Come avviene il recupero?

«In quello che ho fatto io l’elicottero si avvicina a terra, appoggia il pattino. Il soccorritore scende, recupera l’oggetto o parti di un corpo che vengono caricati sull’elicottero».

Ne avete trovati tanti di oggetti e resti umani?

«Si, vista la disgrazia, tra resti umani ed equipaggiamenti vari si può trovare di tutto. Scarponi, guanti, piccozze, caschi. In genere questi oggetti sono anche colorati e quindi di più facile individuazione. È come se fosse passata una macchina che rotola, e ciò che trova nel suo percorso lo macina».

Ha trovato anche qualche indumento del suo amico?

«Non lo so e non lo potrò mai sapere. La furia sprigionata da questo evento è stata così forte che credo sarà difficile trovare qualcosa. Spero sempre di recuperare qualche oggetto del mio amico, ma anche degli altri. Lo spero per chi è morto, ma anche per le famiglie. È importante trovare la pace nel sapere che la persona cara è stata ritrovata. Fa bene per lo spirito».

E gli amici della cordata?

«Potete immaginare il silenzio e la paura. Sul momento ho cercato di tranquillizzarli. Li ho chiamati, li ho legati a me e sono andato a monte perché era una zona più sicura. Quindi ho attivato i soccorsi, mentre noi siamo risaliti fino a Punta Penia e abbiamo aspettato gli elicotteri che ci hanno riportati giù».

Cosa le rimane di questo disastro?

«All’inizio io tendo sempre ad essere molto freddo. Cerco di separare la parte professionale da quella emotiva. Ma poi uno elabora quello che è successo. Rivedo l’immagine di queste persone che si girano verso quella sorta di esplosione e poi non ci sono più».

Marmolada, la sentinella che monitora il ghiaccio con i radar: «Se crolla di nuovo, 50 secondi per salvarsi». Gianni Santucci, inviato a Canazei su Il Corriere della Sera il 6 Luglio 2022.

Parla Nicola Casagli, docente di geologia applicata dell’Università di Firenze, che lavorò con la Protezione civile anche a Rigopiano. 

Il «gran misuratore» del ghiacciaio indossa occhialini sul naso e una polo blu spazzata dalle raffiche d’aria dell’elicottero, che pochi metri davanti a lui atterra e presto si rialza: intorno alle 15 di ieri, dallo spiazzo sopra il lago Fedaia, il velivolo fa sei viaggi nel giro di una mezz’ora. Porta in quota otto tecnici e tre radar. «Saremo in grado di rilevare movimenti minimi, al di sotto del millimetro», spiega con un leggero accento toscano il professor Nicola Casagli, docente di geologia applicata dell’Università di Firenze, arrivato con il suo gruppo di ricerca sulla Marmolada dopo aver già lavorato con la Protezione civile sulla valanga di Rigopiano e sul naufragio della Costa Concordia.

A tre giorni dal distacco che ha travolto gli escursionisti, si gioca ora una contesa tra scienza e natura. Obiettivo: interpretare come si comporterà il gigantesco pezzo di ghiacciaio mutilato e rimasto ancora aggrappato lassù. «Installiamo tre radar. Il primo è un doppler, in grado di intercettare spostamenti rapidissimi e impulsivi, tipo quelli delle valanghe, e dare l’allarme». Sarà decisivo per gli uomini del soccorso alpino che, da domani, inizieranno a scandagliare il terreno alla ricerca dei resti non più con i droni, ma a terra. Casagli è l’esperto del «dopo»: l’uomo che impiega le sue conoscenze per evitare che, dopo un disastro, se ne generi un altro. La sfida tecnologica: leggere movimenti infinitesimali nel corpo di una massa mastodontica. Si parte da un dato, su cui il docente riflette alzando lo sguardo verso lo squarcio d’azzurro vivo sotto la vetta: «Cadrà anche ciò che resta del ghiacciaio». È una certezza? «Basta guardare a occhio nudo, s’è formata una parete verticale. Verrà giù. Bisogna vedere se accadrà tutto in uno schianto, o in parti più piccole». Quando potrebbe accadere? «Siamo qui per capire quando sarà il momento».

Gli altri due radar sono interferometri: «Immagazzinano immagini con oltre un milione di punti, che possono essere confrontate con quelle successive. In questo modo, si riescono a leggere movimenti anche minimi, inferiori al millimetro appunto, che possono essere segnali di instabilità prima della nuova frana». Gli ipersensibili «occhi» puntati sul ghiacciaio monco (ma probabilmente ancor più grande della parte distaccata) sono stati installati ieri pomeriggio all’altezza del rifugio a quota 2.700 metri, che è stato la tappa intermedia degli escursionisti prima dell’ultima frazione dell’ascesa. I geologi hanno stimato anche quale potrebbe essere l’«intervallo di salvezza», cioè il tempo in cui, se venisse giù una nuova frana ghiacciata, le persone impegnate nelle ricerche al di sotto verrebbero travolte. Per buona parte della traiettoria di caduta, quell’intervallo, spiega il docente, «non sarebbe superiore ai venti secondi, probabilmente anche meno. Dunque un tempo non sufficiente per trovare un riparo».

Qualche centinaio di metri sotto la vetta si apre però un vallone trasversale che domenica ha incanalato quel fiume di ghiaccio, pietre e terra verso un fianco della montagna. Per la conca sul fondo, in cui quasi tutta la fiumana si è accumulata, quell’intervallo sarebbe più alto, tra i 50 secondi e il minuto, ed è appunto qui che dovrebbero iniziare le ricerche degli uomini sul terreno. Avverrà quando sarà messo a punto il meccanismo di sicurezza integrato tra sentinelle e, appunto, i radar: «Il primo può far scattare un campanello immediato — conclude il “gran misuratore” — gli altri leggono l’accelerazione per fornirci delle soglie con diverse fasi di allerta».

Crollo Marmolada, intervista a una sopravvissuta: "Io salva per un soffio, il mio compagno era vicino a me". Enrico Ferro su La Repubblica il 6 Luglio 2022.

Alessandra De Camilli, di Schio, è ricoverata all'ospedale di Trento: "Non ho avuto neanche il tempo di pensare 'ora scappo' , che sono stata travolta poi mi sono svegliata in mezzo al ghiaccio". La donna non sapeva che Tommaso Carollo avesse perso la vita nella tragedia: le avevano detto che era tra i dispersi. Poi a sera il post con il selfie in cui si baciano. E la scritta: "Ti amo Tommaso"

Alessandra De Camilli e il destino di chi sopravvive a una tragedia di queste dimensioni. Un attimo prima era lì con il suo compagno Tommaso Carollo a sorridere di fronte all'ennesima vetta scalata, un attimo dopo l'impossibile. E ora si trova in un letto d'ospedale a Trento, malconcia, piena di fratture, imprigionata in un loop di ricordi, De Camilli, 51 anni, architetto di Schio (Vicenza), è una dei miracolati della Marmolada.

Marmolada, in volo sul cuore del disastro. "Là sotto si rischia la vita ma ora torniamo con i cani". Gianpaolo Visetti su La Repubblica il 6 Luglio 2022.

Canazei - Il cratere scavato dal ghiacciaio crollato è invaso da una montagna di blocchi di cristallo che non smettono di precipitare nelle bocche di due larghi crepacci neri. Nel vuoto si buttano anche torrenti d’acqua marrone in cui navigano massi, presto inghiottiti nella pancia del seracco sommitale di Punta Rocca. Questo ribollente labbro di ghiaccio, rotto da una fessura che a quota 3200 parte sotto la vetta, incombe ora sulla conca di Pian dei Fiacconi, 700 metri più in basso, dove restano sepolti i cinque.

Da lastampa.it il 6 luglio 2022.

«Abbiamo appena finito una riunione tecnica a cui ha partecipato il comandante dei Ris, colonnello Gianpietro Lago. Le operazioni sono andate avanti tutto il giorno con i droni che hanno permesso il recupero di 2 salme. Le vittime accertate salgono dunque a 9, di cui 4 riconosciute e 5 non ancora identificate. 

Nulla è lasciato al caso, si sta facendo tutto il possibile per trovare i dispersi. Stiamo mettendo in campo tutte le forze possibili. I feriti sono 7, 4 in ospedale a Trento, e 3 negli ospedali veneti. Cinque sono ancora le persone reclamate dai familiari». 

Queste le affermazioni del presidente della Provincia di Trento, Maurizio Fugatti, facendo il punto a Canazei sulle operazioni in corso sulla Marmolada. 

«L'imprevedibilità è l'elemento che oggi caratterizza l'alta montagna: le condizioni in alta quota cambiano molto più velocemente rispetto ad un tempo, per questo servono informazioni sempre aggiornate (e affidabili) prima di affrontare un'ascensione. Da anni le guide alpine hanno modificato l'approccio alle ascensioni a causa delle profonde trasformazioni morfologiche delle montagne provocate dal cambiamento climatico. In questo senso, serve un cambio di atteggiamento generale: l'esperienza che avevamo non vale più, va ricostruita». Ha affermato Martino Peterlongo, presidente del Collegio delle guide alpine. «Non c'era un seracco incombente, che certamente qualcuno avrebbe notato. Si è staccato proprio un pezzo di calotta». 

Il procuratore di Trento: “Esclusa la prevedibilità”

Oggi, intanto, è in programma una riunione operativa presso la Procura di Trento per fare un punto sul crollo. Il procuratore capo, Sandro Raimondi, incontrerà i carabinieri del Ris di Parma per il conferimento d'incarico relativo alla comparazione dei reperti umani ritrovati dalle ispezioni del Soccorso alpino sul luogo del distacco del seracco di ghiaccio che ha causato la morte di 7 alpinisti mentre 5 sono ancora i dispersi. Toccherà agli inquirenti del Raggruppamento investigativo speciale eseguire le analisi del Dna sui resti. 

«La prevedibilità dell'evento è esclusa, non c'è, noi apriamo tutte le porte che abbiamo davanti per verificare cosa è successo e ricostruire il fatto», ha detto all'Ansa il procuratore capo di Trento, Sandro Raimondi, sull'inchiesta per disastro colposo. «Sentiremo persone, vedremo filmati e coinvolgeremo il mondo scientifico per fare prove per capire, dal punto di vista idraulico, come mai c'era questa grossa massa d'acqua», ha aggiunto il procuratore.

Marmolada, individuati i resti di altri tre escursionisti. Ricerche senza sosta, arrivano i cani specializzati. Il Tempo il 06 luglio 2022

Si continua a lavorare per la strage della Marmolada. Le ricerche della Protezione Civile trentina e del Soccorso alpino stanno proseguendo senza interruzione e “hanno consentito di individuare e recuperare i resti di altri escursionisti coinvolti nella frana staccatasi dalla Marmolada” domenica 3 luglio. “Si ipotizza si tratti dei corpi di alpinisti appartenenti alla stessa cordata” dicono i soccorritori. I ritrovamenti sono avvenuti “in tarda mattinata” ma nessuno si sbilancia su quella che potrebbe essere l’identità delle vittime che saranno trasportate al Palaghiaccio per eventuali riconoscimento, ove possibile, da parte dei parenti. La massa di detriti che ha travolto, stravolto e sepolto i corpi rende complicato il riconoscimento. Al momento la valanga di ghiaccio e rocce ha causato sette vittime certe (una ancora da identificare) mentre il bilancio dei dispersi è fermo a cinque, tutti veneti: Erica Campagnano e il compagno Davide Miotti, Nicolò Zavatta 22enne studente universitario, e l’altra giovane coppia Emanuela Piran e Gianmarco Gallina. 

I tecnici soccorritori di Soccorso alpino, Vigili del fuoco permanenti, Guardia di finanza, Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato, impegnati nei soccorsi per la tragedia della montagna della Dolomiti, effettueranno domani le ricerche via terra, con il supporto di cani appositamente addestrati. Le operazioni avverranno garantendo le condizioni di sicurezza degli operatori attraverso speciali tecnologie per il monitoraggio dei movimenti del ghiacciaio.

Nel frattempo il sindaco di Canazei, Giovanni Bernard, ha firmato una nuova ordinanza attraverso la quale viene circoscritta l’area di chiusura del massiccio della Marmolada, in seguito al distacco di un seracco sotto Punta Rocca. Il divieto di accesso è limitato al versante nord con la forcella Marmolada (da Villetta Maria sentiero E618-E619, prossimità Rifugio Dolomia sentiero E618-Altavia n. 2-E606, piazzale Cima Undici sentiero E618-Altavia n. 2-E606, val Contrin 602-602A). Nell’ordinanza si puntualizza che il divieto di percorrenza lungo i sentieri elencati interessa anche gli alpinisti che risalgono la parete sud-ovest della Marmolada. I trasgressori saranno denunciati. L’accesso all’area è consentito dunque solo agli operatori autorizzati che stanno conducendo le ricerche in quota (oltre che ai rifugisti di Punta Penia e Capanna Ghiacciaio). La zona è controllata dal personale di Corpo forestale del Trentino e Polizia locale della Val di Fassa.

Per ora nessun allarme per nuovi crolli. Tragedia sulla Marmolada, nove le vittime accertate. Il procuratore: “Non c’è un agnello sacrificale per l’opinione pubblica”. Redazione su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

È salito a nove il bilancio delle vittime della tragedia della Marmolada, dove domenica pomeriggio un gruppo di alpinisti è stato travolto dal crollo di un seracco, un blocco di ghiaccio e detriti largo 200 metri e alto 80 che ha travolto la carovana.

Rispetto al bilancio stilato ieri, martedì 5 luglio, sono due i morti che si aggiunti all’elenco, di cui quattro riconosciuti dai famigliari e 5 non identificati. I feriti sono 7: 4 ricoverati a Trento, 3 in ospedali veneti. A fare il punto della situazione è stato il presidente della Provincia di Trento Maurizio Fugatti.

Intanto sale la rabbia dei familiari delle vittime. “Perché nessuno li ha fermati?”, si è chiesta la sorella di Erica Campagnaro, che con il marito Davide Miotti è ancora nella lista di chi non si trova. Ma c’è anche chi si è salvato. Il 30enne Davide Carnielli è stato riconosciuto dai genitori grazie a un piercing. Ma è ancora ricoverato in terapia intensiva a Treviso. Alessandra De Camilli ha invece perso il compagno Tommaso Carollo: “Lui è stato spazzato via, io sono viva per pochi centimetri”, ha raccontato a Repubblica.

“Ho sentito un rumore e guardato verso l’alto. Ho visto pezzi di neve e ghiaccio che scendevano, ho sentito qualcuno che gridava ‘via-via’. Poi penso di essere svenuta. Non ho avuto neanche il tempo di pensare ‘ora scappo’, che sono stata travolta”. Alessandra era con Tommaso Carollo: “Eravamo arrivati alla base del ghiacciaio, restava un percorso da fare sulla roccia. Ma ci siamo fermati e avevamo iniziato a tornare indietro. Era tardi. Mi sembrava troppo lungo il tragitto, era anche caldo. Ma chi poteva immaginare una cosa del genere”.

Al momento invece sembra scongiurata l’ipotesi di nuovi crolli del ghiacciaio. La parte ‘sospesa’ del ghiacciaio della Marmolada “al momento tiene”,  è stato spiegato durante un punto stampa che si è svolto a Canazei: i radar installati per monitorare i movimenti del ghiacciaio attualmente non danno segnali preoccupanti.

Le parole del procuratore

Quanto all’inchiesta per disastro colposo aperta dopo la tragedia, il procuratore capo di Trento Sandro Raimondi ha sottolineato all’Ansa che “la prevedibilità dell’evento è esclusa, non c’è, noi apriamo tutte le porte che abbiamo davanti per verificare cosa è successo e ricostruire il fatto”. “Sentiremo persone, vedremo filmati e coinvolgeremo il mondo scientifico per fare prove per capire, dal punto di vista idraulico, come mai c’era questa grossa massa d’acqua“, ha aggiunto il procuratore.

Raimondi che ha assicurato quindi una ricostruzione rigorosa su quanto accaduto domenica pomeriggio sulla Marmolada, ma non alla ricerca a tutti i costi di un colpevole. “Non c’è un agnello sacrificale per l’opinione pubblica – sono le sue parole riportate dall’Agi -. Non lasceremo nulla d’intentato, apriremo tutte le porte per comprendere e ricostruire i fatti anche con consulenze che affideremo a esperti scientifici, glaciologi e ingegneri idraulici“.

A chi pensa di fare il processo il Procuratore di Trento? Tragedia della Marmolada, la cultura del capro espiatorio non dà alcun contributo alla ricerca della verità. Roberto Cota su Il Riformista il 6 Luglio 2022 

Di fronte alla tragedia della Marmolada, il Procuratore di Trento ha dichiarato “daremo una risposta alle famiglie delle vittime” e ancora “accerteremo se vi sono responsabilità, anche penali, per la tragedia”.

Belle parole, apparentemente, che, però, meritano una riflessione. Con la cautela che il momento richiede anche per i risvolti emotivi ed il grande cordoglio che accompagna la vicenda. Non si comprende che risposta debba dare la Procura di Trento rispetto ad una fatalità come il distacco di una parte di ghiacciaio. Non si capisce, inoltre, che competenze tecniche possa avere la suddetta Procura per dare questa risposta.

Certo, in ambito giudiziario le consulenze tecniche si sprecano, ma il surriscaldamento globale non è materia da indagine penale a Trento. Neppure la ricerca di una responsabilità penale individuale rispetto a decisioni o non decisioni che hanno caratterizzato le scelte sul clima negli ultimi anni. A chi pensa di fare il processo il Procuratore di Trento?

A tutta la classe dirigente italiana e mondiale e, forse, in quota parte anche a se stesso? A questo punto, vanno ribadite due cose. La prima. La cultura del capro espiatorio non dà alcun contributo alla ricerca della verità, non rende giustizia alle vittime e non agisce minimamente sulle cause di una tragedia come quella che è successa. La seconda. La Procura, con tutto il peso che comporta un’indagine penale, dovrebbe muoversi soltanto a fronte di specifiche, circostanziate ed evidenti responsabilità individuali. Roberto Cota

(ANSA il 7 Luglio 2022) - I soccorritori hanno recuperato altri resti delle vittime sotto la frana della Marmolada. A quanto risulta, apparterrebbero ad una decima vittima. Il bilancio è quindi di 10 vittime ed ancora un disperso.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Stiamo elaborando assieme un provvedimento di chiusura in salvaguardia di chiusura di tutta l'area del disastro, e auspichiamo che a livello nazionale poi si attivi un tavolo per eventuali regole, che dovranno essere elaborate dai tecnici perché noi nono siamo nelle condizioni di stabilire delle regole". Lo ha detto il governatore del Veneto, Luca Zaia, in conferenza stampa.

(ANSA il 7 Luglio 2022) - "Questa mattina, nell'intervento interforze, abbiamo perlustrato una zona che non era stata ancora fatta, due chilometri sotto a dove si è distaccato il seracco. Con l'ausilio di due unità cinofile della guardia di finanza abbiamo risalito il crinale e la colata di ghiaccio. Abbiamo trovato diversi reperti, sia tecnici, sia organici. Altri reperti li abbiamo trovati in un'altra parte della colata. Con lo scioglimento, in basso, cominciano a emergere nuovi reperti, in alto la situazione è stabile".

Lo ha detto all'ANSA Paolo Borgonovo, ispettore del centro di addestramento alpino della polizia di Moena, che ha partecipato all'intervento di questa mattina sul ghiacciaio. "La situazione era pericolosa, ma eravamo sorvegliati, abbiamo messo tre vedette, avevamo i sismografi puntati sul seracco e avevamo stabilito delle vie di fuga, quindi eravamo preparati a qualsiasi eventualità, con elicotteri e allarmi sonori. 

Avevamo deciso la fine delle operazioni intorno alle 9 perché con il riscaldamento iniziava a sciogliersi il ghiaccio", ha spiegato Borgonovo, rilevando come la zona del disastro si estende per un lungo pendio, fino a blandire i prati sottostanti. Questa sera è previsto un briefing tra operatori in cui si deciderà se effettuare un nuovo intervento sul campo domani.

Gianni Santucci, Alfio Sciacca per corriere.it il 7 Luglio 2022.

Martedì, all’ora del tramonto, i genitori di Emanuela Piran, dispersa sotto la Marmolada, sono risaliti in auto per tornare a casa, a Bassano del Grappa, e salutando chi li ospitava hanno detto: «Andiamo via... forse non c’è più speranza che la trovino». Ieri però, cielo sereno fin dal mattino, il sole continua a battere contro la valanga indurita come il cemento: lo stesso caldo anomalo che è stato la causa del distacco, ora aiuta le ricerche e inizia a sciogliere il ghiaccio in superficie liberandolo dallo strato di terra che lo aveva trasformato in una massa impenetrabile all’occhio dei droni. 

E così negli stessi punti dove fino al giorno prima non si vedeva nulla, ora affiorano i corpi di altri due dei cinque dispersi. «Lassù lo scenario cambia di continuo — spiega Maurizio Dellantonio, capo del Soccorso Alpino —, oggi i droni hanno individuato ciò che per giorni non era visibile».

Il bilancio

Le telecamere localizzano i corpi sotto i 3.000 metri, quasi a metà della valanga di ghiaccio. In tarda mattinata i soccorritori si calano coi verricelli dagli elicotteri e recuperano le salme. Dovrebbero essere di due uomini. Viene recuperata anche un’altra traccia umana, che non viene inserita nella triste contabilità di questa tragedia: potrebbe appartenere ad uno degli altri dispersi o anche ai cadaveri già recuperati e ricomposti nel Palazzo del Ghiaccio.

Le conseguenze del crollo sulla Marmolada devono dunque essere aggiornate. Le vittime accertate non sono più sette, ma nove: quattro già identificate e cinque ancora senza un nome. Il numero dei dispersi dovrebbe invece scendere da cinque a tre. 

Ma non è tutto così semplice in questa tragedia. C’è infatti la possibilità, fa notare un investigatore, «che i due corpi appena trovati non siano delle persone ad oggi “disperse”, ma di due uomini dei quali non è stata mai denunciata la scomparsa». Inoltre proprio ieri sono stati trovati i documenti di identità dei due ragazzi della Repubblica Ceca rimasti intrappolati sotto il ghiaccio della Marmolada. Si attendono ora i familiari per il riconoscimento definitivo dei loro cari, i cui corpi erano già stati recuperati e portati a Canazei. 

Per riuscire a dare risposte certe alle famiglie che, oltre allo strazio, debbono affrontare anche questa complicatissima catena di possibilità, sarà decisivo il lavoro del Ris di Parma, da ieri nel Palazzo del Ghiaccio trasformato in camera ardente. Dovranno avviare le comparazioni del Dna, unico riscontro certo per dare un’identità a quei cadaveri straziati e senza nome. «Abbiamo il dovere di andare avanti in modo spedito per dare risposte ai familiari che con tanta angoscia aspettano da giorni», riflette Dellantonio.

«I piedi sul ghiacciaio»

Per questo oggi, per la prima volta, i soccorritori metteranno piede sulla valanga di ghiaccio alla ricerca dei dispersi che mancano all’appello. Un’operazione pericolosissima. All’alba, quando il rischio di nuovi distacchi è minore, 14 operatori interforze, comprese due unità cinofile, faranno quello che il drone non può fare, perlustrando ogni singola porzione della valanga. 

Sarà un intervento complesso: il piano operativo divide il percorso della cascata di ghiaccio e roccia, lungo circa 2,5-3 chilometri, con oltre 600 metri di dislivello, in tre parti. In caso di un nuovo distacco, per gli uomini sul terreno, l’intervallo di tempo per salvarsi sarebbe rispettivamente di 20, 40 o 60 secondi. Gli specialisti lavoreranno all’inizio nella parte più bassa, quella meno pericolosa e col maggior accumulo: un elicottero accompagnerà in quota più operatori che verranno calati e si muoveranno restando imbragati col verricello al velivolo in aria. 

Controllo radar

In caso di allerta, il pilota dovrà riprendere immediatamente quota e sollevare gli operatori per metterli in salvo. Il contorno sarà decisivo: «uomini sentinella» piazzati in zone sicure della montagna faranno un controllo a vista del ghiacciaio, che sarà tenuto in costante osservazione anche dai tre radar installati due giorni fa, in grado di registrare immediatamente spostamenti infinitesimali della massa ghiacciata. Tutte le persone di guardia saranno collegate via radio con i piloti. Il ghiacciaio, fino a ieri mattina, era immobile. Nella parte più alta della valanga è anche stata intercettata la presenza di uno smartphone. Ma andarlo a cercare in quel punto, per il momento, è troppo rischioso. 

Il procuratore

Uno sforzo enorme per dare risposte alle famiglie. Ma senza caccia alle streghe, avverte il procuratore di Trento Sandro Raimondi: «Non vogliamo alcun agnello sacrificale da dare in pasto alla pubblica opinione». Ieri in Procura ha presieduto un vertice operativo e disposto nuovi accertamenti. «Coinvolgeremo degli esperti per fornire prove di natura idraulica sulla stagnazione di acqua sotto il ghiacciaio». «Il grosso nodo di questa indagine — spiega — è la prevedibilità dell’evento: se cioè questa sciagura era prevedibile oppure no. E nel caso se è collegabile a ipotesi di imprudenza. Al momento la prevedibilità è esclusa. Siamo come in una stanza con tante porte. Le apriremo tutte e vedremo cosa c’è dietro in modo da ricostruire bene i fatti».

Da Ansa il 9 luglio 2022.

L'undicesima vittima della tragedia sulla Marmolada sarebbe stata recuperata.

A quanto apprende l'ANSA i resti dell'ultima persona ancora dispersa sono stati recuperati e sono in fase di identificazione.

Dunque tutte le vittime per ora accertate della strage sono state recuperate.

"Non ci sono elementi per dire che ci sono altri morti: le vittime accertate sono 11". Così il comandante del Ris, Giampietro Lago, durante una conferenza stampa a Canazei. "Le salme saranno riconsegnate solo a ricerche concluse", ha detto Lago. Il colonnello Lago ha precisato che oggi "sono stati ritrovati altri resti e materiale tecnico con grande probabilità riconducibile agli undici morti accertati".

Marmolada, identificate tutte le 11 vittime della tragedia. Redazione Cronache e Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 09 Luglio 2022

Il Ris ha completato la comparazione dei Dna delle salme recuperate con quella dei congiunti. Continuano comunque le ricerche

Sono state tutte identificate le 11 vittime della Marmolada. I carabinieri del Ris hanno completato la comparazione dei Dna delle salme recuperate con quella dei congiunti. Hanno quindi un nome anche le quattro vittime che non erano state identificate e l’ultimo disperso è stato trovato un riscontro genetico anche per l’ultimo disperso. «Abbiamo completato la comparazione dei profili genetici tra le salme e quelle dei familiari — ha detto il comandante del Ris di Parma, Giampietro Lago intervenendo alla conferenza stampa appena chiusa a Canazei e che ha illustrato nei dettagli l’esito del lavoro svolto sulla tragedia della Marmolada —. Anche il soggetto che mancava all’appello è stato identificato. Sono stati ritrovati altri resti e materiale tecnico e abbiamo chiuso il cerchio e fermato il numero delle vittime a 11. A oggi, non ci sono elementi per pensare a ulteriori soggetti interessati dall’evento incidentale». Le salme, ha poi aggiunto il comandante del Ris, saranno riconsegnate solo a ricerche concluse.

Il bilancio ufficiale dunque si aggiorna a 11. Alle sei vittime identificate subito: tre veneti (Filippo Bari, Paolo Dani e Tommaso Carollo), una donna trentina (Liliana Bertoldi) e due turisti della Repubblica Ceca (Pavel Dana e Martin Ouda) ora si aggiunge l’elenco delle persone reclamate: i coniugi Davide Miotti ed Erica Campagnaro, i fidanzati Manuela Piran e Gianmarco Gallina, e il 22enne Nicolò Zavatta.

C’è un riconoscimento anche per Nicolò Zavatta, 22 anni, la più giovane delle vittime della valanga della Marmolada, l’ultimo che ancora non si trovava: è stato riconosciuto comparando i resti recuperati dai soccorritori con il Dna salivare della madre. Confronti che hanno restituito nel laboratorio del Ris di Parma il ‘match’ che ha fornito la certezza scientifica sull’identità del ragazzo.

Non si fermano comunque le ricerche. Non si cercano più altre vittime, ma si cerca di restituire quanto più possibile alle famiglie che piangono i loro cari e si lavora per rispondere alle domande dell’inchiesta della procura di Trento aperta per disastro colposo.

Un’ordinanza sullo stato di emergenza

Anche questa mattina sono proseguite le ricerche sul luogo del crollo del seracco che ha provocato 11 vittime accertate. Oggi «è stato trovato materiale tecnico e organico — ha detto Maurizio Fugatti, presidente della Provincia autonoma di Trento nel corso di una conferenza stampa —. Ora le ricerche continuano con i droni e lo stesso accadrà anche domani: tre squadre opereranno in tre zone diverse della montagna finché ci saranno i limiti di sicurezza poi si proseguirà coi droni». Il presidente ha dichiarato poi con una specifica ordinanza lo stato di emergenza sulla Marmolada. «Il rischio di altri crolli è concreto - si legge nel documento - in quanto il fronte risultante del ghiacciaio risulta potenzialmente instabile e si è reso necessario installare, in località rifugio Marmolada a circa 2.700 metri, delle apparecchiature di monitoraggio in tempo reale». L’ordinanza specifica che «l’evento di domenica 3 luglio è da considerarsi in termini calamità che rappresenta uno dei presupposti per l’individuazione dello stato di emergenza». Oggi intanto, giornata di lutto cittadino non solo a Canazei, ma in tutti comuni Val di Fassa. 

Fugatti dichiara stato emergenza nel giorno del dolore. Crollo della Marmolada, identificate le 11 vittime accertate: “Escludiamo che ci siano altri dispersi”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 9 Luglio 2022 

“Undici vittime, tutte identificate. Escludiamo possano esserci altre persone coinvolte nella tragedia della Marmolada”. Così il colonnello Giampietro Lago, comandante dei carabinieri del Ris di Parma ha fatto il punto della situazione sul drammatico crollo della Marmolada dopo quasi una settimana di ricerche intense. In meno di 36 ore la comparazione genetica tra i resti recuperati a 2.800 metri e il Dna estratto dai familiari degli alpinisti, che domenica scorsa sono stati travolti da 300mila metri cubi di ghiaccio e roccia collassati dal massiccio, ha spazzato via anche l’ultima speranza.

Sono stati indicati i nomi delle vittime, tutte accertate: Filippo Bari, 27 anni di Malo, Tommaso Carollo, 48 anni di Thiene, Paolo Dani, 52 anni di Valdagno, Davide Miotti di 51 anni e la moglie 44enne Erika Campagnaro di Cittadella, Nicolò Zavatta di 22 anni di Barbarano Mossano, i fidanzati di Asolo Gianmarco Gallina e Manuela Piran, Liliana Bertoldi, 54 anni di Levico, Martin Onuda, 48 anni, e la moglie Dana Pavel di 46 anni, della Repubblica Ceca, sono “le vittime di una delle più brutte pagine della storia della montagna”, come ha sottolineato il governatore del Veneto, Luca Zaia, giunto a Canazei per partecipare alla giornata di lutto.

Bandiere a mezz’asta in tutta la val di Fassa, saracinesche abbassate, turisti che partecipano compostamente al dolore delle famiglie, sorrette da un team di ‘Psicologi per i popoli’. Nessuno alza lo sguardo verso la montagna, chiusa da giorni per motivi di sicurezza e su cui da oggi pende anche lo stato d’emergenza dichiarato dal presidente della Provincia autonoma di Trento, Maurizio Fugatti. “Da una prima stima il fronte che è crollato presenta dimensioni di circa 80 metri di larghezza e 30 di altezza – si legge nel provvedimento -. I rifugi, le malghe e le strutture ricettive presenti in loco subiranno ingenti perdite economiche dalla chiusura del massiccio della Marmolada. Danni che potranno essere concretamente e correttamente quantificati solo superata la fase emergenziale”.

Il sabato dopo la tragedia, a fronte delle dimissioni di un alpinista tedesco, ci sono ancora 6 feriti in ospedale di cui uno in prognosi riservata. E poi c’è il dolore negli occhi scavati di tutti i soccorritori che da quel 3 luglio non si sono arresi alla stanchezza nemmeno un secondo. “E non ci fermeremo ancora – assicura Maurizio Dellantonio, presidente del Soccorso alpino nazionale -. Le ricerche di ulteriori resti andranno avanti almeno per due settimane. Lo dobbiamo alle famiglie”. La prossima settimana la procura di Trento, che ha aperto un fascicolo contro ignoti per disastro colposo pur avendo già escluso i fattori prevedibilità e imprudenza, affiderà le consulenze tecniche a ingegneri idraulici, glaciologi e geologici. Dalle perizie scientifiche gli inquirenti attendono spiegazioni sul ruolo avuto dalla stagnazione della massa d’acqua che al momento del distacco, e forse anche nei giorni precedenti, era presente sotto il ghiacciaio della Marmolada.

“L’immagine della Marmolada sfregiata dalla valanga chiama l’intera umanità a intraprendere un serio cammino di riconciliazione con il creato per tornare a custodirlo e a proteggerlo, come si fa con i fratelli e le sorelle. Chiediamo, come San Francesco, di poter davvero tornare a chiamare fratello e sorella la creazione”. Lo ha detto l’arcivescovo di Trento, Lauro Tisi, durante l’omelia della messa di suffragio, a Canazei, delle vittime della Marmolada.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Marmolada, il papà di Nicolò Zavatta: «Ha telefonato prima del disastro». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera l'8 Luglio 2022

Il 22enne è uno degli alpinisti travolti dalla valanga di domenica scorsa. Il padre Michele: «Io e mia moglie siamo grati di aver cresciuto un ragazzo come lui». 

L’ultimo corpo che la Marmolada non vuole ancora restituire potrebbe essere anche quello del più giovane degli 11 escursionisti travolti dalla valanga di ghiaccio. Nicolò Zavatta, di Ponte di Mossano, nel Vicentino, aveva appena 22 anni e un grande sogno: la musica. «Era la colonna sonora della nostra famiglia», dice papà Michele. Un uomo devastato dal dolore, ma orgoglioso di quel figlio per il quale non vuole ricordi strappalacrime. «Io e mia moglie siamo grati di aver potuto crescere un ragazzo come lui».

La foto di Nicolò, con zaino, moschettoni e caschetto giallo, papà Michele l’ha inviata al gruppo Facebook «DoloMitici!» del quale il 22enne faceva parte. Ed ha scritto: «Ti dobbiamo un favore, quello di ricordarti così, risoluto nella tua vocazione tra queste rocce, ora felice per sempre».

Proviamo a raccontarlo...

«Era un ragazzo che aveva davanti a sé molti fronti aperti. In autunno doveva partecipare a uno stage Erasmus in Austria, si preparava per diventare alpinista esperto e poi c’era il suo grande amore,la musica. Aveva molti fronti aperti e sicuramente avrebbe avuto un gran futuro».

Come era nata la passione per la musica?

«Già a due anni e mezzo aveva chiesto a Babbo Natale una chitarra. Ha preso a suonare e non ha smesso più. Ma, soprattutto, è stato una vita a seguire concerti. Amava la musica dal vivo: David Gilmour, Deep Purple, Litfiba e, in particolare, Ligabue. Siamo stati tante volte a seguire i concerti live».

Quindi andavate insieme?

«Certo, con tutta la famiglia. Due mesi fa al concerto dei Litfiba a Padova abbiamo perso la voce da quanto abbiamo gridato di felicità. Un mese fa, invece, siamo stati a Campovolo, tutta la famiglia, per il concerto di Ligabue. Nicolò lo adorava. Dopo la prima volta nel 2008 all’Arena di Verona, non si perdeva un concerto. Già a cinque anni ci aveva detto che avrebbe voluto fare il chitarrista di Ligabue. Lui, tra l’altro, aveva il dono dell’orecchio assoluto, aveva pure creato una sua band e inciso un disco».

Tornando alla tragedia, è vero che l’aveva chiamata mezz’ora prima?

«Per la precisione ci ha telefonato alle 13,21. Era assieme agli altri a pian dei Fiacconi, sereno e in sicurezza. Non erano andati su, a Punta Penia, perché era una giornata di addestramento e formazione. Loro stavano facendo un esercizio di salvamento su un crepaccio. Nicolò voleva diventare alpinista e si stava formando per questo».

Con chi era?

«Con Paolo Dani, che era la guida, con Filippo Bari e Riccardo Franchin, che si è salvato. Anche se aveva 22 anni, lo scorso anno era già stato sul Monte Rosa, sempre con Paolo. Lui si stava preparando per l’alpinismo e Paolo Dani era una guida espertissima. Andavano spesso insieme, e più di una volta avevano anche cambiato il programma o rinunciato all’uscita perché, secondo Paolo, non c’erano le condizioni di sicurezza. Noi, quando andava su con Paolo, eravamo tranquillissimi, perché sapevamo quanto era attento e scrupoloso».

Quindi non si sono esposti a situazioni di pericolo?

«Assolutamente no. Che nessuno venga a dire “non si poteva salire”. C’erano tutte le condizioni di sicurezza ed è stato solo un tragico destino che ce l’ha portato via».

Siete stati su?

«Siamo andati a recuperare la sua auto, che era ancora nel parcheggio, e abbiamo fatto il prelievo per il Dna. Ora aspettiamo solo che venga recuperato. Comunque siamo sereni perché stava facendo una delle cose che più amava fare. Per noi la cosa più bella sono stati i 22 anni vissuti assieme e vogliamo ricordarlo felice e sorridente, mentre suona la sua chitarra e va in montagna».

Marmolada, Luca Miotti: «Mio fratello Davide era esperto e ha portato anche la moglie Erica perché si sentiva sicuro». Alfio Sciacca, inviato a Canazei (Trento), su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

Il fratello dell’alpinista travolto: era una guida esperta, il bollettino meteo e neve domenica non segnalava un pericolo particolare. 

È una vita sospesa quella di genitori, mogli o fratelli che non hanno una salma da piangere. Cinque famiglie reclamano un loro morto nella tragedia della Marmolada, mentre a Canazei ci sono quattro cadaveri non identificati. «Non c’è alcuna traccia o particolare anatomico che ci permetta di riconoscerlo» si tormenta Luca Miotti, fratello di Davide travolto dalla valanga assieme alla moglie Erica Campagnaro. 

Ancora nulla?

«Aspettiamo da giorni di poter riconoscere Davide e Erica. Fino ad ora nessuno ci ha contattato per l’identificazione. Ci dicono che non hanno individuato alcun corpo che sia riconducibile a mio fratello e ad Erica».

Nessun dettaglio che permetta il riconoscimento?

«Nulla. Tre giorni fa siamo stati a Canazei: abbiamo recuperato l’auto di mio fratello e ci siamo sottoposti al test salivare per il Dna, qualora ci siano dei cadaveri con cui compararlo. Anche se ci hanno detto che non rinvengono corpi, ma solo...» (Luca si ferma e non riesce ad andare oltre)

È vero che Davide ha chiesto alla moglie di seguirlo in montagna appena il giorno prima?

«Non lo so, ma è possibile. Si volevano bene ed erano innamorati della montagna. Andavano spesso insieme. Mio fratello era una guida esperta e anche lei aveva una buona esperienza in montagna. E poi quella era un’uscita semplice. Come sempre lui l’aveva organizzata tutto in sicurezza, altrimenti non sarebbe andato. E certamente non l’avrebbe fatto insieme alla donna che amava».

Non c’è stata dunque una sottovalutazione dei rischi?

«Mio fratello era una guida esperta a cui facevano riferimento tante altre guide. Tutti gli amici e conoscenti del Cai di Castelfranco hanno detto che avrebbero fatto le stesse cose che ha fatto Davide: è partito presto al mattino, è sceso presto per rientrare. Le guide che vanno in montagna di basano sull’esperienza, ma anche su quello che vedono sulle condizioni meteo e sul caldo. Invece questa volta a lui è mancato un dato informativo sullo stato del ghiacciaio».

In che senso?

«C’è un ufficio della Provincia di Trento che monitora la situazione metereologica e nevosa. Se andate a vedere la cronistoria vedrete che è segnalato pericolo giallo il giorno dopo, e non il giorno prima o quello della disgrazia. La Procura dice che non c’è stata negligenza. E invece per me si deve capire perché un organo che si occupa di prevenzione non ha dato informazioni sulla base delle quali mio fratello non avrebbero intrapreso quel percorso, che altrimenti è semplice e sicuro (dalla Provincia dicono che si trattava di allerta temporali, ndr)»

Chiedete dunque che si faccia chiarezza?

«Certo, stiamo contattando le altre famiglie coinvolte nella tragedia per organizzarci in comitato e valutare i risultati dell’indagine in corso». 

La psicologa: "Parenti cercano colpevoli per elaborare lutto ma troppa esposizione mediatica". Sulla Marmolada per la prima volta ricerche via terra, trovati resti escursionisti: “Bilancio definitivo, 11 tra morti e dispersi”. Redazione su Il Riformista il 7 Luglio 2022 

Quinto giorno di ricerche sulla Marmolada dopo la tragedia di domenica scorsa che ha ucciso dieci persone (il corpo dell’ultima vittima è stato ritrovato nella tarda mattinata). Dalle 5 del mattino i soccorritori sono in azione per recuperare le ultime persone disperse. Dopo giorni di ricerche con droni ed elicottero, per la prima volta, 14 specialisti interforze e due unità cinofile mettono piede sul fronte della slavina di ghiaccio della Marmolada. Si tratta -precisa l’Ansa – di un intervento particolarmente rischioso perché parte della calotta interessata dal disastro, grava ancora sul pendio sottostante. Una ricognizione “vista-udito” nel corso della quale sono stati ritrovati, seppur non in numero elevato, anche resti di escursionisti. 

“Operazione complessa e con il rischio di altri improvvisi distacchi, ma per ora il ghiacciaio sembra tenere – afferma Maurizio Dellantonio, presidente del Soccorso alpino nazionale -. Un elicottero sta accompagnando gli operatori”. I radar e i sensori posti nel ghiacciaio permettono di rilevare ogni millimetrico spostamento della massa ghiacciata: in caso di allarme, pronte le vie di fuga. Per mettersi al riparo, le squadre di ricerca hanno solo 60 secondi.

Al momento le vittime identificate sono sei (quattro italiani e due cittadini della repubblica Ceca). Nelle prossime ore sono attesi i primi risultati dai carabinieri del Ris di Parma, che dovrebbe ricondurre tutti i reperti sia organici che tecnici alle vittime. La fase successiva sarà invece comparare questi Dna con quelli prelevati ai parenti per dare un nome ai corpi ancora non identificati.

“Il bilancio di questa tragedia è pressoché definito: ci sono undici persone tra i deceduti e i dispersi. Ad oggi l’identificazione degli otto deceduti riguarda tre veneti identificati e una trentina. Dei feriti, sette (tre dei quali in Veneto) sono ancora in ospedale e un paio sono gravi”, ha detto il presidente del Veneto, Luca Zaia, a Canazei, durante un punto stampa. “Sul ghiacciaio ci sono ancora delle persone, andremo avanti nelle ricerche. Dobbiamo fare tutto il possibile e ancora di più per riportarli a casa”, ha aggiunto Zaia, che a Canazei si trova con Maurizio Fugatti, presidente della Provincia di Trento.

Per i ricercatori del gruppo di lavoro glaciologico-geofisico per le ricerche sulla Marmolada le cause del crollo del 3 luglio del lembo residuale del ghiacciaio sono la forte inclinazione del pendio roccioso; l’apertura di un grande crepaccio che ha separato il corpo glaciale in due unità; la presenza di discontinuità al fondo e sui lati; l’aumento anomalo delle temperature che hanno influito sullo stato del ghiaccio; l’aumento della fusione con conseguente incremento della circolazione d’acqua all’interno del ghiaccio che può aver innescato una crescita dello stress sulle superfici di discontinuità; la fusione progressiva della fronte glaciale che ha fatto mancare sostegno alla massa sospesa.

LA PSICOLOGA – “In situazioni così drammatiche come questa si cercano sempre delle risposte, i ‘colpevoli’. Il dolore dei familiari è sconvolgente, hanno bisogno di ‘stampelle‘ per poter iniziare il processo di elaborazione del trauma che verrà metabolizzato con tempi decisamente lunghi”. A spiegarlo Adriana Mania di ‘Psicologi per i popoli’: a Canazei sostengono le famiglie delle vittime e dei dispersi sulla Marmolada.

Il team è composto da circa una ventina di professionisti che a rotazione stanno coprendo i turni per garantire un servizio continuo tutti i giorni. Intervistata da IlDolomiti.it, Mania spiega: “Ognuno esprime e manifesta il dolore a proprio modo, noi vogliamo essere una sorta di ‘stampella’ per accompagnare queste persone nei passaggi successivi. Stanno vivendo un trauma ma la fase successiva sarà quella dell’elaborazione, che sarà ancora più delicata”.

“Stiamo cercando di costruire intorno a loro una sorta di ‘bolla’ per difenderli” dall’esposizione mediatica. “Siamo circondati da troppe parole in questi giorni, a volte in questi frangenti il silenzio può essere prezioso” ammonisce.

Marmolada, per ogni catastrofe si cerca il suo colpevole. Hoara Borselli, Giornalista, su Il Riformista il 7 Luglio 2022 

Dove è il colpevole? La caccia è aperta. 

Crolla il seracco del ghiacciaio della Marmolada? Mica può essere dovuto al fatto che da millenni i continenti si muovono, che il clima della Terra cambia da sempre a causa dell’attività solare o le eruzioni dei vulcani?

Ci sono illustri fisici e climatologi, quali ad esempio Franco Prodi, fratello del noto Romano, che ci dicono che il riscaldamento globale fa parte di cicli naturali. 

Ma ascoltare lui e le sue tesi ci bolla immediatamente da “negazionisti.” Siccome la narrazione del pensiero unico green vuole che si dia la colpa all’uomo se i fiumi e i laghi si svuotano e se i ghiacciai scompaiono si ritirano, la scienza a questo giro non la ascoltiamo.

Ci affidiamo a lei solo quando ci fa comodo. A fasi alterne.

Per giustificare il lock down andava bene, quando ci diceva che le mascherine non sarebbero più servite l’abbiamo snobbata. Oggi che dissente dall’unico Vangelo ecologista ammesso, la rimandiamo in soffitta. L’unico verbo è questo: “l’uomo deve essere rieducato e abituarsi all’idea che il progresso è il responsabile di tutti i nostri mali”.

Hai voluto la macchina? Ti piace il fresco dell’aria condizionata? Vuoi il gas? Ti piace magiare la carne? Hai voluto l’elettricità invece delle candele? E ora ti meriti che caschino ghiacciai, che ci siano estati torride e d’inverno tu sia travolto dagli uragani con annesse le alluvioni che si porteranno dietro.

Tu uomo devi scegliere se non vuoi essere la causa di tutti i tuoi mali. O accetti di tornare all’età della pietra o la natura ti si rivolterà contro. Se non ti aggrada l’idea di abbeverarti nei fiumi, vivere nelle caverne, e diventare erbivoro, sarai complice di uno sfacelo.

Del resto Greta Thumberg ci aveva avvistati. Possibile essere così stupidi da non allinearci al suo pensiero? Alle sue nefaste profezie e accettare le sue salvifiche soluzioni?

Prendete esempio dalla civiltà Amish, il  futuro anelato dagli attivisti green. Per chi non la conoscesse sono una comunità religiosa nata in Svizzera nel Cinquecento e stabilitasi negli Stati Uniti d’America nel Settecento, precisamente in Ohio e Pennsylvania.

Gli Amish vivono come contadini e artigiani in campagne che tengono gelosamente libere dalle intrusioni della civilizzazione. L’elettricità non è ammessa, poiché rovina la naturalezza del creato e la semplicità del vivere.Non esistono automobili, si spostano solo con i cavalli 

Gli uomini portano vesti dal taglio semplice, prive di cerniere lampo e in parte anche di bottoni. Nessuna donna porta gioielli. La modernità e il progresso sono banditi in qualunque loro espressione. La tecnologia è dannosa, la televisione un abominio. Ecco la soluzione per non emettere più co2 nell’aria per buona pace degli ambientalisti.

Basta fare un balzo indietro di millenni e il gioco è fatto. Questa è utopia, demagogia allo stato puro. Significa vivere scollegati dalla realtà con la presunzione di consegnarci una soluzione ideologica che nulla risolverebbe se non regalarci l’illusione di poter controllare la natura. Follia!

È doverosa una distinzione… L’inquinamento che va combattuto con tutte le nostre forze perché è un atto di civiltà dovuto il rispetto per l’ambiente che ci ospita. E il fanatismo ecologista che vede nella plastica e nello smog la causa dei cambiamenti climatici.

E poi c’è un’altra cosa che non riesco a non dire. Possibile che ogni volta che c’è un disastro naturale bisogna cercare un colpevole eccellente? Per il terremoto dell’Aquila processarono gli scienziati che non l’avevano previsto, per l’allagamento di Genova, il sindaco,  e ogni volta è così. 

Viene allora da chiedersi quanto poco tempo sia passato dalla caccia agli untori di Manzoni!

Marmolada, chiusura totale per fermare gli scalatori che ignorano i divieti. Alessandra Ziniti su La Repubblica il 6 Luglio 2022.

La strage non scoraggia gli escursionisti: tra di loro anche turisti dell’orrore. Bloccati tutti gli accessi. Due radar per monitorare il massiccio. La rabbia dei parenti dei dispersi: continuate a cercare.

I cartelli di divieto sono stati installati in tutti e cinque i punti di accesso al massiccio. La Marmolada ora è completamente chiusa e presidiata dalle forze dell’ordine per evitare che curiosi o irresponsabili provino comunque a salire sulla montagna ferita dal collasso del ghiacciaio. Escursionisti, turisti dell’orrore ancora ieri mattina hanno provato ad aggirare i divieti e sono stati fermati.

Enrico Martinet per “la Stampa” il 6 luglio 2022.

«Totalmente da ripensare». Marco Bussone, presidente Uncem, l'unione dei Comuni di montagna, cala una sentenza per indicare il futuro della montagna. La sua è una certezza «dopo questa immane sciagura sulla Marmolada». 

Ma non tutti sono del suo parere, anzi c'è chi esprime scetticismo, come il meteorologo Luca Mercalli: «In una settimana si dimentica tutto, come sempre accade dopo tragici eventi.

Sarà poi il Po a far parlare di sé, quando a fine estate sarà in secca». Il timore della dimenticanza, di una svolta che non sia nel ripensare a un approccio alla montagna, piuttosto di una fuga dalla sciagura da lasciare alle cronache, alla storia d'ambiente montano.

«Eppur ci vuole un cambiamento», dice il presidente nazionale delle guide alpine, il trentino Martino Peterlongo, parafrasando Galileo. E la scienza? Sarà il momento dell'incontro con il mondo della montagna, non soltanto con alpinisti, escursionisti, ma anche con le comunità, così incredule rispetto a orizzonti neri, come se analizzare ghiacciai in agonia o montagne in frana fosse gettare un malocchio. Il glaciologo Fabrizio Troilo, che studia i ghiacciai a rischio della Val Ferret di Courmayeur, il tormentato Planpincieux, appena oltre le erbe e l'aereo Whymper sulle Grandes Jorasses, è cauto: «Forse potrebbe esserci una presa di coscienza. Ripeto il forse».

Mercalli, con buona memoria: «Nuovo approccio alla montagna? Mai trovato, se non giuridico. Un po' come nella pandemia, un decreto per il lockdown. Purtroppo può essere solo così anche per l'ambiente. Ci vorrebbe una legge internazionale coniugata con una tassa sul carbone e con un diktat del tipo chi inquina paga». 

In questi dopo sciagura, così come già avvenuto in altri frangenti che hanno indicato con chiarezza quanto il cambiamento climatico incidesse sulla nostra vita, c'è un improvviso decisionismo volto a offrire soluzioni rapide che passano per leggi di divieto o per imperativi assoluti con ordinanze prefettizie, regionali o comunali. Mercalli: «Ridicolo. Che facciamo? Sbarriamo quattromila ghiacciai alpini?».

Peterlongo: «Sarebbe avvilente, quella che si definisce la soluzione sbagliata. Comprendo la reazione emotiva, ma il mio auspicio è che noi guide ci sforzassimo di comunicare la montagna. Già lo facciamo, ma sa, le regole non sono più attuali. E la situazione delle Alpi, con questi cambiamenti rapidi, impone decisioni giorno per giorno. Non ci sono più la stabilità delle condizioni e l'affidabilità della meteo». 

E ricorda, il presidente, come «basti leggere una guida sugli itinerari alpinistici per capire che la montagna descritta in quelle pagine non esiste più». Fa due esempi: «La parete Nord della Presanella, in Trentino, è sparita. E lo Sperone Frendo all'Aiguille du Midi, nel Monte Bianco, non ha più un filo di neve. Ci si trova davanti a un altro mondo, quindi diventa fondamentale affidarsi a chi vive tutti i giorni la montagna, dalle guide ai rifugisti».

Marco Bussone, però, mette in guardia: «Dobbiamo cominciare un processo di ripensamento senza data di scadenza e portiamolo anche sui tavoli della politica perché i morti non ci siano stati invano. E guai a pensare che servano soltanto soldi». Ancora: «Smettiamo di pensare alla montagna come un parco giochi. È questo il tema vero da affrontare. E non esiste soltanto la sfida alla gravità, raggiungere la vetta. Uscire da questi stereotipi significa guardare alle persone, alle comunità di montagna». I divieti di cui parla sono i numeri chiusi, come per le strade nelle vallate di montagna.

«Il tutto è possibile - spiega - non è più immaginabile. Poniamo dei limiti. Da aprile a ottobre sui ghiacciai non si va e alcune aeree se non più fruibili vanno chiuse, bisogna il più possibile abbassare il rischio». Chiusure senza controlli perché «è questione di autodisciplina come in autostrada». Limiti di accesso per preservare l'ambiente e la propria incolumità. Cambia il clima, cambia la montagna. E così, secondo il presidente Uncem, devono pensare a un cambiamento anche i mestieri della montagna.

«Le guide - dice - possono aiutare a far comprendere la fragilità di questa natura. Facciano un patto con il territorio, con noi, i sindaci e la scienza. Ci vuole una nuova percezione dell'ambiente alpino e anche dell'economia. Quasi come paradosso, ma di certo come esempio virtuoso, penso a Finale Ligure, dove c'è un polo dell'outdoor esemplare, dall'arrampicata in falesia al mare. Ma anche in Piemonte, come in Val Maira o in Alta Valle Tanaro c'è un nuovo sentire». La svolta sperata c'era stata nel mondo scientifico.

Fabrizio Troilo: «Dopo la strage di Mattmark in Svizzera nel 1965, quando un ghiacciaio seppellì 88 persone sono cambiati gli studi sui ghiacciai. E dopo la sciagura delle Grandes Jorasses nel 1993, con otto alpinisti travolti e uccisi prima dell'alba dal crollo di seracchi, si è cominciato a pensare al monitoraggio dei ghiacciai. Noi di Fondazione Montagna sicura abbiamo sempre promosso il rapporto con comunità e alpinisti. Segnali di una maggiore fiducia e di un rapporto diverso con la natura, mediato dalla scienza, ci sono».

Da “la Stampa” il 6 luglio 2022.

Le operazioni di soccorso dopo la valanga di domenica della Marmolada continuano: «L'emergenza prosegue, forse abbiamo fatto una scelta un po' drastica, di chiudere tutta la Marmolada, ma ci consente di stare in sicurezza». Lo afferma il sindaco di Canazei Giovanni Bernard. 

Una decisione presa in accordo con i primi cittadini dei comuni limitrofi «per la sicurezza degli escursionisti, ma anche dei soccorritori che devono lavorare senza intralci». Nonostante questo, c'è chi anche ieri ha imboccato i sentieri per salire, ma farlo «è pericoloso» dicono i soccorritori, ricordando che esiste l'ordinanza del sindaco di Canazei Giovanni Bernard con cui si indica che la Marmolada «è chiusa».

Proprio per stabilire i «confini» del divieto e prevedere eventualmente un controllo dei principali «ingressi» alla montagna - dopo la valanga di domenica - c'è stata una riunione dei soccorritori e del primo cittadino alla sede del Cnsas.

Crollo della Marmolada, Fugatti: “Bandiere rosse come al mare, così renderemo più sicura la montagna”.  Giampaolo Visetti su La Repubblica il 6 Luglio 2022.

Il presidente della Provincia di Trento: "Deve restare un luogo aperto, altrimenti muore davvero. Ma è giusto pensare a segnali d'allarme in condizioni climatiche eccezionali".

"In una stagione eccezionale come questa il nostro concetto di attenzione nello spingerci in alta quota deve essere aggiornato. Per questo è opportuno pensare a sistemi di segnalazione del pericolo: le bandiere rosse sui ghiacciai sotto stress possono aiutare gli escursionisti a compiere scelte sempre più consapevoli". Il governatore trentino Maurizio Fugatti condivide con il collega del Veneto, Luca Zaia, l'idea di introdurre in montagna segnali visivi di allerta, simili a quelli esposti sulle spiagge in caso di mare grosso.

La follia in rete. Strage sulla Marmolada, i complottisti negano il cambiamento climatico: colpa delle “mine dei poteri forti”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 4 Luglio 2022. 

Mentre il bilancio finale della strage sulla Marmolada, dove domenica pomeriggio si è staccato un enorme blocco di ghiaccio e detriti a oltre 3 mila metri di altezza, precipitando verso la valle e travolgendo decine di alpinisti, rischiando di provocare la morte di almeno 20 persone, sul web assieme al cordoglio si è scatenato il complottismo.

Nulla di inedito in Italia, dove da oltre due anni bisogna fare i conti con la componente no-vax, nonostante le migliaia di vittime del Covid-19: eppure anche le drammatiche immagini proveniente dalla Marmolada, con quello squarcio nella montagna che ha inghiottito tante vite, ha fermato l’irresponsabilità dei commentatori della domenica.

L’obiettivo è uno: negare di fronte all’evidenza dei fatti e della scienza il cambiamento climatico. Non sono serviti i pareri unanimi degli esperti che da domenica hanno commentato su tv e quotidiani quanto accaduto, così come le parole pronunciate oggi dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che ha definito quanto accaduto come frutto del “deterioramento dell’ambiente e dalla situazione climatica”.

Strage sulla Marmolada, il racconto dei sopravvissuti al crollo: “Ci siamo abbracciati, inutile scappare, puoi solo pregare”

Per i ‘sapientoni’ del web dietro la tragedia della Marmolada vi è una strategia ad hoc, ideata probabilmente dallo stesso governo e dagli onnipresenti “poteri forti”, per concentrare l’attenzione sull’emergenza climatica.

C’è chi si spinge a ipotizzare che dietro il crollo del seracco vi sia addirittura l’uso di mine “per alimentare la psicosi climatica”, come da commento di un utente postato su Twitter dal virologo Roberto Burioni. Non sorprenderà che chi crede a simili teorie sia anche un fiero membro dell’universo no-vax: “Da questi infami che obbligano persone a vaccini pericolosi per la salute mi aspetto di tutto”, dice l’esperto di complotti.

Quello pubblicato da Burioni non è l’unico esempio, ovviamente. Basta infatti scorrere i commenti sui vari social degli account dei principali quotidiani italiani: spuntano ‘come funghi’ gli adepti del complottismo pronti a fornire la loro versione dei fatti, ovviamente per smentire qualsiasi ‘coinvolgimento’ nel disastro di domenica del cambiamento climatico. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Negazione scatenata. E sul giornale a destra il clima è buono. TheWorldNews il 6 luglio 2022.

Qui è davvero pericoloso, ad eccezione di quattro invalidi che da anni si infuriano sui social network e riempiono le pagine di giornali e siti tramati sul Covid. Ci sono smentite. Sono persino dirigenti di classe, comicamente, idolatrano la "scienza" che negano oggi fino a ieri. 

Una delle prime pagine più disgustose è la medaglia d'oro intitolata "Ice Jackal"Il GiornaleC'è qualcosa che merita (spesso il peggior leader). Dentro c'è tutta l'attesa ipocrisia ambientale e politica. Possono accusare "Gretini" (ambientalista, giornalista di avere il coraggio di chiamare questi "idioti") di "abusare della strage" e quindi dedicare ad utilizzare la tragedia della Marmorada, la copertina del loro giornale che ha sconfitto gli oppositori politici. Esattamente l'atteggiamento che incolpano gli altri. capolavoro.

Anche speso nella penna d'oro di Nikolapolo. Non può fare a meno di negare che la temperatura si sta alzando (grazia cara), ma cerca di trovare un'occasione a Torino nel 1922. Dove la temperatura era alta. Confondere temperatura e clima è un errore fondamentale anche per gli studenti delle scuole medie, ma ovviamente non hanno trovato niente di meglio intorno al Giornale.

E non è tutto. Philippoffatch (Climatologo oggi) Liberospiega che "la verità a volte è inutile" (del resto, senza il perdono dell'ipocrisia). Non lo sarebbe stato. Giornalista), spiegando che "Serak cade sempre, loro cadono sempre", e grida al "governo militare" di chi vuole chiudere le montagne. Ti ricorda qualcosa. Sì, è lo stesso patetico vocabolario della cospirazione che si applica a qualsiasi altra cosa. Tuttavia, questo non è sulla bacheca di Facebook, ma nella prima pagina del quotidiano nazionale. Anche Draghi è stato accusato di "lasciarsi giocare" per aver parlato di "degrado dell'ambiente".

A dire il vero sull'omonimo giornale di Bel Pietro,Mario Giordanoè il suo editoriale perché le smentite sui cambiamenti climatici sono trattate sconsideratamente come Petiniani professionisti. Chiedi a Giordano: Sì, il pericolo è globale piuttosto che interno e i negazionisti sono stati identificati come dannosi dal 99,9% degli scienziati. Il problema va oltre lo sfruttamento dei piagnucolii di Giordano, continuando a smussare ogni sorta di complottisti, come lui, piuttosto che la "doccia" dipinta come un "criminale", il suo piccolo Qualcuno che nega la realtà per guadagnare spazio da qualche stronzata televisiva neo -melodia. Non è necessario specificare aggiungendo IlFoglio {37 insieme a Libero, Il Giornale,LaVerità. } Tra le smentite del cambiamento climatico, un decennio di articoli di smentita di fronte alla tragedia della Marmolada mostra che sostiene un "dibattito a lungo termine sulle cause" del cambiamento climatico. Ma Il Foglio

Come lei scrive correttamente,Antonio Scalari"Per questi giornali è giornalisticamente serio, frustrante e imbarazzante. (Il Foglio, La Verità, Il Giornale), non c'è consenso scientifico per l'area di destra, solo pareri sulle solite tre o quattro contraddizioni climatiche italiane. I personaggi sono spesso presentati come "esperti di fama mondiale", intervistandosi, ripartendo, firmando petizioni non scientifiche, e ingannando su questi giornali con #CambiamentoClimatico Continuo a trovare megafoni per diffondere le mie carte.

La disinformazione senza alcuna esitazione o verifica viola il giornalismo e l'etica dell'informazione e affronta eventi come la #Marmolada, dove la scienza è legata da tempo al #CambiamentoClimatico, ma provoca ignoranza e confusione. .. La disinformazione sui cambiamenti climatici inganna e confonde i lettori e impedisce loro di formarsi la giusta opinione sulla crisi più grave del nostro tempo.

Finché i giornali come quelli diretti da Cerasa e altri continueranno a farlo circolare. Non è un piccolo dettaglio. È come tenersi quotidianamente per mano con politici che si comportano come se fossero marchi nel mito dell'"abilità". Ovviamente i "competenti" sono sempre loro, solo loro. È sufficiente che gli amministratori si informino prima di notificare, e si scopre che la principale causa del cambiamento climatico sono le emissioni dei combustibili fossili.

Vogliono prendere lezioni di politica e di giornalismo, ma rappresentano accuratamente i desideri ignoranti di coloro che mostrano cambiamento per paura di perdere uno status o protezione. Il giornalismo all'indomani della tragedia della Marmolada è incasinato. Pericoloso per un pugno di lettori e irresponsabile di essere: esattamente lo stesso partito che sostengono.

La maggior parte delle notizie dei giornali sui cambiamenti climatici ora è accurata. Ma i giornali conservatori pubblicano ancora inesattezze ed emerge un nuovo negazionismo più subdolo per ritardare l’azione. Da greenreport.it il 26 Agosto 2021

Buone notizie: secondo il recente studio “Balance as bias, resolute on the retreat? Updates & analyses of newspaper coverage in the United States, United Kingdom, New Zealand, Australia and Canada over the past 15 years”, pubblicato recentemente su Environmental Research Letters, «I principali mezzi di stampa di 5 Paesi hanno rappresentato il cambiamento climatico in modo molto concreto, raggiungendo un tasso di precisione del 90% negli ultimi 15 anni».

Secondo gli autori dello studio, guidati da Lucy McAllister della Technische Universität München e dell’università del Colorado – Boulder, «La copertura scientificamente accurata del cambiamento climatico causato dall’uomo sta diventando meno prevenuta, mettendo in evidenza l’idea che la stampa non presenti più il cambiamento climatico come qualcosa di controverso». Ma c’è un ambito nel quale il team ha trovato ancora una copertura parziale: i media conservatori.

Un’autrice dello studio, Meaghan Daly  dell’università del New England – Biddeford ha spiegato che « Sappiamo che in passato, la segnalazione “bipartisan” sui cambiamenti climatici ha perpetuato la percezione imprecisa che vi sia ancora un significativo disaccordo scientifico su questo tema. La buona notizia è che questo studio dimostra che nei media della carta stampata, questo tipo di segnalazione problematica è in gran parte caduta nel dimenticatoio».

La McAllister  concorda: « Due decenni fa, la carta stampata spesso dava pari credito sia agli esperti climatici legittimi che ai negazionisti del clima anomali. Ma negli anni più recenti abbiamo scoperto che i media di tutto il mondo in realtà sono stati dalla parte della ragione la maggior parte delle volte. Tuttavia, i fatti ora superano il dibattito. 9 articoli su 10 sui media hanno riportato accuratamente la scienza sui contributi umani al cambiamento climatico. Non è più presentato come un dibattito a due facce».

I ricercatori hanno analizzato quasi 5.000 articoli pubblicati su 17 dei principali quotidiani di 5 Paesi  – Usa, Regno Unito, Nuova Zelanda, Australia e Canada –  in 15 anni, dal 2005 al 2019, aggiornando così la precedente ricerca di uno degli autori del nuovo studio, Max Boykoff del Cooperative Institute for Research in Environmental Sciences (CIRES) dell’UC – Boulder, che aveva esaminato come la normalità giornalistica del giornalismo “moderato” abbia contribuito a presentare un’immagine distorta della scienza climatica. La McAllister  ricorda che «Molti continuano a citare l’articolo di Max Boykoff e Jules Boykoff del 2004, con dati che terminano nel 2002, come prova dei pregiudizi persistenti nei media. Era assolutamente necessaria un’analisi aggiornata».

Il team di ricerca ha letto gli articoli per determinare se ognuno trasmettesse il punto di vista del consenso scientifico secondo cui il cambiamento climatico è causato principalmente dall’uomo e ne è venuto fuori che 2.397 articoli hanno rappresentato con precisione la causa principalmente umana del cambiamento climatico, 150 hanno offerto un falso equilibrio e 113 hanno espresso punti di vista contrarian o negazionisti.

Anche se i media di tutto il mondo stanno diventando sempre meno prevenuti quando si tratta di clima, il team ha scoperto che i media conservatori, come il National Post in Canada, il Daily Telegraph e il Sunday Telegraph in Australia e il Daily Mail and Mail on Sunday del Regno Unito, tutti storicamente iper-conservatori e liberisti, hanno una copertura molto meno accurata dei cambiamenti climatici.

Il National Post ha avuto la copertura meno accurata, con circa il 71% di articoli che riflette il consenso scientifico sulla causa del cambiamento climatico. I giornali di destra hanno anche pubblicato meno articoli sulle  causa del cambiamento climatico.

La copertura più accurata c’è stata da parte dei giornali progressisti: il canadese Toronto Star (97,37%) e i britannici The Guardian e Observer (95%) che ha avuto anche il maggior numero di articoli analizzati.

Dallo studio emerge che «Anche gli eventi mondiali hanno influenzato l’accuratezza dei media: la copertura mediatica era significativamente meno accurata nel 2010 subito dopo lo scandalo dell’hacking delle e-mail dell’università dell’East Anglia alla fine del 2009 e i negoziati delle Nazioni Unite sull’Accordo di Copenaghen. E la copertura è stata significativamente più accurata nel 2015, durante il periodo dei negoziati dell’Accordo di Parigi».

Boykoff  conferma: «In questi  print outlets i rapporti accurati hanno ampiamente superato quelli imprecisi, ma questo non è motivo di compiacimento. Negli ultimi anni il terreno del dibattito sul clima si è fortemente postato dalla semplice negazione dei contributi antropici al cambiamento climatico a un indebolimento più sottile e continuo del sostegno alle politiche specifiche volte ad affrontare in modo sostanziale i cambiamenti climatici».

I ricercatori sottolineano che «Le persone raramente leggono ricerche scientifiche sui cambiamenti climatici sottoposte a peer-reviewed ed è più probabile che ne vengano a conoscenza attraverso i media. Pertanto, studi come questo sono fondamentali per comprendere come vengono seguite le ricerche scientifiche e le politiche in corso nella sfera pubblica. Ci sono anche altre pressioni concorrenti che modellano la nostra consapevolezza del cambiamento climatico, come le conversazioni con familiari e amici, l’intrattenimento e leader di cui ci si fida».

I risultati dello studio suggeriscono che l’analisi dei media deve andare oltre la nozione di falso equilibrio. La McAllister fa notare che «La maggior parte dei principali mezzi della stampa potrebbe riferire accuratamente i cambiamenti climatici, ma sorgono nuove domande, come ad esempio il modo in cui vengono discusse le soluzioni. Quali idee stanno avendo più testo o copertura in prima pagina e perché? Inoltre, i ricercatori dovrebbero esaminare i tipi di copertura nei Paesi che affrontano gli impatti più estremi del nostro cambiamento climatico».

Per la Daly, oltre a esaminare la rappresentazione del cambiamento climatico in televisione e sui social media, i ricercatori dovrebbero prestare attenzione a nuove e più sottili forme di negazionismo: «Dato che  è diventato più difficile negare l’esistenza del cambiamento climatico – poiché sempre più persone osservano direttamente gli impatti del cambiamento climatico nella loro vita quotidiana – invece, stanno emergendo nuove strategie per ritardare un’azione climatica significativa. Quindi, per i ricercatori sarà importante esaminare i modi più subdoli con i quali gli oppositori dell’azione climatica stanno lavorando per minare gli sforzi per affrontare le cause e le conseguenze del cambiamento climatico».

Boykoff conclude: «Raggiungere una copertura mediatica costantemente accurata non è ancora la soluzione proiettile d’argento per innescare un’azione collettiva. Il nostro lavoro aiuta a fornire approfondimenti su come i media stanno descrivendo i contributi umani al cambiamento climatico, ma questo deve essere fatto in modo più chiaro».

 Il gesto folle degli attivisti per il clima: si incollano ad un capolavoro dell'800 e lo rovinano. La Repubblica il 6 Luglio 2022.

Nobile la causa, non altrettanto il gesto. Gli attivisti per il clima di Just Stop Oil si sono resi protagonisti di un'altra, eclatante manifestazione di protesta: due giovani sono entrati nella National Gallery di Londra e hanno inscenato una dura contestazione davanti al quadro "The Hay Wain", considerato il più importante dipinto del pittore John Constable. I due attivisti in un primo momento hanno coperto il quadro incollandovi sopra una sua riproduzione e poi hanno incollato le loro stesse mani alla cornice.

Il museo ha fatto sapere che sia il dipinto che la cornice sono stati "lievemente danneggiati" dal gesto di protesta.

Marmolada, la sinistra accusa FdI e Lega: "Perché è colpa vostra". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 06 luglio 2022

Quando l'ignoranza si salda all'ideologia, si rimediano figure barbine. Se poi si aggiunge l'odio politico, che ti porta a speculare sulle tragedie, è un attimo passare per un avvoltoio. Hanno subito svariate evoluzioni, contratto diversi matrimoni misti e cambiato qualche decina di nomi, ma gratta-gratta i democratici piddini sempre del comunismo sono figli. Lo rivela l'approccio stalinista che hanno nel dibattito pubblico e con l'avversario politico: la loro è la verità incontestabile e la denigrazione è l'arma con cui si combattono le battaglie. Capita così che una gentile donzella come l'eurodeputata ex renzina Simona Bonafè, interrogata in tv sul crollo della Marmolada, se ne esca dicendo che poco si può fare se «in Europa c'è chi, come Lega e Fratelli d'Italia, chiude gli occhi sul cambiamento climatico e vota contro il provvedimento che vieta la vendita di auto a benzina nel Continente a partire dal 2030». Da Besana Brianza, le fa eco il parlamentare Gian Mario Fragomeli, che sottolinea come «a livello europeo si fanno scelte ambientaliste ma il centrodestra non mostra attenzione, perché la Marmolada non è certo un problema di oggi». Ma l'onorevole coppia è truppa da sbarco, si tratta di randellatori con la mitraglia che per contratto non vanno leggeri. Le menti stanno dietro e sono più raffinate. Così Michele Serra su Repubblica sbertuccia Zaia perché, mentre «il cataclisma delle Dolomiti parla al mondo», il governatore leghista afferma che una cosa simile «non era mai accaduta in Veneto» e così «contrappone ai mutamenti climatici un irritante localismo». E d'altronde, di Dolomiti e natura ne saprà ben più il dotto Serra del villico Zaia, incidentalmente laureato in Agraria.

MILITANTI

Senza esibire dati né studi, il giornalista militante, parlando di Veneto, azzarda che «le Regioni hanno accumulato quattrini trattando qualsiasi allarme ambientale come lo sfizio di quattro intellettuali rompiballe». Così, tanto per sputare in faccia all'avversario. Vola alto Concita De Gregorio, secondo la quale «le forze politiche che chiamano Greta Thunberg "Gretina" sono contrarie ai giovani». Al punto da godere nel rovinare loro il Pianeta, è il non detto. E invece forse qualcosa sarebbe il caso di dirla. La prima è che il clima si sta certo surriscaldando, ma a guastarlo non è l'inquinamento bensì la sinistra, che fa di un'emergenza terreno di scontro politico, incriminando gli avversari con capi d'accusa senza capo né coda. Partiamo dall'accusa a Lega e Fdi di essere contrarie al bando delle auto a benzina. Al netto dei milioni di posti di lavoro, per lo più di persone a basso reddito e non altrimenti qualificate, che questa legge costerà, non c'è nessuno studio che abbia dimostrato che l'auto elettrica, che la sinistra sponsorizza per pura ideologia, inquini meno. Peraltro, siccome al momento vengono prodotte per lo più in Cina, sicuramente gli stabilimenti di Bmw e Audi, o di Stellantis e Renault fanno meno danni all'ambiente di quelli che sfornano batterie a Pechino o Shanghai.

MIOPIA

Nella legge europea che il centrodestra non vuole approvare sta tutta la miopia della sinistra, che vieta il commercio di vetture in Europa, quando tutto il resto del mondo può venderle. Un po' come buttare il pacchetto di sigarette ma passare la vita in una stanza con cento fumatori visto che il mondo, e i signori della globalizzazione e della delocalizzazione inquinante ben dovrebbero saperlo, ruota tutto sotto lo stesso cielo e l'aria non la fermi ai confini. A lavorare contro l'ambiente in Europa in realtà, ma vigliacco che qualche giornale attento al verde lo dica, è proprio il Pd. I nostri valorosi dem si oppongono fermamente alla legge dell'Europarlamento sulla tassonomia verde. Cos' è? Un prontuario per una transizione ecologica graduale e ragionata che consenta di diminuire l'inquinamento senza ridursi in miseria né arricchire il resto del mondo mentre noi ci impoveriamo. In esso è previsto il ricorso all'energia nucleare, che è pulita e ha zero emissioni di anidride carbonica, e al gas.

Ma la sinistra è contraria, perché ha sposato la religione dell'elettrico sempre e comunque e oggi forse, sfruttando i morti della Marmolada, riuscirà a fermare il provvedimento a Bruxelles. E questo malgrado il governo ucraino abbia invitato ufficialmente, con tanto di missiva firmata dal presidente Zelensky, l'Europarlamento a votare a favore della tassonomia e contro la proposta piddina perché, dicono a Kiev, essa farebbe schizzare ancora di più il prezzo delle materie prime e sarebbe un assist a Putin che annullerebbe l'effetto di tutte le sanzioni che gli abbiamo comminato da quattro mesi a questa parte. Ma in preda al deliro verde, i progressisti sono pronti a camminare sopra il popolo ucraino come neppure i cingolati russi. 

Flavio Vanetti per corriere.it il 7 Luglio 2022.

«La foto risale a una settimana fa, dunque ben prima della tragedia della Marmolada. L’ho messa perché sul profilo Instagram mi piace condividere il “vissuto” personale e i luoghi belli. Lungi da me l’idea di offendere o di ferire qualcuno: non mi sento un criminale. Ma di sicuro nel futuro starò più attento». 

Massimiliano Rosolino, già stella del nuoto azzurro, l’indimenticabile olimpionico di Sydney 2000, reagisce alla bufera che si è scatenata sui social dopo quella che il popolo della rete ha giudicato come una gaffe vergognosa e inaccettabile. In un post ha messo uno scatto da Canazei, dove appare con aria sorridente e felice. C’è pure un commento: «Chi non ride non vince». Seguono gli hashtag #smile e #winner. Ma Canazei è a una manciata di chilometri dal luogo del disastro della Marmolada (che si vede sullo sfondo nell’immagine), dove ancora sono in corso le ricerche dei dispersi travolti dalla valanga di ghiaccio.

 Insultato online

Apriti cielo: lo hanno insultato pesantemente: («Forse oggi non c’è molto da ridere lì…»; «Str...., togli quella foto»; «Girati, alle tue spalle ci sono dei morti»; «Senza parole…») e pure molti dei suoi follower lo hanno invitato a vergognarsi. La replica di Max è articolata e parte da una premessa: «Sorridere sempre appartiene al mio modo di essere e di fare. Il sorriso è il messaggio degli sportivi ed è il mio imprinting.

Ho appena scattato una foto così assieme a mia madre, che deve sostenere un intervento chirurgico. Sorrido, per pensare comunque positivo, anche se le vicende non sono liete: ad esempio, ho una compagna russa che non vede la madre da due anni e che adesso sente il clima pesante legato a quanto sta accadendo in Ucraina; eppure cerchiamo di andare avanti». 

«Scatti precedenti alla disgrazia»

Ma onde evitare il rischio dell’ «oca giuliva», ovvero di passare per quello che non si rende conto della realtà, Rosolino ha alcuni punti da sottolineare: «Prima di tutto il momento di quegli scatti: non sono stati successivi alla disgrazia, ma li ho fatti ben prima. Ero a Canazei assieme a 35 bambini di un famoso camp estivo che ne accoglie addirittura 900: quindi immortalavo qualcosa di felice. Secondo: ho pubblicato le immagini senza pensare al disastro, anche perché la Marmolada è più in là. Volevo sottolineare la bellezza di quei posti, contavo di comunicare una bella immagine della Val di Fassa, che è un luogo splendido. Infine, io sono anche legato al WWF, quindi promuovere l’attenzione verso la natura è una cosa che mi appartiene».

«Ovvio che non lo rifarei. Chiedo anche scusa»

Max ammette però che è stata una leggerezza. «Ovvio che non lo rifarei. Chiedo anche scusa, ma sottolineo che in certe reazioni c’è molta ipocrisia. Non mi risulta, ad esempio, che dopo la disgrazia da quelle parti si sia smesso di vivere e di condurre la consueta normalità quotidiana, serale e notturna, al netto del dolore per quanto è accaduto: perché allora accanirsi contro quella foto? Aggiungo che non sono immune da critiche e che accetto di buon grado tutto ciò che è costruttivo: lo faccio pure stavolta, diciamo che ho sbagliato una vasca da 50 metri. Ma deve finire lì, la mia sincerità e la mia buona fede non possono essere messe in discussione». 

«Troviamo una buona spiegazione alle ragioni della tragedia»

Agli insulti preferisce rispondere in modo non violento, «perché è il modo migliore di reagire a chi offende per partito preso. Non vi va quello che dico e faccio? Allora non venite sul mio profilo. Peraltro, nel mare degli improperi ho letto anche parole moderate: una ragazza del Trentino, ad esempio, ha scritto che “ciascuno è libero di fare quello che vuole”. Sono d’accordo con lei e aggiungo che i veri problemi stanno altrove, non in un post come il mio: magari troviamo una buona spiegazione alle ragioni che hanno generato la tragedia». 

«Di sicuro devo essere più accorto»

Rosolino non aggiunge nulla di più – «Non è il caso di controbattere più di tanto, si rischia solo di alimentare polemiche inutili» -, ma una conclusione l’ha raggiunta: «Di sicuro devo essere più accorto, anche perché ho capito che oggi è faticoso fare qualsiasi cosa e che è molto alto il rischio di essere equivocati». 

I ghiacciai perduti della Lombardia: ogni anno scompaiono 1,6 chilometri quadrati. Rosella Redaelli su Il Corriere della Sera l'8 luglio 2022.

Il rapporto dei «guardiani» volontari del Servizio Glaciologico Lombardo. Sono 203 i ghiacciai attivi in regione, 124 sono quelli estinti dal 1991 a oggi. L’Adamello è il più sofferente: dimezzato dall’800.

Sono 203 i ghiacciai attivi in Lombardia, 124 sono quelli estinti dal 1991 a oggi. Ogni anno si perdono 1,6 chilometri quadrati di superficie di ghiaccio: l’equivalente di 220 campi da calcio. Bastano questi numeri per raccontare lo stato di salute dei ghiacciai lombardi, osservati speciali da sempre, ancora di più oggi, dopo la tragedia avvenuta domenica sulla Marmolada. A tenere sotto controllo il ghiaccio in quota, dal 1992, ci pensa il Servizio Glaciologico Lombardo.

I «guardiani dei ghiacci» sono 60 volontari che, dopo un corso di formazione, si occupano della raccolta dati, coordinati da un comitato scientifico che unisce laureati in scienze della terra, geografi, ingegneri ambientali, geologi che mettono a disposizione il loro tempo per effettuare i rilievi che determinano il bilancio di massa glaciologico, l’indicatore che meglio racconta la salute del fronte di ghiaccio. Si muovono sul campo tra maggio e ottobre per misurare con bindelle e laser l’arretramento del ghiaccio, scavano trincee, utilizzano droni. Ma spesso anche le semplici fotografie, da un anno all’altro, rendono l’idea dell’impatto del cambiamento climatico.

Andrea Toffaletti, 45 anni, geografo, da 20 anni parte del Servizio Glaciologico Lombardo e racconta: «Negli ultimi 20 anni non abbiamo potuto fare altro che registrate il regresso glaciale di tutti gli apparati. Le temperature estive fanno la differenza perché il ghiacciaio non riesce a compensare le perdite». Dei 203 ghiacciai attivi in Lombardia il 40% della superficie di ghiaccio si concentra sul quello dell’Adamello, del Fellaria e dei Forni. Il resto sono apparati ridotti, di alcuni restano solo placche gelate. Quelli più in salute sono alle falde del Bernina, mentre il Preda Rossa è in sofferenza e ha perso il 60% di estensione.

Sull’Adamello, il più grande in Italia, una volta si camminava nella neve, attraversando il suggestivo «Pian di Neve» che oggi si presenta in gran parte brullo, mentre dal ghiacciaio che si ritira (nell’Ottocento si estendeva per 3 mila ettari, oggi per 1.400) emergono ogni estate residuati bellici.

Il 2022 potrebbe essere l’annus horribilis dei ghiacciai. Lo dice Riccardo Scotti, responsabile scientifico del Servizio Glaciologico: «La stagione nevosa è stata secca, aggravata da un mese di maggio con temperature elevatissime. Questo ha portato ad un mancato accumulo medio del 70%. Se luglio e agosto confermeranno le temperature attuali assisteremo a importanti decrementi volumetrici e la scomparsa dei ghiacciai di piccole dimensioni». Il ghiacciaio dell’Adamello è l’osservato speciale anche per Regione Lombardia come spiega Roberto Laffi, dg Territorio e protezione civile: «Abbiamo finanziato uno studio dell’Università Bicocca per fare un carotaggio a 270 metri di profondità e conoscere la storia degli ultimi mille anni del ghiacciaio». Nessuna allerta invece per le escursioni: «Non ci sono pericoli per i centri abitati — dice Laffi — ma il caldo e la scarsità di innevamento sono rischi oggettivi. Meglio evitare le ore più calde e stare alla larga da ghiacciai con seracchi incombenti».

Simona Buscaglia per “la Stampa” il 5 luglio 2022.

I ghiacciai si sciolgono, con tragiche conseguenze, come nel caso della Marmolada. Gran parte del nostro Paese è nella morsa della siccità e le precipitazioni, quando ci sono, sono sempre più violente. Sembra però che a questo tipo di fenomeni ci si debba abituare: «Gli eventi estremi saranno sempre più frequenti, ed è tutto coerente con il cambiamento climatico». A parlare è Massimo Tavoni, professore di Economia del clima al Politecnico di Milano e direttore dell'Istituto europeo per l'economia e l'ambiente. 

Professore, quello che è successo alla Marmolada è un evento straordinario o no?

«È in atto uno scioglimento dei ghiacciai. Le temperature sono state molto alte, anche sopra lo zero, anche in cima alla Marmolada. È ormai un fatto documentato che le dimensioni dei ghiacciai stiano diminuendo su tutte le alte montagne. Questo e altri eventi estremi, penso alla siccità, sono compatibili con il cambiamento climatico dovuto anche all'azione dell'uomo. Dobbiamo aspettarci un'intensificazione di questi fenomeni»

Quanto saranno frequenti?

«Le stime al momento stanno parlando di un aumento della frequenza di due o tre volte, rispetto a quelli che sono i valori storici, nei prossimi due/tre decenni». 

Questo scenario che conseguenze può avere?

«Quelle economiche, sociali e ambientali saranno molto forti e diventa quindi importante mettere in piedi politiche che permettano al mondo e all'Europa di ridurre le emissioni di CO e di gas serra, come previsto tra l'altro dal pacchetto di misure che il Consiglio europeo ha appena approvato a Bruxelles, che fissa la riduzione delle emissioni di CO al 55% entro il 2030. Servono inoltre politiche che permettano di adattarsi ai rischi climatici, che sono in forte aumento e che aumenteranno ancora di più nei prossimi decenni».

A cosa è dovuto l'aumento di questi fenomeni? Solo al cambiamento climatico?

«Questi fenomeni estremi sono dovuti a fattori storici ma anche esasperati dal cambiamento climatico e a seconda di quale percorso climatico sceglieremo ci saranno scenari diversi. Per quanto riguarda i ghiacciai speriamo di fare in modo di salvarne la metà. Lo scenario peggiore è che scompaiano». 

Ci sono zone che soffriranno più di altre? L'Italia è una di queste?

«L'ultimo rapporto Onu identifica il bacino del Mediterraneo come una zona di hotspot climatico. Nel sud dell'Europa avremo un'intensificazione della siccità e dei fenomeni di precipitazioni molto intensi, che hanno costi economici e di vite umane importanti.

L'aumento di eventi estremi in Europa, secondo l'Agenzia europea per l'ambiente, ha già fatto decine di migliaia di morti e 50 miliardi di danni negli ultimi 20 anni. Tutto questo è coerente con l'impatto umano sui cambiamenti climatici, perché è un fattore che aumenta e amplifica i rischi naturali preesistenti». 

Cosa possiamo fare per limitare i danni?

«Come prima cosa l'Italia deve adottare al più presto una strategia unificata per adattarsi al cambiamento climatico. In generale dobbiamo diminuire le emissioni di CO e di gas serra che sono i fattori che contribuiscono maggiormente al cambiamento climatico in tutto il mondo». 

La presenza di carbonio in atmosfera è l'unico parametro su cui si può intervenire?

«È un parametro fondamentale. Il primo intervento rimane quindi il passaggio dai combustibili fossili verso fonti alternative che non emettono CO, oltre ad alternative che ci permettano di assorbire quella in eccesso che stiamo accumulando in atmosfera, in modo da ridurre le temperature nelle prossime decadi. 

Poi c'è la diminuzione dei consumi d'energia, con l'efficientamento energetico e il cambiamento degli stili di vita, dalla mobilità al modo in cui consumiamo. Infine, serve un uso appropriato del territorio, in modo da minimizzare le emissioni e massimizzare l'assorbimento di CO che ha il sistema Terra, con ad esempio la riduzione della deforestazione e pratiche agricole meno impattanti»

Oltre a intervenire sulle cause cosa possiamo fare?

«Ci sono le cosiddette politiche di adattamento, che servono a gestire i rischi climatici che si intensificano. Possiamo ad esempio prepararci alle conseguenze derivanti dal vivere con ghiacciai più piccoli e precipitazioni nevose ridotte e quindi con meno risorse. Ci vuole una politica idrica non solo italiana ma anche europea». 

Insomma, non basta più solo intervenire sulle emergenze

«No assolutamente, anche perché le emergenze costano. Si tratta di soldi pubblici che devono invece essere usati nel miglior modo possibile, non possiamo utilizzarli ogni anno per le emergenze senza un piano di investimenti. Nel caso dell'acqua, ad esempio, la nostra rete idrica è vecchia e ne spreca molta. Pensiamo poi anche a politiche attive per migliorare l'uso di questa risorsa nel settore agricolo, che ne consuma molta».

Alessandro D'Amato per open.online il 6 luglio 2022.

La tragedia della Marmolada si poteva evitare? L’inchiesta della procura di Trento sul disastro che è costato la vita a sette persone (il bilancio è ancora provvisorio) è ancora agli inizi. Sotto il seracco distaccatosi domenica scorsa ci sono almeno altre 13 persone: dieci italiani e tre cittadini della Repubblica Ceca. 

Ed è difficile che ci sia ancora qualcuno in vita. Sono stati colpiti mentre si trovavano sul Pian dei Fiacconi. Il blocco di ghiaccio si è frantumato e ha preso velocità prima di travolgerli. Per questo l’identificazione sarà difficile. Gli inquirenti spiegano che servirà l’esame del Dna. Intanto hanno aperto un fascicolo per disastro colposo. «La priorità è ora ricomporre i corpi dei deceduti e dare loro un nome. Poi cercheremo di capire se ci sono anche delle responsabilità umane, oltre che climatiche. Esamineremo bene i filmati che abbiamo acquisito», preannuncia il procuratore Sandro Raimondi.

La possibile sottovalutazione del pericolo

L’idea è che sia stato sottovalutato il pericolo. Ma c’è da dire che non c’è un ente preposto a valutare la sicurezza del ghiacciaio. Anche se nel frattempo il sindaco di Canazei Giovanni Bernard ha chiuso tutti gli accessi alle ascese. «Il ghiacciaio è oggetto di studio da parte degli esperti che salgono periodicamente per fare indagini sullo scioglimento, cercando di prevederne il futuro. Ma si tratta di un lavoro con finalità scientifiche, non di sicurezza. Se poi qualcuno ha visto un pericolo, certo, avrebbe dovuto segnalarlo. Ma se non l’ha fatto evidentemente non pensava che ci fosse», dice oggi al Corriere della Sera.

Secondo il glaciologo del Cnr Carlo Barbante all’origine del distacco del seracco ci sarebbe una caverna piena di acqua di fusione. Sarebbe stata infatti la pressione esercitata dal liquido, raccoltosi sotto un crepaccio fin dai primi caldi di maggio, a causare il distacco della torre di ghiaccio. Altri puntano il dito sulla dinamica del crollo, che oggi viene riassunta da Repubblica in questo modo: 

le alte temperature provocano il riscaldamento delle rocce e lo scioglimento di neve e ghiaccio;

le scarse precipitazioni privano il ghiacciaio della copertura di protezione;

l’entrata di acqua nelle fessure del ghiacciaio crea sacche tra ghiaccio e roccia rendendolo instabile;

a quel punto avviene il crollo perché roccia e ghiaccio non poggiano più su base stabile. 

Gli allarmi valanga arrivano solo d’inverno

Ma il quotidiano segnala anche che gli allarmi valanga arrivano solo d’inverno. Con l’arrivo dell’estate si sospendono insieme agli avvisi meteo. La valutazione del pericolo è lasciata agli alpinisti. Barbante, che insegna a Ca’ Foscari, spiega qual è il problema: «I bollettini vengono sospesi quando il rischio valanghe cessa, ma le ondate di calore sono all’origine di altri eventi disastrosi. Credo che andrebbero mantenuti per informare sui rischi anche in estate».

Secondo lui anche se il distacco è stato eccezionale, «c’erano tutte le condizioni perché avvenisse. Da oltre un mese ci sono temperature anomale. Al momento del crollo, c’erano 10 gradi sopra zero. Bisognava raggiungere i 4.300–4.500 metri per avere lo zero termico. Con valori così, potenzialmente tutti i grandi ghiacciai delle Alpi sono in zona fusione, visto che in genere lo zero termico si registra intorno ai 2.300 metri al massimo. A questo si aggiunga che lo scorso inverno le nevicate sulle Alpi orientali sono state scarsissime. I ghiacciai, compresa la Marmolada, non hanno beneficiato della copertura della neve, per cui il ghiaccio blu era esposto già da tempo». 

Il custode della Marmolada: «Siamo tutti colpevoli»

Antonello Fiore, geologo e presidente nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale, ha detto ieri all’AdnKronos che «gli scenari a cui assistiamo oggi sono stati tracciati da diverso tempo dagli scienziati. Bisognava aumentare la consapevolezza che nelle aree montane si possono verificare fenomeni del genere anche in Italia e dobbiamo aspettarcene altri in futuro. Eventi del genere in Italia non si sono mai verificati prima. Le alte temperature dei mesi scorsi e la mancanza di manto nevoso che protegge il ghiacciaio lasciavano pensare che probabilmente ci sarebbe stato un aumento della parte di ghiaccio che si sarebbe fuso».

Carlo Budel, gestore del rifugio di Capanna Punta Penia, aveva postato nei giorni scorsi un video per mostrare la pericolosità della situazione. Oggi dice che siamo tutti colpevoli: «Se non agiamo per fermare il riscaldamento globale, lo vedo male il ghiacciaio. Oggi c’è una pioggerellina che sembra di essere a Jesolo: di solito con questo tempo nevica… Il ghiacciaio resterà chiuso tutta l’estate, anche se mi aspetto che riaprano il percorso che porta in vetta dalla ferrata della cresta ovest. Ma è così anche altrove: un’amica guida alpina è stata pochi giorni fa in Svizzera, per un’uscita su un ghiacciaio più piccolo della Marmolada: l’hanno rimandata indietro, era troppo pericoloso».

Intanto l’Arpav (Agenzia Regionale per la Prevenzione e la Protezione Ambientale del Veneto» spiega che da una prima valutazione speditiva, tratta da foto aeree prese nelle ore immediatamente successive al crollo, comparate con le immagini del catasto ghiacciai di Arpav, che rappresentano la condizione precedente, si stima un fronte del crollo nell’area di distacco di circa 90 metri di lunghezza, per un’altezza massima di 40 metri, per un volume complessivo di materiale crollato stimato in circa 300.000 metri cubici, che hanno percorso un dislivello massimo di circa 700 metri (da quota 3200 a 2500 circa).

Francesca Vercesi per “Libero quotidiano” il 6 luglio 2022.

Attualmente non ci sono conoscenze abbastanza dettagliate per poter prevedere esattamente quando e dove tremerà la Terra. E nemmeno il distacco di un saracco, ovvero un ghiacciaio a forma di torre che deriva dall'apertura di crepacci. 

Ma c'è un indiziato, secondo il pensiero comune: il cambiamento climatico. Eppure Emanuele Forte, professore di geofisica applicata all'Università di Trieste, interpellato dall'Adnkronos su quanto è accaduto domenica sulla Marmolada, preferisce invitare alla cautela, quando si dibatte di questo tipo di eventi tragici della natura.

«Si sta semplificando molto, il caldo, le temperature estreme. In realtà è un quadro molto più complesso. C'è tutta una serie di fattori che fa sì che un ghiacciaio fonda di più o di meno. È chiaro che tutti i ghiacciai alpini sono in fase di ritiro per le condizioni climatiche attuali» ma «si tratta di fenomeni locali, come per i terremoti. Si può studiare il territorio, per sapere molte cose ma arrivare a previsioni è impossibile, allo stato attuale delle conoscenze», ha detto il professore. 

Dunque, secondo l'esperto, non è nemmeno possibile stabilire norme che regolino l'accesso ai ghiacciai. «Quello della Marmolada è un episodio che fa notizia, ma si tratta di ghiacciai che d'estate attirano turisti, quindi sono una risorsa, non sarebbe scientificamente corretto dare regole o divieti sull'accesso», ha avvertito l'esperto.

Emanuele Forte, ricercatore presso il Dipartimento di Matematica e Geoscienze dell'Università di Trieste, è impegnato in attività di ricerca nel settore del trattamento e dell'interpretazione dati geofisici a diversa scala. In questo ambito ha sviluppato metodi innovativi per l'elaborazione di dati GPR a copertura singola e multipla. Ha sperimentato metodologie di integrazione di dati in particolare sismici, magnetici e geoelettrici per studi ad alta risoluzione con applicazioni nei settori della geologia applicata e strutturale, della glaciologia, dell'archeologia, dell'ambiente (inquinamento da contaminanti liquidi, discariche), dell'ingegneria.

Il professor Forte anni fa ha partecipato a una ricerca del Crr sui tempi di fusione del ghiacciaio. Uno studio, ha spiegato, «condotto con uno strumento che si chiama georadar, che permette di valutare lo spessore del ghiaccio. È stato ripetuto a distanza di dieci anni e si è visto che già in quel lasso di tempo il ghiacciaio si era fuso molto, e quindi facendo una previsione, mantenendo costanti le variabili climatiche, si arrivava a dire che entro 50 anni ci sarebbe stata la completa fusione».

In altre parole, secondo il docente, «questi sono fenomeni del tutto naturali, sembra strano a dirlo ma è così. E anche nelle fasi in cui i ghiacciai sono in espansione, come alla fine dell'800, quando c'è stato un periodo chiamato "piccola età glaciale", si creano problemi di altra natura, avanzate di ghiacciai dove prima non c'erano. 

«Sono fenomeni naturali con i quali l'uomo deve imparare a convivere ed evitare per quanto possibile le situazioni di pericolo», ha ribadito Forte. «Il rischio zero non esiste, come per i terremoti. Si sa benissimo che in Italia ci sono molte zone sismiche ma non per questo non si vive in quelle zone». 

Con i ghiacciai, ha osservato, «si ha meno familiarità, anche perché sono confinati in un'area geografica precisa, a quote elevate, pochi sono accessibili in maniera semplice a livello turistico. Ci vogliono guide alpine, cordate, l'opinione pubblica non conosce la situazione. Ce ne sono pochi, sono sempre più piccoli e relegati ad alta quota». Dunque «si possono dire tante cose ma che non sono collegate a dati scientifici. I ghiacciai vanno studiati, è importante studiarli anche per l'acqua che contengono: sono depositi di acqua pulita, sfruttabile. Vanno studiati anche da questo punto di vista, non solo per il rischio e la pericolosità ma in chiave positiva. Sono una risorsa a tutti gli effetti», ha concluso il docente.

NEGAZIONISMO CLIMATICO. La radicalizzazione di uno scienziato: perché Franco Prodi piace così tanto ai negazionisti del clima. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 19 luglio 2022.

Professore a 29 anni, fratello di un presidente del Consiglio, dirigente del Cnr a 30, una carriera trascorsa tra cattedre e istituzioni prestigiose. 

Eppure, il professor Prodi è diventata la più autorevole delle voci che si prestano a fornire munizioni a coloro che vogliono negare o minimizzare il cambiamento climatico, siano essi grandi quotidiani o i canali web dei cospirazionisti, come il famigerato ByoBlu.

Ma la sua crociata contro gli scienziati climatici lo ha portato all’isolamento: i colleghi e le istituzioni scientifiche per le quali ha lavorato hanno preso le distanze e sempre più spesso Prodi riceve l’accusa più infamante per uno scienziato: quella di essere un negazionista climatico. 

«C'è una scienza ufficiale che è messa in minoranza dalla comunicazione, ma è quella che conta davvero».  A parlare non è un leader No-vax, ma il fisico dell’atmosfera Franco Prodi, 81 anni, fratello dell’ex presidente del Consiglio Romano, e il palcoscenico è la Festa dell’innovazione del quotidiano Il Foglio, a Venezia lo scorso 11 giugno. 

La scienza che conta, sostiene Prodi, è quella che nega le prove delle cause antropiche del cambiamento climatico. A metterla in minoranza sono riviste scientifiche «sempre meno qualificate», forum internazionali che producono «visioni catastrofiste» non scientifiche e conferenze sul clima, come la Cop26, che «bisognerebbe fermare subito».

Professore a 29 anni, dirigente del Cnr a 30, una carriera trascorsa tra cattedre e istituzioni prestigiose e all’attivo anche una società che si occupa di meteorologia, Franco Prodi fino a non molti anni fa era solo un influente accademico proveniente da una delle famiglie più influenti dell’ambiente.

Anche per questo è così ricercato, soprattutto in periodo come questo quando, tra ondate di calore anomale e ghiacciai che crollano, i media cercano di creare dibattito anche sui temi in cui la comunità scientifica è sostanzialmente unanime. Da un quindicennio Franco Prodi fornisce munizioni a coloro che vogliono minimizzare il cambiamento climatico, siano essi i canali web dei cospirazionisti, come ByoBlu e Vox Italia Tv, del movimento politico fondato dal filosofo sovranista Diego Fusaro, oppure quotidiani nazionali che, come ha di recente raccontato la giornalista scientifica Stella Levantesi, hanno una tendenza allo scetticismo quasi unica in occidente.

I colleghi e le istituzioni scientifiche per le quali Prodi ha lavorato hanno preso le distanze e sempre più spesso lo accusano di vero “negazionismo climatico”. 

NEGAZIONISMO CLIMATICO

«È un termine pesante, che porta con sé un richiamo al negazionismo della Shoah», dice Antonio Scalari, giornalista scientifico che si è a lungo occupato del dibattito sul clima in Italia. Prodi preferisce definirsi «né catastrofista, né negazionista». 

Il negazionismo climatico consiste nel «sostenere che le temperature non stanno aumentando, oppure negare le cause antropiche di questo aumento o ancora negarne gli effetti – dice Scalari – Facendo una di queste tre affermazioni ci si mette fuori dal perimetro del dibattito scientifico».

Franco Prodi quindi è un negazionista? «Sei un negazionista se sostieni cose negazioniste», risponde Salari.

Etichette a parte, il professor Prodi ha una visione della questione climatica che lo ha portato a compiere affermazioni in contrasto con la scienza. Una sua intervista del 2019 ha attirato le attenzioni dei factcheker del progetto Pagella Politica. La frase «dire che siamo noi i responsabili dei cambiamenti climatici è scientificamente infondato», per esempio, è falsa. 

Una analisi del 2016 basata su oltre 12mila ricerche ha mostrato che la teoria secondo cui le attività umane stanno causando il riscaldamento globale è condivisa da oltre il 97 per cento degli scienziati.

Prodi ha dubbi anche sul fatto che questo riscaldamento sia così eccezionale. Lo scorso 29 giugno, intervistato dal Mattino sull’anomala ondata di calore, rispondeva che si trattava di una normale «oscillazione» causata «dall'attività solare». Ma da 40 anni la Nasa osserva l’attività della nostra stella per valutarne l’impatto sulla Terra: la variazione dello 0,1 per cento della sua attività sono 50 volte più ridotte degli effetti dei gas serra, hanno stabilito innumerevoli studi scientifici.

Ma la scienza del clima, sostiene Prodi, «è ancora nell’età dell’infanzia» e quindi «con i modelli che ha a disposizione, può solo elaborare degli scenari incompleti». Antonello Pasini, fisico che si occupa di modelli climatici al Cnr, risponde che «i modelli climatici esistono ormai da 30 anni: non si può più parlare di infanzia».  

LA RADICALIZZAZIONE

Il professor Prodi non ha sempre avuto queste opinioni né è sempre stato così vocale nel difenderle. Numerosi fisici e accademici consultati da Domani hanno confermato che Prodi non si è mai occupato di cambiamenti climatici nella sua carriera accademica – è un esperto di microclima e in particolare della formazione delle nubi.

Sul tema ci è arrivato tardi e più da commentatore che da studioso e, almeno all’inizio, se ne occupava con una certa prudenza. «Il sospetto è che l'attività umana possa accelerare considerevolmente questi processi – diceva a un convegno del 2003 – Anche se non possediamo abbastanza conoscenze dirette per capire in che modo e in che misura questo avviene».

«All’epoca c’era un minimo di giustificazione nell’avere dubbi», dice Guido Visconti, fisico, coetaneo di Prodi che come lui ha studiato nel centro metereologico di Boulder in Colorado. Visconti è anche un accademico dei Lincei, onore sempre sfuggito al suo collega Prodi. «Ora però le prove sono schiaccianti: non ci sono dubbi che in corso un riscaldamento senza precedenti per velocità, e che è responsabilità dell’uomo».

Invece che adeguarsi alle prove, Prodi ha preso l’altra strada. Un momento chiave in questa svolta sembra essere il 2007, quando i ministri del governo guidato da suo fratello Romano hanno organizzato una conferenza sul clima.

La scelta degli invitati ha causato un piccolo terremoto nell’accademia italiana. Sono state pubblicate lettere aperte e appelli in cui si accusava la conferenza di essere una riunione di burocrati catastrofisti e di aver escluso i veri esperti. «I vecchi baroni non invitati a quella conferenza spararono fango sull’intera comunità scientifica», racconta oggi Stefano Caserini, docente di Mitigazione dei cambiamenti climatici al Politecnico di Milano.

Prodi era tra questi e in una serie di lettere aperte all’allora ministro Fabio Mussi accusava la conferenza di non aver visto la partecipazione di alcuni scienziati e poi, di non aver invitato fisici: entrambe affermazioni false. 

Se nel 2004 celebrava la firma del protocollo sul clima di Kyoto come un risultato storico, pochi anni dopo Prodi definiva la conferenza una pericolosa deriva. 

LA CADUTA

Negli anni successivi Prodi ha rotto definitivamente con l’accademia. La sua uscita dal Cnr è stata burrascosa. All’Isac, il centro del Cnr che studia l’atmosfera e che Prodi ha diretto per anni, nessuno vuole commentare la sua svolta. Sul sito si trova uno scarno comunicato che ricorda che il professore non fa più ricerca presso il centro e che le sue opinioni non sono condivise.

Sempre più isolato, Prodi si è radicalizzato. Ha iniziato ad attaccare le riviste scientifiche, a mettere in dubbio la correttezza dei suoi colleghi.

Difficile a questo punto tracciare una linea netta tra i ragionamenti del professore e quelli che compaiono negli altri video pubblicati dai canali YouTube che lo ospitano, quelli in cui il “complotto mondiale” non è dei produttori di pannelli solari e degli ambientalisti, ma dalle case farmaceutiche e dei politici corrotti che promuovono i vaccini. 

DAVIDE MARIA DE LUCA

Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Franco Battaglia per “la Verità” il 5 luglio 2022.

Cavallo di razza, il professor Franco Prodi. Uno dei nove figli di Mario, ingegnere, e di Enrichetta, maestra elementare. Il più noto dei fratelli è naturalmente Romano, ma molti degli altri sono scienziati di valore e tenuti in gran considerazione. Di tutti mi piace citare Giovanni, autore del testo sul quale, quand'ero studente, ho imparato l'analisi matematica, e Giorgio, scienziato in oncologia, mente poliedrica, epistemologo e scrittore, e che, oltre che in medicina, era anche laureato in chimica. 

Franco, invece, è fisico, ed è stato per molti anni forse l'unico professore di fisica dell'atmosfera in servizio in Italia. Lo conobbi più di quindici anni fa quando m' ero riproposto di capirci qualcosa di più sulla questione climatica, di cui avevo due sole certezze: 1) l'origine antropica dell'attuale riscaldamento globale è una congettura che fa acqua da tutte le parti e 2) quella di governare il clima tenendo sotto controllo uno solo delle diverse decine di parametri che lo determinano - il contributo antropico alla concentrazione atmosferica dell'anidride carbonica - è una pretesa priva di alcuna scientificità. E così andai a seguire alcune lezioni che il professore tenne in pubblica conferenza. 

Professore, quanto giovane è la scienza del clima? Glielo chiedo perché l'ex vicepresidente Usa, Al Gore, ebbe da dire che «la scienza non ha null'altro da dire sull'argomento: il clima attuale è governato dall'uomo».

«La climatologia è nata insieme alla meteorologia e le si affianca necessariamente. Essa nasceva infatti come trattazione statistica del dato meteorologico: trattando statisticamente il dato meteorologico si definiscono anzitutto i climi delle località (di vetta, di costa, di valle, continentale, insulare, etc), e questo per tutte le località del pianeta, per tutti i continenti.

Come è cresciuta la meteorologia negli ultimi due secoli, così è cresciuta la climatologia, chiamata a rispondere a interrogativi fondamentali per l'umanità intera: quale è stato il clima durante l'intera storia del pianeta e come sarà il suo clima futuro. Fino alla tremenda e dirimente domanda attuale: quali le basi scientifiche della conoscenza del clima e quali le possibilità di una previsione?

Spiegazione e previsione sono infatti i due grandi momenti della vera scienza. Se Gore ha detto la frase riportata ha detto un'estrema stupidaggine. Ci sono cause naturali e cause antropiche dei cambiamenti ma le affermazioni dei Rapporti dell'Ipcc - il comitato dell'Onu che vorrebbe studiare il contributo antropico al clima - sono scientificamente infondate, i loro sono solo scenari, non previsioni sulle quali basare il destino dell'umanità». 

Ha un commento da fare sulla valanga alla Marmolada?

«Viviamo certamente in un periodo di riscaldamento globale e quindi è chiaro che ogni periodo caldo comporta una fase di ritiro di ghiacciai con fenomeni, del tipo di quello occorso recentemente. Qualche anno fa ho visto i resti del crollo di una delle famose 5 Torri vicino al Falzarego. La montagna purtroppo fa quello che deve e dobbiamo essere consapevoli che nel passato i ghiacciai alpini sono stati anche più ritirati di oggi. 

V'è a questo proposito un eccellente e accurato lavoro di Walter Kutschera della facoltà di fisica dell'università di Vienna che mostra l'andamento ciclico del ritiro dei ghiacciai alpini degli ultimi 10.000 anni. Il riscaldamento globale che stiamo vivendo è un fatto naturale e fa parte di cicli naturali. Una componente antropica nei cambiamenti climatici c'è ma non è al momento quantificabile con serietà scientifica. Altra cosa è l'inquinamento a livello planetario, che va naturalmente combattuto, anche con accordi internazionali vincolanti: ma la CO2 non è un gas inquinante».

Cosa sappiamo sull'influenza delle nubi sul clima?

«Lascio a colleghi specialisti di spiegare le cause astronomiche ed astrofisiche dei cambiamenti climatici. A me, fisico dell'atmosfera, e delle nubi in particolare, è bastato vedere come sono trattate le nubi, l'aerosol fuori da nubi ed i gas poliatomici nei loro modelli per farmi lanciare un grido di allarme.

Le nubi hanno un effetto diretto sul clima del pianeta: la radiazione solare viene da esse riflessa, mentre la radiazione infrarossa dalla superficie terrestre viene ritrasmessa al suolo. Il loro effetto sulla radiazione dipende dalla loro fase (se di acqua o di ghiaccio), dalla loro altezza, dalla compresenza di altre nubi, dalla loro forma. Certo l'attività umana immettendo in atmosfera particelle e gas cambia anche la struttura e composizione delle nubi (effetto indiretto), ma in maniera non quantificabile nei modelli attualmente in uso».

Lei sottoscrisse una petizione evidenziando che fondare politiche energetiche con la pretesa di governare il clima avrebbe potuto essere quanto mai esiziale. Vuole spiegare in breve il suo punto di vista?

«Ho sottoscritto una petizione insieme a scienziati italiani, ripresa da mille scienziati nel mondo, mettendo in guardia le autorità politiche dalla supina accettazione delle raccomandazioni dell'Ipcc e dalla conseguente "lotta al riscaldamento globale". Ma ormai questo pseudo Verbo è talmente diffuso che le richieste di nostri rappresentanti di colloqui con le autorità politiche vengono ignorate sistematicamente. Questo la dice lunga sul credito della scienza in Italia».

I fatti di questi ultimi mesi stanno dando ragione a quella vostra petizione, le pare? La possibilità di importare meno gas dalla Russia avrebbe dovuto essere di sostegno con quelle politiche e invece tutti stanno cercando di soppiantare il gas russo con gas da altri importatori.

«Non entro nel merito delle scelte di politica energetica che vengono fatte come reazione alle criticità generate da questa terribile guerra di aggressione. Certo questi avvenimenti mettono in crisi l'equazione Pil = energia. La fine dell'era del fossile in tutte le sue forme si avvicina, ma il "quando" avverrà questa fine è una informazione che, se esiste ed è attendibile, è nel possesso di pochi. Credo che la ricerca debba rivolgersi alle forme possibili di sobrietà energetica».

Che opinione s' è fatto dell'odierna politica che ascolta Greta Thunberg anziché uomini e donne che hanno studiato scienza, magari un'intera vita?

«L'ascolto accordato alla Thunberg e negato alla nostra petizione la dice lunga sul discredito del quale gode la scienza nel nostro Paese. Penso tristemente che si sia raggiunto il punto di non ritorno. E lo dico sulla base di altri importanti riscontri personali dei quali non è il caso di parlare in questo contesto».

V'è un certo grado di corruzione, se così può chiamarsi, nella comunità scientifica, con troppi pronti a negare l'evidenza scientifica pur di compiacere alla politica dominante?

«Palerei di una "giornalistura" che intimidisce anche scienziati di vaglia che non sono necessariamente dei cuor di leone. A questo si aggiunge la disonestà intellettuale dilagante nel nostro campo, almeno nella fisica, per la quale fisici importanti pensano di potere parlare di clima senza essersene veramente occupati. Una cosa del genere in altri Paesi, negli Stati Uniti ad esempio, non succede».

Estratto dell’articolo di Nicoletta Cozza per “il Messaggero” il 4 luglio 2022.

[…] Mauro Varotto, docente al Dipartimento di Scienze Storiche e Geografiche dell'Università di Padova e operatore sulla Marmolada per il Comitato Glaciologico italiano, da 17 anni studia questa evoluzione negativa, culminata con il disastro di ieri. 

Professore, una tragedia che si poteva evitare?

«La situazione della Marmolada si conosceva, ma questo è un evento imprevedibile. […] Si è trattato della caduta di un blocco che era sospeso sulla roccia e in forte pendenza».

Qual è stato il motivo che ha determinato questo fenomeno estremo?

«Le temperature estive troppo elevate in tutta la catena montuosa, vetta compresa, che rimangono sopra lo zero ininterrottamente per 24 ore, provocando la fusione del ghiaccio. Dodici gradi durante il giorno, e non meno di quattro la notte, determinano queste situazioni, con la massa glaciale che si stacca dal substrato roccioso e diventa instabile, come si è verificato ieri. Ci sono dei punti, che possiamo definire pendenti, maggiormente esposti ai crolli e che possono staccarsi da un momento all'altro».

Che cosa hanno riscontrato gli studi più recenti?

«Che c'è anche il problema della poca neve che è caduta e pertanto, anche quando fa freddo, non ci sono le condizioni sufficienti per preservare il ghiaccio. […]». 

Allora, che cosa si può fare?

«Ridurre le emissioni di co2 […]». 

In questo caso chi è il paziente?

«Nella fattispecie è la terra che ha la febbre e necessita di terapie urgenti. […]». […]

Marmolada, Maria Teresa Meli: "Una cosa tremenda, ma...". Parole pesantissime. Libero Quotidiano il 04 luglio 2022

Il giorno dopo la tragedia sulla Marmolada, L'Aria Che Tira dedica un'intera puntata al cambiamento climatico. Ospite in studio su La7 nella puntata di lunedì 4 luglio, Maria Teresa Meli. È lei a fare un'analisi controcorrente di quanto accaduto. A rivolgerle la domanda, Francesco Magnani: "È facile dire è colpa del cambiamento climatico e non c’è nessuna responsabilità imputabile all’uomo - chiede il conduttore -, però 10 gradi alle 4 del pomeriggio di una domenica di luglio… È solo imprudenza di chi a quell’ora doveva starsene comodamente in rifugio? O bisogna fermare l’industria del turismo della montagna?". Immediata la replica della firma del Corriere della Sera: "È colpa del cambiamento climatico, non ci sono dubbi, peraltro della Marmolada, prima che succedesse questa cosa, si era già parlato di un ghiacciaio che si stava liquefacendo. Si sa che durerà per altri 20-30 anni al massimo, si è detto anni fa. Tutti i ghiacciai del mondo stanno facendo questa fine, anche il Perito Moreno in Patagonia ha gli stessi problemi".

Fin qui nulla di diverso da quanto già sostenuto da alcuni suoi colleghi, se non fosse che poi prosegue: "Stamattina leggevo di Messner che diceva che bisognava evitare l’escursione con quel caldo. Per cui secondo me c'è anche una responsabilità di chi va, esiste anche la responsabilità personale. È una cosa tremenda, lo capisco, ci sono tanti dispersi… Io che non sono un'amante della montagna sapevo perfettamente che la Marmolada aveva questo problema. Gli apparati turistici, sapendo che ci sono 10 gradi, non devono far arrivare su. Non so se si poteva evitare questa tragedia". 

Lo stesso Reinhold Messner, primo uomo della storia a scalare l'Everest senza ossigeno, ha criticato la decisione di salire la Marmolada: "Salire là, lungo la via normale, è una abitudine per chi va in montagna da quelle parti. Un alpinista bravo, però, non va sotto un saracco in questo periodo: l'arte dell'alpinismo sta nel non morire in una zona dove questa possibilità esiste e, per riuscirci, bisogna tenere occhi e orecchie bene aperti. Sempre". 

Simona Buscaglia per “la Stampa” il 4 Luglio 2022.

I ghiacciai si sciolgono, con tragiche conseguenze, come nel caso della Marmolada. Gran parte del nostro Paese è nella morsa della siccità e le precipitazioni, quando ci sono, sono sempre più violente. Sembra però che a questo tipo di fenomeni ci si debba abituare: «Gli eventi estremi saranno sempre più frequenti, ed è tutto coerente con il cambiamento climatico». A parlare è Massimo Tavoni, professore di Economia del clima al Politecnico di Milano e direttore dell'Istituto europeo per l'economia e l'ambiente. 

Professore, quello che è successo alla Marmolada è un evento straordinario o no?

«È in atto uno scioglimento dei ghiacciai. Le temperature sono state molto alte, anche sopra lo zero, anche in cima alla Marmolada. È ormai un fatto documentato che le dimensioni dei ghiacciai stiano diminuendo su tutte le alte montagne. Questo e altri eventi estremi, penso alla siccità, sono compatibili con il cambiamento climatico dovuto anche all'azione dell'uomo. Dobbiamo aspettarci un'intensificazione di questi fenomeni»

Quanto saranno frequenti?

«Le stime al momento stanno parlando di un aumento della frequenza di due o tre volte, rispetto a quelli che sono i valori storici, nei prossimi due/tre decenni». 

Questo scenario che conseguenze può avere?

«Quelle economiche, sociali e ambientali saranno molto forti e diventa quindi importante mettere in piedi politiche che permettano al mondo e all'Europa di ridurre le emissioni di CO e di gas serra, come previsto tra l'altro dal pacchetto di misure che il Consiglio europeo ha appena approvato a Bruxelles, che fissa la riduzione delle emissioni di CO al 55% entro il 2030. Servono inoltre politiche che permettano di adattarsi ai rischi climatici, che sono in forte aumento e che aumenteranno ancora di più nei prossimi decenni». 

A cosa è dovuto l'aumento di questi fenomeni? Solo al cambiamento climatico?

«Questi fenomeni estremi sono dovuti a fattori storici ma anche esasperati dal cambiamento climatico e a seconda di quale percorso climatico sceglieremo ci saranno scenari diversi. Per quanto riguarda i ghiacciai speriamo di fare in modo di salvarne la metà. Lo scenario peggiore è che scompaiano». 

Ci sono zone che soffriranno più di altre? L'Italia è una di queste?

«L'ultimo rapporto Onu identifica il bacino del Mediterraneo come una zona di hotspot climatico. Nel sud dell'Europa avremo un'intensificazione della siccità e dei fenomeni di precipitazioni molto intensi, che hanno costi economici e di vite umane importanti.

L'aumento di eventi estremi in Europa, secondo l'Agenzia europea per l'ambiente, ha già fatto decine di migliaia di morti e 50 miliardi di danni negli ultimi 20 anni. Tutto questo è coerente con l'impatto umano sui cambiamenti climatici, perché è un fattore che aumenta e amplifica i rischi naturali preesistenti». 

Cosa possiamo fare per limitare i danni?

«Come prima cosa l'Italia deve adottare al più presto una strategia unificata per adattarsi al cambiamento climatico. In generale dobbiamo diminuire le emissioni di CO e di gas serra che sono i fattori che contribuiscono maggiormente al cambiamento climatico in tutto il mondo». 

La presenza di carbonio in atmosfera è l'unico parametro su cui si può intervenire?

«È un parametro fondamentale. Il primo intervento rimane quindi il passaggio dai combustibili fossili verso fonti alternative che non emettono CO, oltre ad alternative che ci permettano di assorbire quella in eccesso che stiamo accumulando in atmosfera, in modo da ridurre le temperature nelle prossime decadi. 

Poi c'è la diminuzione dei consumi d'energia, con l'efficientamento energetico e il cambiamento degli stili di vita, dalla mobilità al modo in cui consumiamo. Infine, serve un uso appropriato del territorio, in modo da minimizzare le emissioni e massimizzare l'assorbimento di CO che ha il sistema Terra, con ad esempio la riduzione della deforestazione e pratiche agricole meno impattanti»

Oltre a intervenire sulle cause cosa possiamo fare?

«Ci sono le cosiddette politiche di adattamento, che servono a gestire i rischi climatici che si intensificano. Possiamo ad esempio prepararci alle conseguenze derivanti dal vivere con ghiacciai più piccoli e precipitazioni nevose ridotte e quindi con meno risorse. Ci vuole una politica idrica non solo italiana ma anche europea». 

Insomma, non basta più solo intervenire sulle emergenze

«No assolutamente, anche perché le emergenze costano. Si tratta di soldi pubblici che devono invece essere usati nel miglior modo possibile, non possiamo utilizzarli ogni anno per le emergenze senza un piano di investimenti. Nel caso dell'acqua, ad esempio, la nostra rete idrica è vecchia e ne spreca molta. Pensiamo poi anche a politiche attive per migliorare l'uso di questa risorsa nel settore agricolo, che ne consuma molta».

Il parere degli esperti. Cos’è un seracco, la tragedia della Marmolada e il perché del crollo: “Ha ceduto per il caldo globale”. Redazione su Il Riformista il 4 Luglio 2022. 

Un ghiacciaio a forma di torre o pinnacolo che di solito deriva dall’apertura di crepacci in una montagna. È questo il seracco, la valanga di neve, ghiaccio e roccia che staccandosi dalla Marmolada, il gruppo montuoso delle Dolomiti al confine tra le province di Trento e Belluno, ha travolto e ucciso almeno 7 persone, con diversi feriti e oltre una decina di dispersi.

Un evento, il crollo di un seracco, più difficile da prevedere rispetto ad una ‘semplice’ valanga. Di norma infatti non dipende dalle condizioni meteorologiche del momento, ma da meccanismi che regolano il movimento del ghiacciaio.

Eppure gli esperti sono concordi: il colpevole della tragedia della Marmolada è il cambiamento climatico. “Questi seracchi cadono, certo, per la gravità, ma la causa vera, originaria, è il caldo globale, che fa sciogliere i ghiacciai e rende più probabile che si stacchi un seracco”, dice all’Agi Reinhold Messner, leggenda vivente dell’alpinismo che a Punta di Rocca, dove il seracco si è staccato, non va più da anni perché “il ghiaccio lì è quasi tutto andato”.

Stesso colpevole anche per Renato Colucci, docente di glaciologia a Trieste e ricercatore dell’Istituto di scienze polari del Cnr, che al Corriere della Sera riguardo il distacco del seracco parla di “concause”. “Per via dei cambiamenti climatici, i ghiacciai non sono più in equilibrio specialmente sotto i 3.500 metri perché si è creato un clima diverso da 30 anni fa che non sostiene più la loro esistenza”, spiega l’esperto.

Non solo colpa del caldo anomalo di domenica, dove la temperatura sulla Marmolada era di 10 gradi, ma anche delle temperature anomale dell’intero mese di maggio: “A seconda dei posti sono state anche di 10 gradi sopra la media. Poi lo scorso inverno è fioccato poco ed è venuta meno la protezione che la neve fornisce d’estate ai ghiacciai. A questo scenario si è aggiunta l’ondata di calore dall’Africa”, spiega Colucci. Ghiacciaio della Marmolada che potrebbe scomparire di questo passo “entro il 2042”, otto anni prima rispetto al 2050 previsto da una ricerca del Cnr.

A confermare la fine segnata della Marmolada è anche professor Massimo Frezzotti, docente a Roma Tre e per sette anni presidente del Comitato Glaciologico Italiano: “Negli ultimi 70 anni quel ghiacciaio ha perso oltre l’80% del suo volume. La sua superficie è passata dai circa 500 ettari stimati nel 1888 ai 123 ettari del 2018 – spiega a Il Resto del Carlino – Dal 2010 al 2020 il fronte è arretrato in media di 10 metri l’anno. E questo significa che, con l’andamento del cambiamento climatico che ben conosciamo, la sorte della Marmolada è segnata”.

Le estati estreme e l'impatto sulle montagne. Ma non è solo il caldo a far soffrire i ghiacciai. Gianluca Grossi il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Temperature in aumento negli ultimi anni. I fragili equilibri ad alta quota

Lo scorso anno l'Onu ha reso noto che, a livello mondiale, nel 2021 si è assistito a un incremento degli eventi estremi del 65%. Dati simili si registrano in Italia, per quel che riguarda fenomeni come alluvioni, frane, bombe d'acqua, valanghe di neve e di ghiaccio. L'episodio che ha contraddistinto l'altro ieri la Marmolada, di fatto, è stato preceduto da altri casi, tutti più o meno riconducibili ad effetti di natura climatica. A maggio una frana di ghiaccio ha interessato il massiccio del Monte Bianco. A 3.400 metri, sul Gran Combin, il crollo improvviso di seracchi ha provocato la morte di due alpinisti e il ferimento di nove persone. Stesso mese, nel gruppo del Brenta, versante est del Monte Daino, si è staccata una frana di eccezionali dimensioni, con blocchi rocciosi di 120 metri cubi. Il 30 luglio 2020 un evento estremo ha coinvolto una delle montagne più rappresentative d'Italia: il Cervino. Un maxi crollo della parte sud, fortunatamente opposta a quella che gli alpinisti percorrono abitualmente per raggiungere la cima del rilievo, facendo tappa alla famosa Capanna Carrel. Giorno di San Stefano 2019, sul Monviso, importante frana a 3.300 metri di quota, crollano due torrioni rocciosi della parete nord. Zona sensibile, nel 1989 ci fu un distacco di detriti in corrispondenza del ghiacciaio superiore di Coolidge, una valanga di ghiaccio del tutto assimilabile a quella della Marmolada; che, solo per caso, non provocò vittime. Nel 2007, la volta di un'anticima delle Tre Cime di Lavaredo, sessantamila metri cubi di roccia, una torre di cento metri si è polverizzata nel giro di pochi minuti. Nel 1996 una comitiva di turisti è travolta da una frana di ghiaccio in corrispondenza del Miage, un lago alpino della Val Veny. I detriti precipitano nel bacino lacustre sollevando un'onda di quasi tre metri. Eventi estremi che fanno meno notizia, ma contribuiscono a rendere i ghiacciai sempre più pericolosi, possono essere ricondotti alla cosiddetta neve rosa. Fenomeno dovuto alla proliferazione dell'alga Ancylonema nordenskioldii, vegetale che ha recentemente coinvolto il ghiacciaio del Presena e quello del Passo Gavia in Italia, quello del Morteratsch, in Svizzera. Cambiando colore, il ghiaccio assorbe maggiormente i raggi del sole, provocando lo scioglimento della superficie glaciale. Responsabili degli eventi estremi? Probabilmente il clima che cambia. E' vero, si sono sempre verificati, ma il problema di oggi è che capitano troppo spesso. E l'innalzamento medie delle temperature può senz'altro favorire il loro sviluppo. I ghiacciai possiedono un equilibrio specifico e la danza secolare fra la zona di ablazione e quella di accumulo assicura la loro stabilità. Quando la colonnina del mercurio cresce questo equilibrio viene meno, provocando la formazione di crepacci e seracchi, strutture glaciali impossibili da controllare.

Marmolada, Mauro Corona: "Cosa ho visto sul luogo della tragedia". Libero Quotidiano il 04 luglio 2022

Anche Mauro Corona è rimasto scosso dalla tragedia della Marmolada, che a suo dire non si poteva prevenire in alcun modo. “Conosco molto bene il tracciato travolto dal crollo di un pezzo di ghiacciaio - ha dichiarato lo scrittore ‘montanaro’ al Corriere del Veneto - l’ho attraversato almeno quaranta volte, anche con gli sci, con le pelli di foca e i ramponi è bellissimo”.

“Il ghiacciaio ormai è un po’ impolverato e sporco, ma quanto è accaduto non si poteva prevedere”, ha assicurato Corona, che poi ha aggiunto: “Sabato scorso quel percorso era ancora più affollato e nell’estate 2021, pur con le stesse condizioni climatiche, non era emersa alcuna avvisaglia di ciò che sarebbe potuto succedere”. Lo scrittore è arrabbiato per quanto è avvenuto: “C’è un nichilismo da terzo millennio, un’anarchia che porta la gente a dire: io me la godo, sto bene, sfrutto quello che posso, faccio i soldi e chi se ne frega di chi viene dopo di me. Non abbiamo fatto progetti per le generazioni future, le persone usano e gettano la terra, la natura, l’ecosistema”.

E adesso viene presentato il conto, sotto forma di tragedie che mietono vittime tra innocenti che volevano semplicemente godersi una giornata in montagna. “Se anche si cominciasse oggi a cambiare registro - ha dichiarato Corona al Corriere del Veneto - ci vorrebbero almeno vent’anni per assistere ai primi miglioramenti, perché ormai c’è lo sfacelo”.

Michela Nicolussi Moro per corrieredelveneto.corriere.it il 4 luglio 2022.  

A seguire con apprensione la tragedia della Marmolada c’è anche Mauro Corona, alpinista, scrittore, scultore ligneo ma soprattutto amante della montagna. Ha scalato numerose vette italiane ed estere, aprendo oltre 300 vie di arrampicata sulle Dolomiti friulane.

«Conosco molto bene il tracciato travolto dal crollo di un pezzo di ghiacciaio — rivela — l’ho attraversato almeno quaranta volte, anche con gli sci, con le pelli di foca e i ramponi è bellissimo. Il ghiacciaio ormai è un po’ impolverato e sporco, ma quanto è accaduto non si poteva prevedere. Sabato scorso quel percorso era ancora più affollato e nell’estate 2021, pur con le stesse condizioni climatiche, non era emersa alcuna avvisaglia di ciò sarebbe potuto succedere». 

Cosa si è «tecnicamente» verificato?

«Il ghiacciaio, stressato dal caldo eccessivo, ha ceduto e se ne è staccata una parte, che non sarà l’ultima. Un altro pezzo è pericolante e impedisce ai soccorritori di salire a cercare i dispersi. É una situazione da film dell’orrore, mi fa paura pensare che ci siano sopravvissuti ma non si riescano a portare in salvo perché potrebbe venire giù un altro pezzo di ghiacciaio. Penso a quelle trenta macchine vuote lasciate dalle persone di cui ora non si sa più nulla: e parliamo di due o tre per auto. É atroce». 

L’ennesima testimonianza della distruzione dell’ecosistema ad opera dell’uomo?

«Sì, abbiamo fatto le cicale per anni e adesso la terra ci presenta il conto. In montagna ci sono anche le rocce che si sgretolano, bisogna cambiare radicalmente il modo di affrontarla, abbandonando i vecchi, dolci, ricordi di un tempo. E questo vale per tutto, la natura si sta ribellando allo sfruttamento totale dell’uomo, l’abbiamo visto con Vaia, con la siccità, con le alluvioni». 

Partiamo dalla montagna: come cambiare il modo di avvicinarsi?

«Non si può più andare sotto qualcosa che sovrasta le nostre teste, sia un ghiacciaio sia una roccia. Bisogna rinunciare a determinati tracciati, per esempio io adesso non andrei più sull’Adamello (a cavallo tra Lombardia e Trentino Alto Adige, in Val Camonica, è il più vasto ghiacciaio delle Alpi italiane, ndr), perché fa troppo caldo e potrebbe crollare. E poi bisogna essere più prudenti».

Affidarsi sempre agli esperti, anche per i tragitti più semplici?

«Sì, l’italiano ha un po’ la mania del fai da te, ma in montagna è pericoloso. Si deve usare cautela, rivolgersi alle guide alpine per decidere il percorso da affrontare. Magari si sceglie un tratto a rischio di caduta pietre, ed è frequente, e un esperto ti può consigliare il casco, per esempio. Bisognerebbe produrre e distribuire dappertutto, nelle scuole, negli uffici turistici, nei Comuni, un libriccino scritto dalle guide alpine con le modalità di accedere alla montagna nel terzo millennio». 

Si parla di numero chiuso in montagna. Il Trentino Alto Adige ha già sperimentato una sorta di Ztl sul Passo Sella e al Lago Braies. Che ne pensa?

«Sono contrario, è una dittatura intollerabile, non è giusto che sia privilegiato chi può pagare, la montagna dev’essere di tutti. Il numero chiuso può andare bene sulle Tre Cime di Lavaredo, dove già devi versare un pedaggio (20 euro per la moto, 30 per l’auto, 60/120 per pullman e autobus, ndr). Anzi, io li farei andare a piedi». 

Corona, lei che ama la natura, ci vive in mezzo da 70 anni, abbraccia gli alberi, è arrabbiato?

«Ma sì che sono arrabbiato. C’è un nichilismo da terzo millennio, un’anarchia che porta la gente a dire: io me la godo, sto bene, sfrutto tutto quello che posso, faccio i soldi e chi se ne frega di chi viene dopo di me. Non abbiamo fatto progetti per le generazioni future, le persone usano e gettano la terra, la natura, l’ecosistema, pensando: tanto quando sono morto, che mi importa del resto. Se anche si cominciasse oggi a cambiare registro, ci vorrebbero almeno vent’anni per assistere ai primi miglioramenti, perché ormai c’è lo sfacelo». 

Il primo segnale, però ignorato da chi decide i destini della Terra, è stato il cambiamento climatico.

«Esatto, parlo per l’Italia: siamo passati da un mite clima mediterraneo al clima tropicale. Io abito a 400 metri d’altezza e in questi giorni il termometro ha raggiunto i 39 gradi. Ogni sera c’è un violento temporale, c’è la grandine, la tempesta Vaia tornerà. Abbiamo voluto scaldare l’ambiente all’inverosimile e adesso tornare indietro è difficile. Anche perché non gliene frega niente a nessuno».

Da leggo.it il 5 luglio 2022.  

Serata ad alta tensione a Zona Bianca in prima serata su Rete 4 dove si parlava della strage della Marmolada. In collegamento c'era l'alpinista Mauro Corona che ha avuto un acceso diverbio con la giornalista in studio, Sabrina Scampini. Ad un certo punto Corona, super esperto di montagna e chiamato proprio per analizzare quanto successo sul ghiacciaio, ha cominciato ad alzare la voce contro tutti perdendo decisamente la pazienza in diretta tv sulle reti Mediaset: "Andate in malora, gentucola, non conoscete la montagna, andate a quel paese, me ne vado" sbotta e dopo essersi tolto l'auricolare per il collegamento si alza e se ne va lasciando tutti di stucco in studio.

In studio la giornalista Sabrina Scampini aveva sostenuto che, visti i cambiamenti del clima. "forse vanno cambiate le regole" per le escursioni e l'alpinismo, considerato anche quello che è successo domenica sulla Marmolada. Le parole della giornalista hanno acceso e scatenato la furia verbale di Corona che ha perso ben presto la pazienza. "Sabato c'era il doppio della gente sulla Marmolada. L'anno scorso era più caldo di ieri e non è crollato il ghiacciaio", ha spiegato l'alpinista-scrittore sostenendo che purtroppo la fatalità ha giocato un ruolo chiave nella immensa tragedia di domenica. 

Ma Corona non si è fermato qui. Poi ha aggiunto sempre più arrabbiato. "Cosa vuol dire che non è opportuno andare in montagna? È come dire che non è opportuno fare l'amore se poi uno ammazza la fidanzata", sempre più con toni accalorati. Poi ancora ha spiegato che si fa "retorica di bassa lega", bollando così le parole della Scampini, che ha replicato: "Si deve calmare, non può dire polemiche di bassa lega". A questo punto Corona si alza, lancia l'auricolare e se ne va dal collegamento.

Mauro Corona per “la Stampa” - Testo raccolto da Enrico Martinet il 5 luglio 2022.

Immane tragedia che dire? Sento i telegiornali, ascolto i glaciologi e tutti si chiedono se quel crollo si poteva evitare. Rido di sarcasmo, sapete. Il giorno prima su quel ghiacciaio c'erano altrettante persone e non è successo niente. L'innalzamento delle temperature investe tutto il pianeta, mi pare più che chiaro. E i ghiacciai si stanno disintegrando. Io l'ho visto l'anno scorso sull'Adamello. 

E quindi che cosa facciamo? Proibiamo la montagna? Se vuoi farlo significa che sai che cosa può capitare, ma allora dillo prima, no? Il ghiacciaio non ti avverte, la montagna è impassibile. Prevedere Retorica ipocrita atta a essere preda della politica. Ho persino sentito evocare la soluzione numero chiuso. Sì? E allora come la mettiamo con la montagna che è sinonimo di libertà? Divieti, numero chiuso Stupidaggini. 

Vietiamo tutti i luoghi di pericolo? Bene, allora stiamo a casa e un terremoto ci piglierà sul divano. Lo sappiamo o no, che noi umani siamo a rischio? La nostra sorte è lo scacco finale. La colpa di chi è? Ve lo dico io, il disinteresse totale del progetto della salvaguardia del pianeta. Borges diceva tanti anni fa: "Non vedo alcun motivo, né interesse perché un uomo del II millennio abbia in cura e protegga un progetto già dimenticato che si chiama Terra". 

Nessuno ha fatto qualcosa per la natura. E se domani tutto il pianeta rimediasse a questo peccato si potrebbe avere un risultato fra vent' anni. Risultato Un piccolo passo. Vuol dire che è già tardi. Abbiamo fatto le cicale per un secolo. I vecchi rispettavano di più la Terra perché era l'unico modo per mangiare, oggi il cibo ce lo portano con i droni. Viviamo quello che definisco il nichilismo del terzo millennio.

Regna il disinteresse delle cose della Terra. Un tempo si era frenati dai tabù, adesso l'uomo si è evoluto e ha capito che la vita è breve e segue il detto "morto io, morti tutti, quindi gozzoviglio". Così c'è uno sfruttamento totale per avere soldi. E dall'altro lato c'è povertà. La voglia di denaro ha snaturato la nostra vita sul pianeta che ora ci presenta il conto. Riviviamo le piaghe d'Egitto, anzi d'Italia. La pandemia, le cavallette in Sardegna, la guerra, il caldo. L'uomo è colpevole di non aver rispetto per il futuro. E dopo questo crollo ci saranno altre piaghe.

Dopo la tempesta Vaia che ha spianato i boschi, ci saranno alluvioni, altri crolli. Qui in Friuli negli ultimi venti giorni ogni sera c'è stata una grandinata e il clima da dolce mediterraneo si è trasformato in tropicale. Dobbiamo disfarci dei ricordi, fare la casa in posti sicuri. È tutto da rivedere, cari amici. Anche nel modo di andare in montagna. Quella via sulla Marmolada l'avrò fatta 40 volte e poi scendevo con gli sci. Abbraccio con tutto il cuore chi ha perso parenti, amici.

Ci saranno problemi molto più gravi. Ci vuole un altro approccio per andare in montagna. Vi assicuro che d'ora in poi non passerò più sotto un ghiacciaio come ho fatto l'anno scorso sull'Adamello. Per salvarci dobbiamo attenzionarci molto di più, altri ghiacciai sono a rischio. Abbiamo bisogno di didattica, di guide nelle scuole, non di divieti. E di un cartello: "Ghiaccio pericolante".

"Lì sotto sarei morto anch'io, Quel crollo come un sisma". Lucia Galli il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'alpinista: evento imprevedibile, la calotta poteva cadere prima o mai. E non credo a sottovalutazioni

È il signore delle grandi invernali sugli Ottomila, ma non punta il dito sul caldo. Simone Moro, alpinista, pilota, scrittore e soprattutto cantore - le sue Orobie nel cuore - di tutte le montagne italiane, ha una idea precisa sulla tragedia della Marmolada.

Moro, quanto centrano caldo e riscaldamento globale e quanto eventuali imprudenze dell'uomo?

«Guai a cercare un colpevole. A meno di non scrivere tutti i nostri nomi e cognomi. O siamo tutti colpevoli o non lo è nessuno».

Quindi è stato un evento imprevedibile?

«Si, come un sisma. Non dobbiamo cercare inadempienze e responsabilità solo per lavarci la coscienza. Là sotto sono rimaste persone troppo diverse, per provenienza, preparazione, velleità ed età per poter dire che è stato l'uomo a sottovalutare le condizioni o che altri uomini avrebbero potuto prevedere, chiudere, limitare».

Però c'era un caldo anomalo

«Sotto e sopra la calotta che si è staccata si è camminato fino a due giorni fa e lo si farà di nuovo in futuro. Poteva cedere prima, mai o più avanti. Senza che si potesse prevedere. Che in montagna anzi in ogni angolo del pianeta - faccia sempre più caldo è un dato di fatto. Spostiamo, però, l'attenzione dal ghiacciaio: il crollo ha innescato una valanga - fra rocce, ghiaccio e detriti - così ampia da coinvolgere non solo quel paio di cordate impegnate sulla via normale alla vetta, ma anche intere famiglie che facevano un pic nic su sentieri più semplici ed escursionisti che non stavano azzardando oltre i loro limiti. Ci sono bambini e guide alpine. È una tragedia totale, trasversale. Le Dolomiti, con la loro formazione antichissima da tempo sono interessate da questi crolli. Questo è stato enorme e terrificante».

Quindi nessuna «leggerezza» umana?

«Facciamo un esempio: un conto è l'imprudenza di uno o più alpinisti che si infilano per una via sotto un seracco notoriamente pendente e in bilico con neve così marcia da sembrare poltiglia sotto i ramponi. E già non è questo il caso della Marmolada. Tutto un altro conto è, invece, una fetta di montagna che si stacca, travolge ogni cosa, alterando per sempre la fisionomia di una valle. Se il crollo fosse stato poco più ampio magari la valanga poteva arrivare fino al parcheggio, al lago e al passo Fedaia e colpire qualche auto. Che cosa avremmo detto? Che si dovevano chiudere anche le strade alle auto?».

Montagna e mare non si possono chiudere.

«Esatto: lì sotto sarebbe morto anche l'alpinista più preparato. Anche Simone Moro. È come la livella: siamo tutti uguali e questa situazione riguarda le Alpi, ma anche l'Himalaya. Vi ho trascorso, come ogni anno, buona parte dell'inverno e poi la primavera per il mio lavoro di pilota. Sa che cosa vedo? Il campo base dell'Everest è nello stesso luogo da 70 anni e non è frequentato da improvvisati. Eppure ci sono ormai crolli anche li».

La natura è padrona di casa e per bussare alla sua porta che atteggiamento dobbiamo tenere tanto più oggi?

«Lasciando da parte eventi eccezionali come questi, dobbiamo prendere atto che il mondo sta cambiando e che anche stare al sole in riva al mare con 38 gradi oggi è più pericoloso. Intendo dire che noi dobbiamo impegnarci non solo informandoci e allenandoci per le passioni che vogliamo seguire. Dobbiamo cambiare atteggiamento nella quotidianità: ridurre le comodità e gli sprechi. Meno ascensore e più scale, fare domani una doccia più rapida di ieri, evitare aria condizionata e riscaldamento a palla. Oggi è il giorno del dolore, ma questo è un contributo piccolo ma concreto che ognuno di noi può dare. A meno che».

Tutti o nessuno?

«Altrimenti sarà sempre colpa di tutti e di nessuno».

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 5 luglio 2022.  

I morti della Marmolada costringono a una recita collettiva e solidale a cui non possiamo sottrarci: altrimenti l'umanità si ridurrebbe a una cinica pietraia di fatalismo. La verità, ogni tanto, non serve. 

E la verità, in questo caso, è che i seracchi di ghiaccio sono sempre caduti, cadranno sempre, avranno sempre un loro punto di cedimento (più facile nelle ore calde, ma può esserci a qualsiasi ora) e smetteranno di crollare solo quando non ci saranno più.

In alta montagna si parte la notte e si cerca di evitare il pomeriggio, era così anche cento anni fa: ma - domanda- pensate che le disgrazie perciò non capitassero? 

L'unica è rinunciare alle esperienze (tipo andare in montagna) o muoversi riducendo al minimo le probabilità che un imprevisto accada, valutando giorno per giorno secondo circostanze variabili. 

Persino Mario Draghi si è prestato alla recita: ha parlato di «deterioramento dell'ambiente» (se avesse detto solo «cambiamento» non sarebbe affiorata di fondo la possibile colpa di qualcuno, ciò che la gente vuole) e ha pure detto, Draghi, che il governo deve «prendere dei provvedimenti». Ossia? Chiudere le montagne?

Lo Stato, al massimo, può limitare accessi a funivie e rifugi, ma non può impedire che io, con le mie gambe, vada dove voglio: sarebbe un regime militare (o sanitario) e la libertà è anche quella di poter sbagliare, trovando la fortuna o la sfortuna.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 4 luglio 2022.  

Non dite niente. Guardate qualche vecchia fotografia, piuttosto. No, non solo quella del ghiacciaio com'era e com'è. Io, le mie le ho qui davanti a me. La prima foto ritrae mio padre in cima alla Marmolada, dietro c'è scritto «settembre 1947, m. 3350» anche se è alta 3342, bianco e luce dappertutto, lui a torso nudo con in vita una cordaccia di canapa: non c'era il riscaldamento globale, c'era solo occasionalmente il caldo. 

Sicuramente era salito dalla via normale che passava appunto sul ghiacciaio dopo una rapida sosta al rifugio Pian dei Fiacconi, costruito l'anno prima (1946) e, il 14 dicembre di due anni fa, travolto e distrutto da una valanga: non esiste più.

Era a quota 2626 metri, sul versante nord, dove passa appunto la via normale e dove c'è anche Punta Rocca dove ieri è caduto il seracco e c'è stata la disgrazia. 

La seconda foto non c'è, perché Reinhold Messner - trentino come mio padre- era da solo, e non immortalò la celebre via spettacolare che s' inventò per giungere in vetta; ieri Messner ha detto che i seracchi cadono per il caldo globale che fa sciogliere il ghiacciaio, che non c'è quasi più, ma «ciò che è accaduto lì accade ogni giorno in tutti i ghiacciai».

Altri, ieri, l'hanno messa più drammatica, «mai visto una cosa del genere in Marmolada», perché lo zero termico superava i 4 mila metri (l'altro giorno sulla vetta del Monte Bianco c'erano 10 gradi: quando la raggiunsi io, nel luglio 2015, i gradi erano -22) ma è tutto molto relativo: c'è sempre qualcuno che, prima di vederla, non aveva mai visto qualcosa.

La terza fotografia è del 1983 e ritrae un altro grande alpinista, Alessandro Gogna, impegnato sulla via storica inaugurata nel 1936; Gogna oggi ha 74 anni ed è stato il fondatore di «Mountain Wilderness», che è un po' la Rifondazione Comunista degli alpinisti: è un'associazione internazionale che vuole combattere la progressiva degradazione delle montagne e che dal 1987 propone l'istituzione di parchi immacolati, aree protette (che in Italia sono già tantissime), boicottaggio di funivie e simili, limiti per rifugi vie ferrate, chiusura di un sacco di strade di montagna, abolizione dell'elisci (quando ti portano in cima a una montagna per poi scendere con sci ai piedi) e bando alle motoslitte, ai fuoristrada, ovviamente a cafoni e maleducati.

I quali, ovviamente, figurano anche tra le fila di Mountain Wilderness, e figurano tra gli alpinisti bravi e preparati che calcolano ogni rischio e tuttavia ogni tanto muoiono lo stesso esattamente come le più formidabili guide alpine; figurano tra gli escursionisti di città o indigeni che siano, tra gli sciatori, i base-jumper (quelli che salgono le cime e si buttano col paracadute) e tra coloro che dimenticano semplicemente di guardare le previsioni meteo dell'ultimo minuto; figurano ovviamente tra i tantissimi che hanno scambiato il soccorso alpino per un taxi volante che ti venga a prendere quando ti fa male la caviglia (o sei solo stanco) o vengono a recuperare un numero impressionante di cadaveri come ieri.

Che poi, su certi orrori costruiti sulla Marmolada, Mountain Wilderness ha ragione in pieno: uno sfruttamento intensivo e datato l'aveva ridotta a uno schifo, voi forse non lo sapete che quella montagna è avviluppata da tre funivie e che l'ultimo tratto raggiunge proprio la citata Punta Rocca, dove la gente è andata a morire, a 300 metri da Punta Penia: insomma, la funivia arriva direttamente in cima ed è una ferita per gli occhi.

E allora perché scalarla, se c'è la funivia? È complicato da spiegare: fare una domanda del genere implica non poter capire la risposta. E chi non la capisce, dirà - ora e sempre che qualcuno ha sbagliato, è stato imprudente, che in un periodo bollente come questo non si passa sotto un saracco, peraltro di pomeriggio. E, molto tempo, fa avrebbe detto che non è prudente uscire dalle caverne. 

La quarta fotografia ritrae l'immagine surreale e provocatoria destinata alla conferenza Onu sul clima tenutasi a Nairobi nel 2006, in cui si vedeva una coppia in costume da bagno intenta ad abbronzarsi sulla neve della Marmolada. 

«L'agonia del ghiacciaio in una fotografia» scrisse Marco Albino Ferrari su «Meridiani Montagne» di cui era direttore. Ferrari nel 2007 salì sulla Marmolada per raccontare il ghiacciaio già sciolto e malridotto, poi nel 2009 quella montagna fu dichiarata Patrimonio dell'Umanità ma il ghiacciaio non ha arrestato il suo ritiro.

Il glaciologo Claudio Smiraglia prevedeva che entro il 2022 (proprio) il ghiacciaio sarebbe scomparso. C'è ancora: intanto a sparire siamo noi, sotto i seracchi o in qualsiasi altro modo. 

E ogni volta ci si riporta a ciò che molti pretendono di decodificare: che cosa spinga una persona sana di mente (se lo è) a rischiare la pelle per soffrire e agognare una cima con l'ansia di dover affrettarsi a scendere, perché la discesa è una corsa contro il tempo e la stanchezza durante la quale, non a caso, si registra la maggior parte degli incidenti.

Non dite niente, non cercate di capire: una risposta normale sul perché tanti uomini si muovano su dei confini anormali non esiste. Emergono solo la bellezza e il trionfo della natura (che non distingue tra bene e male) il desiderio di rapportarsi ai propri limiti e alle proprie carenze: la montagna è una dimensione innaturale all'uomo, evitata per millenni, è qualcosa che ci fa mancare la terra sotto i piedi e che ci confronta con bisogni finalmente ricondotti all'osso: fatica, freddo, paura, fame, sete.

E, nel caso, morte. Le montagne non sono assassine, e gli alpinisti, per la maggior parte delle persone razionali, restano fondamentalmente una massa di coglioni. Il concetto è piuttosto difficile da smentire, ma è impossibile anche spiegare che certe persone, per vivere, hanno drammaticamente bisogno di sentirsi vive: sino a sfidare o sfiorare la morte, o a raggiungerla. 

L'ultima foto ritrae l'autore di questo articolo sulla ferrata Eterna, lungo la cresta est della Marmolada, in un punto meraviglioso in cui si vedono il Ghiacciaio con le punte Penia e Rocca mentre a sinistra c'è una delle orrende stazioni della funivia; si vede la vecchia targa rossa d'inizio ferrata, che non scalai perché ero già stanco morto, non ero allenato. E meno male, perché dal niente, più tardi, prese a nevicare. Fui fortunato. Ieri una quindicina di persone non lo sono state.

Simone Moro: «Dall’Everest alle Orobie, in 30 anni ho visto i ghiacciai sparire». Fabio Paravisi su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.

L’alpinista racconta il modo in cui le distese ghiacciate sono andate sempre più ritirandosi. 

Che le cose in montagna stessero cambiando se n’è accorto trent’anni fa, ma anche ieri ne ha visto le conseguenze mentre sorvolava la pietraia che una volta era il ghiacciaio del Gleno. Simone Moro, 54 anni, è uno dei più noti alpinisti del mondo, e si trova nella condizione di fare confronti non solo fra diversi periodi, ma anche tra l’Himalaya, dove si trovava un mese fa per fare interventi di soccorso, e l’Alta Val Seriana, che ha visto dall’alto mentre interveniva in elicottero per un’emergenza.

«La mia prima spedizione in Himalaya risale al 1992 — racconta Moro — e di anno in anno mi sono accorto che sulla stessa montagna mettevo i ramponi venti minuti o mezz’ora dopo, perché i ghiacciai si stavano ritirando. Un mese fa ero sull’Everest e mi sono reso conto che dagli inizi è cambiato tutto. Ed è successo nello spazio temporale nemmeno di una vita umana, ma di una carriera alpinistica. È incredibile, incredibile».

Lei lo scorso anno ha ripercorso la traversata delle Orobie a vent’anni dalla prima volta. Che differenza ha trovato?

«Ho visto i ghiacciai letteralmente sparire, alcuni si sono trasformati in nevai o poco più. Questa estate nelle Orobie quegli ultimi due fazzoletti di ghiaccio rimasti, che proviamo ancora a chiamare ghiacciai, stanno prendendo una legnata definitiva. I cambiamenti sono raccapriccianti».

Per esempio dove?

«Il ghiacciaio del Gleno è sparito nel giro di un anno. La scorsa estate c’era ancora, adesso ormai è inesistente: è ridotto a una pietraia con due chiazzette bianco-beige coperte dai detriti che cadono dall’alto, non lo puoi certo definire un ghiacciaio. Una cosa spaventosa. O anche il lago Fregabolgia al rifugio Calvi, prosciugato come tutti i laghetti alpini ormai ridotti a pozzanghere. Certo, bisogna ricordare che molti bacini artificiali sono stati aperti per dare acqua all’agricoltura ma guardiamo il calendario: siamo ai primi di luglio, eravamo in questa situazione da qualche settimana e abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti di estate. Se non cambia qualcosa saremo in guai gravissimi».

Anche i rifugisti stanno affrontando gravi problemi.

«Il Brunone si trova sotto il ghiacciaio del Redorta. O meglio si trovava: oggi per andare in cima al Redorta non servono più i ramponi perché c’è solo roccia. Se vorranno andare avanti dovranno farsi portare su l’acqua dall’elicottero. Ma anche quest’acqua da qualche parte dovranno andare a prenderla».

La situazione è poi alla base di tragedie come quella della Marmolada.

«Sulla quale però starei molto attento a dare colpe a qualcuno. I ghiacciai non cadono solo sulla Marmolada ma ne ho visti anche in Himalaya, in dimensioni molto più grandi, sulle montagne più alte del pianeta e a quote molto più elevate. Quello che è successo deve servire a farci ragionare».

In che termini?

«È innegabile che il pianeta si sta riscaldando, possiamo anche discutere se la colpa sia dell’uomo o meno ma a questo punto quello è un problema secondario. Dobbiamo capire che la natura è un organismo vivente, e noi ci dobbiamo adattare a dinamiche che non sono normate come un semaforo che si accende e si spegne. Ma anche capire che l’umanità è un acceleratore di un processo naturale».

Come si dovrebbe intervenire?

«L’uomo ha mille risorse: come apocalittico è il cambiamento del clima così lo deve essere anche la reazione, perché siamo oltre il tempo massimo. Il problema è che nel momento in cui si parla di queste cose ci si preoccupa e ci si commuove come quando si guarda un film, poi ci si asciuga le lacrime e si va avanti con la solita vita. Ma il film prosegue per conto suo e nessuno cambia. Mentre basterebbe veramente poco, limitando i consumi elettrici, non prendendo l’ascensore per evitare due rampe di scale, non usare sempre le scale mobili, lavarsi i denti con un bicchiere d’acqua, fare la doccia in 120 secondi gli uomini e 180 le donne. Questi cambiamenti moltiplicati per sette miliardi di persone sarebbero apocalittici. È inutile aspettare che Biden, Putin o Draghi facciano delle leggi, l’importante sono i comportamenti individuali. Per esempio appena finita l’intervista io ricaricherò il cellulare con un pannellino solare. Bisognerebbe intervenire a livello di scuola o di famiglie. Ma finito il film ci si dimentica».

Valanga di ghiaccio. Zaia dice che il crollo sulla Marmolada non era prevedibile, Miozzo chiede di ridare poteri alla Protezione Civile. L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

Il governatore del Veneto dice: «È come se fosse venuto giù un enorme grattacielo di ghiaccio. Come si può pensare di prevedere una cosa del genere?». Ma per l’ex coordinatore del Comitato tecnico scientifico, se si vuole agire sulla prevenzione bisogna rivedere la riforma del 2018: «Diversamente, anche per queste nuove emergenze, a cominciare dalla siccità, rischiamo di fare lo stesso percorso e gli stessi errori dell’emergenza Covid».

«Questa montagna immersa in un silenzio spettrale trasmette angoscia. È incredibile pensare che in pochi secondi abbia potuto travolgere e uccidere tante persone». Il governatore del Veneto Luca Zaia, dopo l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi e i familiari delle vittime e dei dispersi del crollo del ghiacciaio sulla Marmolada, dice al Corriere: «Stiamo vivendo una tragedia immensa. Tanto eccezionale che era imprevedibile».

«Io non sono un esperto», precisa il governatore leghista. Ma «qui è evidente che le cause sono state molteplici». Zaia spiega che «che nessuna escursione è a rischio zero, come qualsiasi attività, ed è altrettanto vero che i cambiamenti climatici hanno agevolato processi in maniera repentina. Ma questo non è il primo crollo sulle Dolomiti». Lo definisce «un fatto di portata straordinaria. È come se fosse venuto giù un enorme grattacielo di ghiaccio. Come si può pensare di prevedere una cosa del genere?».

Dello stato precario dei ghiacciai si parla da tempo, «ma dobbiamo pur ricordarci che le nostre montagne sono a loro volte state scolpite dal dissesto idrogeologico». Certamente «dobbiamo fare di tutto perché ciò non accada più. Gli esperti si esprimeranno. Resto personalmente convinto che sia necessario affinare il sistema di monitoraggio per essere nelle condizioni di impedire l’accesso al ghiacciaio quando le condizioni non lo consentono. Un po’ come succede con la bandiera rossa al mare».

Basti pensare che «l’altro giorno sul ghiacciaio c’erano 10 gradi. Adesso ha la dimensione che dovrebbe avere a fine settembre. È tre mesi avanti». Bisognerà adottare comportamenti conseguenti. «Tutti noi, non solo per i ghiacciai, dovremmo sempre più adattare i nostri comportamenti prendendo atto del cambiamento climatico. L’uomo ci sta mettendo del suo per accelerare certi processi. Il tema del cambiamento climatico impone scelte coraggiose e una revisione delle nostre abitudini».

Come spiega Agostino Miozzo a Repubblica, dopo vent’anni nella Protezione Civile e alla guida del Comitato tecnico scientifico per più di un anno nel 2020, «stiamo andando incontro a situazioni estreme sempre più ricorrenti». Siccità, incendi, eventi atmosferici violenti, dissesto idrogeologico: tutti fronti aperti e contemporaneamente. Per cui, dice, «avremo bisogno di un sistema organico forte, nazionale, di Protezione civile».

Dopo la riforma del 2018, che ha ridotto i poteri dell’ente, «persino con la dichiarazione di uno stato di emergenza la Protezione civile, così com’è, non riesce che a mettere pannicelli caldi: distribuzione di aiuti e risorse, tentativi di coordinamento, piccoli interventi, di certo nulla di strutturale».

Oggi, dice Miozzo, «mi sento di dire al governo: rivediamo questa riforma, diamo al sistema nazionale di Protezione Civile e al suo capo poteri forti e altrettante responsabilità. Diversamente, anche per queste nuove emergenze, a cominciare dalla siccità, rischiamo di fare lo stesso percorso e gli stessi errori dell’emergenza Covid». Perché la pandemia, appunto, «ha dimostrato come la Protezione civile sia stata sottomessa alle Regioni. Ricordate quante ordinanze locali, le più diverse, venivano emanate in quei mesi, con i governatori che ovviamente rispondevano a spinte locali e la Protezione civile che faceva una gran fatica a provare a dare un indirizzo comune. Oggi vedo che si sta ripercorrendo la stessa strada sull’acqua: ogni giorno leggo di ordinanze locali diverse e immagino che ci ritroveremo ancora una volta ad assistere al cinema delle autonomie locali quando invece si dovrebbe fare sistema».

Purtroppo in Italia siamo molto lontani dal concetto di prevenzione, prosegue Miozzo. «Anche perché, io posso dirlo liberamente, con la prevenzione non vinci le elezioni. Gli interventi veri, quelli che risolvono, li devi fare in tempi di pace. La prevenzione è cultura senza applausi per questo ha poco appeal. Anche perché è difficile avere applausi per aver evitato un danno che non avviene e dunque non è visibile e quindi non è raccontato».

Forse, conclude, a partire dall’emergenza siccità, «una Protezione civile con un ruolo forte e centralizzato, avrebbe potuto avviare interventi seri e di prevenzione a tempo debito».

Non chiamatela fatalità. Dopo il crollo sulla Marmolada non saremo più gli stessi. Fabrizio Fasanella su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

L’evento del 3 luglio, una diretta conseguenza della crisi climatica, è destinato a diventare il triste simbolo di un’emergenza che sta toccando da vicino anche l’Italia, in modo (forse) mai così violento. Ne abbiamo parlato con la glaciologa Guglielmina Diolaiuti, che ha sottolineato gli effetti pervasivi della fusione dei ghiacciai (nel nostro Paese spariranno nel giro di qualche decennio)

Attorno alle 13:45 di domenica 3 luglio, una grossa porzione del ghiacciaio della Marmolada – destinato a scomparire completamente entro il 2050 – si è improvvisamente staccata dalla cima della montagna, provocando morti e feriti. In quel momento, a circa 3.300 metri, il termometro segnava 10°C, e lo “zero termico” era sopra i 4.700 metri (dopo giorni in cui è rimasto costantemente oltre i 4.000 metri). 

Quella che in molti definiscono “tragedia”, come se fosse una fatalità dovuta al caso, è in realtà una delle innumerevoli conseguenze di una crisi climatica (di cui siamo responsabili) che sta correndo molto velocemente, con risultati sempre più tangibili sulla nostra vita di tutti i giorni. Il crollo sulla Marmolada – dove quest’anno le giornate con la temperatura media sotto lo zero sono state una manciata – è strettamente connesso con l’ondata di caldo che sta travolgendo il nord e il centro Italia ormai da mesi, e che ha scatenato una delle crisi idriche più gravi della nostra storia recente. A inizio luglio stiamo vivendo una situazione che, generalmente, è tipica dei giorni appena successivi a Ferragosto. 

Quella del 2022 si sta rivelando l’estate climaticamente più tragica di sempre, quella in cui – come ha scritto il giornalista Nicolas Lozito in questo post Instagram decisamente azzeccato – «abbiamo capito». Fiumi in secca e desertificazione, fontane spente per razionare l’acqua, Regioni in stato di emergenza per la siccità (Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Veneto e Piemonte), 30°C già ai primi di maggio, agricoltori in ginocchio: sono mesi in cui, in modo forse inedito, ci stiamo scontrando con gli effetti concreti di un’emergenza che parte da lontano e dall’alto. La crisi climatica non è più fatta di numeri, target internazionali e notizie da leggere sullo smartphone: è fuori dalla nostra porta di casa e non ha intenzione di bussare educatamente prima di entrare. 

Questa crisi sta ovviamente impattando anche sulla salute dei ghiacciai, italiani e non. Più fa caldo e meno nevica, più questi giganti di ghiaccio (ormai malati terminali) si fondono e si avvicinano alla loro fine. Secondo l’ultimo catasto dei ghiacciai italiani della Statale di Milano, l’Italia conta 903 corpi glaciali, con una superficie totale di 369 chilometri quadrati che si è ridotta del 30% negli ultimi 60 anni. 

Il ghiacciaio dei Forni, per rendere l’idea, nella sua zona centrale perde 6 metri di spessore all’anno. Entro il 2060, esisterà solo il 20% dei corpi glaciali che vediamo al momento sulle Alpi, un’area che – nel giro di una decina d’anni – ha cambiato radicalmente volto a causa delle temperature elevate e delle scarse nevicate. 

Con l’aiuto di Guglielmina Diolaiuti, divulgatrice scientifica (vi consigliamo di ascoltare questo suo intervento al TEDx Bergamo nel 2019), studiosa dei ghiacciai alpini ed extra alpini e professoressa di Geografia fisica e geomorfologia all’Università degli Studi di Milano, abbiamo provato a immaginare quella che sarà l’Italia del futuro. Un’Italia senza ghiacciai, con fiumi sempre più in secca, poca acqua e un settore idroelettrico sostanzialmente immobile. 

In che modo il crollo sulla Marmolada è collegato alle temperature di queste settimane?

«Sono due fenomeni strettamente collegati. È impressionante il fatto che, da più giorni, lo zero termico fosse sempre sopra i 4.000 metri. E sabato, giorno prima del crollo, era sopra i 4.700 metri. Cosa significa lo zero termico così in alto? Significa che – nel caso della Marmolada – sotto i 4.700 metri tutto si può fondere. Con queste temperature, la poca neve rimasta e il ghiaccio continuano a fondersi: si crea così dell’acqua che scorre sia in superficie, sia dentro i ghiacciai. In questo modo il flusso d’acqua amplia le fratture e i crepacci, e lavora destabilizzando il ghiaccio. Ecco spiegati i crolli come quello di domenica».

Nei giorni precedenti, dal ghiacciaio sono arrivati campanelli d’allarme?  

«Non mi sono ancora recata personalmente sul sito, ma dalle immagini e dai video emergono informazioni importanti. Nella zona dove è avvenuto il distacco c’è una parte di ghiaccio grigio: quel colore testimonia il fatto che, da giorni, percolava acqua di fusione. E poi c’è una parte azzurra molto piccola, situata nella zona della frattura “fresca”. Per giorni l’acqua è entrata in profondità: il crepaccio si è ampliato ed è successo quello che è successo».

Il nostro approccio alla montagna deve cambiare.

«Non si può più andare in montagna come prima. Una regola buona sarebbe quella di fare escursioni nelle ore più fredde: durante la notte e all’alba. Si parte dal rifugio col buio, si fa l’ascensione e poi si torna al rifugio prima di mezzogiorno. In quelle frazioni di giornata è molto meno probabile che avvengano crolli. Con lo zero termico così alto conviene rimanere a casa. In questi casi, il sindaco e il Comune devono decidere cosa fare, sentendo poi le guide alpine. Il cocktail composto da frequentazione elevata del ghiacciaio e temperature elevate è terribile». 

Quali sono le strategie per rallentare la fusione dei ghiacciai? 

«Si possono applicare i geotessili per ridurre la fusione. In Italia, però, li mettiamo sopra quei ghiacciai in cui si applica lo sci estivo, come il Presena e lo Stelvio. Lì l’uomo sta già utilizzando il ghiacciaio in maniera intensiva, perché prende la neve a monte per poi portarla a valle con i gatti, creando una pista da sci. Così, al povero ghiacciaio portiamo via la neve preservata in quota, portandola a valle dove fonderà miseramente. In quelle zone si mettono i teli per mitigare l’impatto umano, anche perché il dispendio di energia sarebbe minimo: ci sono i gatti e gli impianti di risalita già attivi, utili per portare il telo sul ghiacciaio».

Ma questa non è una tecnica applicabile ovunque. 

«Esatto, perché i ghiacciai sulle Alpi sono circa 900. Dove non si scia – e non c’è attività umana – si dovrebbe portare il telo con degli elicotteri. Elicotteri che inquinano ed emettono Co2. E ricordiamo che il telo è di plastica: non ha senso posizionarlo su un ghiacciaio incontaminato. All’estero ci sono altre tecniche di ingegneria glaciale. Alcuni mettono delle barriere per evitare che il vento si porti via la neve. Tuttavia, hanno un impatto paesaggistico. In altri casi si spara la neve con i cannoni, ma significa prendere dell’acqua da qualche parte e – in alcuni casi – contribuire al prosciugamento di un fiume». 

Dobbiamo abituarci a un’Italia senza ghiacciai? 

«Sulle Alpi, entro il 2060 avremo il 20% dei ghiacciai che vediamo adesso. Le Alpi diventeranno come gli Appennini, che hanno i nevai ma non i ghiacciai. È troppo tardi per alcuni ghiacciai, ma non per tutti i ghiacciai del pianeta. I ghiacciai sono sentinelle, ma ci sono tanti aspetti della natura che possiamo preservare cambiando le nostre abitudini».

Come faranno i nostri fiumi a sopravvivere?

«L’unico “effetto positivo” dello zero termico così elevato è che i ghiacciai stanno regalando un sacco di acqua ai fiumi in secca. Il merito di quel poco d’acqua che vedete oggi nell’Adda o nel Po è dei ghiacciai, e sarà così anche nei giorni successivi. Tra 40 anni, però, questo fenomeno non accadrà più, e i fiumi che si “riforniscono” grazie ai ghiacciai alpini avranno una portata simile ai fiumi dell’Appennino. Questi ultimi vanno in secca d’estate e hanno le piene quando c’è la fusione della neve, in primavera». 

Qual è l’impatto della fusione dei ghiacciai sul settore idroelettrico? 

«L’esempio più emblematico è quello della zona di Sondrio, dove ci sono tantissime centrali idroelettriche e tantissimi ghiacciai. In quest’area, negli ultimi vent’anni, il contributo della fusione del ghiaccio glaciale per le centrali idroelettriche ha toccato il 20%. Cosa vuol dire? Che l’80% è acqua che deriva dalla pioggia, dalla fusione della neve e dalle sorgenti, e il 20% dai ghiacciai. Tra 40 anni, quando la gran parte dei ghiacciai alpini non ci sarà più, questo 20% che sosteneva l’idroelettrico mancherà, e ci sarà un impatto economico. Bisogna sperare in nevicate abbondanti che garantiscano una buona fusione della neve almeno fino a maggio. Andremo purtroppo incontro a periodi siccitosi sempre più frequenti, che causeranno una riduzione dell’energia idroelettrica». 

E l’impatto sul dissesto idrogeologico?

«Il discorso è più complesso, e bisogna parlare di rapporto tra dissesto idrogeologico e criosfera. Con questo termine intendiamo: neve, permafrost e ghiaccio glaciale».

Partiamo dal ghiaccio.

«Prendiamo l’esempio del ghiacciaio dei Forni, che – nella zona centrale – si fonde a un ritmo di 6 metri annui. Questo significa che – nella cosiddetta zona della lingua – il ghiaccio si assottiglia di 6 metri all’anno. Quel ghiaccio è importante, perché riempie e sorregge le pareti rocciose. Se quella massa viene a mancare, la roccia si espone molto di più alle radiazioni solari, al riscaldamento diurno e al raffreddamento notturno. In questo modo perde stabilità e rischia di crollare».

E la neve?

«La neve ha il vantaggio di mantenere in isotermia tutto ciò che ammanta. Se la neve viene a mancare, la roccia è esposta a una situazione di instabilità, a cicli caldo-freddo che la degradano».

Infine, il permafrost.

«Esso consiste nella roccia e nel terreno permanentemente gelati. Il permafrost non viene intaccato in profondità dal cambiamento climatico. Tuttavia, ci sono dei problemi a livello di spessore superficiale: questa parte diventa al tempo stesso più molle e più spessa. In questo modo, se si trova lungo un pendio inclinato, tende a muoversi e a degradarsi». 

(ANSA il 5 luglio 2022) -  "In questo momento possiamo escludere assolutamente una prevedibilità e una negligenza o un'imprudenza". 

Così il procuratore capo di Trento, Sandro Raimondi, intervistato dal Tg3. 

"L'imprevedibilità in questo momento è quella che la fa da protagonista - ha detto -.

Per avere una responsabilità bisogna poter prevedere un evento, cosa che è molto molto difficile". 

"Quando mi hanno chiamato i carabinieri di Cavalese subito dopo la tragedia - ha ricordato -, mi hanno parlato di situazione quasi apocalittica".

Non cediamo subito alla logica della “giustizia emotiva”. Tragedia della Marmolada, piangiamo i morti ma non cerchiamo i reati. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 5 Luglio 2022 

Per favore non chiamatele stragi. Eventi come quello di domenica sotto il ghiacciaio della Marmolada sono luttuosi e tragici e lasciano a terra, oltre alle persone decedute, intere famiglie, che non dimenticheranno mai quella giornata maledetta. Ma non cediamo subito alla logica perversa della “giustizia emotiva”, non cominciamo a cercare il capro espiatorio, possibilmente una fi gura apicale da insultare e umiliare con la barbarica fi gura della responsabilità oggettiva, e lasciamo per un attimo i fascicoli processuali nel cassetto. Abbiamo alle spalle esempi negativi come il processo che ha condannato a cinque anni di reclusione l’ex ad di Ferrovie Italia Mauro Moretti, piuttosto che una coda imprevista che riguarda il Pio Albergo Trivulzio di Milano. Cerchiamo di non ripeterli, con l’uso del processo penale, a ogni evento tragico.

L’Italia è tante cose, è anche quella dei ghiacciai diventati trasparenti, è quella del sottosuolo che trema e dei fiumi che esondavano prima di rinsecchirsi insieme al grano nella novella siccità, e poi anche quella dell’epidemia che ci ha colpito a morte. Tutto questo ci ha abituati purtroppo a dover far fronte a eventi più grandi noi e della nostra vita quotidiana, in cui entrano con violenza improvvisa come tragedie. Le quali vanno affrontate con serietà e attenzione, anche nel momento del dolore, perché spesso dietro gli accadimenti della natura o anche delle opere dell’uomo, come un palazzo che crolla o un treno che deraglia, ci sono sciatterie e distrazioni. Che vanno verificate e trattate per quel che sono, non sempre reati. Non cominciamo quindi a parlare di “stragi” e di “vittime” e ad aprire fascicoli e formare Comitati, spesso sobillati da qualche legale in cerca di notorietà, che si comportano come se fossero protagonisti di vendette private.

“Du calme”, come dicono i francesi. Perché le stragi, che l’Italia purtroppo ha ben conosciuto, sono un’altra cosa. Sono delitti dolosi, prima di tutto, e comportano la volontà di uccidere. Per questo le persone coinvolte, assassinate, sono “vittime”. E i responsabili, quando vengono individuati e processati, sono i colpevoli di un tragico atto voluto. Ma a Viareggio, proprio come domenica scorsa alla Marmolada e due anni fa al Trivulzio, e tante altre volte all’Aquila o a Genova, nessuno ha compiuto una strage.

Ci sono state tragedie, accadimenti luttuosi. Morti, non vittime. Forse qualche responsabilità soggettiva di tipo omissivo, non l’oggettività degli omicidi. Questa questione per cui, se sei l’amministratore delegato di una società, sei “oggettivamente” responsabile sul piano penale di qualunque accadimento più o meno grave o luttuoso accada all’interno, presenta due aspetti, ambedue negativi e pericolosi. Uno è di tipo ideologico, e ricorda molto le purghe staliniane. L’altro è di tipo più culturale, ma altrettanto pericoloso, perché sta portando piano piano l’Italia verso una giurisprudenza penale di tipo emotivo. Di fronte a un fatto tragico, entra subito nel processo una nuova figura, quella della “vittima”, che si fa subito Comitato di parenti e amici, con annessi avvocati, che chiedono la pena esemplare. Il processo pare inutile, e guai se comunque non termina nel modo auspicato. È molto difficile, per i giudici, mantenere quel famoso cubetto di ghiaccio nel cervello, quando si è martellati dai titoloni che parlano della “strage di Viareggio” o dei “poveri morti” di covid abbandonati al Trivulzio.

Così noi ancora oggi non sappiamo, o non abbiamo capito, quali siano stati i comportamenti del dottor Mauro Moretti che i giudici hanno considerato reato, tanto da condannarlo. Quello però che abbiamo visto –e può darsi che lui sia una persona così poco empatica da suscitare certe reazioni- è stata una folla che nell’aula del tribunale non tollerava neppure che l’imputato avesse il diritto di parola. Si stavano dunque celebrando due diversi processi, in uno dei quali c’era una sentenza scritta già fi n dai primi momenti successivi alla tragedia? C’era dunque una giustizia privata che si affiancava alla pretesa punitiva dello Stato? E i giudici sono rimasti sempre immuni dalla tentazione di amministrare una giustizia emotiva?

Se su Mauro Moretti e il sospetto che sia stato trattato come un vero capro espiatorio abbiamo letto diversi commenti, l’ultimo dei quali quello autorevole del professor Galli della Loggia sul Corriere di ieri, è passata del tutto inosservata una notizia che riguarda il Pio Albergo Trivulzio di Milano, la più importante e prestigiosa residenza per anziani d’Europa. La stessa che sta lanciando, proprio in questi giorni, l’ambizioso progetto di diventare anche polo geriatrico riabilitativo d’eccellenza, primo in Italia e in Europa per le cure intermedie, cioè quelle che fanno da cuscinetto tra l’ospedale e la casa. Una manna per le famiglie, e anche per gli ospedali, che potrebbero dimettere gli anziani, dopo la fase acuta, in tempi più brevi.

Succede però che, proprio negli stessi giorni, e quando si riteneva che l’antica “Baggina” fosse uscita con sollievo e anche una certa soddisfazione dalle inchieste giudiziarie con il contorno delle gogne inventate sul nulla da Repubblica e Fatto, il gip di Milano Alessandra Cecchelli non abbia accolto la richiesta di archiviazione della Procura e abbia disposto un’ulteriore perizia in contraddittorio tra le parti proprio su responsabilità oggettive. Va ricordato che la decisione della Procura di chiudere il caso era fondata sia sui risultati della perizia ufficiale, che sulle conclusioni cui era arrivata la Commissione voluta da Regione e Comune di Milano e presieduta dall’ex pm Gherardo Colombo. Non c’è alcun nesso di causalità tra le morti (in percentuale uguale a quelle di tutte le altre Rsa italiane ed europee) ed eventuali comportamenti della dirigenza dell’Istituto, avevano concluso il procuratore aggiunto Tiziana Siciliano e i pm Mauro Clerici e Francesco De Tommasi. Ma ecco spuntare il solito Comitato a opporsi, e ora ci sarà una nuova perizia. Giustizia emotiva? Intanto il direttore generale Giuseppe Calicchio rimane ancora un po’ sulla graticola, indagato per omicidio ed epidemia colposi. Il nesso di causalità non c’è, ma siamo sempre all’oggettività. Emotiva o staliniana?

 Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sole spento. La tragedia della Marmolada e la faccia da cocomero dei Verdi italiani. Mario Lavia su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

Il crollo del seracco del ghiacciaio è una tragedia climatica, su questo non ci sono dubbi. Ma fare sciacallaggio su questo evento incolpando Cingolani e Draghi è spregevole, e non aiuterà certo Europa Verde a guadagnare voti in più.  

«È una vergogna che il governo non abbia un piano di adattamento per i cambiamenti climatici». C’è chi sciacalleggia sulle tragedie del Paese. È un cosa molto brutta che purtroppo si rinnova a ogni terremoto, valanga, alluvione: e non certo perché la politica non abbia le sue responsabilità, tutti sanno che il mondo è molto indietro sulla questione del climate change, tutti sanno che il Belpaese è da sempre trascurato: solo che c’è un tempo per ogni cosa. 

E dunque che ieri i Verdi, che ora si chiamano Europa Verde (EV) perché l’Europa si porta molto, se ne siano usciti a proposito della tragedia della Marmolada accusando il governo della «tragedia annunciata», diciamo così, fa un po’ schifo. Sono i momenti delle ricerche affannose e dei lutti. Il presidente del Consiglio è andato sul posto per portare la solidarietà delle istituzioni e rendersi conto di persona di cosa sia successo, tra l’altro dicendosi convinto che «il governo deve riflettere su quanto accaduto e prendere dei provvedimenti perché quanto accaduto abbia una possibilità bassissima di succedere» di nuovo, se non «nessuna»: non aveva certo bisogno del richiamo europaverdista.

Nessun dubbio: il crollo del seracco del ghiacciaio della Marmolada è una strage del clima.Fa troppo caldo ed è caduta troppa poca neve. Le temperature che stiamo raggiungendo anche ad alta quota sono davvero terrificanti: sulla vetta della Marmolada, a quota 3.250 metri, il termometro ha raggiunto i 10,5 gradi domenica 3 luglio.

La sottovalutazione della questione accomuna destra, centro, sinistra, diciamo anche che abbiamo avuto 4 ministri diversi in 5 anni (Gianluca Galletti, Andrea Orlando, Sergio Costa e Roberto Cingolani), e dunque è normale che l’ambientalismo italiano, attraverso le sue associazioni più serie, sia da tempo critico con la politica e adesso con Draghi e Cingolani rei secondo loro di inammissibili ritardi un po’ su tutto, dal contrasto della crisi climatica alla tutela della biodiversità, dall’economia circolare alla lotta contro l’inquinamento da plastica: ed è ovvio e persino salutare che si discuta e critichi qualunque cosa, ma diverso è buttarla in caciara utilizzando la tragedia della Marmolada a fini di propaganda. 

Non vorremmo che l’euforia per la presentazione del “cocomero”, l’immagine più ridicola della storia dei movimenti politici che identifica l’intesa tra Sinistra Italiana (Nicola Fratoianni), quella che è entrata in Parlamento grazie all’accordo con D’Alema e Bersani (la mitica LeU) e appunto Europa verde (Angelo Bonelli) abbia dato alla testa ai leaderini dell’ex Sole che ride, glorioso simbolo internazionale di cui i Verdi italiani, nelle loro innumerevoli apparizioni elettorali, a suo tempo si impossessarono. 

Uno dei problemi della sinistra italiana è stato appunto quello dell’appropriazione di tematiche fondamentali da parte di un ceto politico non di primissimo ordine, a parte alcune eccezioni, di volta in volta intruppato con questo o quel partito (il Girasole con i socialisti, poi con la Margherita, con i Ds, la Sinistra Arcobaleno, per dirne alcuni), un florilegio di esperienze elettorali finite tutte abbastanza male o molto male eppure tali da mantenere in vita un brand che funziona da decenni – i Verdi – che appare sotto elezioni e spesso scompare dopo il voto andato male e dirigenti che sotto il segno dell’ambientalismo bene o male sbarcano il lunario da anni.

Sicché questi atteggiamenti polemici che sono nemmeno tanto lontani parenti del grillismo più cinico sortiscono l’unico effetto di sgradevolezza, minoritarismo, strumentalità. Il contrario di una seria e bella politica ambientalista. 

Perché è sbagliato dare la colpa all’uomo per la Marmolada. Giampiero Casoni il 05/07/2022 su Notizie.it.

Un giudizio "fuori dal coro" che mette alla berlina il climate change come causa: ecco perché è sbagliato dare la colpa all’uomo per la strage in Marmolada.

Tecnicamente è sbagliato dare al colpa all’uomo per la Marmolada, lo spiega una analisi di Federico Punzi sulla pagina di Nicola Porro in cui si prefigura, nella narrazione sulla tragedia, l’assist perfetto al catastrofismo ambientale. Ha scritto Punzi: “All’indomani delle terribili immagini della valanga di ghiaccio, acqua e detriti rocciosi che ha travolto i malcapitati alpinisti sulla Marmolada, ci è toccato assistere ad un’altra slavina, questa volta cinica e farsesca, sulle prime pagine dei giornali”. 

Dare la colpa all’uomo per la Marmolada: l’errore

Poi la spiegazione: “Tutta la schiera dei professionisti del climate change in servizio permanente effettivo si è subito mobilitata, sfruttando la macabra occasione per promuovere la propria agenda politica, con tutto il suo armamentario retorico catastrofista”. A questo punto Punzi fa nomi e cognomi: “Un esempio su tutti, Mario Tozzi su La Stampa: ‘Il pianeta si vendica della follia umana’ e ‘c’è un solo colpevole: noi sapiens”. Secondo quella prospettiva si è trattato di “due frasi in cui è condensato il meglio, o il peggio, dell’ecocatastrofismo alla Greta.

 Da una parte, l’antropomorfizzazione del pianeta, che come una divinità antica che abbiamo provocato, ‘si vendica’ (con la variante della montagna ‘assassina’); dall’altra, la criminalizzazione della presenza umana sulla Terra, come ha osservato Daniele Capezzone: siamo colpevoli, non più solo per le emissioni di Co2, ma per il solo fatto di esistere, di nutrirci o lavarci”. 

L’attacco ai “Savonarola del clima”

Poi la chiosa: “Questi Savonarola del clima invocano la ‘Scienza’, rigorosamente con la S maiuscola, ma nella loro retorica troviamo la più primitiva superstizione, quella dello stregone che spiega i fenomeni naturali attribuendoli all’ira del Grande Spirito per qualche cattiva azione ricaduta immancabilmente sull’intera tribù”.

Il caldo anomalo, le escursioni iniziate tardi e niente allerte: le cause possibili (oltre la fatalità). Lucia Galli il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Ghiaccio indebolito dall'acqua di fusione. Gli esperti: "Evento eccezionale". Nessuno ha sconsigliato la salita. Che sarebbe stato meglio affrontare di notte.

Il ghiacciaio della Marmolada si è rotto, come si spezza un pane fragrante, ma avvelenato e si è rovesciato di sotto. Incanalando la sua furia su detriti e rocce, ha travolto tutto e tutti, escursionisti, alpinisti, semplici amanti della natura dei monti Pallidi. Ora su quello sperone sotto a Punta Rocca c'è come un antro che rivela un male profondo, con radici antiche in quei rigagnoli d'acqua sotterranea che, da decenni, stavano limando le giunture che saldano il ghiaccio alla roccia. «È un crepaccio e non un seracco, che si è riempito di acqua di fusione nel corso degli anni», entra nel tecnico Carlo Barbante, docente dell'Università di Venezia e direttore dell'Istituto di Scienze Polari del Cnr.

GHIACCIAIO PAZIENTE CRONICO

Gutta cavat lapidem: la goccia scava anche la roccia. Lo dicevano già i latini che di neve e permafrost si intendevano meno. Il resto lo ha fatto la gravità, cioè l'inclinazione dello sperone roccioso da cui si è staccata la calotta di ghiaccio. Poi ci sono il caldo sia «storico» e globale del famigerato surriscaldamento del pianeta, sia il clima torrido recente, con un inverno senza grandi nevicate e ora un isoterma (il punto in cui l'aria è a 0 gradi) altissimo, oltre i 4mila metri. Così le notti non concedono da tempo alla neve e al ghiaccio una tregua. Si chiama rigelo: come Penelope che disfava la sua tela sotto le stelle, così il ghiaccio la sera dovrebbe ricompattarsi. «Ma ormai non accade più. Non quest'anno. Né sulla Marmolada né sulle Alpi», spiegano gli esperti.

UNA TRAGEDIA NON PREVEDIBILE

Ed ecco, allora, il destino che mette il turbo e confeziona un evento che, nonostante la dinamica ormai chiara, era e resta imprevedibile. Lo pensano tutti: i soccorritori addolorati che, nonostante il maltempo, ancora cercano un segno per riportare almeno un ricordo o l'ultima certezza a chi abbia già perso tutto. Lo pensano gli esperti, dai glaciologi come Christian Casarotto del Muse di Trento che spiega: «Se paragoniamo l'evento alle modeste dimensioni del ghiacciaio residuo della Marmolada, comprendiamo la sua eccezionalità». Insomma a innestare la tragedia non è stato un crollo «himalayano», ma un cedimento lento e costante che si è nutrito di detriti e rocce, trascinando tutto a valle.

CALDO SÌ, IMPRUDENZA NO

Per questo il dolore più grande è nella comunità alpinistica di professionisti e guide che, fra l'altro hanno perso dei colleghi preziosi, rimasti lassù: «Nessuno dei nostri uomini ha sottovalutato i rischi, trascinando clienti e anche parenti lassù», scandisce Martino Peterlongo, presidente delle Guide alpine italiane: «Il caso della Marmolada non rientrava nelle opzioni di crolli prevedibili o nei ghiacciai osservati».

UN'ALTRA ESTATE CALDA

E allora che cosa è successo lassù, intorno a quota 3mila, in una estate che i meteorologi hanno già bollato come gemella di quella torrida del 2003? «Crolli ci sono stati anche in passato», ricorda Giorgio Gajer, presidente del Cnsas - Soccorso alpino e speleologico - annoverando la mitica, ormai sparita, «meringa» del Gran Zebrù, il seracco pendente delle Grandes Jorasses e i più recenti, ricorrenti crolli, fra monte Bianco e Grand Combin. E quindi? La resilienza, parola tanto chiave della modernità, è anche questo: adeguarsi al tempo, anzi al meteo moderno di questo regno di Narnia e di ghiaccio che può essere anche una fiaba senza lieto fine. «Nei prossimi 30 anni molti ghiacciai spariranno, ma nel frattempo i crolli proseguiranno», spiega ancora Casarotto, che ha paragonato la Marmolada al paziente zero dei ghiacci italiani. La situazione è irreversibile, anche azzerando le emissioni di anidride carbonica, concordano gli esperti.

IL RIFUGISTA E I SOCIAL

E che nessuno si aspettasse un crollo del genera lo conferma, con i suoi post, anche Carlo Budel, il gestore del piccolo rifugio di Punta Penia dove la via normale termina: nessun allarme nei suoi video, ma solo parole tristi e meste per lo stato «pietoso» del ghiacciaio. Altrimenti lui stesso avrebbe usato i social per sconsigliare la salita e non solo per documentare l'ambiente circostante.

LA VIA NORMALE

Gaier del Cnsas torna, semmai, sull'orario della tragedia: indubbiamente la via normale della Marmolada, se affrontata partendo dal rifugio a Pian dei Fiacconi è una escursione di un paio d'ore con circa 700 metri di dislivello positivo. È vero che i ghiacciai di solito si affrontano durante la notte in modo da essere di ritorno ampiamente entro il primo pomeriggio. Ma appunto la Marmolada non è uno di quegli oceani alpini di ghiaccio per cui ci si incolonna con le frontali ancora sotto le stelle. È per questo che nessuno si aspetta mai l'impensabile.

Si scatenano i giustizialisti dell'ecologismo. Massimo Malpica il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il verde Bonelli annuncia un esposto. E Fratoianni (Si) incolpa la politica.  

Arriva a margine della tragedia di domenica sulla Marmolada, con le forme consuete di una nota alla stampa e il dubbio opportunismo di chi approfitta del crollo di un ghiacciaio per puntare il dito contro presunte responsabilità penali. A brillare nel day after del disastro in montagna sono i portavoce di Europa Verde, Angelo Bonelli ed Eleonora Evi, che accanto alle condoglianze per le vittime della frana del seracco da Punta Rocca annunciano «un esposto alla procura della Repubblica» ed evocano il tintinnar di manette per «una ennesima tragedia annunciata». Non basta nemmeno che il premier Draghi, arrivato sul luogo della tragedia, parli della necessità da parte dell'esecutivo di riflettere «perché non accadano più cose del genere». Per i verdi, infatti, «è intollerabile» che vi sia «un'immorale inazione del governo nella lotta al cambiamento climatico», e Bonelli ed Evi imputano in particolare all'esecutivo di aver istituito un ministero della Transizione ecologica «senza però riuscire a varare neanche l'atto più urgente per affrontare il riscaldamento globale: un piano di adattamento ai cambiamenti climatici». I due ecologisti-giustizialisti tirano in ballo il governo Draghi per non aver fatto nulla pur essendo stato informato «da inizio anno» da report scientifici «del disastro siccità che avremmo subito a partire da maggio», e rimarcano anche l'allerta di ricercatori e geologi sull'arretramento della neve nell'arco alpino e sulla Marmolada. E «di fronte a tutto questo concludono non ci sono rinvii possibili», annunciando che «un nostro esposto è già depositato alla procura della Repubblica per far luce sui ritardi che hanno causato la tragedia» e reclamando una repentina conversione ecologica dalle fonti fossili alle energie rinnovabili. Se anche il Paapa ieri ha evocato le ombre del climate change dietro alla tragedia della Marmolada, nessuno si era però ancora spinto a ipotizzare un fronte giudiziario che potesse addirittura coinvolgere l'esecutivo. Draghi è avvisato, insomma, anche se la procura di Trento, che sul drammatico crollo ha aperto un fascicolo per disastro colposo, al momento procede contro ignoti. Non punta così esplicitamente contro i vertici del governo ma ci va giù duretto anche il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni, che su Twitter attribuisce la responsabilità della tragedia all'emergenza climatica e «all'inazione della politica», mentre con più misura don Luigi Ciotti, commentando una «tragedia annunciata che lascia sgomenti» reclama «impegni veramente concreti» per le zone di montagna «da sempre dimenticate dalla politica, dalle politiche». Ma non sono solo le reazioni politiche a spingere l'onda «eco-giustizialista». Sui social, appunto, il fronte è spaccato tra chi crede al cambiamento climatico e chi lo nega, o nega che l'azione dell'uomo possa fare qualcosa per invertire la tendenza. Ma non mancano, e non sono pochi, quelli che, tra i primi, ne approfittano per sparare a zero sulla destra, prendendo di mira politici considerati «scettici» quanto al riscaldamento globale e mettendo all'indice Matteo Salvini e Giorgia Meloni, «colpevoli» di aver manifestato vicinanza alle vittime della tragedia, ma senza prima convertirsi alla causa. Almeno i leader di Lega e Fdi, per il crollo del ghiacciaio, non li ha denunciati nessuno. Fino a ora.

NON SI PUÒ ABOLIRE LA FATALITÀ. CAMBIAMENTO CLIMATICO - La tragedia della Marmolada, il vizio del processo all'italiana e quello che si deve fare davvero. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano Del Sud il 4 luglio 2022.

Questo principio va accettato anche in questo Paese senza cercare colpevoli che non ci sono e senza illudere la pubblica opinione che ci deve sempre essere qualcuno che paghi. Non si può affrontare sempre tutto per via giudiziaria. La fatalità esiste e va contenuta con ragionevolezza, ma nessuno può abolirla. Non si può anche misurandosi con il problema vero del cambiamento climatico e facendo gli investimenti che si devono fare, ma si possono piuttosto creare le condizioni perché la pubblica opinione paghi i prezzi della ragionevolezza prima e non si perseveri dopo in errori che moltiplicano i costi umani e sociali della fatalità. Abbiamo espunto la fatalità dal nostro orizzonte per cui ogni fatto deve avere un colpevole che in questo caso è l’innalzamento delle temperature, mentre se c’è un’opinione pubblica matura puoi applicare principi di precauzione che pongono restrizioni del tipo “in questa fascia oraria non si possono fare escursioni”, ma una cultura dei diritti mai bilanciata da quella di un pur minimo dovere obbliga a fare i conti con le ambiguità di chi non vuole arrendersi al fatto che esiste la fatalità e attribuisce tutto al cambiamento climatico che nei secoli c’è sempre stato e comunque si cerca il colpevole in carne e ossa senza mai chiedersi dei propri comportamenti. Per cui finita l’emozione o addirittura nel pieno della tragedia stessa si indossa l’abito che va dismesso per cui tutto deve sempre finire nelle mani della magistratura partendo dal presupposto (sbagliato) che la fatalità non esiste e chiedendo soddisfazione. Accade anche in ambiti diversi sul profilo delle responsabilità. È il dramma dell’uomo moderno che determina altri dolorosi effetti collaterali per chi porta la croce di decidere in questo Paese.

La fatalità esiste e va contenuta con ragionevolezza, ma nessuno può abolirla. Questo principio va accettato anche in questo Paese senza cercare colpevoli che non ci sono e senza illudere la pubblica opinione che ci deve sempre essere qualcuno che paghi. Questo insegna la tragedia terribile della Marmolada con il suo carico di morti, feriti e dispersi. Non si può affrontare sempre tutto per via giudiziaria perché altrimenti si ripete lo stesso errore che fecero i Cinque Stelle quando si affacciarono dal balcone di Palazzo Chigi e dissero di avere abolito la povertà per decreto.

Non si abolisce la fatalità misurandosi giustamente con il problema vero del cambiamento climatico e facendo gli investimenti che si devono fare, ma si creano piuttosto le condizioni perché la pubblica opinione paghi i prezzi della ragionevolezza prima e non si perseveri dopo in errori che moltiplicano i costi umani e sociali della fatalità. Così come non si abolisce la povertà per decreto facendo trasferimenti di reddito, sacrosanti per chi non ha niente, ma creando le condizioni perché l’economia riparta e aumentino le opportunità di lavoro per tutti in modo sano e duraturo.

Abbiamo espunto la fatalità dal nostro orizzonte per cui ogni fatto deve avere un colpevole che in questo caso è l’innalzamento delle temperature, mentre se c’è un’opinione pubblica matura puoi applicare principi di precauzione che pongono restrizioni del tipo “in questa fascia oraria non si possono fare escursioni”, ma una cultura dei diritti mai bilanciata da quella di un pur minimo dovere obbliga a fare i conti con le ambiguità di chi non vuole arrendersi al fatto che esiste la fatalità e attribuisce tutto al cambiamento climatico che c’è sempre stato – nel Medio Evo in Inghilterra c’erano le viti e si facevano l’uva e il vino poi arrivò il freddo e non si fecero più uva e vino – e comunque si cerca il colpevole in carne e ossa senza mai chiedersi dei propri comportamenti. Finita l’emozione o addirittura nel pieno della tragedia stessa si indossa l’abito che va dismesso per cui tutto deve sempre finire nelle mani della magistratura partendo dal presupposto (sbagliato) che la fatalità non esiste e chiedendo soddisfazione.

Che cosa si doveva fare? Non si riesce a vietare niente che tutti danno di matto così come non si può fare il rigassificatore a Piombino nonostante le manovre economico-militari di Putin abbiano fatto volare il prezzo a oltre 160 euro a megawattore e l’Europa intera rischia la recessione. Accade la catastrofe e si dice “dovevano vietare le risalite in quella fascia oraria”. Non accade la catastrofe e si dice: visto, non è successo niente e hanno messo le restrizioni.

La verità è che non si può prevedere che non si vada incontro a disastri e la pubblica opinione deve attendersi dalla politica che faccia di tutto per evitare che i disastri accadano, ma la pubblica opinione stessa deve accettare un principio molto forte di precauzione che si fonda sulla decisione a priori che non si fanno più escursioni sulla Marmolada senza che succeda nulla in termini di protesta e contestazioni varie.

La libertà di scelta è un principio di precauzione che va accettato a prescindere da chi porta la croce di decidere e di risponderne, facendo i conti con il dramma dell’uomo moderno. Che è quello di non potere più accettare l’evento che sfugge al controllo e alla prevedibilità. Che è quello di indulgere sempre alla ricerca di un capro espiatorio per cui non contano le filiere di sicurezza e chi ne esercita le responsabilità, ma bisogna sempre trovare un capro espiatorio molto in alto che paghi simbolicamente per la tragedia, non perché ne è colpevole. Questo è il caso di Mauro Moretti nella strage di Viareggio e nel suo carico terribile di morte che indigna la coscienza del Paese, ma non può indurre ad accettare la regola della barbarie. A volte, addirittura, si pretende che il capro espiatorio paghi anche quando la tragedia non c’è perché è il frutto avvelenato del grande motore dell’invidia sociale e della deresponsabilizzazione collettiva.

La guerra di Putin all’Ucraina non è una fatalità, ma una scelta scellerata di un regime autocratico e di un suo disegno egemonico che viola la sovranità degli Stati liberi. È incompatibile con le regole delle democrazie e del mondo occidentale. Noi europei, in genere, e noi italiani in particolare, non abbiamo fatto nulla perché ciò accadesse. La guerra di Putin non è una fatalità ma noi non abbiamo fatto nulla perché accadesse. In questo senso noi siamo vittime di questa “terribile fatalità” e, per questa ragione, ci vuole il Recovery energetico europeo perché le vittime in economia di questa guerra orribile non possono pagare il prezzo di scelte di cui non hanno nessuna responsabilità.

Ma davvero l’uomo c’entra qualcosa con la tragedia della Marmolada? Per politici e media è la natura che si “ribella”. Gli scienziati però hanno molte meno certezze. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 6 luglio 2022.

Fa impressione ascoltare il misurato e razionalista Mario Draghi mentre promette agli italiani che una tragedia come quella della Marmolada «non si ripeterà mai più», evocando poi non si sa quali miracolosi interventi del suo governo. Certo, il presidente del Consiglio stava rivolgendosi ai parenti delle vittime in un contesto in cui le emozioni e il dolore prevalgono sulle analisi e le spiegazioni, e un leader politico deve saper interpretare e accompagnare anche gli umori della propria comunità.

Ciò non toglie che le parole di Draghi sono la spia perfetta del dibattito sconclusionato e fanatico che da qualche giorno ha riportato l’emergenza climatica sulle prime dei giornali. Con la gran parte dei media e della classe politica italiana che non nutre dubbi sul responsabile: le attività umane, l’inquinamento antropico che sarebbe ala base del riscaldamento globale. Questa certezza esibita a poche ore dai fatti, basta attivare il pilota automatico e settarlo sulla modalità apocalittica. Con punte sublimi, come il direttore de La Stampa Massimo Giannini convinto che il seracco della Marmolada fosse dotato di vita propria: «È la natura che si ribella contro di noi!», dice con piglio new age in un conversazione con Concita De Gregorio.

E tutto viene mescolato, sovrapposto, associato a caso allo scopo individuare un’unica causa responsabile di tutti i mali: così lo scioglimento delle calotte polari e la caduta di un costone delle Dolomiti sono fenomeni equivalenti, figli della stessa scellerata cupidigia umana. È una narrazione emozionale, approssimativa, grossolana, che al massimo serve a far vendere qualche copia e a rassicurare qualche elettore. Ma di preciso cosa dicono gli scienziati? Che stiamo ovviamente attraversando una fase di global warming, la riduzione dei ghiacciai e l’aumento della temperatura sono fatti innegabili. Ma, a differenza dei nostri politici e dei nostri giornalisti non possono vantare alcuna certezza sulle cause del riscaldamento. E non citano i rapporti del Ipcc delle Nazioni Unite come verità scolpite nel marmo: «Sono solo scenari non previsioni sulle quali basare il destino dell’umanità» si stupisce il professor Franco Prodi fisico del clima, e autentica autorità nel suo campo: «Il ritiro dei ghiacciai ha un andamento ciclico, viviamo un periodo di riscaldamento che è un fatto naturale, non è possibile quantificare con serietà scientifica la componente antropica».

In altre parole questione ambientale è una cosa seria da affrontare con strumenti seri, possibilmente quelli della logica. Una questione che ormai coinvolge centinaia di governi: tra il primo protocollo di Tokyo e gli accordi di Parigi passano 25 anni, in quel lasso di tempo la coscienza sui rischi dell’inquinamento da C02 è ormai diffusa a livello planetario, molti paesi hanno preso impegni concreti per la riduzioni delle emissioni di gas serra, comparti del capitalismo globale come quello dell’automobile investono da anni nelle ibride con la prospettiva di abbandonare il motore a scoppio nei prossimi decenni. Anche le compagnie aeree progettano velivoli che consumino e inquinino di meno. Si potrebbe fare di più e si dovrebbe farlo più in fretta. Ma il populismo climatico non aiuta certo questa battaglia.

La Natura malvagia ignora il buonismo. Massimiliano Parente il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Che coro, dopo la tragedia della Marmolada, per dire che l'uomo è cattivo e la Natura è buona. Su Repubblica c'è Paolo Cognetti: «Noi, i nemici della natura». Non poteva mancare il Papa: «Prego per le vittime, si rispetti la natura». Su La Stampa c'è Mario Tozzi: «c'è un solo colpevole, noi Sapiens».

A parte che sapiens si scrive con la minuscola, Homo sapiens (definizione che ci siamo dati da soli) ma vorrei soffermarmi sull'idolatria per la Natura e sull'uomo cattivo. Noi sapiens infatti ci siamo da appena duecentomila anni, su quattro miliardi di anni di vita sulla Terra. Molto più del novanta per cento delle specie esistite negli ultimi seicento milioni di anni si sono estinte prima che apparisse l'uomo. Chi le ha sterminate? La Natura, cari miei. Questo pianeta ne ha viste di tutte, glaciazioni, surriscaldamenti, terremoti, inversione dei poli magnetici, e chi più ne ha più ne metta. Si contano, nelle ultime centinaia di milioni di anni, cinque grandi estinzioni di massa, la prima di 450 milioni di anni fa, tra l'Ordoviciano e il Siluriano, causata da imponenti glaciazioni. Tutti ricordiamo i dinosauri, che hanno dominato questo pianeta per più di centocinquanta milioni di anni, e si sono estinti sessantotto milioni di anni fa, a causa di un enorme asteroide, anche lui un grande esponente della Natura.

È colpa dell'uomo? Il surriscaldamento globale? Lo risolveremo con la tecnologia, ossia con il nucleare, andando contro la Natura (mentre le emissioni di CO2 sono emesse per lo più dalle vecchie centrali a carbone, dagli antichi fuochi, glielo vada a spiegare Greta ai paesi in via di sviluppo che hanno solo quelle). Così come nell'ultimo secolo abbiamo triplicato la nostra vita media grazie alla scienza e alla medicina, e sì, grazie anche anche a Big Pharma, che combatte la Natura. Gli antibiotici? Combattono la Natura, come i vaccini. Lo abbiamo visto con il Covid, con l'Hiv, prima ancora con la peste, con il vaiolo. Quanto ci piacciono i miracoli della Natura, che sono sempre una grande svista. Se dovessimo rispettare la Natura, dovremmo tenerci anche un tumore, è perfettamente naturale. Lo dico anche per i religiosi, con tutto il rispetto (la Natura come creazione di un essere superiore): ma come, l'essere superiore ti chiama a sé mandandoti un tumore e tu opponi resistenza?

A proposito: vi consiglio la visione su Netflix di Supernature, di uno dei più grandi comici mondiali, Ricky Gervais, che prende in giro coloro che, quando un loro parente sta male, pregano. «Pregate pure, ma non interrompete la chemio. Tanto il risultato sarebbe lo stesso anche senza preghiere, ma non senza chemio». Alla Natura di noi sapiens non può fregare di meno, anche perché la Natura non è una persona (personifichiamo tutto, si legga il libro Nati per credere di Telmo Pievani, Giorgio Vallortigara e Vittorio Girotto, edito da Codice Edizioni). Tuttavia, se la Natura fosse una persona, sarebbe molto peggio di Hitler, stermina tutto, animali umani e non umani. Per questo la combattiamo ogni giorno, salvo dire di amarla perché tanto sapiens non siamo.

Il dibattito sul disastro. Cosa ha provocato la tragedia della Marmolada, il teorema di Bayes per evitare altre catastrofi. Valerio Rossi Albertini su Il Riformista il 12 Luglio 2022 

A “Qualcuno gli avrebbe dovuto impedire di avventurarsi, faceva troppo caldo”

B “Ma no, non era mai successo niente, come si poteva prevedere una sciagura del genere?”

A “Il custode del rifugio aveva avvisato di aver sentito scrosci d’acqua provenire dal ghiacciaio”

B “Non è la prima volta che ghiacciai innocui producono molta acqua di fusione”

A “E allora come te lo spieghi che il magistrato ha aperto un fascicolo contro ignoti per disastro colposo?”

B “Appunto, è contro ignoti, non si sa chi dovrebbe essere il responsabile”

A “Però, se sono state avviate delle indagini, si suppone che delle responsabilità ci siano”

B “No, in casi di questo tipo è un atto dovuto, il magistrato non può ignorare la morte di tante persone in modo così inconcepibile”

A “Se c’era anche un remoto sospetto, e le alte temperature inducevano a sospettare, si doveva vietare l’accesso”

B “Allora dovremmo vietare tutto. Il <<rischio zero>> non esiste nella vita, tanto meno quando si sfida la Natura”.

Questo, più o meno, è il tenore del dibattito scatenato dalla tragedia della Marmolada. Argomento “polarizzante e divisivo” come si usa dire oggi. Una disputa tra i sostenitori delle ragioni della libertà e quelli della sicurezza. Eppure stavolta non è solo questione di filosofia di vita e di sensibilità personale. E’ una questione che attiene alle modalità razionali di eseguire la scelta migliore, avendo a disposizione solo informazioni parziali. E di questo voglio parlare oggi, perché è un problema di capitale importanza che si ripresenterà più e più volte nel corso dei prossimi anni: Fare scelte che riguardano situazioni nuove, mai verificatesi prima nella storia passata e che non dipendono dalla nostra volontà, come invece sarebbe, ad esempio, l’esplorazione di terre sconosciute o la dichiarazione di guerra con armamenti mai usati prima. Su cosa basiamo le nostre decisioni? Se abitiamo ad un piano alto di un condominio, avremo disceso le scale del nostro palazzo migliaia di volte. Sappiamo che non si corre in discesa, che bisogna essere cauti se sono appena state fatte le pulizie e i gradini sono sdrucciolevoli, che i passi devono avere pressappoco la stessa ampiezza per non mettere il piede in fallo. Lo sappiamo così bene che ormai lo abbiamo metabolizzato. Non abbiamo più bisogno di riflettere su come si devono scendere le scale, lo sappiamo fare e tanto ci basta.

Ma se un giorno, scendendo con tutte le precauzioni ormai acquisite, un gradino cedesse e sprofondassimo fino alla rampa inferiore, cosa dovremmo concludere? Che siamo stati imprudenti e stavolta avremmo dovuto ispezionare i gradini? Magari ci poteva essere capitato di sentire qualche giorno prima una vibrazione del pavimento, ma non gli avevamo dato peso, perché poteva essere dovuta al passaggio di un mezzo pesante. Oppure allo scuotimento prodotto da un tuono lontano o da una piccola scossa di terremoto, di quelle che non vengono neanche segnalate dagli osservatori sismologici. E invece era stato un cedimento strutturale… Lo avevamo sentito il segnale. Quindi siamo stati imprudenti a sottovalutarlo? Cosa avremmo dovuto fare? Ebbene c’è una risposta scientificamente ortodossa per rispondere a questa domanda, che prescinde dalle opinioni soggettive. Su cosa basiamo le nostre decisioni? Se affrontiamo una questione completamente nuova, ci dobbiamo basare sullo studio delle caratteristiche della situazione e sulla valutazione logica dei rischi e dei benefici. Se invece si tratta di una questione ormai sperimentata tante volte, ci baseremo sull’esperienza: la memoria degli esiti passati ci fornisce le istruzioni su come comportarci razionalmente nel presente.

Il sentiero al di sotto del ghiacciaio della Marmolada era stato percorso dagli escursionisti per oltre un secolo e mezzo. La raccomandazione ovviamente era di essere cauti, seguire il tracciato, calzare scarpe adatte, non camminare sul ciglio, seguire le orme del capofila. Camminare su una pista ghiacciata comporta sempre qualche pericolo e bisogna essere vigili. Però erano prescrizioni simili a quelle per scendere le scale senza cadere. La mole di dati raccolti nel tempo, inclusa la casistica di incidenti che si saranno sicuramente verificati, ma di natura completamente diversa rispetto al crollo del seracco del 3 luglio scorso, ci diceva che non c’erano solidi motivi per ipotizzare una tale catastrofe. E il caldo anomalo allora? Il caldo anomalo è un fattore rilevante, ma da solo non giustificava la confutazione dell’archivio storico. Ora però le cose sono cambiate. Ora sappiamo che quello che non era mai accaduto, oggi può accadere. E allora dobbiamo aggiornare l’elenco delle informazioni tenendo conto della nuova conoscenza acquisita. Questa non è un’opinione, ma un teorema matematico: il teorema di Bayes. Il teorema di Bayes ci dice come dobbiamo modificare la nostra fiducia nella possibilità che accada un certo evento, sulla base del risultato di una nuova prova.

Se vedessimo un sasso fluttuare inspiegabilmente nell’aria, supporremmo che si tratta di un abbaglio, di uno scherzo, o magari di un fenomeno naturale che contrasta la forza di gravità. In ogni caso concluderemmo che ci deve essere una spiegazione che ancora non conosciamo, ma sicuramente i sassi non possono restare sospesi a mezz’aria. Però, se in un futuro remoto qualcuno riuscisse ad inventare un sistema antigravità, allora la nostra fiducia nell’affermare che vedendo un sasso sospeso si tratti di uno scherzo o una traveggola, non sarebbe più così salda. L’inventore potrebbe essere venuto a fare i suoi esperimenti nel posto in cui ci troviamo… E allora, per limitarci alle Alpi, quali nuove evidenze sperimentali abbiamo che la situazione sta cambiando drasticamente e che dobbiamo aggiornare i nostri registri? Il ritiro dei ghiacciai è un segnale inequivocabile, ma non è un evento improvviso e imprevisto. Procede senza sosta da decenni, anno dopo anno le rocce si scoprono e le lingue di ghiaccio arretrano verso l’alto. Analogamente altri fenomeni legati all’aumento di temperatura, come l’innalzamento della quota a cui sopravvivono alcune piante alpine e alcuni insetti.

Però almeno un altro caso straordinario, e devastante, si è verificato nel recente passato. La tempesta, poi denominata “Vaia”, che il 28 ottobre del 2018 abbattè milioni di alberi in una zona prossima alla Marmolada. All’inizio si parlò di una tromba d’aria anomala ma, ad un’analisi seguente più accurata, risultò essere con certezza una tempesta tropicale. Infatti i venti non seguivano una traiettoria circolare, ma rettilinea, con raffiche oltre i 200 km/h. Ed erano caldi! Si trattava proprio di una tempesta tropicale. Tuttavia, questo genere di fenomeni si verifica a fine estate ai tropici -da cui il nome- seguendo una direttrice est-ovest. “Vaia” invece, pur avendo caratteristiche analoghe, si era scatenata a metà autunno, lontano dai tropici (le Alpi, anche se di poco, sono più vicine al Polo Nord, che all’Equatore) e lungo l’asse sud-nord. Quindi era sì una tempesta tropicale, ma una tempesta tropicale che aveva perduto la strada… Cicerone in Senato rivolto a Catilina esordisce dicendo: Quo usque tandem…? E io gli faccio eco: fino a quando aspetteremo per prendere coscienza e provvedere secondo ragione, come insegna Bayes? Non c’è due senza tre. E tutto lascia presagire che non ci fermeremo a tre. Valerio Rossi Albertini

Marmolada, il precedente dei 300 sepolti all’interno della Città di Ghiaccio. Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2022.

Nel 1916, durante la prima guerra mondiale, una massa nevosa stimata in più di duecentomila metri cubi si staccò da Punta Rocca e si abbatté sul Gran Poz: 300 soldati furono travolti. Lo storico Simonetti Federspiel: «In montagna il rischio è ineliminabile» 

Esiste un precedente storico terribile a quello della Marmolada: i 300 soldati che durante la prima guerra mondiale furono travolti da un’enorme valanga di neve. Sul versante settentrionale della Marmolada si trova infatti un vasto pianoro che durante la Grande Guerra ospitava un villaggio di baracche che rappresentava il più importante centro di smistamento dei rifornimenti destinati alle postazioni austriache in quota sulla in Marmolada e che giungevano tramite teleferica da Pian Trevisan. La posizione appariva sicura ai comandi austriaci in quanto defilata dal tiro diretto degli italiani. Ma rimasero inascoltati i suggerimenti del Referente Alpino, l’ingegner Leo Handl, l’ideatore della Città del Ghiaccio sulla Marmolada.

La creazione della “Eisstadt”

Michele Simonetti Federpiel, storico della Grande Guerra, creatore della bellissima Mostra permanente “La Gran Vera” a Moena di Fassa e autore del volume “1914-1918 La Gran Vera”, racconta: «Per cogliere di sorpresa il nemico e conquistare anche solo qualche metro sulla linea di difesa, nella Grande Guerra i soldati di entrambe le parti con i loro generali avevano impiegato i mezzi e le armi più innovative per l’epoca, ricorrendo anche alle strategie più ingegnose. Una di queste fu certamente la Eisstadt, o “Città di Ghiaccio”, ideata nel 1916 dal tenente e ingegnere austriaco Leo Handl ma progettata qualche mese più tardi. Si trattava di uno straordinario sistema di gallerie e cunicoli scavati nei ghiacci per ovviare al pericolo dei camminamenti esterni, troppo esposti al tiro delle mitragliatrici e alle valanghe. L’idea di realizzare una Città di Ghiaccio nacque una notte del maggio del 1916 quando Handl con altri sei dell’armata austriaca, impegnato a difendere il Ghiacciaio della Marmolada, per sottrarsi al fuoco delle truppe italiane appostate lungo la Cresta di Seratura, si calò in un crepaccio. In quell’ampia fenditura, il tenente-ingegnere appassionato di alpinismo scoprì con stupore di poter sfruttare lo spazio sotto la superficie per avanzare più speditamente verso le postazioni nemiche restando al riparo dei proiettili e delle avversità atmosferiche».

Vivere e dormire tra i cunicoli di ghiaccio

Dure, ma sopportabili le condizioni di vita nella Città del Ghiaccio. Federspiel spiega: «Le temperature all’interno delle caverne erano comprese tra 0 e 5° C, assai più tollerabili rispetto al freddo pungente che in inverno arrivava a toccare anche i -30°C. Handl così iniziò a progettare una vera e propria fortezza di corridoi sviluppatasi fino a 12 km, ad una profondità di 60 metri, dove poter mangiare, dormire, depositare le munizioni e far riposare anche 200 i soldati. Sebbene fosse molto difficile vivere in quella Città sotterranea tra l’umidità e la paura di restare inghiottiti dai ghiacci, l’idea di Handl permise di salvare molte vite umane e restò una vera roccaforte fino a quando, con la sconfitta di Caporetto e il conseguente spostamento a sud del fronte, la Città fu abbandonata. Soltanto lo scioglimento del Ghiacciaio della Marmolada ha riportato in superficie i tanti reperti, utensili, oggetti di quel periodo che oggi sono conservati nel Museo della Marmolada, il più alto d’Europa, situato a quasi 3.000 metri di altitudine. Ma prima che tutto questo avvenisse scoppiò, nel 1916, il dramma»

La tragedia

Anche nel 1916 si crearono infatti condizioni climatiche anomale. Fu l’inverno più nevoso di quel secolo. Lo storico della Grande Guerra racconta: «Le abbondantissime nevicate che fin dall’autunno del 1916 interessarono tutto l’arco alpino fecero crescere in maniera preoccupante il manto nevoso, tanto che il capitano austriaco Leo Handl propose di trasferire altrove all’interno della “Città di Ghiaccio” la guarnigione dislocata al Gran Poz. Le baracche al Gran Poz erano a rischio valanghe, andavano spostate, disse l’ingegnere. Tale richiesta fu, però, respinta dai comandi austriaci. Il 12 dicembre 1916, dopo una settimana di nevicate copiose, la temperatura iniziò a crescere ed iniziò a piovere; all’alba una massa nevosa stimata in più di duecentomila metri cubi si staccò da Punta Rocca e si abbatté su Gran Poz, seppellendo nel sonno trecento soldati. Lo spostamento d’aria fu così violento da scagliare una baracca ed i suoi occupanti a più di un chilometro di distanza. I soccorritori riuscirono ad estrarre vivi cinquanta uomini, gli ultimi dei quali a ben cinque giorni dall’evento. Quella del 2 luglio, quindi non è purtroppo l’unica valanga che ha causato delle morti in Marmolada. Nel 1916, infatti, nel pieno della Prima Guerra Mondiale, quei trecento soldati austriaci vennero seppelliti e uccisi da un’enorme massa di neve che si staccò improvvisamente dai costoni della montagna, per finire sul villaggio della riserva al Gran Poz».

Il valore della memoria

Chi vuole rendere omaggio alle vittime del 2 luglio può farlo riconnettendosi idealmente alle 300 vittime del 1916 attraverso un bellissimo percorso a piedi. Ovviamente chi lo intraprende, data la recente tragedia, dovrà accertarsi presso gli uffici locali competenti, che pur non essendo contiguo all’area del disastro non sia sottoposto in questi giorni a limitazioni o divieti. Simonetti Federspiel lo illustra: «Dal Museo della Grande Guerra di Passo Fedaia, superata la stazione della bidonvia per Pian dei Fiacconi si imbocca il sentiero n° 619 e ci si dirige verso il vasto ripiano boschivo della “ciamorciàa”. Si percorre una stretta gola diffusamente incisa dai fenomeni di erosione dell’acqua di disgelo (le cosiddette “marmitte dei giganti”). Si prosegue tenendosi sulla destra fino a raggiungere un altro ripiano erboso dove sono ancora evidenti i resti dei baraccamenti. In particolare si trova una cucina in muratura in buono stato di conservazione e i basamenti dei baraccamenti con i loro ancoraggi. Si prosegue su tracce di sentiero militare fino a raggiungere alcune cenge attrezzate con fune metallica e passerelle di legno fino a raggiungere la forcella del Col de Bous. È un percorso tranquillo e non esposto a crolli e valanghe, ma in questo periodo serve comunque prudenza».

L’inevitabilità del rischio in montagna

Conclude Simonetti Federspiel, esperto storico e lui stesso alpinista: «La montagna oggi come allora è più forte dell’uomo, chi la affronta, seriamente, consce il suo volto crudele, sa di affrontare l’immenso e l’imponderabile. Voler controllare anche questo con leggi e regolamenti toglie la libertà all’uomo e all’alpinista di vivere la sua avventura. Chi parte sa di poter non rientrare e questo rischio è ben insito nel cuore di chi affronta la gioia della salita, o sa di poter andare incontro alla morte. Inutili le inchieste - contro chi? - è una scelta, quella di salire. La montagna non è una strada asfaltata piena di curve con i segnali e non potrà mai esserlo perchè i segnali saranno spazzati via dalla natura. Altra cosa sono quei 300 ragazzi mandati a combattere, obbligati a combattere e finiti sotto la coltre nevosa per sempre».

"Un iceberg caduto dal cielo". Quella valanga che uccise 88 persone. Rosa Scognamiglio il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il 30 agosto 1965 una valanga di ghiaccio rase al suolo gli alloggi degli operai che stavano costruendo la diga di Mattmark (Svizzera). Tra le vittime ci furono 56 italiani

Ottantotto morti di cui 56 italiani. Fu il bilancio della tragedia di Mattmark, la più grande catastrofe naturale nel recente passato della Svizzera. Una valanga di ghiaccio travolse le baracche del cantiere di Mattmark, a Saas Fee, nel Canton Vallese, dove alloggiavano gli operai edili impegnati nella costruzione della diga omonima. Diciassette persone furono accusate di omicidio colposo salvo poi essere successivamente assolte con formula piena. La sentenza suscitò un grande clamore mediatico sia in Italia che all'estero, al punto da sollecitare una concitata mobilitazione sindacale e politica.

A cinquantasette anni dal tragico evento, resta ancora una domanda irrisolta: la catastrofe si poteva evitare?

La valanga di ghiaccio

"Un iceberg caduto dal cielo". Fu così che un superstite definì la copiosa valanga di ghiaccio (due milioni di metri cubi il peso stimato del blocco con anche i detriti) che si schiantò sugli alloggi di Mattmark mietendo morti e feriti. La catastrofe si verificò pressappoco alle ore 17.20 di lunedì 30 agosto 1965: un enorme pezzo del ghiacciaio Allalin, nella Valle di Staal, si staccò dalla massa restante precipitando in caduta libera su case, mezzi di lavoro e persone. Il bilancio dell'evento, dopo giorni di accertamenti e ricerche, fu drammatico: 88 morti (86 uomini e due donne), dei quali 56 italiani, 2 svizzeri, 4 spagnoli, 2 tedeschi, 2 austriaci e una persona senza fissa dimora. Ulteriori dettagli furono messi nero su bianco dalla direzione del Suva (l'Ente svizzero che si occupa di prevenzione, assicurazione e riabilitazione al lavoro): "37 non sposati, 51 sposati, di cui 41 con figli aventi diritto alla rendita". A costoro si aggiunsero 5 vedove e "una sposa in attesa". Il 1°settembre successivo, il quotidiano svizzero Le Nouvelliste pubblicò l'elenco completo di tutte le vittime: i nomi di una strage che fu presto dimenticata.

Le indagini

Subito dopo la catastrofe, le autorità locali si attivarono per accertare la dinamica dell'accaduto e valutare eventuali responsabilità. Nelle indagini furono coinvolti anche tre esperti geologi e glaciologi provenienti da Germania, Francia e Austria a cui fu affidato il compito di stilare un rapporto tecnico che fu ultimato nel 1968, tre anni dopo la tragedia. Nel 1971, diciassette persone vennero indagate con l'ipotesi di reato per omicidio colposo. Si trattò di alcuni funzionari della Elektro-Watt AG (la società che gestiva i lavori di costruzione della diga), ingegneri e imprenditori, impiegati dei servizi sociali del Canton Vallese, un professore di glaciologia e due collaboratori del Suva, l'ente svizzero che si occupa di prevenzione, assicurazione e riabilitazione al lavoro. Al tribunale del circondario dell'Alto Vallese, riunitosi nel febbraio del 1972, il procuratore chiese di comminare multe e altre sanzioni pecuniarie ai presunti responsabili. A marzo dello stesso anno, però, il tribunale assolse tutti gli imputati. Nelle motivazioni della sentenza, un fascicolo di 82 pagine, i giudici scrissero che non poteva essere attribuita alcuna responsabilità agli imputati poiché una catastrofe di quella portata non era prevedibile.

Le reazioni

La sentenza suscitò un grande clamore mediatico e politico sia in Svizzera che in Italia. I sindacalisti s'indignarono ritenendo che i migranti fossero trattati "come lavoratori di secondo livello". A Ginevra centinaia di operai scesero in piazza chiedendo giustizia per le vittime di Mattmark e reclamando condizioni di lavoro più dignitose per gli operai. Le reazioni, e l'eco mediatico che ebbero le contestazioni, furono tali da sollecitare ricorso al tribunale cantonale di Sion. Ma anche nella seconda istanza i giudici confermarono l'assoluzione completa per tutti gli imputati. Il processo si concluse tra il 27 e il 29 settembre del 1972. Le parti civili furono condannate al pagamento di circa la metà delle spese processuali.

Il retroscena della tragedia

Nei giorni precedenti alla tragedia, alcuni operai che lavorarono alla costruzione della diga di Mattmark segnalarono il distacco di alcuni blocchi dal ghiacciaio di Allalin. Le segnalazioni, però, rimasero inascoltate. Perché? Come ben riporta il sito del Suva, al tempo si ipotizzò che la Elektro-Watt AG avesse rifiutato di prendere provvedimenti data la necessità di ultimare la diga prima dell'arrivo dell'inverno ed evitare il rischio di sanzioni penali. Ma non è tutto. Gli alloggi in cui vivevano gli operai erano stati costruiti lungo la linea di massima pendenza del ghiacciaio. Per quale motivo le autorità avevano concesso i permessi per costruire? Furono prese in considerazione le eventuali variazioni climatiche?

Secondo uno studio condotto dal alcuni ricercatori dell'università di Ginevra nel 2015, poi raccolte in un libro pubblicato in occasione del 50esimo anniversario della tragedia ("Mattmark 50 anni dopo. Un'analisi socio-storica", il titolo dell'opera) esistevano dei piani di emergenza che la Elektro-Watt AG "elaborava con cadenza annuale" ma interessavano solo le strade di accesso e non la zona delle baracche. A onor del vero, gli autori dell'approfondimento scrissero anche che gli operai del tempo "si adattavano a situazioni abitative pessime" rendendosi disponibili a lavorare anche con turni massacranti di 15/16 ore al giorno e con temperature fino a meno 30 gradi.

L'indagine condotta dai ricercatori svizzeri non fu l'unica a mettere in dubbio l'attendibilità delle sentenze "presumibilmente errate" - si legge sul sito del Suva - del tribunale. Il rapporto stilato dagli esperti nel 1968 potrebbe confutare una parte delle conclusioni a cui giunsero le autorità dell'epoca, almeno per quel che riguarda la prevedibilità della valanga di ghiaccio. Gli atti sono ancora secretati ma quest'anno scadrà il termine di protezione dei 50 anni per gli incarti giudiziari del Canton Vallese. E allora, forse, si metterà la parola fine a questa tragica vicenda.

Le 31 vittime di Galtür e i 29 straziati a Rigopiano. Matteo Basile il 5 Luglio 2022 su Il Giornale.

Due slavine in inverno hanno avuto un bilancio peggiore. La devastazione della neve in eccesso.

Non sarà l'ultima devastante frana, soprattutto considerato lo stato di erosione che sta colpendo i ghiacciai delle vette alpine. Certamente non è stata la prima. Ma sicuramente sarà tra le più devastanti di sempre con un enorme pegno di vite umane pagato alla fragilità della montagna. Secondo i dati di Cnr-Irpi, negli ultimi vent'anni sulle Alpi italiane si sono registrati più di 500 processi di instabilità naturale, tra frane, slavine e cedimenti e la situazione, a sentire esperti e climatologi, è destinata a peggiorare ancora. Così come il tragico bilancio delle vittime, con le ricerche dei dispersi ancora in corso, complicate dalle condizioni meteo è destinato ad aggravarsi e a far diventare la tragedia della Marmolada una delle peggiori della storia della montagna italiana ed europea.

Nella memoria del nostro Paese è ancora indelebile la strage di Rigopiano del 18 gennaio 2017. A Farindola, in Abruzzo, una slavina investì in pieno l'albergo Rigopiano - Gran Sasso Resort, causando 29 vittime, la peggior tragedia di sempre sulle montagne dell'Appennino. L'ondata di freddo aveva provocato nevicate abbondanti isolando alcuni comuni dell'Appennino centrale e un allarme valanghe era stato emanato proprio per quei giorni. L'enorme valanga travolse la struttura, sfondando le pareti e spostandola di circa dieci metri a valle. L'allarme, lanciato dall'albergo, venne inizialmente sottovalutato ritardando i soccorsi già complicati dalle interruzioni stradali dovute al maltempo. Delle 40 persone presenti nell'hotel, 28 ospiti (di cui 4 bambini) e 12 membri del personale, solo in 11 riuscirono a salvarsi.

Una tragedia ancora peggiore, in termini di vittime, nel 1999 in Austria, quando Galtür, piccolo centro sciistico di 700 abitanti, venne quasi completamente distrutto. Era il 23 febbraio quando dopo giorni e giorni di nevicate che avevano portato a oltre 4 metri l'accumulo al suolo, una valanga si abbatté sul paese distruggendo gran parte delle abitazioni. Le vittime furono 31 oltre a decine di feriti salvati dopo essere rimasti intrappolati tra i detriti.

La Marmolada stessa si porta dietro una storia di tragedie. Nel 1916, durante la Grande Guerra, i genieri dell'esercito austroungarico avevano ideato una vera città di ghiaccio, un complesso di gallerie, dormitori e depositi per collegare le postazioni in quota. Ma il 12 dicembre 1916, dopo abbondanti nevicate, la richiesta di trasferire i soldati venne ignorata e un'enorme valanga sotto Punta Penia travolse baracche e accampamenti causando la morte di almeno 300 soldati per quello che nella storia rimane il maggior disastro causato da una valanga.

Ma non sempre una valanga è stata sinonimo di tragedia. La fatalità a volte è stata evitata. È il caso del 5 dicembre 2020, quando il distaccamento di un fronte di neve distrugge il rifugio Pian dei Fiacconi, sopra il Lago Fedaia, a quota 2.626 metri. Le forti nevicate dei giorni precedenti avevano spinto a chiudere le strade e gli accessi al rifugio, solitamente molto frequentato da sciatori e alpinisti, evitando un'inevitabile strage. Il fato che interviene, come nel marzo 2010 quando una coppia di turisti austriaci rimane miracolosamente illesa dopo essere stata travolta da una valanga. L'8 dicembre 2011 tre bresciani furono coinvolti da una slavina e se la cavarono solo con qualche frattura. Anche nel 2014, questa volta a maggio, altre quattro persone furono soccorse e salvate sotto la neve. Sempre a maggio, nel 2009, due escursionisti veneti trovarono invece la morte. La montagna è così: sa essere bellissima, a volte magica. Ma anche tremendamente crudele.

·        Gli Incendi.

L'Italia brucia, chi la spegne? Vigili del fuoco: pochi, senza mezzi e acqua. Emergenza incendi: l'anticiclone Caronte e la siccità infieriscono sul Paese. GIAMBATTISTA PEPI Il Quotidiano del Sud il 2 Luglio 2022. 

COME il nocchiero dell’oltretomba, l’anticiclone Caronte traghetta il Paese in un inferno di fuoco e la siccità le dà il colpo di grazia. Ci sono le condizioni ideali per lo scoppio degli incendi: sono oltre 9mila gli ettari bosco e sotto bosco distrutti dalle fiamme nel primo semestre dell’anno, più che raddoppiati rispetto alla media storica e i vigili del fuoco denunciano: siamo pochi, senza mezzi e con l’acqua ridotta a causa della siccità per spegnerli.

L’emergenza incendi è monitorata da Copernicus, il programma di osservazione della Terra dell’Ue, che ha registrato una situazione di “pericolo estremo” per i roghi in Sicilia, Sardegna, Basilicata, Calabria, Puglia, Campania, Lazio, Toscana, Umbria, Marche e Molise. Ma lo scenario rimane critico anche in altre aree del Paese: dalla Liguria all’Emilia-Romagna.

Ogni rogo – secondo dati della Coldiretti – costa agli italiani oltre 10mila euro all’ettaro fra spese immediate per lo spegnimento e la bonifica e quelle a lungo termine per la ricostituzione dei sistemi ambientali ed economici in un arco di tempo che raggiunge i 15 anni. Ma al momento il problema più grave è rappresentato dall’allarme lanciato dai vigili del fuoco che denunciano gravi carenze di personale, pochi automezzi e scarse attrezzature. Gli incendi sono una gravissima minaccia per l’ambiente, un vero e proprio scempio.

Durante il 2021 misero a dura prova l’ambiente e i vari territori, un anno da record. Secondo dati forniti dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale del ministero della Transizione ecologica, lo scorso anno fu bruciato il triplo degli ettari del 2020, colpendo soprattutto il Mezzogiorno (Sicilia e Sardegna su tutte) precisando che negli ultimi vent’anni, il 40-50% del territorio colpito da incendio è costituito da foreste. Poiché un terzo del territorio nazionale è ricoperto da foreste (circa 8,5 milioni di ettari) nel 2021 è dunque andata perduta una superficie pari allo 0,5% (quanto il Lago di Garda). E il 2022 rischia di andare peggio perché oltre alle temperature da record si è aggiunta una drammatica siccità che sta colpendo soprattutto l’Italia settentrionale e centrale, con il Po sotto di nove metri.

A questo proposito va registrato l’intervento sollecito del governo. “Il governo è pronto ad intervenire per limitare gli effetti nefasti – economici e sociali – che l’eccezionale ondata di siccità sta causando nel nostro Paese. Nei prossimi giorni il Consiglio dei ministri prenderà decisioni importanti e coraggiose”, dice Mariastella Gelmini, ministro per gli Affari regionali e le Autonomie.

“È indispensabile utilizzare al meglio la poca acqua che abbiamo in questo momento, dando priorità agli usi potabili e a quelli agricoli. Le Regioni – spiega Gelmini – hanno fatto finora un ottimo lavoro. Ma il protrarsi della crisi idrica impone un intervento del governo, sia per contemperare i diversi interessi, sia per introdurre norme straordinarie in un momento straordinario”.

La situazione degli incendi si presenta drammatica anche quest’anno secondo un provvisorio consuntivo di Europa Verde. Una brutta pagina della nostra storia anche sul fronte della fauna selvatica, con perdite pesanti per quanto riguarda volpi, scoiattoli, ricci, cervi, caprioli, falchi, passeri, capinere, lucertole, tartarughe, salamandre e ghiri. In Italia come nel resto del Mediterraneo è l’uomo la principale causa di incendi sottolinea, a sua volta, il WWF, secondo il quale circa il 96% degli incendi sono legati alle attività antropiche. Le cause sono in buona parte riferita ad atti dolosi, per convertire le aree verdi in monocolture o con finalità edilizie.

A questi si aggiungono quei roghi derivati da negligenza o da altre cause accidentali. Rientrano nelle casistiche appena indicate i vari tentativi, più o meno maldestri, di cucinare all’aperto accendendo fuochi sul posto oppure la pratica ancora troppo diffusa di “gestire” i campi utilizzando le fiamme. Come dimenticare poi i cambiamenti climatici, come il caldo estremo e i periodi sempre più frequenti di siccità che da anni interessano le regioni cosiddetto temperate come il nostro Paese. L’aumento della temperatura crea le condizioni ideali affinché i semplici incendi diventino dei cosiddetti “mega-incendi”.

Si tratta di incendi che assumono connotazioni di particolare gravità ed estensione, minacciando in maniera severa il patrimonio naturale. Alla luce delle cause citate e delle difficoltà che ogni anno l’Italia affronta nel tentativo di minimizzare i danni causati dagli incendi, ecco che la prevenzione assume un ruolo di primo piano. I cambiamenti climatici sono in atto, e a meno di rapide ed efficaci misure non sono previste inversioni di tendenza nel prossimo futuro. Ciò vuol dire che le ondate di calore diventeranno più intense e frequenti, favorendo la desertificazione e affermandosi sempre più come fattori di rischio per gli incendi.

Gravissimo, secondo Europa verde, che il 44% dei comuni non abbia presentato la richiesta del catasto degli incendi, fondamentale per segnalare le zone colpite dalle fiamme e vincolarle per il futuro: uno dei modi più efficaci per “spegnere” gli appetiti della speculazione edilizia, agricola e pastorale. Un ulteriore segnale che c’è ancora tanto da lavorare sulla prevenzione.

·        Le Eruzioni.

ANNA GUAITA per il Messaggero il 16 gennaio 2021.

Le immagini catturate dai satelliti fanno pensare a un'esplosione nucleare. Nel cuore della Polinesia, ieri, a scuotere le profondità oceaniche e le isole di quei mari cristallini è stato invece un vulcano, l'Hunga Tonga-Hunga Haapai, da settimane irrequieto e ieri nel pieno della sua rabbia. 

La forza dell'eruzione ha creato un serio rischio tsunami in numerosi Paesi che si affacciano sul Pacifico, a partire dalle altre isole della Polinesia, fino all'Australia e la Nuova Zelanda a ovest e a est su tutte le coste dell'America del sud e del nord oltre che alle Hawaii. 

Si temevano anche forti correnti anomale, che potevano mettere a rischio anche imbarcazioni. Onde di almeno un metro si sono infrante sulla costa delle isole Tonga, hanno invaso le strade della capitale Nakù Alofa e sono arrivate anche alle Samoa, fin dento la città di Pago Pago. 

Nel pomeriggio piccole inondazioni si registravano in vari dei Paesi affacciati sul Pacifico, con onde di 30 centimetri in Alaska e in California, ma si aspettava l'arrivo di una seconda serie di onde che poteva essere più pericolosa. Il vulcano era tornato attivo a dicembre e la popolazione era già in stato di allerta. A dicembre ad esempio era stato diramato un allarme sul rischio che l'acqua delle coste fosse diventata acida per via delle eruzioni subacquee del vulcano.

Ma l'eruzione di ieri è stata di entità anomala, almeno sette volte più grande di quelle precedenti. Solo risalendo indietro nel tempo al dicembre del 2014 si trova un'eruzione quasi altrettanto grave e allora la nuvola di fumo e detriti fu tale che per oltre una settimana i voli sul Pacifico dovettero essere deviati. 

Secondo i vulcanologi dell'Università di Aukland, l'attività vulcanica di ieri rappresenta la più severa degli ultimi dieci anni. La scossa ha generato una colonna di fumo, vapore e cenere alta quasi 20 chilometri, con un diametro di oltre 200 chilometri. La nuvola ha coperto e oscurato le isole dell'Arcipelago, accompagnata anche da una pioggia di sassolini e detriti. Nella nazione di Tonga la situazione rimane ancora grave, manca la luce elettrica e non ci sono collegamenti telefonici.

NESSUNA VITTIMA Finora non si hanno notizie di vittime, ma le comunicazioni si sono interrotte circa un'ora dopo l'inizio dell'eruzione, quando il cavo che unisce l'arcipelago a Fiji è saltato. 

Ci sono immagini su Twitter e altri social che provengono dall'isola principale dell'Arcipelago, Tongatapu, nelle prime fasi dell'eruzione, che dimostrano la forza dell'acqua che penetra in case e costruzioni, e anche in una chiesa, nella città dì Nakù Alofa.

La popolazione lungo la costa è fuggita quando sono suonate le campane dell'allarme, e molti sono stati evacuati dall'esercito, incluso il re, Tupou VI, il cui palazzo reale è vicino all'acqua, che è stato scortato da una colonna dell'esercito e della polizia. 

Le isole sono in gran parte piatte quindi l'unica salvezza è stata di addentrarsi verso l'interno. I militari hanno distribuito acqua minerale, nel timore che la fuliggine e la cenere avessero inquinato le riserve idriche. Il regno di Tonga è una nazione di rara bellezza, composta di 169 isole, poco sfruttate dal turismo, a est dell'Australia e a 1800 chilometri a nord della Nuova Zelanda. E' formata da tre gruppi di isole, di cui il più popoloso è quella a sud, raggruppato intorno a Tongatapu. Il vulcano si trova a 65 chilometri da quest' isola, la principale di tutto l'arcipelago di Tonga. L'eruzione di ieri è durata 8 minuti. 

Un gruppo di scienziati dei Tonga Geological Services hanno registrato «massicce esplosioni, tuoni e lampi intorno al vulcano dopo che era cominciata l'eruzione». Secondo la testimonianza di un abitante dell'isola, il dottor Faka' iloatonga Taumoefolau, che ha postato immagini su Twitter: «Si può letteralmente sentire il rumore del vulcano che erutta, ed è un rumore ben violento. Piovono cenere e sassolini, il buio ci ha avvolti». Una signora residente di Tongatapu, Mere Taufa, ha descritto l'acqua che entrava nella sua casa: «Entrava a onde, mentre sentivamo esplosioni tutt' intorno. Mio fratello era convinto che fossero bombe!»

Vittorio Sabadin per lastampa.it il 17 gennaio 2022.

Le isola di Tonga sono sparite dal mondo dopo l’eruzione di un vulcano sottomarino la cui furia non si è ancora placata. Sono interrotte le comunicazioni satellitari, i cavi sottomarini si sono spezzati, una nuvola di cenere copre l’area impedendo di verificare la gravità dei danni causati dallo tsunami che è seguito all’eruzione.

Dall’Australia e dalla Nuova Zelanda sono partiti aerei che sorvoleranno l’area e dai quali si farà forse un primo rapporto. Ma Tonga, dopo il disastro, non è più esistita: nessuna voce è partita dall’isola, nessuna voce l’ha raggiunta. Il primo bilancio delle vittime dell’eruzione ha così registrato finora solo due vittime: due bagnanti colpiti dalle onde in Perù, a migliaia di chilometri di distanza.

Il vulcano Hunga è esploso sott’acqua il 15 gennaio, creando una enorme nuvola di cenere e di detriti che decine di satelliti in orbita hanno fotografato e filmato. Sotto quella massa ancora infuocata che si espandeva sopra l’Oceano c’erano le isole del Regno di Tonga, uno dei principali stati insulari della Polinesia. I suoi centomila abitanti hanno udito un rumore assordante, la terra ha tremato e il cielo si è oscurato in un attimo. 

La cenere ha cominciato a cadere, ricoprendo ogni cosa. Le centraline elettriche sono saltate, insieme con i collegamenti internet satellitari, con i telefonini, con qualunque altro strumento di comunicazione. Dopo qualche minuto è arrivato lo tsunami e le onde del mare, alte un paio di metri, hanno attraversato l’isola principale, Tongatapu, da un capo all’altro. Mentre nel mondo i video dell’esplosione diventavano virali, nessun satellite riusciva più a vedere il Regno di Tonga per verificare se esisteva ancora, o per contarne le vittime. 

Due giorni dopo, lunedì, qualche centralina elettrica ha ripreso a funzionare, qualche telefono ha ricominciato a squillare. Chi ne ha l’autorità ha consigliato ai cittadini di stare in casa, di fare attenzione a quello che si mangia e si beve, perché tutto potrebbe essere contaminato dalla cenere. Agli abitanti, gli unici al mondo risparmiati dall’epidemia di Covid, è stato anche detto di indossare anche loro le mascherine per proteggersi non dal virus, ma dall’aria inquinata.

Lo tsnumai causato dall’esplosione del vulcano ha attraversato l’Oceano Pacifico e ha colpito il Sudamerica e le coste degli Stati Uniti. In nuova Zelanda alcune imbarcazioni si sono rovesciate o arenate nei porti, onde alte un metro hanno colpito l’Australia. E non è finita: il vulcano nel pomeriggio di lunedì ha ripreso la propria attività e non si sa quali altri danni abbia provocato o stia ancora causando.

Intorno all’Oceano Pacifico si trova il cosiddetto “anello di fuoco”, una catena che comprende circa 2000 vulcani, in gran parte sottomarini e inattivi. L’arcipelago di Tonga si trova proprio nella parte sud dell’anello, dove terremoti ed eruzioni si verificano con frequenza. Ma nessuno a memoria d’uomo ricorda un evento così catastrofico per un vulcano sottomarino. Poche ore fa ha ripreso la sua attività, rendendo i soccorsi e le rilevazioni ancora più difficile e facendo di nuovo sparire Tonga dal mondo.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - Sono tre le persone morte a Tonga dopo l'eruzione del vulcano che ha provocato uno tsunami, la britannica Angela Glover e due abitanti locali. Lo annuncia il governo dell'arcipelago nella prima dichiarazione ufficiale definendo un "disastro senza precedenti" ciò che è avvenuto nei giorni scorsi. Due delle isole più piccole e periferiche sono state colpite in modo particolarmente grave, fanno sapere le autorità, con tutte le case distrutte su una e solo due rimaste in piedi sull'altra. Il governo ha precisato inoltre che gli aiuti finora sono stati ostacolati dalla cenere caduta dal vulcano.

TONGA: CENERE SULL'AEROPORTO, GLI AIUTI NON POSSONO ARRIVARE. (ANSA il 18 gennaio 2022) - Gli aerei di aiuti inviati dalla Nuova Zelanda a Tonga non possono atterrare per via della cenere che ha ricoperto la pista del principale aeroporto dopo l'eruzione del vulcano che ha provocato uno tsunami e tagliato tutti i collegamenti. Lo riporta la Bbc. Circa 200 persone hanno cercato ieri di ripulire la pista come potevano ma ne erano stati liberati soltanto 100 metri.

Il ministro degli Esteri neozelandese Nanaia Mahuta ha spiegato che un C-130 carico di aiuti umanitari, soprattutto acqua che in questo momento è l'emergenza principale ma anche generatori e kit igienici, è pronto a decollare per Tonga ma la cenere in questo momento rende impossibile l'operazione. Quanto alle navi militari con i rifornimenti ci vorranno almeno tre giorni prima che riescano a raggiungere l'arcipelago. Intanto salgono a due le vittime confermate finora. Una è la 50enne britannica Angela Glover, sommersa dallo tsunami mentre cercava di salvare i cani randagi di cui si occupava. 

TONGA ISOLA CHE NON C'E'. Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 18 gennaio 2022.

L'arcipelago di Tonga è sparito dal mondo, quando sabato scorso il vulcano sottomarino Hunga Ha' apai è esploso lanciando verso l'alto una enorme massa di cenere e di detriti che ha raggiunto la stratosfera a 20 chilometri di altezza, allargandosi per 250 chilometri nell'Oceano Pacifico. Gli scienziati che per primi hanno osservato le immagini inviate dai satelliti non credevano ai loro occhi: mai si era assistito a un'esplosione così devastante e improvvisa; mai niente di simile, nell'epoca contemporanea, ci aveva fatto capire quanto sia fragile il nostro posto tra le implacabili forze della natura.

Ma mentre la cenere dell'esplosione ancora si deposita sui campi, i tongani si domandano se non convenga loro continuare a stare lontani dal mondo, respingendo i soccorsi in arrivo: l'arcipelago è stato finora risparmiato dal Covid, ma il virus potrebbe arrivare, con il cibo e l'acqua minerale, dentro agli aerei in partenza dall'Australia e dalla Nuova Zelanda. Mentre i video dell'esplosione si diffondevano sul web, i 100 mila abitanti dell'arcipelago scomparivano, cancellati da ogni contatto con il mondo.

Le centraline elettriche della capitale Nuku' alofa, distante solo 60 chilometri dalla bocca del vulcano, erano tutte saltate. I telefonini avevano smesso di funzionare, era impossibile collegarsi con Internet, perché anche i cavi sottomarini della rete erano stati tranciati dall'eruzione. I satelliti riprendevano solo l'impressionante nuvola di cenere che copriva decine di isole abbandonate a sé stesse: nessun aereo poteva atterrare, nessuna imbarcazione poteva portare soccorso, con la terra più vicina, l'Australia, distante mille miglia.

Dopo l'esplosione, nell'arcipelago il cielo è diventato rossastro, poi sempre più buio. Ha cominciato a cadere la cenere, mischiata a leggere schegge di pomice. Le poche persone che sono riuscite a comunicare qualcosa all'esterno, prima che Tonga sparisse dal mondo, hanno raccontato della gente che riparandosi sotto un ombrello usciva di casa per chiedere ai vicini, o per cercare aiuto o per sapere cosa bisognava fare. Si è sparso l'allarme: dopo l'eruzione, sarebbe presto arrivato uno tsunami. Tutti sono corsi verso le alture, a piedi o nelle auto che slittavano nella cenere, strombazzando in coda una dietro l'altra.

Lo tsunami è poi arrivato, con onde alte più di un metro che hanno attraversato Tongatapu, l'isola principale, da parte a parte. Anche il re Tupou VI ha dovuto abbandonare il suo palazzo in riva al mare, ed è stato portato al sicuro nelle alture. Una donna inglese che viveva dal 2015 nell'isola, Angela Glover, è stata trascinata via dall'acqua mentre cercava di mettere in salvo i suoi cani. Il marito James si è aggrappato a un albero e ha cercato di afferrarla, ma non ce l'ha fatta. Non si hanno per ora notizie di altre vittime, nessuno sa niente. Le isole sono ricoperte di cenere, che inquina l'acqua, le coltivazioni e il cibo.

La gente è stata invitata a restare in casa, a bere solo acqua minerale, a sbarrare le finestre e a indossare le mascherine che nel resto del mondo si portano per il Covid. Non qui, dove la pandemia non è mai arrivata. Il vulcano Hunga Ha' apai era quasi interamente coperto dall'acqua, ma con le eruzioni del 2014 e del 2015 aveva formato intorno alla sua bocca una piccola isola. Se Hunga fosse completamente in superficie farebbe solo a guardarlo una grande impressione. E' alto 1800 metri e ha 20 chilometri di diametro. Fa parte dell'«Anello di fuoco», la catena di più di 2.000 vulcani che circonda il Pacifico e che non riposa mai. Quando è esploso, l'onda d'urto ha raggiunto le isole Fiji, dove le finestre e le mura delle case hanno tremato. Il boato dell'esplosione si è sentito in Nuova Zelanda, a 2.300 chilometri di distanza, e l'onda sonica è stata avvertita fino in Alaska.

L'eruzione ha causato onde di pressione così rilevanti che hanno fatto sparire per qualche ora la nebbia da Seattle e causato increspamenti anomali persino nelle acque dei Caraibi. Lo tsunami si è propagato per tutto il Pacifico. Quando hanno visto le immagini dell'esplosione, le autorità delle Fiji, di Samoa, del Giappone, delle Hawaii, degli Stati Uniti, dell'Australia e della Nuova Zelanda hanno chiesto alla popolazione di stare lontana dalle spiagge.

Il Giappone, memore dell'inondazione del 2011, ha evacuato 230.00 persone dalle zone costiere. A Sidney è stata transennata Bondi Beach e anche le spiagge della California sono state chiuse. In Perù due persone sono morte travolte dalle onde. In nuova Zelanda sono state danneggiate alcune imbarcazioni, così come è avvenuto nel porto di Santa Cruz in California, a 8.000 chilometri di distanza dal vulcano. Solo ieri, dopo che la cenere si è posata o è stata spazzata via dal vento, i satelliti hanno potuto riprendere di nuovo le Tonga.

La cima del vulcano è sparita, dissolta dall'esplosione, ed è tornata sott' acqua. La maggior parte delle isole è devastata, il mare ha inondato i campi, le strade, gli aeroporti. La vegetazione è diventata grigia, e morirà presto. Ancora non si riesce a parlare con nessuno, ci vorranno settimane per ripristinare i collegamenti e mesi per la rete sottomarina del web. La Nuova Zelanda vorrebbe inviare aiuti, ha già programmato per oggi un volo militare per la consegna di acque minerali. Ma non è detto che Tonga sia felice di riceverle. Le isole sono state risparmiate dal Covid e adesso si teme che con gli aiuti arrivi anche il virus.

«Non vogliamo - ha detto chiaramente il vice ambasciatore in Australia, Curtis Tu' ihalanginge, - che dopo il primo tsunami ne arrivi un altro di Covid». I tongani che si trovano all'estero cercando di coordinare i soccorsi già ipotizzano quarantene persino per le merci, con il divieto di qualunque contatto tra i militari australiani e neozelandesi e la popolazione locale. Può darsi che si cambi idea quando sarà nota l'entità delle vittime, dei danni e delle risorse che servono per ricominciare. Ma sparire dal mondo, di questi tempi, potrebbe essere considerato un vantaggio persino se un vulcano ti esplode sotto casa.

Anna Guaita per "il Messaggero" il 21 gennaio 2022.

«Un paesaggio lunare» ha accolto ieri i primi soccorsi atterrati nell'isola principale dell'arcipelago di Tonga. Per cinque giorni i ragazzi delle scuole hanno lavorato senza sosta per pulire l'aeroporto dalla coltre di due centimetri di cenere che ha coperto le isole dopo l'eruzione del vulcano sottomarino. La giornalista Marianne Kupu, della Broadcom Broadcasting, che ha sede nella capitale Nuku' alofa, ha raccontato alla Bbc che lo sforzo dei ragazzini ha permesso agli aerei australiano e neozelandese di atterrare con il loro carico di emergenza. 

Le isole sono state spazzate da un violento tsunami causato dall'eruzione e sono state tutte ricoperte dalla cenere che il vulcano ha sputato nell'aria creando una colonna di fumo, cenere e gas alta 10 chilometri e larga 200. Le costruzioni costiere sono state spazzate via da onde alte fino a 15 metri, mentre le riserve di acqua sono state inquinate dall'acqua del mare e dalla pioggia di detriti. 

Gli aerei arrivati ieri portavano a bordo le riserve immediate, acqua, cibo, medicinali e tende, ma in seguito dovrebbero arrivare anche delle navi australiane e neozelandesi con impianti di desalinizzazione e ospedali da campo. La navigazione tuttavia procede a grande lentezza, perché nessuno può sapere se i percorsi navali tradizionali non siano stati travolti dal terremoto sotterraneo causato dall'eruzione. 

Tutti parlano dell'avventura incredibile di Lisala Folau, un uomo di 57 anni che lo tsunami ha strappato all'isola di Atataa e ha spinto sulla spiaggia di Tongatapu, a una distanza di quasi 8 chilometri. L'uomo è un falegname disabile che è sopravvissuto galleggiando tra le onde per 28 ore. «Ho gridato aiuto ma non c'era nessuno. Pensavo a mia nipote che era stata spazzata via, mentre io ero riuscito a sopravvivere», ha raccontato.  

Quando è riuscito ad arrivare sull'altra isola, si è trascinato barcollando sulla strada asfaltata ed è stato soccorso da un'auto. Intanto, a bordo delle navi dei soccorsi ci sono anche squadre di subacquei specializzati nel tracciare la mappa del fondale proprio per accertarsi che si possa procedere senza incidenti.  

Non è ancora chiaro quanti morti la catastrofe abbia causato, e le comunicazioni rimangono difficili perché riparare l'unico cavo a fibre ottiche che unisce l'arcipelago al resto del mondo richiederà varie settimane. Solo i collegamenti satellitari possono avvenire, ma anch' essi disturbati dalla spessa polvere.

Vulcano di Tonga: una petroliera italiana sotto sequestro per danno ambientale. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

La «Mare Doricum» stava effettuando operazioni di scarico quando è stata investita dall’onda anomala (a 9.800 km di distanza!) provocando una vasta fuoriuscita di greggio. Lima chiede 34 milioni di euro.  

Le autorità del Perù hanno bloccato la petroliera italiana «Mare Doricum» che si trova ormeggiata al largo del porto di El Callao. La nave è stata al centro pochi giorni fa di un singolare incidente: lo tsunami generato dall’esplosione del vulcano dell’isola di Tonga è arrivato fin sulle coste del Perù, distanti 9.800 chilometri. In quel momento la «Mare Doricum» stava effettuando delle operazioni di scarico di greggio e l’onda anomala ha fatto fuoriuscire una vasta chiazza di petrolio che ha danneggiato, secondo le autorità peruviane, una riserva marina che si trova nelle vicinanze. In mare è andato disperso l’equivalente di circa 6.000 barili .

L’incidente è avvenuto all’impianto «La Pampilla» di proprietà della compagnia spagnola Repsol. La presidente del consiglio dei ministri Mirtha Vasquez ha ricordato che sono in corso indagini per determinare le cause e le responsabilità dell’inquinamento prodotto da una marea nera che riguarda complessivamente tre chilometri quadrati di mare e costa peruviani. Nel caso volesse abbandonare la sua posizione, ha precisato Vasquez, l’armatore della petroliera, che appartiene alla compagnia Fratelli D’Amico Armatori spa, dovrebbe depositare una cauzione di 150 milioni di nuovi sol (circa 34 milioni di euro). Da parte sua Repsol ha assicurato la sua piena partecipazione alle operazioni di contenimento e disinquinamento dello spazio marino e costiero, ricordando che a suo avviso l’incidente è stato causato da circostanze del tutto anomale e imprevedibili.

Lo sversamento della «Mare Doricum» ha causato tra le altre cose una protesta da parte di associazioni ambientaliste e di pescatori della zona di Callao. Da un lato viene contestato il danno ambientale, dall’altro quello economico dal momento che la chiazza di greggio impedisce lo svolgimento di attività di pesca e rischia di uccidere la fauna marina. Nel complesso l’esplosione del vulcano di Tonga ha provocato la morte di tre persone nel piccolo arcipelago del Pacifico e lo sprigionarsi di una nube di cenere che ha ricoperto le isole. Solo dopo alcuni giorni i soccorsi partiti dalla nuova Zelanda e dall’Australia hanno potuto approdare a Tonga.

Dopo lo tsunami. Tutte le conseguenze dell’eruzione del vulcano Tonga. Enrico Pitzianti su Linkiesta il 29 Gennaio 2022.

Crisi in Perù, enormi quantità di cenere da smaltire e un serio impatto sull’atmosfera: eventi vulcanici come quello dello scorso 15 gennaio succedono una volta ogni mille anni, e hanno effetti importanti.

Grandi eruzioni vulcaniche come quella del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai dello scorso 15 gennaio succedono una volta ogni mille anni. Proprio perché sono così rare sappiamo poco del loro funzionamento. E così gli studiosi si sono fiondati a studiare dati e misurazioni utili a capire le conseguenze dell’evento, studi che con tutta probabilità andranno avanti ancora per anni.

L’eruzione avvenuta nell’arcipelago delle Tonga ha dimensioni difficili da immaginare. Un dato che può aiutare a farci un’idea è che il suono dell’esplosione è arrivato a oltre 170 chilometri di distanza. Lo tsunami si è abbattuto sulle coste più vicine, ma le onde anomale sono arrivate addirittura sulle coste americane, a migliaia di chilometri di distanza. 

Sappiamo così poco di come funzionano eventi simili che quando il vulcano in questione, a metà dicembre del 2021, quindi circa un mese prima dell’eruzione, aveva rilasciato in atmosfera una colonna di fumo e polveri alta oltre 15 chilometri, non si è riusciti a capire che di lì a poco sarebbe avvenuta l’eruzione. Semmai si è sottovalutato il segnale. 

Fare previsioni, in questo campo, è difficilissimo, anche perché i tempi geologici sono enormemente più lunghi delle nostre vite e, quindi, di ciò che consideriamo accettabile come margine di errore delle previsioni stesse. In altre parole: sarebbe già ottimo poter prevedere in quale secolo avverrà un’eruzione, perché si tratterebbe di una previsione molto precisa rispetto ai tempi geologici. Eppure per noi umani, che dal nostro punto di vista consideriamo 100 anni come un’eternità, sarebbe sostanzialmente inutile.  

Ad ogni modo le conseguenze di eventi come le eruzioni vulcaniche sono degne di nota non soltanto per la loro pericolosità e spettacolarità. Ma anche per l’impatto sul clima. Se questo aspetto troppo spesso ci sfugge è per via del nostro rimanere un po’ troppo ancorati al nostro punto di vista, proprio come per la questione temporale che citavamo poco sopra.

Vi ricordate l’eruzione del 2010 del vulcano islandese dal nome impronunciabile? Se la risposta è sì è perché mandò in tilt il traffico aereo di una grande parte del continente europeo (ah, si chiama Eyjafjallajökull). E la recente eruzione del vulcano Cumbre Vieja sull’Isola di La Palma, alle Canarie? Anche qui: ne abbiamo parlato solo in relazione alla sicurezza di abitanti e turisti. Quasi mai, invece, da un punto di vista più generale, cioè quello ambientale. E lo stesso discorso si può dire per le centinaia di piccole e grandi eruzioni che avvengono nelle zone più diverse del nostro pianeta ogni anno: le uniche che notiamo e degniamo di attenzioni sono quelle che mettono in pericolo la nostra vita. O che ne compromettono la comodità.

Le onde anomale provocate a metà gennaio dall’eruzione dello Hunga Tonga-Hunga Ha’apai hanno raggiunto anche le coste del Perù, e qui hanno causato enormi danni ambientali. Abbattendosi sulla costa hanno danneggiato una porzione della raffineria La Pampilla di Callao, a pochi chilometri dalla capitale Lima, nel distretto di Ventanilla. Per via del danno il corrispettivo di seimila barili di petrolio si è riversato in mare, con conseguenze su fauna e flora ancora difficili da stimare. Si parla, in casi come questo, di «disastro ambientale».

Ruben Ramirez, che è il ministro dell’Ambiente del governo peruviano, e diversi enti non governativi presenti nel paese sudamericano hanno dichiarato che le spiagge coinvolte sarebbero ventuno, per un totale di oltre 18mila chilometri quadrati di aree protette contaminate. È ancora presto per capire se davvero si è trattato di un evento inevitabile, considerata la poca prevedibilità dell’eruzione a Tonga, o se invece ci siano delle responsabilità tra le autorità statali o tra i dirigenti di Repsol, la multinazionale che gestisce l’impianto. Al momento le indagini sono in corso e, come ha deciso una corte peruviana, a diversi manager dell’azienda spagnola al momento è proibito lasciare il Paese.

Gli tsunami, peraltro, non sono certo l’unico modo in cui le eruzioni possono avere un impatto sul clima e l’ambiente. Un ministro del governo della Nuova Zelanda (stato piuttosto vicino alle Tonga) ha dichiarato che a causa dell’eruzione dello scorso gennaio nell’acqua e nell’aria sono stati rilevati “alti livelli di zolfo”. Lo zolfo, a seconda della quantità e della forma con cui si presenta, può avvelenare e compromettere la salute di interi ecosistemi. Ed evidentemente non è una buona notizia né per la fauna e la flora né per pescatori e gli agricoltori, che ne dipendono.

E poi c’è la cenere. L’eruzione recente avvenuta alle Canarie ha lasciato intere parti dell’isola de La Palma ricoperte di una spessa coltre di cenere scura. Non basta una spolverata, a tratti lo strato è spesso diversi metri, tanto da ricoprire case a due piani. Sono decine di milioni di tonnellate di materiale di cui, semplicemente, non si sa che fare. Trasportarle è difficile e molto costoso, e in ogni caso non si saprebbe dove. Eventi del genere producono detriti ma in quantità così rilevanti che, più che di materiali in eccesso, bisognerebbe parlare di nuove conformazioni dei territori. È così che, nei millenni, ha preso forma un’isola vulcanica come la Palma: con la spinta dei vulcani e con la sovrapposizione di strati di detriti provenienti dalle eruzioni che si sono susseguite.