Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

  

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

 

 

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Per fare un albero ci vuole…

Così l'"Albero Madre" ci insegna la saggezza. Suzanne Simard ci porta nel "wood-wide-web", la rete di connessioni (intelligente) delle foreste. Eleonora Barbieri il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ormai parlare di intelligenza delle piante, o del fatto che esse comunichino fra loro, o dell'esistenza di una connessione sotterranea nelle foreste, non sembra una novità. Quando però Suzanne Simard spedì un articolo a Nature in cui raccontava i risultati degli esperimenti condotti sui rapporti e gli scambi (di carbonio fotosintetico) fra betulle e abeti di Douglas era il 1997, e non ne parlava nessuno. E alla rivista non presero le sue ricerche alla leggera, come un revival new age o una moda hollywoodiana: infatti le sue scoperte, scientificamente dimostrate, si guadagnarono la copertina, battendo quella del genoma del moscerino della frutta. Lo chiamarono wood-wide-web: la rete immensa del bosco, che si dirama sotto il terreno, fra le radici, dove pare non accada nulla e, invece, succede di tutto. E questo tutto consente alle piante di cooperare e di sostenersi a vicenda, proprio come le betulle e gli abeti di Douglas che, sotto gli occhi della scienziata, anziché competere fra loro e sottrarsi risorse, se le scambiavano: «Stavano lavorando insieme, come un sistema. Un sistema intelligente, perspicace, reattivo». Così scrive Suzanne Simard in L'Albero Madre (Mondadori, pagg. 448, euro 24), il meraviglioso memoir in cui ripercorre il suo percorso, scientifico e personale insieme, «alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta».

Oggi Suzanne Simard è un punto di riferimento per chi studia le piante. Ha decine di pubblicazioni alle spalle, ha condotto documentari e conferenze su come gli alberi parlino fra loro e insegna Ecologia forestale all'Università della British Columbia. Qui dal 2015 è attivo il suo progetto «Albero Madre», che coinvolge nove foreste sperimentali e vuole rendere concreta «la scienza della complessità»: creare una nuova generazione di selvicoltori e «trasformare le pratiche forestali in qualcosa di adattativo e olistico, lontano da ciò che è stato finora eccessivamente autoritario e semplicistico». Ma tutto questo è arrivato col tempo, si è sviluppato e ramificato come un grande albero: «Non so se il mio sangue è negli alberi o se ho gli alberi nel sangue» scrive. Fatto sta che Simard è nata in una famiglia di taglialegna del Canada, è cresciuta tra le foreste pluviali della British Columbia e ha imparato a conoscere gli alberi, ad amarli, e a... tagliarli. «Per generazioni la mia famiglia si è guadagnata da vivere abbattendo foreste. Da questo modesto mestiere è dipesa la nostra sopravvivenza. È il mio retaggio». Logico che anche lei abbia cominciato così: buttando giù e piantando. Però... «Ho osservato la foresta e mi sono messa in ascolto». È stato proprio lavorando sul terreno che ha scoperto che le plantule di pino, quelle piantine nuove, distribuite in file precise e ordinate, senza ostacoli di radici e funghi fastidiosi intorno, anziché prosperare, inspiegabilmente deperivano. Che cosa mancava? La risposta era sottoterra, in quei filamenti fungini ramificati, chiamati ife, i quali, ben lungi dal danneggiare gli alberi, come si credeva, sono il modo in cui le loro radici si connettono, comunicano, si scambiano energia e elementi, si tramandano le lezioni (di adattamento) apprese e si lanciano allarmi... «Le radici non prosperavano quando crescevano da sole. Gli alberi avevano bisogno gli uni degli altri». È «una giungla di fili, sinapsi e nodi» a trasportare i messaggi, una rete che ricorda molto da vicino il cervello umano e il suo intreccio di neuroni, sinapsi e neurotrasmettitori. In questa foresta senziente e intelligente c'è un hub, un centro di connessione: l'Albero Madre. Chi ha visto Avatar ricorderà l'Albero delle anime. Chi ha letto Il sussurro del mondo (La nave di Teseo), con cui Richard Powers ha vinto il Pulitzer nel 2019, ricorderà le scoperte della ribelle Patricia Westerford, male accettate dal mondo scientifico istituzionale. Chi leggerà L'Albero Madre capirà perché tanta parte del nostro immaginario attuale sul mondo vegetale sia stata influenzata da Suzanne Simard. «Gli alberi anziani erano le madri della foresta. Gli hub erano Alberi Madre. Be', alberi madre e padre, dal momento che tutti gli abeti di Douglas hanno pigne maschili con il polline e pigne femminili con i semi. Ma... io li pensavo in termini materni. Con gli anziani che badavano ai giovani. Già, era proprio così. Alberi Madre. Gli Alberi Madre connettono la foresta». Trasmettono il loro sapere ai più giovani, li aiutano a crescere, lasciano in eredità le loro risorse quando muoiono. La loro sapienza secolare tiene in vita il mondo: non soltanto quello della foresta, il nostro. «L'evidenza scientifica non si può ignorare: la foresta è cablata in modo da garantire saggezza, sensibilità e cura».

Questi insegnamenti si ritrovano in molte ricerche e libri attuali. Per esempio, nell'esperienza di Karine Marsilly, «arborista tree-climber», che cura alberi grandiosi arrampicandocisi pericolosamente e che nel suo La mia vita con gli alberi (Einaudi, pagg. 172, euro 18,50) mette in pratica molte delle scoperte di Simard sulle connessioni vegetali. E racconta anche quanto possa essere avventurosa un'esistenza fra rami e chiome. Oppure negli studi di Paco Calvo, professore di Filosofia della scienza all'Università della Murcia: nel suo Minimal Intelligence Lab, Calvo cerca di dimostrare come la Planta Sapiens (ilSaggiatore, pagg. 350, euro 23) sia una realtà. Anche se Simard ci ricorda che i Salish, le antiche popolazioni della costa nord-occidentale del Pacifico, sapevano già tutto, senza ricorrere a isotopi, innesti, analisi e robot: sapevano della natura simbiotica delle foreste, delle reti fungine, della forza che nasce non dalla competizione, bensì dal sostegno reciproco fra le piante. «I Salish della costa pensano che anche gli alberi siano persone. Ci insegnano che la foresta è fatta di tante nazioni diverse che vivono fianco a fianco, in pace, ognuna delle quali dà il suo contributo a questa terra». Gli alberi insegnano la loro saggezza, a chi li sa ascoltare.

Per fare un albero. Perché il girasole è il simbolo della resistenza ucraina e altre storie di semi. Claudia Saracco su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

Dalla banca del germoplasma, custode della biodiversità del Pianeta alle multinazionali che controllano tutto ciò che arriva sulle nostre tavole, abbiamo percorso la storia affascinante della vita che nasce sotto terra. 

Pace Nel 1932 Nikolaj Ivanovič Vavilov, di ritorno dagli Stati Uniti, portò in Russia dei semi di girasole americani. Ibridandoli con quelli locali, ottenne una nuova varietà che fu riportata in America nel 1972, dove è tuttora molto diffusa. Nel 1996, per celebrare gli accordi sul disarmo, Stati Uniti, Ucraina e Russia piantarono semi di girasole, pianta simbolo di pace nei Paesi dell’ex blocco sovietico

Girasoli In un video diffuso da The Guardian e girato il giorno successivo all’invasione, si vede una donna ucraina che affronta un militare russo invitandolo a mettere dei semi di girasole nelle sue tasche. «Prendi questi semi – dice la donna – così almeno i girasoli cresceranno quando morirai qui» 

Guerra Durante le due guerre mondiali, nella maggior parte dei Paesi coinvolti ogni piccola porzione di terra venne adibita a orto e coltivata: in Europa i cosiddetti orti di guerra furono migliaia, negli Stati Uniti addirittura milioni. La Domenica del Corriere del 22 dicembre 1918 titola in copertina: “A New York sfilano le coltivatrici degli orti di guerra per i festeggiamenti della vittoria”. Durante la seconda guerra mondiale, piazza Duomo a Milano nel 1945 fu convertita in campo di frumento, mentre nel parco del Valentino a Torino, si piantavano patate

500 le varietà di pomodori che esistono in natura. Il collezionista botanico tedesco Michael Schick le ha riunite qui

Cento il numero di cipolle che si ottiene dai semi di un singolo fiore

Banca La prima banca dei semi al mondo ospitava nel 1940 oltre 200 mila campioni (oggi sono 325 mila). La più grande e famosa si trova in Norvegia: lo Svalbard Global Seed Vault è un bunker costruito nel 2008 per resistere a «terremoti, guerre atomiche, sconvolgimenti climatici e forse pure alla collisione di un asteroide». Custodisce 860 mila tipi di colture

Treno Per diffondere i loro semi alcune piante si affidano al vento, in alcuni casi allo spostamento dell’aria creato dal treno che passa, tanto che la geografia della loro diffusione ricalca i collegamenti ferroviari. Due esempi: il Senecio squalidus, che dalla Sicilia ha colonizzato la Gran Bretagna, e il Pennisetum setaceum che invece la Sicilia l’ha conquistata partendo dall’Abissinia

Estinzione A volte sono gli animali a diventare veicolo di diffusione di una pianta decidendo la sua proliferazione o, al contrario, spingendola verso l’estinzione. Il seme gigantesco dell’avocado era adatto all’alimentazione di una serie di animali di grandi dimensioni (mastodonti) che vivevano in America e che si sono estinti. L’avocado per un po’ ha tirato a campare facendosi mangiare dal giaguaro, poi è stato scoperto dall’uomo ed è tornato a diffondersi

1 milione il numero di alberi piantati ogni anno dagli scoiattoli selvatici. Quelli grigi accumulano sotto terra più cibo di quanto occorra loro per sopravvivere, soprattutto ghiande e noci; dimenticandosi di recuperare le scorte, contribuiscono inconsapevolmente all’imboschimento del Pianeta

Arancia «Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio». Bruno Munari, “Good Design” (Corraini Editore)

Ombelico L’arancia navel, così denominata per via di quella sorta di ombelico (navel, in inglese) sul fondo, è l’unica varietà senza semi e il solo modo per coltivarla è attraverso l’innesto della pianta su altri agrumi

Brevetto I semi da cui derivano la frutta e alla verdura che mangiamo sono protetti da brevetto. Si tratta di una questione alquanto controversa: il 63% del mercato delle sementi e il 75% di quello degli agrofarmaci è controllato da tre multinazionali che, nei fatti, decidono quali varietà siano produttive e quali invece vadano abbandonate

Breeder Il responsabile di ricerca e sviluppo delle varietà dei vegetali si chiama breeder. Il suo lavoro consiste nell’individuare le diverse linee parentali dei semi e ibridarle al fine di ottenere varietà prive di difetti da immettere sul mercato

Scambi Negli Stati Uniti gli scambi di semi tra appassionati si chiamano seed swap o seed exchange. Anche in Italia ci sono varie realtà che promuovono il libero scambio come Cercasemi, che funziona come un motore di ricerca, Semi Autonomi, Adipa, legata all’Orto botanico di Lucca e l’associazione Orti di pace

Trasparente Dagli albori della civiltà l’uomo ha selezionato piante con pochi semi o con semi di dimensioni ridotte. Un esempio è il cetriolo, i cui semi sono diventati nel frattempo così discreti che quasi non ci si accorge di averli in bocca

Frutto Regola generale: se contiene semi è un frutto, se deriva dalle foglie, dal fusto o dalla radie di una pianta allora è una verdura. Non sempre i frutti sono dolci, la natura ha più fantasia: sono un frutto l’oliva, il cetriolo, la melanzana, il peperone, la zucca e il pomodoro

XL Il seme più grande del mondo è quello della palma delle Seychelles, conosciuto come Cocco di mare. Il suo diametro misura mezzo metro e può arrivare a pesare 22 chilogrammi

Senape «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Vangelo secondo Matteo 13,31-32). Per la verità, più piccoli dei semi di senape ci sono quelli del tabacco e della fragola. Ma il primo arriva dalle Americhe e ai tempi dei vangeli non era noto, il secondo non era considerato commestibile, per cui l’indicazione contenuta dei testi sacri è coerente

Zizzania La zizzania (Lolium temulentum), anche detta “loglio cattivo”, è una pianta erbacea simile al frumento. La sua farina però è tossica; da qui l’espressione “seminare zizzania”, detto di qualcuno che crea ostilità

Kenya In Kenya soltanto il 7% del territorio è ricoperto da foreste. Per invertire la rotta è in atto un ingegnoso programma di reimboschimento attraverso le cosiddette “bombe” di semi che vengono lanciate utilizzando i mezzi più diversi: elicotteri, fionde e mongolfiere. Per impedire agli animali di mangiarli, i semi vengono ricoperti da polvere di carbone

2 mila miliardi il numero di alberi tagliati negli ultimi due secoli

0,3% «Noi rappresentiamo soltanto un misero 0,3% della biomassa, mentre le piante l’85%. È ovvio che qualunque storia sul nostro pianeta abbia in un modo o nell’altro le piante come protagoniste. Questo pianeta è un mondo verde; è il pianeta delle piante. (…) Quando si riesce a guardare il mondo senza vederlo semplicemente come il campo da gioco dell’uomo, non ci si può non accorgere della ubiquità delle piante. Sono dappertutto e le loro avventure si intrecciano inevitabilmente alle nostre». Stefano Mancuso, “La pianta del mondo” (editori Laterza)

·        La morte degli Allevamenti.

Carissimi allevamenti. I conti delle stalle non tornano più. Stefania Leo su L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

Mentre la filiera lattiero-casearia tenta di frenare l’emergenza che ha colpito il settore, i costi di mangime, energia e materie prime fanno tremare i produttori. Un reportage sul settore e sui suoi protagonisti.

Simone Padoan ha rappresentato la forte preoccupazione di pizzaioli e chef con una singola foto: quella dell’importo della sua bolletta della luce. Il rincaro dell’energia fa paura alla ristorazione. Ma se questo settore è un sorvegliato speciale dall’inizio della pandemia, anche altri imprenditori stanno cercando di far quadrare i conti senza successo. Tra questi ci sono gli allevatori e le aziende di zootecnia. 

Il punto sugli allevamenti

«Nel 1980 l’Italia contava 80.000 allevamenti di bovini adulti da latte. Oggi sono circa 26.000». Il raggelante delta tra le due cifre lo riferisce Fortunato Trezzi, titolare dell’Azienda Agricola Fratelli Trezzi di Alzate Brianza. A questi vanno aggiunti i circa 100.000 allevamenti di bovini da carne. Senza prendere in considerazione quelli dedicati a suini, ovini e bufale, si disegna un parco imprese di circa 126.000 unità, per un totale di circa 4 milioni di animali da alimentare, accudire e trasformare in carne o di cui lavorare il latte (dati: Banca dati delle anagrafi zootecniche, 31 dicembre 2019).

La scelta della destinazione d’uso dell’animale è importante nel racconto dei conti delle stalle che non tornano più. Infatti, «allevare bovini da latte è più costoso rispetto al fare lo stesso con quelli da carne perché, oltre al costo alimentare (seppur paragonabile), ci sono costi energetici legati a mungitura, preparazione di foraggi e stoccaggio del latte, che incidono in maniera marcata sui costi. Vanno aggiunti anche quelli legati al personale e alle semine dei terreni, se si ha a disposizione lo spazio per coltivare il cibo da destinare agli animali». Sommati, sono aumenti preoccupanti.

Il peso dei mangimi

Per chi non ha terreni da coltivare e adibire al pascolo, l’unica opzione alimentare disponibile resta il mangime. Anche questo segmento non sembra passarsela bene. «A partire dalla fine del 2020 si è assistito a un progressivo aumento del costo di tutte le principali materie prime, tra le quali anche tutte quelle destinate all’alimentazione degli animali – spiega Lea Pallaroni, Segretario Generale di Assalzoo – Questo fenomeno è proseguito con un andamento crescente per tutto il 2021 con incrementi molto forti che, solo per fare un esempio, per le due materie prime strategiche per la produzione di mangimi come il mais e la soia ha portato a rincari che hanno raggiunto rispettivamente il + 65% e il + 60% per la seconda. Questo forte aumento ha avuto un effetto domino su tutte le altre materie prime impiegate nella produzione di mangimi».

Del grano abbiamo già parlato qui e le cose non sembrano migliorate nemmeno per orzo, grano tenero, sorgo e altri cereali minori. Sono aumentati anche i costi delle fonti proteiche (farina di girasole, favino, pisello proteico, erba medica, farina di pesce), ma anche dei sottoprodotti come la crusca, le polpe di barbabietola: tutti prodotti le cui quotazioni di mercato sono cresciute tra il 60% e il 90%, con picchi anche superiori. Dato che questo è il punto di partenza per l’alimentazione degli animali che a vario titolo concorrono alla nostra alimentazione, non c’è di che stare allegri: se i costi di produzione aumentano, anche il prezzo di carne, latte e derivati aumenta.

I costi che schiacciano la filiera

Che siano industrie mangimistiche o allevamenti o industrie di trasformazione, il leitmotiv sugli aumenti batte sempre sulle stesse note. A pesare sui costi dei mangimi ci sono gli effetti della crisi pandemica; una crescita molto forte della domanda di materie prime alimentari dei mercati asiatici, primo fra tutti quello cinese; un andamento deludente dei raccolti a causa di avverse condizioni meteo climatiche e la concomitante riduzione delle scorte a livello mondiale.

«A ciò deve aggiungersi che la pandemia, tra aperture e chiusure, ha posto le basi per una repentina e forte crescita della domanda di mangime – spiega Pallaroni – che ha creato tensioni a tutti i livelli, non solo sui prezzi delle materie prime ma anche sul costo dei trasporti (i noli sono più che raddoppiati), e sui costi dell’energia, con prezzi ormai fuori controllo per l’elettricità e ancor più per il gas: una voce di costo importante per il nostro settore di industria».

Ecco perché le infrastrutture per ottimizzare il trasporto su gomma e rotaia del mangime sono fondamentali: per un settore capace di movimentare 30 milioni di tonnellate di merce ogni anno, i fondi del Pnrr potrebbero essere cruciali in termini di competitività nazionale.

Per ora le aziende mangimistiche si sono trovate a dover contenere un aumento dei costi, mediando gli aumenti con contratti a lungo termine stipulati prima della crisi, ma che oggi, con il perdurare di questa grave situazione, il settore mangimistico non è più in grado di contrastare. Quindi il prezzo dei mangimi è andato su e le previsioni per tutto il primo semestre dell’anno non sono affatto confortanti.

All’aumento dei prezzi dei mangimi – pari al 70% dei costi di produzione per un allevamento da latte – si devono sommare quelli delle bollette di energia elettrica. A soffrirne maggiormente sono gli allevamenti avicoli e di bovini da latte: lì ci sono mungitrici e impianti di refrigerazione, che fanno girare il contatore per tutto il giorno. C’è chi in tempi non sospetti si è dato da fare con pannelli fotovoltaici e impianti per la produzione di biogas, ma anche queste accortezze oggi mostrano la corda perché ancora insufficienti a coprire il fabbisogno energetico di un’intera azienda.

Inoltre, in Italia il mondo produttivo soffre anche per costi del lavoro e pressione fiscale, più elevati rispetto a quelli di molti dei nostri principali competitors internazionali. Poi c’è la burocrazia, che immobilizza le iniziative imprenditoriali e l’innovazione. A questo si aggiunge lo scarso favore riservato alla ricerca pubblica. «Sono fattori che compromettono tutte le attività produttive – sottolinea Pallaroni – e anche il settore dell’allevamento è costretto a dover far quadrare un bilancio che purtroppo è spesso in rosso e che compromette la possibilità di fare quegli investimenti necessari a fare crescere le aziende, renderle più efficienti e garantire un sistema di produzione in grado di assicurare un reddito sufficiente».

Produrre sottocosto

Ma se l’aumento de prezzo del grano ha determinato una corsa al rialzo per tutto, scaricato in gran parte sui consumatori, il mercato del latte sembra preda di uno stallo alla messicana. Non cresce il prezzo della materia prima, ma nemmeno quello della carne. In compenso si produce sottocosto. «Se il prezzo medio di un litro di latte è di 39 centesimi, per farlo occorrono 50 centesimi», spiega Giorgio Apostoli, Ufficio Zootecnico Coldiretti. Non esiste un prezzo nazionale per il latte. Ogni industria fa il suo in base alla qualità del prodotto, data dalla quantità di grassi e proteine presenti, fondamentali per la caseificazione. Basti pensare che il burro è aumentato del 90% (dati: Coldiretti). Per questo è importante che gli animali siano ben nutriti, con i (più costosi) mangimi giusti, altrimenti si va (ancora di più) in perdita. Ci sono contratti, come quello tra i produttori e il consorzio Parmigiano Reggiano, che assicurano agli allevatori 60 centesimi al litro. Per gli altri le cifre oscillano, mentre le bollette di gas e luce quadruplicano. Molti allevatori sono anche soggetti giuridici legati ad aziende agricole: per questo motivo ricevono delle integrazioni comunitarie solo sul suolo coltivato per l’alimentazione degli animali. Per il bestiame o il latte prodotto non viene dato alcun contributo. «In Italia è prevista solo una piccola integrazione per ogni vacca allevata, soprattutto in montagna», ricorda Apostoli.

L’accordo sul latte

Sul fronte della filiera lattiero-casearia nazionale, che esprime un valore di oltre 16 miliardi di euro e occupa oltre 100.000 persone, qualcosa si sta muovendo. Per fronteggiare l’emergenza latte, è stato messo a punto il “Protocollo per un’intesa di filiera per la salvaguardia degli allevamenti italiane”, sottoscritto a febbraio 2022 tra organizzazioni agricole, l’Alleanza delle cooperative italiane del settore agroalimentare, Assolatte e Grande Distribuzione Organizzata. L’iniziativa ha preso le mosse da una riunione tenutasi il 30 settembre 2021 presso il Ministero delle Politiche Agricole ed è stata sottoscritta da Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Copagri, Alleanza delle Cooperative Italiane settore agroalimentare, Assolatte, Federdistribuzione, Ancd Conad, Ancc Coop, Ue Coop, Assalzoo, Agrocepi, Unione Coltivatori Italiani.

L’obiettivo condiviso è quello di riconoscere un premio chiamato “emergenza stalle” così ripartito: la Gdo si impegna a versare alle imprese della trasformazione lattiero-casearia fino a 3 centesimi di euro al litro di latte utilizzato per i prodotti della filiera (yogurt, latte, formaggi freschi e semi stagionati, tutti a latte 100% italiano), fino a una soglia massima di 0,41 centesimi Iva esclusa. Dal canto suo, l’industria si impegna a corrispondere fino a 1 centesimo per coprire il gap fino al raggiungimento della cifra massima.

In pratica, se un’azienda vende alla Gdo 10 chili di stracchino, in base a una tabella viene stabilito il fabbisogno produttivo a monte: 8 litri latte per chilo di stracchino. Quindi verrà applicato un aumento di 4 centesimi per litro, per un totale di 24 centesimi in più, trasferiti all’allevatore dall’industria. Nei contratti che regolano i rapporti commerciali tra industria e GDO, queste cifre aggiuntive devono essere rese evidenti attraverso la dicitura “Premio emergenza stalle”.

Il nodo cruciale dell’accordo è che questi soldi devono arrivare alla stalla. L’accordo dovrebbe avere validità sino al 31 marzo 2022. «Al momento – spiega Trezzi – nessuno ha usufruito di questa misura: le aziende si sono sobbarcate tout court i costi aziendali». 

L’industria “schiacciata”

Ma, nonostante modifiche e nuovi incontri, al momento il protocollo è applicato a senso unico. Come afferma Massimo Forino, Direttore Assolatte, «l’industria ha fatto molto di più di quanto si era impegnata a fare. Gli aumenti riconosciuti dagli industriali ai fornitori agricoli non sono stati ancora corrisposti dalla grande distribuzione».

Nell’addendum tecnico, aggiunto negli ultimi giorni, l’industria si è anche impegnata a raccogliere tutto ciò che la Gdo metterà a disposizione, per distribuirlo senza indugio ai produttori. Ma l’industria preme per riversare il peso degli aumenti a valle, cioè sul consumatore attraverso la Gdo. Dal canto suo, quest’ultima si muove con prudenza, per il timore di incidere sull’inflazione del Paese in un momento molto particolare. «Stiamo tutti cercando di fare la nostra parte col massimo senso di responsabilità nei confronti del consumatore. Ma non si può prevedere una crescita industriale, senza pensare a uno sbocco a valle di questi aumenti. L’industria garantisce un prezzo di mercato, che però, ad oggi, non copre i costi. Per questo l’aggiornamento dei listini è necessario: per pagare le bollette», sostiene Forino.

La Gdo: chi pensa ai consumatori?

«L’accordo sull’emergenza latte è un atto inedito: non ci sono mai stati rapporti tra Gdo e allevatori – puntualizza Carlo Buttarelli, Direttore Relazioni di Filiera di Federdistribuzione – Riteniamo il problema reale, ma il nostro è un ruolo di seconda battuta, prima di noi c’è l’industria di trasformazione. Stiamo ridiscutendo i prezzi di molti listini, considerando aumenti anche significativi. Consideriamo giusto tutelare gli allevatori, ma senza dimenticare i consumatori. Ci vuole una maggiore sensibilità sul tema».

Il passaggio di denaro dalla Gdo agli allevatori non è di facile attuazione. È necessaria la mediazione dell’industria, che «deve certificare alla distribuzione i costi che sostiene pagando le stalle. Ma ciò non è ancora avvenuto».

Il prezzo della carne

«Nel periodo maggio-ottobre 2021, i bovini di Razza Piemontese hanno subito perdite per oltre 500 euro a capo, a causa di aumenti dei costi di produzione, chiusura della ristorazione e concorrenza della carne estera – spiega Fabiano Barbisan, Presidente AOP Italia Zootecnica – Se parliamo delle altre tipologie di bestiame, per capirci i ristallati nati in Francia e allevati in Italia, maschi e femmine, solo i costi di alimentazione giornalieri sono aumentati fino ad incider per 120 euro a capo».

C’è stato un aumento del prezzo dei bovini di circa 0,20-0,30 per chilo di peso vivo, conquistati perché c’era poca offerta e la domanda era in aumento. Ma è alla vendita che si fanno i giochi. Al momento non ci sono risposte convincenti: «I macellatori si adeguano, e la parte più debole – l’allevatore – subisce le decisioni dei primi due».

In Italia le organizzazioni di produttori che dovrebbero concentrare l’offerta e determinare il mercato, stanno muovendo i primi passi all’interno dell’AOP Italia Zootecnica (riconosciuta anche dal Mipaaf). Ma il confronto è ancora appannaggio dei grandi gruppi privati, in grado di determinare i prezzi di mercato e poco disponibili a collaborare per una migliore gestione del mercato.

«Su questo fronte il Ministero delle politiche agricole e le Regioni non stanno aiutando gli allevatori poiché alla nostra richiesta di inserire nella nuova Pac 2023-2027 gli “aiuti accoppiati” con priorità all’appartenenza ad Organizzazioni produttori, hanno scelto un basso profilo quasi a voler rispolverare il metodo degli “aiutini a pioggia”.

Lo stesso vale per quanto riguarda l’OCM Carni Bovine, che anche con importi minimi, avrebbe dato linfa vitale alle Organizzazioni Produttori, ma per lasciare “più denari alla burocrazia” s’è preferito accantonarla. Vedremo cosa ne pensa la Commissione europea».

Considerato che importiamo quasi il 48% di carne estera e fatichiamo a valorizzare quel 52% circa di produzione nazionale, i prezzi devono essere più competitivi. «La “carne è tutta rossa”, il consumatore non la distingue». Bisogna lavorare anche su questo. I consumi domestici, anche nel 2021, hanno in buona parte compensato quelli mancati del “fuori casa”, così anche alla distribuzione si è assistito a una maggior presenza di prodotto italiano, venduto a prezzi in tenuta, con diversi spunti al rialzo. Ma il prezzo della carne non ha avuto grandi oscillazioni, poiché i maggiori costi di produzione sono stati sopportati principalmente dagli allevatori. Nel prossimo futuro potrebbe non essere così.

Sguardo al futuro: le prossime tappe del settore zootecnico

Assalzoo si propone di portare avanti un dialogo continuo anche con le altre rappresentanze dalla filiera, non ultimi anche i consumatori, per cercare di risolvere con un approccio integrato le problematiche comuni. Proprio pensando a chi acquista, la Gdo invita l’industria ad abbracciare il suo ruolo di calmieratore. I trasformatori, invece, chiedono maggiori risposte alla distribuzione.

Sul fronte carne, Italzootecnica sta portando avanti il Piano Carni Bovine Nazionale, tra mille difficoltà interne ed esterne al settore. «Il Piano poggia su tre pilastri: il Sistema di qualità nazionale zootecnia con la certificazione della carne con il marchio ombrello del Consorzio Sigillo Italiano (riconosciuto dal Mipaaf), la produzione di ristalli in Italia, con la collaborazione degli allevatori di vacche da latte (per non dipendere dall’estero) e l’operatività dell’Interprofessione. Se gli attori che operano nella filiera del bovino da carne sono disponibili a collaborare, potremo avere tutti gli strumenti per riposizionare a livello economico i nostri allevamenti e dare un futuro agli imprenditori, oltre a produrre buona carne, di alta qualità certificata con la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, destinata ai consumatori che, in questi giorni, hanno superato la soglia degli otto miliardi di abitanti del Pianeta.

Il nostro asso nella manica è il marchio ombrello “Consorzio Sigillo Italiano”, per comunicare le produzioni certificate in base al sistema di qualità nazionale zootecnia riconosciuto dal Mipaaf. Se avremo le risorse necessarie per farlo conoscere ai consumatori, sarà per loro più facile riconoscere le produzioni degli allevatori italiani, preferirle e dare un valore aggiunto alla carne bovina di qualità che andranno ad acquistare».

C’è qualcosa che possiamo fare anche noi: consumare prodotti italiani. Mentre in Francia scatta l’obbligo di indicare la provenienza di tutti i tagli di carne serviti nei locali pubblici, gli allevatori italiani chiedono da anni che la misura sia varata anche in Italia. Lo stesso vale anche per latte e formaggi. Per dirla con Apostoli, «bisogna sempre cercare la qualità, dove c’è ovviamente».

·        La morte dell’Agricoltura.

L’agricoltura biodinamica via dalla legge sul biologico: perché la scienza esulta. LUCA IACCARINO su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.

La legge sul biologico approvata alla Camera con 421 sì. L’equiparazione tra agricoltura biologica e biodinamica bloccata da due emendamenti passati al fotofinish. Nei giorni scorsi la protesta degli scienziati: «Pratiche esoteriche».  

Seppur al fotofinish, scienza batte magia uno a zero. E meno male. Perché ieri l’italica fantasia avrebbe potuto raggiungere un altro, ambizioso traguardo: una legge con pratica esoterica inclusa. Invece, la ragione ha evitato che la Gazzetta Ufficiale diventasse una pubblicazione a tratti fantasy: grazie a due emendamenti di Riccardo Magi, Montecitorio ha finalmente espunto la parola «biodinamica» dal disegno di legge 988 (poi approvato oggi alla Camera con 421 sì, ora tornerà al Senato). La legge 988 sarà fondamentale, perché disciplinerà la produzione biologica e dunque determinerà i fondi europei che le verranno attribuiti. Tema importante. Ma il diavolo sta nei dettagli, e fino a ieri pomeriggio, prima dei provvidenziali correttivi, il testo assimilava – con pari dignità – l’agricoltura biologica e quella «biodinamica». Che era un po’ come dire: astronomia o astrologia? Non stiamo a guardare il capello.

L’agricoltura biodinamica

L’agricoltura biodinamica è stata teorizzata dal teosofo ed esoterista Rudolf Steiner vissuto dal 1861 al 1925, uomo di grande talento – fu il fondatore del celebre metodo pedagogico che porta il suo nome – ma non privo di idee bislacche, come che la razza ariana venisse da Atlantide (ah, i fantastici anni Venti). Per quel che concerne l’ambito agricolo, nel 1924 Steiner tenne un corso intitolato «Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura» in cui da un lato invitava a una produzione che oggi definiremmo biologica ma dall’altro vi includeva pratiche esoteriche, influssi astrali e preparati magici, tra cui il celebre «cornoletame», cioè un corno di una vacca che abbia partorito almeno una volta, riempito di sterco e interrato per propiziare raccolti generosi. Gli epigoni di Steiner, a un secolo dalla sua morte, di fatto operano in modo sostanzialmente biologico – il «cornoletame» si può agevolmente acquistare su internet, male non fa –, ma quella parola «biodinamica» in una legge dello Stato ci sarebbe stata come una ciliegina sui maccheroni (leggi qui la differenza tra agricoltura biologica e biodinamica).

La comunità scientifica

E infatti la comunità scientifica è insorta – fin dalla redazione del testo e poi dalla sua approvazione in Senato – per chiedere al Parlamento d’espungere il termine. «Il Parlamento afferma la validità di metodi previsti da Steiner come l’uso di letame maturato nelle corna di vacca, oppure di fiori di Achillea sepolti per mesi nella vescica di cervo maschio… Mi auguro per il bene del Paese che la Camera rifletta su queste considerazioni, eliminando dalla meritoria legge sull’agricoltura biologica ogni riferimento alla biodinamica», ha scritto il fisico Giorgio Parisi, Nobel nel 2021. «Nonostante il tempo trascorso dall’approvazione in Senato, il testo arriva in Aula senza che sia stata apportata la modifica richiesta alla Commissione Agricoltura da tutte le maggiori società scientifiche italiane di area e da più di 35mila ricercatori e cittadini interessati alla scienza», questa invece è la biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo. La comunità scientifica ha combattuto fino alle ultime ore. Forte anche dello scetticismo espresso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

L’intervento del Cicap

Domenica sera il CICAP – Il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze fondato nel 1989 da Piero Angela – scriveva sui propri social un lungo appello che diceva, tra l’altro: «L’agricoltura biodinamica è una disciplina basata su principi magici ed esoterici e non offre vantaggi scientificamente dimostrati. Appare, quindi, incomprensibile e inopportuno il suo riconoscimento da parte dei decisori politici». Motivo in più per questa battaglia il fatto che «Biodinamica» sia un marchio di proprietà dell’associazione Demeter International, che avrebbe tratto giovamento dal riconoscimento normativo. Ma dunque, perché le Camere hanno tirato dritto fino a ieri? Ammettendo la buona fede, per non rischiare di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Fuor di metafora: per non fermare l’avanzare di una legge fondamentale. Va be’, ma allora chi inserì quella parolina all’inizio dell’iter?

Biologico e biodinamico

«Fu l’ICQRF, l’Ispettorato del ministero dell’Agricoltura che si occupa anche dei controlli sulle certificazioni, a chiedere che nella legge fosse inserita l’agricoltura biodinamica» ha spiegato la prima firmataria del testo, la deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda. Che già ebbe occasione di prendersela con i detrattori, scrivendo su Facebook: «Diciamoci la verità, chi alza lo spauracchio dell’esoterismo e dell’anti scienza con la prepotenza del dibattito di queste settimane, che è cosa ben diversa dal confronto scientifico, dica semplicemente che vuole affossare la legge intera con la scusa del biodinamico». Ancora Gadda: «Si prendono finanziamenti perché si è imprenditori agricoli professionali e perché si ha la certificazione biologica, e questo vale anche per chi, con motivazioni che non mi interessano, sceglie di fare agricoltura biodinamica». In sostanza il Gadda-pensiero era: quel che conta è il risultato, e il biodinamico male non fa. Come diceva Woody Allen: basta che funzioni. Quindi: perché no? Perché non accontentare i «biodinamici»? La risposta è arrivata ieri sera, e sintetizzando, è stata: «Perché una legge dello Stato non dovrebbe contemplare pratiche esoteriche». Dunque con ogni probabilità quella sul biologico diventerà legge in giornata, e non conterrà alcun riferimento al biodinamico. A questo giro ha vinto la ragione. La fanta-scienza di stato può aspettare.

Battaglia alla Camera sull'agricoltura biodinamica: lo stop di Mattarella dopo il no degli scienziati. Concetto Vecchio su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.  

Oggi al voto la legge che equipara questo tipo di agricoltura a quella biologica. Ma la norma è avversata da molti scienziati. "E' una truffa, come stamina" ha sostenuto la senatrice a vita. Mentre per il premio Nobel si cerca di fare entrare "la magia nell'ordinamento giuridico". Anche il presidente della Repubblica ha fatto intendere che condivide queste preoccupazioni

La Camera dei deputati ieri stava per approvare una proposta di legge che equipara l'agricoltura biodinamica a quella biologica, ma nel tardo pomeriggio è arrivato lo stop. Forti le perplessità del mondo scientifico. Anche il Quirinale ha pubblicamente espresso delle riserve. "Così com'è questa norma non potrà avere il via libera del Presidente della Repubblica", riferivano ieri sera fonti parlamentari. 

Da editorialedomani.it il 9 febbraio 2022.

Dopo le riserve espresse dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e le prese di posizioni critiche della senatrice a vita Elena Cattaneo e del premio Nobel Giorgi Parisi, la Camera ha deciso di eliminare la norma che equiparava l’agricoltura biodinamica al metodo biologico, approvando alcuni emendamenti soppressivi alla legge sull’agricoltura biologica.

Questi sono stati presentati del deputato Riccardo Magi di +Europa e dalla commissione Agricoltura di Montecitorio. Se l’equiparazione tra le due diverse tecniche di coltivazione fosse stata approvata, le aziende dell’agricoltura biodinamica avrebbero potuto attingere ai fondi pubblici della ricerca. 

«C’è stata una vittoria in extremis, il parlamento ha saputo ascoltare i richiami che sono venuti dal mondo della scienza e dal presidente della Repubblica», ha detto Magi. «Abbiamo evitato che il parlamento approvasse un testo che non aveva fondamento scientifico, ma rimane il rammarico di non essere riusciti a modificare gli articoli 5 e 8», ha aggiunto.

Il testo, dopo essere stato approvato in Senato lo scorso 20 maggio, è arrivato l’8 febbraio alla Camera ma la discussione era stata rinviata al giorno seguente. Il punto più critico sul quale alcuni partiti non erano riusciti ancora a trovare ancora l’intesa riguardava proprio l’equiparazione dell’agricoltura di tipo biologico con quella biodinamica. 

Mentre la prima è una tecnica di coltivazione a basso impatto ambientale e che prevede metodi quanto più “naturali” possibili, evitando in particolare l’utilizzo di pesticidi, il biodinamico, invece, oltre a pratiche biologico aggiunge anche una serie di pratiche semi-esoteriche nate alla fine dell’Ottocento dal filosofo austriaco Rudolf Steiner. 

Tra le tecniche più utilizzate dall’agricoltura biodinamica ci sono la sepoltura nei campi del cosiddetto “cornoletame”, un corno di vacca riempito di letame che avrebbe particolari proprietà fertilizzanti, e delle vesciche di cervo maschio riempite di fili di achillea.

In Europa l’agricoltura biodinamica è particolarmente diffusa in Germania dove ha avuto una forte crescita verso la fine degli anni Trenta durante il regime nazista. 

In Italia, secondo l’Osservatorio Sana di Nomisma, l’agricoltura biologica vale 4,6 miliardi di euro, ma non sono chiare le cifre che riguardano invece il biodinamico, il quale invece è praticato da circa 4500 aziende come scrive il Sole 24 ore, ovvero circa il 6 per cento delle 70mila imprese a trazione biologica. Secondo Coldiretti il biodinamico italiano ha un giro di affari che ruota attorno ai 200milioni di euro.

Non tutti però sono d’accordo sull’equiparazione delle due tecniche di agricoltura. Tra questi ci sono scienziati ed esperti come la senatrice a vita Elena Cattaneo e il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi. Secondo loro il ddl sostiene e incoraggia una vera e propria pseudo scienza senza fondamenti scientifici. 

«Qualcuno deve aver scambiato l’agricoltura biodinamica per un’agricoltura biologica rafforzata e non si è accorto che stava inserendo nella legislazione italiana riferimenti ai preparati biodinamici che si basano su una visione del mondo dominata forze eterico-astrali che si accumulano tramite corna degli animali», ha scritto il premio Nobel per la fisica e il presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi.  «Il marchio “Biodinamica” è di proprietà di una società multinazionale con fine di lucro, la Demeter Int., che con il riconoscimento legislativo acquisirebbe un vantaggio competitivo rilevante rispetto ai tanti agricoltori che con serietà, onestà e sacrificio si sforzano di rispettare i disciplinari dell’agricoltura biologica».

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a novembre ha risposto a Parisi dicendo: «Non posso pronunciarmi sull’attività del parlamento, ma posso dire che prima che questa diventi legge vi sarebbero alcuni passaggi parlamentari che rendono lontana questa ipotesi».

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 9 febbraio 2022.

Il Quirinale al fianco degli scienziati per impedire l'equiparazione dell'agricoltura biodinamica a quella biologica. Nessun atto formale, ovviamente, da parte del presidente della Repubblica appena rieletto. 

Ma fonti parlamentari bene informate assicurano che ci sia stato un «suggerimento» arrivato dal Colle dietro la decisione, improvvisa, di rinviare l'approvazione della legge che prevede, tra le altre cose, l'istituzione di un marchio del biologico italiano e l'adozione di un piano nazionale per sostenere lo sviluppo del settore. Ma che, al comma 3 dell'articolo 1, precisa che tutte le misure di sostegno introdotte devono valere anche per i metodi di coltivazione equiparati al biologico, citando specificamente il biodinamico. Un marchio commerciale gestito da una multinazionale privata, mentre il biologico è regolamentato da precise norme dell'Unione europea. 

Un punto su cui, già dallo scorso anno, la comunità scientifica italiana ha manifestato una netta opposizione: «Non si può promuovere il pensiero magico in una legge dello Stato», ha detto la senatrice a vita (e scienziata) Elena Cattaneo, che a palazzo Madama ha presentato invano emendamenti soppressivi di quella parte del testo e, alla fine, è stata l'unica a votare contro.

Laddove per «pensiero magico» si intende la visione spirituale del teosofo esoterista Rudolf Steiner, che basa il metodo di coltivazione sull'osservazione delle fasi lunari per la semina o sull'utilizzo di «preparati» speciali per la concimazione. Un esempio per tutti è quello del letame inserito nel corno di una vacca, che abbia partorito almeno una volta, tenuto sottoterra, poi estratto e dinamizzato con acqua. 

A insorgere contro questo «metodo antiscientifico» è stato anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, che a più riprese ha invitato i parlamentari a «votare con conoscenza e competenza», chiedendo la «consulenza del mondo scientifico quando si deve decidere su questioni delicate e tecniche: se lo avessero fatto, le norme sull'agricoltura biodinamica non sarebbero arrivate neppure in discussione».

Parisi aveva anche lanciato un appello a Sergio Mattarella, per chiedergli di interessarsi alla questione. Il capo dello Stato, nel suo intervento dello scorso novembre all'università La Sapienza di Roma, per l'inaugurazione dell'anno accademico, aveva approfittato della presenza di Parisi per rispondere: «È una questione che sta in Parlamento e io, notoriamente, non posso pronunciarmi - aveva detto -. Ma posso ben dire che, perché diventi legge, vi sono alcuni altri passaggi, anche parlamentari anzitutto, che rendono lontana questa ipotesi».

Parole che, lette dopo quanto accaduto ieri a Montecitorio, assumono un'altra rilevanza. La legge, infatti, era pronta per essere messa in votazione, con solo tre emendamenti presentati: due del deputato di +Europa Riccardo Magi, che chiede di eliminare il passaggio sull'equiparazione biologico-biodinamico, e una della Svp, una correzione formale sulla salvaguardia finanziaria.

«Su 630 deputati, dopo la mobilitazione della comunità scientifica e l'interessamento del presidente Mattarella, nessun altro si è sentito in dovere di sollevare la questione e chiedere una modifica», dice Magi, che lo scorso luglio si era visto respingere gli stessi emendamenti in commissione Agricoltura ed era pronto ad assistere alla stessa scena in aula. «In pochi minuti potevano essere bocciati e la legge approvata - spiega -, invece è arrivato un rinvio a domani (oggi, ndr)».

Decisione della conferenza dei capigruppo, senza una motivazione ufficiale, ma da Montecitorio c'è chi racconta di una telefonata arrivata dal Quirinale: un invito a un «supplemento di riflessione» su una legge che «presenta elementi di complessità e suscita dubbi nella comunità scientifica». Insomma, leggendo tra le righe: se la approvate così potrei non firmarla. E allora quei due emendamenti potrebbero rivelarsi a sorpresa la via d'uscita per eliminare la contestata equiparazione (rendendo, però, necessario un ulteriore passaggio al Senato per approvare la legge) ed evitare un clamoroso scontro con colui che, solo pochi giorni fa, in quella stessa aula è stato applaudito più di 50 volte.

L'agricoltura non sarà più come la conosciamo: scatta la rivoluzione. Andrea Muratore il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

L'impatto ambientale del settore agricolo nel quadro della lotta ai cambiamenti climatici è un tema di elevata complessità. Da un lato, è chiaro che il settore primario risulti una filiera estremamente strategica nell'ottica della difesa di quote di produzioni alimentari e eccellenze nazionali da tutelare dai marosi di una competizione globale spesso assai articolata; dall'altro, è chiaro che non risulta efficiente sotto un punto di vista economico prima ancora che ambientale ridurre tale tutela a un semplice consolidamento dello status quo.

Questo è ancora più vero quando si parla dell'Italia, Paese che si trova stretto tra diverse problematiche: da un lato, un contesto europeo che con le Politiche agricole comunitarie (Pac) penalizza direttamente il nostro sistema-Paese, garantendo un sussidio diretto a produzioni concorrenti, dato che i redditi degli agricoltori italiani sono coperti dall'Ue per il 28% a fronte del 40% medio comunitario. Dall'altro, un arroccamento su un sistema complesso di bonus, incentivi e sussidi che frenano lo sviluppo sistemico di nuove produzioni e tecniche.

Secondo una stima di Coldiretti, l’Italia ha perso dal 1990 ad oggi il 28% del suo potenziale agricolo, circa 5 milioni di ettari. E se sul profilo ambientale questo ha contribuito al rimboschimento dell'Italia in graduale sviluppo, ciò ha contribuito a una slavina per la produzione. Si è dimezzato il mais, ridotto di un settimo lo spazio della barbabietola, portando alla scomparsa degli zuccherifici, ridotto al 77% di fine XX secolo lo spazio per i frutteti. Parliamo di un depauperamento produttivo pagato a duro prezzo dall'industria agroalimentare nazionale, cui è andato di pari passo un irrigidimento e un notevole peggioramento della qualità ambientale connesso alla permanenza di sussidi dal valore annuo, secondo stime di Legambiente, per 3,1 miliardi di euro che non vanno nella direzione di una crescente sostenibilità.

Il cibo è vita, l'agricoltura è il settore chiave per procacciarselo. E i Paesi non sono disposti, dopo la lezione della pandemia, a rinunciare alla tematica della sovranità alimentare. E al contempo, un miglioramento dell'efficienza e della produttività dell'agricoltura può contribuire a cogliere due piccioni con una fava: sviluppo economico e transizione green. La produzione alimentare è infatti responsabile del 26% delle emissioni nocive globali, il 27,5% in Italia secondo Ispra, prodotte per la maggior parte dall’agricoltura e in primo luogo dall’allevamento del bestiame, e inoltre impatta notevolmente sul tema del consumo idrico, dell'equilibrio di biodiversità e della gestione del suolo. In Italia Ispra stima che nell'ultimo trentennio gli impatti dell'agricoltura in termini di emissioni siano calati del 13% (da 34,7 a 30,2 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica), ma uno sforzo ulteriore è necessario.

Innovazione tecnologica e focus sulla sostenibilità possono in quest'ottica consentire un miglioramento su tutti i fronti. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo italiano nella Missione 2 centrata sul tema "Rivoluzione verde e transizione ecologica" si pone l'obiettivo di creare una filiera agroalimentare sostenibile, migliorando le prestazioni ambientali e la competitività delle aziende agricole. Le risorse destinate in forma diretta avranno un valore di 6,8 miliardi di euro, a cui si devono sommare fondi provenienti da progetti trasversali che incideranno anche sull'agricoltura: dalle nuove infrastrutture logistiche agli interventi per la lotta al dissesto idrogeologico e alla dispersione idrica, passando per le nuove connessioni digitali e l'Internet delle cose applicabile alle aziende agricole di ultima generazione. 2,8 miliardi di euro avranno un chiaro focus sulla sostenibilità, come ricorda Agro Notizie: "fondi destinati strettamente al comparto agricolo riguardano ad esempio chi ha degli impianti di lavorazione e stoccaggio in azienda (essiccatoi, frantoi, silos, …) oppure chi intende investire nell'agricoltura 4.0, quindi agricoltura di precisione, sensoristica, tracciabilità (anche blockchain)", mentre nel quadro dell'utilizzo di risorse per abilitare la transizione e la sostenibilità spicca "l'agrisolare, a cui andranno 1,5 miliardi di euro. Il governo mira a incentivare l'installazione di pannelli solari su capannoni e strutture aziendali (senza nessun consumo di suolo dunque) pari 2,4 milioni di metri quadri".

Nella sostanza la transizione verde passa per l’innovazione tecnologica che rende possibile un uso più efficiente e sostenibile delle risorse, e anche per l'agricoltura questa realtà di fatto non cambia. Lo sviluppo, spesso tutt'altro che ambientalmente proficuo, di nuove, presunte modalità di consumo "ecosostenibili" a livello dei privati cittadini non è che una foglia di fico dietro cui si cela la verà, importante necessità legata al rapporto tra agricoltura e sostenibilità: la necessità di rafforzare strutturalmente la filiera produttiva, facendole fare un salto nel XXI secolo.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Il concime che cambierà (totalmente) l'agricoltura. Alessandro Ferro il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dai gas di scarico della auto a frutta e verdura genuina: sembra un paradosso ma il modo di sfruttare la CO2 cambierà totalmente nei prossimi anni. Ecco come.

Catturare la CO2 dallo scarico del tubo di scappamento e dagli oli esausti delle nostre automobili per utilizzarla nelle serre per la lavorazione degli alimenti: non è fantascienza ma è quello a cui potremmo assistere nel prossimo futuro in un mondo che cambia trainato dalla transizione energetica.

Come funziona

L'intera operazione richiede ottimizzazione, simulazione al computer e progettazione: è l'obiettivo pubblicato su una rivista specializzata dove i ricercatori spiegano dettagliatamente tutti i processi che porterebbero alla trasformazione della CO2 che da dannosa diventerebbe utile. "CO2e la cattura dell'acqua dallo scarico richiedono un raffreddamento tempestivo e cicli rapidi di assorbimento/desorbimento. Gli ingegneri chimici, meccanici e di scienza dei materiali devono lavorare per sviluppare i pezzi necessari per completare il puzzle". Il meccanismo si sta studiando ma, secondo gli scienziati, "potrebbe essere disponibile realisticamente nel giro di un decennio".

Concimazione dai gas di scarico

Diciamo che sembra impossibile, al solo pensiero, ma dai tubi di scappamento delle auto potrà essere avviato un processo che porta alla "concimazione carbonica", tecnica di arricchimento dell'atmosfera che ha due scopi: "compensare le fluttuazioni di concentrazione della CO2 dovute all'utilizzo da parte delle piante e alla naturale variabilità atmosferica e incrementare la concentrazione della CO2 all'interno della serra al fine di ottimizzare e accelerare la reazione di fotosintesi", come viene ben spiegato su Agronotizie. In pratica, in una classica serra dalle medie dimensioni, dopo alcune ore di esposizione al sole la CO2 si riduce di oltre la metà rispetto a quella presente in atmosfera. Da qui c'è un rallentamento della fotosintesi e una minor resa del raccolto. "Sfruttarla, trasformando i prodotti della combustione dei motori in composti utili all'agricoltura e alla supply chain (catena di approvvigionamento, ndr) del cibo - scrivono gli ingegneri - potrebbe permettere uno sviluppo davvero sostenibile dell'agricoltura urbana intensiva".

Come si fa a prendere CO2 dalle auto

Ma come si fa ad avviare il processo dalle nostre automobili? Il team propone di integrare un sistema di liquefazione e stoccaggio della CO2 così da far raffreddare il gas serra sarebbe con uno strumento chiamato scambiatore di calore per poi passare alla fase due di compressione da gas a liquido così da immagazzinarlo più facilmente. Tutta l'energia che farà funzionare questo ciclo sarà data dal calore del motore che, invece di disperdersi nell'ambiente, sarebbe utilizzato come mai fino ad ora. L'anidride carbonica finirebbe all'interno di un recipiente pronta per essere svuotata nei centri di raccolta specializzati o magari utilizzata in una serra.

"Anni fa non pensavamo di poter avere un condizionatore all'interno dell'auto", afferma un ricercatore a Repubblica. "Il nostro è un device del tutto simile e può fare il suo lavoro anche se alloggiato in spazi molto stretti, implementato nel motore". Se si riuscisse ad eliminare una parte di quelle 3,2 miliardi di tonnellate di CO2 delle auto che ogni anni vengono liberate in atmosfera e utilizzarla per far crescere e sviluppare frutta e verdura, sarebbe uno dei più grandi passi in avanti verso la piena realizzazione della transizione ecologica. Come sottolineano le autrici, l'impatto di una tecnologia del genere su larga scala sarebbe enorme. La domanda è enorme perché per ogni chilo di ortaggi sono necessari 2,81 Kg di CO2 e 22 litri d'acqua ma entrambi i componenti (anidride e vapore acqueo) sono tra i composti principali dei tubi di scappamento. Quale modo migliore, seguendo l'ingegno umano, per utilizzarli al meglio?

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario. 

Le fattorie volanti: cosa sta per cambiare. Alessandro Ferro il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dirigibili adibiti ad orti o fattorie volanti per portare il cibo in qualsiasi zona del mondo: è questo il progetto di uno studio mondiale di architettura premiato ad un concorso. Ecco di cosa si tratta.

Dirigibili convertiti a fattorie o boschi verticali volanti per distribuire cibo in tutto il mondo: è questa la proposta di Mcheileh Studio, importante studio di architettura e design con sede a New York e Melbourne che si è aggiudicato il secondo posto nel concorso "Redesign the World" della rivista Dezeen promosso da Twinmotion, l'ultimo concorso che ha richiesto nuove idee per ripensare il pianeta Terra.

Ecco le fattorie a "larga scala"

La proposta, denominata "Aeroponic 2100", prevede dirigibili che sorvolano Paesi, città e spazi residenziali distribuendo cibo dove è necessario eliminando la necessità di trasportarlo su lunghe distanze tramite le classiche modalità di trasporto ad alta intensità di carbonio (navi e aerei su tutti) liberando terreni attualmente utilizzati per l'agricoltura. La soluzione eliminerebbe anche l'inquinamento creando una "vera soluzione dalla fattoria alla tavola su larga scala", secondo gli architetti di Mcheileh Studio.

I dirigibili del futuro

Secondo quanto si apprende dal progetto, i dirigibili sarebbero climatizzati, autosufficienti, alimentati da energia solare ed eolica e progettati per viaggiare in qualsiasi parte del mondo, compresi gli ambienti desertici e i siti di disastri naturali o provocati dall'uomo. "Visione avvincente per un futuro più mobile", è il motto dello studio di fama mondiale. "La gente di solito pensa agli edifici come cose molto fisse e permanenti, ma non è necessario che lo siano", hanno detto i giudici che hanno premiato l'idea facendola classificare al secondo posto. "L'architettura dirigibile di Mcheileh Studio presenta una visione avvincente per un futuro più leggero e mobile in cui possiamo spostare i nostri edifici dove devono essere senza dover costantemente costruire, distruggere e ricostruire strutture permanenti", aggiungono.

Ecco come funzionano

Ma come funzionerebbero, esattamente, questi dirigibili? Volerebbero a bassa velocità attraverso città e paesi mentre sono collegati a un hub centrale per poi staccarsi e collegarsi a parchi, aree residenziali e nodi di trasporto di massa. L'interno di questi ecologici "boschi verticali" del cielo offrirebbe anche lo spazio per incontri sociali, eventi comunitari e attività ricreative. "La mobilità è un aspetto chiave di questo concetto. La capacità dei dirigibili di viaggiare facilita la distribuzione del cibo direttamente dove è necessario, eliminando così la necessità di grandi fattorie nelle campagne e il trasporto di cibo su lunghe distanze". I dirigibili sono completamente autosufficienti, alimentati da energia solare e sfruttano l'agricoltura aeroponica e idroponica, metodi di coltivazione che non hanno bisogno del suolo. L'acqua piovana viene raccolta dal telaio esterno della nave, immagazzinato internamente e filtrato per nutrire le piante. "L'acqua viene anche raccolta dai mari e dagli oceani e desalinizzata per l'uso. La propulsione dei dirigibili è alimentata da una combinazione di energia solare ed eolica".

Aeroponic 2100 può essere implementato in qualsiasi parte del mondo: dalle grandi città agli ambienti desertici remoti e inospitali. La loro mobilità offre la flessibilità di portare risorse alimentari in aree colpite da disastri naturali o provocati dall'uomo come regioni dilaniate dalla guerra o colpite dalla siccità terra. "Gli interni climatizzati dei dirigibili sono indipendenti dalle condizioni esterne, il che li rende adatti a qualsiasi luogo e allo stesso tempo proteggono le colture da eventi meteorologici estremi", affermano i responsabili del progetto.

Perché i terreni sono insufficienti

Una delle sfide più significative che la razza umana deve affrontare in questo secolo è la produzione e la distribuzione del cibo per tutti. I metodi attuali producono alti livelli di inquinamento dell'aria e del suolo attraverso la crescita, la raccolta e il trasporto di cibo. "La ricerca ha anche dimostrato che i terreni agricoli diventano degradati e meno efficienti nel tempo a causa dell'uso ripetuto di pesticidi. Inoltre, l'insicurezza alimentare sta raggiungendo livelli di crisi in alcune parti del mondo a causa della guerra, della povertà e dello sfollamento di intere comunità a causa del cambiamento climatico".

Ecco perché il progetto mira ad affrontare i problemi relativi alla produzione alimentare in futuro eliminare l'inquinamento, i trasporti inefficienti e i danni agli ecosistemi terrestri: una vera soluzione "dal campo alla tavola" su larga scala. Il concetto deriva dalla combinazione di tecnologia aerospaziale e metodi di agricoltura aeroponica. "Una flotta di dirigibili contiene spazio agricolo impilato verticalmente per la crescita e la raccolta del cibo. I dirigibili sono mercati alimentari mobili che vendono anche cibo".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        L’Orto.

Basilico e altre storie. Sua altezza l’orto. Carla Reschia su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.

Basta un piccolo terrazzo per improvvisarsi coltivatori urbani e creare anche in piena città un angolo verde. L’ossigeno è assicurato e con un minimo sforzo arriveranno anche verdure e aromatiche a chilometro zero. 

Da qualche anno il vertical gardening tiene banco con pubblicazioni, mostre, presenze ai vari saloni e mille declinazioni, dall’Ikea alla creazione firmata e su misura. Almeno dal 10 ottobre 2014 quando il Bosco Verticale di Stefano Boeri ha stupito il mondo e sedotto centinaia di emuli, circola l’idea che in poco spazio e senza rinunciare alla dimensione urbana si possa ricreare l’atmosfera di un paesaggio naturale più coinvolgente della solita pianta in vaso.

Il passo successivo è stato rivolgersi dal decorativo al funzionale, ed ecco apparire gli orti verticali. Sono modulabili, a seconda dello spazio a disposizione e sì, con qualche accorgimento funzionano davvero. Realizzarli e mantenerli, infatti, non è così difficile e complesso come si può credere: basta seguire una semplice serie di regole e consigli.

Si tratta, nella pratica, di un insieme di vasi, fioriere, contenitori (bottiglie o cassette) che vengono disposti in verticale e in cui vengono piantati diversi tipi di ortaggi e piante aromatiche. Ci sono in commercio kit completi con strutture già predisposte, anche per la coltura idroponica, ci si può affidare a un progettista per armonizzare e inserire l’orto nell’arredamento della casa o disporlo al meglio sul terrazzo e, infine, si può anche ricorrere al fai-da-te.

Normalmente, infatti, i diversi vasi in cui sono stati piantati i vari ortaggi, vengono semplicemente disposti sulla superficie del pavimento del cortile, del terrazzo o del balcone, minimizzando il numero dei contenitori che possono essere utilizzati. In un orto verticale, invece, i vasi vengono posizionati su una serie di ripiani, aumentando notevolmente, quindi, il numero delle piante che possono essere coltivate e diminuendo il loro ingombro.

Ci sono alcuni punti fermi. Attenzione ai supporti: siano scaffali di legno, di plastica o di metallo, devono essere assicurati bene e ancorati a un muro, o comunque a una superficie solida, per evitare cedimenti improvvisi. Molti preferiscono, se possibile, fissare i vasi direttamente alle pareti o utilizzare dei sistemi di reti o delle catenelle metalliche su cui vengono aggiunti i contenitori.

L’allestimento lascia spazio alla creatività e al gusto individuali: possono essere riciclate anche cassette della frutta, barattoli, bottiglie, vecchi recipienti inutilizzati o qualsiasi cosa possa contenere una pianta. Tenendo presenti, tuttavia, due fattori. Il primo è l’irrigazione. Non ci dev’essere ristagno e l’acqua non dev’essere né troppa né scarsa, quindi occorre prevedere un drenaggio. Inoltre, deve adattarsi alle quantità richieste dalle diverse varietà coltivate.

In ogni caso è sempre consigliabile utilizzare dei sottovasi per evitare che l’acqua in eccesso finisca sul pavimento o sui mobili ed è meglio proteggere le pareti con dei teli cerati o comunque impermeabilizzarle per evitare possibili rischi di umidità, infiltrazioni e muffe.

Con i sistemi di micro-irrigazione, ormai molto avanzati e disponibili sia per giardini e orti sia per piccoli spazi domestici, tuttavia, molti di questi problemi vengono evitati all’origine e si possono anche programmare in modo ottimale gli orari di annaffiatura e il dosaggio.

Un altro aspetto molto importante da considerare con attenzione quando si decide dove posizionare l’orto verticale, è la luce. Occorre che sia costante almeno per alcune ore al giorno ed è meglio che le piante possano ricevere, almeno in parte, anche luce naturale. Inoltre, dovrebbe essere calibrata sulla sensibilità e le necessità delle diverse coltivazioni. Bisogna quindi sia orientare la struttura, sia scegliere dove piantare cosa perché ogni pianta possa sopravvivere e crescere.

E questo porta a un ulteriore e decisivo momento, quello della scelta degli ortaggi da piantare. Tutte le rampicanti, ad esempio, sono ideali perché possono essere fatte sviluppare facilmente in altezza sui sostegni o sulla superficie delle pareti. Sono quindi perfette le piante di zucchine, zucche e pomodori, soprattutto quelli rampicanti e selezionati appositamente per crescere in spazi ridotti. Il trucco, infatti, non sta tanto nello scegliere la giusta verdura, ma nello sceglierne la giusta qualità e varietà.

In questo passaggio è utile nel caso farsi aiutare da un professionista perché la loro crescita non sia di ostacolo e non crei un’ombreggiatura troppo elevata che può minare la sopravvivenza degli altri ortaggi. La scelta migliore, quindi, si deve basare sulla giusta proporzione tra le piante rampicanti e quelle non rampicanti e sull’idea di distribuzione spaziale.

Gli esperti consigliano anche di evitare le piante perenni, non perché siano inadatte alla coltivazione in vaso, ma perché sono più complesse da gestire nel tempo. Richiedono, infatti, rinvasi periodici e maggiori cure. Inoltre, possono essere, all’inizio, meno produttive. Carciofi ed asparagi, per quanto possa piacere l’idea di averli in casa freschi, sono senz’altro sconsigliabili. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni, come il rosmarino che richiede solo una semplice potatura periodica e cresce bene anche in uno spazio ridotto.

In generale si possono coltivare facilmente insalate, biete, rapanelli, fragole, spinaci. Si possono inserire anche varie aromatiche, ad esempio erba cipollina e prezzemolo. Bene anche timo, rosmarino, salvia, basilico, maggiorana, menta, che hanno anche il vantaggio di profumare l’ambiente.

Per tenere in ordine, infine, bastano i consueti strumenti da giardinaggio: innaffiatoio, nebulizzatore, palette, rastrello.

Quando coltivare un orto diventa terapeutico. Gioia Locati l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Missione Sogni" inaugura orti negli ospedali pediatrici per facilitare il recupero psico fisico dei ricoverati. Così i bambini imparano a conoscere i ritmi della natura.

Chi affonda le mani nella terra o ne pianta i semi e li osserva trasformarsi e crescere, sviluppa intuito perché apprende i cicli della vita. Per questo, secondo la psicoanalista Clarissa Pinkola Estes, lavorare la terra porta diretti al cuore delle cose, ad esempio, si capisce istintivamente quanto c’è da “coltivare” - dei propri interessi come delle relazioni - e quando invece occorre allontanarsi.

Nei Paesi anglosassoni sono sempre più numerose le associazioni che mettono a disposizione dei malati orti e giardini per favorirne un recupero psico-fisico. “Sulla base di quegli studi, nel 2011, abbiamo dato vita alla nostra Missioni Sogni e realizzato orti negli ospedali milanesi - ha spiegato Antonella Camerana, presidente di Missione Sogni che, poche settimane fa, ha inaugurato un nuovo angolo verde riservato ai bambini ricoverati dell’Ospedale Vittore Buzzi”.

Si tratta del settimo “orto dei sogni” insieme a quelli avviati, negli anni, con il supporto tecnico dell’Associazione Parco Segantini di Milano, all’Ospedale Sacco, alla clinica pediatrica De Marchi, all’Istituto dei Tumori (Spazio Vita), all’Ospedale Niguarda, alla Fondazione Arché e al Fatebenefratelli.

I bambini che sono seguiti nelle diverse fasi di realizzazione dell’orto, imparano anche a mangiare sano e a non sprecare il cibo e le risorse.

“Sono stati coinvolti fino ad oggi più di mille piccoli pazienti - ha aggiunto Camerana - Nell’orto terapeutico, l’esperienza diventa anche formativa: i bambini seminano verdure, frutti e essenze aromatiche, partecipano a laboratori sulle piante e le loro proprietà, imparano a conoscere quali animali e insetti vi abitano, si impegnano in cucina a preparare cibi con i prodotti raccolti. Si divertono, apprezzano la bellezza della natura e capiscono l’importanza di prendersene cura”.

Ha precisato Camerana: “Da subito ci è sembrato importante affiancare all’ortoterapia anche percorsi didattici condotti da esperti educatori e oggi più che mai è fondamentale infondere nei bambini una sensibilità ambientale più attenta e rispettosa degli equilibri indispensabili alla vita, al benessere delle persone e alla scoperta della natura e dei suoi frutti, attraverso il contatto con la terra”.

Una stagione via l’altra. Chi prepara il terreno in primavera, stagione di semina e pacciamatura; chi raccoglie i frutti in estate e predispone l’orto per l’autunno; chi, con le foglie che cadono e le prime nebbie, impara a gestire il compost e chi, d’inverno, apprende le regole della semina in semenzaio. Le stagioni si presentano puntuali, nonostante l'inquinamento umano stia guastando l'ambiente e continuano a sorprenderci con la loro potenza e capacità trasformativa.

“Per un bambino ospedalizzato poter frequentare un contesto diverso dal proprio ambiente di cura, anche a livello tattile e olfattivo, diventa uno stimolo alla guarigione” è convinto Gianvincenzo Zuccotti, direttore del Dipartimento di Pediatria dell’Ospedale “Vittore Buzzi”. “Utilizzare le piante e i giardini per la cura e la riabilitazione della persona porta rilevanti benefici di tipo emotivo, sociale, affettivo e fisico”.

Conclude Camerana: "Il successo che i nostri orti hanno avuto in questi anni ci stimola a proseguire su questa strada, per essere di sostegno a un numero sempre maggiore di bambini e di famiglie”.

·        Il Biologico.

Prevenire è meglio che curare. Il biologico salverà il clima. Chiara Buzzi su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

Dalla tradizione agricola austriaca impariamo che lavorare in biologico è una delle tante misure che aiuta a ridurre i gas serra

Quante volte sentiamo parlare di cambiamento climatico? Un po’ come la parola sostenibilità, questo termine è ormai un po’ troppo inflazionato nel linguaggio comune e alcune volte accade che il suo significato e le dinamiche che vi sottendono non siano poi così chiare. Ovviamente si tratta di un fenomeno causato, indotto, attribuito all’uomo e che interessa vari aspetti della nostra vita, delle nostre abitudini, del pianeta in cui viviamo e in cui siamo stati accolti. Pensiamo all’aumento della temperatura, per il quale non ci occorrono particolari strumentazioni o studi per capire che è effettivamente avvenuto, lo sentiamo ogni anni e mediamente è causato dai gas a effetto serra quali l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e il protossido d’azoto (N2O). Gli effetti del cambiamento climatico sono vari e già rilevabili e così come sono già moltissime le realtà a livello globale che si stanno impegnando per ridurre queste emissioni e per invertire il corso dei fatti, allo stesso tempo siamo i progressi da fare sono ancora molti. Più o meno a tutti i livelli è possibile mettere in campo delle misure correttive, dei comportamenti preventivi e migliorativi, che possono cambiare chiaramente anche a seconda dei budget a disposizione e delle risorse coinvolte. A livello agricolo, ad esempio, è possibile operare salvaguardando le emissioni di gas serra favorendo la rotazione delle colture, alternando raccolti diversi sullo stesso terreno promuovendo una sempre costante e naturale fertilità, seguendo i principi dell’agricoltura biologica, eliminando pesticidi e concimi chimici in virtù di una maggiore salubrità del suolo.

Quando leggiamo di un innalzamento della temperatura anche solo di un paio di gradi, per quanto in valore assoluto non sembri un cambiamento sensibile, ci sono una serie di animali, piante, microorganismi che ne possono risentire. Ogni elemento è collegato perché tutto ciò che ruota attorno al concetto di bio – sostenibilità, utilizzo non invasivo delle risorse, economia circolare il più possibile autoalimentata – contribuisce fortemente a rafforzare i meccanismi naturali dell’ecosistema. Diventa quindi determinante puntare attivamente sull’agricoltura come misura per la salvaguardia del clima rendendola protagonista di investimenti, studi e ricerche e facendone parte della soluzione anziché del problema.  Un terreno sano e concimato naturalmente a letame risulta più adatto ad immagazzinare una quantità maggiore di anidride carbonica – eliminandola dall’atmosfera. Non possiamo collegarci a questo punto al concetto di “humus”, alla sua continua formazione, inteso proprio come una componente attiva e fondamentale per la composizione organica del terreno, che interagisce con la parte minerale influenzando (positivamente) le proprietà chimiche e fisiche del suolo. Un buon humus garantisce una maggiore capacità di ritenzione idrica del terreno, delle condizioni di sviluppo migliori per piante e microorganismi, così come l’alta concentrazione di elementi nutritivi e il mantenimento di un ph corretto. In buona sostanza,  la presenza di un humus di qualità si traduce in condizioni di nutrizione ottimali anche per le piante, grazie alle elevate dotazioni in elementi nutritivi e alle dinamiche più equilibrate che si instaurano tra fase solida e liquida. Poiché l’humus è costituito da oltre il 50% di carbonio, ogni tonnellata aggiuntiva di humus allevia l’atmosfera di oltre 1,8 tonnellate di CO2. Sono numeri incredibili se pensiamo che potrebbero essere replicati in scala e in maniera più costante e continua in tante zone del mondo.

L’agricoltura biologica dà un importante contributo alla protezione del clima quando si parla di coltivazione delle piante: da un lato, attraverso una gestione attiva, in cui le piante proteggono il suolo tramite l’inerbimento, legano CO2 e, attraverso i legumi, legano l’azoto contenuto nell’aria. Dall’altro perché l’agricoltura biologica fa a meno di fertilizzanti azotati facilmente solubili e pesticidi chimico-sintetici perché estremamente energivori, soprattutto nella produzione. Senza la produzione, il trasporto e l’uso di queste sostanze, l’emissione di gas serra viene sensibilmente ridotta.

Anche per quanto riguarda gli animali e gli allevamenti, vi sono delle connessioni positive con un approccio più consapevole e sano ai terreni. Un allevamento orientato al biologico aiuta a proteggere il clima generando un impatto minore sull’ambiente perché evita gli allevamenti intensivi, i mangimi artificiali, preserva il dispendio di risorse e fa sì che il numero di capi allevati sia adeguato al luogo e al pascolo. La percentuale di erba nei mangimi per mucche e altri ruminanti è particolarmente elevata: sulle linee guida del Logo biologico dell’EU, AMA-Marketing ha elaborato un marchio di qualità per i prodotti Bio austriaci: l’AMA-Biosiegel. Le direttive per l’ottenimento del marchio governativo AMA si rifanno a quelle previste dalla Legislazione europea per il settore biologico. Tali direttive assicurano alta qualità degli alimenti, severi standard ambientali e origine protetta. Il bollino tondo rosso e bianco dell’AMA-Biosiegel garantisce non solo la provenienza nazionale della materia prima, ma anche la sua lavorazione e trasformazione in territorio austriaco. Per quanto riguarda la tracciabilità della carne, poi, l’AMA-Biosiegel garantisce non solo che l’animale è nato in Austria, ma che sempre qui è stato allevato, nutrito, macellato e infine lavorato.

100 per cento di ingredienti biologici – per lo più da sistemi di controllo di qualità dei prodotti agricoli riconosciuti

prodotti naturali ottenuti nel rispetto delle rigide direttive in fatto sia di produzione sia di lavorazione (per es. utilizzo di soli aromi naturali)

rinuncia a olio di palma e olio di palmisto

imballaggi ecologici, per esempio senza PVC

severi criteri microbiologici e chimico-fisici, oltre le prescrizioni di legge

controlli costanti delle aziende, analisi puntuali del prodotto ed esami sensoriali

tracciabilità delle materie prime e delle risorse

rigide norme igieniche nella produzione

Cancellata l'agricoltura biodinamica, via alla legge di riforma del biologico. Dopo le polemiche, alla Camera è stata trovata l’intesa ma senza le tecniche bollate come “stregonerie”. ANNAMARIA CAPPARELLI Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

È bastato cancellare l’equiparazione alle modalità produttive biodinamiche e il disegno di legge che regola l’agricoltura biologica ha ottenuto ieri il lasciapassare alla Camera. Il relatore della proposta di legge, Pasquale Maglione (M5S), era convinto che, spazzato il campo dalla legge di Bilancio e dalla nomina del presidente della Repubblica, il Parlamento avrebbe affrontato in tempi stretti il tema del biologico. E così è stato. Anche se l’iter è partito in salita, e senza il colpo di spugna sulle produzioni biodinamiche il provvedimento si sarebbe arenato.

TUTELA DEL MADE IN ITALY

Tutto questo, nonostante il mantra sia di produrre green. Ora l’ultima “prova” al Senato: lì si capirà se la questione biodinamica, che ha tenuto in scacco la nuova normativa, è di forma o di sostanza. Certo non si potevano ignorare gli interventi di scienziati di primo piano che avevano impallinato il riferimento a tecniche produttive bollate come «stregonerie».

Anche se forse è molto più stregonesco interrare scorie pericolose per la salute che elementi organici che male al terreno non fanno. E non è mancato il “fuoco amico” di una parte del mondo agricolo. Comunque, raggiunto il primo risultato, ora l’appello della politica e del mondo produttivo, con Coldiretti in prima linea, è uno solo: fare presto al Senato.

C’è però da precisare che dei tre riferimenti all’agricoltura biodinamica ne è stato cancellato uno solo. E in ogni caso, se il motivo del contendere era quello di concedere contributi a chi sotterra nei campi “corni di vacche” o segue le fasi della luna, bisogna però, per correttezza, ricordare che i soldi questi imprenditori li incassano comunque come produttori biologici. Si tratta, infatti, di una sparuta pattuglia, non più di 4mila operatori, che destinano una piccola parte dei terreni coltivati a bio per realizzare prodotti che peraltro sono sempre più richiesti dai consumatori.

Al di là delle polemiche, resta l’importanza di una legge finalizzata a qualificare sempre di più le produzioni biologiche rafforzando i controlli e tutelando il vero made in Italy, tenendo conto che oggi l’Italia ricorre a ingenti quantitativi di materie prime importate da Paesi terzi che non offrono le stesse garanzie di salubrità delle coltivazioni nazionali.

LE NOVITÀ

Tra le principali novità, il marchio bio per i prodotti ottenuti da materia prima italiana, un Piano nazionale per agevolare la conversione al biologico, misure per favorire le filiere e i bio distretti, finalizzati anche a sostenere le attività multifunzionali collegate alla produzione biologica, e ancora, incentivi per la ricerca e un piano nazionale delle sementi bio.

La legge, va ricordato, è in linea con le strategie comunitarie del Green Deal e della nuova Pac (Politica agricola comune) e del Piano nazionale di ripresa e resilienza che ha stanziato 300 milioni per sostenere contratti di filiera e distretti bio. Anche perché l’obiettivo indicato da Bruxelles è di raggiungere nel 2030 il 25% dei campi bio. Si tratta, tra l’altro, di una grande opportunità per il Mezzogiorno che oggi detiene la palma del biologico, dimostrando così di aver intrapreso una scelta agricola d’avanguardia improntata alla piena sostenibilità.

IL SUD TIRA LA VOLATA

L’Italia, prima nella Ue con il 16% della Sau, stacca la Spagna (10,1%), la Germania (9,07%) e la Francia (8,06%). Oltre 2 milioni di ettari, quasi 90mila operatori, consumi in crescita come l’export che ha raggiunto 2,6 miliardi. A tirare la volata sono le regioni del Sud, dalla Sicilia (370mila ettari) alla Puglia (266mila ettari), fino alla Calabria, dove è bio un campo su tre. La partita della transizione ecologica, dunque, si gioca soprattutto su biologico e agro energie.

Ma il problema sono le importazioni. Nel confronto con i prodotti bio stranieri, realizzati a basso costo, il made in Italy è poco competitivo se non dispone di armi per comunicare correttamente la sua distintività e qualità. La Coldiretti ha rilevato in uno studio che gli acquisti sui mercati terzi hanno segnato una crescita del 13%, per un totale di 210 milioni di kg di prodotti, di cui quasi un terzo dall’Asia.

Si tratta di cereali, frutta fresca e secca e colture industriali, ma anche olio e agrumi. E in una fase positiva per i consumi gli agricoltori italiani non possono perdere questa occasione.

CONSUMI IN CRESCITA

«Con gli acquisiti di prodotti bio made in Italy che nel 2021 hanno sfiorato il record di 7,5 miliardi di euro di valore, tra consumi interni ed export – dice il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – mai come in questo momento storico abbiamo bisogno della legge sul biologico e per questo va accelerato l’iter al Senato. Un provvedimento fortemente sostenuto dalla Coldiretti che, con Codacons, Federbio, Legambiente e Slow Food, si è impegnata per rispondere alle attese di produttori e consumatori che si avvicinano sempre più al biologico».

Nell’ultimo decennio – rileva uno studio dell’organizzazione – le vendite bio totali sono più che raddoppiate (+122%) e il successo nel carrello sostiene l’aumento della produzione nazionale, fornendo una spinta al raggiungimento degli obiettivi della strategia Farm to Fork del New Green Deal che punta ad avere almeno 1 campo su 4 dedicato al bio in Italia. D’altra parte già oggi il 64% degli italiani mette prodotti “ecologici” nel carrello, e a questi consumatori bisogna offrire informazioni precise su quello che portano in tavola. E per questo scopo saranno importanti le piattaforme digitali, previste dalla normativa, per garantire una piena informazione circa la provenienza, la qualità e la tracciabilità dei prodotti con una delega al governo per rivedere la normativa sui controlli e garantire l’autonomia degli enti di certificazione.

Agricoltura biologica: inquina meno? Costa di più? Come si certifica? Il vero e il falso.  CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Mai come in questi giorni l’agricoltura biologica è materia di dibattito. Tra sostenitori e detrattori si discute spesso dei reali benefici, per se stessi e per l’ambiente. Le domande più frequenti e tutte le risposte

Il biologico, che cos’è

Grazie a due emendamenti di Riccardo Magi, ieri la Camera dei Deputati ha espunto la parola «biodinamica» dal disegno di legge 988, approvato nella stessa giornata con 421 sì. E, ora, in attesa di andare al Senato. Un passo importante perché, in sostanza, la legge 988 disciplinerà la produzione biologica e dunque determinerà anche i fondi europei che le verranno attribuiti.

Ma che cosa si intende per biologico? «Si tratta di un metodo agricolo volto a produrre alimenti con sostanze e processi naturali. Con un impatto ambientale limitato perché incoraggia a usare l’energia e le risorse naturali in maniera responsabile, rispetta e valorizza la biodiversità, consente di conservare gli equilibri ecologici territoriali, favorisce la fertilità del suolo, rispetta e mantiene la qualità delle acque», spiega Stefano Di Marco, ricercatore presso l’Istituto per la Bioeconomia del CNR, dipartimento di Scienze bioagroalimentari. Che aggiunge: «L’agricoltura biologica favorisce il benessere degli animali e motiva gli agricoltori a soddisfarne le particolari esigenze». E alla domanda se sia aperto alle biotecnologie, l’esperto risponde che il termine biologico è tra i più divisivi di sempre. E una frangia del mondo scientifico lo accusa di eccessiva regolamentazione. «Ci sono microbiologi e genetisti — sottolinea Di Marco — che lamentano un ristretto, al limite dell’esclusivo, perimetro di norme. L’agricoltura biologica, per definizione, è la più naturale possibile. Questo fa sì che l’utilizzo delle biotecnologie venga escluso da ogni pratica. Per molti uomini di scienza una grande opportunità persa che può solo penalizzare l’intera filiera».

Il biologico è totalmente naturale?

L’agricoltura biologica rifiuta ogni sorta di sostanza chimica di sintesi, di quelle impiegate nell’agricoltura tradizionale per intenderci. Tradotto, significa che non ammette l’uso di diserbanti, erbicidi, pesticidi e quant’altro. Tutte sostanze, queste, tossiche e nocive per la salute perché, una volta utilizzate, restano attaccate ai prodotti che, poi, finiscono in tavola. Ed è solto un esempio.

L’agricoltura biologica, poi, rifiuta anche l’utilizzo di OGM (organismi geneticamente modificati), vieta le tecniche di maturazione forzata degli alimenti, rifiuta prodotti che non siano totalmente naturali. Un po’ come facevano i nonni dei nostri nonni.

L’agricoltura biologica fa uso di pesticidi?

Sì e no. L’agricoltura biologica non utilizza pesticidi di sintesi, ma ammette quelli di origine naturale. Esistono sostanze, quali il solfato e l’idrossido di rame, oppure lo zolfo, che sono ammesse, ma che possono comunque avere un impatto ambientale non trascurabile. Il rame, ad esempio, è utile ai contadini per combattere la peronospora, malattia fungina deleteria per alcuni tipi di piante, come i pomodori, ma in quanto a metallo pesante, resta un possibile inquinate del suolo.

Il cibo bio è realmente più naturale?

Sono numerosi, e in crescita, gli studi che dimostrano come su frutta e verdura bio esistano meno residui di pesticidi. «Si tratta comunque di piccole quantità». Sempre secondo la scienza, poi, meno pesticidi non vuol dire nessun pesticida. Esistono anche pesticidi organici che non sono per forza di cose più sicuri di quelli convenzionali. Certo, poi la tossicità dipende dalla concentrazione, da quanto e per quanto ne siamo esposti.

I prodotti biologici hanno migliori proprietà nutrizionali?

Di certo c’è che l’offerta di cibo biologico oggi è molto ampia, e in crescita costante: dai farmers market hipster alle bancarelle del mercato sotto casa fino a super e ipermercati — la grande distribuzione organizzata — la proposta è variegata. Diverse ricerche americane evidenziano quanto, in alcuni casi, gli alimenti biologici contengano una maggiore concentrazione di antiossidanti. Ciò avviene perché «le piante li produrrebbero come una sorta di pesticidi naturali, a differenza delle normali coltivazioni che si servono dell’aiutino chimico per sopravvivere ai parassiti». Altri studi dimostrano che gli alimenti bio possono avere concentrazioni leggermente maggiori di vitamina C e acidi grassi omega-3, mentre altri ancora sono certissimi: «Non esistono differenze significative rispetto al cibo non bio».

L’agricoltura biologica rende tanto quanto quella tradizionale?

Le rese per ettaro dell’agricoltura biologica sono in genere inferiori a quelle dell’agricoltura convenzionale, ma molto dipende dal tipo di coltura e dalle condizioni ambientali. In genere non si riscontrano grandi differenze medie di resa tra i due sistemi agricoli. Talvolta capita che le coltivazioni biologiche arrivino a produrre il 50 per cento in meno.

L’agricoltura biologica rispetta il territorio?

Sì perché vengono utilizzate tecniche di coltivazione antiche: la rotazione delle colture finalizzata a mantenere il suolo in salute; la consociazione per consentire alle piante di respingere una i parassiti dell’altra; il sovescio attraverso cui si interrano alberi atti a fertilizzare il suolo; la piantumazione delle siepi per un habitat capace di accogliere quegli insetti che fungono da antiparassitari.

L’agricoltura biologica promuove la biodiversità?

Vero, e non solo: spesso, infatti, supporta una maggiore biodiversità dell’agricoltura convenzionale. D’altra parte l’agricoltura intensiva, più impattante sulla biodiversità se misurata per unità di area, richiede in media una minore superficie per produrre la stessa quantità di cibo. Motivo per cui permetterebbe di lasciare incolta una maggiore quantità di terra: E di preservarne la biodiversità, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. L’agricoltura biologica inquina? No, l’agricoltura biologica non inquina perché non disperde nell’ambiente sostanze chimiche.

Il biologico costa di più?

Sì. I prodotti biologici, rispetto a quelli tradizionali, hanno un costo maggiore perché è maggiore il costo di produzione. L’assenza di additivi chimici, vietati per legge affinché un prodotto possa essere etichettato come «bio», rende minore la resa dei raccolti e maggiore lo scarto.

Come riconoscere il vero bio al super o al mercato?

Al supermercato possiamo fidarci di un prodotto indicato come bio, soprattutto se è confezionato ed etichettato correttamente. Nel caso specifico, infatti, possiamo agevolmente verificare il percorso del processo di certificazione e controllo. Percorso, questo, che fa da garanzia. In caso di prodotti bio sfusi, invece, è possibile capire se siano certificati rivolgendoci direttamente agli addetti preposti, così da avere le informazioni che ci servono. Gli addetti preposti sono tenuti a conoscere la provenienza delle merci. E al mercato? Qui potremmo anche avere qualche difficoltà in più, soprattutto se chi vende non è un agricoltore. Nel caso, meglio acquistare il prodotto confezionato, etichettato e certificato: quello sfuso potrebbe non avere origine certa.

Se, d’altro canto, fosse un agricoltore, basta chiedergli le certificazioni dell’azienda e consultare l’allegato con l’elenco di prodotti per i quali è certificato bio. I prodotti venduti come biologici devono essere elencati in questo documento. Diversamente c’è qualche inghippo. Il certificato dell’azienda agricola dovrebbe essere sempre visibile ai clienti.

Come si certifica un prodotto bio?

Come riporta il sito feder.bio, «un prodotto biologico, sia che provenga da coltivazioni, allevamento o trasformazione, porta con sé la garanzia del controllo e della certificazione di organismi espressamente autorizzati per l’Italia dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Come previsto dalla normativa europea (in particolare i regolamenti CE n. 834/2007 e n. 889/2008, che dettagliano gli aspetti tecnici della produzione, dell’etichettatura, del controllo e che valgono anche per i prodotti importati), la certificazione biologica copre tutti i livelli della filiera produttiva. A tutela del consumatore, non solo chi produce, ma anche chiunque venda prodotti marchiati come biologici (freschi o trasformati, in campagna, all’ingrosso o al dettaglio), infatti, deve essere sottoposto al controllo, con ispezioni in loco. Ogni organismo ha un proprio codice che viene riportato sull’etichetta del prodotto insieme al logo biologico dell’Unione europea. Le regole in materia di etichettatura e uso del logo sono rigorose, per difendere i consumatori da confusioni con altro tipo di coltivazioni di denominazione fantasiosa quali “agricoltura ecologica”, “naturale”, “pulita” (per cui mancano sia criteri per la denominazione che il minimo quadro di controllo). L’etichetta biologica non può essere utilizzata per i prodotti che contengono organismi geneticamente modificati (OGM)».

Il consiglio: «Controllate sempre la certificazione quando acquistate un prodotto biologico», si legge ancora sul sito feder.bio.

Chi certifica il biologico? In Europa ogni Stato membro ha incaricato autorità pubbliche e organismi di controllo privati di eseguire rigorose ispezioni, operando sotto la supervisione o in stretta collaborazione con le autorità centrali. Lo Stato membro attribuisce a ogni ente addetto al monitoraggio un codice identificativo diverso, che viene poi riportato sull’etichetta di ciò che compriamo. Il codice indica che il prodotto acquistato proviene da un’azienda ispezionata da un organismo di controllo, che garantisce il rispetto della regolamentazione per i prodotti biologici. Nel nostro Paese gli organi che possono effettuare i controlli e rilasciare la certificazione delle produzioni biologiche sono autorizzati dal ministero delle Politiche agricole e forestali e sono sottoposti, a loro volta, al controllo dello stesso ministero e delle Regioni.

·        Il Legname.

È davvero possibile piantare 6,6 milioni di alberi in Italia entro il 2024? Carlo Canepa (Pagella Politica) su La Repubblica il 10 marzo 2022.  

Sentendo il parere degli esperti le criticità sono molte, alcune quasi insormontabili. Per esempio i fondi stanziati. 

Entro la fine del 2024 l'Italia dovrà piantare almeno 6,6 milioni di alberi in 14 città metropolitane, da Milano a Roma, passando per Torino, Napoli e Genova. Questo è uno degli oltre 500 obiettivi che il nostro Paese ha fissato con l'Unione europea per ricevere nei prossimi cinque anni un totale di 191,5 miliardi di euro del "Piano nazionale di ripresa e resilienza" (Pnrr), finanziato con risorse europee per rilanciare l'economia italiana dopo la crisi causata dalla pandemia. 

Numeri e pareri degli esperti alla mano, però, gli oltre 6 milioni di alberi promessi dal Pnrr sono un traguardo quasi impossibile da raggiungere. Il piano del governo ha infatti una serie di punti deboli e i soldi messi a disposizione sembrano essere insufficienti.

Il piano del Mite

Tra le risorse destinate alla transizione ecologica, il Pnrr ha stanziato 330 milioni di euro per la "tutela del verde urbano ed extraurbano". Il piano varato dal governo Draghi mira a piantare "almeno 6,6 milioni di alberi, per 6.600 ettari di foreste urbane", con diversi obiettivi: mitigare l'impatto dei cambiamenti climatici e i problemi legati all'inquinamento atmosferico, e ridurre la perdita di biodiversità. Con "foresta urbana" si fa generalmente riferimento a gruppi di alberi che sono collocati in aree urbane o limitrofe alla città, lungo le strade o in parchi, giardini e zone attualmente abbandonate. 

Per avere un ordine di grandezza del progetto, stiamo parlando di una superficie pari a oltre 9 mila campi da calcio, con un albero piantato ogni nove cittadini residenti in Italia. Secondo le stime del Ministero della Transizione ecologica (Mite), le 14 città metropolitane che saranno coinvolte raggruppano quasi 1.270 comuni, con una popolazione complessiva di 21 milioni di persone sul 15,5% del territorio nazionale. Oltre al Mite e alle 14 città metropolitane, nell'iniziativa sono coinvolte altre istituzioni, tra cui l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e il Comando unità forestali ambientali e agroalimentari dell'Arma dei Carabinieri. 

"Mille alberi per ettaro sono un numero molto ambizioso", ha spiegato a Green&Blue Francesco Ferrini, professore di Arboricoltura all'Università degli studi di Firenze e presidente del distretto vivaistico-ornamentale della provincia di Pistoia. "Basti pensare che per le foreste urbane la densità è in media intorno ai 100-150 alberi a ettaro". 

I 6,6 milioni di alberi sono stati comunque un passo indietro rispetto a quanto promesso dal precedente secondo governo Conte. A novembre 2020 l'allora ministro dell'Ambiente Sergio Costa aveva infatti dichiarato che con il Pnrr, all'epoca in fase di stesura, sarebbe stata finanziata la messa a dimora di addirittura 50 milioni di alberi, cifra poi ridotta di quasi dieci volte. Molto probabilmente, come vedremo meglio tra poco, hanno pesato le difficoltà legate al raggiungimento dell'obiettivo.

Le scadenze in arrivo

Nel cronoprogramma del Pnrr, due traguardi intermedi scandiscono l'obiettivo generale di piantare almeno 6,6 milioni di alberi entro il 2024. Un traguardo è stato fissato per la fine del 2022 e prevede di piantare almeno un milione e 650 mila alberi. Un altro traguardo, fissato per la fine del 2021, è stato raggiunto lo scorso 30 novembre, con l'approvazione del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani del "Piano di forestazione urbana ed extraurbana". Questo testo è il quadro di riferimento tecnico-scientifico che andrà rispettato a livello nazionale per il raggiungimento del traguardo finale fissato dal Pnrr. Se gli impegni con l'Ue non saranno rispettati, l'Italia correrà il rischio di vedersi bloccare l'erogazione di una parte dei fondi, in particolare la rata prevista per la seconda metà del 2024. 

La promessa del Pnrr non nasce dal nulla. Sul fronte della forestazione urbana, i progetti finanziati dal Pnrr seguiranno infatti la strada già tracciata dal cosiddetto "decreto Clima", approvato nel 2019. In totale quel decreto aveva già stanziato circa 33 milioni di euro, per gli anni 2020 e 2021, finanziando la messa a dimora di oltre 365 mila alberi (il piano è un po' in ritardo: la graduatoria dei progetti vincitori per il 2021 è uscita a metà dicembre scorso). In base al cronoprogramma del Mite, le risorse già stanziate e gli alberi finanziati rientreranno (pag. 69-71) nel computo per il raggiungimento del traguardo finale. Ora il Pnrr promette comunque di fare quasi venti volte tanto - 6,6 milioni di alberi contro 365 mila - di qui al 2024.

L'albero giusto al posto giusto

Come sottolinea in più parti il piano del Mite, ognuna delle 14 città metropolitane ha le sue peculiarità sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista della vegetazione. Per questo motivo, dovrà essere seguito il principio dell'"albero giusto al posto giusto": ogni albero piantato, scrive il piano, dovrà essere "coerente con le caratteristiche biogeografiche ed ecologiche dei luoghi", evitando specie che, tra le altre cose, possono causare allergie nella popolazione. 

Il piano non prevede interventi solo sui territori urbani, ma anche nelle zone limitrofe alla città e nelle zone extraurbane. Tra gli interventi finanziabili, potranno essere incluse aree "recentemente incendiate" e le "aree agricole intensive". Inoltre, tra le mille piante per ettaro da piantare potranno essere considerati non solo gli alberi, ma anche gli "arbusti sempreverdi", perché secondo il piano del ministero "possono concorrere in modo significativo alla rimozione del particolato", ossia le polveri con un diametro inferiore al centesimo di millimetro. 

Per la messa a dimora dei primi 1,6 milioni di alberi, da piantare entro la fine di quest'anno, ogni città metropolitana dovrà presentare almeno cinque proposte progettuali, per la forestazione di almeno 150 ettari. L'avviso pubblico del Mite con i dettagli dei finanziamenti dovrà essere pubblicato (pag. 70) entro la fine di marzo.

Sono soldi ben spesi?

Prima ancora di valutare la fattibilità della promessa contenuta dal Pnrr, vale la pena chiedersi se i 330 milioni di euro destinati dal piano alla forestazione urbana siano soldi ben spesi oppure no. 

"Come in tutti i progetti per la gestione del territorio, la risposta dipende dagli obiettivi che sono stati prefissati con questo intervento", ha spiegato a Green&Blue Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in Gestione e pianificazione forestale all'Università Statale di Milano, e indicato dalla rivista scientifica Nature tra gli undici scienziati emergenti nel mondo nel 2018. "Il motivo principale del piano finanziato dal Pnrr non può essere il sequestro dell'anidride carbonica", ha sottolineato Vacchiano. "In Italia abbiamo circa 20 miliardi di alberi, che assorbono più o meno il 10% delle nostre emissioni. I 6 milioni di alberi promessi in più non spostano praticamente nulla a livello di capacità di mitigazione del cambiamento climatico". 

Nel piano di forestazione approvato dal ministero poco meno di due pagine sono dedicate ai "risultati attesi", dove al primo posto viene messo proprio l'assorbimento di CO2. Letteratura scientifica alla mano, lo stesso piano ricorda però quanto gli alberi in città possano contribuire all'assorbimento delle sostanze inquinanti o al contenimento delle temperature.  

"In questo caso, nelle zone urbane gli alberi possono essere un'utile misura di adattamento, per limitare le ondate di calore, per assorbire le piogge o per contenere l'inquinamento atmosferico", ha sottolineato Vacchiano. "In città anche un piccolo numero di alberi può dare il proprio contributo, ma questi interventi non devono essere una distrazione per fare altro, come la decarbonizzazione dei trasporti o dell'industria". 

Al di là degli obiettivi, lo sforzo promesso dal Pnrr sarà davvero consistente, se confrontato con lo stato della forestazione urbana nel nostro Paese. Secondo i dati Istat più aggiornati, pubblicati a giugno 2021, al 2019 interventi di forestazione urbana erano presenti in 43 capoluoghi di provincia e interessavano 1.100 ettari di terreno, una superficie cresciuta del 30% rispetto ai nove anni precedenti. Stiamo parlando comunque di un'area grande soltanto un sesto rispetto a quella promessa di essere alberata grazie al Pnrr in tre anni.

Soldi e piante non basteranno

Secondo alcuni esperti, nonostante le buone intenzioni dietro alla promessa fatta nel Pnrr, le risorse messe a disposizione - 330 milioni per circa 6,6 milioni di alberi - sono comunque insufficienti.

"Lo stanziamento di 50 euro a pianta dovrà bastare per il suo acquisto, il trasporto, la messa a dimora, la gestione e la cura, dall'irrigazione alla difesa contro le specie invasive", ha sottolineato Ferrini a Green&Blue. "Questa cifra è compatibile con l'impianto di piantine alte al massimo un metro-un metro e mezzo, non di alberi già formati. L'aumento dei costi delle materie prime e dell'energia, in corso da mesi, farà inoltre lievitare i prezzi delle piante probabilmente anche del 30%". 

E non solo i soldi rischiano di essere insufficienti: ad oggi gli alberi prodotti in Italia nei vivai, da dove verranno quelli per le aree urbane, non sono in grado di soddisfare il traguardo degli oltre 6 milioni di alberi piantati nel giro di tre anni.

"Per il verde urbano, al momento la quantità di piante presente nei vivai italiani è intorno ai 6 milioni di alberi, ma circa il 90% va all'estero", ha dichiarato Ferrini. "È stato fatto un grosso progetto senza sentire chi può fornire le piante". Una soluzione temporanea potrebbe essere quella di acquistare gli alberi da altri Paesi, ma questa ipotesi non è esente da critiche. "Da un punto di vista ambientale, non avrebbe alcun senso far arrivare le piantine necessarie dall'estero, per esempio dalla Spagna o dai Paesi Bassi", ha aggiunto Vacchiano. "Dobbiamo produrre le piante il più vicino possibile a dove le dobbiamo piantare". 

Nel piano di forestazione del Mite alla "reperibilità del materiale vivaistico" sono dedicate solo poche righe, per ricordare che nell'acquisto delle piante le città metropolitane dovranno rispettare le normative nazionali ed europee. Ma nella lista degli oltre 500 obiettivi del Pnrr, tra rischi e ipotesi legati al raggiungimento del traguardo sui 6,6 milioni di alberi piantati vengono comunque sottolineati (si vedano gli investimenti M2C4-19 e M2C4-20) in maniera molto generica "possibili ritardi nell'ottenimento di materiale dai vivai per la fase di impianto", oltre che "possibili problemi dovuti a eventi meteorologici estremi". 

Un rapporto sullo stato di attuazione del Pnrr, pubblicato dal Mite a fine dicembre 2021, ha sottolineato (pag. 71) che resta ancora la necessità di "svolgere un approfondimento per confermare la completa disponibilità di piante e sementi rispetto al target di piante da mettere a dimora". 

Secondo il piano, le risorse messe a disposizione dovranno bastare anche per monitorare la gestione e la cura degli alberi piantati, "per almeno sette anni successivi alla realizzazione del rimboschimento". Questo rende ancora più corta la coperta dei finanziamenti. 

"Le foreste urbane presentano problemi relativi alla sicurezza, per esempio quelli relativi alla stabilità delle piante, che vanno continuamente monitorate, o alla sostituzione degli alberi che non hanno attecchito", ha spiegato a Green&Blue Maria Cantiani, professoressa di Ecologia forestale all'Università di Trento. "L'impressione è che le risorse stanziate dal piano si concentrino sull'acquisto e la piantagione, e non sulle fasi successive".

La carenza di spazi

Grande attenzione andrà poi data a dove saranno piantati gli alberi: anche qui non mancano le incognite. 

In primo luogo, bisognerà verificare la reale disponibilità di spazi in città e nelle zone limitrofe. "Gli spazi urbani a disposizione delle città metropolitane per la creazione di foreste urbane non sono molti", ha sottolineato Cantiani a Green&Blue. "E di recente alcune città hanno preferito destinare gli spazi a disposizione per altre finalità, come la creazione di parcheggi".

In secondo luogo, sarà fondamentale nei progetti proposti dalle città metropolitane valorizzare gli spazi che già ci sono e che potranno essere usati per rispettare la promessa del Pnrr. "Il posto preciso dove mettiamo un albero fa una grande differenza: per esempio, l'assorbimento degli inquinanti funziona entro poche decine di metri da dove sono prodotti", ha evidenziato Vacchiano. "I benefici degli alberi devono potere essere accessibili a tutta la cittadinanza, ma nelle nostre città gli alberi non sono distribuiti in maniera uguale. Il piano di ogni città dovrà assolutamente ragionare sui criteri di accessibilità e concentrarsi sulle fasce più vulnerabili della popolazione". 

Secondo Vacchiano, una soluzione per aumentare la disponibilità di spazi urbani potrebbe essere quella di dotare le città metropolitane di risorse ulteriori per permettere loro di recuperare aree inutilizzate, come i parcheggi in aree ex industriali, per dedicarle alla forestazione.

I tempi stretti

Infine, oltre alla reale capacità dei comuni coinvolti di presentare progetti e di concretizzarli, non bisogna sottovalutare i giorni che effettivamente si hanno a disposizione per piantare gli alberi. 

"Di norma passano sei mesi per vedersi approvare i finanziamenti: se quest'anno arrivassimo a luglio o agosto, si partirebbe poi a piantare a ottobre o novembre", ha sottolineato Ferrini. "Il riscaldamento globale sta riducendo sempre di più la stagione per la piantagione: se tutto andrà bene, avremo a disposizione un centinaio di giorni all'anno per piantare le piante, tra metà ottobre e metà aprile, togliendo i festivi e i giorni di eccessivo maltempo". 

Come abbiamo anticipato, entro la fine del 2022 andranno già piantati oltre 1,6 milioni di alberi. Ogni giorno che passa, il tempo a disposizione per raggiungere questo traguardo è sempre meno.

Giganti silenziosi. “Vite di alberi straordinari”, la biografia arborea che ci mancava. Eugenio Giannetta su L'Inkiesta il 4 Febbraio 2022. 

L’architetto Zora del Buono ha scritto un libro che è un piccolo gioiello, frutto del viaggio durato un anno tra Europa e America del Nord, alla ricerca di alberi secolari di fronte alla cui longevità l’uomo scompare. 

«Ero in Georgia, in una ex piantagione di schiavi, ora un bellissimo parco. C’era un palazzo e piccole capanne. E questo albero antico, una quercia americana. Davanti c’era un segno che era già vivo quando Colombo non era ancora al mondo. E ho pensato: sono pazzesche le cose terribili che noi umani facciamo. Uccidiamo, schiavizziamo, opprimiamo persone e animali, e quest’albero se ne stava lì non toccato da niente. Poi ho pensato: i veri vecchi e grandi sono gli alberi. Voglio conoscerli». 

È nata in questo modo l’idea dell’architetto Zora del Buono di scrivere “Vite di alberi straordinari”, viaggio tra le piante più antiche del mondo, pubblicato in Italia da Aboca. Animata da un profondo desiderio di scoperta l’autrice ha viaggiato per un anno tra Europa e America del Nord per visitare gli alberi secolari, di fronte alla cui longevità l’uomo scompare. Li ha immortalati con la sua Rolleiflex analogica e raccolto aneddoti e storie. Quattordici alberi in totale, dal Tasso di Ankerwycke al Tiglio di Schenklengsfeld, che hanno finito per cambiarle la visione di ciò che ci circonda: «C’è un mondo che non ha bisogno di noi» – ha detto del Buono – «ma dobbiamo proteggerlo perché non può difendersi da solo. Così da un lato sono diventata più umile, dall’altro più depressa, perché ho visto quanto può essere distrutto velocemente un albero che ha vissuto migliaia di anni». 

Ed è lì che è scattata una domanda più grande: come sarà il futuro degli alberi? Si parla sempre più di sostenibilità, ma ancora troppo poco si fa per proteggerli: «In Germania – spiega del Buono – è tragico, molti alberi stanno morendo a causa del cambiamento climatico. La maggior parte degli alberi che ho visitato sono in pericolo. Con il riscaldamento globale, la vegetazione cambierà, arriveranno organismi e piccoli animali che danneggeranno molte piante che non sopravvivranno. Un minore consumo aiuterebbe. E poi riforestare. Credo si possa proteggere solo ciò che si ama e si conosce. Perciò dobbiamo iniziare dal nostro piccolo».

Angel Oak

Quercia viva, o Leccio della Virginia, tra i 500 e i 1500 anni, alto più di 20 metri, «magico e intricato». Ha foglie coriacee e oblunghe, «lucide sulla pagina superiore, ricoperte di peluria bianca e feltrosa su quella inferiore». Il finale della storia di questo albero, che ora si può vedere solo fino alle cinque del pomeriggio, prima che il custode ne chiuda attorno i cancelli, del Buono lo racconta con un detto popolare: “Per salvare tutto l’albero devi prenderti cura delle radici” e le radici di questo albero raccontano tanto soprattutto di schiavismo, ma anche di uno dei pochi luoghi dove bianchi e neri potevano riunirsi, stare insieme, ballare il charleston.

Generale Sherman

È l’albero che ha plasmato di più l’autrice: si tratta di una sequoia di 2200 anni alta 83 metri, per una circonferenza di oltre 25 metri, che si trova in California. «Le sue dimensioni sono così imponenti che mi hanno tolto il fiato. L’unica esperienza metafisica mi è capitata li, probabilmente l’unica nella mia vita. C’era un temporale, ero tutta sola lì tra questi alberi millenari e ho sentito una specie di voce dal cielo, non vocale, più olistica, una voce del mio defunto padre, che non conoscevo affatto perché ero piccola quando è morto. C’era improvvisamente una connessione con qualcosa di più grande». Il nome ufficiale di Generale arriva nel 1897, con una targa affissa sul tronco.

Hiroshima Survivor

Su questo albero vige un divieto: non si può toccare, scatenando ovviamente i più profondi istinti di trasgressione. È un pino bianco del Giappone. Un giovincello di appena 390 anni alto 117 centimetri e si trova nell’arboreto di Washington. Un bonsai, il cui termine si compone di «bon, ovvero la scodella piatta, e sai l’albero piantato». Su di lui ha vegliato a lungo una persona dal mattino alla sera: Jack Sustic, il cui interesse per i bonsai inizia a metà anni ’80 durante il servizio nell’esercito in Corea del Sud. Nel 1996 viene selezionato come primo stagista al National Bonsai & Penjing Museum e poi al National Arboretum di Washington, dove diventa curatore dal 2002 al 2016 con l’avallo di Saburo Kato, «il maestro bonsai più autorevole del Giappone», che a sua volta nel 1974 costituì una collezione di 53 piante donate a privati americani. Già solo queste due storie nella storia meriterebbero un libro a parte.

Castagno dei Cento cavalli

Il nome deriva da una leggenda: è una notte di tempesta e cento cavalieri «insieme ai loro cavalli trovarono riparo sotto questo gigantesco albero, che pare sia il più grosso al mondo, o almeno quello che ha il tronco più grosso». L’età si aggira tra i 2000 e i 4000 anni, l’altezza è di 22 metri e la circonferenza di quasi 58 (misurata l’ultima volta nel 1780). La circonferenza dei tre cormi oggi è di 13, 20 e 21 metri e il castagno si trova a Sant’Alfio, Parco dell’Etna, Catania. Menzionato per la prima volta in un documento del 1611, ha una chioma ampia e maestosa, con un fogliame avvolgente, tra i più vecchi alberi da frutto al mondo, ma la cosa che più affascina di questo castagno, secondo del Buono, è «che si compone di tante fratture, è che si tratta di un essere vivente in continuo cambiamento, un work in progress».

Pando

Ultimo di questa piccola selezione è il Pando, un «albero che oltrepassa la nostra dimensione, quella temporale e quella spaziale, e perfino la nostra immaginazione fatica a comprendere la natura di questo organismo». Si tratta di un pioppo tremulo americano di più di 80mila anni. Superficie: 44 ettari. Peso: 6 milioni di chilogrammi. Cormi: 47mila. È l’essere più antico della terra, con una corteccia bianca, un corpo esile, foglie triangolari-ovate, con un picciolo lungo e mobile. L’unico organismo con una superficie più estesa è un’armillaria, un fungo a nordest dell’Oregon. Un intervallo di incendi ne ha favorito nel tempo la longevità, alleggerendolo da conifere infestanti, ma ora le sue condizioni stanno peggiorando a causa del cambiamento climatico. E purtroppo non è il solo, ragione in più per riflettere sul cambiamento climatico e sulle sue conseguenze.

La via del legno. Report Rai PUNTATA DEL 03/01/2022 di Antonella Cignarale. Collaborazione di Marzia Amico. Immagini di Chiara D’Ambros, Davide Fonda, Andrea Lili, Fabio Martinelli. Grafiche di Daniele Bonazza 

Quando acquistiamo un prodotto di legno chi ci assicura che il taglio in foresta sia di origine legale?

In Italia importiamo l‘80% del legno che usiamo, l’importazione da paesi extra europei prevede severi controlli, quella dai paesi dell’Unione Europea, no. Sarebbe responsabilità di ogni paese membro assicurare che il taglio nelle proprie foreste avvenga nel rispetto delle leggi, ma i controlli non sono omogenei tra gli Stati: quando vengono bypassati, il legno illegale può circolare sul mercato comunitario insieme a legno legale senza che ve ne sia traccia. I commercianti che lo acquistano non sono tenuti a controllare né la legalità del taglio in foresta né la filiera di trasformazione da cui deriva il legno. Per i consumatori, l’unica informazione obbligatoria da fornire è il “made in”, l’ultimo anello di una lunga catena di trasformazione. Ci sono aziende che si affidano ai controlli privati della certificazione forestale, ma per i prodotti di arredo composti da molteplici componenti è impossibile controllare ogni singolo momento di produzione, incluso il taglio in foresta.

LA VIA DEL LEGNO Di Antonella Cignarale Collaborazione Marzia Amico

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Nell’ottobre 2018, in una notte, la tempesta Vaia ha falciato le nostre foreste, lasciando a terra 8 milioni di metri cubi di legname. Il 35% è ancora lì, ma ad acquistarlo sono state soprattutto aziende cinesi e austriache.

ANTONIO BRUNORI- SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Loro hanno acquistato il tondo, l’hanno segato, l’hanno assemblato e vendono a noi le travi di lamellari, vendono mobili.

ANTONELLA CIGNARALE Noi possiamo vedere su un prodotto made in Austria e invece è l’albero caduto da noi.

ANTONIO BRUNORI- SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Ma il mercato globale è così, eh.

ANTONELLA CIGNARALE FU0RICAMPO L’Italia importa l’80% del legno che usa. E lungo la filiera gli attori e le fasi di trasformazione per arrivare al prodotto finito sono molteplici e quando compriamo una cassettiera, una sedia o un tagliere ci viene indicata solo l’ultima fase di trasformazione e non l’origine

COMMESSO NEGOZIO DI ARREDAMENTO Questo è rovere naturale

ANTONELLA CIGNARALE Da dove viene? Hai idea della provenienza del legno?

COMMESSO NEGOZIO DI ARREDAMENTO Mi metti in difficoltà perché non lo so

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Se chi vende non ha l’obbligo di tracciare la provenienza del legno, come possiamo essere sicuri di non alimentare il mercato del legno illegale?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera. Quando andiamo a comprare una scrivania, una scarpiera o un mobile qualsiasi da Ikea, Leroy Merlin, Mondo Convenienza, ma questo è un ragionamento che vale anche se entri in un piccolo negozio, un negozio di lusso, chi ce lo dice da dove viene il legno? La domanda può sembrare banale, non lo è, perché il traffico del legno di origine illegale è uno dei principali business dei criminali nei confronti dell’ambiente. Ecco, si calcola che dal 15% al 30% del legno tagliato nel mondo abbia un’origine illegale. Il Regolamento Europeo sul Legno impone di tracciare tutta la filiera se il legno viene importato da fuori dall’Europa, è più indulgente invece se viene tagliato all’interno delle foreste dei paesi membri. Conta sulla vigilanza degli stati. E quindi basta la fattura del fornitore e la specie botanica. Ma è sempre così tutto legale? La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quando importiamo legno da paesi extra europei c’è l’obbligo di identificare con un codice addirittura l’albero dal quale è stato ricavato un palo, come questo che arriva dalla Guyana.

ANTONELLA CIGNARALE Lei sa questo tronco esattamente da dove viene, cioè non dalla Guyana in generale ma anche dal punto preciso della sub-regione?

ALESSANDRO CALCATERRA PRESID. FEDECOMLEGNO – IMPORTATORE Una regione particolare e la comunità amerindia che lo ha tagliato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Invece i fornitori del legno che proviene dall’Unione europea non sono obbligati a indicare la foresta d’origine né chi l’ha tagliato o trasformato.

ALESSANDRO CALCATERRA PRES. FEDECOMLEGNO- IMPORTATORE L’unica informazione che si può avere è la specie botanica.

ANTONIO MORTALI – DOTTORE FORESTALE Questa pianta qua è completamente secca, quindi questa va sicuramente tagliata. È stata fatta la delimitazione dei confini con questo colore rosso. Oltre qua non si taglia perché non c’è l’autorizzazione al taglio.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Con l’autorizzazione al taglio si stabilisce quanti e quali alberi tagliare e quali invece preservare. Per non commettere errori, un’azienda può farsi seguire da un consulente privato e i controlli spettano alle autorità di ogni paese europeo. In Italia ai carabinieri della forestale.

ANTONIO MORTALI – DOTTORE FORESTALE Uno può anche tagliare un bosco senza aver fatto né comunicazioni né autorizzazione, in questo caso qua va incontro a delle sanzioni logicamente.

ANTONELLA CIGNARALE Oggi noi possiamo dire che tra tutti i paesi dell’Unione Europea ci sia omogeneità nella capacità di controllo della filiera del legno e della sua legalità?

DIEGO FLORIAN- DIRETTORE FSC ITALIA Purtroppo no. I governi non sempre sono attrezzati per aver la capacità di controllare puntualmente le operazioni in foresta.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Tra questi c’è la Romania, dove si trovano 2/3 delle foreste primarie europee e tra le aree disboscate illegalmente ci sono anche foreste protette da leggi comunitarie. Per questo la Romania è stata richiamata dalla Commissione Europea e per contrastare il mercato del legno illegale, il governo rumeno ha creato un’applicazione. Al passaggio di un camion carico di tronchi, inserendo la targa nell’app, si può verificare se quell’operatore ha il permesso al taglio, se trasporta la quantità che ha dichiarato, e la sua destinazione. Monitorando la rotta forestale di Gurghiu, in Transilvania, giornalisti locali hanno filmato camion non autorizzati al trasporto, altri invece trasportavano una quantità di tronchi superiore a quella dichiarata. Con questo sistema, legno legale e legno illegale vengono mischiati sul camion e la tracciabilità si perde. Altro espediente per bypassare i controlli è quello di effettuare più trasporti con una sola autorizzazione. Questo camion verde ha registrato il trasporto alle 13:39 ma lo stesso giorno alle 19:12 è stato filmato mentre trasportava un altro carico di legno, non registrato. Ci sono aziende che per dare la certezza di fornire legno legale certificano una parte della loro produzione pagando loro stessi i controllori.

DIEGO FLORIAN – DIRETTORE FSC ITALIA Un prodotto in possesso di una certificazione forestale ci dà la possibilità di risalire la filiera di trasformazione e avere assicurazione che a monte c’è una foresta gestita in maniera responsabile.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ci sono aziende che certificano solo la foresta da disboscare, altre l’intera filiera dal taglio al prodotto finito. Le certificazioni sono in mano a due Ong, FSC e PEFC, che però delegano a un organismo di accreditamento il controllo di vari enti certificatori privati che effettuano, materialmente, le ispezioni nei boschi e nelle aziende. E solo quando tutta la filiera è certificata il prodotto finale riporta il marchio nell’etichetta.

ANTONIO BRUNORI – SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Qui c’è qualcuno che ha controllato, qua non lo so.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Vediamo in quali grandi catene troviamo legno di cui è certificata tutta la filiera. Cominciamo da Mondo Convenienza.

ANTONELLA CIGNARALE Avete la certificazione FSC o PEFC sulla sostenibilità ambientale voi?

COMMESSA MONDO CONVENIENZA Dovrei informarmi perché sinceramente non lo so.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E mostrandoci la scheda dell’azienda che ha prodotto una cassettiera delle due certificazioni non c’è traccia.

ANTONELLA CIGNARALE Voi come Mondo Convenienza che vendete non lo sapete se è riciclato o no questo pannello?

COMMESSO MONDO CONVENIENZA Ma perché ti interessa?

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Perché dare una seconda vita al legno che buttiamo evita di abbattere altri alberi. E l’Italia si distingue per essere il maggiore produttore europeo di pannelli in truciolare riciclato. Anche Mondo Convenienza vende mobili con pannelli riciclati, ma per saperlo abbiamo dovuto chiedere come Report. Ecco qua la nostra cassettiera comprata a marzo: fianco, cappello, frontale cassetto, spondine cassetto, zoccolo sono componenti derivati da legno riciclato mentre i componenti che derivano da legno prelevato in foresta sono il fondo cassetto, la schiena e la maniglia. Chi assembla tutti i componenti è un fornitore italiano che a sua volta compra i componenti semilavorati da altre aziende italiane, che a loro volta comprano la materia prima da fornitori con certificazione forestale localizzati in Germania, Italia, Romania. E anche se la foresta è certificata, non tutta la filiera lo è, e la tracciabilità si perde. Mondo Convenienza non è riuscita a risalire al paese in cui è avvenuto il taglio in foresta per i suoi mobili. Vediamo se a Ikea invece i prodotti con il marchio della certificazione forestale li troviamo.

SERVIZIO CLIENTI IKEA Insomma ve ne accorgete dal bollino.

ANTONELLA CIGNARALE Quindi se c’è un prodotto FSC dentro Ikea…

SERVIZIO CLIENTI IKEA Sappiamo che se è FSC abbiamo una sostenibilità, se non c’è scritto niente non lo sappiamo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ikea ci dice che più del 98% del legno che usa è riciclato e certificato FSC. Allora ci mettiamo a cercare il bollino ma sulle sedie, i divani, anche sotto i tavoli troviamo solo il Made In e un codice accanto. Su alcuni prodotti, come su questo sgabello, troviamo un cartellino verde con su scritto “positivo per le persone e per il pianeta” COMMESSO IKEA Noi amiamo dire adatto per te e per il pianeta, soprattutto per te, perché comunque ti permette di lavorare con la schiena continuamente comoda.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sicuro, ma quando sul prodotto c’è il marchio della certificazione forestale e il codice di licenza, inserendolo nel database di FSC, si può risalire all’ultimo produttore dell’oggetto e all’ente certificatore che lo ha controllato. Per capire, invece, da che filiera arriva lo sgabello positivo per noi e per il pianeta abbiamo chiesto a Ikea: il legno deriva da foreste certificate ma sulle fasi di lavorazione non ci ha fornito specifiche informazioni. Dei prodotti certificati comprati da Leroy Merlin, invece, ci è stata tracciata tutta la filiera del legno. Mentre è impossibile per un’azienda risalire all’origine di tutti i componenti delle cucine. A cominciare da chi da 50 anni produce quella più amata dagli italiani.

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI È un modello del 1967, all’interno è costruita in tamburato.

ANTONELLA CIGNARALE E questa invece?

GIANMARCO SCAVOLINI – RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Qui siamo su un modello di grande successo, qui siamo sul legno massello.

ANTONELLA CIGNARALE Anche se io adesso apro questo tiretto è proprio tutto legno questo?

GIANMARCO SCAVOLINI – RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Sì.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Certo, oggi i modelli sono cambiati, i pannelli sono soprattutto riciclati e certificati e il rifornimento di legno e la lavorazione dei suoi mobili Scavolini l’affida ad aziende terze che consegnano ante, fondi cassetto, piani di lavoro già rifiniti. Scavolini li fora, incolla le cerniere e assembla i pezzi.

ANTONELLA CIGNARALE Quali sono i paesi da cui proviene il legname

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI La Croazia, la Romania.

ANTONELLA CIGNARALE A chi produce l’anta per voi fatta di legno della Romania gli chiedete qualche garanzia in più?

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Noi non chiediamo una cosa specifica a questo, noi richiediamo a tutti i fornitori di sottoscrivere che il legno sia legale, poi più di questo non riusciamo a fare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche perché la legge non obbliga alla trasparenza i commercianti in Europa. La certificazione che rilasciano le due ong FSC e PEFC non è che sia una patente di onestà. Certo poi se beccano qualcuno che trasgredisce gli tolgono la certificazione e pubblicano li nome sul sito. Però è noto che ci sono aziende che commerciano legno di provenienza illegale utilizzando la linea convenzionale, quella non certificata. Gli viene anche abbastanza facile perché non c’è l’obbligo da parte dell’azienda di avere tutti prodotti certificati. Lasciano che a controllare quella parte certificata siano quelle due ong mentre sull’altra parte, su quella non certificata sulla linea convenzionale lasciano ai controlli dello Stato dei tagli in foresta. Insomma capite come la filiera è molto fragile.

·        Il Tovagliolo.

Servomuto. Breve storia del tovagliolo. Claudia Saracco su L'Inchiesta il 29 Agosto 2022.

Il pezzo di stoffa che va alla sinistra del piatto e ha dato origine al coperto, ha una storia lunga e appassionante. Come spesso accade c’entra anche il genio di Leonardo da Vinci

Geometria «Mastro Leonardo… da qualche tempo ha abbandonato la scultura e la geometria per risolvere i problemi delle tovaglie del Sire Lodovico, la cui sporcizia – me l’ha confessato – lo assilla. E adesso ha messo in tavola la sua soluzione: una tovaglia individuale posta davanti ad ogni ospite, da insozzare al posto della tovaglia grande». Lettera di Pietro Alemanni, all’epoca ambasciatore di Firenze e Milano, al signore di Firenze. Luglio 1491

Lavatrice Il Codex Atlanticus, la più ampia collezione degli scritti e dei disegni di Leonardo da Vinci, mostra numerosi disegni che schematizzano come piegare i tovaglioli. Il genio di Leonardo arrivò anche a immaginare macchinari ruotanti per asciugarli dopo il lavaggio. Era (quasi) nata la lavatrice

Piegatura Nel 1629 all’Università di Padova si insegna l’arte della piegatura artistica e viene pubblicato un trattato a cura del tedesco Mattia Giegher. La moda torna in voga solo nel corso del Novecento con cigni, ventagli, code di rondine e ninfee di stoffa che rubano a scena ai piatti

Coperto Nel corso del Rinascimento è realizzato in tessuti pregiati, piegato in tre o in quattro e posizionato sopra il piatto insieme con un biscottino, una sorta di stuzzichino che dà l’avvio al pranzo. Da questa antica pratica nasce il termine “coperto” che ancora oggi utilizziamo

Sinistra Il suo posto è a sinistra del piatto dopo le forchette, piegato a libro con l’apertura rivolta verso l’esterno per agevolare la presa con la mano destra, spiega l’esperta di buone maniere Elda Lanza nel libro “Il tovagliolo va a sinistra” (Vallardi editore). Nell’apparecchiatura alla francese, invece, va a destra

Ghigliottina L’era delle pieghe arzigogolate si conclude nel Settecento, spiega Joan Sallas nel libro intitolato “Gefaltete Schönheit” (Bellezza piegata). «I tovaglioli piegati sono iniziati come fenomeno aristocratico e sono finiti sotto la ghigliottina durante la rivoluzione francese» 

Dita Nell’antica Grecia «tovaglie e tovaglioli erano sconosciuti; il posto di quest’ultimo era preso da un impasto morbido, su cui venivano strofinate le dita», spiega l’archeologo Hugo Blümner in “The Home Life of the Ancient Greeks”. Nell’antica Roma si era soliti usare un pezzo di pane, il cosiddetto “pane da bocca” che poi veniva mangiato o destinato ai cani. I romani introdussero anche due tipi di stoffa legati alla tavola: il sudarium, una sorta di salvietta per detergere il viso, e la mappa, una grande tovaglia per mangiare sdraiati

Forchetta Ad attribuirgli il ruolo che noi oggi conosciamo potrebbe essere stata la forchetta. «L’introduzione della forchetta ha fatto sì che il mangiare diventasse un processo così pulito, soprattutto in contrasto con il recente passato, che il tovagliolo non ha più mantenuto la sua posizione come oggetto d’uso, ma è diventato semplicemente un ornamento e un oggetto da cerimonia» scrive Albert Aylmer nel 1887 sulle pagine della rivista americana Good Housekeeping

Arte Negli Anni Cinquanta la trattoria romana dei Fratelli Menghi diventa il ritrovo abituale di intellettuali e artisti che disegnano su ogni cosa capiti loro sotto mano per pagarsi la cena: tra gli habitué del locale ci sono, tra i tanti, Mario Mafai, Federico Fellini, Ennio Flaiano, Mario Monicelli, Alberto Moravia e Sandro Penna

Amarcord «Un giorno, al ristorante, mentre scribacchiavo disegnini sul tovagliolo è venuta fuori la parola Amarcord». Federico Fellini

75 i cicli di lavaggio industriale cui è sottoposto in media un tovagliolo di stoffa. Secondo uno studio dell’Ente Bilaterale Lavanderie Industriali, dopo 57 lavaggi il tessuto ammortizza la sua impronta ambientale

45×45 la dimensione media, ma ne esistono anche di più piccoli per i buffet in piedi

Frangino si chiama così quello usato dal sommelier per pulire la bottiglia da eventuali residui di tappo, asciugare le “lacrime” dopo la stappatura e appoggiare la bottiglia sul braccio passando da un tavolo all’altro

Plin Gli agnolotti di Langa, più piccoli di quelli tradizionali, vengono chiamati plin e serviti al tovagliolo, ovvero cotti, scolati e portati in tavola avvolti in un tovagliolo bianco senza l’aggiunta di alcun condimento

Famosi quello su cui il regista Steven Spielberg siglò un accordo milionario all’ex Amy Irving e quello dell’intesa tra il calciatore Lionel Messi e il Barcellona, siglato in un bar e conservato al museo del Barça

Thatcher Nel 2015, un tovagliolo con l’impronta delle labbra di Margaret Thatcher è stato battuto all’asta per 2 mila sterline

90 Ce ne sono oltre 90 nella collezione del Metropolitan Museum of Art

Islanda A Heimaey, un’isola a sud dell’Islanda, Eygló Ingólfsdottir ha una collezione privata di 14 mila esemplari di stoffa decorata, iniziata perché «da piccola non c’era niente da fare»

·        I sensi del buon gusto.

Olfatto, tatto, vista, gusto e calore: come nasce il buon sapore (o il cattivo). Mangiare è un gesto naturale ma anche quello che coinvolge tutti i nostri sensi. CLETO CORPOSANTO su Il Quotidiano del Sud il 14 agosto 2022

MANGIARE è una delle cose più naturali che facciamo. Mangiamo per ragioni biologiche, perché dagli alimenti traiamo nutrimento indispensabile alla nostra vita. Ma mangiamo anche per altre ragioni, tante, diverse fra loro: quella che ci accomuna tutti è probabilmente l’uso dell’atto di alimentarsi all’interno del nostro intessere relazioni sociali. Lo facciamo tutti, è una caratteristica della specie umana ma anche molte specie animali usano il pasto come elemento di socialità e definizione dei rapporti. Mangiamo anche da soli, certo, ma mangiare in compagnia assume un significato tutto diverso: lo sanno bene, per esempio, coloro i quali a causa di limitazioni dovute per esempio a intolleranze gravi, consumano gran parte dei propri pasti in ambienti sicuri, magari rinunciando a uscire con amici e conoscenti.

Per loro, la percezione del danno percepito dalla propria intolleranza si trasforma in un vero e proprio danno sociale della malattia, che li colpisce limitando la naturale propensione a costruire capitale relazionale, quella sorta di propulsore virtuale del nostro essere donne e uomini sociali: in letteratura, il danno relazionale percepito si chiama Sonetness, ed è un altro tassello dei disturbi legati ad una condizione di non perfetta salute fisica. Mangiare da soli, inoltre, può addirittura dare l’impressione che i gusti che conosciamo cambino: le cose possono apparire diverse al nostro palato a seconda della situazione in cui consumiamo i nostri alimenti. Com’è possibile? Forse dipende anche dal fatto che la percezione non rappresenta una manifestazione oggettiva delle cose, quanto piuttosto una loro interpretazione. Le percezioni sensoriali si intrecciano indissolubilmente con i significati, e così facendo tracciano in maniera più definita i confini sfumati dei nostri ambienti quotidiani, e persino del sapore dei nostri alimenti. Anche perché se è vero che tutti i nostri sensi sono coinvolti in differenti situazioni di vita quotidiana, è altrettanto vero che nel cibo la percezione ne mette in allerta molti: dall’olfatto al tatto, passando per la vista e il gusto, passando anche per il calore. La valutazione di un alimento è insomma un fatto sensoriale totale, una fusione di esperienze che genera, infine, il sapore.

Ma che rapporto abbiamo con il sapore? Che significato ha – se ne ha uno – il “buon sapore” rispetto al “cattivo sapore”, che ruolo sociale possono avere, in definitiva, il gusto e il suo opposto, il disgusto?

Una proposta interessante su questo versante è quella fornita dal sociologo, antropologo e filosofo francese Pierre Bourdieu, che di fatto continua quel percorso di pensiero inaugurato a cavallo tra ‘800 e ‘900 da Durkheim e Mauss: l’obiettivo è quello di ricondurre a variabili sociologiche le categorie kantiane. Il che significa, in sostanza, che al pari delle nostre percezioni dello spazio, del tempo o della autonomia della persona, sono socialmente condizionati anche i nostri giudizi su ciò che è bello o brutto, raffinato o volgare, interessante o banale. Di più: nella sua analisi, tali giudizi sono la materia prima con la quale i gruppi sociali rappresentano e plasmano la loro differenziazione.

Ma il lavoro di ricerca di Boudieu si spinge oltre, è addirittura più complesso: svolge una meticolosa indagine nella Francia degli anni ’60, annotando stili di alimentazione molto diversi tra diverse classi sociali. Gli industriali e i commercianti, per esempio, utilizzano per l’alimentazione una quota percentuale più alta del loro reddito, e privilegiano la quantità e i cibi pesanti e ricchi, sia in senso calorico che economico: in questo – soprattutto sulle quantità – sono simili, con le dovute differenze dovute alla minore capacità economica, agli operai. Il ceto medio ad alto capitale culturale, invece, come ad esempio professionisti e professori, si definisce in contrapposizione strutturale a questo tipo di gusto: come ricorda lo stesso Bourdieu “costituisce in termini negativi il gusto popolare come gusto per le cose pesanti, grasse, grossolane, e si indirizza verso le cose leggere, fini, raffinate”.

Più in dettaglio, la ricerca mostra che le persone più ricche di capitale culturale che economico (e quindi professori ma anche studenti universitari), “si contrappongono in modo quasi consapevole, con una ricerca dell’originalità al minor costo economico, che rende inclini all’esotismo e al populismo gastronomico (piatti contadini), ai ricchi ed ai loro cibi ricchi, propinatori e consumatori di grandi mangiate, corpulenti e grossolani”. Il contributo di Bourdieu è insomma più ampio di quello dei suoi predecessori, e lo portano ad ipotizzare che le preferenze e i gusti non siano scelte consapevolmente mirate a produrre status: sono invece profondamente incorporate nei soggetti sociali, fino a diventare quasi una seconda natura.

Come avviene questo processo di assimilazione? Avviene attraverso un meccanismo culturale definito habitus. Una sorta di imprinting sociale, con schemi che funzionano prima di giungere alla coscienza e all’ordine del discorso e che nascondono, sotto gesti automatici o aspetti apparentemente insignificanti – le abilità pratiche, il modo di incedere, di sedersi, di soffiarsi il naso, la maniera di tenere la bocca quando si mangia o si parla – “quelli che solo impropriamente potremmo chiamare dei valori, mettendo all’opera i principi più di fondo di costruzione e di valutazione del mondo sociale, quelli cioè che esprimono in modo più diretto la divisione del lavoro”.

In definitiva, l’habitus è fatto da schemi incorporati, che si costituiscono nel corso della storia collettiva, per essere poi acquisiti nel corso della storia individuale. Una sedimentazione del collettivo nell’individuale. Non è quindi scelto dal soggetto ma costituisce il soggetto stesso, e per questo è difficile se non impossibile cambiarlo volontariamente. Le scelte di gusto, insomma, non sono mai meramente strumentali, perché il gusto in qualche modo è un prodotto della storia, del modo in cui ciascuno si colloca nella trama simbolica della propria cultura. Non si sceglie di consumare un bene per imitare chi sta più in alto nella gerarchia sociale quanto, piuttosto, per aderire a un sistema di valori che demarca negativamente ciò che sta più in basso; in questo modo si costruisce la distanza da quelli considerati ceti inferiori, come fossero portatori, chissà perché, di cattivo gusto.

Così, la separazione tra i diversi gusti non è una semplice divisione del mondo, ma costituisce un’operazione con cui certe pratiche e certi beni vengono differenziati e distinti o a cui viene dato più valore di altri. Affinché si producano gusti, devono esistere beni e pratiche considerati di buono o cattivo gusto, distinti o volgari. Questi beni e pratiche classificati e gerarchizzati hanno, allo stesso tempo, la funzione di classificare e gerarchizzare gli individui all’interno di una scala che va dagli uomini di buon gusto a quelli di cattivo gusto. Così, nella realtà simbolica e materiale, la differenza, quando viene chiamata “cattivo gusto”, diventa disuguaglianza sociale.

Le persone, insomma, hanno inclinazioni e scelgono pratiche e beni non consapevolmente, ma in armonia con i canoni del legittimo, cioè in accordo con il loro habitus e per il loro habitus. In questo senso, il gusto stigmatizza e stabilisce differenze sociali, cioè è uno strumento che, quando agisce dall’ “esterno” dell’individuo, gli attribuisce un’identità, e quando agisce dall’ “interno” dell’individuo, produce meccanismi di autoidentificazione sociale. Così inteso, il gusto tende a diventare una guida alle posizioni sociali che rafforzano i rapporti di dominio e, in questo senso, esercita la funzione di un vero e proprio strumento di potere.

·        Cibi Biblici.

Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2022.

Nel deserto, alle prese con calamità di ogni genere, sperando ogni giorno di arrivare alla Terra Promessa; nei lunghi giorni di guerra e di schiavitù, nell'apocalisse del diluvio universale, messi alla prova da tradimenti, omicidi, adulteri, fame, sconforto, crisi di fede... E poi i tempi della dominazione romana, Gesù che comincia a predicare e a farsi nemici potenti, fino alla condanna alla morte in croce. Seguita da una nuova storia, costellata di persecuzioni e viaggi pericolosi.

Un destino complicato quello tracciato nella Bibbia, dall'Antico al Nuovo Testamento, senza esclusione di colpi. Ma al centro di questi millenni tanto tempestosi ci sono ampie oasi di serenità; perlopiù trascorse a tavola. Un modo per affrontare i mille disagi e per assaporare il bello della vita, per tirarsi su, potremmo prosaicamente dire. 

Ecco dunque un susseguirsi appetitoso di pane del deserto, il pane bianco lievitato, il vino speziato, lo spezzatino di vitello con maggiorana e zucca, lo stufato di manzo con olive, la minestra di lenticchie, il pilaf di lenticchie e orzo, la minestra di fave e miglio, il croccante di Giuda, la composta di uva passa e pistacchi... La tradizione gastronomica dei Patriarchi di Israele, da Abramo a Isacco e Giacobbe, fino ai tempi di Cristo, appare ricca, curiosa e per molti versi anche innovativa.

Negli ultimi tempi si è riscoperto questo patrimonio poco conosciuto e si moltiplicano le iniziative per riportare in tavola i migliori piatti della Bibbia. Libri, siti in Rete, chef che hanno riportato nei ristoranti questi menu che rivelano aspetti particolari e che, ovviamente, raccontano anch' essi, da un altro punto di vista la storia della salvezza. 

Lo fa da anni Moshe Basson, patron di uno dei ristoranti più famosi di Gerusalemme, l'Eucalyptus. Basson è anche un etnobotanico, attivista in difesa dei cibi antichi, uno tra i massimi studiosi di cucina biblica e spesso in visita in Italia.

Nel suo locale cucina utilizzando ingredienti citati nella Bibbia che raccoglie sulle colline che circondano la città israeliana. Basson ha sempre sottolineato che la cucina biblica è principalmente vegetariana-vegana, anche se è ben capace di esaltare i sapori della carne e del pesce. Quindi, anche in questo caso, la moda del momento non è farina del nostro sacco ma viene da molto lontano.

Se poi si naviga in internet si trovano mille suggerimenti. Ad esempio nel sito "un attimo di pace" si trovano gustose ricette che possono del tutto soddisfare i palati più esigenti, modaioli, curiosi o preoccupati dalle calorie e dalla genuinità. Qualche anno fa, a ritrovare un centinaio di ricette sparse nelle Sacre Scritture sono stati un biblista e un teologo, don Andrea Ciucci, sacerdote della Diocesi di Milano, e Paolo Sartor, insegnante presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano. Hanno ricostruito un centinaio di ricette e le hanno raccolte nel libro A tavola con Abramo, pubblicato dalle Edizioni San Paolo (pagine 174, euro 18), diventato un vero best-seller sul tema. 

Tra i menu proposti quelli che fanno riferimento alle tradizioni di Mosè, al re Davide e al profeta Elia. Gli stessi autori hanno proposto, qualche mese fa, un altro titolo intrigante: Mangiare da Dio. La storia della Chiesa in 50 ricette, sempre pubblicato dalla San Paolo (euro 12,90, pp.144), Altro titolo-chiave è La Bibbia in tavola. 40 ricette dall'Eden a Gerusalemme (Streetlib, euro 19,99) scritto dall'archeologa e storica culinaria tedesca Ursula Janssen.

Questo immenso patrimonio culinario, e non solo, divulgato con scrupolo e fascinazione da libri, chef, siti, si poggia su sette prodotti, alla base appunto della cucina biblica, ossia il grano, l'orzo, l'uva, i fichi, i melograni, le olive e il miele. Le loro combinazioni creano sapori che ci riportano indietro nel tempo non solo nella Terra santa e nel Levante, ma anche in Egitto e Grecia, in Persia e Asia Minore, a Babilonia e Roma. Fino al Medioevo. E ci promettono incontri straordinari: le polpette crude di cui Abramo è ghiotto create, secondo la tradizione, da sua madre un giorno in cui non aveva legna per cuocere la carne.

Per una minestra di lenticchie Esaù vendette a Giacobbe la primogenitura. Il pane azzimo fu preparato dagli ebrei nell'Esodo dall'Egitto, i quali portarono con sé pasta non ancora lievitata. All'ultima cena di Gesù furono serviti probabilmente agnello arrosto e altri piatti tradizionali come il charoset con salsa di mele. Per ricordare, inoltre, che la fede non è solo un'attitudine dello spirito e circoscritta alle pratiche devozionali, ma investe tutta la vita quotidiana, si incarna in gesti concreti, nella convivialità.

Sfogliare la Bibbia a tavola oltre a diventare un viaggio nel tempo e nella storia, scoprendo i gusti che assaporavano patriarchi, profeti e apostoli. Ma può essere anche la strada per rieducare al valore del cibo e all'importanza dello stare tutti insieme a tavola. Come ricorda un volume appena pubblicato dalla San Paolo editore, dal titolo inequivocabile Zitto e mangia. Ricette ed educazione per la buona tavola, di Luca G. e Marco Pappalardo (pp.176, euro 16). Una battuta che oggi appare desueta, se non politically scorrect, invece rappresenta una sfida per grandi e piccoli, a dialogare, ad "assaggiare" prima di opporre i soliti rifiuti

·        I Cibi che fanno bene e fanno male.

Frutti di bosco: tutti i benefici per la salute. I frutti di bosco sono dei veri e propri alleati per la salute, grazie al loro ricco apporto di vitamine e sali minerali: ecco i benefici di mirtilli, ribes e lamponi. Maria Girardi il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Colorati, sani e gustosi: stiamo parlando dei frutti di bosco, ovvero un gruppo di alimenti reperibili nel sottobosco di montagne e di colline. In natura crescono nel periodo estivo, da maggio a ottobre: nella maggior parte dei casi, quelli che portiamo in tavola durante l'inverno vengono coltivati nelle serre. Originari del Nord America e dell'Europa settentrionale, questi frutti sono conosciuti sin dalla preistoria. Un tempo la loro raccolta era affidata alle famiglie appartenenti ai ceti più poveri che, in questo modo, si nutrivano e li vendevano ai signori dell'alta società.

I frutti di bosco hanno sempre goduto di un'ottima fama. Oggi vengono considerati dei veri e propri alleati della salute. Mirtilli, ribes, lamponi sono infatti ricchi di acqua, fibre, vitamine (A, B1, B2 e C), salu minerali (potassio, calcio, fosforo e sodio) e sostanze fenoliche antiossidanti (flavonoidi, antocianine e tannini). Tutti possono consumarli, fatta eccezione per i soggetti allergici, ma serve moderazione per chi soffre di obesità, di diabete di tipo 2, di calcoli renali e di reflusso gastroesofageo.

Mirtilli: i frutti di bosco amici della circolazione

Tra i frutti di bosco più diffusi in assoluto figurano i mirtilli. Appartenenti al genere Vaccinium e alla famiglia delle Ericacee, il loro colore varia dal nero al rosso, per finire al blu. Maturano durante la stagione estiva, in particolare a luglio e ad agosto, e in cucina sono assai versatili. Possono essere utilizzati per preparare marmellate e dolci, ma anche per accompagnare le carni e per insaporire risotti e zuppe. I mirtilli sono un superfood, ovvero vantano proprietà in quantità tali da apportare benefici importanti all'organismo.

Superfood: verità e falsi miti da sfatare sui benefici. 

Sono infatti ricchi di sali minerali (ferro, magnesio, calcio, potassio, sodio, zinco, rame, fosforo, zolfo e manganese), di vitamine liposolubili (vitamina A, vitamina E e vitamina K), di vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6 e vitamina C) e di antiossidanti (polifenoli e antocianine). Numerose sono le virtù di questi frutti di bosco:

Proteggono l'apparato urogenitale: i mirtilli disinfettano le vie urinarie. L'acido ippurico in essi contenuto, impedendo l'attecchimento dei colibacilli nell'intestino e sulle pareti della vescica, previene la cistite. Inoltre contrastano l'insorgenza di problematiche ai reni e alla prostata;

Rallentano l'invecchiamento: merito degli antiossidanti noti come antociani che, combattendo lo stress ossidativo, ritardano la comparsa dei segni della degenerazione senile. Gli stessi antociani, inoltre, hanno un'azione positiva nei confronti della proliferazione delle cellule tumorali di seno, colon, polmoni e prostata;

Supportano la microcircolazione: i tannini rafforzano i capillari e migliorano la tonicità delle pareti dei vasi sanguigni;

Aiutano il sistema cardiocircolatorio: favorendo l'abbassamento dei trigliceridi, i mirtilli preservano l'organismo dalle malattie cardiovascolari;

Proteggono la pelle: i polifenoli contrastano i danni causati dai raggi UVA e UVB.

Il consumo di mirtilli è sicuro. In alcuni soggetti predisposti possono provocare effetti indesiderati transitori come mal di testa, nausea e mal di stomaco. Quantità eccessive hanno effetti diarroici. Sono sconsigliati ai diabetici e a chi è in terapia con anticoagulanti.

Ribes: un alleato contro lo stress ossidativo

Fanno parte dei frutti di bosco anche i ribes, della famiglia delle Grossulariaceae. Esistono differenti varietà: nera, rossa, gialla e verdognola (la cosiddetta uva spina). Di queste quella nera è la più diffusa. Raccolti da maggio a dicembre - la maturazione completa avviene nei mesi di luglio e agosto - dei ribes viene sfruttato ogni costituente. Dalle foglie, ad esempio, si ottiene un olio essenziale particolarmente aromatico. Le gemme, invece, vengono trasformate in gemmoderivato dalle virtù antinfiammatorie e antistaminiche. I semi, infine, contengono acidi grassi essenziali e polinsaturi utili in caso di patologie cardiocircolatorie e di ipertensione.

L'allenamento di resistenza isometrica per battere l'ipertensione

Questi frutti di bosco sono ricchi di fibre, acidi organici (acido tartarico e acido malico), antiossidanti (tannini), sali minerali (ferro, calcio, zinco, fosforo, potassio, sodio, selenio, manganese e rame), vitamine liposolubili (vitamina A, vitamina E e vitamina K) e vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6 e vitamina C). Innumerevoli le loro proprietà:

Contrastano lo stress ossidativo: merito degli antiossidanti che rallentano i processi degenerativi tipici dell'invecchiamento;

Hanno un'azione anticoagulante: la vitamina K, intervenendo in varie reazioni chimiche che trasformano il fibrinogeno in fibrina, agisce come antiemorragico;

Riducono la ritenzione idrica: sono particolarmente indicati per contrastare gli edemi tipici della cellulite. Infatti favoriscono l'eliminazione dei liquidi in eccesso;

Combattono le infiammazioni: sono utili in caso di congiuntiviti, asma allergica, infezioni delle vie respiratorie e di stomaco e intestino.

I ribes sono generalmente privi di controindicazioni. Per via della loro attività diuretica devono essere consumati con moderazione da chi soffre di pressione bassa e da chi è affetto da malattie renali.

Lamponi: dal diabete all'intestino, tante proprietà

I lamponi sono frutti di bosco molto amati. La pianta, nota con il termine botanico Rubus idaeus, era già nota presso gli antichi Romani, che ne diffusero la coltivazione in tutta Europa. Esistono due varietà di lamponi, quelli fiorenti e quelli non fiorenti. I lamponi fiorenti producono i primi frutti all'inizio della primavera, poi in estate e fino al principio dell'autunno. I lamponi non fiorenti, invece, producono i frutti solo a giugno, per 3-4 settimane.

I lamponi sono considerati dei veri e propri alleati della salute, infatti sono ricchi di acqua, fibre, antiossidanti (antocianine ed ellagitannini), vitamine liposolubili (vitamina K), vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6, vitamina B8 e vitamina C) e sali minerali (ferro, calcio, fosforo, magnesio, sodio, potassio). Davvero numerose le loro virtù:

Hanno un'azione antiossidante: merito delle antocianine e degli ellagitannini, che combattono l'azione dei radicali liberi e le loro conseguenze negative sui processi di invecchiamento;

Contrastano il diabete: l'acido ellagico migliora la produzione di insulina. Le fibre, inoltre, regolarizzano i valori glicemici;

Migliorano i sintomi della sindrome premestruale: in ambito fitoterapico, il gemmoderivato agisce in maniera positiva sull'asse ipotalamo-ipofisi-ovaio riducendo così sintomi quali: tensione mammaria, nervosismo, umore instabile e ritenzione idrica;

Favoriscono il benessere intestinale: considerate le loro proprietà astringenti, i tannini sono utili in caso di diarrea.

Questi frutti di bosco possono essere mangiati con moderazione anche dai pazienti diabetici e, in linea di massima, sono privi di effetti collaterali. Chi soffre di allergie ai salicilati, prima di consumarli, deve consultare il proprio medico.

Jennifer Lopez svela la ricetta del tè che l’aiuta ad essere bella. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.

Ne beve uno ogni mattina appena sveglia, ed è il suo «segreto» per avere la pelle perfetta (e non solo). Ecco di cosa si tratta e perché è davvero un rimedio efficace, nell’ambito di uno stile di vita sano come quello della popstar

Il tè

Ora bevono tutti tè allo zenzero appena svegli, e il motivo per cui lo fanno è perché anche Jennifer Lopez ha detto che fa bene. L'attrice e popstar amata e celebrata in tutto il mondo ha infatti raccontato che la prima cosa che fa appena sveglia è berne almeno una tazza, con in più una fetta di limone. Ha condiviso il «segreto» sul suo profilo Instagram (al momento che scriviamo misteriosamente privo di foto e forse per via di una crisi con l'attore Ben Affleck che ha sposato da pochi mesi), con uno dei quei suoi post che in poche ore hanno macinato milioni di like e - supponiamo - fatto impennare le vendite di zenzero.

Effettivamente il tè allo zenzero può essere un valido e ulteriore aiuto nell'ambito di una dieta sana e bilanciata come quella che notoriamente segue Jennifer Lopez e che a 53 anni - insieme allo sport - la mantiene così luminosa e filiforme: una dieta ricca di proteine magre, come quelle del pollo e dei legumi, di verdure, di frutta con cui ogni mattina - dopo il tè evidentemente - prepara anche un'altra bevanda diventata un must per i salutisti e cioè un frullato proteico, depurativo e leggero con frutta, yogurt greco, miele, cannella, ghiaccio e limone fresco.Il tè allo zenzero, dicevamo. Perché fa bene?

L’acqua

Prima ancora dello zenzero, nel tè c’è l'acqua, e trovare un’occasione per berne un po’ di più è sempre un’ottima idea: aiuta a depurare l'organismo, e berne un bicchiere a stomaco vuoto di prima mattina è particolarmente efficace per stimolare la diuresi, oltre che per riempire lo stomaco. JLo ha raccontato di bere 7 bicchieri di acqua al giorno proprio per sentirsi sazia e mantenere un buon livello di idratazione della pelle.

Lo zenzero depura

Lo zenzero di fatto potenzia le proprietà dell'acqua. I principi attivi - gingeroli, anzitutto - che si concentrano nella radice (la parte della pianta che si mangia o si usa in cucina) sono particolarmente efficaci per combattere il gonfiore addominale, per accelerare la digestione, contro la nausea o il vomito e inoltre favoriscono la motilità intestinale.

Lo zenzero (non) fa dimagrire

Lo zenzero li brucia oppure no, i grassi? Purtroppo non ha questo potere miracoloso, come spesso si crede, ma è assolutamente vero che, proprio grazie alle sue capacità depurative - come appena spiegato - è utile a espellere tossine e liquidi. Ovviamente non basta una tisana a rimetterci in equilibrio se conduciamo una dieta sregolata: può però essere un'alleata in più nell'ambito di uno stile di vita sano.

Lo zenzero mantiene giovani

Tra le caratteristiche dello zenzero c'è il fatto che è particolarmente ricco di antiossidanti, molecole che combattono i radicali liberi che determinano l'invecchiamento cellulare e che favorisco anche l'insorgenza di malattie croniche.

Lo zenzero è un antinfiammatorio naturale

Se lo zenzero si usa spesso in caso di raffreddori, mal di testa, ma anche dolori articolari, è perché è un ottimo antinfiammatorio naturale. Nella medicina ayurvedica ha un ampio utilizzo proprio in questo ambito.

Come preparare un tè allo zenzero

Per preparare un tè casalingo sminuzzate una radice di zenzero fresco e mettetene 4/5 pezzettini in acqua bollente. Lasciate bollire ancora per due minuti sul fuoco, quindi filtrate e bevete (senza aggiungere zucchero, se l’intento è dimagrire).

Eliana Liotta per "iodonna.it" l’8 dicembre 2022.

Non ci sono soltanto le arance: è una dieta nel complesso equilibrata a contrastare il disturbo invernale, favorendo la guarigione. Nella gallery, le sostanze che offrono la migliore protezione e dove le si può trovare. 

Grassi insaturi

Benvenuti i grassi buoni, insaturi, dell’olio extravergine d’oliva, della frutta a guscio e del pesce, perché rafforzano la membrana cellulare, che diventa più resistente ai microrganismi. Viva la frutta e la verdura, per il loro contenuto di vitamine, amiche delle nostre difese.

Vitamina C

La vitamina C innalza le barriere del sistema immunitario e, in questo senso, fa sempre bene mangiare alimenti che ne sono ricchi, tutto l’anno. Nei mesi freddi, si assume attraverso alimenti come gli agrumi, i kiwi, la rucola, la lattuga. Ce n’è in abbondanza anche in broccoli e cavoli (ma si deteriora un pochino con la cottura).

Vitamina E ed A

In generale, per difendersi dalle insidie del freddo e sostenere il sistema immunitario sono indicati tutti gli alimenti contenenti la vitamina E, ossia frutta a guscio (regine le mandorle), olio extravergine d’oliva e semi, e quelli con il betacarotene, la sostanza che l’organismo trasforma nella vitamina A, dalle carote alle zucche e agli spinaci.

Vitamina D

Anche la vitamina D sembra giocare un ruolo importante, come conferma una revisione del 2017 di 25 studi. Per l’80 per cento la pelle la sintetizza al sole, quindi bisogna farne il pieno d’estate, ma si trova in alcuni alimenti, specie nel tuorlo d’uovo, nel salmone, nello sgombro, nelle aringhe e nel tonno in scatola.  

Da dailymail.co.uk l’8 dicembre 2022.

“Femail” ha lavorato con la nutrizionista Elouise Bauskis per identificare i 15 alimenti che si dovrebbero assolutamente evitare prima di una serata romantica sotto le coperte.

1. La liquirizia

L’assunzione di liquirizia è stata collegata ad un abbassamento dei livelli di testosterone. Più alto è il testosterone, più forte è il desiderio sessuale, sia per gli uomini e le donne. Concludete voi il sillogismo.

2. I formaggi

O anche chiamati i killer della libido. Molti latticini sono difficili da digerire e aumentano la produzione di muco. Non è il modo ideale di sentirsi prima del sesso! 

3. Fagioli

Secondo la dottoressa Bauskis, tutto dipende per quanto riguarda i fagioli:

“Alcuni si sentiranno pieni di energia, altri gonfi e lenti. Nel peggiore dei casi, possono portare all’aumento della flatulenza. Meglio evitare”, ha spiegato. 

4. Cioccolato

Scegli con attenzione il cioccolato perché non tutto fa male. Anzi, quello fondente (con un minimo di 70 per cento di cacao) è antiossidante, ricco di L-triptofano (che come la serotonina ci fa sentire più felici) e la feniletilammina, che è la stessa sostanza chimica che produce il corpo durante i primi momenti dell’innamoramento. 

5. Hot dog

Possono ostruire le arterie del pene e della vagina, da evitare assolutamente se desideri sentirti sensuale.

6. La menta peperita

È stato dimostrato che la menta riduce i livelli di testosterone: “Una delle erbe migliori per il sistema digestivo, ma ha ripercussioni negative sulla libido.”

7. Acqua tonica

Spesso contiene chinina (come agente aromatizzante) collegata a una diminuzione della funzione sessuale. 

8. Patatine fritte

Questo alimento rilascia la sua energia molto rapidamente nel nostro sistema.

Inizialmente, potrai sentirti bene, ma poco dopo ti potresti sentire fiacco e senza forza. “Inoltre, se sono state cotte in olio di cattiva qualità, possono provocarti sonnolenza e indigestione”. 

9. Carne rossa

Secondo alcuni è un elemento energizzante, grazie al ferro che aumenta l'ossigenazione in tutto il corpo. Secondo altri, può farti sentire più “animale”. Per altri ancora può generare pesantezza e sonno.

10. Tofu

Il tofu e la soia contengono fitoestrogeni e mangiati in eccesso possono diminuire i livelli di testosterone. 

11. Conservanti

Gli alimenti a lunga conservazione hanno un basso valore nutritivo, equivalgono energicamente a un cibo “morto”. Non aumenteranno la vostra vitalità, né renderanno meglio il sesso! 

12. Vino rosso

Con moderazione il vino rosso può aumentare il flusso del sangue, aiutandoti a rilassare e abbassare le inibizioni. Ma, in quantità esagerate, può portare all’impotenza. 

13. Farina d'avena

Presenta un alto contenuto di fibre che possono farti sentire “gassoso”. 

14. Bevande energetiche

Sono piene di zuccheri e coloranti. Possono darti una sensazione di benessere immediato, ma dura poco.

 15. Broccoli

Il pericolo è che può produrre gas nel vostro corpo, ma allo stesso tempo è un ortaggio che aiuta a disintossicarsi.

Dieta e alimentazione. Come riconoscere l'ortoressia, l'ossessione per il cibo sano. L’ortoressia è una forma di comportamento ossessivo nei confronti del cibo sano. Ne parliamo nel dettaglio con la Dott.ssa Chiara Ramponi. Mariangela Cutrone il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Seguire un’alimentazione sana può sfociare in una vera e propria ossessione denominata ortoressia. Il termine ortoressia deriva dal greco “orthos” che sta per “giusto” e “orexis” che fa riferimento all’“appetito”.

Di questa forma di comportamento ossessivo si è parlato per la prima volta nel 1997 quando è stato diagnosticato dall’inglese Steven Bratman. Oggi con l’avvento dei social media e del mondo del web in generale che spesso e volentieri diffonde abitudini alimentari errate o che sfociano nel vero e proprio fanatismo, l’ortoressia si è ampiamente diffusa.

Che cos’è e come riconoscere l’ortoressia

Chi soffre di questa patologia rischia di non apportare all’organismo le sostanze nutritive necessarie per il proprio sostentamento soprattutto in fase di crescita. Rischia di seguire abitudini alimentari rigide e drastiche. Di questo comportamento alimentare non sano ne parliamo con la Dott.ssa Chiara Ramponi, dietista specializzata in problemi alimentari di bambini e adolescenti in questa approfondita intervista.

Quando il “mangiare sano” diventa un’ossessione?

Seguire un’alimentazione sana e bilanciata è (Indubbiamente) uno dei pilastri del benessere e della salute. Numerosi sono infatti gli studi che hanno dimostrato come la Dieta Mediterranea protegga da molte patologie come, ad esempio, diabete, ipertensione, sovrappeso, obesità, alcune forme tumorali e molte altre. In alcuni casi, però, il ‘mangiare sano’ può diventare un’ossessione. Questo avviene quando l’alimentazione diventa molto rigida e quando le linee guida alimentari, che hanno come principale caratteristica la flessibilità, non prevedono ‘variazioni sul tema’ trasformandosi così in rigide regole che non possono essere eluse.

Quali sono le abitudini e i comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia?

Ad oggi, l’ortoressia non è classificata tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione indicati dal DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Probabilmente, questo è dovuto a due differenti motivi: non esistono dei criteri per la sua diagnosi e molte sue caratteristiche sono in comune con gli altri disturbi dell’alimentazione, tra cui l’Anoressia Nervosa. I comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia o, più in generale, un disturbo dell’alimentazione sono però peculiari.

Eccone alcuni:

Presenza di una dieta rigida: come già detto in precedenza, chi soffre di problematiche alimentari tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare l’alimentazione, il peso o le forme corporee. Tale controllo viene attuato attraverso l’adozione di comportamenti disfunzionali quali, tra tutti, la restrizione a livello di qualità e/o quantità degli alimenti.

Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio l’alimentazione subisce alcune modifiche; alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazioni vengono successivamente rifiutati o esclusi. Dunque, la scelta ricade unicamente sugli alimenti percepiti come “sani” e “salutari”.

Presenza di regole dietetiche: numerose sono le regole riguardanti il come, il cosa, il quando e il quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: mangiare solo alimenti che contengono solo determinati nutrienti o meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario, evitare le situazioni sociali e molte altre.

Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo con conseguenti preoccupazioni. Non sempre sono presenti ma sono frequenti nei soggetti che restringono di molto la propria alimentazione o che limitano la qualità degli alimenti consumati in quanto spesso derivano dalla rottura di regole dietetiche o dal consumo di alimenti evitati.

Esercizio fisico intenso: non un comportamento alimentare ma molto spesso presente in chi soffre di disturbi dell’alimentazione. L’esercizio è spesso definito ‘eccessivo’ in quanto la durata, la frequenza e l’intensità sono superiori rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida. Inoltre, tale esercizio viene vissuto come obbligatorio e praticato anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…); pertanto viene accompagnato anche dall’aggettivo ‘compulsivo’.

Chi sono i soggetti più a rischio?

Sebbene le cause dei disturbi dell’alimentazione non siano ancora completamente note, la ricerca ha dimostrato che vi è una combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio legati all’ambiente in cui si vive. Uno tra i vari fattori di rischio è il sesso femminile; le donne sono infatti maggiormente colpite rispetto agli uomini in quanto più socialmente spinte ad avere un corpo magro. Se prendiamo invece in considerazione l’età, le fasce più delicate sono l’adolescenza e la prima età adulta. Durante questi periodi, infatti, frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso a seguito dei fisiologici cambiamenti legati alla pubertà. Infine, altri esempi di fattori di rischio: casi di disturbi dell’alimentazione tra i familiari, basso peso alla nascita, vivere in un paese occidentale, frequentare ambienti che pongono molta attenzione al corpo (moda, danza, ginnastica), l’intraprendere delle diete.

Il ruolo dell’educazione alimentare

Quanto e in che misura il mondo del web con la diffusione di false diete miracolose ha contribuito a incrementare questo problema?

Come accennato in precedenza, le diete sono uno dei fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto alle coetanee non a dieta. Le diete sono dunque sempre un rischio, sia quelle lievemente ipocaloriche guidate da un dietista sia quelle ‘false e miracolose’ che circolano nel web. In quest’ultimo caso, vi è un rischio aggiuntivo: l’essere condotte in autonomia senza il supporto di un professionista qualificato a riconoscere in anticipo e per tempo gli eventuali campanelli di allarme.

In Italia manca una corretta educazione alimentare. Secondo lei da quando dovrebbe cominciare e come dovrebbe essere attivata?

La ricerca ha dimostrato che la promozione di un corretto e flessibile stile alimentare, fin dalla più tenera età, sia un fattore protettivo allo sviluppo di un successivo disturbo alimentare. Nonostante ciò, in Italia mancano dei veri e propri programmi di educazione alimentare. Basti pensare che, secondo l’ultimo monitoraggio Istat, solo il 12% dei bambini e degli adolescenti in Italia consuma ogni giorno le porzioni di frutta e verdura raccomandate dalle Linee Guida. Dal mio punto di vista credo che la partenza sia insegnare ai bambini la sana alimentazione e il corretto stile alimentare tramite il ‘buon esempio’; i bimbi imparano infatti imitando il comportamento degli altri. Attraverso la condivisione e la convivialità si possono dunque promuovere corrette abitudini alimentari quali, ad esempio, la giusta composizione dei pasti o la frequenza di consumo dei vari alimenti. È però importante che tutte le figure di riferimento collaborino tra loro trasmettendo le medesime Linee Guida; non solo genitori dunque ma anche nonni, tate, insegnanti, allenatori. Inoltre, penso sia importante inserire l’educazione alimentare all’interno di ogni programma scolastico a partire dalla scuola dell’infanzia coinvolgendo, per i motivi elencati in precedenza, i bimbi e tutte le persone per loro significative.

Qual è il ruolo del dietista quando ci si trova davanti ad un caso di ortoressia?

Innanzitutto, come primo step è essenziale conoscere e riconoscere i campanelli di allarme per indagare e valutare la presenza (talvolta nascosta e non detta) di ortoressia o di un disturbo dell’alimentazione. In presenza di pazienti con problematiche alimentari è successivamente essenziale l’invio ad uno psicoterapeuta specializzato in disturbi alimentari e in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi. Per una completa remissione del disturbo, infatti, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata da dietista, psicoterapeuta e medico psichiatra. Così facendo si lavora sulla psicopatologia e sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sugli alimenti evitati e sulle regole dietetiche e si forniscono strategia sia a breve termine sia per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è posto al centro del trattamento e tutti i professionisti (co)operano con e per lui come una grande squadra.

Da blitzquotidiano.it il 25 novembre 2022.

Aumentano del 31% gli allarmi alimentari in Italia, con 389 notifiche inviate dal nostro Paese all’Ue, di cui otto su dieci (80%) hanno riguardato cibi provenienti dall’estero. È quanto emerge dal dossier Coldiretti sulla “Black list dei cibi più pericolosi sugli scaffali” venduti in Italia, diffuso in occasione del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione della Coldiretti. 

Con l’aumento dei prezzi degli alimentari, fa sapere l’associazione, cresce infatti la presenza di cibi low cost importati, sulla base dell’ultimo Rapporto Annuale della Commissione Europea sul Sistema di allerta rapido europeo pubblicato nel 2022. 

Carne di pollo low cost polacca, agrumi come mandarini e pompelmi dalla Turchia, peperoni sempre turchi, pepe nero brasiliano e semi di sesamo dall’India, di moda per le insalatone salutiste, sono ai primi posti primi della “black list” dei prodotti più pericolosi per la salute rilevati nell’Ue, nella quale entrano per la prima volta anche le arance dall’Egitto.

Da dove provengono

In testa alla classifica dei Paesi dai quali arrivano i prodotti più contaminati, fa sapere la Coldiretti, c’è la Turchia, presente per tre volte nella top-ten dei cibi più pericolosi e responsabile del 13% degli allarmi scattati in Europa. A seguire, l’India e la Polonia, imputabili per l’8% delle notifiche complessive, ma preoccupazioni vengono anche dalla Cina, che rappresenta quasi la metà delle notifiche relative ai materiali a contatto con gli alimenti, per la presenza di sostanze non autorizzate nei prodotti di plastica, come il bambù e la migrazione di ammine aromatiche, melamina e formaldeide.

Estratto dell'articolo di Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 22 novembre 2022.

La frutta secca smart food (cibo che fa bene) per definizione è ormai immancabile in ogni dieta. Le statistiche la più recente è di SG Marketing indicano le noci in Italia (nel mondo, invece, le mandorle) come il prodotto con la più elevata frequenza di acquisto all'interno della categoria […]

La prima motivazioni di acquisto (67%) è il valore salutistico: le noci contengono molte fibre e micronutrienti come il magnesio, il rame e il manganese.

Mangiarle ogni giorno ridurrebbe il colesterolo cattivo e migliorerebbe la pressione sanguigna. E poi c'è il piacere del gusto […] per il forte carattere nonostante il sapore delicato che dopo la tostatura svela un accenno di amaro tipo nicotina. […]

A proposito, i nostri antenati (prima che nel Medioevo alla pianta venissero attribuiti poteri malefici) consideravano le noci portatrici di bene: le ragazze le mettevano nelle tasche dei giovani per catturarne l'amore; erano considerate afrodisiache (anche per il richiamo alla forma degli attributi maschili); erano auspicio di un sereno futuro vista la doppia protezione del guscio e del mallo. «prepara nuove fiaccole, ti si conduce la sposa; spargi, o marito, le noci», scriveva Virgilio.

Ancora oggi in molte zone resistono credenze sulla raccolta nella notte di San Giovanni di noci verdi da mettere in infusione nell'alcol per realizzare l'ottimo (e miracoloso) liquore Nocino. Altre noci italiane sono la Lara (più tonda, ruvida e facile da aprire) e la Feltrina, diffusa in Abruzzo e Piemonte. Ognuna adatta a diverse preparazioni: dalle torte e crostate al pesto, dall'abbinamento coi formaggi (gorgonzola in primis) all'uso del gheriglio croccante in insalate e primi.

Estratto da “il Messaggero” il 2 novembre 2022. 

Una manciata di mandorle al giorno migliora la salute dell'intestino e del colon, rafforzando il microbioma (la micro-popolazione batterica intestinale) e sostiene il sistema immunitario. In particolare, si legge in uno studio pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition, con 56 grammi di mandorle assunte quotidianamente (è la quantità studiata dal King' s College di Londra) ad aumentare sono i cosiddetti grassi a catena corta, metaboliti batterici salutari, come il butirrato […]

Gemma Gaetani per “la Verità” il 27 novembre 2022.

Avete presente l' espressione «Sono cavoli amari...» per intendere qualcosa di non proprio positivo? Bene, lasciate il significato negativo dell' amaro del cavolo al senso metaforico. Perché che in senso letterale il cavolo nero sia un pochino amaro non è una brutta caratteristica, ma un suo segno distintivo. Un recente studio italiano denominato «Marco Polo» ha testato una serie di popolazioni del mondo sulla percezione del gusto opposto al dolce e spiegato come l'amaro dei cavoli - e di altre verdure - si percepisca più o meno intensamente in base a un fattore genetico: noi italiani siamo risultati per il 30% «non taster», cioè non disturbati dall' amaro dei cavoli e per il restante 70% «taster», cioè percipienti come molto amaro il gusto dei cavoli, di conseguenza ritenuti poco amabili. 

Insomma, non meno di Donald Trump, in generale il cavolo e, nello specifico, la varietà Brassica oleracea var. acephala (o B.oleracea var. viridis nonché Brassica oleracea convar. acephala var. viridis), questo il nome botanico del nostro, è un ortaggio decisamente divisivo. Avrete notato l' attributo «acefalo» del nome botanico, parola che vuol dire «senza testa»: nel caso del cavolo si chiama cavolo acefalo quello composto solo da foglie, che si differenzia, per esempio, dal cavolfiore, costituito da una grossa testa anche detta palla, che poi è un' infiorescenza formata da tanti peduncoli fiorali. 

I cavoli appartengono alla grande famiglia delle Crocifere, genere Brassica, che sono diffuse quasi in tutto il mondo e alle quali «dobbiamo», in un certo senso, le farfalle: molte specie del genere Brassica sono infatti piante nutrici dei bruchi di molti tipi di lepidotteri e perciò molte di queste farfalle sono anche chiamate cavolaie. 

Il genere Brassica comprende, per la precisione, circa 40 specie, la più parte coltivate per alimentazione umana che in alcuni casi, come in questo del cavolo nero, consuma le foglie (è anche il caso della verza), in altre le infiorescenze ancora immature (per esempio, il cavolfiore), in altre ancora le cime (è il caso delle cime di rapa che nel Lazio sono anche chiamate broccoletti perché cavoli e broccoli appartengono alla stessa famiglia, difatti il broccolo è anche chiamato cavolo broccolo). Anche alcuni semi sono usati per l' alimentazione, per esempio per la produzione di olio di colza.

La parte edibile del nostro è rappresentata dalle foglie, dalle quali però va scartata la nervatura centrale detta costa, molto coriacea, cucinando solo la parte verde, cioè la lamina (o lembo). A questa famiglia appartiene anche un cavolo che sta spopolando come superfood e che molti confondono col nostro. 

La narrazione del supercibo si applica all' alimento straniero o non consueto perché il pubblico è più disposto ad attribuire lo status epifanico di cibo miracoloso a qualcosa che non è ad esso familiare, che il contrario: è il cavolo riccio anche chiamato kale, che spopola in America presso i guru salutisti. Qualcuno lo confonde col cavolo nero, ma ci sono molte differenze. Il cavolo nero ha le foglie di colore verde scuro scuro, con riflessi bluastri intensi e perciò è detto, per eccesso, «nero», la superficie delle sue foglie è bollosa e non riccia e ha un sapore forte, diversamente dal cavolo riccio che invece ricorda più i sapori di verza e rucola. Appartiene al genere Brassica, ma è un' altra varietà, la Brassica oleracea var. Sabellica.

Tornando al cavolo nero, seppur nero di nome e solo abbastanza scuro di fatto, esso è anche molto tricolore da un punto di vista precisamente gastronomico, perché è ingrediente elettivo di una nota, potremmo dire leggendaria, zuppa toscana, la ribollita. Pellegrino Artusi, descrivendo la preparazione nella ricetta n. 58 della sua Scienza in cucina e l' arte di mangiar bene, Zuppa toscana di magro alla contadina, scrisse: «Questa zuppa che, per modestia, si fa dare l' epiteto di contadina, sono persuaso che sarà gradita da tutti, anche dai signori, se fatta con la dovuta attenzione».

Ma non c' è soltanto la ribollita: c' è la farinata di cavolo nero - anche detta «cavolata» - e poi c' è il risotto al cavolo nero, in Italia. In Portogallo e Galizia c' è il caldo verde e in Spagna il cocido, una minestra di cavolo nero, patate e carne di maiale.

Ortaggio autunnale-invernale, si inizia a raccogliere dopo cento giorni dalla coltivazione. Si dice che il miglior cavolo nero sia quello che ha superato delle gelate, perché il gelo ne ammorbidisce le foglie, ma lo stesso effetto si può raggiungere con una breve permanenza in congelatore o semplicemente con una buona cottura perché, per fortuna, il cavolo nero riempie i banchi ortofrutticoli di supermercati e mercati ben prima di gennaio. Facciamone, quindi, scorpacciate già da ora. Un etto di cavolo nero possiede soltanto 32 calorie e, al contempo, numerose virtù salutari. Innanzitutto, il famoso gusto amarognolo lo rende un grande stimolante della digestione.

La ricchezza di zolfo ne fa poi un toccasana contro ulcere gastriche e duodenali.

Il cavolo nero è poi noto perché contiene moltissima vitamina C: in 100 grammi ne troviamo 35,3 mg e considerato che il fabbisogno quotidiano di vitamina C è di circa 90 mg per gli uomini e di circa 70 mg per le donne si capisce come con una sola porzione di cavolo nero da 2-300 grammi esso sia ampiamente soddisfatto. 

La C è però una vitamina termolabile e l' ideale per non perderne troppa è cuocere il cavolo a bassa temperatura (in questo senso il sobbollire tipico delle zuppe è perfetto) oppure ad alta ma per breve tempo. La vitamina C ha un estremo potere antiossidante: oltre a neutralizzare i radicali liberi, rafforza la barriera del nostro sistema immunitario, quindi è la complice ideale di questo periodo, e altresì aiuta l' organismo a prevenire il rischio di tumori, soprattutto allo stomaco, perché inibisce la sintesi di sostanze cancerogene.

Non bisogna sottovalutare l' importanza della vitamina C: una sua assenza provoca lo scorbuto, che si traduce in apatia, anemia, inappetenza, sanguinamento delle gengive, caduta dei denti, dolori muscolari ed emorragie sottocutanee. La vitamina C, oltre ad aiutare a risolvere più velocemente episodi influenzali, serve anche a migliorare l' assorbimento del ferro. È vero che il cavolo nero ne contiene in quantità non proprio abbondanti (0,5 mg ogni 100 grammi), ma grazie al contenuto di vitamina C si ottimizza l' assorbimento di quel poco che ha. Non è solo la vitamina C che rende il cavolo nero un ortaggio profondamente antiossidante: altamente importante è anche il suo contenuto di vitamina A, ben 5.019 UI (unità internazionali) ogni 100 grammi.

Con la nota porzione da 2-300 grammi incameriamo il doppio della vitamina A di cui abbiamo bisogno perché il fabbisogno quotidiano è circa 3000 UI. Anche detta retinolo, la vitamina A è liposolubile, cioè viene accumulata nel fegato e rilasciata al bisogno, quindi non c' è bisogno di assumerne ogni giorno. 

Oltre ad essere fondamentale per una buona visione, perché fa parte della rodopsina, la sostanza che, nella retina, fornisce all' occhio sensibilità alla luce, la vitamina A partecipa allo sviluppo e al rafforzamento delle ossa e dei denti e rinvigorisce il nostro sistema immunitario, risultando particolarmente protettiva nei confronti dei tumori.

Inoltre, migliora la bellezza dei capelli e contribuisce a ritardare l' invecchiamento anche di questi.

Si ritiene che la presenza di sulforafano, insieme agli isotiocianati, agisca contro i tumori intestinali, e poiché si ritiene che possa aiutare a prevenire anche il cancro al colon, quello alla prostata e quello alla vescica, il cavolo nero è considerato un cibo antitumorale ad ampio spettro. Rilevante è anche il suo contenuto di vitamina K, non idrosolubile e non termolabile, per cui anche dopo prolungata cottura non se ne riduce la quantità presente nel nostro. Chiamata anche donaftochinone, partecipa ai meccanismi di coagulazione del sangue. 

Ancora di rilievo è la presenza di calcio, ben 232 mg per 200 grammi, all' incirca un terzo del nostro fabbisogno giornaliero. Il calcio contribuisce alla crescita e al rafforzamento di ossa e denti, ma serve anche al corretto sviluppo muscolare e previene crampi e contratture: il calcio lavora anche col triptofano per la produzione della melatonina, l' ormone che aiuta a mantenere il giusto equilibrio tra sonno e veglia e che, se scarsa, causa insonnia.

Perciò il calcio ha anche un effetto rilassante e assunto tramite i cibi della cena aiuta a dormire meglio la notte. Il cavolo nero è anche un potente antinfiammatorio grazie al suo contenuto di antocianine. E, ultimo ma non in ordine di importanza, ricordiamo che contiene anche acido folico, la cui assunzione è raccomandata quando si pianifica una gravidanza o quando si sia già in attesa.

Non bisogna eccedere in consumo di cavolo nero e in generale di crocifere se si soffre di ipotiroidismo, perché ostacolano l' assorbimento dello iodio da parte della tiroide con la conseguenza di impedirne il corretto funzionamento. Ricordiamoci, allora, quando lo vedremo al supermercato, che se ne può aggiungere anche solo una foglia, privata della nervatura centrale e tagliata a striscioline sottili, in un' insalata. Ma misuriamoci certamente, almeno una volta se non l' abbiamo mai mangiata, con la preparazione della ribollita Toscana. In Toscana il cavolo riccio nero - si chiama così pur non avendo niente a che fare col kale - è un Prodotto Agroalimentare Tipico delle zone di Lucca e Massa Carrara anche detto braschetta.

Quercetina, quando la salute ci arriva dalle piante. Prodotta dal metabolismo di alcuni alberi, si trova anche nei frutti e nei vegetali: ha proprietà antiossidanti e antivirali. Guido De Duccis il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Cos'hanno in comune cipolla rossa, capperi e radicchio? Ciascuno di noi sa che sono vegetali, certamente, ma pochi forse sono al corrente che contengono tutti abbondanti quantità di quercetina.

La quercetina possiede, come vedremo, proprietà anti-ossidanti, anti-infiammatorie e anti-allergiche notevoli ed è praticamente priva di effetti collaterali nocivi per l'uomo.

Può essere modificata con relativa facilità per sviluppare una molecola di sintesi ancora più potente, grazie alle sue dimensioni ridotte e ai particolari gruppi funzionali presenti nella sua struttura chimica.

Presenta un altro vantaggio non trascurabile: poiché non può essere oggetto di brevetto, chiunque può usarla come punto di partenza per nuove ricerche.

Che cos'è?

La quercetina è un flavonoide prodotto dal metabolismo di alcune piante (ippocastano, biancospino, camomilla) ma si trova anche nelle verdure e nella frutta. È impiegata nel trattamento dei disturbi metabolici e infiammatori e la principale attività attribuita è quella antiossidante. Contribuisce a ridurre la formazione di radicali liberi e sostanze pro-infiammatorie. Ad essa vengono attribuite proprietà vasoattive in quanto aumenterebbe la resistenza dei capillari.

Diversi studi dimostrano che la quercetina possiede le seguenti proprietà:

antinfiammatoria

antiestrogenica

di riduzione della formazione del tessuto endometriale

di protezione cardiovascolare

immunomodulatoria

antiaterosclerotica mediante l'inibizione dell'ossidazione delle LDL e il conseguente danno endoteliale arterioso

gastroprotettiva

antivirale (ne parleremo tra poco in relazione al Covid-19).

La quercetina viene assorbita a livello intestinale e i suoi metaboliti sono distribuiti dal fegato ai vari tessuti dell'organismo; nel plasma si trova legata all'albumina. La disponibilità della quercetina assunta per via orale è incerta; sembra che sia meglio assimilata dall'intestino se assunta assieme a grassi quali i trigliceridi a media catena. Per questa ragione è importante che eventuali integratori di quercetina contengano sostanze lipidiche e che vengano assunti a stomaco pieno. Altrettanto importante, oltre che ovvio, il consumo di verdura e frutta. Oltre che nei vegetali citati sopra ricordiamo infine che la quercetina è presente nel cacao, nel tè verde e negli agrumi.

La proprietà antivirale

E veniamo agli incoraggianti studi sul possibile utilizzo della quercetina come coadiuvante nella cura del Covid-19.

Nel settembre 2020, il CNR ha pubblicato un comunicato stampa per divulgare la scoperta di uno studio internazionale cui aveva partecipato L'Istituto di Nanotecnologia dell'ente di ricerca nazionale: “La quercetina, molecola di origine naturale, funge da inibitore specifico per il virus responsabile del Covid-19, mostrando un effetto destabilizzante sulla 3CLpro, una delle proteine fondamentali per la replicazione del virus...”.

Il risultato è l'esito del lavoro di ricerca condotto da Bruno Rizzuti dell'Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Nanotec) di Cosenza con un gruppo di ricercatori di Madrid e Saragozza ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista International Journal of Biological Macromolecules.

Spostiamoci in Spagna e ascoltiamo la dottoressa Olga Abian, dell'Università di Saragozza e prima autrice della pubblicazione: “In una prima fase di lavoro è stata studiata, con varie tecniche sperimentali, la sensibilità di questa proteina a varie condizioni di temperatura e pH: un risultato importante perchè molti gruppi stanno lavorando su 3CLpro come possibile bersaglio farmacologico, in virtù del fatto che è fortemente conservata in tutti i tipi di coronavirus".

Inoltre: “La parte più interessante di questo lavoro è lo screening sperimentale eseguito su 150 composti, grazie a cui la quercetina è stata individuata come molecola attiva su 3 Clpro”, ha concluso Adrian Velazquez-Campoy dell'Università di Saragozza, che ha diretto il gruppo di ricerca e ha già lavorato alla ricerca di farmaci inibitori della proteina per il virus SARS originario che causò l'epidemia del 2003, “La quercetina riduce l'attività enzimatica di 3 Clpro grazie al suo effetto destabilizzante sulla proteina...”.

La notizia fu ripresa da molti giornali tra cui l'agenzia stampa Adnkronos: “Covid, un composto naturale lo uccide: scoperta del CNR”.

Come si dice in questi casi “Se son rose, fioriranno”.

Dagonews il 21 ottobre 2022.

Nel dubbio meglio evitare i crudi a Gubbio. Le voci che non rimangono dentro confermano la storia della dissenteria collettiva nella città umbra dopo un pranzo al ristorante. Agli inizi di ottobre un gruppo di appassionati di pesca sportiva si è ritrovato in un locale nel centro cittadino. In tutto i commensali erano 101. La scarica dei 101, la battuta viene facile. 

Nel menù diverse specialità a base di pesce. Galeotto pare essere stato il crudo di tonno. Arrivati al primo, infatti, alcuni dei commensali hanno iniziato ad accusare malori, nausea e scariche di diarrea. La colpa era del tonno non abbattuto o di un virus, visto che alcuni soci avrebbero presentato disturbi anche prima del pranzo? Su questo regna ancora il mistero. Negli audio circolati sui social (non si sa quanto attendibili) si parlava, con enfasi, di “scene apocalittiche”. Le foto fake hanno contribuito a creare un alone di incertezza. Chi c'era assicura che il “cagotto” di gruppo c’è stato e ha coinvolto più di venti partecipanti al pranzo. 

Una signora pare essere svenuta. Le cronache raccontano di bagni occupati e di qualcuno che in preda a dolori lancinanti è tornato a casa, salvo poi scoprire di non avere le chiavi perché se le era dimenticate al ristorante. Risultato? Si sarebbe cacato addosso davanti all’uscio dell’appartamento (pensa che rosicata!). Al di là di queste amenità, più o meno fantasiose, c'è da registrare come la direzione del ristorante su Facebook abbia spiegato che il giorno del pranzo sono intervenuti medici del 118 per problemi di salute che hanno afflitto due partecipanti al convivio. 

Arrivano conferme anche dalla Asl Umbria 1: sono stati registrati tre accessi al pronto soccorso di persone che erano presenti al pranzo: due commensali hanno accusato un abbassamento di pressione che ha richiesto l’intervento del 118. Una terza ha riportato una ferita dopo un incidente stradale che viene citato anche negli audio con dovizia di particolari.

Va, altresì, ricordato che “nessun caso di intossicazione alimentare è stata segnalata al servizio di igiene e sanità pubblica” della stessa Asl o agli uffici comunali…

Da tgcom24.mediaset.it il 21 ottobre 2022.

A Gubbio una cena a base di pesce finisce male per una comitiva di circa 40 persone che sono rimaste intossicate. La storia è diventata virale con il classico passaparola via social e WhatsApp. "Scene apocalittiche" si sente in alcuni audio che circolano. I poveri malcapitati si sono infatti ritrovati ad affrontare scariche di diarrea e vomito improvvisi. Alcuni di loro hanno dovuto ricorrere alle cure mediche. Questo è quello che gira ma è una storia che fa acqua da tutte le parti con la parola fine messa dal ristoratore chiamato ingiustamente in causa dal solito tam tam social.

E' quindi tutta una fake news? Partiamo da quello che sappiamo: stando ad alcuni giornali locali domenica 2 ottobre (ma anche qui le date che girano sono diverse), i membri di una società di pesca sportiva di Gubbio (Umbria) si sono riuniti per una battuta di pesca al tonno per poi recarsi tutti insieme in un ristorante e consumare quanto pescato. Ma qualcosa è andato storto. 

Pare che diversi commensali abbiano imprudentemente deciso di consumare alcuni pesci crudi e siano stati colti da scariche di diarrea incontrollabili. Addirittura, si sente in alcuni audio, di quelli "inoltrati molte volte" che girano su WhatsApp, qualcuno si è lasciato "andare" negli angoli dei ristoranti. Fino ad arrivare a chi ha preso l'auto cercando di raggiungere casa salvo poi finire in un fossato distruggendo anche altre vettura. Ovviamente con maleodoranti produzioni all'interno del veicolo.

La classica storia verosimile la quale, dato che non ci sono state vittime gravi, alla fine strappa un sorriso. Ma allora perché si pensa ad una fake news? Andiamo con ordine. 

Se da un lato la pesca al tonno con lenza si può fare in autunno, è anche vero che da Gubbio bisogna raggiungere il mare. I luoghi migliori per farla sono quelli sul litorale toscano e laziale. Da qui bisogna prendere una barca e poi andare al largo. Insomma, non una battuta di pesca da fare in giornata. Eppure tutti i giornali che riportano la notizia parlano di una battuta di pesca seguita dalla mangiata al ristorante. 

Veniamo quindi a Gubbio e il ristorante di pesce. I pescatori della comitiva avrebbero quindi portato i frutti della loro uscita in un ristorante a Gubbio e qui si sarebbero fatti servire il pesce crudo. Un fatto da denuncia, visto che i ristoranti devono aver tracciato tutto il cibo che portano a tavola e quindi nessuno, in regola, accetterebbe mai di servire pietanze i cui ingredienti sono portati da casa.

E poi, le cruditè. Per servire il pesce crudo, serve che l'alimento venga prima abbattuto, cioè portato a una temperatura di -20° centigradi per almeno 24 ore. In alternativa si potrebbe tenere il pesce in un comune freezer per almeno 96 ore. Insomma, nessuno ristoratore, accetterebbe di rischiare attentare alla vita dei propri clienti con una simile sciocchezza. E nessun pescatore che si definisca tale mangerebbe crudo il proprio pescato (non siamo Tom Hanks in Cast Away). 

Certo sentire i coloriti (e blasfemi) audio che sono girati sui telefonini che raccontavano di questa "apocalittica" scena può aver attirato l'attenzione. Ma la sequenza di eventi: 40 persone intossicate, gente con diarrea incontrollabile, ambulanze per i casi più gravi, incidenti d'auto con persone alle prese con scariche di dissenteria e infine le foto (la cui fonte resta però impossibile da trovare). 

Troppe notizie per non avere una versione ufficiale da parte di forze dell'ordine o sanitari del 118. Nessuno ha riportato la notizia, che invece è basata solo sulla viralità. Possiamo dunque dire che siamo probabilmente di fronte, visto che il protagonista della vicenda è un tonnetto, a un pesce d'aprile un po' in ritardo. 

A mettere infine un suggello alla vicenda è il post facebook del ristoratore chiamato in causa in questa vicenda che non citeremo, per tutelarlo, dalla grande campagna diffamatoria che lo sta investendo. Scrive il titolare del ristorante su Facebook: "Dopo aver constatato che a distanza di giorni tali supposizioni (perché di questo si tratta, solo di “chiacchiere”) vengono ancora alimentate da mere voci di popolo mi trovo costretto a replicare.

Corrisponde a verità che il giorno del pranzo sia intervenuto, presso il ristorante, personale medico del 118, tuttavia, tale intervento si è reso necessario per problemi personali di salute che hanno afflitto due avventori, ma che nulla hanno a che vedere, in alcun modo, con la qualità e/o tipologia del cibo somministrato presso il ristorante". 

Intervistato da Il Giornale il ristoratore aggiunge: "Avevamo permesso ai componenti della società di pesca di pranzare nel nostro ristorante. Il pesce crudo lo hanno portato loro da fuori e, da quanto ne so, lo hanno fatto sfilettare in un altro locale. Quindi noi abbiamo solo ospitato le oltre cento persone. 

Potrebbe bastare questo per giustificarmi, ma vorrei smentire ciò che sta circolando sui social. Si tratta di chiacchiere che vengono alimentate da voci di popolo". "Si è voluto creare un caso che non esiste pubblicando perfino immagini scabrose false, poiché le persone immortalate non sono nel mio locale", ha poi concluso. 

“LA SCARICA DEI 101” – SUI SOCIAL SI SCATENA IL “CINEMERDA” SUI FATTI DI GUBBIO. LA DAGO-SELEZIONE il 21 ottobre 2022.

- La scarica dei 101

- Non ci resta che stringere

- Attrazione fecale

- Bianco, rosso e merdone

- Un giorno di ordinaria dissenteria

- Qualcuno cacò sul nido dal suo culo

- Smerdo quando voglio

- Caca-land 

- Cagocalisse now

- Cag-otto sotto un tetto

- Le feci ignoranti

- Mangia, prega, caca

- Maledetto il giorno che ti ho pescato

- Il mio grasso, grasso pandemonio dietro

- Cacca a ottobre rosso 

- Cago dalle nubi

- Quattro cacatoni e un orinale

- Io speriamo che la trattengo

- Indovina chi caga a cena?

- Il signore dei Tarz-anelli

GUBBIO MEME

- Tonno scatenato

- Scene da un matr-IModium

- Intestini nella tormenta

- Quo caghis?

Valerio Salviani leggo.it il 21 ottobre 2022.

Vanno a pesca di tonni e si riuniscono per mangiarli, ma il pranzo a Gubbio finisce nel peggiore dei modi. I membri di una società di pesca sportiva, sono rimasti vittime di un attacco di dissenteria acuta. In molti, dopo aver consumato il pesce auto-pescato, probabilmente crudo, hanno dovuto fare i conti con dissenteria e vomito e hanno avuto bisogno dei soccorsi. La vicenda è poi diventata un caso social, con audio e foto che hanno cominciato a circolare su Facebook e su WhatsApp. 

Il pranzo incriminato risalirebbe a domenica scorsa. Alcuni audio, diventati virali sui social, descrivono l'accaduto. «Scene apocalittiche», si sente nella registrazione. Una società di pesca sportiva si sarebbe riunita in un ristorante del centro a Gubbio per mangiare i tonni pescati, ma qualcosa è andato storto.

Quando il pranzo stava per concludersi, molti membri del gruppo, formato da circa 40 persone, hanno accusato nausea e forte mal di stomaco, che poi è sfociato in un attacco di diarrea acuta. Qualcuno è uscito fuori per vomitare, qualcun altro è scappato in bagno. Panico tra i presenti, che hanno chiamato i soccorsi. Sono intervenute due ambulanze e alcuni dei membri del gruppo sono stati ricoverati in ospedale con codice verde.

Dagonews il 25 ottobre 2022.

Il dubbio, anzi il Gubbio, è sorto a molti. Ma l’episodio di dissenteria che “ha fatto perdere la merda come le oche”, tra gli altri anche al signor Biscotto, al secolo Claudio Casagrande, è una fake news montata ad arte o veramente in un ristorante del centro di Gubbio in molti non sono riusciti a tenersela nelle mutande? 

È lui in persona, "Biscotto", a chiarire i fatti a "La Zanzara" : “Era un pranzo di pesce con ricciola e tonno. Io sono scappato subito dopo l’antipasto perché lo stomaco brontolava. Per fortuna abito vicino al ristorante” – dice Biscotto – che conferma “7-8” casi di dissenteria legati al pranzo. Ma lui si è veramente “cagato sotto come le oche?” “È stata un’ombrellonata” (insomma, una cagata a spruzzo). Quindi qualcosa c'è stato. 

L’associazione di pescatori aveva scritto in un comunicato che al pranzo: “non sono state riportate intossicazioni alimentari di nessuna forma" e che  "nessuna delle persone partecipanti al pranzo si è recata presso autorità sanitarie ed ha avuto necessità di alcun intervento sanitario". A sentire la testimonianza del commensale non è andata proprio così. 

L’associazione, prima che arrivasse la testimonianza diretta di Biscotto, si era comunque smentita da sola due righe sotto: “Le due ambulanze accorse sul luogo hanno trasportato per accertamenti due pazienti dimessi nel tardo pomeriggio”. Delle due l’una, o nessuno ha avuto bisogno di cure mediche o qualcuno all’ospedale ci è andato.

La testimonianza a “La Zanzara” conferma anche l’incidente stradale che si è verificato il giorno del pranzo. Il motivo dello schianto? Rimarrà il dubbio. Che sia stata la fretta di tornare a casa per liberarsi? Tutti smentiscono, sarà stata una coincidenza. 

Quello che è certo è che il ristorante coinvolto nella vicenda il prossimo 28 ottobre organizzerà dalle ore 20:15 una cena solidarietà al costo di 25 euro a persona. Quale sarà il menù? Evitiamo il pesce. Forse una tagliata ben cotta è più prudente.

Il servizio de " Le Iene" il 26 ottobre 2022. 

Vomito, diarrea e "scene apocalittiche" dopo un pranzo di pesce a Gubbio: ne abbiamo parlato un po' tutti in questi giorni. Tutto è partito con un tam tam di vocali su WhatsApp. Fake news? Noi con Michele Cordaro siamo andati a indagare sul disastro intestinale di Gubbio! 

Da tgcom24.mediaset.it il 26 ottobre 2022.

La verità è che alcune persone (circa 20/30 commensali) hanno avvertito un malore durante il pranzo dopo aver consumato del pesce crudo, ciò che non sarebbe assolutamente vero sono le "scene apocalittiche" descritte nei messaggi audio di Whatsapp diventati in breve tempo virali.

"Le Iene" provano a fare chiarezza sulla vicenda del ristorante di Gubbio dove un pranzo a base di pesce avrebbe intossicato una comitiva di persone che si sarebbe trovata ad affrontare scariche di diarrea e vomito improvvisi. Ma il ristoratore smentisce alcuni particolari circolati in rete e dichiara: "A infangare il locale non sono state le persone con la dissenteria, ma coloro che hanno diffuso i messaggi fake su WhatsApp".

Il proprietario del ristorante spiega di aver ceduto il locale all'associazione di pescatori, ma di aver cucinato per loro solo alcune pietanze presenti nel menù. "L'inghippo è stato che alcuni cibi sono stati portati da fuori, su 100 persone 20/30 hanno avuto problemi di dissenteria", racconta il ristoratore che smentisce categoricamente le scene descritte negli audio, particolarmente colorite, dove si raccontava di persone in stato critico con diarrea incontrollabile, ma non solo anche di incidenti d'auto e di ambulanze per i casi più gravi. 

Insieme agli audio sono state inoltrare anche diverse foto a sostegno di quando descritto, ma anche quelle sarebbero false. Ad assicurarlo è proprio uno dei protagonisti della vicenda: un uomo chiamato "Biscotto". 

"Ho avuto dei piccolissimi disturbi durante il pranzo, ma nulla di quanto descritto negli audio", spiega l'uomo che racconta di essere tornato a casa durante il pranzo, ma di aver raggiunto nuovamente il ristorante dopo una mezz'ora perchè si sentiva meglio. "Nessuna scena apocalittica, quello che ha mandato l'audio ha ingigantito per risultare più simpatico", rivela l'uomo.

"Biscotto indossava i pantaloni bianchi - spiega un testimone - ma quelli inviati sulla chat non erano i suoi: si trattava di una foto fasulla, foto che tra l'altro girava sul web da anni". 

Infine, però, anche il sindaco di Gubbio intervistato da "Le Iene" ci tiene a fare chiarezza sulla vicenda e riferisce: "Stiamo denunciando tutti, la goliardia ha un limite e faremo tutto il necessario per tutelare l'immagine della città".

La vera storia dell’intossicazione a Gubbio, spiegata dal titolare del ristorante. Enrico Galletti su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

Massimiliano Casoli è il titolare del ristorante «Federico da Montefeltro» di Gubbio protagonista della notizia che ha fatto il giro del web nelle ultime ore. È l’ora di cena, ci risponde al telefono mentre sta scrivendo una comanda. «Le notizie sull’intossicazione? False, tutte false. Nessuna intossicazione, stiamo scherzando?». Squilla il telefono, quello fisso. Trenta secondi di chiamata: «Ennesima telefonata goliardica, da stamattina prenotano e disdicono. Vogliono sapere se serviamo pesce crudo…». Conviene fare un passo indietro e riavvolgere il nastro, partendo dalla «notizia» — che notizia non era — che si è diffusa nelle scorse ore. Secondo questa «non notizia», diversi clienti avrebbero avuto un’intossicazione alimentare da pesce crudo, che avrebbe causato dissenteria acuta. Tutto è nato da alcuni audio WhatsApp, che però sembrerebbero essere falsi. Secondo le testimonianze dei vocali, un gruppo di pesca sportiva si sarebbe recato nel locale con del tonno pescato in giornata, chiedendo di servirlo ai tavoli. Sempre stando alla versione dei messaggi – che però potrebbero essere stati creati ad arte – almeno quaranta persone avrebbero poi accusato una grave intossicazione alimentare. Alcuni sarebbero stati costretti a «defecare nei corridoi e negli angoli del ristorante, altri per strada». Altri ancora, in stato di ebbrezza, avrebbero «causato incidenti» in quei momenti concitati. «Hai visto che c’è l’associazione di Gubbio, quella che va a pesca di tonno? Hanno fatto il pranzo e hanno avuto la dissenteria – recita la voce in un audio -. Poi uno ubriaco ha rovinato tre macchine, i carabinieri sono arrivati e aveva tutte le feci sul sedile. Hanno bevuto ogni cosa, erano tutti ubriachi. Poi hanno chiamato due ambulanze, una donna l’hanno portata via perché le ha fatto male il pesce». E il racconto continua: «Per poter andare in bagno, hanno iniziato a girare tutti i bar e i ristoranti del centro di Gubbio. Non riuscendo a trovare un bagno, uno abitando lì vicino ha detto: “Prendo la macchina e vado a casa”. Solo che era ubriaco e si è ribaltato con l’auto». A margine degli audio anche alcune foto, scatti che non contengono però alcun riferimento al ristorante. A far sorgere il dubbio che si trattasse però di una notizia del tutto infondata è stato il fatto che la stessa non trovasse conferma in nessuna fonte ufficiale. A cominciare dall’azienda sanitaria locale Umbria 1, che dice di non aver ricevuto segnalazioni di gravi intossicazioni alimentari, né di aver ordinato ispezioni nel ristorante. A fare chiarezza, al telefono con il Corriere della Sera, è il titolare del locale, Massimiliano Casoli: «L’episodio risale al 2 ottobre, il fatto che questo caso sia scoppiato dopo venti giorni dovrebbe essere già indicativo del fatto che si tratti di una fake news». Quindi, quella sera, nessuna ambulanza? «No, il 118 purtroppo è intervenuto, ma non per un’intossicazione. Abbiamo chiamato l’ambulanza perché due persone, fratello e sorella, hanno avuto un abbassamento di pressione. A bordo della seconda ambulanza infatti c’era un cardiologo. Insomma, sono stati interventi che nulla hanno a che vedere con la qualità o la tipologia del cibo somministrato nel mio ristorante, con la preparazione dello stesso o con i metodi di cottura utilizzati, come a qualcuno piacerebbe far credere». Casoli è già al lavoro per lasciarsi tutto questo caos alle spalle. «Ci siamo mossi legalmente, ma chi doveva capire la nostra buona fede ha capito».

La storia degli attacchi di dissenteria a Gubbio puzzava fin dall’inizio. Il Domani il 21 ottobre 2022

Sui social si è diffusa la storia di multipli attacchi di dissenteria che avrebbero colpito decine di commensali in un ristorante. Ma quanto viene raccontato nei meme sembra molto diverso dalla realtà

Se è vero che è un peccato rovinare una bella storia con la verità è bene, però, che la verità intervenga quando la storia – bella o meno che sia – finisce per danneggiare qualcuno. È il caso dei presunti attacchi di dissenteria che avrebbero colpito decine di commensali in un locale di Gubbio, in provincia di Perugia. Lo stesso ristoratore, che sta cercando in tutti i modi di mantenere l’anonimato e viva la sua reputazione, ora dice di essere pronto a denunciare.

LA STORIA 

Da giorni rimpalla sui social e sulle chat di whatsApp una storia, o meglio diverse storie, di un’intossicazione alimentare e delle sue nefaste conseguenze. Immagini, meme e messaggi vocali inoltrati migliaia di volte ricostruiscono la disavventura di una trentina di persone che, riunite in un noto ristorante di Gubbio, avrebbero iniziato via via a sentirsi male durante il pranzo.

I malcapitati si sarebbero messi in fila per il gabinetto. Ma qualcuno di loro non avrebbe fatto in tempo ad arrivarci, qualcun altro sarebbe addirittura svenuto. C’è anche chi, in preda a dolori lancinanti, si sarebbe messo alla guida per tornare a casa ma, ubriaco, si sarebbe schiantato contro altre auto parcheggiate. 

Dall’Umbria la notizia si è diffusa anche a centinaia di chilometri di distanza. Le immagini crude e le testimonianze di chi giura di aver assistito a un’apocalisse sono troppo incredibili per non essere condivise con amici e conoscenti. Così incredibili, si è scoperto, da essere state inventate o almeno abbondantemente drammatizzate. «Sono solo voci di popolo», ha detto il proprietario del vero ristorante in cui si ambienta la falsa vicenda.

LA VERSIONE DEL RISTORATORE

Il ristoratore, intervistato dal Giornale, minaccia denunce per diffamazione per chi ha finito per danneggiare l’immagine di un locale che, anche se mai nominato, a Gubbio è conosciuto e riconoscibile. Il locale ha effettivamente ospitato un pranzo a base di pesce il 2 ottobre scorso. Era un evento di tesseramento di una società di pesca sportiva, con quasi un centinaio di persone: in tavola tonno appena pescato per l’occasione. Del pesce crudo è stato servito – secondo la versione del locale – ma a prepararlo e “sfilettarlo” sarebbe stato un altro ristorante, su richiesta dei membri dell’associazione. 

Secondo quanto riferito a Fanpage, quel giorno soltanto due persone si sarebbero sentite male, richiedendo l’intervento del 118. 

«I malori nulla hanno a che vedere, in alcun modo, con la qualità e/o tipologia del cibo somministrato presso il ristorante, con la preparazione dello stesso o con i metodi di cottura utilizzati», sostengono dal locale. 

Un minimo appiglio alla realtà è stato dunque uno spunto sufficiente per la fervida immaginazione di chi, per gioco o per malizia, ha convinto il pubblico della rete di fatti mai accaduti, confondendo meme e realtà.

I 15 alimenti che non fanno bene ai diabetici (e le giuste alternative appetitose e salutari). Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. La proponiamo online — senza firma a causa di una agitazione dei giornalisti del Corriere della Sera

Per chi soffre di diabete una dieta salutare che eviti i pericolosi picchi di zucchero nel sangue è possibile, senza neppure troppe rinunce. Gli alimenti tabù sono davvero pochi e tutti sostituibili. «Non è corretto porre divieti - chiarisce il professor Gabriele Riccardi, professore di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Ateneo Federico II di Napoli - ma certi alimenti vanno certamente limitati. Per tutto esiste una valida alternativa»

La scelta degli alimenti

Diete troppo restrittive rischiano di essere abbandonate dopo pochi giorni di estrema frustrazione. Eppure chi ha il diabete deve stare molto attento a quello che mangia per mantenersi in salute. Bevande zuccherate, caramelle o dolci troppo zuccherini sono molto pericolosi perché l’organismo assorbe questi zuccheri semplici in modo quasi istantaneo. Va posta molta attenzione anche a tutti i tipi di carboidrati e agli alimenti con alti contenuti di grassi cattivi perché le persone diabetiche sono ad altissimo rischio di sviluppare malattie cardiache. «Non ci sono divieti - chiarisce il professor Gabriele Riccardi, professore di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Ateneo Federico II di Napoli- e una fetta di torta una volta alla settimana anche un diabetico se la può permettere . È molto importante però evitare picchi di zucchero nel sangue e i nostri suggerimenti offrono una alternativa salutare a cibi che farebbero male, con l’obiettivo di spingere chi soffre di diabete a seguire una dieta corretta senza troppe privazioni».

Riso bianco

Il riso bianco rilascia una grande quantità di amido durante la cottura per questo è un alimento poco adatto ai diabetici. Secondo una revisione di studi che ha coinvolto oltre 350 mila persone più riso bianco si mangia, maggiore è il rischio di sviluppare il diabete e il rischio aumentava dell’11% per ogni porzione di riso in più al giorno. Il riso bianco e la pasta possono causare picchi glicemici simili a quelli dello zucchero. Andrebbero limitati il più possibile alimenti processati fatti con farina bianca.

L’alternativa: riso integrale e paraboiled

«I cereali integrali non provocano gli stessi picchi di zucchero nel sangue grazie alla fibra, che aiuta a rallentare la corsa del glucosio nel sangue» spiega il professor Riccardi. Inoltre uno studio della Harvard School of Public Health ha rilevato che il consumo di due o più porzioni di riso integrale a settimana è associato a un rischio di diabete inferiore. «Un’alternativa valida è il riso paraboiled, quello che non scuoce - suggerisce il diabetologo - perché il rilascio dell’amido è più lento come per il riso integrale e non fa salire così velocemente la glicemia». Anche il riso basmati è caratterizzato da un minor indice glicemico rispetto alle altre qualità ed quindi è più adatto per i diabetici.

Aspartame o saccarina, stimola la preferenza per il gusto dolce a cui ci si abitua e di conseguenza si ricorrerà ad altri alimenti dolci, perché è quello il gusto a cui ci si è abituati»

L’alternativa: acqua, té o caffé

«L’acqua, anche gasata, è la bevanda più salutare in assoluto. Non sono la stessa cosa, ma in alternativa si possono scegliere tè e caffè perché sono bevande che si possono assumere anche amare ed essendo ricche di ponifenoli hanno un effetto benefico sulla glicemia». Un nuovo studio presentato al congresso della The European Association for the Study of Diabetes ha concluso che bere 4 tazze di tè verde al giorno può abbattere il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.

Sushi

Andare al ristorante giapponese non è una scelta particolarmente dietetica e non fa molto bene a chi ha il diabete. Il chiraschi (la ciotola con abbondante riso accompagnata da pesce crudo) è da evitare perché il riso giapponese è addizionato di zuccheri e addensanti, con un indice glicemico molto alto. Anche i nigiri, gli uramaki, gli hosomaki sono sconsigliati: sembrano bocconcini ma contengono molto riso (e dunque amido)

L’alternativa: sashimi e verdure

Meglio optare per il sashimi, le fettine di pesce crudo possibilmente di alta qualità: contiene molte proteine e ha pochi carboidrati. Va scelta una soia a basso contenuto di sodio. Bene anche alimenti a base di alghe marine (wakame, nori) e edadame.

Pizza

La pizza è un piatto ricco di carboidrati e non è certo un alimento da mangiare tutti i giorni. Fa parte della tradizione culinaria italiana e anche i diabetici possono mangiarla, basta non esagerare

L’alternativa: pizza mignon alle verdure

«Chi soffre di diabete può mangiare la pizza una volta alla settimana con un piccolo accorgimento: va scelta la porzione mignon ( o mezza pizza) possibilmente con le verdure o i funghi. Da evitare condimenti come salsiccia, wustel, patatine e salame piccante. Ottimo l’impasto integrale»

Banane mature, uva, fichi

Tutta la frutta fresca contiene fibre e vitamine, caratteristica che la rende salutare per tutti i tipi di dieta. Ad ogni modo ci sono frutti che contengono più zucchero come banane mature, l’uva, i cachi, i fichi e i mandarini che potrebbero causare picchi di glucosio nel sangue. Naturalmente tutto dipende sempre dalle dosi.

L’alternativa: frutti meno zuccherini

La scelta migliore per chi è diabetico sono mele Granny smith, pere, arance, fragole, anguria, mirtilli e frutti di bosco

Fast food

I fast food sono luoghi poco salutari per tutti e per i diabetici ancora di più. Ma ogni tanto, in compagnia di amici, anche chi soffre di diabete può farsi la concessione, anche in questo caso, come per la pizza, piccoli accorgimenti rendono tutto più salutare.

Cornetto a colazione

Per mantenere la glicemia sotto controllo sono da evitare il classico cornetto, le paste dolci, e i toast con abbondante marmellata perché contengono farina bianca trasformata e sono ricchi di grassi, carboidrati e sodio. 

L’alternativa: hamburger semplice

Il professor Riccardi propone hamburger semplici senza formaggio accompagnati da un’abbondante insalata verde o mista

Cornetto a colazione

Per mantenere la glicemia sotto controllo sono da evitare il classico cornetto, le paste dolci, e i toast con abbondante marmellata perché contengono farina bianca trasformata e sono ricchi di grassi, carboidrati e sodio. 

L’alternativa: torte di riso integrali o yogurt senza zucchero.

«Il toast con la marmellata non è un tabù, basta spalmarne un velo con una percentuale del 60% di frutta»

Polenta e pane bianco

Polenta e pane bianco non sono alimenti adatti a chi soffre di diabete perché sono raffinati e ricchi di amido, quindi fanno aumentare la glicemia, proprio come il riso bianco.

L’alternativa: pasta e pane integrale

«La polenta si possiamo sostituirla con la pasta integrale e il pane bianco con quello integrale. Sul mercato ci sono molte qualità molto gustose con una vasta scelta»

Frullati e succhi di frutta

I frullati di frutta sembrano salutari, ma per un diabetico possono trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso perché sono pieni di zucchero e possono essere dannosi quanto le lattine di bevande zuccherate. Anche i succhi di frutta sono pieni di calorie e ricchi di zuccheri e andrebbero davvero evitati, compresi la spremuta d’arancia etichettata senza zuccheri aggiunti e la spremuta casalinga.

L’alternativa: il frutto intero

Nel frutto intero lo zucchero è molto meno concentrato rispetto al succo. Il frullato si può bere, ma se composto con frutta a basso contenuto di zuccheri e verdure, come cavoli e spinaci e senza l’aggiunta di zuccheri.

Miscele di frutta secca disidratata

Nei supermercati sono in vendita miscele di frutta secca, con guscio e disidratata: un mix di noci, mandorle, nocciole, ma anche frutta disidratata come albicocca o uva passa. Il problema è che il processo di disidratazione fa diventare molto concentrati anche gli zuccheri ed è facile esagerare con le dosi dal momento che un’albicocca secca, a livello di zuccheri, è come un’albicocca fresca, solo molto più piccola e la stessa cosa con l’uva passa: abusarne è un attimo.

L’alternativa: solo frutta secca

Ci si può creare il proprio mix di semi di girasole, noci, mandorle, piccole quantità di cocco non zuccherato. Per chi ha il diabete una manciata di frutta secca con guscio è salutare. No invece a quella disidratata

Cereali raffinati

Cereali raffinati per colazione possono causare picchi di zucchero nel sangue, anche se le reazioni variano da persona a persona.

L’alternativa: cereali integrali o fiocchi d’avena

Per colazione si possono scegliere fiocchi d’avena senza zucchero o cereali integrali (attenzione che non ci sia aggiunta di zuccheri). Ottimi anche pane e grissini integrali

Formaggi

I formaggi fanno parte della tradizione culinaria italiana, sono ricchi di grassi saturi e non vanno consumati in grandi quantità: non più di due/tre volte alla settimana, ma questa è una regola generale che vale per tutti. Per i diabetici sono da evitare i formaggi più ricchi di grassi che sono mascarpone, gorgonzola, caciotta, formaggi stagionati.

L’alternativa: formaggi freschi

Per chi soffre di diabete sono da preferire la ricotta di vacca, il fioridilatte, primosale, i formaggi freschi un paio di volte alla settimana

Barrette energetiche e sport drink

A prima vista le barrette energetiche possono sembrare una scelta salutare come snack, ma la maggior parte contengono alti livelli di zuccheri e carboidrati. Stessa cosa per gli sport drink, che sono eccessivamente ricchi di zuccheri.

L’alternativa: cioccolato, mandorle, ghiaccioli

Per merenda meglio qualche mandorla, un ghiacciolo (ci sono solo 10 grammi di zucchero), un frutto, uno yogurt o un pacchetto di cracker integrali. «Va bene anche il cioccolato con poco zucchero, 10 grammi al giorno che equivale più o meno a un quadratino»

Patate fritte

Le patatine fritte non sono salutari per nessuno perché sono piene di carboidrati e grassi e una porzione può davvero risultare devastante per un diabetico perché sono ricche di amido.

L’alternativa: verdura fritta (una volta alla settimana)

«Le patatine fritte sono un problema per i diabetici perché contengono molto amido e la frittura non è certo salutare, anche se il metodo di cottura in questo caso è un problema secondario. Sono proprio le patate, pure quelle bollite, che dovrebbero uscire dalla dieta di un diabetico perché l’assunzione provoca un picco di glicemia importante. In alternativa vano benissimo la verdura cotta , magari con aggiunta di qualche spezia per renderla più saporita o legumi Una volta alla settimana va bene anche il carciofo, la zucchina o la melanzana fritta, facendo attenzione ad asciugare l’olio della frittura»

Carni grasse

I diabetici sono ad alto rischio di malattie cardiache. Anche se la carne è ricca di proteine e non contiene carboidrati (che aumentano lo zucchero nel sangue), alcune fonti di proteine sono migliori di altre. Va evitata la carne particolarmente ricca di grassi saturi (come la carne rossa), e la carne impanata.

L’alternativa: carne bianca, pesce e legumi

L’obiettivo è assumere il più possibile proteine di origine vegetale come fagioli, piselli, lenticchie. Meglio pesce, frutti di mare e carne bianca come pollo o tacchino che tendono a contenere meno grassi saturi.

Secondo Natura. Resveratrolo, l'antiossidante che è anche un antivirale. Sempre più studi mostrano che uno dei più potenti antiossidanti conosciuti ha anche proprietà antibatteriche, antivirali e cardio-protettive. Guido De Duccis il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Lo sappiamo da tempo, il resveratrolo è uno dei più potenti antiossidanti conosciuti. È anche uno dei più simpatici perchè ci consente di gustare, senza troppi sensi di colpa, un bel calice di vino rosso.

Che cos'è

È una sostanza di origine vegetale appartenente alla famiglia dei polifenoli. Si trova nell'uva rossa, nei mirtilli e, in generale, nei frutti di bosco. Non tutti però sanno che una pianta erbacea nota come caprifoglio giapponese ne è altrettanto ricca.

Le proprietà

Il resveratrolo, come già accennato, ha un'azione antinfiammatoria, antiossidante, neuro e cardio protettiva. Ma possiede anche specifiche proprietà antibatteriche e antivirali. Proprio su queste ultime vogliamo soffermarci. Studi recenti ne hanno dimostrato l'utilità nei confronti di quasi tutti i virus respiratori, sia a DNA che a RNA, tra cui l'influenza, i rhinovirus, il MERS-CoV e il SARS-CoV-2.

Proprio con riferimento al virus MERS-CoV (“cugino” del SARS-CoV-2), l'assunzione di resveratrolo ha ridotto l'espressione dell'RNA virale e la quantità di virus prodotto dalle cellule infette (ma, si badi, senza determinare l'inattivazione delle particelle virali).

Più in dettaglio si è scoperto che l'effetto antivirale in questo tipo di virus si esercita sull'espressione dei geni virali e sulla fase di maturazione del virus stesso. In particolare, nei casi di gravi infezioni, il trattamento con resveratrolo sembrerebbe produrre anche una riduzione delle specie reattive dell'ossigeno (ROS) prodotte dalle cellule infiammatorie (come i neutrofili) reclutati nel sito dell'infiammazione e che portano ai fin troppo noti danni polmonari.

Ascoltiamo la dottoressa Paola Mastromarino, microbiologa e virologa del Dipartimento sanità pubblica e Malattie infettive dell'Università La Sapienza di Roma: “Il resveratrolo inibisce la replicazione dei rhinovirus, del virus dell'influenza e del virus respiratorio sinciziale (Vrs). Inoltre, riduce drasticamente la sintesi delle molecole proinfiammatorie indotte dall'infezione (interleuchina-6 e 8) che sono le principali responsabili dei sintomi associati alle infezioni virali delle alte vie respiratorie. Il dato è rilevante, dato che un bambino su tre è affetto da malattie respiratorie, e che otto volte su dieci la causa è virale e gli antibiotici sono inefficaci”. Aggiunge, inoltre, che poiché “...il resveratrolo non colpisce il virus ma inibisce le vie cellulari utili al virus, la possibilità che si creino ceppi resistenti è improbabile”.

“Le infezioni respiratorie” ammonisce al riguardo Michele Miraglia Del Giudice, pediatra e allergologo presso la seconda Università di Napoli, “rappresentano in Italia circa l'80% delle visite pediatriche: il 25% dei bambini entro il primo anno di vita e il 18% di quelli in età compresa fra uno e quattro anni sono affetti da infezioni respiratorie ricorrenti”.

Ce ne è abbastanza per sperare che gli studi sul resveratrolo non si fermino qui. Nel frattempo via libera a uva rossa e mirtilli sulle nostre tavole.

Estratto dell'articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 7 ottobre 2022.

Ieri sera i sindaci di Napoli e di Pozzuoli hanno lanciato un appello: non mangiate spinaci sfusi, c'è il rischio che si tratti di mandragora. L'allarme è stato lanciato dopo che dieci persone sono state ricoverate nell'ospedale di Pozzuoli. Un uomo di 44 anni è molto grave, è in fin di vita, è stato intubato. 

Fanno parte di tre nuclei familiari diversi e dopo una rapida indagine è stato compreso che avevano mangiato delle foglie di mandragora che alcuni rivenditori di frutta e verdura avevano commercializzato per errore, proprio perché erano state scambiate per spinaci.

[…] Dopo le prime verifiche, è stato accertato che i fasci di mandragora sono stati distribuiti nei rivenditori di verdure al dettaglio in quattro province: oltre a Napoli, sono probabilmente arrivati a Caserta, Salerno e L'Aquila. Gran parte di questa verdura velenosa, scambiata per spinaci o comunque finita in mezzo agli spinaci, è stata ritirata dal mercato, sequestrata e sottoposta ad analisi. In particolare, nel mercato di Pozzuoli è stato portato via un quintale di spinaci. 

Ma c'è il timore che non tutta la mandragora sia stata recuperata e che qualcuno, inconsapevolmente, possa mangiarla. Per questo le autorità campane hanno lanciato l'appello sintetizzato dal sindaco di Pozzuoli, Gigi Manzoni: «In attesa di chiarimenti si raccomanda di evitare di acquistare verdure sfuse come spinaci e biete». 

Il Comune di Napoli consiglia, in nome della prudenza, di mangiare solo spinaci congelati. [...] Secondo le prime indagini, la mandragora è stata venduta da società di Forio d'Ischia, Aversa, Volla, San Valentino Toria e Avezzano.

Ma come è possibile scambiare per spinaci questa verdura, […] Marcello Ferruzzi, tossicologo del Centro antiveleni dell'ospedale Niguarda di Milano, spiega: «È diffusa soprattutto nel Sud Italia e con relativa frequenza veniamo consultati per casi di intossicazione, soprattutto in primavera, ma non è l'unica erba spontanea da temere».

Viene confusa con spinaci, biete, insalata o borragine «a causa di errori durante la raccolta da parte di persone non molte esperte. La sintomatologia è abbastanza tipica: dalla visione offuscata all'allargamento delle pupille. Può provocare anche bocca secca, costipazione, arrossamento della cute, febbre, sonnolenza, ma anche vertigini, confusione, convulsioni, costipazione, tachicardia, fino alle allucinazioni». […]

L’allarme per il batterio che contamina alcuni alimenti. Cos’è la listeria, i sintomi e la cura: il caso delle 3 morti sospette e il ritiro dei wrustel contaminati dai supermercati. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Settembre 2022. 

Nelle ultime settimane sta destando preoccupazione in Italia l’aumento dei casi di listeriosi alimentare. Si tratta di un batterio che colpisce chi mangia alimenti contaminati dal batterio Listeria monocytogenes. Il focolaio sarebbe partito da un’ azienda che produce wurstel di carne avicola commercializzata con differenti marchi. L’attenzione era alta già dal 2020 e il Ministero ha subito posto disposto l’individuazione e il ritiro dal mercato di tette le confezioni contaminate.

Secondo quanto riportato da Repubblica che cita dati del Ministero, negli ultimi mesi ci sarebbero stati “tre decessi di persone in condizioni di fragilità per età e patologie concomitanti”. Due di questi erano già noti all’inizio di luglio e sono avvenuti tra Lombardia ed Emilia-Romagna. I casi invece, in base agli approfondimenti di un gruppo di lavoro creato per fronteggiare l’emergenza, sarebbero stati 66, una parte dei quali sono finiti in ospedale.

Il Ministero della Salute sottolinea che “l’azienda ha avviato tutte le misure a tutela del consumatore con il ritiro dei lotti risultati positivi (1785417 e 01810919) e, in applicazione del principio di massima precauzione, di tutti quelli prodotti prima del 12 settembre 2022. Ha inoltre messo in atto una comunicazione rafforzativa di quanto già indicato sui prodotti direttamente nei punti vendita. Al momento sono in atto ulteriori indagini anche su altre matrici e su altri tipi di prodotti che potrebbero essere correlati ai casi umani di listeriosi”, si legge sul sito.

Che cos’è la listeria responsabile della listeriosi?

“Listeria monocytogenes, responsabile della listeriosi, è un batterio ubiquitario che può essere presente nel suolo, nell’acqua e nella vegetazione e può contaminare diversi alimenti come, latte, verdura, formaggi molli, carni poco cotte, insaccati poco stagionati – si legge sul sito del Ministero della Salute – La principale via di trasmissione per l’uomo è quella alimentare. Bambini e adulti sani possono essere occasionalmente infettati, ma raramente sviluppano una malattia grave a differenza di soggetti debilitati, immunodepressi e nelle donne in gravidanza in cui la malattia è più grave”. L’Istituto superiore di Sanità spiega che “pur essendo meno frequente rispetto ad altre malattie trasmesse dagli alimenti, come la salmonellosi e la campilobatteriosi, ha la più alta percentuale di ospedalizzazione e di mortalità fra tutte le zoonosi”.

Quali sono i sintomi della listeria?

La gravità dei sintomi può essere variabile in base dose infettante e dello stato di salute dell’individuo colpito. Si va da forme simil-influenzali o gastroenteriche, accompagnate a volte da febbre elevata fino, nei soggetti a rischio, a forme setticemiche, meningiti o per le donne in gravidanza anche l’aborto. In generale non è pericoloso, soprattutto se si cuociono bene i cibi, ma nei soggetti a rischio – come gli immunodepressi – può avere esiti mortali.

Quali sono gli alimenti più a rischio listeria?

Listeria monocytogenes resiste molto bene alle basse temperature e all’essiccamento, in alimenti conservati a temperatura di refrigerazione (4°C). È invece molto sensibile alle usuali temperature di cottura domestica degli alimenti. Secondo quanto riportato dall’Iss, questa caratteristica di moltiplicarsi a temperature intorno ai 4°C, rende particolarmente a rischio gli alimenti pronti al consumo, vale a dire quelli che non necessitano di trattamenti di cottura/riscaldamento prima di essere mangiati, poiché il batterio potrebbe moltiplicarsi e raggiungere livelli potenzialmente pericolosi durante la conservazione in frigorifero. “La possibilità che Listeria monocytogenes si moltiplichi negli alimenti è anche legata alle loro caratteristiche fisico-chimiche – si legge sul sito dell’Iss – Alimenti più ‘secchi’ e più acidi (es. formaggi stagionati, salumi stagionati) ostacolano la sua moltiplicazione, rispetto ad alimenti più umidi e meno acidi (es. formaggi freschi, salmone affumicato) che, invece, favoriscono la sua crescita”.

La listeria si può curare?

Sì, con una terapia antibiotica.

Cosa fare per prevenire la listeriosi

Il Ministero della Salute invita i consumatori a prestare massima attenzione alle corrette modalità di conservazione, preparazione e consumo degli alimenti, nel caso specifico dei würstel, indicate in modo preciso nell’etichetta presente sulla confezione, che normalmente comportano la cottura prima del consumo.

L’adozione di semplici regole di igiene nella manipolazione degli alimenti, anche a livello domestico, riduce il rischio di contrarre la malattia. Il Ministero raccomanda di lavarsi spesso le mani, pulire frequentemente tutte le superfici e i materiali che vengono a contatto con gli alimenti (utensili, piccoli elettrodomestici, frigorifero, strofinacci e spugnette).

Inoltre di conservare in frigorifero gli alimenti crudi, cotti e pronti al consumo in modo separato e all’interno di contenitori chiusi, cuocere bene gli alimenti seguendo le indicazioni del produttore riportate in etichetta e inoltre di non preparare con troppo anticipo gli alimenti da consumarsi previa cottura (in caso contrario conservarli in frigo e riscaldarli prima del consumo). Infine, il Ministero raccomanda di non lasciare i cibi deperibili a temperatura ambiente e rispettare la temperatura di conservazione riportata in etichetta.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto del libro “Il cibo buono” di Antonella Viola e Daniele Nucci per “la Stampa” il 19 settembre 2022.

L'ambiente in cui viviamo è ricco di forme di vita che possono mettere in pericolo la nostra salute: virus, batteri, funghi e parassiti sono da sempre una minaccia per il nostro corpo, che si difende grazie a una serie di molecole, cellule e tessuti. Il sistema immunitario ha appunto lo scopo di individuare la presenza di microbi pericolosi e di reagire per eliminarli. In realtà, oltre a riconoscere potenziali nemici, sorveglia il nostro corpo e si attiva anche in risposta a un danno o alla perdita di quell'equilibrio che normalmente gli consente di ignorare ciò che non è pericoloso e di rispondere prontamente a una minaccia. 

Il legame tra immunità e alimentazione è molto complesso. Da molto tempo sappiamo che una carenza di calorie e nutrienti, come accade nelle persone denutrite, causa un forte indebolimento del sistema immunitario, che non riesce quindi a combattere infezioni anche banali. D'altro canto, anche una dieta squilibrata o troppo ricca di calorie altera il sistema immunitario. Nell'obesità, per esempio, le cellule dei depositi adiposi producono molecole, le adipochine, in grado di modificare l'attività del sistema immunitario. Come conseguenza si avrà un calo delle difese contro le infezioni e un aumento dell'infiammazione a carico di tutto il corpo.

Quando si verifica un danno in qualche parte del nostro corpo, si liberano delle molecole che attivano un cambiamento a livello dei vasi sanguigni del microcircolo (i piccoli vasi che uniscono le arterie alle vene, il luogo dove avvengono gli scambi di gas, nutrienti, ormoni e altri soluti). Lo scopo di questo cambiamento è far arrivare nel tessuto danneggiato le molecole e le cellule dell'immunità, per eliminare la causa del danno e iniziare il processo di guarigione. 

L'infiammazione è quindi una normale risposta del nostro corpo e ha una funzione protettiva. Tuttavia, quando è intensa o protratta nel tempo, essa stessa diventa causa di danno ai nostri organi. L'infiammazione acuta ed eccessiva può impedire lo svolgimento delle normali funzioni, come accade per esempio nei polmoni dei pazienti affetti da Covid-19 severo, mentre quella silente e cronica favorisce lo sviluppo di malattie metaboliche o di tumori. 

Il cibo ha un ruolo essenziale nel proteggerci dall'infiammazione o, al contrario, nel favorirla. Mangiare bene è quindi la prima forma di prevenzione: serve a tutelare il buon funzionamento del sistema immunitario. Nel nostro intestino vivono trilioni di microrganismi. In realtà i microbi sono presenti in varie parti del nostro corpo, come sulla pelle o nei polmoni, ma la popolazione microbica dell'intestino, detta anche microbiota intestinale, è non solo la più studiata in relazione al sistema immunitario e al nostro stato di salute, ma anche quella che è direttamente legata alla nostra alimentazione.

Il legame è bidirezionale. I batteri presenti nell'intestino svolgono delle funzioni fondamentali tra cui la produzione di vitamine, la stimolazione della digestione e dell'assorbimento degli alimenti, la regolazione della permeabilità della barriera intestinale (quella barriera costituita da cellule epiteliali che riveste l'intestino e permette di separare l'ambiente esterno, dove transita il cibo, da quello interno, dove viene assorbito ciò che è utile). Inoltre, come vedremo con maggiore dettaglio, i microbi stimolano il sistema immunitario, allenandolo nel modo giusto, inibendolo o, al contrario, eccitandolo eccessivamente.

D'altro canto, però, è anche vero che i microbi si nutrono di ciò che noi mangiamo, in una relazione di dipendenza e utilità reciproca. Sarà il tipo di cibo con cui li (e ci) nutriamo che determinerà il prevalere di un tipo di microrganismi su un altro. Se mangeremo molte fibre, nutriremo e faremo moltiplicare i batteri che si nutrono di fibre. Al contrario, se mangiamo molti zuccheri semplici, selezioneremo un microbiota affamato di zucchero, che ce ne chiederà sempre di più.

Il nostro microbioma è diverso da quello di ogni altra persona. Esso prende forma durante i primi anni della nostra vita e cambia continuamente a seconda del nostro stile di vita, dell'ambiente in cui viviamo, dei farmaci che assumiamo e di ciò che mangiamo.

La maggior parte degli scienziati ritiene che la prima esposizione ai microbi si verifichi durante il parto e subito dopo la nascita, e che sia principalmente plasmata dal microbiota materno. La modalità del parto è il primo evento che plasma la composizione del microbiota del neonato. I bambini nati tramite taglio cesareo sono colonizzati più frequentemente da specie batteriche quali Klebsiella, Enterobacter e Clostridium e meno da Bifidobacterium e Bacteroides rispetto a quelli nati per via vaginale.

Le prime interazioni che si instaurano in questo periodo tra i microbi e le mucose intestinali del bambino sono determinanti per lo sviluppo completo e corretto del suo sistema immunitario e alcuni ricercatori pensano che le differenze nella colonizzazione possano spiegare l'aumento del rischio di asma e malattie allergiche nei bambini nati con il cesareo. Ma la vera colonizzazione arriva con l'ingestione del latte, soprattutto se il neonato è allattato al seno materno.

L'allattamento, insieme ai nutrienti essenziali per la crescita del bambino, fornisce anche microbi e sostanze che stimolano il microbiota del neonato. Ogni millilitro di latte materno contiene migliaia (da 102 a 104) di microbi vivi. Lactobacillus, Staphylococcus, Enterococcus e Bifidobacterium vengono infatti direttamente trasferiti con l'allattamento. Inoltre, gli oligosaccaridi presenti nel latte materno sono dei fenomenali prebiotici che nutrono i microrganismi dell'intestino. I bambini allattati al seno hanno infatti una composizione microbica diversa rispetto a quelli nutriti con latte artificiale. È quindi sin dal primo pasto che iniziamo a plasmare il nostro microbiota e il nostro sistema immunitario.

Camilla Sernagiotto per corriere.it il 14 settembre 2022.  

Vengono definiti cibi a calorie negative: sono gli alimenti caratterizzati da un numero così esiguo di calorie che introdurli e attivare la digestione farebbe bruciare più dell'apporto calorico del cibo ingerito. Quindi, di fatto, parliamo di alimenti che farebbero dimagrire mangiando. Una chimera? Secondo gli esperti non si tratterebbe affatto di utopia. Esiste infatti la cosiddetta termogenesi indotta dalla dieta. 

«In parole semplici significa che il corpo “brucia” una certa quantità di energia (ossia calorie) per la trasformazione del cibo, dalla masticazione alla vera e propria digestione nello stomaco fino all’assorbimento dei nutrienti a livello intestinale» spiega la dietista e nutrizionista Jessica Benacchio sul proprio sito web, sottolineando come «l'atto stesso di mangiare faccia bruciare calorie».

«Esistono alcuni alimenti che ci permettono di consumare più calorie di quelle fornite quando li mangiamo, stimolando opportunamente il nostro metabolismo». Questi cibi sono alimenti a bassa densità calorica, contenenti pochi grassi, pochi carboidrati e poche proteine, ma allo stesso tempo molto ricchi di acqua. 

«Il bilancio tra quanto speso e quanto immesso può diventare negativo» argomenta la dietista. Tra gli alimenti a calorie negative ci sono innanzitutto i vegetali: frutta e verdura, ma anche le spezie. Di solito sono quelli più ricchi di fibre e vitamine (la C soprattutto) a garantire la termogenesi indotta dalla dieta. Come raccomandano gli esperti, è necessario masticare bene e a lungo per aiutare la digestione, per stimolare la produzione di succhi gastrici e per attivare il processo attraverso cui si percepisce il senso di sazietà.

Nel dettaglio quali sono questi vegetali lo spieghiamo qui. Il primo è il sedano: con un apporto di sole 20 calorie ogni 100 grammi è tra i più ipocalorici che esistano. Il processo digestivo per metabolizzare il sedano comporta un dispendio di energia maggiore rispetto alle calorie introdotte a ogni gambo. Parliamo inoltre dell’alimento spezza-fame per eccellenza, ottimo come snack salutare e altamente dietetico.

Anche il cavolfiore è un alimento ipocalorico, con un apporto di 25 calorie ogni 100 grammi. Questo è lo stesso apporto calorico del cavolo. I plus di entrambi? Sono molto ricchi d'acqua, dunque capaci di reidratare l'organismo e combattere così la ritenzione idrica (che è causa della cellulite). Il modo migliore per consumare cavolfiore e cavolo, rimanendo a tema calorie negative? Optare per quelli lessati e cotti a vapore.

Sono soltanto 12 le calorie per ogni 100 g di cetriolo. In più parliamo di un alimento composto per il 95 per cento di acqua, dunque ottimo per combattere la ritenzione idrica, reidratare in profondità l’organismo ed eliminare le tossine. Le sue proprietà detox lo rendono un alleato della salute, mentre il contenuto notevole di sali minerali quali potassio e fosforo — oltre che di vitamine (C e K in primis) — lo incorona re della buona tavola, dove buona non sta solo per il gusto. Il cetriolo si può consumare crudo, tagliato a rondelle sottili e aggiunto a insalate così come sopra ai medaglioni di carne degli hamburger.

Rucola, crescione, lattuga iceberg e lattuga romana sono i vegetali meno calorici tra quelli usati per le insalate. La rucola apporta 28 calorie; il crescione 32; la lattuga iceberg 14 calorie e quella romana 15 calorie (per 100 grammi). Sono tutte verdure ricche di acqua, fibre, vitamine (tra cui A e K), folati e sali minerali quali calcio e potassio.

Fanno parte degli alimenti a calorie negative anche broccoli, spinaci, zucchine e barbabietole. I broccoli apportano 34 calorie per ogni 100 grammi e sono molto ricchi di vitamina C. Gli spinaci si aggirano sulle 23 calorie per etto, offrendo invece parecchia vitamina K e vitamina A, molto acido folico e anche un maggior numero di proteine rispetto ad altre verdure a foglia.  

Le zucchine hanno un apporto medio di 17 calorie e ultimamente sono usate a mo’ di zoodles, ossia noodles composti da zucchine tagliate a spirale (gustosi e ben più povere di carboidrati rispetto ai noodles tradizionali). Infine si aggiungono alla lista di alimenti a calorie negative anche le barbabietole, con 43 calorie per etto e un buon apporto di potassio.

Il brodo è un amico della linea. Ne esistono molte varietà (tra cui di pollo, manzo, pesce o verdure). Viene consumato da solo oppure è impiegato come base per zuppe più elaborate e stufati. Il brodo di carne sgrassato apporta 7 calorie per 100 grammi, quello di pesce 10 calorie e quello vegetale 11. Un altro cibo a calorie negative è l’aglio, che apporta 41 calorie ogni 100 grammi (ma sfidiamo chiunque a ingerire 100 grammi di aglio). Contiene acqua, proteine, lipidi, fibre, vitamina A e C, niacina, potassio, fosforo, calcio, sodio e ferro. 

Benché sia una fonte di antiossidanti e di precursori di una molecola (l’allicina) dotata di attività antibatterica, antivirale e antimicotica, bisogna fare attenzione perché «l’aglio può interferire con l’assunzione degli anticoagulanti» come si legge sul sito web dell’Humanitas. In caso di dubbi è bene chiedere consiglio al proprio medico.  

Dulcis in fundo, nel piatto di chi vuole provare i cibi a calorie negative possono finire, se piacciono, i funghi bianchi (26 calorie per ogni 100 grammi). Sono ottimi da consumare come sostituti della carne, grazie alla loro consistenza spugnosa che li rende un’ottima alternativa vegana e vegetariana.

 Silvia Turin per corriere.it il 26 agosto 2022.

La mania del low-carb (il taglio dei carboidrati) va ancora forte, soprattutto in alcuni tipi di dieta (come la keto). Quando però decidiamo di togliere dal piatto intere categorie di nutrienti (scelta sempre dannosa) dobbiamo sapere a cosa andiamo incontro 

Si perde peso, ma sono liquidi

Dopo i grassi, i «nemici» sono diventati i carboidrati: diverse diete puntano su una loro marcata riduzione, ed è quindi importante capire quale sia l’impatto di questi regimi sulla salute, soprattutto nel lungo periodo.

Quando si riduce l’apporto di carboidrati, la prima cosa che si nota è la rapidità quasi magica di perdita di peso, ma non si tratta di grasso, stiamo perdendo acqua. I carboidrati sono immagazzinati nel corpo sotto forma di glicogeno, ogni grammo accumula da tre a quattro volte il suo peso in acqua. Quindi, non appena si tagliano i carboidrati e si inizia a utilizzare il glicogeno, ogni grammo di carboidrato in meno sono 3 grammi persi di acqua.

Calano le prestazioni

I carboidrati sono energia subito disponibile che brucia i grassi e le proteine. Altre vie metaboliche sono più lunghe e affaticano l’organismo, per questo le nostre prestazioni calano. I carboidrati sono la fonte di energia primaria del corpo. Aiutano e «spingono» tutti i tipi di esercizio, sia di resistenza che di potenza: se tagliate i carboidrati la vostra energia diminuirà. 

Sarete «lunatici»

I carboidrati inducono la sintesi della serotonina, il neurotrasmettitore della serenità e della tranquillità, che fa pure passare la fame. Siano semplici o complessi, quando vengono tolti il nostro benessere mentale potrebbe peggiorare.

È come avere l’influenza

Dato che i carboidrati sono la principale fonte di energia per il cervello, quando una persona li riduce (o elimina) il cervello si «annebbia». I grassi bruciano al fuoco dei carboidrati, se non ci sono carboidrati il metabolismo dei grassi si blocca e si ferma a livello dei corpi chetonici, che entrano in circolo e si accumulano: sono tossici per l’organismo e riducono la massa magra perché bruciano i muscoli. Il cervello li utilizza con fatica, ma li utilizza lo stesso. Il risultato: alito cattivo, stanchezza, debolezza, vertigini, insonnia, nausea. In sostanza, ci si sente come se avessimo l’influenza.

«Dipendenza»

I carboidrati raffinati sono famosi per innalzare i livelli di zucchero nel sangue. Una ricerca pubblicata sull’American Journal of Clinical Nutrition suggerisce che questi sbalzi (di solito repentini) attivano anche i centri di dipendenza del cervello e fanno sì che torni quasi subito la voglia di rimangiare gli alimenti che hanno questo «potere». Anziché rinunciare ai carboidrati in toto, però, basterebbe optare per quelli integrali che hanno un assorbimento più lento ed evitano che i livelli di zucchero nel sangue siano soggetti a questi picchi. 

Combattono insonnia e stress

La pasta la sera? Milioni di italiani non la consumano per paura di ingrassare o di compromettere il sonno. In realtà uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet Public Health dimostra che mangiare pasta a cena migliora il riposo notturno e non fa ingrassare. La ricerca spiega che la pastasciutta può essere consumata nelle ultime ore del giorno, soprattutto se siamo stressati e soffriamo d’insonnia, grazie alla presenza in questo alimento di Triptofano e Vitamine del gruppo B. Dormire bene riduce gli ormoni responsabili della fame e non favorisce l’aumento di peso. La pasta favorisce anche il rilassamento muscolare. L’importante è fermarsi agli 80 grammi a testa, cotta al dente e con olio a crudo.

Stitichezza

L’assunzione di cereali integrali è importante per innalzare la quantità di fibra che si assume. Secondo uno studio pubblicato sul Nutrition Research il 92 per cento degli statunitensi adulti non ne mangia abbastanza. La fibra (che naturalmente si trova anche in frutta e verdura) non solo aiuta a stabilizzare i livelli di zucchero nel sangue e a ridurre il rischio di obesità e malattie croniche, ma aiuta anche il transito intestinale.

Rischio di malattie cardiache e diabete

In merito a patologie cardiache e diabete, la scelta di esclusione può fare la differenza: uno studio del 2014 pubblicato su PLoS ONE ha rilevato che i carboidrati raffinati fanno salire i livelli di un acido grasso che aumenta il rischio di malattie cardiache e diabete di tipo 2, però, secondo l’American Heart Association i cereali integrali migliorano i livelli di colesterolo nel sangue e riducono il rischio di malattie cardiache, ictus, obesità e diabete di tipo 2. La scelta è chiara ed è la medesima: anziché rinunciare ai carboidrati, basta optare per quelli integrali.

La giusta regola

Ma allora qual è la giusta regola per l’assunzione dei carboidrati? Lo dicono i LARN, i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana. Nel 2014 hanno stabilito che i carboidrati dovrebbero costituire tra il 45 e il 60% delle calorie totali della giornata. Se possiamo, meglio mangiarli integrali ma non solo, perché la fibra in alcuni casi impedisce l’assorbimento dei sali minerali.

Un esempio

In uno studio pubblicato da The Lancet, alcuni esperti del Brigham and Women’s Hospital di Boston e di altri centri di ricerca americani hanno esaminato l’associazione fra consumo di carboidrati e rischio di mortalità in più di 15mila adulti, seguiti in media per 25 anni. I ricercatori hanno concluso che le diete con pochi o con troppi carboidrati, rispettivamente con meno del 40% e più del 70% delle calorie totale, erano associate a un aumento del rischio di mortalità (dovuto alla maggior probabilità di soffrire di malattie metaboliche e cardiovascolari); mentre il rischio diminuiva, quando i carboidrati fornivano dal 50 al 55 per cento delle calorie complessive. Molto importante, però, risultava anche il modo in cui venivano sostituiti i carboidrati. Se, come spesso accade, la loro riduzione si accompagnava a un aumento delle proteine e dei grassi di origine animale, il rischio di mortalità aumentava, mentre accadeva il contrario se la sostituzione avveniva con proteine e grassi di origine vegetale.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 Agosto 2022.   

Si dice spesso che per vivere una vita lunga e sana è bene mangiare molta verdura. Ma un importante studio del Regno Unito ha scoperto che non serve per scongiurare le malattie cardiache. 

I ricercatori dell’Università di Oxford hanno esaminato i dati di 400.000 britannici che sono stati monitorati per 12 anni. Durante questo periodo, 18.000 hanno avuto gravi problemi cardiaci come infarto e ictus. 

Ai partecipanti è stata chiesto quante verdure mangiavano ogni giorno e questo dato è stato poi confrontato con i tassi di malattie cardiache. Nel complesso, il gruppo che aveva mangiato più verdure crude aveva il 15% di probabilità in meno di soffrire di malattie cardiache rispetto a quelli che ne avevano mangiate meno. Nessuna differenza è stata riscontrata per le verdure cotte.

Non appena sono stati inseriti altri fattori, come la ricchezza e lo stile di vita, il vantaggio guadagnato dal gruppo che mangiava verdura cruda si è ridotto a zero. 

Qualsiasi legame tra il consumo di verdure e la salute del cuore è dovuto al fatto che coloro che mangiano molto tendono a essere più sani in altri aspetti della loro vita, secondo un rapporto sulla rivista Frontiers of Nutrition.

La ricerca ha esaminato i dati del NHS di 399.586 adulti del Regno Unito con un'età media di 56 anni. L'assunzione giornaliera di verdure totali era di cinque cucchiai colmi a persona. 

Tuttavia, il coautore, il dottor Ben Lacey, ha affermato: «Avere una dieta equilibrata e mantenere un peso sano rimane una parte importante del mantenimento di una buona salute e della riduzione del rischio di malattie importanti, inclusi alcuni tumori».

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” l’11 Dicembre 2022.

Vade retro burro. Anzi: ben tornato burro. Dopo averlo eccessivamente criminalizzato e aver santificato (comunque giustamente) l'olio d'oliva e di altri vegetali, il derivato grasso del latte torna prepotentemente in cucina. «È tempo afferma il dietologo Giorgio Calabrese, docente di scienze dell'alimentazione di rivalutare il burro che è un alimento ricco, con pregi non trascurabili ma che richiede un controllo attento dell'uso e del consumo, per poterne cogliere tutti i benefici».Il sociologo Enrico Finzi parla di «revanche del burro, che deriva dalle caratteristiche organolettiche spesso connesse al piacere (di mangiare e più in generale di vivere) e al contributo che dà alla preparazione di cibi e ricette».

 «Da pochi anni aggiunge il burro si è moltiplicato, tanto che si può parlare di progressivo passaggio dal burro ai burri». La tendenza del momento è l'uso del più saporito burro di bufala campana nella preparazione del più milanese dei dolci, il panettone. «Nella nuova leggera Cucina Italiana racconta Davide Oldani, due stelle Michelin è frequente l'utilizzo del burro, magari miscelato con acqua, montato e trasformato per dargli leggerezza ed esaltarne il sapore».

Sui social il trend topic alimentare del momento è il butter board. Rimbalzato da un continente all'altro grazie a TikTok, è il classico tagliere in legno, però spalmato di burro e ricoperto di ogni bendidìo: frutta fresca o secca, salumi, spezie, formaggi (sì: caci su quasi-cacio), fiori eduli. Il butter board accompagnato da un buon flute di bollicine è l'aperitivo-novità delle prossime feste. 

«Essendo il burro un grasso e quindi un veicolo di sapori amplifica ogni sapore, ne esalta le caratteristiche. A partire da quello del pane. Sono ideali, quindi, quelli di gusto deciso, con farina integrale e da grani particolari, con un buon lievito madre», spiega lo stellato Fabio Ingallinera (che firma la ricetta in pagina). Il suo ristorante è appena entrato nell'olimpo della We' re Smart Awards, la guida dei migliori ristoranti vegetariani al mondo.

«Ma una cucina totalmente vegetale o vegana non sarebbe sostenibile spiega assieme a Christian e Andrea Macario, titolari del Nazionale perché questo non permetterebbe al nostro territorio di sopravvivere: le nostre valli vivono di allevamenti animali. Quello che facciamo è quindi sviluppare una cucina in cui la proteina è minoritaria ma di altissima qualità».

 Ingallinera si rifornisce al rifugio Palanfrè nel Parco delle Alpi Marittime, non lontano dal confine con la Francia, patria secondo molti chef e maître pâtissier del miglior burro al mondo. Iginio Massari, il re dei pasticceri italiani, arriva a sostenere che «in Italia, lo fanno quando non sanno più cos' altro fare con il latte rimasto. Prima di tutto fanno i formaggi, poi gli yogurt e solo alla fine pensano al burro».

La differenza è nel metodo di produzione. In Italia il burro è un sottoprodotto della produzione di formaggio, ottenuto separando (in centrifuga o per affioramento) la crema di latte o la panna dal siero. In Francia è prodotto direttamente dal latte ad una temperatura che mantiene le migliori proprietà organolettiche e un gusto intenso. «Anche in Italia ammette però Massari c'è in verità dell'ottimo burro, ma non per i quantitativi che usiamo noi in pasticceria». Carlo Ottaviano

Cos'è l'acido butirrico e perchè fa bene. Guido De Duccis il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Tutti i benefici dell'acido grasso a catena corta che si forma quando i batteri intestinali scompongono la fibra alimentare

È difficile nominare il burro e pensare a benefici per la nostra salute. Molti di noi lo associano per lo più a colesterolo alto e trigliceridi: insomma, a qualcosa di amico del palato ma che col benessere c'entra davvero poco. La cattiva fama del burro è, in parte, giustificata visto che rappresenta una fonte di grassi saturi animali.

Forse, però, non sapete che il burro è una delle migliori fonti alimentari di acido butirrico (ma non l'unica, lo sono anche il latte di capra, quello di pecora, l'olio extravergine e l'aceto ma ne parleremo più avanti).

E proprio di questo acido e delle sue caratteristiche vogliamo oggi argomentare.

Che cosa è, anzitutto?

L'acido butirrico o butirrato è un acido grasso a catena corta che viene creato quando i batteri buoni dell'intestino scompongono la fibra alimentare. Tutti conoscono l'importanza di un buon funzionamento del colon per il nostro sistema immunitario, per il metabolismo e per tante altre cose. La letteratura medica sul punto è vastissima, perciò possiamo tranquillamente sorvolare.

Ascoltiamo solo il professor Philippe Lagarde, oncologo di fama mondiale: "Dopo cinquant'anni di oncologia sul campo, non posso dire che una persona con problemi intestinali sia automaticamente destinata a sviluppare un tumore, ma posso dire con certezza che in questi cinquant'anni di oncologia non mi è mai capitato di curare un malato di tumore che non fosse affetto anche da un problema intestinale" (da Il cibo che cura, il cibo che ammala di Maria Rosa Di Fazio, editore Mind). Tranchant e più chiaro di mille trattati.

Ci limitiamo a ricordare che le cellule batteriche presenti nell'intestino sono 10 volte superiori al restante numero di cellule presenti nello stesso individuo e sono pari a quasi 2 kg del nostro peso corporeo. I batteri “buoni” dell'intestino producono gli acidi grassi a catena corta (ai lettori bravi in chimica farà piacere sapere che trattasi di acidi contenenti fino a 6 atomi di carbonio). Questi acidi hanno, in generale, un forte potere antiinfiammatorio: in particolare l'acido butirrico si è rivelato utile per il trattamento della celiachia e delle più gravi malattie infiammatorie intestinali come la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. Già così non sarebbe male ma sembra persino in grado di aiutare le cellule del colon a rimanere sane, a impedire la crescita delle cellule tumorali e a favorirne la distruzione.

Come assumerlo?

La domanda è d'obbligo: come possiamo ottenere un aumento di questi acidi grassi a catena corta così importanti? Elementare: consumare molti alimenti ricchi di fibra come verdura e frutta. Un recente studio su circa 150 individui ha evidenziato una positiva associazione tra un aumento di questi acidi nelle feci e una maggiore assunzione di alimenti vegetali. Naturalmente quantità e qualità delle fibre ingerite influiscono sulla composizione dei batteri intestinali, che a loro volta influiscono sulla produzione di acidi grassi a corta catena. Per inciso, le fibre convertite in acido butirrico sono quelle solubili, derivati da carboidrati non digeriti nel tenue, come le pectine e l'amido resistente, ad esempio.

Più in dettaglio ecco, senza pretesa di completezza, un utile elenco di sostanze indicate:

Inulina: si assume da carciofi, aloe, aglio, porri, cipolle, farro, segale.

Fruttoligosaccaridi (Fos): li troviamo nelle banane oltre che in aglio e cipolle.

Amidiresistente: come quello da mais.

Pectina: fonti di pectina sono: mele, albicocche, arance, carote.

Grassi: da burro, come si diceva all'inizio, ghee (burro chiarificato, privato di acqua e di componente proteica), olio extravergine di oliva, formaggio crudo da pascolo.

Aceto.

Fermentati: i lattofermentati e i cibi fermentati. Possiamo menzionare, la panna acida, la senape, i sottaceti e i crauti. 

È importante ricordare che il butirrato raggiunge più facilmente il colon quando viene fermentato con il cibo; ecco perchè si raccomanda di “nutrire” l'intestino con fibre, grassi e aceto che aiutano i batteri a produrre acido butirrico. Possiamo invece fare a meno degli integratori, anche perchè, questi, prima di raggiungere il colon, vengono assorbiti nell'intestino tenue. Di conseguenza quasi tutti i benefici per le cellule intestinali decadono “strada facendo”.

Insomma, e per l'ennesima volta: intestino sano, salute (quasi) assicurata.

Luca Zorloni per wired.it il 19 luglio 2022.  

L'Autorità garante per le comunicazioni aveva fondate ragioni per multare l'emittente che mandava in onda i programmi di Life 120, la contestata dieta promossa al giornalista Adriano Panzironi per vivere fino a 120 anni. A dirlo è una sentenza della sezione quarta bis del Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio, che lo scorso 15 giugno ha respinto il ricorso della società Gm Comunicazione della famiglia Sciscione (considerati i re delle frequenze del Lazio), all'epoca dei fatti emittente dei programmi tv Life 120.

Nel 2019 l'Autorità garante per le comunicazioni (Agcom) aveva multato la Gm Comunicazione per 264.967,5 euro. Sanzione contro cui l'azienda si era appellata al Tar, che ora rigetta l'impugnazione. Mentre Adriano Panzironi è ancora impegnato nel processo per abuso di professione medica, partito a marzo 2020, il Tar chiude il primo capitolo sulle sanzioni elevate dall'Agcom. 

Le multe dell'Agcom

Quella contro la Gm Comunicazione è solo una delle azioni nella manovra di accerchiamento dell'Agcom contro Panzironi. Negli anni l'Autorità ha preso spesso provvedimenti contro le tesi di Life 120 e le trasmissioni tv. Nel 2020, in piena pandemia da coronavirus, finiscono nel mirino i consigli per affrontare Covid-19. Qualche mese dopo scatta la sospensione per sei mesi delle trasmissioni Il cerca salute, il format per eccellenza di Panzironi, e dello speciale Quello che non vi hanno detto sul coronavirus per sei mesi, che però il Tar del Lazio revoca.

L'Agcom interpella anche Facebook e Youtube a causa di spezzoni di video in cui il giornalista discetta su Sars-Cov-2. E infine multa per 61mila euro la Italian Broadcasting srls, società della galassia dell'ideatore della dieta Life 120, per aver trasmesso i propri format via satellite senza autorizzazione. La delibera faceva riferimento a un monitoraggio avvenuto il 17 e 18 marzo di Life Tv network, in onda sul canale 880 di Sky, che trasmette i contenuti di Panzironi, dal quale era emerso non esistevano autorizzazioni alla trasmissione di canali o programmi con quel nome. 

A questi numeri si si aggiungono i 290mila euro di multa dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato contro Life 120 Italia e Welcome Time Elevator (l'editore dei libri targati Life 120), a cui si aggiunge anche l'emittente televisiva Teleuniverso, che controlla il canale dove vanno in onda gran parte delle trasmissioni in cui il guru della dieta è protagonista.

Il ricorso di Gm Comunicazione contro la sanzione ha coinvolto Agcom e ministero della Salute. Secondo i giudici del Tar, Agcom ha fatto una valutazione generale del palinsesto dei canali Life 120, “prendendo in considerazione gli approfondimenti sulle malattie, commentati da Adriano Panzironi, le testimonianze di coloro che seguono lo stile di vita Life 120 e le televendite dei prodotti", su tutti gli integratori e il libro Come vivere 120 anni. E sulla base di questo monitoraggio ha deciso che la programmazione “sia strumentale a pubblicizzare i prodotti”.

Una tesi che il Tar condivide, così come l'accusa mossa dall'Agcom sul fatto che il palinsesto spinga a credere che Life 120 aiuti a guarire da malattie gravi. Scrive il Tar che il fatto che “in modo continuo ed insistente, nell’arco dell’intera giornata, vengano trasmessi approfondimenti e testimonianze in cui si dà atto dei benefici (miglioramento o addirittura guarigione) ottenuti in diretta conseguenza dell’adozione dello stile di vita “Life 120” (comprensivo anche dell’assunzione degli integratori), è certamente idonea ad ingenerare nei telespettatori una sfiducia, o quanto meno un forte dubbio, sulla efficacia della medicina tradizionale”.

Per il Tar, inoltre, l'Agcom ha avuto ragione a contestare una condotta lesiva della tutela della salute, così come nell'elevare due multe, perché diverse sono le violazioni contestate. Per questi motivi, il ricorso è bocciato. 

Il processo per abuso della professione

È fissata a ottobre invece la nuova udienza del processo per abuso della professione medica contro Adriano Panzironi, accusato con i suoi libri, a cominciare dal manuale Vivere fino a 120 anni, i programmi tv, in primis Il cerca salute, e gli integratori di aver sconfinato nel perimetro della professione medica, che in Italia è soggetta a rigide regole e a specifiche abilitazioni. Titoli che Panzironi non può vantare.

Dopo la denuncia nel 2018 da parte dell’Ordine dei medici di Roma e le indagini dei Nas, a ottobre 2019 arriva il rinvio a giudizio per Panzironi e per il gemello Roberto, che con lui tira le fila della galassia Life 120. Una rete di imprese che muove un giro d’affari di diversi milioni di euro, di recente allargato anche ai negozi di vicinato, aperti ad Aprilia (Latina), Cinisello Balsamo (Milano), Piacenza e Udine. Nessuno dei due è medico o dietologo. 

Quel che il tribunale di Roma dovrà stabilire è se i contenuti dei libri scritti da Panzironi, i programmi tv autoprodotti e diffusi nelle emittenti locali e gli integratori a marchio Life 120 rappresentano un abuso della professione medica, come ritiene la pubblica accusa, sostenuta dal sostituto procuratore Francesco Marinaro. L’esercizio abusivo della professione medica può costare la reclusione da sei mesi a un anno, più una multa che oscilla tra 10mila e 50mila euro.

Contro Panzironi si sono schierati come parti civili gli ordini dei medici di Roma, Napoli, Milano e Venezia. Poi c’è l’ordine dei giornalisti del Lazio, al cui albo il creatore della dieta che promette di vivere fino a 120 anni è iscritto e da cui è stato temporaneamente sospeso. E Assipan, l’associazione dei panificatori di Confcommercio, che si ritiene danneggiata dalla barriera che Life 120 alza verso pane, pasta e altri carboidrati tipici della dieta mediterranea. Panzironi è stato denunciato anche dalla Società italiana di diabetologia (Sid) e dall’Associazione medici diabetologi (Amd).

Erika Chilelli per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.

«Sono guarita dai miei continui mal di testa ed è migliorata anche l'endometriosi. Pure il mio cane ha seguito la dieta». I seguaci di Adriano Panzironi, il giornalista scientifico e inventore del regime alimentare (Life 120) che promette di far vivere le persone fino a 120 anni grazie a degli integratori da lui prodotti, si sono presentati ieri nell'aula 15 del tribunale monocratico di Roma per testimoniare in suo favore. 

L'uomo è a processo con l'accusa di aver esercitato la professione medica senza abilitazione. Nel 2018 era già stato denunciato per truffa, insieme al fratello Roberto, dall'Ordine dei medici del Lazio, ma il giudice delle indagini preliminari aveva archiviato il procedimento: «non commercializzando i Panzironi prodotti diversi o con caratteristiche non conformi a quanto indicato».

La ricetta per la longevità? Un regime alimentare che Panzironi aveva inventato con suo fratello senza avere alcuna qualifica medica, basandosi su delle ricerche americane sulle diete chetogeniche. Le regole per una vita centenaria sarebbero queste: niente carboidrati, latticini e frutta, uso assiduo di spezie e integratori di Omega3, amminoacidi e vitamine. Prevista anche una colazione salata in cui è consigliata l'assunzione di carne di maiale. 

Nel suo libro Vivere fino a 120 anni è presente anche una piramide alimentare che indica i cibi da non mangiare. Ma il decalogo di regole da seguire non finisce qui: si parla persino di un digiuno di 5 giorni ogni tre mesi di dieta, in cui si potevano assumere solo tè, acqua ed integratori. I comandamenti dell'improvvisato medico venivano seguiti fedelmente dai suoi clienti, che lo hanno difeso strenuamente anche davanti al giudice.

Una di loro avrebbe persino scritto all'Ordine dei medici e a quello dei giornalisti, che si sono costituiti come parte civile nel processo. «Si è basato su ricerche scientifiche - ha sostenuto la donna in udienza - Volevo difendere il suo lavoro di giornalista scientifico». «Avevo bisogno di stare meglio - ha raccontato al giudice un altro testimone - mia madre pregava San Sebastiano affinché io guarissi. Da quando seguo il metodo tutti i miei problemi di salute, gastrite, ipertensione e disfunzione erettile, sono spariti. Mi ha cambiato la vita».

Dalle testimonianze è stato possibile capire anche come i tre siano entrati in contatto con Panzironi, che li avrebbe persino invitati nella sua trasmissione come testimoni a sostegno del metodo. I seguaci contattavano il programma per farsi recapitare il libro; erano iscritti anche ai canali social. In particolare a un gruppo Facebook dove venivano illustrati i principi cardine della dieta: chi l'aveva seguita raccontava la sua esperienza. 

Proprio in seguito a questi post, due di loro sono state contattate da Adriano Panzironi in persona che, una volta stabilito il contatto, le ha invitate a partecipare alla sua trasmissione: Il cerca salute. L'uomo pagava, persino, il biglietto affinché potessero raggiungere la sede in cui andava in onda. 

Oltre all'Ordine dei giornalisti e all'Ordine dei medici di Roma, Milano, Venezia e Napoli, si sono costituiti parte civile anche l'Ordine dei biologi e l'Assipan (Associazione panificatori di Confcommercio). «Il processo è ormai entrato nel vivo con l'esame dei seguaci del metodo Life 120 - ha sostenuto l'avvocato Valeria Raimondo, per l'Ordine dei medici di Roma - seguiremo con attenzione i successivi sviluppi». Sono ancora molti i testimoni da sentire, tra cui alcuni medici. Nel frattempo Panzironi, nonostante il procedimento penale a suo carico, continua a pubblicizzare il suo metodo: «Con le mie proteine vi cambierò la vita».

Marcello Veneziani per “la Verità” il 13 giugno 2022.

Nessuno di voi avrà mai sentito parlare di Enzo Caldarelli, ed anch' io che sono stato suo amico per diversi anni, non l'ho capito bene e a volte dubito che sia mai esistito. 

Ma per i pochi che l'hanno conosciuto, Enzo era un personaggio leggendario, una via di mezzo tra un elfo, un folletto, un mago caduto da una stella, e rimasto malconcio per la caduta; era uno che abitava in un suo magico mondo a una piazza anche se poi invitava gli amici alle sue giostre conviviali. 

Per cominciare, il mago Enzo aveva un'età indefinita, tra i 30 e i 70 anni, camminava curvo come un vecchio ma guardava e sognava come un adolescente. A volte sembrava mangiafuoco, con lo sguardo torvo, ma poi era dolce e lieve come un babà. 

Se fate un sondaggio tra quelli che l'hanno conosciuto, non riuscite a capire nulla della sua vita privata e soprattutto della sua attività. Ognuno vi darà la sua versione. Nessuno ha mai saputo come vivesse Enzo, considerando che i sogni difficilmente garantiscono il vitto e l'alloggio.

Ma viveva alla grande e non era un malfattore. Anche dove viveva era un problema: nacque a Napoli, respirava in costiera amalfitana, viveva a Barcellona, lavorava in Thailandia e si spostava come un pendolare nel Sudest asiatico di resort in resort; da ragazzo andava negli States. Se vai alle Maldive scopri che lui è nell'isola accanto, la più esclusiva. 

Se vai in un ristorante europeo e lui lo sa, a fine pranzo esce lo chef e ti dice che sei loro ospite perché sei amico di Enzo. Perché Enzo era grande amico dei più grandi chef del mondo e forse l'unico che li metteva insieme e li faceva cucinare uno a fianco dell'altro in memorabili serate. Ma lui mangiava poco e non beveva niente.

Ma soprattutto era un crociato contro la sofisticazione alimentare, contro l'industria del cibo, contro la somministrazione di veleni, sia su larga scala sia nei ristoranti d'élite. Era la bestia nera di molte guide e di molti giornalisti gastronomici. Difendeva la purezza, che non è il bianco ma il vario secondo natura. 

Anzi, a suo parere tutto ciò che è bianco nuoce alla salute: il sale, lo zucchero, la farina bianca, il latte. Ne ha fatte di crociate coi suoi amici chef e da solo, coinvolgendo anche me e altri ignari suoi amici: riusciva a far passare in mezzo mondo inchieste contro i cibi velenosi in molti network, da noi anche su Striscia la notizia. Ma la grande stampa lo ignorava, troppo pazzo, troppo pericoloso.

Il suo allievo perfetto era Rocco Iannone, un formidabile cuoco di Cava de' Tirreni, che combatte, a costo di perdere stelle sul campo, la sua battaglia contro il cibo avvelenato e i giornalisti gastronomici complici, che lui mette alla porta nei suoi ristoranti. 

Solo cibi genuini, a chilometro zero, solo prodotti naturali raccolti da lui, dal suo vecchio padre e da suo figlio bambino, nel loro orto. A Enzo, ora Rocco intitolerà i suoi dieci ettari di verde coltivato, con un ristorante tutto in legno a Penta di Fisciano, vicino la costiera amalfitana. Natura pura e meritato omaggio.

Da Enzo venivano tutti, da Heinz Beck a Gianfranco Vissani, da «don Alfonso» Iaccarino ai maggiori chef d'Europa, alcuni specialisti mondiali di dolci, altri di panetteria, altri di fantastici incroci. Tutto purché naturale, niente cucina molecolare o roba simile. Dall'età di 12 anni, viaggiava da solo nel mondo per vedere all'opera i maggiori chef. A sedici anni era conosciuto da tutti i big. 

Ricordo suoi memorabili eventi in Algarve o a Camp Nou a Barcellona, dove violinisti e scrittori si alternavano a esibirsi con gli chef sugli spalti d'onore o nello stadio riservato solo a pochi. O quando voleva organizzare una corrida su un roof-garden di un noto hotel di Londra. E poi eventi al monastero di Pedralbes e nei luoghi magici della montagna, del mare, a Barcellona, a Ravello, a Capri. 

Mi chiedeva continuamente di registrare interviste su cibo e filosofia, letteratura, di cui non ho mai saputo traccia e mi chiedeva testi che finivano in qualche misteriosa ricetta. I temi preferiti erano Etica ed Estetica, il puro e l'impuro. Da lui ho conosciuto attrici e attori, scrittori e giornalisti, musicisti e critici d'arte, e tanti tanti chef. E tutti ci interrogavamo tra noi: ma Enzo come vive, perché fa queste cose, noi che c'entriamo, che ritorno ha? Mistero.

Don Chisciotte va preso così nella sua follia; però i suoi mulini a vento erano deliziosi. Era un gastro-tradizionalista. Dobbiamo tornare alle origini, diceva, la cucina di oggi ha perso la sua etica. Siamo nell'epoca dei falsi, delle fake news gastronomiche, magari travestite di bio e valli degli orti. Senza etica, gli suggerii e lui lo ripeteva nelle interviste, l'estetica diventa cinismo superficiale, e senza estetica l'etica diventa moralismo compiaciuto. 

In realtà, diceva, gli acquisti si fanno per telefono e non al mercato; i prodotti sono figli dell'industria alimentare cattiva e hanno ben poco a che vedere con la salute e la natura. Ma la più massiccia contraffazione viene dalla cattiva industria alimentare che ha perso il rapporto diretto con la natura e il sapere artigianale. Con lui bevevo vini e intrugli squisiti, e cibi indimenticabili e strani ibridi tra la cucina e il pensiero o l'arte o lo sport o la musica. Mi mandava prodotti unici, persino pastiere senza zucchero.

Negli ultimi tempi mi cercava, voleva vedermi, aveva problemi di salute di cui non avevo capito la natura e la gravità, chiedeva aiuti impossibili per risolvere problemi inspiegabili. Poi l'altro giorno è morto che non aveva 50 anni, almeno credo. È morto in costiera tra le braccia della sua compagna thailandese; è morto d'improvviso, misteriosamente, mentre mangiava in camera da un famoso ristorante. Non ha avuto il tempo nemmeno per rinsavire in extremis, come invece fu per don Chisciotte.

Cancro, il nuovo decalogo: in tavola cambia tutto, ecco i cibi che devi davvero evitare. Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Dopo dieci anni dalla edizione precedente il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (World Cancer Research Fund) ha aggiornato gli studi scientifici dedicati al rapporto tra alimentazione, stili di vita e tumori e redatto un nuovo vademecum con le raccomandazioni degli esperti per prevenire le malattie oncologiche e vivere a lungo.

Normopeso - Di fondamentale importanza è avere un "normopeso", che significa avere un adeguato indice di massa corporea. L'Imc si ottiene calcolando il rapporto tra il peso dell’individuo, in chilogrammi, e la sua altezza, in metri al quadrato (kg/m2). Quando il risultato è compreso tra 18.5 e 24.9 significa che il peso è nella norma.

Attività fisica - Per ridurre il rischio di ammalarsi bisogna mantenersi fisicamente attivi: basta una camminata veloce per almeno mezz’ora al giorno. Man mano che le prestazioni migliorano bisogna prolungare l’esercizio fisico fino a un’ora a sessione oppure dedicarsi a sport più impegnativi. 

Dieta sana - La dieta deve essere varia e ricca di cereali integrali, verdura, frutta e legumi. In sostanza, è sufficiente seguire la dieta mediterranea. Dal punto di vista nutrizionale, cereali integrali, verdura, frutta e legumi sono ricchi di sostanze, chiamate "fitocomposti", che sono esclusivi del mondo vegetale.  Le fibre dovrebbero essere introdotte quotidianamente (circa 30 g/giorno) poiché hanno un ruolo protettivo contro i tumori dell’ultimo tratto dell’intestino. 

Fast food - Evitare e ridurre “fast food” e merendine, in genere ricchi di grassi, zuccheri e sale. Se una sana alimentazione si basa prevalentemente sul consumo di alimenti di origine vegetale, è chiaro che questi cibi vanno assunti di rado.

Carni rosse - Carne suina, bovina (anche il vitello), capra, pecora, agnello e cavallo andrebbero ridotte. Il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro raccomanda di non superare le tre porzioni a settimana, che equivalgono a un totale di circa 350-500 grannu. Meglio la carne bianca.

Bevande zuccherate - Forniscono tante calorie senza aumentare il senso di sazietà e favoriscono direttamente la probabilità di sviluppare sovrappeso e obesità. A tavola si dovrebbe bere solo acqua, queste bevande meglio evitarle.

Alcol - Le bevande alcoliche non dovrebbero essere consumate affatto. Si consiglia di limitarne la quantità consumando a pasto un bicchiere di vino (125 ml) al giorno per le donne e due per gli uomini. La quantità di alcol presente in un bicchiere di vino è circa pari a quella contenuta in una lattina di birra.

Allattamento - Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi.  Gli studi sulla popolazione femminile mostrano che le donne che allattano i figli fino ai sei mesi hanno un rischio minore di sviluppare un tumore al seno. 

Benedetta Centin per corriere.it il 17 aprile 2022.

Dodici anni, si sente male dopo aver mangiato un ovetto Kinder e portato in ospedale i medici gli diagnosticano la salmonella. È quanto si è verificato a Ravenna la settimana scorsa. Un episodio allarmante, raccontato con dovizia di particolari per primo sul Corriere della Romagna, che ha fatto scattare subito i protocolli sanitari e fatto intervenire i carabinieri del Nas (nucleo antisofisticazione e sanità) di Bologna, i quali, anche dopo l’esposto presentato dai genitori del piccolo, hanno provveduto a sequestrare la cioccolata incriminata e ad informare la procura che aprirà un’indagine.

Mal di pancia anche per la sorella

L’ovetto che sarebbe stato “contaminato” (non ci sono ancora eventuali conferme) era stato acquistato un paio di settimane prima dai genitori del piccolo in un supermercato della città. Era all’interno di una confezione e dei tre ovetti presenti ne è rimasto solo uno, che è stato appunto sequestrato. Un primo ovetto era stato mangiato dal dodicenne appunto, l’altro dalla sorella minore che ha registrato gli stessi sintomi e cioè forti crampi addominali, diarrea e febbre alta ma nel suo caso non è stata diagnosticata la salmonellosi. A differenza del fratello, sottoposto a cura antibiotica per combattere il batterio e costretto anche ad alcuni giorni di ricovero in ospedale a Ravenna. Succedeva la scorsa settimana, nel frattempo il piccolo è tornato a casa, già dimesso.

In attesa degli esami sul cioccolato

Ora, bisognerà attendere qualche giorno per avere l’esito degli esami disposti dai Nas (dovrebbero essere effettuati martedì, dopo Pasquetta), ma se fosse confermato che il bambino di Ravenna ha contratto la salmonella da quella cioccolata allora si tratterebbe del primo caso in Italia. E’ una risposta che attendono di avere anche i genitori che si sono affidati ad un avvocato e hanno presentato un esposto, decisi ad andare fino in fondo per capire l’eventuale collegamento con l’infezione.

A sentire loro i sintomi si erano registrati dopo che il primogenito aveva mangiato l’ovetto Kinder e niente altro. C’è da dire che Ferrero di recente, dopo alcuni casi di salmonellosi che si erano verificati nel Nord Europa, aveva richiamato e fatto ritirare dagli scaffali dei punti vendita europei (non italiani) alcuni lotti di ovetti Kinder prodotti nello stabilimento di Arlon in Belgio. Ferrero ha però ritirato dal mercato anche italiano dei prodotti: un richiamo volontario di alcuni lotti di Kinder Schoko-Bons provenienti dallo stesso impianto. Sempre per il rischio di possibile presenza di Salmonella nel cioccolato.

La stessa azienda aveva comunque rassicurato i consumatori attraverso un comunicato, dichiarando di “non aver ricevuto negli ultimi 6 mesi in Italia contatti o reclami per indisposizione a seguito di consumo di prodotti Kinder”. Spiegando inoltre: “Ad oggi, nessun prodotto analizzato sui mercati coinvolti dal richiamo è risultato contaminato da salmonella”.

Ovetti Kinder e rischio salmonella nello stabilimento Ferrero: cosa sappiamo al momento. Mariachiara Giacosa su la Repubblica il 13 aprile 2022.

Dal ritrovamento di tracce del batterio in un serbatoio dello stabilimento belga alla campagna di richiamo dopo decine di casi: ora il colosso dolciario pubblica una guida online per individuare i lotti a rischio.

Gli ultimi a essere ritirati dagli scaffali sono stati gli ovetti Kinder da 100 grammi dei Puffi e dell'eroina Miraculous. Da una decina di giorni i prodotti della Ferrero di Alba sono infatti al centro di una campagna di richiamo dopo che le autorità sanitarie del Belgio hanno individuato dei collegamenti tra una serie di casi di salmonellosi, soprattutto tra i bambini, e il consumo di ovetti e altri prodotti di cioccolato prodotti nella fabbrica di Ferrero ad Arlon in Belgio. I casi segnalati finora sono 150 in Europa, n 9 Paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Spagna e Svezia) e nel Regno Unito, dove il primo caso si è verificato già alla fine dello scorso anno. 

I prodotti

Con una serie di provvedimenti successivi Ferrero ha ritirato dal mercato (e invitato i rivenditori a toglierli dallo scaffale) i seguenti prodotti: il cestino di Kinder Sorpresa con sei ovetti a tema “Pulcini”, Kinder Sorpresa Maxi da 100 grammi con i “Puffi” e con l'eroina “Miraculous” e tutti i lotti di Kinder Schoko-Bons, che non sono ovetti ma praline di cacao con un crema all'interno. Questi prodotti sono stati ritirati dal mercato perché prodotti nello stabilmente di Arlon. 

In un primo tempo erano stati segnalati solo alcuni lotti da richiamare – in base alle date di produzione potenzialmente a rischio individuate insieme all'autorità sanitaria – poi quando l'autorità sanitaria belga e Ferrero hanno deciso lo stop alla produzione l'ordine richiamo è arrivato per tutti i dolciumi prodotti ad Arlon. Lo stabilimento per il momento è chiuso, fino a quando le autorità sanitarie autorizzeranno di nuovo la produzione. Contemporaneamente all'azienda anche il ministero della Salute italiano ha pubblicato un avviso sul sito istituzionale nel quale si invita a non comprare questi prodotti e non consumarli nel caso in cui si trovino già nelle case. 

In Italia

In Italia sono stati richiamati solo alcuni prodotti. il cestino di Kinder Sorpresa con sei ovetti a tema “Pulcini”, i Kinder Sorpresa Maxi da 100 grammi con i “Puffi” e con l'eroina “Miraculous” e tutti i lotti di Kinder Schoko-Bons da 46 e da 125 grammi. Gli altri prodotti Ferrero venduti in Italia, gli ovetti Kinder, le barrette e tutte le uova di Pasqua (solo a tutolo di esempio) non sono coinvolti dal richiamo, perché non sono prodotti a Arlon, ma ad Alba. Secondo l'azienda sono quindi sicuri, si possono vendere, comprare e consumare. Sul sito dell'azienda, è disponibile una guida per individuare i lotti di prodotti a rischio contaminazione con salmonella, il batterio che provoca la salmonellosi. 

La scoperta

Efsa, l'autorità europea per la sicurezza alimentare, e Ecdc, il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie hanno ricostruito la vicenda. A dicembre 2021, il ceppo della salmonella è stato individuato in un serbatoio all'interno dello stabilimento Ferrero di Arlon in Belgio. Da quel momento sono scattati i test di controllo e verifica. In seguito a una serie di test negativi, la produzione e la distribuzione dei prodotti è proseguita in tutti i Paesi. 

Nel frattempo però sono stati segnalati da parte delle autorità sanitarie pubbliche una serie di casi di salmonellosi, soprattutto in bambini sotto i dieci anni. I casi collegati al consumo di cioccolato sono al momento 150, nessuno dei quali in Italia. L'8 aprile 2022, dopo alcuni controlli ufficiali, l'autorità per la sicurezza alimentare in Belgio ha ritirato l'autorizzazione alla produzione per lo stabilimento di Arlon e l'azienda ha richiamato tutti i lotti di tutti i prodotti usciti dallo stabilimento belga, indipendentemente dalla data di produzione e di scadenza. 

Pizza Buitoni, "mai provato tanto dolore": malore dopo la "Bella Napoli", cosa conteneva. Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

Il marchio Buitoni ancora nel mirino. Dopo il ritiro della pizza Fraîch’Up causa Escherichia coli nell’impasto, ecco che arrivano nuove segnalazioni. Questa volta le indagini riguardano un'eventuale contaminazione nella Pizza Bella Napoli. A raccontare quanto sta accadendo al prodotto consumato in Italia e del marchio di proprietà del colosso Nestlè, il sito ilfattoalimentare.it riporta.

A innescare le indagini francesi, una donna di 34 anni. La signora, residente a Perpignan nel sud della Francia, lo scorso 27 marzo ha mangiato la pizza e dopo due giorni ha accusato i sintomi tipici di un’infezione gastrointestinale. La 34enne ha avvertito dolore al basso ventre, vomito e febbre tanto da essere ricoverata in ospedale. Nella ricostruzione di quanto accaduto fatta dall’avvocato della famiglia, Pierre Debuisson - che il 4 maggio ha presentato denuncia contro Buitoni e Nestlé per "lesioni colpose" - si spiega che durante il pranzo incriminato, la signora è stata l’unica a mangiare la Bella Napoli. Al momento il prodotto Buitoni Nestlè è ancora in vendita ma gli accertamenti proseguono.  

"Non ho mai conosciuto un dolore del genere", ha detto a sua volta la ragazza, spiegando come a un'indagine approfondita in ospedale le avessero riscontrato la presenza di due batteri diversi: "E.coli e Shigella". Da quel giorno la donna e il suo legale si stanno battendo affinché anche la Bella Napoli venga ritirata dagli scaffali. Intanto anche le indagini sulla Fraîch’Up stanno proseguendo. Secondo le autorità sanitarie francesi si sono verificati due casi gravi di infezione e due bambini sono morti, ma il legame con la pizza non è stato ancora confermato.

In Francia segnalati diversi casi di contaminazione da Escherichia Coli. Mangia pizza surgelata Buitoni, 12enne finisce in stato vegetativo. Nestlé precisa: “Non le vendiamo in Italia”. Roberta Davi su Il Riformista il 15 Aprile 2022.  

“Non reagisce più, non comunica più, non risponde più a stimoli sonori e visivi”. Léna ha 12 anni. Papà Cédric racconta, a Le Figaro, il calvario della figlia, che si trova in stato vegetativo dopo aver mangiato una pizza surgelata della linea Fraîch’Up Buitoni, una tipologia che invece in Italia non viene commercializzata.

“Ha tirato fuori la lingua, ha cominciato a vedere doppio, i suoi occhi hanno iniziato a girare” ha spiegato. In ospedale a Nancy, Léna è stata messa in coma artificiale: e quando si è svegliata, non era più lei. 

La pizza contaminata dai batteri Escherichia Coli

“Oggi è il nulla totale. Léna è rinchiusa in un corpo che non gestisce più. Non sappiamo nemmeno se è consapevole di ciò che sta accadendo” hanno sottolineato i genitori, che hanno sporto denuncia.

Le autorità francesi hanno reso noto che, dall’inizio dell’anno, in Francia si sarebbero verificati decine di casi di sindrome emolitica-uremica legata a una contaminazione da E-Coli in 12 regioni: un numero insolito. Gli episodi confermati sarebbero al momento 50, 48 nella fascia 1- 18 anni d’età; due i decessi. Altri 25 sono in fase di valutazione.

Il collegamento con le pizze surgelate è stato nel frattempo confermato, si legge sull’aggiornamento risalente al 7 aprile della Santé Publique France. Nel corso delle indagini sia epidemiologiche che microbiologiche, era stata infatti rilevata la presenza di Escherichia-Coli O26 nell’impasto di una pizza trovata nel congelatore di una famiglia in cui si era verificato un caso di sindrome emolitico-uremica. Tra gli episodi accertati, 48 sono stati causati proprio da questo particolare ceppo. Dopo il richiamo, in via precauzionale, di tutti i lotti della linea Fraîch’Up acquistate prima del 18 marzo 2022, le segnalazioni hanno iniziato a stabilizzarsi.

Questa linea della Buitoni- brand del gruppo Nestlé- ha un impasto crudo, che lievita e cuoce direttamente in forno. È possibile che i bambini e i ragazzi colpiti dalla sindrome- che provoca insufficienza renale, anemia severa e piastrine basse- abbiano consumato pizze poco cotte. Infatti, se gli impasti risultano crudi oppure non cotti a sufficienza, potrebbero diventare una via di trasmissione dei batteri che causano la patologia.

Nestlé: “I prodotti venduti in Italia sono sicuri”

Tramite una nota, diffusa dopo il richiamo dei prodotti in Francia, il gruppo Nestlé Italia aveva voluto rassicurare i consumatori, dichiarando che i prodotti commercializzati in Italia sono sicuri e adatti al consumo. 

“Il richiamo delle pizze surgelate non riguarda i prodotti a marchio Buitoni venduti in Italia” si legge nel comunicato. “Precisiamo che il richiamo delle pizze surgelate Fraîch’Up in corso riguarda esclusivamente le referenze di questa gamma prodotte e commercializzate in Francia. Le pizze a marchio Buitoni prodotte nello stabilimento di Benevento vendute nel nostro Paese non hanno alcuna attinenza con questo richiamo” hanno poi precisato.

Di recente anche la Ferrero è stata costretta al ritiro dell’intera produzione, realizzata nella fabbrica in Belgio, del famoso marchio Kinder-‘Kinder Surprise’, ‘Kinder Surprise Maxi’, ‘Kinder Mini Eggs’ e ‘Schoko-bons’- a causa di un elevato numero di episodi di salmonella. Roberta Davi 

Giovanni Del Giaccio per "il Messaggero" il 17 aprile 2022.

«Mamma, sto male». Sono le ultime parole pronunciate da Martina Quadrino, la ragazzina di 13 anni di Fondi, morta dopo essere stata a una festa di compleanno e aver mangiato un panino. Era allergica al lattosio, girava sempre con il cortisone in tasca e l'altra sera si è resa conto che qualcosa non andava. È uscita dal locale nel centro storico medievale della città del sud pontino e dopo aver messo in bocca una pastiglia del medicinale da usare in caso di reazione, ha raggiunto la sua abitazione, a poche decine di metri di distanza. 

Lì l'ha accolta Francesca, la mamma, che ha capito la situazione e chiamato i soccorsi. Quando il personale dell'ambulanza è arrivato, però, per la piccola non c'era più nulla da fare. L'episodio è avvenuto nella tarda serata di giovedì, la festa con le amiche era al Red's, locale molto in voga tra i giovani e giovanissimi.

La casa della mamma da venerdì è al centro di un viavai di parenti e conoscenti, la donna gestisce con i familiari uno stand al mercato ortofrutticolo mentre Antonio, papà della ragazzina, lavora nel settore degli impianti elettrici. I genitori sono chiusi nel dolore, non parlano con nessuno, aspettano solo di sapere cosa può essere accaduto realmente. Vale a dire se la ragazzina sia morta per aver mangiato qualcosa che le ha causato lo shock ovvero per un malore. Le amiche hanno riferito che ha iniziato a dare segni di insofferenza dopo aver morso un panino con il salame. Possibile che fosse all'interno dell'affettato il lattosio? Non è da escludere, anzi.

L'AUTOPSIA Il medico legale Maria Cristina Setacci ha eseguito ieri per circa tre ore l'esame disposto dalla Procura di Latina sulla salma.

Una causa precisa per l'arresto cardiocircolatorio che ha portato al decesso della ragazzina non c'è, ma l'ipotesi principale resta quella dello shock anafilattico.

Martina, infatti, presentava secondo il poco che è emerso un ingrossamento della glottide, compatibile con le difficoltà respiratorie causate da una reazione allergica improvvisa. Una diagnosi certa non è stata fornita ai carabinieri che stanno seguendo il caso, ma il medico ha eseguito anche una serie di prelievi di liquidi biologici e tessuti che saranno sottoposti alle analisi che si svolgono in casi del genere.

I militari, nel frattempo, hanno svolto un sopralluogo nel locale e ascoltato i titolari dell'attività, oltre ad alcune amiche della ragazza deceduta. È stata acquisita, fra l'altro, documentazione relativa all'esercizio pubblico e ai cibi somministrati durante la serata di festa che si è trasformata in tragedia. Saranno fondamentali, ai fini della ricostruzione dell'accaduto, i rilievi eseguiti presso l'obitorio del cimitero comunale dove la salma è stata trasferita nella notte tra giovedì e venerdì.

LE TESTIMONIANZE «Siamo in una voragine di dolore - dice Aurora Quadrino, cugina del papà - il nostro piccolo angelo è volato via e non sappiamo cosa possa essere successo. È terribile quanto accaduto. Se fosse vero che a causa la morte sia stato qualcosa che è stato somministrato sarebbe terribile». I familiari hanno incaricato l'avvocato Giovanni Quadrino, zio della bambina, di rapportarsi con gli investigatori. Il Comune di Fondi ha scelto la via del silenzio. Nessun commento dal sindaco, Beniamino Maschietto, che ha comunque fatto avere un messaggio di cordoglio ai familiari.

La città è sotto shock, la Pasqua non sarà una festa perché una giovane vita è stata spezzata e perché praticamente tutti conoscono i genitori della piccola Martina, i nonni e il fratello di poco più grande di lei. Le esequie si svolgeranno molto probabilmente martedì, nella chiesa di San Francesco, sempre nel centro di Fondi. Lì c'era la casa di Martina e la sua vita, spezzata per una terribile reazione allergica.

Ipotesi shock anafilattico: la verità dall'autopsia. Ragazzina di 13 anni muore dopo aver mangiato panino: era in giro con le amiche. Redazione su Il Riformista il 15 Aprile 2022.

Uno shock anafilattico dopo aver mangiato un panino. E’ questa una delle ipotesi dopo la morte di una ragazzina di 13 anni, avvenuta nella serata di giovedì 14 aprile nell’abitazione dove viveva con la famiglia a Fondi, in provincia di Latina. La giovane era in giro con le amiche per trascorrere la serata quando ha iniziato a sentirsi poco bene.

Circostanza che l’ha spinta a tornare a casa dai genitori dove però la situazione è precipitata. Nonostante l’intervento del sanitari del 118 che hanno provato a rianimarla nell’abitazione, non c’è stato nulla da fare. La 13enne è morta poco prima del trasferimento in ospedale. Una tragedia che ha scosso la comunità del piccolo comune laziale.

Le indagini sono affidate ai carabinieri  e coordinate dalla procura di Latina che ha disposto l’autopsia che verrà effettuata nei prossimi giorni e servirà a far luce sulla causa del decesso. Tra le prime ipotesi, quella che il presunto shock anafilattico sia sopraggiunto dopo aver mangiato un panino con le amiche.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 13 febbraio 2022.

Si dice spesso che fritto sia tutto buono, anche una ciabatta, ma si tratta di una iperbole, perché l'affermazione giusta sarebbe che molti cibi, fritti, invece che cotti in altri modi, sono più buoni. Per frittura si intende la tecnica della cottura in lipido, che può essere un grasso animale o un olio vegetale.  

Un lipido che naturalmente deve essere caldo al punto giusto e perciò sarà sempre liquido, di suo o perché sciolto dalla temperatura necessaria a friggere. Infatti, se a temperatura ambiente i grassi possono essere solidi, come accade tra i grassi vegetali allo strutto e al burro e, tra quelli vegetali, al burro di cocco, a temperatura di frittura si sciolgono. 

L'uomo frigge da millenni, già gli antichi Egizi nel 2500 a.C. friggevano, e friggevano anche gli antichi Romani. In primo luogo dolcini come le frictilia, considerate le antenate delle chiacchiere carnascialesche, piccole paste fritte nello strutto e cosparse di miele che si preparavano in occasione dei Saturnali dicembrini (smaltivano il grasso derivante dalla macellazione del maiale tipica del periodo invernale).  

I Romani friggevano i dolci, come illustra Catone nelle ricette del De agri cultura dei globulos, i globi, o della frittella, l'encytum, impasto di formaggio fresco e farina di farro cotto a tocchetti nel caso dei primi e a spirale in quello dei secondi (si colavano con un imbuto) e poi aromatizzati con miele e semi di papavero. 

Friggevano, poi, carni e pesci, questi ultimi soprattutto «impanati» non nel senso attuale del passaggio in farina, uovo e pane grattugiato, ma premuti su sfarinati grezzi per assorbire e nascondere i segni della perduta freschezza e poi fritti in strutto o olio di oliva. 

Si friggevano le verdure, poi ammollando il fritto con garum, vino, aceto e miele: i nostri attuali fritti «alla scapece», come per esempio le zucchine, derivano direttamente dalle usanze del popolo di Romolo e Remo, infatti «scapece» è giunzione e adattamento di pronuncia di «ex Apicio», cioè «da Apicio». 

Vi sorprenderà, ma anche il fritto giapponese tempura deriva dagli antichi Romani. Nel XVI secolo i primi missionari gesuiti in Giappone insegnarono ai giapponesi a friggere le verdure in questa pastella di derivazione antico-romana, così leggera da parere un velo, fatta di sola acqua fredda e farina.  

Questo metodo di frittura era già usato nel III secolo dai cristiani nei periodi di penitenza, in particolar modo dopo l'introduzione delle Quattro Tempora di papa Callisto per la santificazione del tempo all'inizio di ogni stagione nei giorni di mercoledì, venerdì e sabato. 

Mercoledì e sabato dovevano essere giorni di digiuno ossia non mangiare al mattino e dopo sesta (mezzogiorno) e il venerdì di astinenza da ogni cibo di derivazione animale cioè carne, compreso il pesce, uova, latte e latticini (oltre che dalle bevande alcoliche e dall'olio d'oliva).  

Fino all'inizio del XX secolo la legge dell'astinenza dalle carni proibiva di consumare uova e latticini, oggi non più, ma nel frattempo il fritto delle Tempora si è cristallizzato nella tempura giapponese. Non sempre gli antichi Romani concepivano la frittura croccante e asciutta come noi, intendendo con friggere un generico cuocere ad alta temperatura. I fritti si trovavano nella taberna e nella caupona oppure per il pranzo o uno snack si prendevano da bancarelle sulla strada, parenti antiche delle odierne friggitorie, citate anche da Marziale. 

Nel Medioevo, prende il sopravvento la frittura intesa come facciamo noi oggi per lo più in grassi solidi animali, come lo strutto, a disposizione dei ceti più ricchi. Al Nord, dove sono più diffusi gli allevamenti bovini e suini, si usa molto anche il burro.  

Oggi, il fritto italiano presenta una grande ricchezza di possibilità: dal pane fritto, ingrediente, tra altri, della seuppetta valdostana, all'arancina siciliana passando per la pizza fritta napoletana, ogni regione possiede un cabaret di pietanze regionali fritte o di fritti declinati a modo proprio. Qualunque sia il grasso che si usa, la frittura prevede una temperatura tra i 160 e i 185 gradi. 

Per imparare a friggere bene, bisogna capire il comportamento degli oli. Più i pezzi che friggiamo sono piccoli, più in fretta friggeranno. La stessa cosa vale per l'olio: più è caldo, più velocemente friggerà, perciò dobbiamo valutare il momento della «calata» nell'olio che frigge in base alle dimensioni e ai tempi di cottura. 

A una temperatura bassa, di 160 gradi, faremo friggere i cavolfiori in pastella o le alici fritte che hanno bisogno di 5-6 minuti per cuocere, le zucchine a julienne possono cuocere in 2 minuti a 180 gradi e non di più altrimenti brucerebbero. La domanda più ricorrente è se il fritto faccia male o bene. La risposta non può essere assoluta, perché l'eventuale negatività o positività del fritto dipende da vari fattori. 

Esaminiamoli. Innanzitutto, il tipo di grasso e la quantità di volte che lo si usa. I grassi con cui friggiamo vanno usati solo una volta e poi smaltiti. Sebbene si tenda a percepire come più leggera la frittura con oli di semi, la leggerezza effettiva risulta essere nel gusto, nel senso che il fritto in olio di semi di arachide, di girasole, perfino di semi vari, non ha il gusto di oliva che si sente quando friggiamo in olio di oliva.  

Allo stesso tempo, però, l'olio extravergine di oliva risulta meno grasso degli oli di semi, quindi, pur connotando il sapore del fritto, aiuta a realizzare un fritto più leggero. Sono diverse anche le reazioni dei due tipi di olio, di oliva o di semi, alla temperatura. L'olio di oliva e quello di arachidi contengono una grande quantità di acidi grassi monoinsaturi, formati in particolare dall'acido oleico, che li rende più resistenti alle alte temperature che si possono raggiungere friggendo (per innescare la reazione di Maillard occorrono almeno 140 gradi). 

Gli acidi grassi polinsaturi, invece, si deteriorano più facilmente riscaldandosi: l'olio di pesce, di girasole, di mais e di vinaccioli sottoposti a un potente riscaldamento e al superamento del punto di fumo possono creare composti dannosi per l'organismo, come acroleina e acrilammide che sono cancerogeni.  

Il punto di fumo è la temperatura massima sostenibile dal grasso in fase di frittura, superata quella l'olio degenera, di conseguenza o si frigge rispettando quelle temperature oppure si usano altri oli con più alto punto di fumo. 

Il punto di fumo dell'olio di girasole e di soia e del burro è 130 gradi, di mais 160, di cocco e di arachide 180, extravergine di oliva di 210, di palma, raffinato, 240 (gli oli raffinati hanno un punto di fumo più alto rispetto a quelli non raffinati), burro chiarificato 250. Il punto di fumo diminuisce anche se l'olio è stato sottoposto a processi degradanti, per esempio lasciato all'aria o alla luce in un contenitore trasparente oppure già scaldato o già usato per friggere.

In una frittura salutare per l'organismo viene utilizzato olio extravergine di oliva, meno grasso degli oli di semi e più ricco di acido oleico e antiossidanti che rimangono stabili anche ad alto punto di fumo. La salubrità del fritto dipende anche da orario, frequenza e quantità del cibo fritto. 

Più prodotti fritti si mangiano e più lo stomaco fa difficoltà a digerirli. Mangiare troppo fritto troppo spesso non fa male soltanto alla linea: aumenta il livello di colesterolemia, con conseguenze sull'apparato cardiocircolatorio, e si sottopone lo stomaco a uno stress eccessivo. Per questa ragione è meglio mangiare i fritti a pranzo, dando così più tempo a fegato e intestino per digerire e smaltire prima di andare a dormire. 

Ed è consigliabile non mangiare solo alimenti fritti, ma calare i fritti nel contesto di un pasto per il resto equilibrato e delicato, per esempio verdure crude e frutta che aiutano fegato e reni. Se non si presentano già condizioni impedenti, per esempio si soffre di fegato oppure si è in sovrappeso, la dose ideale di fritti - pochi - è di due volte a settimana. A queste condizioni, il fritto farebbe addirittura bene. 

Alcune verdure fritte in olio extravergine di oliva anziché lessate o cotte in un mix di acqua e olio hanno dimostrato di presentare maggiori composti fenolici, che aiutano a prevenire le malattie croniche. Lo dice uno studio spagnolo del Dipartimento nutrizionale dell'università di Granada, guidato dalla professoressa Cristina Samaniego Sànchez, la quale ha spiegato: «Nel corso degli anni, la ricerca ha portato a credere che friggere le verdure è un grande divieto e le proprietà antiossidanti non contano di fronte alla paura del grasso. Ora però non è più così». 

Non è l'unica a pensarla in questo modo. Già nel 2015 Sara Farnetti, specialista in medicina interna e nutrizione funzionale del Policlinico Gemelli di Roma e nutrizionista di Miss Italia, ha condotto uno studio sull'effetto di una dieta priva di soffritto e fritto con olio extravergine di oliva e di una includente su donne obese: le donne che hanno mangiato cibi ripassati o fritti nell'olio hanno registrato una produzione minore di insulina e C-peptide, sostanze responsabili dell'accumulo di grasso corporeo soprattutto sull'addome. 

Anche Debora Rasio, autrice di La dieta per la vita, ha spiegato come la dominante frittofobia, inducendo a pensare che il cotto a secco o il lessato siano migliori del soffritto o fritto, abbia reso molti carenti di vitamine liposolubili, assorbibili solo dai grassi. L'olio cucinato incentiva la secrezione di bile che scioglie i grassi alimentari e libera le vitamine che essi contengono, rendendo rapido e agevole il loro assorbimento. 

Il soffritto favorisce il dimagrimento, perché gli acidi biliari entrano abbondanti nel circolo sanguigno e attivano il metabolismo, aumentando il consumo di calorie da parte delle cellule adipose; migliora la forma fisica perché il fegato, attivato, lavora meglio nel trasformare gli ormoni circolanti (questo aiuta anche le donne in menopausa a recuperare la naturale forma); rende la pelle più luminosa, perché l'aumento di bile elimina le molte tossine liposolubili che la pelle trattiene; riduce il gonfiore intestinale, perché il miglioramento della digestione e l'azione disinfettante della bile normalizzano la flora batterica intestinale e riducono la produzione di gas; migliora il livello di energia, perché l'azione combinata tra eliminazione di tossine e stimolo funzionale aumenta la produzione di energia a livello delle cellule epatiche; migliora il gusto del piatto. 

Mantenendo la regola di un soffritto al giorno e due fritti a settimana, noi esercitiamo il fegato con uno stress calcolato che ne migliora la prestazione. Paradossalmente, condire per molto tempo con olio a crudo può condurre a difficoltà digestive (soprattutto di pasta, riso e patate lesse), gastrite, reflusso ed eruttazioni a causa della ridotta produzione di bile per rallentamento epatico da mancata stimolazione. Con piatti che riattivano la produzione di bile e la digestione, la situazione si ribalta e il fegato, riattivato, si depura.

Antonio G. Rebuzzi per “il Messaggero” il 12 febbraio 2022.  

Verrebbe quasi da pensare ad una rivincita dei golosi, leggendo l'articolo di Thomas F. Luscher dell'Imperial College di Londra e pubblicato sull'ultimo numero dell'European Heart Journal. Si parla di vino, cioccolata e caffè, piccole golosità quotidiane ultimamente riesaminate dalla ricerca.  

In particolare quella che si occupa del rischio cardiovascolare. La domanda da porsi quindi è: sono dei piaceri pericolosi per l'organismo? O possono essere anche protettivi, se assunti con moderazione? Analizziamoli singolarmente. 

Tracce di un facsimile di birra, risalenti a circa 13.000 anni fa, sono state trovate in caverne vicino Haifa. All'epoca la fermentazione era l'unica maniera per conservare gli alimenti.  

Ai giorni nostri assumiamo alcolici in forme differenti: vino, birra o liquori. Il vino è ricco di flavonoidi antiossidanti e cardioprotettivi come anche il resveratrolo. La birra viene dai cereali, principalmente orzo, e contiene anch' essa flavonoidi e polifenoli con effetto antiossidante. 

Qual è l'effetto? L'alcol, nelle giuste dosi, esercita una stimolazione del sistema nervoso simpatico che aumenta la pressione arteriosa ed ha un effetto eccitante, almeno inizialmente, sul cervello. Questo incremento della stimolazione simpatica porta ad un aumento del rischio di aritmie. Nel Women's Health Study, pubblicato fin dal 2008, il consumo di oltre due drinks al giorno aumentava di circa il 60% il rischio di sviluppare aritmie. Modeste quantità non avevano alcun effetto deleterio. 

Ed anzi, dai dati dello stesso studio e da quelli del Phisicians' Health Study emerge che piccole o moderate quantità di alcol ridurrebbero la pressione arteriosa, in particolare nelle donne. Protegge l'alcol da infarto o ictus?  

Lo studio Interheart pubblicato su Circulation, ha dimostrato una, pur modesta, protezione cardiovascolare per dosi basse di alcol. Al contrario, dosi elevate sembrano associate a demenza ed a riduzione del volume cerebrale con segni di danno cerebrale alla risonanza magnetica. 

Norman Hollemberg, sulla rivista Circulation, descrisse lo strano caso degli indiani Kuna, abitanti di alcune isole vicino Panama, che, pur consumando ingenti quantità di sale, avevano comunque livelli pressori decisamente bassi.  

L'analisi delle urine rivelò l'escrezione di grandi quantità di derivati dell'ossido nitrico prodotti dall'epicatechina, che è contenuta nei semi di cacao. In realtà il cioccolato puro, non quello al latte, sembrerebbe migliorare la salute dell'endotelio (la parte interna delle arterie, anche coronariche). 

Ed inoltre sembrerebbe avere effetti positivi sulla pressione arteriosa, sull'insulino-resistenza e sulla funzione piastrinica riducendo quindi il rischio cardiovascolare e migliorando, secondo alcuni, le funzioni cerebrali. Effetto negativo è l'alto contenuto calorico del cioccolato che porta, se assunto in grandi quantità, ad aumento di peso e picco di glicemia. 

La leggenda narra che la scoperta degli effetti del caffè fosse dovuta ad un pastore dell'Etiopia che notò l'effetto stimolante dei semi di caffè sulle capre del suo gregge. Ancora oggi è l'effetto stimolante sul sistema nervoso simpatico, una delle caratteristiche di questa bevanda. 

Gli effetti immediati sono un innalzamento della pressione arteriosa ed un aumento della frequenza cardiaca. Neal Freedman e il suo gruppo del National Institute of Health degli Stati Uniti, però, hanno pubblicato un articolo sul New England Journal of Medicine, dimostrando un'associazione inversa tra numero di caffè consumati quotidianamente mortalità per malattie cardiache, respiratorie, ictus ed infezioni (effetto massimo con quattro caffè al giorno).  

In pratica più caffè bevi, meno rischi corri. In sintesi non è detto che tutto ciò che piace fa male. Almeno per vino, caffè e cioccolata questo non sembra sempre valido, sempre che il consumo sia moderato. Come diceva François de La Rochefoucauld: «Mangiare è una necessità. Mangiare in maniera intelligente è un'arte».  

Dagotraduzione dal New York Post il 12 gennaio 2022.

I disturbi del sistema immunitario sono in aumento ovunque grazie alla popolarità globale della cosiddetta dieta occidentale. 

Secondo gli scienziati James Lee e Carola Vineusa del Francis Crick Institute di Londra, le malattie autoimmuni, tra cui il diabete di tipo 1, la sclerosi multipla, l'artrite reumatoide, il morbo di Crohn e la colite ulcerosa sono aumentate negli ultimi decenni. 

Lee e Vineusa hanno dedicato il loro studio a indagare la causa di queste malattie, che ritengono possano essere attribuite alla recente diffusione dei fast food, che «mancano di alcuni ingredienti importanti». 

«Il numero di casi autoimmuni ha cominciato ad aumentare circa 40 anni fa in Occidente», ha detto Lee al Guardian's Observer in una nuova intervista. «Tuttavia, stanno emergendo in paesi che non hanno mai avuto queste malattie prima». Per esempio l’Asia e il Medio Oriente, dove la malattia infiammatoria intestinale ha avuto una crescita incredibile per via del boom dell'industria dei fast food. «Prima di allora avevano appena visto la malattia», ha detto.

Vineusa ha affermato che non si può fermare la «diffusione globale dei franchising di fast food». 

«Stiamo cercando di capire i meccanismi genetici fondamentali che sono alla base delle malattie autoimmuni e rendono alcune persone suscettibili ma altre no». 

Le malattie autoimmuni derivano dall'incapacità del sistema immunitario di differenziare gli organismi invasori dai tessuti locali, spingendo le difese immunitarie ad attaccare anche le cellule sane. L'infiammazione dovuta a una risposta immunitaria ripetuta può causare danni a lungo termine agli organi e ai tessuti colpiti. 

«Qualcosa deve essere cambiato nel mondo esterno in modo da aumentare la nostra predisposizione alle malattie autoimmuni».

Oggi, secondo il National Institutes of Health degli Stati Uniti, circa 24 milioni di americani – quasi il 7% della popolazione – soffrono di uno di questi disturbi. I loro studi hanno mostrato un aumento della prevalenza dei biomarcatori di malattie autoimmuni nelle persone di età pari o superiore a 12 anni, da 22 milioni di americani tra il 1988 e il 1991, a 41 milioni tra il 2011 e il 2012. 

«La genetica umana non è cambiata negli ultimi decenni», ha spiegato Lee. «Quindi qualcosa deve essere cambiato nel mondo esterno in un modo che sta aumentando la nostra predisposizione alle malattie autoimmuni».

Vineusa ha detto: «Le diete da fast food mancano di alcuni ingredienti importanti, come le fibre, e le prove suggeriscono che questa alterazione colpisce il microbioma di una persona, la raccolta di microrganismi che abbiamo nel nostro intestino e che svolgono un ruolo chiave nel controllo di varie funzioni corporee». 

«Questi cambiamenti nei nostri microbiomi stanno quindi innescando malattie autoimmuni, di cui sono stati scoperti più di 100 tipi», ha aggiunto. 

Gli scienziati affermano che il cibo spazzatura dovrebbe ricevere un allarmante avviso in stile sigaretta. Questi alimenti hanno bisogno di spaventose avvertenze per la salute "in stile tabacco", affermano gli esperti.

Vineusa ha assicurato che il consumo di fast food non era una garanzia che qualcuno svilupperà queste malattie. «Se non hai una certa suscettibilità genetica, non avrai necessariamente una malattia autoimmune, non importa quanti Big Mac mangi», ha detto. 

Queste malattie enigmatiche sono dettate da varianti genetiche individuali, che gli scienziati sperano di identificare in modo da poter sviluppare terapie più mirate. Per la sola malattia infiammatoria intestinale ci sono «più di 250» varianti conosciute oggi, rispetto a poco meno di una dozzina contate quando Lee e Vineusa hanno iniziato la loro ricerca anni fa.

«Abbiamo molte nuove terapie potenzialmente utili che vengono sviluppate continuamente, ma non sappiamo a quali pazienti somministrarle, perché ora ci rendiamo conto che non sappiamo esattamente quale versione della malattia hanno», Vineusa spiegato. 

Ci ricordano che attualmente non ci sono cure per queste malattie. «Un numero crescente di persone affronta un intervento chirurgico o dovrà sottoporsi a iniezioni regolari per il resto della vita», ha affermato Lee. «Può essere triste per i pazienti e un enorme sforzo per i servizi sanitari. Da qui l'urgenza di trovare nuove ed efficaci cure».

 Da “il Messaggero” il 12 gennaio 2022.  

Consumare più di 7 grammi (una quantità superiore a mezzo cucchiaio) di olio d'oliva al giorno è associato a un minor rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, per cancro, malattie neurodegenerative e respiratorie. Come si legge in uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. 

Il lavoro ha rilevato che la sostituzione di 10 grammi al giorno di margarina, burro, maionese e grasso di latte con la quantità equivalente di olio d'oliva è associata a un minor rischio di patologie gravi. I ricercatori hanno analizzato 60.582 donne e 31.801 uomini statunitensi privi di malattie cardiovascolari e non colpiti da tumore all'inizio della ricerca nel 1990. Durante i 28 anni di follow-up, è stata valutata la dieta.

Il questionario chiedeva con quale frequenza si consumassero determinati alimenti, grassi e oli. Nonché di quale tipo si utilizzassero per cucinare e aggiungessero a tavola. Quando i ricercatori hanno confrontato coloro che consumavano raramente o mai olio d'oliva con chi si trovava nella categoria di consumo più alto è emerso che questi ultimi avevano il 19% in meno di rischio di mortalità cardiovascolare, il 17% in meno per cancro, il 29% in meno per patologie neurodegenerativa e il 18% in meno per quelle respiratorie.

·        L’Acqua.

Acqua, viaggio nel bene più prezioso. Si parte con …le minerali. Siamo il popolo più "acquofago" del Pianeta: ciascun italiano, nel 2021, ha consumato in media ben 231 litri pro-capite (la media europea è di 118 litri). Come scegliere la minerale più adatta a noi? Cosa dicono le etichette? Guido De Duccis il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Limitandoci a osservare il consumo di acqua in bottiglia si può dire che noi italiani siamo tra i popoli più “acquofagi” del pianeta.

Secondo i dati pubblicati dalla società Beverfood (specializzata in ricerche statistiche nel settore delle bevande), ciascun italiano nel 2021 ha consumato in media ben 231 litri pro capite, contro una media europea di 118 litri. Un’abitudine destinata ancora a crescere, considerato anche che nel 1980 gli italiani bevevano solo 47 litri a testa.

Le acque minerali naturali devono essere imbottigliate come sgorgano dalla sorgente, e quindi devono essere microbiologicamente pure, ovvero non devono contenere sostanze organiche, né riconducibili alla presenza di inquinanti di origine “umana”. Gli unici interventi ammessi riguardano la rimozione dell'arsenico e dei composti instabili di ferro, zolfo e manganese e all'eliminazione dell'anidride carbonica con la possibilità di reintrodurla successivamente per rendere la bevanda gassata.

Per legge le analisi da compiere sui campioni di acqua minerale naturale riguardano la determinazione di ventitrè parametri chimico-fisici (tra cui temperatura, durezza, residuo fisso a 180° C, pH, conducibilità elettrica specifica a 20° C, concentrazione di svariati ioni e così via) e di sedici sostanze indesiderabili o nocive come cianuro, arsenico (dannoso anche per lo sviluppo neurologico dei feti e dei neonati, tanto da essere stato associato con un aumento dell'incidenza di autismo) e metalli pesanti tipo piombo e nichel la cui concentrazione dev'essere inferiore a limiti prestabiliti.

Le etichette

Le etichette odierne, in realtà, non sono uno specchio fedele dell'acqua che beviamo, perchè un'ulteriore normativa lascia ampia libertà circa le indicazioni da dare al consumatore. Dei parametri oggetto delle analisi, in un'etichetta finiscono di solito solo quelli che si reputano caratterizzanti la particolare acqua mentre le altre informazioni riguardanti sostanze tossiche o indesiderabili sono pubblicate a discrezione del produttore.

Come scegliere

Come comportarsi allora? Le acque minerali di per sé sono limpide, inodori e incolori ma è possibile imparare a distinguerle e scegliere quelle più adatte alla nostra salute e alle nostre esigenze? Leggendo correttamente le etichette e affinando il palato, proprio come faremmo per un buon vino, la risposta è affermativa.

Il primo parametro che consente di orientarsi tra le diverse acque è il residuo fisso a 180° C, presente in etichetta: non è altro che il contenuto totale di sali minerali disciolti nell'acqua, attraverso la misura di quanti milligrammi di parte solida sopravvivono facendo evaporare tutta l'acqua e sottoponendola a un processo di essicamento alla temperatura di 180°C .

Un'acqua con residuo fisso inferiore a 50mg/l è minimamente mineralizzata: al sapore appare leggera, proprio per il basso contenuto di sali. Acque con queste caratteristiche (e con poco sodio) sono ottime per trattare infezioni renali e per la preparazione degli alimenti per neonati. Sono considerate oligominerali, ossia con pochi minerali, le acque con residuo fisso compreso tra 50 e 500 mg/l; mediamente mineralizzate quelle con valori compresi tra 500 e 1.500mg/l; mentre quelle con residuo fisso superiore a 1.500mg/l (ma ne esistono persino con residuo fisso vicino a 3.000mg/) sono acque fortemente mineralizzate dal gusto più corposo e strutturato. Queste acque, oltre a facilitare la digestione, possono essere impiegate al posto degli integratori da chi pratica molto sport.

Un altro metodo per ricavare il contenuto salino di un'acqua, da confrontare con il residuo fisso, è la misura della conducibilità elettrica. Maggiore è il contenuto di ioni disciolti, maggiore è la conducibilità dell'acqua, poiché gli ioni, ottenuti dallo scioglimento dei sali minerali, sono dotati di carica elettrica e il loro moto ordinato crea una corrente elettrica all'interno dell'acqua. La conducibilità dipende dalla temperatura e normalmente è misurata a 20°C.

Il pH

Un terzo parametro da considerare è il pH, che fornisce un'indicazione del grado di acidità o basicità dell'acqua derivante dalla maggiore o minore attività dello ione OH 3+, che si forma per dissociazione della molecola d'acqua. Un'acqua è acida se il suo pH è inferiore a 7, basica se supera tale valore.

La maggior parte delle acque minerali in commercio ha un pH compreso fra 6,5 e 8,0. La maggiore acidità, facilmente assimilabile al palato, può essere associata a una maggiore presenza di anidride carbonica disciolta, altro parametro spesso riportato in etichetta, che può conferire all'acqua anche una debole effervescenza naturale. Questo parametro dovrebbe essere considerato con molta attenzione dalle donne in gravidanza e in allattamento. In questa fase, infatti, una donna dovrebbe sempre valutare le necessità del nascituro/neonato e la quantità di urina prodotta, utilissima per eliminare le scorie e le tossine dal proprio corpo e da quello del bambino. Per tali ragioni bisognerebbe scegliere acque con pH il più vicino al 7 (valore neutro), mai troppo inferiore, superiore (ossia tendente all'alcanizzazione) solo in caso si sia in uno stato di acidosi metabolica.

Il quarto parametro dell'acqua da analizzare è la durezza, con cui si misura il carbonato di calcio, che viene misurata in gradi francesi (°f) dove 1°f corrisponde a 10 mg/L. In base alla durezza le acque variano da molto dolci (fino a 4 °f), a dolci (da 4° a 8°f), a mediamente dure (da 8°f a 18°f) fino a molto dure (oltre 30° f).

Ma ciò che dona a un'acqua minerale il vero e proprio carattere che fa la differenzia dalle altre è la composizione del bouquet dei sette ioni presenti in concentrazioni maggiori, che da soli coprono il 90% della totalità di sostanze chimiche dell'acqua. Non ci addentriamo nella natura e nelle particolarità fisico-chimiche di questi ioni, positivi e negativi. Diciamo solo che è proprio il rapporto tra le concentrazioni degli ioni a determinare il tipo di acqua minerale. Al lettore basterà sapere che, se al palato avverte un marcato retrogusto dolciastro, l'acqua è ricca di ioni calcio e bicarbonato; se prevale un sapore salato i responsabili sono gli ioni cloruro e sodio evidentemente prevalenti; una punta di amarognolo è dovuta invece all'abbondanza di magnesio.

Un'indagine condotta dal laboratorio centrale Acam Acque di La Spezia su circa 250 acque minerali italiane, tra le oltre 300 oggi in commercio, ha evidenziato che tre quarti di esse sono dolciastre e poco mineralizzate, ovvero con una prevalenza di bicarbonato e calcio. Per trovare acque fortemente minerali, occorre, tranne qualche eccezione, sondare le sorgenti del Centro-Sud dell'Italia.

Insomma, affermare che “siamo ciò che beviamo” non è più un luogo comune.

·        L’Amido.

Cos’è l’amido modificato sempre più usato dall’industria alimentare. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 6 novembre 2022.

Che cos’è esattamente questa sostanza che si trova in tanti prodotti alimentari di uso quotidiano? E per quale motivo l’industria modifica gli amidi naturali come quello di riso, mais e tapioca? I motivi sono sostanzialmente due: garantire una maggiore conservazione ai prodotti e aumentarne la densità e la cremosità (effetto addensante). Gli amidi semplici, o naturali, come quello di riso o di patate, hanno scarso interesse per i produttori. Al contrario, gli amidi modificati trattengono l’acqua in modo più efficiente, resistono meglio al calore e sono generalmente più adatti alla produzione di alimenti trasformati.

In questo articolo vedremo alcuni prodotti di uso comune a cui viene aggiunto l’amido modificato, vi consiglio di prenderne nota e se possibile cercare di acquistare invece prodotti simili che non contengono questo additivo, ma che hanno una cremosità naturale, derivante dalla materia prima stessa e non dall’aggiunta di addensanti.

L’amido modificato è poco conosciuto dal consumatore, ma non si tratta di una sostanza così innocua come si potrebbe pensare. In realtà con questo termine si identificano ben 12 additivi alimentari addensanti differenti, che spesso si trovano in etichetta elencati anche con una delle seguenti sigle: E1404, E1410, E1412, E1413, E1414, E1420, E1422, E1440, E1442, E1450, E1451, E1452.

Non si tratta di una sostanza del tutto innocua per la salute, infatti ne viene vietato espressamente l’impiego in alcuni tipi di alimenti. Alcuni tipi di amido modificato non sono autorizzati negli alimenti per l’infanzia, perché contengono residui di una sostanza chiamata PCM (propilene cloroidrina) che è mutagena, cioè modifica il DNA causando dei danni. È il caso del E1442 per esempio, che però si trova in alcuni yogurt da supermercato (vedi foto) e probabilmente alcuni bambini assumono ugualmente, in maniera inconsapevole.

Infine, l’aggiunta di amidi modificati eleva inutilmente il contenuto calorico dell’alimento e di fatto ne diminuisce la genuinità ed il valore nutritivo. Questo è dovuto al fatto che essendo un amido, contiene molecole di glucosio al suo interno. Gli amidi infatti non sono altro che agglomerati di molecole di glucosio, cioè zucchero. Questo vale sia per gli amidi naturali che troviamo nel riso, nelle patate o nel grano, sia per quelli modificati chimicamente dall’industria.

[Yogurt di capra con aggiunta di amido modificato E1442; Immagine di Gianpaolo Usai]Come l’amido naturale, infatti, quello modificato contiene molte calorie, ma risulta privo di quei fattori nutrizionali – come vitamine, proteine o minerali – che sarebbero presenti nella materia prima che esso va a sostituire. Ricordiamoci infatti che l’industria usa questi amidi modificati per scopo addensante in prodotti che sono poco densi proprio a causa del fatto che ad essi viene tolta qualche materia prima oppure perché tale materia prima non la si vuole impiegare (burro, panna). Ad esempio, l’aggiunta di amido modificato allo yogurt alla frutta, permette di ridurre i grassi del latte di partenza (che avrà quindi meno vitamine e minerali, presenti nel grasso del latte). Non a caso gli amidi modificati vengono tipicamente aggiunti agli alimenti light per mantenere le qualità organolettiche (sapore e consistenza cremosa) nonostante la riduzione dei nutrienti. Questo crea nel consumatore l’illusione di acquistare un prodotto più leggero, sano e non ingrassante, perché etichettato come light appunto, ma in realtà il prodotto contiene più o meno le stesse calorie dello yogurt da latte intero, con l’aggravante di aver perso tutte le vitamine contenute nel grasso del latte, che sono le vitamina A, D, E, K.[Immagine di Gianpaolo Usai]Un’altra categoria di prodotti in cui viene impiegato l’amido modificato sono i noodles istantanei, molto apprezzati dai giovani per la loro estrema facilità e rapidità di preparazione, anche se non possiamo certo dire che si tratti di un alimento di qualità, a causa della presenza di molti additivi al suo interno, tra cui olio di palma, glutammato, maltodestrine, aromi, zucchero e persino coloranti.

L’amido modificato è utilizzato moltissimo dall’industria anche per la produzione di salse e maionese, come la salsa ketchup e altri tipi di salse industriali da condimento. Questo additivo può essere presente anche nei sughi pronti da supermercato e nei budini. Inoltre lo possiamo ritrovare anche nella pasticceria industriale di bassa qualità nella preparazione di creme varie.

Infine l’amido modificato non è utilizzato di norma nella produzione di alimenti biologici. In questi alimenti si preferisce utilizzare solo l’amido naturale (di riso, mais ecc.) o addensanti naturali come la fecola di patate e simili, ma non gli amidi modificati. Sono espressamente vietati gli amidi modificati ottenuti da mais OGM o altri alimenti OGM. [di Gianpaolo Usai]

·        La co2 per uso alimentare.

Aria Frizzante. Report Rai. PUNTATA DEL 07/11/2022 di Chiara De Luca

Collaborazione di Marzia Amico e Eva Georgaanopoulou

La CO2 alimentare scarseggia sul mercato

La co2 per uso alimentare serve per gassare i prodotti. Negli ultimi mesi però è difficile da trovare. Questo perché la maggior parte di quella che si trova sul mercato viene ottenuta come prodotto di scarto di altre lavorazioni che in questo periodo, con l’aumento dei costi dell’energia, sono ferme. La co2 è anche uno dei gas serra presenti in atmosfera che contribuisce al surriscaldamento globale. E questo è un paradosso: da una parte c’è chi la reclama, dall’altra ne abbiamo troppa in atmosfera. Esistono possibili alternative per rispondere a entrambe le esigenze?

Aria frizzante di Chiara De Luca MAURO VARAGNOLO – BARTENDER CAFFÈ FLORIAN VENEZIA Select, un terzo, prosecco e seltz… A te.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In ogni spritz che si rispetti non può mancare il seltz, le famose bollicine.

MAURO VARAGNOLO – BARTENDER CAFFÈ FLORIAN VENEZIA È il prodotto finale che dà il sapore allo spritz perché la spinta dell’anidride carbonica, data alla fine, fa girare gli ingredienti e quindi si mescola il tutto.

 CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma la Co2 per uso alimentare è difficile da trovare. Alcune aziende, Acqua Sant’Anna, Sanpellegrino, la birra Menabrea, hanno fermato per un periodo la produzione e i fornitori non riescono più a garantire la Co2.

MATILDE ELOISA PITORRI - AMMINISTRATRICE DELEGATA ANTICHE FONTI DI COTTARELLA L’ordine che avevamo effettuato non arrivava, abbiamo sollecitato ed è emerso il fatto che avevano loro a loro volta un problema di approvvigionamento. Il prezzo è esploso. Beh, siamo oltre il cento per cento rispetto a quelli che erano gli acquisti del 20/21, sicuramente.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questo perché la maggior parte di Co2 per uso alimentare che si trova sul mercato viene ottenuta come prodotto di scarto di altre lavorazioni, in particolare quella dei fertilizzanti agricoli.

CHIARA DE LUCA Quanta Co2 c’è lì?

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Ogni serbatoio ha dalle 150 alle 200 tonnellate, ci saranno una decina di serbatoi quindi sono 2000 tonnellate.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo a Ferrara, nello stabilimento del colosso norvegese Yara, che produce fertilizzanti. Da giugno, però, le lavorazioni sono ferme.

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Perché il costo del metano è passato dai 25 euro a megawattora del 2021 ai 120 come media per il 2022

CHIARA DE LUCA Cioè vi conviene più non produrre che produrre

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Certo, certo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, la Co2 è un gas presente in atmosfera, anzi ce ne è fin troppa. .

DANIELA MAURIZI - CHIMICA E AMMINISTRATRICE DELEGATA GRUPPO MAURIZI È un gas che inquina perché non permette al calore che viene assorbito dai raggi solari di disperdersi, ok, e c’è quindi il riscaldamento e quindi il cambiamento proprio del nostro clima.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un paradosso. Da una parte manca la Co2 per le bollicine dell’acqua minerale o dello spritz, dall'altra ne mettiamo talmente tanta nell’atmosfera da condizionare il clima. Buonasera. Ora tra le pieghe di questa contraddizione c’è chi ha visto, ha intravisto il business: quello di diventare cacciatore di Co2. Fare lo spazzino sostanzialmente dell’atmosfera, fai bene al clima ma anche all’economia e all’indotto. Perché la Co2 è utilizzata nell’alimentazione, nell’industria, nella medicina. La visione giusta per il futuro è quella di andare a catturarla, però, a basso costo nell’atmosfera. E pensare che una volta tanto eravamo stati tra i primi. Ma come è finita quell’esperienza? E poi, nel frattempo, da dove ricaviamo la Co2 per le bollicine dell’acqua minerale e dello spritz? Già so che qualcuno di voi storcerà il naso. La nostra Chiara De Luca.

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Qua siamo in una stalla sostenibile, dove gli animali producono del latte di altissima qualità ma producono anche il letame e il liquame che noi abbiamo deciso di ottimizzare con la produzione di bio Co2.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il liquame stoccato fermenta con l’aggiunta di scarti di produzioni agricole. Viene prodotto, così, biogas da cui vengono ricavati metano e anidride carbonica, che poi viene venduta all’industria alimentare.

CHIARA DE LUCA L’anidride carbonica che c’è in questo liquame è la stessa che poi troviamo aprendo una bottiglietta di acqua frizzante.

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Si, certo, ovviamente vengono fatti dei processi ma parte tutto dalla stalla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Candiolo, in provincia di Torino, un consorzio di allevatori produce Co2 alimentare dal liquame di 4000 capi bovini.

CHIARA DE LUCA Quanta Co2 producete?

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Noi produciamo più di 400 kg l’ora, si parla di circa dieci tonnellate al giorno.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In questo allevamento la Co2 immessa in atmosfera dai bovini viene assorbita, lavorata e venduta alle aziende di bevande, che la utilizzano per gasare i proprio prodotti. In Italia gli allevamenti producono circa l’otto per cento delle emissioni nazionali di gas serra.

CHIARA DE LUCA Quella Co2 che estrapolano è Co2 che viene sottratta all’ambiente?

RICCARDO DE LAURETIS - ISTITUTO SUPERIORE DI PROTEZIONE E RICERCA AMBIENTALE Quella Co2 proviene da un’attività biogenica quindi da un punto di vista della contabilizzazione è netta, è pari a zero perché il carbonio è stato sottratto all’ambiente quindi non aggiungiamo nulla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Islanda, invece, c’è Climeworks, un’azienda Svizzera di cacciatori di Co2. Hanno brevettato un modo per intrappolare l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Questi contenitori hanno delle ventole che attirano l’aria. All’interno c’è un filtro specializzato che cattura la Co2. Quando il filtro è pieno, lo chiudiamo e riscaldiamo il contenitore a circa cento gradi, in questo modo il filtro rilascia la Co2 e noi possiamo raccoglierla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Climeworks in Europa ha due impianti operativi, uno in Svizzera e uno in Islanda. Ha trasformato la cattura della Co2 in un vero business. Quella raccolta nell’impianto di Zurigo viene venduta alle aziende che producono bibite, tra cui la Coca-Cola per il mercato svizzero. Ma negli ultimi anni Climeworks ha avuto anche una svolta etica, abbandonando via via la vendita di Co2 alle aziende, per non immetterne altra nell’atmosfera. Così, ha deciso di stoccarla.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Questo è il primo impianto di cattura e stoccaggio diretto di aria al mondo. È in grado di catturare 4000 tonnellate di Co2 direttamente dall’atmosfera.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO 4000 tonnellate di anidride carbonica equivalgono all'incirca alle emissioni che producono mille auto in un anno. Dopo aver catturato la Co2, la palla passa all’azienda pubblica islandese, Carbfix, che la inietta nel sottosuolo insieme a quella prodotta nella propria centrale geotermica.

BERGUR SIGFÚSSON - RESPONSABILE CATTURA E INIEZIONE CO2 - CARBFIX L’acqua miscelata alla Co2 viene immessa in questo pozzo a 2000 metri di profondità, poi entra in questi piccoli buchi delle rocce. Ed è proprio qui che, alla, fine si si formeranno i carbonati. È un processo che già esiste in natura e noi in questo modo lo imitiamo e lo velocizziamo.

CHIARA DE LUCA Questo tipo di mineralizzazione è possibile in Italia?

BERGUR SIGFÚSSON - RESPONSABILE CATTURA E INIEZIONE CO2 - CARBFIX Sì. Ci sono formazioni rocciose simili a queste in Sicilia, in Toscana e in tutte le regioni che hanno un patrimonio di rocce basaltiche.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Climeworks aveva provato anche in Puglia, a Troia, a catturare la Co2 nell’ambito di un progetto iniziato nel 2016 per la produzione di metano che era la prosecuzione di un altro progetto, partito nel 2012. Per entrambi i progetti, che prevedevano sperimentazioni anche in altri paesi, l’Unione Europea aveva stanziato complessivamente a tutti i partner circa trenta milioni di euro.

 LEONARDO CAVALIERI - SINDACO DI TROIA (FG) L’obiettivo era la produzione di metano e quindi la trasformazione dell’idrogeno, ma raggiungendo anche e raccogliendo soprattutto anidride carbonica.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questo è quello che resta dell’impianto.

CHIARA DE LUCA Come mai il progetto non c’è più?

LEONARDO CAVALIERI - SINDACO DI TROIA (FG) Il progetto aveva una durata ben definita e alla scadenza non ci sono stati più fondi per poter continuare questa sperimentazione.

CHIARA DE LUCA È un sistema costoso?

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Sì. Richiede molta energia elettrica ma stiamo lavorando per ridurla. Noi qui utilizziamo solo energia rinnovabile di fonte geotermica.

CHIARA DE LUCA Chi sono i vostri sponsor?

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Abbiamo clienti come Microsoft e Shopify, che investono in questa tecnologia per ridurre le loro impronte di carbonio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In pratica Microsoft e Shopify finanziano Climeworks per catturare una parte della Co2 che con le loro produzioni immettono nell’atmosfera nel tentativo, così, di alleggerire il proprio impatto sul riscaldamento climatico.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS È utile ma prima di tutto bisogna ridurre le emissioni.

 CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E quale è l’impatto sull’atmosfera della Co2 qui in Islanda lo sanno molto bene. Vatnajökull è il parco nazionale dichiarato nel 2019 patrimonio dell’umanità. Copre il 15% dell'isola e circonda il più grande ghiacciaio d’Europa. All’interno del parco c’è il lago glaciale di Jokulsarlon: fino agli inizi del Novecento non esisteva perché era un ghiacciaio perenne.

HARALDUR THORVALDSSON - RANGER PARCO NAZIONALE VATNAJÖKULL Stiamo vedendo tutti i ghiacciai ritirarsi e diminuire di volume e stiamo iniziando a vedere nuove montagne che non abbiamo mai visto prima.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Islanda si stima che negli ultimi 130 anni i ghiacciai abbiano perso circa 2200 chilometri di superficie.

HRAFNHILDUR HANNESDÓTTIR - GLACIOLOGA UFFICIO METEOROLOGICO ISLANDESE Sono preoccupata e triste. Tutti sanno cosa dobbiamo fare, ma non lo stiamo ancora facendo.

CHIARA DE LUCA C'è una previsione dell'effetto del cambiamento climatico in Islanda?

HRAFNHILDUR HANNESDÓTTIR - GLACIOLOGA UFFICIO METEOROLOGICO ISLANDESE Abbiamo calcolato come i ghiacciai risponderanno a diversi scenari: con un grado, uno e mezzo o due in più. E questi indicano che i ghiacciai scompariranno all’incirca tra 150 anni.

STUDIO DUE USCITA ANTEPRIMA È già tardi. Ora, i danni sono irreversibili, noi possiamo solo rallentare l’andazzo. Secondo l’Unesco, un terzo dei ghiacciai considerati patrimonio dell’umanità nel 2050 scomparirà. Gli accordi di Parigi sulla emissione dei gas serra prevedevano la riduzione del 55 per cento entro il 2030 e di arrivare a emissioni zero nel 2050. Secondo uno studio del politecnico di Milano, insomma, il nostro paese, l’Italia, è già in ritardo sugli obiettivi del 2030. Ora, la visione futura, quella più innovativa è quella di andare a catturare la Co2 nell'atmosfera, ma deve diventare un sistema, altrimenti è come tentare di svuotare l’oceano con un cucchiaino. Eravamo stati tra i primi, avevamo pensato di catturare la Co2 per fabbricare metano, è vero, che sarebbe stato utile visti i tempi. Ma abbiamo bruciato milioni di euro della Comunità europea per raccogliere dati, era una semplice sperimentazione ed è finita lì. Allora uno si chiede: ma che sperimenti a fare se poi non dai un seguito? È sempre una questione di visione.

·        Lo Spreco Alimentare.

Lo spreco alimentare costa agli italiani 15,6 miliardi di euro l’anno. Sara Tonini su L'Indipendente il 19 ottobre 2022. 

Rispetto solo a qualche mese fa, lo spreco alimentare in Italia è aumentato, e in particolare quello domestico, che ammonta a 674,2 grammi pro capite. Secondo il nuovo dossier dell’Osservatorio internazionale di Waste Watcher / Spreco Zero, che monitora l’andamento e le abitudini in cucina di vari Paesi, gli scarti alimentari costano annualmente agli italiani 9,2 miliardi. A questi si sommano 6,4 miliardi stimati imputati agli sprechi dell’energia per produrre il cibo, così come dell’acqua e delle altre risorse. Una cifra complessiva di 15,6 miliardi l’anno, circa un punto di Pil.

L’estate è la stagione di maggiori scarti alimentari per il nostro Paese: lo spreco domestico è infatti aumentato in pochi mesi, passando dai 595,3 grammi pro capite di febbraio ai 674,2 grammi dell’ultima rilevazione di Waste Watcher International con dati raccolti ad agosto. Un piccolo miglioramento, comunque, rispetto allo stesso report di un anno fa, realizzato nell’agosto del 2021, quando in Italia era stato attestato uno spreco di 750 grammi a settimana, 75 in più rispetto agli ultimi numeri.

«Il nuovo Report internazionale vale come un “G9” dello spreco – spiega il direttore scientifico di WasteWatcher International Andrea Segrè, fondatore della campagna Spreco Zero – Perché accanto al dato italiano, che dimostra elementi importanti come la ‘stagionalità’ dello spreco alimentare in ragione delle abitudini e delle diete che si adottano col variare dei mesi, i cittadini e gli operatori trovano i dati di altri 8 Paesi di tutto il mondo, dall’Asia all’Africa agli States». Il documento è stato realizzato intervistando complessivamente nove mila cittadini, per un campione statistico di 1000 cittadini a Paese. Dai dati risulta che Sudafrica e Giappone sono i più virtuosi, arrivando a sprecare circa la metà rispetto all’Italia (324 e 362 grammi a settimana), mentre in Europa spicca la Francia, con 634 grammi settimanali. Gli Stati Uniti si confermano i meno attenti alla questione, con 1338 grammi di cibo gettato a settimana, per quanto in lieve discesa rispetto al 2021, con 64 grammi in più buttati ogni sette giorni. Il Brasile, per la prima volta monitorato da WasteWatcher, si posiziona al quarto posto tra i peggiori Paesi nella lotta allo spreco, con 794 grammi di cibo buttato ogni settimana, sempre a persona.

Tra i motivi che toccano specificatamente il nostro Paese, c’è sicuramente il tipo di alimenti che come popolazione prediligiamo. Nel report è stato individuato infatti un incremento generale dello spreco di ortofrutta e di altri cibi freschi, come latte e derivati, molto utilizzati dagli italiani. Un’altra causa, sottolinea Segrè, “è senz’altro il progressivo impoverimento economico della popolazione  (l’inflazione alimentare a due cifre) che acquista prodotti di costo più basso e spesso di minore valore nutrizionale, alimenti che peraltro deperiscono prima. Si ha quindi un doppio impatto negativo: – prosegue in un articolo di approfondimento pubblicato sul Manifesto– sullo spreco alimentare «quantitativo» e sullo spreco «calorico» nel senso di un abbassamento del valore nutrizionale degli alimenti che compongono la dieta”.

Nello specifico, in Italia gettiamo individualmente 30,3 grammi di frutta alla settimana, segue l’insalata con una media di 26,4 grammi pro capite, e il pane fresco con 22,8 grammi. Ci superano gli Usa, con 39,3 grammi a testa, la Germania con 35,3 e il Regno Unito che si attesta su uno spreco settimanale di 33,1 grammi a testa. E ancora, in Italia buttiamo ogni settimana 21 grammi di verdure e ben 22,8 grammi di tuberi, aglio e cipolle.

Per limitare questi numeri, è necessario prendere misure sia dal punto di vista individuale, con una maggiore attenzione al calcolo e all’organizzazione della spesa, sia dal punto di vista collettivo. Non solo programmi di educazione alimentare nelle scuole, per sottolineare i tanti valori (economico, nutrizionale, ambientale) del cibo ma direttive che rendano la lotta allo spreco una priorità. Secondo Il Centro comune di ricerca (JCR) della Commissione europea, in Italia quasi il 68,6% degli scarti alimentari arriva dal consumo, il 6,8% circa dalla distribuzione, il 12% dalla trasformazione, il 12,7% dalla produzione primaria. A giugno del 2014, nel nostro Paese, è stato pubblicato il PINPAS (Piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari) con una serie di proposte principalmente in ambito educativo e della ricerca. Con la legge n. 166/2016 (“legge Gadda”), è stata prevista una serie di misure per incentivare la redistribuzione delle eccedenze di cibo e farmaci per scopi di solidarietà sociale, come semplificazioni burocratiche, sgravi fiscali e bonus per i donatori. Ma queste direttive non sono sempre facili da mettere in pratica e considerano la lotta allo spreco alimentare più una soluzione temporanea che un problema strutturale della società. 

Tante realtà operano in questa direzione, cercando di semplificare il più possibile l’individuazione e la raccolta di beni alimentari a rischio scarto. La Fondazione Banco Alimentare, ad esempio, ogni giorno recupera le eccedenze alimentari dei supermercati italiani per distribuirle a strutture che offrono pasti a persone che vivono in difficoltà. Nel 2021, Banco Alimentare ha raccolto circa 7.000 tonnellate di cibo che probabilmente sarebbero andate buttate perché vicine ai termini di scadenza. Con la loro iniziativa “Colletta Alimentare”, la fondazione ha raccolto non solo tramite presidi e interventi fisici nei negozi, ma anche tramite donazioni online con i punti aderenti e addirittura con una sezione appositamente dedicata su Amazon. Sara Tonini

(ANSA il 27 settembre 2022) - È la frutta l'alimento più sprecato del pianeta: a rilevarlo sono i dati del 2° Cross Country Report dell'Osservatorio Waste Watcher International, che hanno monitorato 9 Paesi del mondo : Italia, Spagna, Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Sudafrica, Brasile e Giappone. Lo studio è stato realizzato in occasione della 3^ Giornata internazionale di consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari del 29 settembre e della Giornata mondiale del cibo, il World Food Day in calendario il prossimo 16 ottobre.

Con la ricerca risulta che gli italiani gettano individualmente 30,3 grammi di frutta alla settimana, segue l'insalata con una media di 26,4 grammi pro capite, e il pane fresco con 22,8 grammi. L'Italia è superata dagli Stati Uniti, con 39,3 grammi di frutta a testa, la Germania con 35,3 e il Regno Unito che si attesta su uno spreco settimanale di 33,1 grammi a testa. Nella classifica degli alimenti più sprecati entrano anche latte e yogurt (38,1 grammi settimanali negli Stati Uniti, 27,1 in Germania), gli affettati e salumi (21,6 grammi in Francia, 14,2 grammi settimanali in Giappone), riso e cereali, che in Brasile si gettano per 27,2 grammi settimanali e i cibi pronti che i giapponesi sprecano in misura media di 11,5 grammi settimanali.

"Lo spreco alimentare- afferma il direttore scientifico Waste Watcher Andrea Segrè - varia con le stagioni. Per questo abbiamo deciso di monitorare due diversi periodi dell'anno, il mese di agosto e quello di gennaio, per i rapporti annuali Waste Watcher.". "In questo periodo- sottolinea inoltre Segrè- preoccupa, rispetto allo spreco alimentare, il costo legato all'energia nascosta per produrre il cibo gettato. Waste Watcher ha calcolato che vale ben 4,02 miliardi euro lo spreco di energia nascosta nel cibo sprecato durante il 2021 solo nelle nostre case.

Un costo che porta a circa 11 miliardi euro complessivi il valore dello spreco alimentare domestico in Italia, sulla base di un costo dell'energia elettrica pari a circa 0,4151 €/kWh. Lo stesso spreco alimentare domestico nel periodo equivalente del 2020 determinava una perdita economica a livello energetico di 1,61 miliardi euro. Ridurre lo spreco alimentare determinerebbe una diminuzione non solo dell'impronta energetica ma anche degli impatti ambientali"

·        La Scadenza.

I cibi che non scadono quasi mai e che buttiamo via (sbagliando). FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.

Buttiamo via troppi alimenti. E questo accade anche perché non sappiamo che, in alcuni casi, si possono mangiare oltre la data di scadenza scritta in etichetta. E ignoriamo altresì che esistono cibi che, invece, non scadono. Ecco quali sono e perché

I cibi che non scadono: l’osservatorio

Ogni settimana in Italia buttiamo via 529 grammi di cibo a testa, che fanno 30 chili l'anno. La ragione principale? Ignoriamola data di scadenza. Sono tra i dati che emergono dall’ultimo rapporto di Waste Watcher, il primo osservatorio nazionale sugli sprechi che, ogni anno, fa il punto e ci ricorda cosa significhi buttare via alimenti: un gesto immorale, visto e considerato che la metà della popolazione mondiale muore di fame; un gesto immorale che ha ricadute ambientali — dato che produrre richiede risorse come acqua, energia e terreni — e economiche. La cifra? Nella sola Italia si stima che lo spreco alimentare costi 7 miliardi l'anno.

Il problema è globale e proprio per quanto riguarda la data di scadenza c’è chi ha pensato a provvedimenti significativi: nel Regno Unito la catena Waitrose, che gestisce oltre 300 supermercati, ha appena annunciato che la toglierà da circa 500 prodotti tra quelli con la scritta «da consumare preferibilmente entro». A differenza di quelli che con la dicitura «da consumarsi entro» dove la data è perentoria, si possono mangiare anche oltre perché, anche se potrebbero cambiare le proprietà organolettiche (cioè il sapore), non rappresentano una minaccia per la salute.

In Italia per ora si è semplicemente aperto il dibattito, ma prima dei provvedimenti «ufficiali» siamo noi che possiamo fare la differenza: innanzitutto acquistando con più consapevolezza. Cioè comprando meno e meglio, poi tenendo a mente una lista di cibi che si possono mangiare anche dopo la scadenza, risparmiando così anche denaro ed energia che in questo momento sono particolarmente preziosi.

La pasta e il riso

La pasta si può mangiare sempre, anche molti mesi dopo la data di scadenza. «La durabilità è una caratteristica tipica del prodotto, perché la pasta ha un umidità bassissima (di appena il 12,5 per cento) e quindi non ha carica microbica o batterica», spiega Cristiano Laurenza, segretario dell’Unione dei Pastai Italiani. «Tendenzialmente la data di scadenza è a 24/36 mesi: vuol dire che, oltre questo tempo, il produttore non assicura integrità dal punto di vista organolettico, ma non c'è alcun pericolo in termini di sicurezza alimentare se viene mangiata oltre. Certo, purché venga ottimamente conservata. E cioè al fresco, all'asciutto, in una dispensa pulita: lo sporco può favorire il proliferare di insetti, tipicamente minuscole farfalline, che possono forare la confezione e riprodursi». Discorso analogo riguarda il riso, se conservato nella sua confezione ermeticamente chiusa.

I legumi secchi

Economici ed ecologici, il vantaggio dei legumi secchi è anche che, praticamente, durano di eterno. Il motivo? Sono privi di acqua, quindi inattaccabili dai batteri. Certo, anche in questo caso a patto che vengano conservati correttamente, e cioè al riparo da umidità, caldo e luce. Se li si consuma dopo la data di scadenza, basta tenerli in ammollo per un'ora o due in più del solito, in modo che riacquistino l'umidità eventualmente perduta.

Il tonno

Il tonno in scatola ha una vita media di almeno 5 anni e dal momento della data di scadenza si possono anche aspettare diversi mesi prima di mangiarlo: basta conservarlo come si deve e cioè al fresco, al buio e chiuso (se aperta la confezione, va mangiata nel giro di un giorno). Al massimo, oltre la data di scadenza, avrà perso un po’ di sapore, ma dal punto di vista della sicurezza alimentare non ci sono problemi: la ragione è che durante l'inscatolamento del tonno — e di altri prodotti che subiscono lo stesso processo di confezionamento come i pomodori, le verdure, i legumi...) — viene eliminato l'ossigeno, perciò non c'è rischio che i batteri prolifichino. L'unico rischio potrebbe essere il botulino, perché questa tossina può moltiplicarsi anche in assenza di ossigeno, ma quando è presente provoca rigonfiamento delle lattine, quindi è molto semplice capire se ha intaccato il prodotto oppure no. Nel caso del minimo dubbio, bisogna buttare via. Stesso discorso vale per i prodotti in vetro — oltre ai legumi anche le marmellate ad esempio — perché analogamente il confezionamento sterilizza il pr

Il miele

Sarebbe proprio un peccato buttar via il frutto del faticoso lavoro delle poche api rimaste e, in effetti, non si deve: il miele infatti si conserva per anni, se chiuso e tenuto in luogo fresco e asciutto. Tutto merito degli zuccheri e degli antibatterici naturali che contiene. Questi lo rendono sicuro anche dopo la scadenza. Forse, solo un po' più duro e di un colore leggermente diverso, ma non meno buono.

Il sale e lo zucchero

Sono già di per sé dei conservanti naturali il sale e lo zucchero per via della loro capacità igroscopica: eliminano l'acqua dagli alimenti e, quindi, inibiscono la proliferazione di muffe e batteri. Per questa ragione, quando sono tenuti in luogo fresco e asciutto, e opportunamente chiusi, non c'è alcun pericolo di proliferazione batterica anche se vengono mangiati oltre la data di scadenza.

Il caffè

La data di scadenza del caffè in media è di due anni, ma si può conservare e consumare anche fino a un anno dopo, a patto che sia tenuto in confezioni integre e cioè ermeticamente chiuse: dato che non passa aria, non può proliferare alcun batterio o tossina.

Il cibo da «consumarsi preferibilmente entro» è ancora buono. Come ci aiutano i nostri sensi. BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022.

L’app anti-spreco Too Good To Go rilancia l’Etichetta Consapevole per sensibilizzare sul termine «da consumarsi preferibilmente entro», oltre il quale in realtà si può consumare ancora l’alimento. Un’errata informazione equivale in Europa a 9milioni di tonnellate di cibo sprecato. E i nostri sensi ci possono aiutare 

Quest’anno saranno 50milioni— 40milioni in più rispetto al 2021 — i prodotti presenti sugli scaffali che riporteranno l’Etichetta Consapevole di Too Good To Go, l’applicazione antispreco che si adopera per sensibilizzare i consumatori sulla differenza tra «consumare entro» e «da consumarsi preferibilmente entro». L’app rinnova l’iniziativa di sensibilizzazione nata nel 2021, diffusa in 12 Paesi Ue e accompagnata da un sito apposito spessobuonooltre.it, con un’indicazione che specifica «Spesso Buono Oltre» e alcuni pittogrammi esplicativi.

La differenza tra «consumare entro» e «da consumarsi preferibilmente entro»

«Da consumarsi preferibilmente entro», forse in molti non sanno, è l’indicazione segnalata come da disposizioni europee che garantisce che le caratteristiche qualitative di alimenti come prodotti secchi confezionati o sott’olio, salse, confetture restino inalterate al 100%. Ovvero che non venga superato il Tmc, il termine minimo di conservazione. Superato il quale — a differenza della data di scadenza — non significa che il prodotto è per forza da gettare perché rappresenta un rischio per la salute, ma che, spiegano dall’azienda nata in Danimarca nel 2015 e presente in 15 Paesi d’Europa, si può comunque consumare in sicurezza, senza rischi per la salute, ovviamente se adeguatamente conservato. È il consumatore stesso che può verificare la qualità degli alimenti tramite i propri sensi: vista, olfatto e gusto. Ovvero guardare, annusare e mangiare. Ciò che andrà a controllare sono le proprietà organolettiche dell’alimento come gusto, fragranza, aroma e consistenza. Too Good To Go ha ideato nel 2021 l’Etichetta Consapevole, applicata sui prodotti di 25 aziende partener (13 hanno aderito nel 2022) che riportano il «preferibilmente entro».

I Partner

Nel 2022 hanno aderito ABBI Group, Biova Project, cameo, Circular Food, Delicatesse, Eridania, Ferrarini, Gruppo Montenegro, Mielizia, Olio Viola, Roncadin, Vallé. Si aggiungono a Bel Group, Fruttagel, Granarolo, Gruppo VéGé, La Marca del Consumatore, NaturaSì, Nestlé, Raineri, Raspini Salumi, Salumi Pasini, Wami. Gli esempi di prodotti? Ad esempio il latte a lunga conservazione o quello vegetale.

L’esperimento

Per capire la differenza effettiva tra un prodotto che ha superato il Tmc e uno che invece non ha oltrepassato la data, il team di Too Good To Go ha invitato ieri a Milano nello spazio SoniaFactory della cuoca e food blogger Sonia Peronaci un parterre di giornalisti e influencer per un test in diretta. Due alimenti sullo stesso piatto: qual è quello «buono» e quale quello «cattivo»? Dopo una breve osservazione del prodotto, la platea si è trovata molto in difficoltà: spesso ciò che sembrava gustoso e buono aveva oltrepassato il Tmc. A riprova che anche l’apparenza del cibo inganna.

La scorretta interpretazione alla base del cibo sprecato

Ma per quale motivo è importante comprendere la differenza tra Tmc e data di scadenza? Perché in Europa sono 9 milioni le tonnellate di cibo sprecate ogni anno a causa della scorretta interpretazione delle diciture. Ovvero il 10% delle 88 milioni di tonnellate totali di cibo gettato. Sono soprattuttobevande e salumi a essere gettati mentre i consumatori tendenzialmente si fidano di più a tenere in dispensa anche oltre il Tmc altri prodotti come sughi e prodotti da forno. Il cibo che viene erroneamente eliminato equivale a più di 22 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera: un danno non solo economico, ma in primis ambientale, derivato dall’errata comprensione della differenza tra data di scadenza e Tmc appunto. La Commissione Europea ha riconosciuto che una migliore comprensione della differenza tra data di scadenza e Tmc potrebbe contribuire in modo significativo a ridurre lo spreco alimentare a diversi livelli della filiera, e sta considerando le possibili opzioni per semplificare l’etichettatura, promuovendo una migliore comprensione delle date di scadenza e Tmc da parte di tutti gli attori coinvolti. Un problema, quello dello spreco, di cui i i cittadini itaiani sono consapevoli: da un survey condotto con il centro di ricerca statistico Epinion risulta infatti che l’84% della popolazione intervistata pensa che lo spreco alimentare sia un grosso problema e che il 74% vorrebbe fare di più per limitare lo spreco tra le mura domestiche.

Alimenti scaduti e rischi: lievito, caffè e farina da buttare subito, ecco perché. Martina Barbero su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2021. Li abbiamo in casa tutti e tutti pensiamo che durino a lungo. In realtà questi alimenti, una volta aperti, deteriorano in fretta. Ecco che cosa fare.

Dispense da incubo

Mai come nell’ultimo anno e mezzo la dispensa è stata il fulcro delle nostre cucine. Abbiamo imparato a gestirla al meglio ottimizzando le provviste così da non dovere andare al supermercato tanto spesso, data l’emergenza Covid-19 con la quale stiamo imparando a convivere. Sarà capitato anche a voi di imbattervi in pacchetti e barattoli, pieni, dimenticati da tempo. Che fare? Consumare nonostante la data di scadenza, ormai passata, oppure buttare? Il punto non è tanto la salubrità del contenuto di quei pacchetti: si tratta comunque di alimenti innocui per la salute (leggi anche i cibi da evitare assolutamente secondo Franco Berrino). Il problema sta, casomai, nell'aspetto e nell'efficacia dentro anche le ricette più semplici. E allora, dal lievito al caffè ecco gli 8 prodotti da controllare e, probabilmente, buttare per il bene della vostra dispensa. E del menu. 

Lievito

Il lievito è una cosa viva, sia esso fresco o in polvere. Se è vecchio, non produrrà una pagnotta ben lievitata o una focaccia soffice. I pacchetti chiusi dovrebbero mantenersi per un anno a temperatura ambiente, ma una volta aperti, con l'esposizione all'aria, è bene utilizzarli entro un paio di mesi. Un trucco per controllare se l'agente lievitante funziona ancora è mescolarne un pizzico in acqua dolce calda (non bollente): se produce schiuma allora significa che è ancora attivo. 

Lenticchie

Le lenticchie, quelle secche, contrariamente a quanto si possa pensare, non durano in eterno. Se conservate nel luogo sbagliato, cioè umido e non fresco, tendono a inglobare umidità rischiando di diventare acidule. Il consiglio è di consumarle entro un anno.

Spezie

Le spezie non vanno a male di per sé, ma il loro sapore perde di intensità e si degrada nel tempo, soprattutto quelle macinate e in polvere. L'ideale è consumarle entro 3 mesi dall'acquisto. Il primo segnale che indica perdita di aroma è il colore: se un curry o della curcuma, ad esempio, mancano di brillantezza significa che è giunto il momento di fare un po' di pulizia.

Bicarbonato

Anche questo, come il lievito, perde potenza. Un bicarbonato con qualche mese di troppo non nuoce alla salute, vero. Però può essere un vero danno per torte e dolci, che rimarranno bassi e tutt'altro che soffici. Il consiglio è di buttarlo se sono trascorsi più di sei mesi dall'acquisto. 

Riso

Se chiusa, la confezione dura a lungo, anche ben oltre la data di scadenza. Una volta aperta, però, è meglio consumare i chicchi il più velocemente possibile. Con lo scorrere del tempo, infatti, la superficie del riso cambia e impiega sempre di più a cuocere e ad assorbire acqua, col rischio, poi, di perdere di cremosità nel caso si volesse cucinare, ad esempio, un risotto.

Aceto

Si tratta di un ingrediente vivo e ricco di microrganismi, per cui se da un lato l'aceto non può andare a male, dall'altro rischia di fermentare e sviluppare quella che viene chiamata «madre», cioè un accumulo di lieviti leggermente viscido che però è totalmente innocuo. In alcune occasioni potrebbe scolorire o sviluppare sedimenti e il profilo aromatico cambiare. Per rallentare la fermentazione, il consiglio è di conservare gli aceti in frigorifero fin dall'inizio. 

Caffè

Molti ignorano che il caffè è un alimento facilmente deteriorabile: inizia a perdere nutrienti e intensità di sapore appena dopo la macinazione. Il modo migliore per rallentare il suo invecchiamento (negativo) e conservarlo al meglio a casa è seguire questa guida. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 ottobre 2021. Siete sicuri di sapere come conservare il formaggio? L’esperta francese Aurore Ghigo ha stilato una guida completa per appassionati, da come creare il perfetto tagliere al modo migliore per conservarli. Secondo Ghigo conservare correttamente il formaggio in frigorifero è essenziale per mantenerlo fresco il più a lungo possibile. «Il modo migliore per conservarlo è nella confezione di carta in cui è avvolto. Ma se lo hai comprato avvolto in pellicola trasparente, il modo migliore è avvolgerlo nella carta da forno e poi metterlo in un contenitore ermetico. La pellicola è da evitare perché fa sudare il formaggio». Per creare un tagliere perfetto l’ideale è posizionare un numero dispari di formaggi diversi disposti dal più dolce al più forte. «La regola “francese” vuole che i formaggi siano sempre dispari, quindi tre o cinque vanno benissimo» ha detto. «Utilizzare una miscela di consistenza è sempre un buon consiglio da tenere a mente: alternare duro, morbibo e friabile». Uno degli errori più frequenti è quello di mettere due formaggi della stessa famiglia nel tagliere, per esempio due formaggi sottoposti a erborinatura, oppure due muffe bianche, come il brie o il camembert. «Certo si tratta di gusto personale, ma per la varietà, è meglio mettere diversi tipi di formaggio sulla tavola». Il tagliere va composto sempre, secondo Ghigo, tagliando piccoli pezzi da un formaggio intero prima di servirlo a tavola. «Permetterà agli ospiti di sentirsi sicuri nel prendere un pezzo» ha detto. Vietato esporre formaggi ancora nella confezione, e lo stesso vale per salse e cracker. Importante inoltre portare un coltello diverso per ogni tipo di formaggio. Il tagliere preferito di Aurore Ghigo è composto da Langres, Brillat Savarin, Comte, French Camembert e Bleu D’Auvergne. «È così difficile scegliere tra i formaggi, adoro il formaggio a pasta molle, ma per compiacere gli ospiti metto sempre almeno due formaggi a pasta dura sui miei taglieri». Inoltre è importante accompagnare il tagliere con pane o cracker. «Aggiungo sempre una marmellata, diversi tipi di cracker, miele (dolce) o olio d’oliva e sale (salato) per aiutare a rendere il gusto delle marmellate più intenso». 

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk l'8 aprile 2021. Cosa si nasconde nel vostro frigorifero o in fondo agli scaffali delle vostre cucine? Una scatola di tonno che di qualche anno fa, un vecchio blocco di formaggio, o altri articoli vari ben oltre le loro date di scadenza? Il vostro istinto è probabilmente quello di buttarli via, contribuendo al problema globale degli sprechi alimentari. Un recente rapporto ha rivelato che i più grandi supermercati del Regno Unito buttano via circa 190 milioni di pasti perfettamente commestibili all’anno, mentre L'ONU afferma che ogni anno un quinto del cibo domestico finisce nella spazzatura. Una delle cause principali di questi sprechi è la tendenza di scartare di cibi che si avvicinano alle date di scadenza, cosa che molti di noi prendono come un segno che stanno andando a male. Ma non è necessariamente così. Mentre le date “da consumarsi entro” (trovate su carne, latticini e altri alimenti freschi) riguardano la sicurezza alimentare, quindi che il cibo non dovrebbe essere mangiato una volta trascorsa questa data, “da consumarsi preferibilmente entro” (che si trovano su barattoli e pacchetti) riguardano la qualità del cibo, ovvero che si possono mangiare ma potrebbero non essere al meglio. Quanto è commestibile il cibo dopo la data di scadenza? Sarah Rainey ha frugato nei suoi armadi alla ricerca di pacchetti, barattoli e scatole scaduti da tempo e li ha inviati al principale centro di microbiologia NationWide Laboratories, nel Lancashire, per scoprirlo…

Zuppa in scatola (Scaduta da sei anni e tre mesi). Una scatola chiusa di zuppa di pollo Heinz del 2014. Anche se un po' polverosa, sembra in condizioni perfettamente buone. La zuppa all'interno sembra identica al contenuto di una lattina appena acquistata.

ASPETTO. Proprio come ti aspetteresti; cremoso, carnoso e un po' aglioso.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Il laboratorio non ha trovato tracce di salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Sì.

Uova (Scadute da 8 giorni). Una scatola di sei uova medie da un alimentari. Le uova sono uno dei pochi prodotti ad avere una data di scadenza; sono generalmente considerate sicure da mangiare fino a tre settimane dopo se conservate in frigorifero, più a lungo si rischia che i batteri della salmonella si moltiplichino all'interno del guscio.

ASPETTO. Una volta aperte le uova hanno un aspetto normale: i bianchi sono limpidi e colanti; i tuorli intatti.

ODORE. Le uova marce hanno un odore solforoso molto caratteristico; queste non odorano di niente.

CONTEGGIO BATTERI. Basso. I test rilevano 20 "unità formanti colonie" (UFC) di batteri per grammo, quindi stanno appena iniziando a esplodere ma sono ancora sicure da mangiare. Nessuna salmonella presente.

COMMESTIBILE? Sì.

Pesto in scatola (Scaduto da due anni e quattro mesi). Un vasetto da 190g di pesto a base di basilico, pinoli, pecorino e olio extravergine di oliva. 

ASPETTO. Un po 'oleoso in alto ma per il resto di consistenza normale. Ancora di un verde vibrante.

ODORE. Essendo rimasto chiuso per così tanto tempo, l'odore di erbe e aglio è abbastanza forte ma non è maleodorante o acido.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. L'olio ha conservato perfettamente il contenuto.

COMMESTIBILE? Sì.

Pane in cassetta (Scaduto da cinque giorni). Una pagnotta di pane bianco in cassetta non aperto tagliato a fette di medio spessore. ASPETTO. All'interno della confezione inizia a formarsi della condensa e il pane è un po' meno morbido di quanto suggerisce lo slogan. Ma è tutt'altro che stantio e non ci sono prove di muffa. 

ODORE. Sgradevolmente dolce. Una volta passati un paio di minuti per "respirare", il pane ha un odore più accettabile.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Nonostante i lievi cambiamenti nell'aspetto e nell'odore, questo pane è ancora buono.

COMMESTIBILE? Sì.

Formaggio (Scaduto da un mese). Un blocco di Cheddar acquistato da un negozio all'angolo. Essendo più stabile del latte o dello yogurt, ha una data “da consumarsi preferibilmente entro”. Solo i formaggi freschi come la ricotta hanno le date “da consumarsi entro”.

ASPETTO. Arancione brillante e privo di muffa, ma inizia a diventare un po' molliccio ai bordi.

ODORE.

Non eccezionale. Ha quell'odore sgradevole da calzino vecchio del formaggio rancido.

CONTEGGIO BATTERI. Estremamente alto. I test rilevano 200.000 UFC per grammo di formaggio, ma gli scienziati dicono che non dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Poiché il formaggio viene prodotto inserendo i batteri nel latte pastorizzato, non esiste una conta batterica inaccettabile. Ciò che viene rilevato potrebbero anche essere batteri che formano acido lattico, un sottoprodotto del processo di maturazione, ma non contano come agenti patogeni ("batteri cattivi"). I test non rilevano salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Tecnicamente, ma a causa dell'odore non lo mangerei personalmente.

Pacchetto di wafer (Scaduti da 5 mesi). Una confezione di wafer da 1 euro, farcite con una crema al cioccolato.

ASPETTO. Completamente normale. Sorprendentemente, sono ancora croccanti e la crema all'interno è appiccicosa.

ODORE. Insipido. Pochissimo odore.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test rivelano 100 UFC per grammo, il terzo più alto del lotto. Non è pericoloso ma mostra che i biscotti possono andare a male, non solo diventare stantii e non dovrebbero essere lasciati chiusi per mesi.

COMMESTIBILE? Sì.

Concentrato di pomodoro (Scaduto da 3 anni e 5 mesi). Concentrato di pomodori secchi a base di pomodori, aglio, zucchero, sale, erbe aromatiche e olio di girasole. Le istruzioni dicono di tenerlo al chiuso in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. Ha una consistenza granulosa e inizia a diventare di un colore marrone opaco. C'è uno strato di olio che copre la parte superiore.

ODORE. Ammuffito e acido, con un aroma pungente e persistente che non ha un buon odore.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non hanno trovato nulla di pericoloso.

COMMESTIBILE? Tecnicamente sì; non si andrebbe incontro a un'intossicazione alimentare. Ma è chiaramente passato in termini di odore e gusto.

Sardine in scatole (Scadute da un anno e 9 mesi). Filetti di sardine sott’olio. Il pesce e la carne freschi hanno date "da consumarsi entro", ma le alternative in scatola sono così ben sigillate che hanno date "da consumarsi preferibilmente entro".

ASPETTO. Ancora intero e con un po 'di colore grigio-blu.

ODORE. Di pesce; non sgradevole.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non rilevano batteri o agenti patogeni.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di sugo (Scaduto da 6 mesi).  Barattolo di sugo a base di pomodori, vino rosso, basilico e origano. Le istruzioni per la conservazione dicono che il barattolo da 350 g deve essere conservato in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. I contenuti si sono un po' separati ma per il resto è normale.

ODORE. Appetitoso come il giorno in cui è stato acquistato.

CONTEGGIO BATTERI: Basso. Il laboratorio ha rilevato 20 CFU per grammo di salsa, che rientra ampiamente nei limiti di legge; e nessuna traccia di altri agenti patogeni nocivi come l'e-coli.

COMMESTIBILE?  Sì.

Bottiglietta di salsa (scaduta da 3 anni e 5 mesi). Una bottiglia grande, polverosa e non aperta di salsa HP.

ASPETTO. Marrone, liscia.

ODORE. Acetoso, maltato, leggermente dolce e speziato.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Salse come ketchup, salsa marHProne e senape sono ben conservate con abbondante zucchero e sale e sigillate con un foglio sotto il tappo di plastica, quindi ci impiegano molto tempo per andare.

COMMESTIBILE? Sì.

Caffè solubile (Scaduto da 6 anni e 5 mesi). Sei bustine di caffè solubile Nescafé Azera. Creati per essere mischiati con acqua bollente, sono composti da latte scremato in polvere, caffè e zucchero.

ASPETTO. Ogni bustina è riempita con polvere marrone che sembra normale e priva di grumi.

ODORE. Molto blando e dolce. A malapena un sentore di caffè, quindi sarebbe una tazza tutt'altro che profumata e a corto di gusto.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test hanno scoperto 120 UFC per grammo, rendendolo il secondo più alto del lotto. Ma questo, dicono gli esperti, è ancora abbastanza sicuro e non c'era traccia di listeria, ecc.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di marmellata (Scaduto da 6 mesi). Confettura di fragole dal supermercato. È stata conservata in frigorifero, il che potrebbe averne ulteriormente rallentato il declino.

ASPETTO. Fruttato, rosso e confuso.

ODORE. Dolce. Non è molto profumato ma non è destinato a decadere. Mantenerlo freddo potrebbe aver smorzato il suo fascino.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

Olio (Scaduto da 4 anni e 18 giorni) Una bottiglia non aperta di olio di colza aromatizzato al limone, acquistato sei anni fa. Tenere l'olio troppo a lungo (o esporlo a troppa luce o calore) causa la decomposizione delle molecole di grasso, rendendolo rancido.

ASPETTO. Arancione è leggermente torbido, ma non ci sono segni di marciume o muffe.

ODORE. Artificiale; la freschezza sembra essersi attenuata nel tempo.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

Da "tuobenessere.it" il 7 maggio 2020. Una domanda che si pongono in molti a tavola è quella che riguarda i surgelati? Fanno male? Dipende. Se consumati saltuariamente e scelti con attenzione possono risolvere un pasto in modo veloce, sono facili da preparare e dal punto di vista nutrizionale, proprio grazie al congelamento, mantengono intatte le proprietà nutritive, al contrario dei prodotti freschi che si deteriorano in fretta e quindi andrebbero consumati entro breve. Ovvio che se la scelta cade su calzoni e pizze iperfarcite o prodotti conditi con salse al formaggio o intingoli vari, non va bene, soprattutto se state cercando disperatamente di perdere peso o soffrite di ipertensione. Molti surgelati infatti contengono elevati livelli di sodio, di certo non benefici neanche per chi deve depurarsi. Oltre al sodio spesso sono presenti conservanti, un altro buon motivo per consumarli solo di tanto in tanto. Chi è a dieta davanti ad un surgelato farebbe fatica a calcolare la porzione esatta  di cui ha bisogno, i surgelati infatti sono già porzionati e spesso comprendono verdura, cereali e altri alimenti. Per essere sicuri di consumare un pasto bilanciato con tutti i macronutrienti necessari al nostro fabbisogno energetico, spesso occorre aggiungere al surgelato che in media fornisce solo 250 -300 calorie, un contorno di verdura oppure del pesce, carne o un cereale. Consumando il solo surgelato si rischia di andare incontro a carenze nutrizionali e ad un rallentamento del metabolismo dovuto alle poche calorie ingurgitate. Ma perchè non imparare a leggere l’etichetta dei surgelati? In linea di massima perchè un surgelato costuituisca un pasto bilanciato,devono essere indicate le calorie, 250-300, ci devono essere meno di 4 gr di grassi, meno di 800 mg di sodio, una tazza di verdura, 1/2 tazza di cereali, 3/4 di proteine come carne bianca, pesce o carne magra. Vi piacciono i burghy di soia? Controllate che la soia sia indicata come primo o secondo ingrediente.

Tommaso Galli per "corriere.it" il 21 aprile 2020.

Non sempre la data di scadenza determina la fine di un alimento. C'è chi è super organizzato. E divide la dispensa in scompartimenti: le farine tutte insieme e lo scatolame da un'altra parte. E chi invece stipa tutto come se fosse un tetris. In entrambi in casi, però, in questi giorni di quarantena e di grandi spese può scappare una data di scadenza. E così il barattolino di yogurt rimasto nell'angolo, per dimenticanza o noncuranza, finisce per esser buttato via. Ma davvero la data di scadenza determina la fine di un alimento? Nella maggior parte dei casi no. Perché è solo un'indicazione dell'azienda. Ciò significa, anche come riporta il New York Times, che possiamo mangiare i cibi scaduti. Anche a distanza di giorni, a volte di mesi e addirittura di anni. 

In questo modo si diminuisce lo spreco alimentare. Insomma, è sempre bene controllare lo stato di quello che stiamo per buttare. Senza affidarci solamente a quanto riportato in etichetta. Anche perché in questo modo si potrebbe ridurre notevolmente lo spreco alimentare. I supermercati che vendono cibo scaduto esistono già un po' in tutta Europa, ma è quello che possiamo fare giornalmente a incidere di più. Ecco perché è stato portato avanti dalla Tafel Deutschland, organizzazione no-profit tedesca che dal 1993 consegna generi alimentari a chi è più in difficoltà, una ricerca per capire quanto si sbagliano in media, in difetto, le scadenza riportate sulle confezioni degli alimenti.

I risultati. Si scopre così che la pasta e il riso potrebbero essere consumati anche fino a un anno dopo la data di scadenza riportata in etichetta. Come tutto lo scatolame. E addirittura cibi considerati più delicati resisterebbero ancora a lungo. 

Latte. Il latte a lunga conservazione, lo dice già il termine, dura molto di più. Ma anche quello fresco ha un margine di resistenza rispetto alla data di scadenza. Secondo la ricerca, infatti, durerebbe in media sempre un paio di giorni in più. Il consiglio è poi sempre quello di assaggiare. 

Pane. Messo in freezer può durare anche anni. Se lasciato all'aria aperta il rischio, al massimo, è che diventi raffermo. Ma anche se scaduto può resistere, come il latte, qualche giorno in più senza nessun problema.

Uova. Le uova durano a lungo: dalle tre alle quattro settimane. L'importante è saperle conservare.

Formaggi. I formaggi a pasta dura possono tranquillamente essere mangiati oltre la loro data di scadenza. Nel caso in cui si formi la muffa sulla parte esterna, basta tagliarla e consumare il resto.

Riso e pasta. Se conservati in contenitori ermetici o nelle loro confezioni, riso e pasta possono essere consumati anche un anno dopo la data indicata sul retro.

Miele e zucchero. Aceto, miele, vaniglia o altri estratti, zucchero, sale, sciroppo di mais e melassa possono durare praticamente per sempre con pochi cambiamenti di qualità.

Farina. La farina bianca subisce, anche a distanza di mesi, ben poche alterazione. Quella integrale, contenendo il germe di grano, tende però a irrancidire più facilmente.  

Cibo in scatola. I pomodori pelati, il tonno in scatola, i ceci, i fagioli, il mais e tanti altri cibi in scatola possono essere consumati anche dopo un anno dalla loro data di scadenza, ma devono essere conservati in un luogo asciutto. 

·        Il Ricettario di Artusi.

Il testo dell’intervento di Massimo Bottura al Salone del Libro di Torino, pubblicato da “La Stampa – TuttoLibri” il 24 maggio 2022.  

Sono abituato a pensare e studiare le cose in maniera approfondita per poi agire in maniera rapidissima, ad affrettarmi lentamente, festina lente dicevano i romani. Gli ultimi due anni hanno messo tutti a dura prova ma ci hanno anche regalato qualcosa di molto prezioso: il tempo.  

Tempo per pensare, tempo per agire, tempo per creare, tempo per amare. Ma soprattutto tempo per approfondire, leggere, studiare, per andare a fondo. Il mondo va veloce, l'innovazione non si ferma, la tecnologia influenza le nostre vite ogni secondo di più. Il tempo che ci viene regalato è un lusso, e abbiamo la responsabilità di usarlo al meglio per costruire il nostro futuro. 

E per farlo, dobbiamo conoscere il nostro passato, dobbiamo guardarlo in chiave critica, senza perdersi nella nostalgia. Essere contemporanei significa conoscere tutto e dimenticarsi di tutto. Solo a quel punto possiamo guardare avanti, creare qualcosa di nuovo. Solo così possiamo innovare. 

Per questo suggerisco sempre ai giovani che entrano a far parte della Francescana Family di leggere, viaggiare, conoscere il mondo e nel frattempo scavare il più a fondo possibile nella propria cultura per capire chi sono e da dove vengono. È fondamentale riempire la propria valigia di libri, musica, viaggi, arte e poi, solo poi, iniziare a creare. La cultura è l'ingrediente più importante del nostro futuro.

Così il tempo a disposizione l'ho usato per mettere ordine nella cultura. Ho riordinato la mia collezione di vinili, poi sono passato ai libri di cucina. Ho potuto viaggiare nello spazio e nel tempo, dalla cucina nordica contemporanea a quella francese classica di fine diciottesimo secolo. Sono andato in Giappone, poi negli Stati Uniti, sono tornato in Italia per ripartire subito verso il Messico, poi un salto in India.

 Ho girato il mondo, senza mai lasciare Modena. Ho assorbito concetti, rispolverato conoscenze, colto allusioni al volo, piantato semi di nuove idee. Con tutta questa conoscenza a portata di mano, ho coinvolto il mio team in un esercizio culturale. Abbiamo iniziato a scavare a fondo nel nostro passato fino a raggiungere le nostre radici, ricercando e studiando i piatti iconici della storia contemporanea della cucina italiana. 

Abbiamo preso le ricette del nostro passato, i pilastri della nostra storia, e le abbiamo reinterpretate in chiave poetica, filtrandole attraverso un pensiero contemporaneo. Così è nato il menu di Osteria Francescana With a Little Help From My Friends II: pagine e pagine di storia della cucina italiana compresse in bocconi masticabili. Come pagine di un libro, i piatti del menu raccontavano una storia, facendo conoscere gli anni '50, '60, '70, '80, '90 a chi non li ha vissuti, dandogli nuova vita. 

In via Stella non abbiamo né viste sul mare, né su una montagna, tantomeno si intravede la guglia della Ghirlandina. Il nostro paesaggio di riferimento è la cultura, che amplia i nostri orizzonti e apre a infinite possibilità.

Bisogna essere in grado di appoggiarsi al passato, di chiedere aiuto ai propri amici, che possono essere i grandi chef del passato, i membri del proprio team, i libri, i dischi. Di guardare al futuro seduti su secoli di storia, filtrandoli attraverso un pensiero contemporaneo. 

Ho sempre visto Osteria Francescana come una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee dove ogni giorno si produce cultura. Penso che ogni ristorante, anzi ogni cucina di ogni casa sia un laboratorio di idee e cultura. Perché ogni piatto nasce da un'idea. Se lasci la porta aperta all'inaspettato, tutto è ispirazione: un colore, una melodia, un'opera d'arte, un viaggio, un ricordo, un'esperienza o la sovrapposizione di una cultura su un'altra. 

È importante saper cogliere il lampo di luce nel buio, la poesia del quotidiano. Ogni piatto prima di arrivare in tavola era semplicemente un pensiero. La scrittura è lo strumento attraverso cui un'idea diventa reale, tangibile e viene fissata nel tempo. Così un libro è capace di rendere visibile l'invisibile.  

Per questo un libro di cucina è una finestra sul passato, una porta su un mondo, piccolo o grande che sia, che aiuta la mente a proiettarsi nel futuro, a immaginare nuove possibilità. Non per le ricette, le ricette, le grammature non sono mai interessanti, ma per l'ispirazione, il sapere che ci possiamo leggere. 

Pensate all'Artusi, pensate alla potenza di un tale scrigno di conoscenza così piccolo, che puoi tenere tra le mani, sfogliare, annotare, rileggere all'infinito. Poche pagine e uno spaccato su un popolo, su un paese e i suoi contrasti. Un libro tanto leggero quanto denso, poche pagine che hanno unito l'Italia, raccontandone l'identità, la storia, la cultura, l'anima attraverso il cibo. Ogni libro di cucina è un filo che unisce il passato al futuro e piega lo spazio nella nostra mente. Ora più che mai è fondamentale che esista questo libro.

·        Mangiare italiano.

16 sughi facili, veloci, buonissimi per condire la pasta. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. Si preparano in 10 minuti o anche meno e sono il condimento perfetto di primi piatti decisamente saporiti. Idee salva-tempo e (salva-cena) molto saporite

Sughi facili e condimenti

La pasta, il piatto dagli italiani, resta il più versatile, e anche per questo è la risposta immediata quando si ha poco tempo e tanta fame e bisogna mettere in tavola qualcosa da mangiare. Ecco perché è sempre utile avere qualche buona idea di sughi facili e veloci per condirla, che non richiedano troppo impegno ma che siano gustosi.

Abbiamo pensato a 16 idee, dai grandi classici come la carbonara alle paste con il tonno, e poi rivisitazioni facilissime della pasta con i legumi, i formaggi, le verdure, per pranzi e cene da preparare anche in meno di 15 minuti. Continuando a leggere trovate le ricette e le idee

Sughetto di pomodoro

Le conserve in cucina sono una grande risorsa, anche quando si tratta di pomodori. Quelli biologici, in particolare, sono privi di acido ascorbico (un conservante) e per questo il sapore è ancora più gradevole: insomma, un’alternativa perfetta al classico sugo fatto in casa. Per un piatto di spaghetti perfetti, per 3 persone, vi bastano un barattolo di pomodorini, del buon extravergine, uno spicchio d’aglio fresco. Fate così: mentre l’acqua della pasta bolle, fate dorare l’aglio nell’olio e quindi versateci i pomodori e salate. Lasciate che il sugo cuocia finché è pronta la pasta, conditela e buon appetito!

Sugo di tonno «dello studente»

Di varianti di pasta al tonno ce ne sono centinaia, ma quella dello studente - con aggiunta di pomodoro - resta una delle più gustose. Si fa così: si fanno dorare l'aglio e il peperoncino in una pentola con dell'olio, si aggiungono i pomodori pelati (o i pomodorini) e quindi il tonno sgocciolato prima di salare. Il sughetto cuoce finché è pronta la pasta. Poi non resta che condirla.

Pasta tonno e olive

Una gustosa variante sul tema è la pasta tonno e olive. Basta far scaldare in una padella con olio per cinque minuti il tonno sgocciolato e le olive denocciolate, e poi usare il sughetto per condire spaghetti o pasta corta. Un tocco in più? Una manciata di capperi dissalati.

Sughetto di acciughe e pangrattato

Dà molta soddisfazione anche il sughetto di acciughe e pangrattato perfetto per condire gli spaghetti. Per 4 persone bastano quattro acciughe, una dose generosa di extravergine, uno spicchio d'aglio e 100 g di pangrattato. Bisogna far dorare aglio e acciughe in una padella, in un'altra dorare il pangrattato con l'olio (basta mescolare finché le briciole diventano dorate), condire la pasta con la base di acciughe, e poi usare il pangrattato per mantecare prima di servire.

Salsa di noci

Un bell'asso nella manica la salsa di noci: si prepara in pochissimo e ha un sapore particolarmente delicato, anche se si fa qualche strappo alla regola rispetto agli ingredienti tradizionali. Per esempio, l’avete mai provata con le bevande vegetali? Per 4 persone, servono 200 g di noci sgusciate, mezzo bicchiere di bevanda alla mandorle, 4 cucchiai di extravergine, un pizzico di sale. Mettete tutto in un frullatore, partendo dalle noci, e frullate fino a raggiungere la consistenza desiderata. Per una salsa più liquida aggiungete al bisogno acqua di cottura.

Pasta gorgonzola e noci

Con le noci si può arricchire anche la salsa al gorgonzola: basta far sciogliere il gorgonzola in una padella e aggiungere le noci a pezzetti, prima di condire la pasta. Per smorzare il sapore del gorgonzola, si può anche aggiungere un po’ di panna.

Pesto alla trapanese

A Trapani si mangia con le «busiate», ma il pesto alla trapanese è perfetto anche con i fusilli o pasta corta rigata. Per 4 persone servono mezzo chilo di pomodorini lavati e tagliati a metà, 200 grammi di mandorle pelate, uno spicchio d'aglio (a piacere), un bel mazzo di basilico lavato e asciugato, olio extravergine abbondante. Basta mettere tutto in frullatore e frullare. Una volta pronto, con il pesto alla trapanese si può condire la pasta o anche delle fette di pane.

Come fare la pasta alla ricotta

Il più semplice dei primi piatti, probabilmente: per preparare una buona pasta alla ricotta serve una cosa sola (a parte la pasta) e cioè la ricotta. A voi la scelta: pecora o latte vaccino? In entrambi i casi, dopo averla messa in una scodella, va mescolata alla pasta appena scolata. Per un sugo meno denso aggiungete un po’ d’acqua di cottura. Per un tocco da chef: un po’ di pepe o zeste di limone.

La salsa al Parmigiano

Molto saporita, e perfetta per i primi freddi, la salsa al Parmigiano è un altro salva-vita in cucina. Per 4 persone servono 300 g di Parmigiano, 500 g di latte, 50 g di farina e 50 di burro. Bisogna scaldare il latte (senza farlo bollire) in una pentola, e in un'altra pentola far sciogliere il burro aggiungendo la farina a pioggia mescolando una frusta perché non si creino grumi. Il latte va poi aggiunto al burro continuando a mescolare e, una volta che la salsa si è addensata, va aggiunto il Parmigiano mescolando ancora. C’è chi rende la salsa ancora più saporita con tocchetti di salumi come prosciutto e pancetta.

Le orecchiette alla crudaiola

È a prova di incapace la pasta alla crudaiola, eppure dà molte soddisfazioni. Per prepararla, per 4 persone servono mezzo chilo di pomodorini lavati e tagliati a pezzetti, foglie di basilico (più ce ne sono più la pasta è saporita) lavate e asciugate, cacioricotta grattugiato, extravergine. Una volta cotta la pasta (preferibilmente orecchiette, la ricetta è barese), bisogna scolare, mettere in una ciotola, aggiungere - nell’ordine - pomodori, basilico, formaggio e olio, mescolare e servire subito.

Come fare gli spaghetti alla puttanesca

Un classico della cucina napoletana, ormai amato ovunque. Per una puttanesca per quattro persone, oltre agli spaghetti (360 g) servono 400 g di pomodori pelati, 4 acciughe, 200 g olive di Gaeta denocciolate, due cucchiaini di capperi dissalati, uno spicchio d'aglio, peperoncino qb e olio extravergine. Mentre l'acqua bolle e si prepara la pasta si fa il sugo: si fanno dorare le acciughe con l'aglio e il peperoncino, si aggiungono i pelati, si schiacciano con la forchetta e cinque minuti prima di scolare la pasta si aggiungono le olive e i capperi.

Come fare la pasta con i cannellini

Piatto unico? La pasta con i legumi è un compromesso perfetto, e si può fare con pochissimo: basta avere in casa legumi già pronti sotto vetro (contengono meno sale di quelli in latta). Provate, per esempio, i fagioli cannellini, per un sughetto delicato. Fate dorare l'aglio nell'extravergine, aggiungete i fagioli dopo averli scolati, togliete l'aglio, fate cuocere 10 minuti e quindi frullate con il mixer. Nel frattempo cuocete la pasta e tenete da parte un po' d'acqua di cottura per rendere la salsa di legumi più densa. Mescolate il sughetto di fagioli con la pasta e servite.

Come fare la carbonara

Nella carrellata di sughi buoni, facili e veloci, non può mancare la Carbonara. Dato che però la ricetta è uno dei dogmi della cucina italiana, vi suggeriamo quella di un romano doc, nonché chef molto amato: Alessandro Borghese.

Come fare la cacio e pepe

Altra istituzione romana la Cacio e Pepe: per farla servono solo pecorino romano e pepe. No a panna e no a extravergine.

Come fare l’aglio, olio e peperoncino

Serve una certa manualità anche per rendere perfetto il piatto - apparentemente - più semplice della cucina italiana e cioè gli spaghetti aglio, olio e peperoncino che in questo carrellata non potevano mancare. Il segreto è essere di manica larga con l'olio: bisogna metterlo in una padella, dove far dorare aglio e peperoncino, e poi aggiungere nella stessa padella gli spaghetti cotti al dente.

Come fare gli spaghetti al limone

Delicato e di grande effetto: il sughetto al limone è l'accompagnamento perfetto per la pasta fresca (tagliolini in primis) e quella lunga (spaghetti e linguine), e si fa in 5 minuti. Per 2 persone servono 50 g di burro, la scorza grattugiata e il succo di un limone non trattato, 3 cucchiai di olio extravergine. Bisogna mettere in una padella larga olio, burro e scorza di limone, far sciogliere a fuoco d0lce, aggiungere il succo filtrato, e quindi usare la salsina per condire la pasta.

Gemma Gaetani per “la Verità” il 3 ottobre 2022.

«Vuoi vedere che il piatto più rappresentativo del nostro paese è la pasta e ceci?». A dirlo è Arcangelo Dandini, chef romano ambasciatore del gusto a capo di locali come Chorus, L'Arcangelo e Supplizio a Roma e che sta per aprire le porte di Garum a Londra (il 20 ottobre). «Altro che spaghetti al pomodoro...», prosegue. «La salsa di pomodoro l'ha sdoganata Francesco Leonardi alla fine del Settecento. La conserva, Cirio nel Novecento e la pasta secca fino al Novecento si mangiava solo in Campania o quasi...». In effetti, sulle prime, potrebbe sembrare un ragionamento singolare. Ma basta approfondire un po' per rendersi conto di quanto sia fondamentale per la nostra tradizione la pasta e ceci.

Che ritroviamo già presso gli antichi romani. La loro «protopasta» si chiamava lagnum, nome di cui oggi troviamo traccia etimologica in alcune paste - asciutte oppure in pasticcio o in minestra, magari coi ceci - che derivano dall'Impero romano il nome, come le lagane. A Nord, erede diretta di quella pasta è la lasagna. Per alcuni «lagana» e «lasagna» hanno la stessa origine, etimologica e antico-romana, derivando «lasagna» dal greco, da cui il latino lagnum. Per altri invece l'etimo di lasagna sarebbe il latino lasania, dal greco, che indica un tipo di recipiente da cucina.

A prescindere da questo dettaglio, come spiega anche il Gambero Rosso, «forse qualche tipo di pasta era già conosciuta al tempo dei Romani. [...] Ciò che sappiamo per certo è che il metodo più antico usato dai Romani per consumare i cereali era la puls, una polenta piuttosto liquida che, a partire dalla fine dell'epoca repubblicana, venne sostituita gradualmente dal pane. Oltre alla cottura in forno, è certo che i romani usassero friggere gli impasti di acqua e farina, mentre non viene mai menzionata la lessatura in acqua» intesa come la intendiamo oggi, cioè una pasta che si lessa da sola e poi si condisce.

Non c'erano nemmeno tutte le forme odierne di pasta, naturalmente. Ma tutto era in nuce. Nelle Satire, Orazio elogia la vita semplice che consiste, per esempio, nel tornare a casa la sera a mangiare porri et ciceris laganique catinum. Ossia, un bel piatto di porri, ceci e lagnum. Apicio parla di lagnum anche nella ricetta della Torta quotidiana, un pasticcio che ricorda le lasagne o il pasticcio di pasta contemporanei e che prevede strati di farcia di carne, pesce, garum eccetera, alternati a strati di lagnum cioè sfoglia. Lagnum era dunque la sfoglia di acqua e farina di cereali (la cui forma non era unica, né certa) che è alla base di molte paste odierne e che pare fosse grigliata o fritta e solo poi posta in minestra.

Nelle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (VI-VII secolo), la voce «laganum» è indicata come «una pasta larga e sottile, cotta prima nell'acqua, poi fritta nell'olio». Anche nel saggio I napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni» pubblicato nel 1958 sulla rivista Cronache Meridionali, Emilio Sereni ipotizza che la lagana greco-romana fosse un disco di pasta prima lessata e poi fritta o grigliata su pietra rovente, talvolta tagliata a strisce e aggiunta alle zuppe. 

Secondo Sereni, i greci introdussero la lagana in Calabria e così la conobbero i romani. Sono ipotesi: non si può affermare con certezza se questa protopasta si lessasse come oggi oppure no, ma è comunque inconfutabile che il lagnum si usasse a sfoglia grande come la lasagna odierna e anche a strisce che si trattavano come oggi facciamo con le lagane o, per usare un altro termine, i maltagliati. Come si passa dal lagnum agli spaghetti in pacchetto di oggi? 

La prima attestazione della pasta essiccata in Italia, secondo alcune fonti riprese anche da Wikipedia, si trova nel Libro di Ruggero pubblicato nel 1154. Nel testo Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Termini Imerese come zona in cui si fabbrica una pasta a fili modellata manualmente. Al-Idrisi indica questa pasta col termine generico di itriyya, traslitterazione araba del greco itrion che significava «impasto di acqua e farina cotto in un liquido» e si tratta senza dubbio di un'evoluzione del lagnum di epoca romana: per ottenere un filo di pasta da una sfoglia basta tagliare la sfoglia in pezzetti e poi arrotolarli espandendoli, poi seccare anziché friggere, grigliare o lessare.

Lo scrivono anche Silvano Serventi e Françoise Sabban in La pasta. Storia e cultura di un cibo universale (Laterza): «La sfoglia non è più matrice unica per la preparazione di molti altri formati di pasta. 

Ora è in concorrenza con un'altra tecnica, quella del filo o filamento, che consiste nel modellare piccoli frammenti di pasta con le dita o con le mani, facendoli rotolare su un tavolo fino a ottenere un formato di pasta che con un termine generico si chiamerà vermicelli». O anche maccheroni, termine con cui, tuttavia, nel Medioevo si indicavano anche quelli che oggi chiamiamo gnocchi. Si chiameranno anche spaghetti, cioè piccoli spaghi, lemma che entrerà in uso nel XIX secolo.

Questa pasta, una volta essiccata, veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo musulmano e cristiano. Col passare dei secoli l'area campana amplificherà la produzione, specie in luoghi come Amalfi e Gragnano, che presentano un microclima perfetto grazie a vento, sole e giusta umidità. L'invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta (chiamato in napoletano 'ngegno) permetterà una produzione ancora più veloce.

Il resto - cioè il condimento di pomodoro che si diffonde tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo creando lo stereotipo degli spaghetti al pomodoro come la pasta italiana - è storia che conosciamo. Ora sappiamo che molto probabilmente le lagane e gli antichi Romani siano i genitori degli spaghetti, lagnum è la sfoglia antenata della pasta contemporanea e della lasagna, come l'itriyya araba che diventa itrium in latino e poi tria in alcuni dialetti lo è della pasta secca. 

Ed eccoci arrivati alla pasta e ceci. In Campania e Basilicata si chiama lagane e ceci, in Puglia si chiama ciceri e tria e in entrambi i casi si prevede una manciata di lagane o tria fritte in cima al piatto: quello che può sembrare un vezzo è invece un residuo della cottura della «protopasta» dei romani.

A testimoniare il passaggio dalla lagana allo spaghetto sempre in Puglia ci sono anche i laganari, sorta di lagane allungate e arrotolate a diventare spaghettoni. E ci sono le sagne, anche dette sagne 'ncannulate o sagne torte. In Abruzzo si preparano sagne e ceci, in Molise ci sono le sagne a pezzate, in Lunigiana le lasagne bastarde (o matte) e in Veneto le tagliatelle si chiamano... lasagne (e le lasagne pasticcio). C'è poi la laina del basso Lazio, anche questa pasta lunga come le precedenti anche indicata al plurale, laine, o con termini come lacne, làccane o làcchene. 

 La lacna stracciata di Norma è prodotto agroalimentare tradizionale laziale e si ottiene impastando farina di grano duro con acqua e sale, poi stendendo una sfoglia col lainaturo (matterello) e tagliandola in strisce irregolari che si condiscono con sughi poveri come, appunto, il sugo ai ceci. In Le ricette dimenticate della cucina regionale italiana (Newton Compton), Samuele Bovini propone una «antica ricetta» delle «vere lagane». 

Dopo aver impastato semola di grano duro, farina 0, acqua tiepida e sale - spiega - bisogna «scottare il rettangolo di pasta da entrambi i lati su una piastra antiaderente. Lasciar diventare croccanti entrambi i lati, quindi porre l'impasto ancora sulla spianatoia e ricavare con il coltello delle grosse tagliatelle lunghe circa 10 cm e larghe circa 3 cm. Questa pasta va poi bollita in maniera tradizionale in acqua e condita con salse dal sapore molto strutturato, come del ragù dalla lunga cottura o simili».

 Curiosità finale: ne Il grande libro della cucina francese, Auguste Escoffier presenta le Tagliatelle Escoffier. «Per le tagliatelle all'alsaziana», scrive, «è consuetudine, una volta disposte in terrina e pronte per essere servite, guarnirle appoggiandovi sopra una piccola quantità di tagliatelle crude fatte saltare nel burro fino a quando diventano croccanti». Anche fuori Italia ritroviamo delle lagane parzialmente fritte: un altro lascito dei romani.

Luca Ferrua, Direttore de ilgusto, per “la Stampa” il 13 luglio 2022.

Era l'estate del 1983. Un'Italia spensierata ballava in spiaggia con Vamos a la playa dei Righeira e sotto l'ombrellone si spalancavano le borse frigo piene di panini con la carne impanata, prosciutto cotto senza polifosfati, mozzarella e per i più moderni anche insalata di pasta. Le famiglie erano partite all'alba e avevano percorso raccordi, autostrade fino all'ultima curva, quella che poi improvvisamente il mare.

Ricordi potenti. Fatti di crema solare, di un bagno che non si poteva fare perché il pasto era sempre troppo vicino e si rischiava la congestione, di profumi intensi come la parmigiana dei vicini di ombrellone. Rigorosamente in spiaggia libera. La birra per gli adulti o i quasi adulti, la spuma per tutti gli altri. Quelle emozioni le abbiamo vissute tutti. Anche i grandi chef che le hanno raccontate alla nostra Eleonora Cozzella.

«Sotto l'ombrellone - racconta Cristina Bowerman, chef stellata e ambasciatore del gusto - oltre ai cibi sani di mamma che ci proponeva sempre angurie e cetrioli c'era sempre la focaccia barese, soffice con i pomodori nell'impasto e ripiena di mozzarella». Per Anthony Genovese, altro stellato nella nuova Roma del gusto: «Tra le mie cose preferite del pranzo in spiaggia c'erano il panino con le polpette e la fritta di patate». 

 Sapori semplici, di festa. Alessandro Pipero, altra stella della ristorazione romana arrivare al mare era una chimera: «Mangiavo sempre. Papà non voleva si facesse il bagno dopo mangiato e così non ho mai fatto il bagno. Eravamo a Sperlonga con quell'irresistibile borsa frigo piena di pomodori ripieni e fettine panate».

Ricordi intensi di sapore che possiamo ritrovare nelle emozioni di intensa semplicità che ci regala la cucina di questi chef. Memorie di gusto. Come quelle delle spiagge del 1983, quando andare al mare la domenica era una necessità. Si faceva senza pensare. 

Quest' estate, anche se un po' meno spensierata, ci ha ricordato quella del 1983. Per la voglia di spiaggia, di mangiarci, di starci. Anche per chi solo un anno fa non si era mosso per la pandemia ancora dietro l'angolo. Adesso è tra noi ma non ci pensiamo. Non è coraggio o incoscienza è semplice rimozione. 

Così «I piaceri del Gusto», la versione cartacea de «Ilgusto.it» in edicola domani con «la Stampa» ha in copertina «Vamos a la playa» e in 48 pagine tutto quello che c'è da sapere per mangiare al mare. 

Spesso si etichetta la cucina da spiaggia come una cucina minore. Invece mangiare in costume, infradito e pareo può essere un piacere davvero intenso. Martina Liverani ha selezionato 11 piatti che racchiudono il gusto del mare, il sapore della spiaggia. Senza pensieri. Vi racconteremo dove mangiare la migliore frittura di calamari e gamberi, l'impepata di cozze, polpo e patate, risotto agli scampi, spaghetti allo scoglio, spada alla griglia, zuppa di pesce, linguine al nero, calamari ripieni, branzino al sale e anche il baccalà alla vicentina che non dappertutto fa estate ma in realtà è perfetto in questi giorni.

Dopo aver mangiato, e i pasti in spiaggia non erano e non sono proprio leggerezza, era l'ora del gelato e anche qui tornano le icone dalla Coppa del Nonno allo scandalo Calippo, roba da Anni '80 ma icona ben più estesa. E per chi non vuole la spiaggia pop, quella di «bira e calippo», Guido Barendso ha selezionato i migliori ristoranti con viste mozzafiato sul mare da Portofino a Panarea. Senza dimenticare i grandi vini da bere in estate scelti ad uno ad uno da Lara Loreti. E poi, accompagnati da un'insegnate di yoga e da una pr andiamo alla scoperta della nuova Ibiza, mentre Martina Carnesciali ci racconta il gusto segreto di Cagliari. Tutto da scoprire.

Abbecedario. Dalla A di albicocca rossa alla Z di zucca cappello del prete. Gastronomika su L'Inkiesta il 6 maggio 2022.

Ripensare il nostro modo di fare la spesa significa anche guardare il cibo da un altro punto di vista, più sostenibile e umano, e riscoprire un mondo in cui relazioni e persone tornano ad avere il giusto peso. 

Almeno una volta nella vita bisognerebbe frequentare un mercato generale. Perché nel turbinio di bancali pieni di frutta e verdura pronti per essere spediti in tutto il mondo, smistati ai negozi di quartiere o finire sugli scaffali della grande distribuzione, si nasconde un universo sconosciuto ai più. Un patrimonio di forme, colori, sapori messo a rischio dalle logiche della grande distribuzione che ci propina un numero ristretto di varietà più appetibili dal punto di vista commerciale ignorando tutto il resto. Quante varietà di mele esistono? La natura ha molta più fantasia del supermercato: Annurca, Ambrosia, Braeburn, Fuji, Delicius, Granny Smith, Royal Gala, Stark Delicious, Stayman Winesap, Mela Crimson Snow… E così per ogni genere di frutta e verdura, dalla A di albicocca alla Z di zucca: Butternut violina, Hokkaido, turbante, Padana tonda, moscata di Provenza, cappello del prete…

Al mercato ortofrutticolo di Vicenza, tra uno stock di pere William e un bancale di catalogna, Luca Zanon, responsabile marketing di Orofruit, ingrosso di ortofrutta che fattura 8 milioni l’anno, regala pillole di biodiversità ai clienti. «C’è un grande bisogno di fare corretta informazione – spiega – perché le persone si sono allontanate dalla campagna, non sanno più cos’è la stagionalità e se non conoscono un prodotto non lo comprano». L’albicocca rossa, ad esempio, è una varietà poco conosciuta: ha la buccia color arancione intenso, polpa gustosissima ma la gente non sa cos’è e non la compra. È anche una questione di poca fantasia e di mode: «Abbiamo 5mila prodotti diversi ma alla fine le persone chiedono solo avocado, pomodori Pachino, patate e zucchine».

I consumi di frutta e verdura, spiega Zanon, sono in calo costante da dieci anni, ma il prezzo della materia si mantiene alto per non andare in perdita. Discorso diverso per la grande distribuzione che ha puntato sulla quantità anziché sulla qualità. «Il risultato? La gente non vuole più le arance perché sono di importazione, senza succo, o compra il prodotto già pulito e tagliato, per far prima, pagando tre volte il suo prezzo. Chi fa più le spremute? Capita la stessa cosa con le angurie, in estate: scomode da tagliare e troppo pesanti da trasportare, restano sui banchi a marcire. In generale tutto quello che è difficile da maneggiare o ha bisogno di cotture lunghe non ha mercato».

E poi c’è il cibo che, a monte, non raggiunge le nostre tavole a causa di qualche piccolo difetto estetico o intoppo normativo. Può capitare che interi stock vengano rifiutati dalla Gdo perché non conformi oppure che merce destinata all’estero resti invenduta perché nel frattempo è entrata in vigore una nuova norma che ne blocca l’esportazione. In questi casi, beffa nella beffa, il grossista deve anche pagare i costi di smaltimento. Zanon si è inventato un’alternativa alla discarica, vantaggiosa per tutti: compra gli eccessi di produzione a un prezzo simbolico e li rimette in vendita attraverso Too Good To Go, l’app che consente di acquistare a un terzo del loro valore commerciale cibi freschi vicini alla scadenza o con pochi giorni di vita. Oltre ovviamente a rivendere le sue eccedenze. Da febbraio dell’anno scorso a oggi Orofruit ha distribuito quasi ventimila box, circa 200 la settimana, concentrate il sabato. All’interno ci sono dai 5 ai 7 chili di merce, prezzo fisso 5 euro. Zanon ne ha fatto un piccolo business nel business oltre che un veicolo per fare informazione, diffondere la cultura del non spreco e avvicinare una clientela decisamente eterogenea: «Una delle nostre prime clienti a usare la app è stata una signora di 82 anni che faceva la spesa online per la prima volta. Dopo qualche minuto la banca ci ha chiamati pensando che le avessero clonato la carta di credito».

Tra i tanti sprechi che caratterizzano la nostra epoca, quello alimentare è il meno accettabile. Buttare cibo vicino alla scadenza ma ancora buono oppure “brutto” ma perfettamente utilizzabile in cucina, non è più sostenibile. Le strade per diventare virtuosi sono tante: frequentare i mercati rionali, aderire a un gruppo di acquisto solidale (ce ne sono moltissimi in ogni città italiana), cucinare anziché acquistare cibi già pronti sono tutti espedienti per utilizzare al meglio la materia prima. Un modo diverso di fare la spesa e di pensare il cibo che non solo ci fa risparmiare ma aiuta anche il pianeta.

Da Tuttifrutti, a Merate, ingrosso con vendita al dettaglio di frutta e verdura, i cartelli sulle cassette suggeriscono come conservare e consumare frutta e verdura, tra fragole e lamponi “maturi da marmellata” e carciofi mammola “per le prime grigliate di primavera”. Le eccedenze finiscono nelle box, a 3,99 o 4,99 euro, a seconda del peso. C’è anche un piccolo angolo dedicato alle specialità dell’est Europa che la proprietaria, la rumena Iasmina Ranisav, ha messo in piedi pensando ai suoi connazionali. Per la Pasqua ortodossa il paniere era particolarmente ricco di salumi affumicati, dolci e formaggi tipici.

Che si tratti di realtà piccole o grandi, prevedere cosa si venderà e cosa invece resterà sugli scaffali, non è affatto facile. Lazzarini è uno dei più grandi distributori di dolciumi e bevande della Lombardia con un proprio punto vendita al dettaglio nel centro di Bergamo e un ingrosso in provincia, ad Azzano San Paolo. Realtà conosciutissima in zona per la produzione delle caramelle, Lazzarini ha un catalogo vastissimo, dodicimila referenze, attraverso il quale rifornisce ogni giorno la grande distribuzione, negozi di prossimità e bar. Nel periodo che segue le feste si accumula qualche eccedenza e così i prodotti vicini alla scadenza, soprattutto bibite e dolciumi, finiscono nelle box a 9,99 euro.

«Anche il nostro è un prodotto stagionale con dei picchi di produzione e vendita in inverno – chiosa Iacopo Florio, social media manager di Agroittica Lombarda, azienda che nel 2017 ha acquisito Fjord, importatore di pesce affumicato dal Nord Europa – anche se per fortuna le persone hanno imparato a consumare pesce tutto l’anno e non soltanto a Natale».

Fjord rifornisce la grande distribuzione con varietà pregiate di salmone affumicato proveniente da allevamenti certificati in Nuova Zelanda, Scozia, Norvegia e Alaska; ci sono poi il tonno e il pesce spada che vengono pescati in mare aperto, mentre storione e caviale provengono dagli allevamenti di Agroittica a Calvisano, in provincia di Brescia. Un prodotto di qualità, mediamente costoso, che si presta agli accostamenti più diversi, dalla semplice fetta di pane imburrato fino a un sofisticato risotto. «La lavorazione della materia prima viene fatta in Italia – sottolinea Florio – e con la massima attenzione alla sostenibilità per non sprecare assolutamente nulla. Per i prodotti confezionati vicini alla scadenza usiamo le box. Ogni giorno ci sono due slot di consegna che quasi sempre finiscono sold out, uno al mattino e uno il pomeriggio, con due fasce di prezzo: 9,99 o 19,99 euro». Ad acquistarle sono sia clienti che già conoscono il brand e frequentano lo spaccio aziendale sia persone che scoprono il prodotto attraverso la app. Un modo diverso e più consapevole di fare la spesa che sempre più persone dovrebbero adottare, puntando sempre con un occhio al risparmio e con l’altro al futuro del nostro pianeta.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 26 luglio 2022.

Quando la luce di Ponza si colora di tramonto la spiaggia Santa Maria diventa un'attrazione da non perdere per i gourmet. Siamo nel regno di Oreste e di Valentina Romagnolo che nel loro Orerock raccontano, in una cornice coloratissima, i sapori del Mediterraneo mettendo in ogni piatto una gioiosa marcia in più.

«Il menù gioca su una tavolozza ampia di sapori - esordisce Oreste - ma negli ultimi tempi un vero imperdibile è la pasta fredda, una base che si presta molto bene a stuzzicare il palato con tutta una serie di combinazioni e di contrasti. Qualche esempio? Penso ai rigatoni con limone Parmigiano e menta, molto eleganti e delicati, oppure a un tagliolino con emulsione di ricci di mare accompagnato da una quenelle di scampi crudi marinati, davvero tutti i profumi del mare dentro un solo piatto».

D'altra parte, Gualtiero Marchesi, il padre nobile della cucina italiana moderna, era stato il primo a sdoganare la pasta fredda dal ruolo originario di piatto casalingo portandolo nei salotti buoni della cucina stellata. Correva l'anno 1985 e l'idea fu tutta in un contrasto sapiente di spaghetti scolati e raffreddati sotto l'acqua corrente, un giro di olio, sale, pepe ed erba cipollina tagliata fine, con un cucchiaio di caviale sulla sommità, in un crescendo, anche cromatico, di piacere del gusto.

Lungo questo filone gli chef importanti hanno cominciato a esplorare le potenzialità del piatto. Bruno Barbieri, carismatico giudice di Masterchef, impiega le farfalle con una miscela di erbe aromatiche (finocchietto, salvia, maggiorana, basilico, menta), con l'aggiunta di rucola e lupini sgusciati. A seguire fa scolare la pasta sulle erbe, prima di concludere con una emulsione di sale, olio, Parmigiano e paprika dolce.

Allo stesso modo Andrea Berton, stellato allievo di Marchesi, gioca sulla concentrazione di sapori: spaghetto alla chitarra e crema di pomodoro datterino realizzata con sottovuoto di un giorno.

Salvatore Aprea, nel suo luogo di sogno caprese, qualche volta si diverte a servire un mitico piatto di pasta fredda, che è un vero e proprio omaggio alla sua amata isola: spaghetti, acqua di pomodoro, basilico, battuto di scampi e burrata, felice sintesi di mare e di orti sottolineata dalla presenza legante del formaggio.

Non si può tuttavia parlare di pasta fredda senza andare al piatto madre per eccellenza, ovvero la mitica, romanissima Checca. Sarà anche trendy giocare con altre combinazioni tipo gramigna con mango e bresaola, eliche con prugne e tonno, conchiglie con spada e verdure, ma alla fine il potere convocante di una checca fatta a regola d'arte ha pochi paragoni. 

Piatto per certi versi misterioso - su nome e origini ci sono solo congetture - ma è quasi certo che la Checca abbia cominciato a diffondersi negli anni 60-70, con molte variazioni sul tema: Ugo Tognazzi era celebre per una sua Checca sul rogo per la quantità di peperoncino impiegato.

Paolo Borzatta, manager e guru dell'olio a Canino sorride sul tema: «Tutto sta nel fare marinare a lungo gli ingredienti con un grande extravergine, non esitare con l'aglio e lasciare raffreddare a caldo (cioè senza passare gli spaghetti all'acqua fredda). Il frigorifero va sempre dimenticato. Sul formaggio ci sono varie scuole di pensiero. Io preferisco la versione purista, ma il piatto è buono anche con la mozzarella, meglio ancora la caciotta dolce». 

Luca Cesari per repubblica.it il 20 Novembre 2022. 

Al primo Festival de il Gusto "C'è più Gusto a Bologna", in programma a palazzo Re Enzo il 5 e il 6 novembre, una delle protagoniste assolute sarà la pasta. In vista dell'evento, celebriamo il compleanno di una delle ricette più popolari che compie 70 anni: la carbonara. 

La carbonara oggi è uno dei piatti più amati di tutto il mondo, ma forse non tutti sanno che la prima ricetta è comparsa solo nel 1952. Questa versione non si trova su un libro di cucina italiano, bensì americano e, più precisamente, su una guida illustrata dei ristoranti di un distretto di Chicago, scritta da Patricia Bronté e intitolata: Vittles and vice: An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side. Il libro descrive diversi locali dell’area nord del centro di Chicago, tra i quali figura anche un ristorante, Armando’s, in cui si serve la carbonara.

Fin da questa prima ricetta la struttura del piatto è già ben delineata dai pochi ingredienti descritti e non deve sorprendere la presenza di pancetta e parmigiano, un binomio inossidabile che resisterà fino agli anni ‘60 e in qualche caso anche nei decenni successivi. Questa che vi proponiamo è dunque la ricetta “originale” della carbonara. 

Pasta carbonara

Lessare 1 libbra e mezzo di Tagliarini (tagliatelle larghe e sottili) seguendo le istruzioni della confezione. Nel frattempo tritare e soffriggere mezza libbra di Mezzina (pancetta italiana). Scolare le tagliatelle e la pancetta. Prendere 4 uova e un quarto di libbra di Parmigiano grattugiato e sbatteteli delicatamente insieme. Mescolare tutto insieme facendolo saltare in padella. Porzione per quattro.

Dal corriere.it il 7 aprile 2022.

La spaghettata social che unisce tutta l’Italia e oltre. Il 6 aprile di ogni anno si celebra una delle paste più amate: la carbonara. Nella giornata ideata nel 2017 dai pastai di Unione Italiana Food e supportata IPO (International Pasta Organisation), gli appassionati del piatto sono chiamati a condividere sui social ricette, foto e opinioni sull’intramontabile formula pecorino-guanciale-uova, usando l’hashtag #CarbonaraDay. 

Quali sono le sue origini? È meglio il guanciale o la pancetta? Il pecorino o il parmigiano? Le uova intere o solo i tuorli? Non esiste un vero e proprio disciplinare, ma in questo articolo proviamo a mettere un po’ d’ordine e a svelare aneddoti curiosi sul piatto che, nel tempo, ha saputo ritagliarsi un posto in prima fila nella tradizione culinaria italiana, arrivando a essere una delle tipologie di pasta più consumate in tutta la Penisola.

In particolare, sono Roma, Bologna e Milano le città in cui crescono di più i consumi di carbonara, che superano altre specialità romane come amatriciana e gricia. Ma il gusto carbonara si diffonde anche con rivisitazioni che vanno oltre la tradizione più classica. Quest’anno, ad esempio, c’è chi si è inventato nuovi dessert e abbinamenti. Come la gelateria «Gusto 17» di Milano, che nei suoi bon bon speciali ha unito crema all'uovo, salsa di pecorino, pepe nero e coriandoli croccanti di guanciale.

E le giovani start-up The Gin Way e Carbogang, che hanno lanciato l’aperitivo a domicilio Carboidratami: una mistery box provvista di tutti gli ingredienti per portare in tavola un duo portentoso. Carbonara e gin tonic. Tra i nuovi trend ci sono anche rivisitazioni originali come hamburger, supplì, arancini e pizza. 

Ecco allora la ricetta classica, la ricetta perfetta in 15 minuti di Alessandro Borghese, le varianti d’autore, le varianti creative, i consigli di Massimo Bottura e Cattelan e le versioni sbagliate. 

Bastano 15 minuti e qualche attenzione per preparare una carbonara perfetta. Ecco qui la ricetta spiegata passo per passo dallo chef Alessandro Borghese, per un piatto veloce, facile e senza errori. Un modo (quasi) sicuro per avere successo con questo piatto speciale. Spaghetti alla carbonara, la ricetta di Alessandro Borghese per farli perfetti (in 15 minuti).

Cremosa, al dente e ricca di sapore. Una carbonara che si rispetti deve osservare queste tre caratteriste e la sua preparazione non va sottovalutata. La ricetta è semplice e alla portata di tutti ma esistono alcune regole basilari per evitare gli errori più comuni. Dalla scelta del salume - guanciale o pancetta? - alle uova - solo tuorlo o anche albume? -, in questo articolo sfatiamo ogni dubbio su un piatto a dir poco iconico.  

Carbonare horror a parte, le rivisitazioni del piatto si sono negli anni (felicemente) moltiplicate e sono nati supplì, calzoni, tartare, hamburger. E anche gli chef dell’alta cucina, per omaggiare la ricetta, hanno messo a punto declinazioni speciali. C’è quella primaverile, quindi arricchita con asparagi, fave e piselli, quella pop o riletta in chiave siciliana, con uova di tonno, ricci di mare, bottarga e gamberi rossi frullati.

Le versioni della carbonara classica, vegetariana o di mare. Un esercizio dichiaratamente creativo che celebra uno dei piatti italiani più amati. Da Fulvio Pierangelini a Luciano Monosilio, da Giulio Terrinoni a Vito Mollica e poi Raffaele Lenzi e Roberto Toro, ecco le loro ricette d’autore. 

Ogni volta che uno chef, food writer o cuoco amatoriale versa della panna nella carbonara, un cultore della tradizione rischia la crisi di nervi. Parlare di ricette quando si tratta di piatti regionali italiani è sempre un azzardo e, soprattutto quando a proporre rivisitazioni sono siti istituzionali, star o celebrities del food internazionale, il web non chiude di certo un occhio (l’ultimo scivolone a tema è quello della sezione dedicata al cibo del New York Times, Cooking).

La carbonara in particolare è uno dei piatti più rifatti e travisati all’estero. Nigella Lawson, ad esempio, sembra avere un’autentica fascinazione per questa ricetta tradizionale italiana. Nel 2017, con la sua carbonara cremosissima, riuscì a scatenare una pioggia di insulti social. Il passaggio incriminato? 60 ml di panna di troppo. E lo scorso ottobre Lawson è tornata sul web con una nuova ricetta personale del piatto che, ancora una volta, ammette «piccole» variazioni all’originale. 

Ma ci sono anche lo chef celebrity Gordon Ramsay, Martha Stewart, cuoca e regina americana dell’arte del ricevere, Charles Leclerc e Heston Blumenthal che fa infuriare il web.

«Questo piatto ci ricorda l’infanzia e aumenta la serenità». Ad affermarlo è la biologa nutrizionista Martina Donegani, che nel suo ultimo studio condotto in collaborazione con Ubert Eats spiega perché la carbonara piace così tanto. La prima motivazione riguarda la consistenza cremosa: «Quando veniamo al mondo abbiamo una predisposizione a questa sensazione. Alla nascita non ci piace l’amaro, amiamo invece il gusto dolce e apprezziamo le consistenze vellutate e avvolgenti. Palatabilità che, nella carbonara, è data dal grasso rilasciato dal guanciale e dalla cremina del tuorlo».

Inoltre, esistono cibi capaci di stimolare la sintesi di alcuni neurotrasmettitori, come la seratonina, l’ormone del buonumore, creando senso di contentezza e serenità. «Questo si verifica soprattutto in quegli alimenti ricchi di triptofano - aggiunge Donegani -, un precursore della serotonina e contenuto, ad esempio, in uova e guanciale, ingredienti presenti nella carbonara. L’amido della pasta, poi, ne favorisce l’assimilazione ed è proprio per questo che quando la mangiamo ci sentiamo così appagati».

 Laura Larcan per “il Messaggero” il 6 aprile 2022.

La famo strana? La pasta, ovviamente. Tuorlo d'uovo, guanciale, spaghetti, paccheri o mezze maniche, pepe, pecorino, e la formula orchestra in cucina un capolavoro di gusto. Ne sa qualcosa Carlo Verdone, visto che è stato eletto compagno ideale dei romani e degli italiani per degustare la carbonara, un verdetto segnato dalla ricerca Doxa condotta dai pastai dell'Unione Italiana Food (su un campione di 500 intervistati). 

Et voilà, il popolare attore e regista capitolino (suo il mitico «o famo strano» del film Viaggi di Nozze) diventa il testimonial più buono che c'è per il Carbonara Day, la festa dedicata a uno dei primi piatti tipici della Città eterna che va in scena oggi (da mettere in agenda per l'avvenire, il 6 aprile). «Amo la pasta - dichiara Carlo Verdone - è il mio piatto preferito, semplice, creativo. Un vero antidepressivo, è condivisione, aggregazione e buonumore. Sono fiero di essere il portabandiera di questo piatto. Se organizzate, io vengo di corsa, mangio in silenzio e poi vi faccio ridere. Buon Carbonara Day a tutti». E oggi la festa passa per cucine, ristoranti, tavolate. L'occasione è d'oro. 

IL PROGRAMMA Non c'è ristoranti oggi a Roma (e nella Lazio) che non preveda sul menu una citazione dell'illustre iconica pasta. In più, una selezione di bistrot, osteria e aziende agricole romani la celebrano con una Carbonara Special Edition, tra rivisitazioni creative griffate dagli chef e una mise en place con piatti da portata unici scelti nella nuova collezione della storica Churchill 1795. E allora, la famo strana? C'è da scommetterci. 

C'è chi propone i paccheri alla carbonara con spuma di carciofo e caviale di salmone, e chi gioca con le costolette di agnello avvolte nel guanciale e servite con salsa alla carbonara. Chi sorprende con i bottoni di carbonara in vignarola, e chi rilancia con il raviolone con cuore di carbonara fatto con pasta tirata a mano ripiena di crema di pecorino e tuorlo d'uovo di canapa. E persino chi ne fa una questione di dolce, creando un waffle al guanciale, mousse al pecorino, gelato alla cannella, gel di tuorlo e salsa al cioccolato. Tu chiamale, se vuoi, emozioni alla carbonara. 

E non può che essere così, visto che Tripadvisor, il famoso portale guru di viaggi ha pubblicato la sua classifica dei Travellers' Choice Awards 2022 incoronando Roma al primo posto come «migliore destinazione per i food lovers, ossia gli amanti del cibo». 

IL CIRCOLO Per sapere tutto su ricette e curiosità, dibattiti e storia, ultimi libri e trend gastronomiche, rassegne a livello internazionali e museo virtuali, basta consultare il sito del Carbonara Club nato nel 1998 sotto la guida di Stefano Belli all'insegna del motto «Keep calm and eat Carbonara». E non manca la maratona social con invito a condividere la ricetta con gli hashtag #CarbonaraDay e #CarbonaraSharing. L'appuntamento è sui canali social WeLovePasta con i pastai di Unione Italiana Food e lo chef Luciano Monosilio a partire, oggi, dalle ore 12.

IL MISTERO Pensare che quella della carbonara è una ricetta ancora avvolta dall'aura del mistero, in fondo. Animando fior di dibattiti tra storici della cucina. Persino il New York Times intervenne qualche anno fa allettato dall'idea di rivendicare un Dna americano in un piatto sì romanesco, ma che oltreoceano è richiestissimo, tanto da sfidare il tacchino ripieno nel Giorno del ringraziamento. 

Le origini della pasta alla carbonara potrebbero risiedere addirittura in quella Razione K, che Ancel Benjamin Keys il nutrizionista al servizio dell'esercito americano inventò nel 1942 per garantire la sussistenza alimentare dei soldati. Quello che è sicuro è che prima del 1944 la carbonara non esisteva, nè come nome, nè come tipologia di pasta. Solo dopo l'arrivo degli Alleati è comparsa. Non foss' altro che la bibbia della Cucina romana di Ada Boni nel 1930 della carbonara non fa menzione.

Storia e origini della pasta alla carbonara. Beatrice Gigli il 13 Novembre 2022 su Culturaidentita.it.

La pasta alla carbonara, piatto tradizionale della cucina romanesca, è sicuramente il frutto della capacità, tutta italiana, d’improvvisazione culinaria del primo dopoguerra.

Dagli ingredienti provenienti dalle razioni militari degli alleati Americani, uova in polvere e bacon (pancetta affumicata), alle cucine di qualche genio ignoto che ebbe l’idea di mescolare condendo la pasta.

La combinazione tipica americana di uova & bacon con la pasta e il formaggio ne ha stabilito l’immediata fortuna nella Roma appena liberata.

A conferma di questa ipotesi c’è il racconto di Renato Gualandi, giovane cuoco bolognese che nel 1944, in occasione dell’incontro tra la Quinta Armata americana e l’Ottava Armata inglese a Riccione, afferma di avere creato inconsapevolmente un piatto precursore della carbonara: “Gli americani avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza “bavosetti” e furono conquistati dalla pasta”.

Gualandi divenne cuoco delle truppe alleate a Roma dal settembre 1944 ad aprile 1945, periodo sufficiente per diffondere questo nuovo piatto nella capitale. 

Secondo un’altra ipotesi il piatto sarebbe stato “inventato” dai carbonari nel territorio dell’Aquilano, i quali lo preparavano usando ingredienti di facile reperibilità e conservazione.

La carbonara in questo caso sarebbe l’evoluzione del piatto detto cacio e ova (Cace e Ove, in dialetto abruzzese) di origini abruzzesi, che i carbonari usavano preparare il giorno prima portandolo nei loro “tascapane” e che consumavano con le mani.

C’è anche un’ipotesi napoletana che individua in alcune ricette presenti nel trattato del 1837 Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti una possibile origine della pietanza: nella cucina popolare napoletana è usanza, nella preparazione di alcuni piatti, usare ingredienti che si trovano nella carbonara come uno sbattuto di uova, formaggio e pepe aggiunto dopo la cottura.

Ingredienti per 4 persone:

320 g di pasta (rigatoni o spaghetti) 4 tuorli di uova

200 g di guanciale

60 g di pecorino

Sale e pepe

Procedimento:

Portare a bollore abbondante acqua in una pentola. Intanto pulire il guanciale eliminando cotenna e parte col pepe e tagliarlo a cubetti. Scaldare una padella antiaderente e rosolare i cubetti di guanciale per circa 15 minuti a fiamma media, facendo attenzione a non bruciarlo. Quando bolle l’acqua, aggiungere il sale e cuocere la pasta. A parte, separare gli albumi dai tuorli e conservare questi ultimi in una ciotola. Sbattere i tuorli con una frusta e aggiungere il pecorino grattugiato. Aggiungere anche il pepe nero macinato e amalgamare fino a creare una salsa liscia. A cottura ultimata, scolare la pasta nella ciotola e mantecarla alla salsa con l’uovo. Aggiungere i cubetti di guanciale e servire con un’ultima spolverata di pepe e pecorino.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

Aggravante generica: il suo unico fratello, Andrea, è stato chef con Romano Tamani all'Ambasciata di Quistello, due stelle Michelin, e al Divina Commedia di New York, dove pranzava il sindaco Rudolph Giuliani. Aggravante specifica: Alberto Grandi è presidente del corso di laurea in Economia e management all'Università di Parma, capitale universale del cibo made in Italy. È proprio qui che Grandi, docente di storia dell'alimentazione, ha violato, e continua a violare, l'ortodossia.

Il parmigiano? Inventato nel Wisconsin. La pizza Margherita? Non c'entra con la regina Margherita di Savoia. I tortellini bolognesi? Si facevano con carne di pollo. Teorie a dir poco sacrileghe esposte nel saggio Denominazione di origine inventata (Mondadori), dedicato alle «bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», che gli è valso un'entusiastica recensione di Piero Angela a «Quark», ma anche le ire dei consorzi di tutela Doc, Docg, Dop, Igp, Igt, Pat, Stg («delle ultime due sigle ho scordato il significato, credo significhino Prodotti agroalimentari tradizionali e Specialità tradizionale garantita»), per nulla entusiasti di questa sarcastica Doi, acronimo a sua volta inventato di cui non avvertivano il bisogno, ora divenuto un podcast di successo in 12 puntate su Apple e Spotify: 170.000 download in meno di due mesi.

Ha sconsacrato persino la carbonara.

«Fino al 1953 non ne parlava nessun ricettario. Gli ingredienti furono portati nel secondo dopoguerra dalle truppe americane. A bacon e uova, la loro colazione, aggiunsero la pasta. Il gastronomo Luigi Carnacina se ne attribuiva la paternità. Il collega Luigi Veronelli gli chiese: "Ma perché le hai dato questo nome?". La risposta fu: "Non me lo ricordo"». 

Lei sostiene che la cucina tricolore ha 50 anni scarsi di vita. Tesi bizzarra.

«L'Italia da un bel po' non crede più al futuro, così ha inventato un fastoso passato. La verità è che eravamo morti di fame. Mangiavamo poco e male. Poi abbiamo cominciato a mangiare tanto e male. Alla fine ci siamo raccontati di aver sempre mangiato tanto e bene».

Debbo smentirla: la «castradina» che Giorgio Gioco cucinava con l'agnello al 12 Apostoli di Verona veniva dagli schiavi della Serenissima prelevati in Dalmazia.

«Guardi, il tanto celebrato Pellegrino Artusi, che nel 1891 compila La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, raffazzonò ricette. E consigliò di copiare da tedeschi e inglesi, non dai francesi, giudicati troppo raffinati per i nostri palati». 

E il «De re coquinaria», mi scusi?

«La cucina romana raccontata nel I secolo da Marco Gavio Apicio non sarebbe riproducibile ai nostri giorni. Pensi solo al garum, la salsa più diffusa a quell'epoca: scarti di pesce fatti marcire nel sale». 

Quando finì la fame italica?

«All'inizio del XX secolo, con l'avvento della meccanica e della chimica in agricoltura. Dal 1876 al 1915 ben 20 milioni di italiani vanno a cercarsi il cibo all'estero. Un contadino veneto su tre soffriva di pellagra, cioè carenza da vitamina PP, abbreviazione di "Pellagra preventing", scoperta negli Stati Uniti solo nel 1937. I medici americani la paragonavano a una peste portata dai nostri connazionali, abituati a consumare 3 chili di polenta pro capite al giorno. Si toglievano la fame, ma si ammalavano. Cesare Lombroso studiò per primo la patologia. Giunse a una conclusione sballata: ritenne che a causarla fosse la cattiva conservazione del mais, non la dieta monotona. È in tal modo che nacquero i granai pubblici. Un bel caso di eterogenesi dei fini».

Apollinare Veronesi, magnate del pollo Aia, mi disse: «Quando ai miei tempi si tirava il collo a una gallina, o c'era un malato in casa o era malata la gallina».

«Infatti nei tortellini l'Artusi mette carne di pollo. Solo nel 1974 la Camera di commercio registrerà la ricetta del "vero tortellino di Bologna" fatto con lombo di maiale, prosciutto e mortadella». 

Secondo un altro disciplinare camerale, il mitico ragù alla bolognese prevede il latte. Nessuno se n'è mai lamentato.

«Sì, ma risale al 1982, quando era in auge la panna da cucina. Questo per dire l'artificiosità di certe operazioni». 

Mi indichi un piatto di sicuro italiano.

«È dura. Mi hanno crocifisso per aver scritto che le pizzerie nacquero in America, eppure fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada. Bravo il napoletano Raffaele Esposito a inventarsi nel 1889 d'aver ideato la Margherita in onore della regina d'Italia, giunta a Capodimonte con Umberto I. Negli Usa era un cibo per disperati, vivamente sconsigliato dai medici, al pari dei maccheroni».

Ma lei attribuisce agli yankee persino il parmigiano, si rende conto?

«No, io dico che piaceva già a Boccaccio e che Napoleone mandò Gaspard Monge a Parma, affinché indagasse su un formaggio che si conservava bene. Solo che in questa città non c'erano le vacche da latte, per cui fu mandato a Lodi, da dove inviò all'imperatore un rapporto sul "fromage Lodezan dit aussi Parmezan". C'è un buco di 150 anni, dal 1700 al 1850, nella storia di questo eccelso prodotto. Oggi si fa un gran parlare del parmigiano contraffatto, però fu alla fine del XIX secolo che comparve nel Wisconsin il tanto deprecato Parmesan, in forme di circa 20 chili e con la crosta nera. Chi lo produceva? Qualche casaro italiano emigrato là. Ne cito uno solo: Magnani. Un cognome molto diffuso fra Parma e Mantova. Soltanto nel 1938 spunta il primo consorzio di tutela del Parmigiano reggiano». 

E quella degli spaghetti che sarebbero nati in Africa che storia è?

«Oggi la pasta si fa con il frumento Creso, in commercio dal 1974, che ha soppiantato il famoso Senatore Cappelli. C'entra la "battaglia del grano" intrapresa da Benito Mussolini, giacché un terzo della materia prima per il pane dipendeva dalle importazioni, con pesanti ricadute sulla bilancia commerciale. In soccorso del Duce venne il genetista Nazareno Strampelli. Fu lui a inventare il grano duro dedicato al senatore Raffaele Cappelli, che per primo aveva finanziato le sue ricerche. Attraverso pazienti incroci, l'agronomo marchigiano creò una varietà assai produttiva e resistente alle malattie: il grano Ardito. Ma ci arrivò utilizzando una varietà trovata in Tunisia».

Insomma, c'è qualcosa di solo nostro?

«L'aceto balsamico tradizionale di Modena, che nella versione Igp, la meno nobile, è una delle cinque leccornie più esportate insieme con Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosecco e Prosciutto di Parma. Peccato che l'originale costi 10.000 euro al litro e richieda almeno 12 anni d'invecchiamento, che possono arrivare a 30. Il rischio d'impresa è enorme: alla fine una giuria decide a chi concedere il bollino. Il succedaneo si fa con mosto, aceto di vino e caramello. Un'operazione commerciale scaltra».

Che l'avrà fatta inorridire.

«Ma no, sono onnivoro, passo indifferentemente dal McDonald's ai grilli fritti che ho mangiato a Pechino. Oggi solo uno yogurt e una banana. Sono a dieta». 

Ricorda un cibo della sua infanzia?

«Sì, ed è tristissimo rievocarlo, nonostante a Mantova fosse il piatto tipico della domenica: ris e tridura, riso bollito nel brodo, con l'aggiunta di uovo sbattuto e parmigiano a fine cottura». E un sapore perduto per sempre? «Il fiapòn , un dolce. Si friggevano in una padella unta gli avanzi di polenta e si spolveravano con zucchero a velo».  

Ma a chi dovrebbe importare se un cibo è nato davvero in Italia o altrove?

 «Certo non a me. Basta che sia buono e non faccia male. Tuttavia detesto la mistica del made in Italy: puro marketing».  

Il pomodoro ciliegino mi pare buono. 

«Certo. E pensare che i coltivatori di Pachino non lo volevano, preferivano dedicarsi al cuore di bue insalataro. A brevettarlo nel 1989 fu la Hazera genetics di Tel Aviv, alla quale ancor oggi i siciliani pagano le royalty per le sementi».  

Pure il lardo di Colonnata è delizioso. 

«Chi dice di no? Fantastico. Ma è mai stato in quella frazione delle Alpi Apuane? È così minuscola che faticherebbero a starci due maiali. E infatti conosco allevatori mantovani che forniscono il lardo da stagionare nelle conche di marmo. Trattandosi di un'Igp, indicazione geografica protetta, non è obbligatorio il legame fra territorio e materia prima». 

Che cosa insegna ai suoi studenti? 

«Come ha mangiato l'uomo prima della scoperta del fuoco. L'idea che si nutrisse di ciò che cacciava è fasulla».  

Di che si nutriva, allora? 

«Gli ominidi erano divoratori di carogne, al pari degli avvoltoi e delle iene».  

E ti pareva! Che schifezza. 

«Non me lo sono inventato. Basta leggere Storia dell'alimentazione di Jean-Louis Flandrin, un tomo di 750 pagine curato dal medievista Massimo Montanari, studioso supremo della materia. È stato mio professore e in seguito abbiamo insegnato insieme per due anni. L'uomo cacciatore l'ha creato l'antropologia per riabilitare i nostri antenati».

Non crede che la Denominazione di origine inventata danneggi una delle poche industrie nazionali ancora floride? 

«È quello che mi rimproverò il mio concittadino Gianni Fava quand'era assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia: "Se tu togli a un piatto la storia, lo privi di un ingrediente". Aveva ragione. Mi ha messo in crisi. Sono stato invitato a parlare della tavola tricolore ad Ankara. Prima della partenza, mi hanno detto: "Stia attento a come parla..."». 

Viviamo in una civiltà gastrica.

 «Eccome. Sul food si gioca una partita sproporzionata, quasi che l'italianità passasse dalla difesa dell'amatriciana». 

Torneremo a patire la fame? 

«Non credo a una carestia in Italia. Il grano russo e ucraino che sfama l'Africa lo daranno a noi. Lo paghiamo di più».

Falsi amici. L’equivoco della braceria e la scelleratezza onomapoietica dei ristoratori. L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Questo neologismo ormai è stato accettato, ma ricondurre la sua origine alla brace sarebbe un classico caso di rietimologizzazione, conseguente all’ingannevole suggestione di un termine straniero quasi omofono: brasserie.

C’è qualcosa di nuovo, da qualche anno, nel panorama della ristorazione, anche se si ammanta d’antico. È la “braceria”. 

Che cos’è una braceria? Il vocabolario Treccani, unico tra i maggiori dizionari ad accogliere la voce – dal 2018, come neologismo – ne dà questa definizione: «Ristorante specializzato nella preparazione di pietanze cotte alla brace». Dunque, braceria da brace, con l’aggiunta del suffisso -eria, come in pizzeria, gelateria, macelleria eccetera.

Tutto chiaro? Fino a un certo punto. Perché se indubbiamente plausibile è il fondamento etimologico, non è detto che sia da premesse etimologiche che la parola nuova abbia preso le mosse. Riesce difficile sfuggire al sospetto che abbia agito l’assonanza con una parola francese, brasserie, che non vuol dire però braceria bensì birreria e non ha niente a che fare con le braci (tutt’al più con il celebre romanzo di Sándor Márai, se il patron ne tiene in sala una copia). 

La brasserie è un popolare ristorante transalpino, semplice ma con qualche pretesa nel décor, insomma un gradino sopra il bistrot, dove è possibile consumare – oltre alla birra originariamente prodotta in loco – frutti di mare, affettati, insalate, crauti (retaggio alsaziano), carne con contorno di pommes frites: preparazioni che o non necessitano di cottura, o si contentano di normali fornelli. Il nome viene dal verbo brasser, fare la birra, che deriva dal latino parlato braciare, a sua volta costruito su un sostantivo latino di origine gallica, braces, ossia malto, che come è noto è l’ingrediente più importante della birra. Un bel ping-pong tra lo Stivale e l’Esagono, in cui però l’ultimo scambio fallisce e manda fuori la pallina.

Se le cose stanno così, possiamo a buon diritto ascrivere brasserie alla dispettosa famiglia linguistica dei “falsi amici”, vocaboli che hanno grafia o suono simili in due lingue diverse, ma significato differente e a volte opposto – come l’inglese brave che non vuol dire bravo ma coraggioso, il francese déjeuner che sta per pranzare e non per digiunare, il tedesco Blatt che non è una blatta ma una foglia, lo spagnolo burro che indica l’asino. Ricondurre “braceria” alla brace sarebbe dunque un classico caso di rietimologizzazione, conseguente all’ingannevole suggestione di un termine straniero quasi omofono. 

Nulla di male, beninteso. Per quanto incidentale, l’etimologia regge e la parola nuova che ne è giustificata denota efficacemente uno specifico esercizio pubblico destinato alla ristorazione. Però, però…

Di norma nella denominazione generica degli esercizi commerciali si fa riferimento a ciò che si serve o si vende, o al limite a chi serve o vende, non a come (con quale strumento) lo si fa: ad esempio, per restare nel campo alimentare, si parla di pizzeria e non di forneria, e analogamente si dice salumeria, macelleria (dal latino macellum, mercato delle carni), gelateria, cioccolateria, caffetteria (dallo spagnolo cafetero, venditore di caffè), vineria, pasticceria, osteria (che spesso si trova antichizzato in hostaria, dal latino hospes, ospite, attraverso il francese oste, ostesse), trattoria (anche qui, dal latino tractare, preparare, mediato dal francese traiter), fino ai più recenti bruschetteria, ravioleria, bisteccheria, hamburgeria, fassoneria (ristorante che serve carni piemontesi di razza fassona) e via neologizzando.

La stessa regola vale al di fuori del campo alimentare (libreria, cartoleria, tabaccheria, gioielleria, fotocopisteria), nonché nei nomi formati con il suffisso -teca (enoteca, paninoteca, biblioteca, emeroteca, da qualche tempo anche vinoteca, che fa più fine di vineria). “Braceria”, con la sua (meno intrigante) gemella “griglieria”, sembrerebbe l’eccezione in cui viene invece messo in primo piano il mezzo, in questo caso il combustibile. 

Perché? Bisognerebbe chiederlo ai diretti interessati, i ristoratori che sono caduti nel trabocchetto dei falsi amici. Parrebbe proprio che siano loro i responsabili del neologismo, o perlomeno della sua diffusione, come si può congetturare dalla lontana attestazione segnalata dalla Treccani. Si trova sulla Stampa dell’8 luglio 1995, siamo andati a cercarla: “il ristorante xy”, si legge, «offre un vantaggiosissimo menù braceria a 30 mila lire con carni per tutti i gusti».

Era una cosiddetta pagina redazionale, ossia con articoli non firmati di carattere pubblicitario, dedicati alla ristorazione nel Savonese e redatti su materiale fornito dai committenti. Negli anni successivi è stato un crescendo, nelle inserzioni sui giornali e negli spot sulle radio locali. C’è nella parola una sorta di magico potere attrattivo, evocativo di sensazioni forti, un senso di antica coinvolgente rusticità, qualche cosa di primitivo e ardente (come la bragia negli occhi di Caron dimonio) che scalda la fantasia.

Potrà non piacere (a me per esempio non piace), ma questo è nulla rispetto alla scelleratezza onomapoietica a cui si lasciano andare osti (della malora!) e affini, quando si tratta di dare un nome al proprio locale. Se è simpatico il ricordo di un ristorante torinese, ora passato di gestione e più volte rinominato, che trovandosi in corso Dante si era ribattezzato RistoDante, o apprezzabile, ai giorni nostri, l’arguzia della catena Poormanger, che gioca espressivamente con l’inglese e il francese (ma anche con il piemontese), che dire del panorama più vasto?

Qui la fantasia (malata) si scatena, tra giochi di parole usurati (chi non si è mai imbattuto in un Bar-lume, anche prima che diventasse il punto di ritrovo dei vecchietti investigatori di Marco Malvaldi?) o temerari (Sans soushì), funambolismi linguistici (Aperificio, Pizzacoteca), calembour allusivi (Zio pane, Zio pagnotta), incontinenze vernacolari (Boia fauss, Cammafà), strizzate d’occhio (Velavevodetto), cervellotiche grafie (Kettepare) e chi più ne ha più ne (o)metta. Se è vero che nomina sunt consequentia rerum, prima di entrare pensateci due volte.

L’affermazione del cibo italiano in Germania è l’ultima conquista del Novecento. VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO su Il Domani il 07 febbraio 2022

Con Dieter Richter, autore di Con gusto, ricostruiamo prima la repulsione dei tedeschi e poi la riscoperta e l'affermazione della cucina italiana.

«Per digerire questa pizza ci vuole lo stomaco di un lazzarone». Non erano teneri i tedeschi e gli altri stranieri in viaggio in Italia verso il cibo italiano. Anzi: erano convinti che il cibo italiano fosse qualcosa di immangiabile. Così, se il Grand Tour in Italia è stato qualcosa che per secoli doveva essere presente nel curriculum di ogni intellettuale europeo che volesse definirsi tale, circostanza che segnava la centralità culturale del nostro paese, lo stesso non può dirsi per il lato gastronomico. Anzi: appena arrivati in Italia la stragrande maggioranza dei visitatori tedeschi cercava la cucina di casa, una osteria tedesca dove liberarsi dal cibo italiano.

È così che comincia la storia di oggi che i Barbari raccontano con il professor Dieter Richter, autore di Con gusto, libro uscito per la casa editrice Wagenbach, un'autentica istituzione per tutti quelli che, tedeschi o italiani, si interessano dei rapporti tra i due paesi. Dieter Richter, inoltre, ha all’attivo molti libri proprio sull’Italia ed è curatore di una mostra che aprirà i battenti a Monaco il prossimo ottobre dedicata al Vesuvio.

Puoi ascoltare il podcast direttamente qui o sui canali social dei Barbari.

STORIA DI UNA DIFFIDENZA

Una storia che comincia, dunque, con una diffidenza verso la cucina italiana. A guidare gli intellettuali tedeschi, e di tutto il Nord Europa, è una sorta di “nazionalismo gastronomico”, come lo chiama Richter: nell’Ottocento la Germania ancora non esiste come realtà politica unitaria e i primi liberali con l’idea di una unificazione nazionale s'incontrano proprio a Roma, nelle osterie dove si mangia tedesco, e forse sono tra i primi a esporre il tricolore tedesco, simbolo di quella unificazione che arriverà solo nel 1871 ma con le guerre di Bismarck ed escludendo l’Austria.

Passa un secolo e nel Novecento le cose cambiano. Richter ci accompagna tra le strade di Brema dove arriva il primo gelataio italiano. Con il suo carretto con i vari gusti era a suo modo un pioniere: convincere i tedeschi che fosse possibile (e non ci fosse nulla di male) mangiare per strada. Era iniziata, anche in Germania, la moda dello street food.

Che sarà inarrestabile con l’arrivo, dopo la Seconda guerra mondiale, dei Gastarbeiter, i lavoratori ospiti. A quel punto l’Italia è sinonimo di buona cucina, di clima mite e di vita tranquilla. Pizza e gelato s’impongono in pochi anni come espressione più tipica del made in Italy. È il fenomeno che Richter chiama la meridionalizzazione del Nord.

Non ne è esente nemmeno il ‘68: presi dal voler contestare le generazioni più anziane, accusate di aver quantomeno taciuto di fronte al Nazionalsocialismo, gli studenti decidono che persino la cucina vada de-nazionalizzata. Mangiare tedesco, in quegli anni, soprattutto a sinistra, è connivenza con il nemico. Sempre la casa editrice Wagenbach, ricorda Richter, pubblica un libro di ricette per le Comuni e le case occupate: gli spaghetti italiani non possono mancare.

Oggi il fenomeno si è in parte interrotto, perché la globalizzazione cambia la prospettiva e ne impone di nuove. Il gelato ad esempio si è internazionalizzato: non è più un fenomeno solo italiano o che deve necessariamente rimandare all’Italia, come aveva pensato l'inventore dello Spaghetti-Eis, che proprio per dare ulteriore italianità al suo gelato, con uno schiacciapatate ricavava da una pallina di vaniglia una sorta di spaghetti su cui versava una salsa di fragole, per dare l’idea di un classico e italianissimo piatto di spaghetti.

Tutto finito? In realtà no: «In Germania l’italiano è una lingua utilizzata moltissimo, il rapporto tra i due paesi è ancora molto, molto forte».

VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO.

Veronica Cirillo, classe 1980, giornalista. Ha abitato in molti posti e vissuto in pochi. Ama l'autunno, ma ora vive un'emozionante primavera.

Fernando D'Aniello, nasce a Scafti nel 1982. Da dieci anni vive a Berlino. Annoia i suoi amici straparlando di politica tedesca.

·        Sovranità alimentare.

Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 22 novembre 2022.

Oggi l'Italian Food è un mito planetario. Ma non è sempre stato così. A lungo il cibo tricolore è stato considerato un mangiare da poveri, cattivo e insalubre. A dirlo è lo storico Dieter Richter professore all'Università di Brema in Con gusto. 

Il Grand Tour della cucina italiana, un bellissimo libro appena uscito da noi per le Edizioni del Centro di Cultura Amalfitana. Secondo l'autore, fino alla metà del Novecento la nostra è stata considerata una cucina di serie B. E molti piatti che adesso hanno scalato le vette del gusto globale erano ritenuti quasi immangiabili.

A cominciare dai suoi alimenti simbolo. Scrittori del calibro di Alessandro Dumas considerano la pizza una focaccia indigeribile e a rischio di soffocamento. Carlo Collodi la vede come una fonte di infezioni. Non va meglio per gli spaghetti che ai viaggiatori arrivati da tutta Europa e dagli Stati Uniti appaiono un groviglio di "vermi giallo-grigi formato da sabbiosi maccheroni duri come il sasso". Qualcuno arriva a dire che gli italiani riescono a mangiare la pasta grazie a una deformazione della gola, la stessa deformazione che consente loro di cantare così bene. 

Tutti questi stereotipi si rovesciano nel corso del Novecento soprattutto grazie ai nostri migranti che portano negli Usa i loro piatti. E proprio da Oltreoceano parte la riscossa italiana. 

Grazie anche a testimonial eccellenti come Ancel Keys e Margaret Haney, scopritori della dieta mediterranea, che propongono al mondo la nostra gastronomia popolare come garanzia di gusto, di benessere e di sostenibilità. Il resto è storia d'oggi. E a farla sono gli chef, i pizzaioli, i gelatai e i produttori che portano la nostra cucina ai quattro angoli del globo. Facendo del gusto la vera punta di diamante del Made in Italy.

Made in Italy e sovranità alimentare, ma intanto la siccità lascia senz’acqua l’agricoltura. Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022.

«C’è bisogno che l’Italia esporti all’estero e per farlo bisogna difendere la qualità dei prodotti italiani dagli altri che cercano di copiarci in malo modo». Con queste parole il ministro Francesco Lollobrigida ha spiegato il motivo per cui il suo dicastero si chiama «dell’Agricoltura e della sovranità alimentare e forestale». I prodotti da esportare però bisogna anche averli.

La siccità riduce il made in Italy

I numeri di alcuni dei principali prodotti del made in Italy – grano, pomodori e olio – dicono il contrario: tutti con il segno meno. Dai dati Istat elaborati dai Consorzi agrari d’Italia, nel 2022, nonostante l’incremento di circa 10 mila ettari coltivati, la produzione di grano duro è diminuita, rispetto all’anno scorso, del 7,4% e quella del grano tenero del 9%. Anche per il pomodoro da industria la Coldiretti stima una produzione di pelati, passate, polpa e concentrato scesa dell’11% rispetto al 2021. E per la campagna olearia, Unaprol stima un calo del 30%. Pure la vendemmia ha avuto un calo di produzione del 10%. Complessivamente le imprese agricole hanno perso 6 miliardi di euro. A causa soprattutto del cambiamento climatico e della siccità, del caro energia e conseguente aumento dei costi dei concimi. Un problema mondiale, quello della carenza di acqua, che per l’Italia ha, però, un peso specifico molto elevato. Nel modello agricolo made in Italy, secondo il Centro studi Divulga, il 42% della produzione ha bisogno di irrigazione perché l’acqua piovana non basta. Un dato che colloca l’Italia nelle prime posizioni in Europa, preceduta solo da Grecia (54%) e Malta (47%).

Il cuneo salino del Po

Il distretto del Po, con i suoi 141 affluenti, genera il 40% del Pil italiano fra produzione agricola, industriale, zootecnica, idroelettrica. Un modello costruito su un’abbondanza d’acqua che da quasi trent’anni non c’è più, però si è continuato a utilizzarne più di quella disponibile. La portata media annua del Po degli ultimi 10 anni è di 1.470 metri cubi al secondo mentre il prelevato, ovvero l’insieme dei diritti di prelievo delle concessioni, è di 1.850, perché quei diritti, che risalgono a decenni fa, non sono mai stati aggiornati. La conseguenza è il cuneo salino: quando la portata del fiume è sotto i 450 metri cubi al secondo, l’acqua del mare risale lungo il corso del fiume, rendendola inutilizzabile per l’irrigazione. A luglio era di 160 e così per la prima volta l’acqua salata è entrata nel Delta per 40 chilometri generando un processo di desertificazione irreversibile su 30.000 ettari di terreno. Compromessi i raccolti di grano, mais, soia, erba medica. A inizio novembre l’ultimo punto di rilevamento a Pontelagoscuro (Ferrara), il livello era di 740 metri cubi al secondo, ben al di sotto delle medie di periodo pari a 1.750.

Gli interventi chiesti dal 2014

Dal 2014 esiste il piano Strategico nazionale per l’adattamento ai mutamenti climatici pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente, con indicate le tappe per mitigare i danni della siccità: 1) costruire invasi per trattenere l’acqua piovana da utilizzare quando serve; 2) riprogettare i canali di irrigazione, che sono ancora quelli scavati nella terra e con enormi dispersioni; 3) investimenti tecnologici in sistemi di irrigazione intelligente; 4) riprogrammare le coltivazioni in base alle risorse idriche disponibili. Partiamo dagli invasi, cruciali per la raccolta dell’acqua piovana: a livello Paese siamo in grado di trattenere solo il 10%; in Spagna, con un clima più arido del nostro, la percentuale sale al 50%. Coldiretti ha stimato che occorrerebbero 10 mila bacini di accumulo: mille laghetti in montagna e alta collina da realizzare con i fondi del Pnrr; 6 mila piccoli invasi aziendali da realizzare con i Fondi dello Sviluppo rurale, e 3000 di dimensioni più grandi con le risorse europee del Fondo di sviluppo e coesione.

Cosa si sta facendo?

Il piano contro la crisi idrica di Roberto Cingolani prevedeva 4,3 miliardi complessivi del Pnrr così distribuiti: 600 milioni in capo al Mite (oggi ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica) per la depurazione delle acque, 880 milioni per il sistema irriguo in capo al Mipaaf (oggi ministero dell’Agricoltura e sovranità alimentare), 900 milioni per ridurre le perdite delle reti più 2 miliardi in infrastrutture idriche in capo al Mims (oggi ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti). I bandi per ridurre le perdite sono già partiti con il vecchio governo: la prima fase si è chiusa con l’assegnazione di risorse per 607 milioni, per la seconda da 293 milioni si attende la graduatoria finale delle proposte di interventi al ministero, ora guidato da Matteo Salvini. Per i 2 miliardi da investire in infrastrutture idriche, solo 350 milioni sono destinati a 20 grandi bacini. Troppo pochi, e comunque non c’è ancora nessun progetto. Eppure quanto sia urgente la neo premier Giorgia Meloni lo sa molto bene: a luglio scorso, con l’agricoltura in ginocchio per mancanza d’acqua e temperature record, ha accusato pesantemente il governo in carica per non aver costruito invasi.

Dighe senza manutenzione

Nulla si muove anche sui vecchi invasi, a partire dalla diga del Pappadai (vicino a Taranto), opera idraulica abbandonata e mai utilizzata. Il presidente della Commissione Bilancio e programmazione della Regione Puglia Fabiano Amati ha fatto il conto di quanti litri d’acqua sono andati persi nell’ultimo triennio dalle dighe nel Mezzogiorno. Si è dovuto aprirle per riportare l’acqua al di sotto del massimo invaso autorizzato. Causa: la mancata manutenzione. Sono usciti 166 miliardi di litri (51 dalla diga di Conza, 48 da quella del Pertusillo, 67 dalla diga di Monte Cutugno) e finiti in mare perché non ci sono impianti di raccolta lungo i fiumi. Il fatto grottesco è che i soldi per la manutenzione ci sono ma non viene fatta per motivi burocratici. Sul territorio nazionale le grandi dighe che hanno bisogno di essere sistemate sono un centinaio, tutte con un’età media di 60 anni.

Irrigazione intelligente

Intanto l’acqua che c’è non va dispersa. Secondo lo studio dei Consorzi agrari d’Italia con l’irrigazione goccia a goccia si possono raggiungere livelli di efficienza del 50%, sia in termini di risparmio idrico che energetico. Le produzioni più idroesigenti sono quelle di frutta e ortaggi. Non lo è il mais, ma se invece di fare un raccolto l’anno per il cibo da dare agli animali se ne fanno tre per fare biomassa (perché è più redditizio), allora il consumo d’acqua diventa enorme. Questo avviene nella Pianura Padana, dove gran parte dell’acqua utilizzata dagli irrigatori a pioggia che scorrono sui campi anche nelle ore più calde del giorno, evapora. In base ai dati delle sperimentazioni di Consorzi Agrari d’Italia e Ibf Servizi emerge che con l’agricoltura di precisione per ogni ettaro di mais è possibile ottenere in media un risparmio idrico annuo del 10% con 360 m3 di acqua in meno. I consumi si riducono del 12% per gli ortaggi, con 600 m3 in meno per ettaro. Si arriva al 15% per i frutteti (risparmio di 630 m3/ettaro) e al 20% per le coltivazioni come la barbabietola (840 m3/ha in meno). Un beneficio per l’ambiente e costi inferiori per le aziende agricole tra acqua risparmiata e quantità ridotte di gasolio utilizzato per il pompaggio.

Adattamento delle colture

Cruciale infine programmare le coltivazioni in base alle risorse idriche disponibili, che significa selezionare le specie vegetali che richiedono poca acqua e promozione di incentivi per l’adozione di pratiche agricole più sostenibili. Ma bisogna pianificare ora, perché in assenza di acqua i nostri paesaggi cambieranno: nelle zone a nord del Po le coltivazioni di mais o soia verranno gradualmente sostituite da girasole e sorgo. Anche al Sud, in assenza di interventi strutturali e migliori tecniche di irrigazione, si rischia di perdere coltivazioni tradizionali orticole a partire da pomodoro, patate e ortaggi che richiedono importanti quantità di acqua. Dopo aver fatto tutto questo, si potrà pensare alla sovranità alimentare. Ma solo dopo.

La giusta Sovranità Alimentare contro i plagi nel mondo. Vincenzo Caccioppoli il 28 Ottobre 2022 su Panorama.

Pemesan, Prosek, il mondo ci invidia e soprattutto ci copia portandoci via enormi fette di mercato che dobbiamo difendere, anche con le parole 

Ha fatto molto discutere la scelta del nuovo governo di rinominare il ministero dell’agricoltura in ministero della sovranità alimentare. Nome molto evocativo e di gran moda per chi da sempre accusa Fratelli d’Italia di sovranismo e populismo. Eppure, al contrario di quello che si pensa, il termine sovranità alimentare ha poco a che fare con autarchia e sovranismo. Nella definizione originaria coniata nel 1996, proprio a Roma da Via Campesina, organismo internazionale che raggruppa 182 entità in 81 paesi, si parla certamente di privilegiare le tradizioni e le economie locali, ma per un migliore e più sostenibile sfruttamento delle risorse a disposizione, e non a caso è proprio lo stesso concetto su cui si basa l’attività di un'organizzazione come Slow Food, certo non tacciabile di sovranismo, nè populismo (e nemmeno di simpatie di destra). Ma, detto ciò, sicuramente il nuovo ministero guidato da Francesco Lollobrigida, cercherà di tutelare il made in Italy nell’agroalimentare, che continua a rimanere un settore vitale della nostra economia e che con i suoi 538 miliardi di euro di fatturato, rappresenta circa il 25 % del nostro Pil.

E soprattutto, ricordando le campali battaglie che il suo partito Fratelli d’Italia insieme alla Lega ha fatto in questi anni in Europa, dovrà tutelare i nostri prodotti di eccellenza dal cosiddetto e sempre più diffuso fenomeno di italian sounding. Prosek, parmesan, zottarella, salsa di Pomarola, non sono refusi, ma nomi alimentari usati all’estero per ingannare il consumatore sui prodotti tipici del made in Italy, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo. Secondo un recente report dello studio Ambrosetti, il fenomeno riguarderebbe il 97% dei sughi per pasta, il 94% delle conserve sott’olio e sotto aceto, il 76% dei pomodori in scatola e il 15% dei formaggi venduti nel mondo come prodotti italiani, soprattutto nel circuito della grande distribuzione, a un prezzo inferiore rispetto al valore medio delle specialità autentiche. Tutto questo, sempre secondo lo studio Ambrosetti comporterebbe un danno per l’export del nostro agroalimentare pari ad una cifra compresa tra gli 80 ai 100 miliardi di euro all’anno. L’Italian Sounding risulta più marcato in Giappone, con una quota di prodotti non autentici italiani pari al 70,9%, in Brasile con una quota pari al 70,5%, e in Germania, con una quota del 67,9%. Guardando al cluster dei prodotti, l’Italian Sounding è più diffuso nel ragù, con una quota di prodotti non provenienti dall’Italia pari al 61,4%, nel parmigiano, con una quota del 61,0%, e nell’aceto balsamico (60,5%). Tutto ciò in un contesto che, guardando gli ultimi dati dell’Ismea, parla comunque di un export agroalimentare in ottima salute, considerando che nel 2021 ha realizzato un record con oltre 52 miliardi di euro di prodotti, e nei primi sette mesi del 2022 ha già realizzato un +17,5%, con Germania, Usa e Francia come principali paesi di destinazione.

Ma questi dati non devono ingannare perché si riferiscono al boom registrato post covid, e che come fa notare il responsabile economico della Coldiretti a Panorama, sono fuorvianti, perché si riferiscono a raccolti dei mesi precedenti, mentre la situazione attuale parla di un settore in grande crisi, non solo per rincari energetici e per i problemi legati alla guerra: “La filiera agroalimentare italiana, dalla produzione agricola all’industria di trasformazione, sino alla distribuzione, si sta fermando a causa dell’aumento dei costi dei prodotti energetici e delle materie prime, con delle ripercussioni economiche e sociali facili da immaginare”. La realtà è quella che parla di un terzo di aziende agroalimentari ( 34%) che lavorano attualmente in perdita e di un 13% a forte rischio chiusura. Ecco allora che un piano di grande attenzione al settore, che magari cerchi anche di arginare gli effetti non certo positivi di alcune decisioni da parte della Ue, che sembrano favorire produttori extraeuropei rispetto a quelli comunitari, come la questione degli accordi con commerciali con alcuni paesi extra ue ( come la Cambogia e il Vietnam per il riso o il Canada per il grano) o la decisione di riduzione drastica dell’utilizzo di fitofarmaci in agricoltura che potrebbe, come denunciato di recente dal presidente Coldiretti Prandini, far crollare la produzione di cibo in Italia al -30%., o ancora la regola che prevede l’obbligo di rotazione dei terreni coltivabili, che priva il nostro paese del 10% dell'intera superficie coltivabile ( che nel nostro paese è di 12.598.161 ha) ogni anno. Senza contare gli effetti del cambiamento climatico, che secondo i dati di Bankitalia, hanno provocato danni in agricoltura che superano già i 6 miliardi di euro dall’inizio dell’anno, pari al 10% della produzione nazionale. E’ quasi naturale che il nuovo ministro espressione di un partito come Fratelli d’Italia, non potrà non occuparsi del famigerato sistema di etichettatura del Nutriscore, che Francia e Germania dovrebbero rendere obbligatorio in tutta Europa, ma che penalizza fortemente i prodotti tipici del made in Italy. In nome della sovranità alimentare il nostro paese può perciò fortemente opporsi a tutto quello che può ledere gli interessi dell’agroalimentare e delle eccellenze italiane: “Non è inedito ce l'hanno anche in Francia e sono quelli che hanno difeso meglio i loro prodotti; quindi, riteniamo sia completamente in linea con la vocazione che avremo anche noi, difendere i nostri prodotti". ha detto Lollobrigida, in una delle sue prime uscite da neoministro. Tre settimane fa, sempre Lollobrigida, in visita al Villaggio Coldiretti a Milano, aveva detto, forse preannunciando la futura nomina: "Il made in Italy è la vetrina dei prodotti migliori che abbiamo nella nostra Nazione e che dobbiamo difendere. In questi anni, purtroppo, non abbiamo avuto condizioni di favore".

La sovranità alimentare è di destra o di sinistra? Ecco come nacque l’idea: era il 1996. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

La locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il neonato Wto: l’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. 

Chi frequenta Twitter è rimasto sopraffatto in questi giorni dalla consueta ondata di ironia monotematica, questa volta riservata al nuovo ministero della Sovranità alimentare. Tutti a postare carbonare e minestroni e vantarsi della loro propensione alla sovranità. Tutti ad additare il neogoverno Meloni, accusandolo di revanscismo sovranista e destrorso. Poi è arrivato Carlìn Petrini e ha dato il contrordine a nome di Slow Food: compagni, smettetela, la sovranità alimentare è di sinistra. Stupore, sconcerto, diffidenza. Ma come? Ancora ieri Chicco Testa si ritraeva con una manciata di funghi in mano e rivendicava ironicamente la sovranità alimentare. Qualche avvisaglia c’era.

Anche i francesi hanno dato lo stesso nome a un ministero: Souveraineté alimentaire. Certo, dalle parti di Macron non sono estremisti di sinistra, ma neanche post-fascisti, come i francesi amano definire Fratelli d’Italia. E allora? Allora si scopre che questa locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il Wto, appena nato. L’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Quello contro cui si combatte è la mondializzazione (o globalizzazione) delle politiche agricole. Il modello contestato è quello degli scambi internazionali che grazie all’economia di scala riducono i costi ma tolgono sovranità e soldi ai contadini e alle organizzazioni locali, per favorire le multinazionali agroalimentari. C’è anche una definizione specifica data da Via Campesina della sovranità alimentare: «Il diritto delle persone a produrre in maniera autonoma alimenti sani, nutrienti, adatti al clima e alla cultura, utilizzando risorse locale e con strumenti ecologici, principalmente per rispondere ai bisogni alimentari locali e delle loro comunità».

Riassumendo. Sovranità non è sovranismo (come spiegava l’altro giorno il professor Roberto Vecchioni da Fabio Fazio: in soldoni, sovranità è avere il controllo di noi stessi, sovranismo è fregarsene degli altri). Sovranità non è autarchia. Non è sì all’amatriciana, no al cous cous. Non è questa la questione che sollecita l’uso di questa locuzione. Dunque, sovranità alimentare non è una nozione di destra. È un termine che si oppone ai monopoli e allo sfruttamento delle multinazionali, alla globalizzazione selvaggia delle filiere e allo sfruttamento intenso dell’ambiente. Perfetto. Ma se è così, che ci fa in un ministero di destra, retto dal fratello d’Italia Francesco Lollobrigida?

Il fatto è che le parole spesso sono ambigue. È «una fregatura lessicale», sintetizza Alice Fanti, della onlus bolognese Cefa. Evidentemente alla destra è piaciuta la parola sovranità, che infatti ha richiamato in molti lettori il sovranismo. Ed evidentemente c’è una quota di battaglie di destra che possono rientrare agevolmente in questo concetto. Quella contro il nutriscore, per esempio, che coincide con la difesa del made in Italy (fa ridere che si debba usare l’inglese per difendere i prodotti italiani ma è il nome ufficiale del ministero di Adolfo Urso). Il sistema di etichettatura a semaforo privilegia i prodotti in base a livelli di zuccheri, grassi, sale e qualità salutari. Ne escono male, per esempio, olio, parmigiano reggiano e vino. Poi c’è la lotta all’«italian sound». Per capirsi, quando vendono un «parmesan» che non ha niente a che fare con il nostro parmigiano dop. È una battaglia di destra? No. Come non lo è quella per il chilometro zero, che in origine sosteneva Petrini (poi si è pentito). Lo diventa se un’idea di buon senso, privilegiare il pomodoro sotto casa rispetto a quello fatto in Cina (peggiore, in termine di qualità e di inquinamento prodotto per farlo arrivare qui) diventa una battaglia autarchica e ariana a favore dei nostri prodotti locali contro il sushi invasore.

Il Messaggero ricordava che sulla nostra tavola, attraverso la grande distribuzione, arrivano solo sei varietà di mela, tutte straniere, e nessuna delle nostre 200 varietà autoctone. Proibire le mele straniere sarebbe di destra. Favorire il commercio locale e la biodiversità, invece, sarebbero battaglie di sinistra. Altra declinazione della sovranità alimentare: gli alimenti sintetici. La bistecca in 3D potrebbe essere utile per arricchire le diete povere, grazie al basso costo. Ma rischia di danneggiare seriamente gli allevamenti locali. La destra, semplificando, si schiera a difesa totale degli allevamenti, a prescindere dall’enorme inquinamento ambientale e dell’attenzione alla sostenibilità. Servirebbe un equilibrio, tra la difesa dell’allevamento tradizionale e l’affiancamento con nuove forme di alimentazione. Lo stesso vale per l’uso alimentare degli insetti. La destra (Matteo Salvini in primis) ne fa una battaglia molto spettacolare, come avevamo raccontato in questo pezzo, dove si lanciava l’allarme sulla «decostruzione della sacralità del cibo». In generale, la destra è per la difesa delle tradizioni, non solo agricole, ma anche e soprattutto alimentari (che poi diventa difesa di categoria e protezionista). Ma attenzione: anche certa sinistra, a partire da Slow Food, lo è.

Il corto circuito dunque c’è: destra e sinistra, su alcuni temi, si sovrappongono. E la sinistra nostalgica rischia di fare il giro e diventare reazionaria. Certi concetti, come la sovranità alimentare, possono essere di sinistra o di destra, a seconda di come vengono declinati. Insomma, cosa si nasconda davvero dietro la scelta lessicale del governo Meloni, se sia una locuzione filologicamente corretta o se sia una «fregatura», lo scopriremo nei prossimi mesi, quando le parole diventeranno fatti. E si capirà se sotto la parola «sovranità» si nascondeva «sovranismo». O, come scrive su Huffington Post Michele Mezza, se dietro c’è la «mucca Carolina», ovvero «l’emblema delle rivolte della lobby degli allevatori che pretendevano di non pagare la multe che l’Unione europea aveva comminato per le truffe perpetrate dopo aver incassato copiosi finanziamenti per limitare la produzione». 

Sovranità alimentare. Storia e geografia di un concetto. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

L’abbiamo letto e ci siamo scandalizzati. Il nuovo Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare porta nel nome anni di contrasto alla fame e alla globalizzazione e rimanda ai movimenti per il diritto all’autodeterminazione alimentare. Chissà se avevano in mente questo, quando hanno cambiato nome

L’agricoltura è da sempre considerata un settore strategico dell’economia. E per “da sempre” intendiamo dai tempi dell’antica Roma. E nella storia più recente l’intervento degli stati ha sostenuto e incoraggiato la produzione agricola per garantire alla popolazione l’autosufficienza alimentare: qualunque cosa succeda, guerre, catastrofi naturali, epidemie, il cibo non deve mancare.

La crescita della popolazione mondiale, l’acuirsi del problema della fame nel mondo e gli squilibri nella distribuzione delle risorse alimentari hanno generato la necessità di un intervento globale attraverso le organizzazioni internazionali.

Il primo passo: contro la fame a livello globale

La Convenzione Internazionale per i Diritti Economici, Sociali e Culturali riconosce ad ogni individuo il diritto fondamentale di essere libero dalla fame. In occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre 2003, la Fao ha raccolto nella pubblicazione “Lavorare insieme per un’alleanza contro la fame” una serie di obiettivi e di raccomandazioni alle singole nazioni: gli stati devono rispettare, proteggere e garantire il diritto dei loro cittadini ad alimentarsi a sufficienza e devono intervenire se questi non saranno in grado, per motivi al di fuori del loro controllo, di provvedere a se stessi.

Oggi – scrivevano – il mondo produce cibo a sufficienza per nutrire i suoi abitanti e dispone delle conoscenze tecniche per migliorare l’alimentazione e aumentare l’accesso al cibo e tuttavia troppo pochi Paesi hanno fatto abbastanza per combattere la fame. A distanza di quasi vent’anni la situazione non è cambiata di molto, e gli ideali di cooperazione e di azione sono stati troppo spesso disattesi. Ancora la quantità di cibo in molte regioni del mondo è insufficiente, e spesso la globalizzazione ha portato a un peggioramento delle condizioni nelle aree più povere della terra.

È proprio il mercato globale dei prodotti agricoli a provocare danni pesanti alle coltivazioni di tradizione locale dei territori più poveri, portando a una sistematica sostituzione delle colture più antiche e a un’imposizione di sistemi e politiche agricole estranee al territorio e alle capacità organizzative delle aziende locali. È in questo contesto che fa per la prima volta la sua comparsa il concetto di Sovranità alimentare.

Il passo successivo: la tutela del patrimonio agricolo

«Il diritto dei popoli e degli Stati sovrani a determinare democraticamente le proprie politiche agricole e alimentari». Questa la definizione di sovranità alimentare dettata nel 2008 dall’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (Iaastd) con il patrocinio delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale. Il concetto è stato introdotto in realtà già nel 1996 dal movimento contadino internazionale Via Campesina, e riaffermato nel World Food Summit di Roma.

Ancora, nel 2007 in Mali il Forum Internazionale sulla sovranità alimentare affermò «il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo». Al diritto ad alimentarsi si affiancano quindi principi come la biodiversità, la qualità, la possibilità di gestire direttamente le risorse del territorio senza interferenze da chi detiene tecnologie e risorse finanziarie superiori. Alla filosofia della sovranità alimentare fanno riferimento elementi culturali e sociali, e la volontà dei diversi popoli di affrancarsi dai condizionamenti dettati dagli interessi delle multinazionali del settore.

Si sceglie così di valorizzare e proteggere le sementi e le varietà locali, tutelando diversità che andrebbero altrimenti perdute. Si sceglie di dare spazio alle conoscenze e alle metodiche di lavorazione consolidate nel tempo e che rischiano di finire dimenticate, soffocate dall’uniformità imposta dalla globalizzazione, senza tenere conto delle necessità delle singole realtà geografiche.

Un concetto quanto mai attuale

La sovranità alimentare è un concetto oggi riscoperto e rivalutato, come dimostra la scelta del governo francese di utilizzare il nome Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire. E come dimostra la scelta fatta oggi dal nuovo governo italiano. Del resto già da tempo molte comunità nel mondo seguono questa filosofia, a partire dall’attivismo in questo senso dei nativi americani, per arrivare a quegli stati che, come l’Ecuador, il Mali, la Bolivia, il Venezuela, il Senegal e l’Egitto, hanno inserito il concetto di sovranità alimentare nelle proprie costituzioni e nelle proprie leggi.

E in Italia Slow Food mette in evidenza per bocca della presidente Barbara Nappini come quello di sovranità alimentare non sia un concetto «sinonimo di autarchia: è il diritto dei popoli a determinare le proprie politiche alimentari senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici. È un concetto ampio e complesso che sancisce l’importanza della connessione tra territori, comunità e cibo, e pone la questione dell’uso delle risorse in un’ottica di bene comune, in antitesi a un utilizzo scellerato per il profitto di alcuni».

 La scienza della nutrizione è in mano alle multinazionali del cibo. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 23 ottobre 2022. 

Ogni volta che accendiamo la TV, sfogliamo una pagina di una rivista o guardiamo un volantino al supermercato, siamo costantemente bombardati da consigli nutrizionali del tipo “I prodotti a base di mandorle possono aumentare la tua memoria”, “Il latte aiuta a costruire le ossa”, “I cereali fanno parte di una colazione equilibrata approvata dal medico per ragazzi in fase di crescita”. Parole come “superfood” e “senza additivi” ci convincono che stiamo facendo la scelta giusta quando prendiamo un articolo dallo scaffale e ci dirigiamo verso la cassa. Ma è davvero così?

Tutti di norma confidiamo sulla scienza della nutrizione per guidarci attraverso le scelte e aiutarci a prendere le decisioni migliori per la nostra salute. Sembra che sia un approccio corretto, eccetto il fatto che spesso non è vero. Molti di questi studi su cui confidiamo per prendere decisioni alimentari non sono indipendenti, bensì finanziati da grosse aziende alimentari che cercano di promuovere i propri prodotti. È quello che ci rivela da molti anni la celebre esperta americana di cibo, la nutrizionista e sociologa Marion Nestle. 

La celebre scrittrice americana ci rivela nel libro come la maggior parte delle società scientifiche, e degli esperti facente parte dei dipartimenti del governo incaricati di redigere le linee guida sulla nutrizione, sono in realtà nei libri paga dell’industria alimentare. Che si tratti di uno studio che afferma che l’esercizio fisico moderato è sufficiente per annullare le calorie nelle bibite zuccherate (sostenuto dalla Coca-Cola) o di uno su come i mirtilli possono ridurre il rischio di disfunzione erettile (sostenuto dall’Highbush Blueberry Council degli Stati Uniti), l’industria alimentare ha imparato come trasformare le indagini scientifiche di parte e molto selettive in un grande profitto. Come Big Pharma ha corrotto la scienza medica, così Big Food ha corrotto la scienza della nutrizione. In una nazione in cui più di due terzi degli adulti e un terzo dei bambini sono considerati in sovrappeso o obesi, non è mai stato così importante mettere la nostra salute pubblica al primo posto. 

Un altro libro della stessa autrice (Soda Politics, 2015), aveva analizzato in dettaglio le politiche adottate dalle multinazionali dei soft drink (in primis Coca-Cola e Pepsi) per promuovere le bevande a base di acqua e zucchero. In Unsavory Truth, Nestle fa un’analisi di come il mondo istituzionale della nutrizione (Università, dipartimenti governativi e la ricerca in genere), sia condizionato non solo da parte di aziende che vendono alimenti spazzatura ricchi di zuccheri aggiunti, grassi e sale, ma anche da produttori di uova, latte, yogurt, noci e altri alimenti più o meno sani.

L’autrice del libro affronta insomma il tema del conflitto di interesse nel mondo della Medicina e della Nutrizione e illustra come da un punto di vista psicologico molti ricercatori e medici non avvertono alcun problema o imbarazzo nel ricevere regali, rimborsi o favori da parte delle aziende produttrici di alimenti o farmaci, in quanto questo modo di agire viene percepito come naturale e non influente sui comportamenti dei ricercatori stessi. Chi riceve un regalo dall’industria, o un “rimborso” in denaro, ritiene che i regali o rimborsi non abbiano influenza sull’esito delle ricerche scientifiche e della elaborazione dei dati. Il libro descrive come importanti riviste scientifiche (dal New England Journal of Medicine al British Medical Journal), le Università e le organizzazioni internazionali (OMS) hanno deciso in realtà di affrontare il problema del conflitto di interessi in quanto fattore determinante per una corretta ricerca medico-scientifica. 

La situazione in Italia 

Nel nostro Paese avvengono le stesse dinamiche di condizionamento e intromissione da parte delle multinazionali alimentari, proprio come negli USA. E il fenomeno dei conflitti d’interesse nell’ambito della ricerca non viene ancora riconosciuto e affrontato come tale, se non nel mero ambito della cosiddetta “ricerca in campo sanitario”. Ciò significa che in Italia gli unici ricercatori o conferenzieri che hanno l’obbligo di dichiarare eventuali conflitti di interesse o finanziamenti da parte dell’industria sono quelli che ricevono soldi dalle aziende farmaceutiche, ma non quelli che li ricevono dalle multinazionali alimentari. 

Ovviamente Heineken, Coca-Cola e Ferrero non hanno “interessi commerciali in campo sanitario” e quindi un relatore a un convegno di medicina (in cui si parla di diabete, obesità, malattie cardiovascolari) può benissimo essere sponsorizzato da queste aziende e dichiarare che “la birra fa bene al cuore e le bevande zuccherate non causano l’obesità” e nel contempo firmare una documento da cui risulta l’assenza di conflitto di interesse. In Italia l’attenzione viene focalizzata ancora solo sui “portatori di interessi commerciali in campo sanitario”.

Prendiamo per esempio le raccomandazioni alla popolazione che vengono date in Italia dai comitati ministeriali di studiosi esperti sulla nutrizione riguardo l’assunzione dello zucchero. I cosiddetti LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti) che vengono emessi periodicamente da questi esperti, fissano una soglia del 15% di zuccheri semplici (aggiunti + naturali) sulle calorie totali, con un invito a non superare il 25% delle calorie totali giornaliere provenienti dagli zuccheri. Si tratta di valori di riferimento molto diversi da quelli raccomandati dall’OMS per esempio, che invita a restare sotto il 10% e idealmente arrivare solo al 5% delle calorie totali da zuccheri. Questa maggiore elasticità autorizza gli italiani a introdurre molto più zucchero nella dieta di quella che probabilmente è la soglia di sicurezza per evitare problemi di salute.

Che ci sia stata l’influenza di qualche industria alimentare? Non ci è dato sapere, poiché non era richiesto agli esperti dei LARN di dichiarare eventuali conflitti di interessi. A livello internazionale sia l’OMS che altri comitati di esperti di nazioni con problemi di obesità e diabete, stanno elaborando delle politiche di tassazione sui cibi e bevande contenenti zucchero aggiunto. Anche in questo caso l’Italia va in controtendenza. Per esempio in Italia la Associazione italiana di Dietetica e Nutrizione clinica organizza ogni anno i convegni chiamati Obesity Day, ma tra gli sponsor compaiono aziende produttrici di zucchero come Eridania e Novo Nordisk, quest’ultima una azienda farmaceutica che produce farmaci e apparecchiature per il monitoraggio del diabete, quindi una azienda che come business ha quello di vendere farmaci per il diabete, non di fare prevenzione sul diabete. 

Appare evidente, in conclusione, come la forte promiscuità tra aziende produttrici e ricerca medico-nutrizionale sia ancora oggi un grande ostacolo verso il cammino di una scienza libera e indipendente e verso una seria politica degli Stati di reale prevenzione e riduzione di molte malattie croniche e di molti problemi di sanità pubblica. Fare informazione a riguardo, è già un primo passo per far maturare una maggiore consapevolezza sulle aree che in futuro occorre bonificare e risanare. [di Gianpaolo Usai]

·        Mangiare non italiano.

Suggestioni nipponiche. Giappone, la complessità dell’essenziale. Chiara Di Paola su L'Inchiesta il 29 Agosto 2022.

Il fascino della cucina giapponese ha conquistato la scena culinaria europea. Merito dell’equilibrio e del rigore in ogni singolo piatto, della cura maniacale per i dettagli, della ricercatezza delle preparazioni

Non è solo una questione di “moda”: se il fascino dell’Oriente è sempre più protagonista della scena culinaria Europea, il merito è del senso di equilibrio e rigore ravvisabile in tutti gli aspetti della ristorazione nipponica, della cura dei dettagli che emerge nonostante il minimalismo zen dei piatti e della complessità delle preparazioni utilizzate per far emergere l’essenziale di gusti, colori e forme.

All’apparenza niente di più distante dall’abbondanza impulsiva e “sentimentale” della cucina mediterranea, che tuttavia ne rimasta conquistata… Scopriamo perché.

Un po’ di storia

La cucina giapponese (washoku) è una tra le più variegate e ricche al mondo, tanto da aver ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di patrimonio dell’Umanità nel 2013. Il suo primo incontro con il mondo occidentale risale al 1500, quando una delegazione di feudatari giapponesi convertiti dai Gesuiti fece visita a Papa Gregorio XIII.

Da allora, perché il sushi conquistasse l’Ovest si dovettero aspettare quasi altri 500 anni, secondo gli storici almeno fino a quando il principe Akihito offrì questo tipo di preparazione ad alcuni ufficiali americani durante un ricevimento all’ambasciata giapponese a Washington nel 1953.

In Italia il pioniere del sushi è stato Minoru Hirazawa (detto Shiro), che nel 1972 ha aperto il ristorante Poporoya a Roma (bissando l’esperienza a Milano nel 1977) e che, per avere a portata di mano la migliore materia prima, ha selezionato una coltura di riso nipponico adatta alle risaie di Vercelli, avviandone una coltivazione italiana, insieme a quella di tofu e miso.

Dagli anni Ottanta, infine, c’è stato il vero e proprio boom della cucina nipponica in Europa e negli Stati Uniti, aree geografiche che, per ragioni diverse, hanno una cultura gastronomica apparentemente agli antipodi rispetto a quella del Sol Levante. Eppure la convivenza funziona…

Rituali Zen in cucina, tra gusto e spiritualità

Nelle sue diverse tipologie (che non contemplano solo il sushi), la cucina giapponese è profondamente diversa da quella occidentale (fine dining a parte), non solo per la particolarità di alcuni sapori, ma soprattutto per la concezione stessa del cibo e della sua preparazione.

Se per gli occidentali la cucina è, prima di tutto, piacere sensoriale e, in particolare, appagamento del gusto; per i giapponesi invece ogni gesto, lento e accurato, si trasforma in un rituale che rimanda all’orizzonte spirituale Zen e alla filosofia buddhista shojin ryori, secondo la quale il cibo deve essere un mezzo di crescita, illuminazione interiore e armonizzazione con la natura.

Per questo nulla va sprecato e tutto deve essere in equilibrio, in giusta misura, esaltato nella sua nettezza di sapori, colori e forme, complementari e bilanciati all’interno di ogni piatto.

Che sapore ha la bellezza?

Il valore della perfezione estetica e del rigore formale che permea la cultura nipponica (dalla calligrafia al modo di impacchettare i doni o tsutsumi), è fondamentale anche nella cucina e nello svolgersi del pasto tradizionale (kaiseki): un’esperienza multisensoriale che coinvolge innanzitutto la vista.

La bellezza del piatto è una componente della sua bontà e va costruita attraverso la cura della presentazione e l’osservanza di una sobrietà in cui tutto, persino la distribuzione fra pieni e vuoti, deve essere in perfetta armonia (wa), senza decorazioni bizzarre o accostamenti stravaganti che corrompono la naturalità degli ingredienti e confondono il palato.

Questa ricerca estetica non si limita alle singole portate, ma si compone come un mosaico nel corso del pasto, con il cibo servito in piccole porzioni, all’interno di ciotoline colorate, piccoli piatti di forme diverse e contenitori particolari che, nel loro susseguirsi o accostarsi gli uni agli altri sulla tavola creano un senso di ritmo, movimento e stimolazione sensoriale continua.

La complessità dell’essenziale

Pochi ingredienti, quasi totalmente in purezza, cotture minime o del tutto assenti, impiattamento pulito ed essenziale. Facile no? E invece non c’è nulla di più laborioso. Tutto in una cucina giapponese è preparato meticolosamente e assemblato con una precisione estrema che richiede un’incredibile abilità manuale e un addestramento rigoroso.

Anche dietro al piatto di sushi apparentemente più semplice c’è la storia dell’itamae (“il signore davanti al tagliere”), che prima di diventare “artigiano del sushi” deve seguire un percorso di studi e pratica di minimo due anni, per imparare a tagliare il pesce in maniera chirurgica e apprendere i trucchi del mestiere (come quello di “massaggiare” il polpo prima di servirlo).

Se poi vuole maneggiare il velenosissimo fugu (il pesce palla con cui si prepara un prelibato sashimi, ma è vietato quasi ovunque in Europa) serve anche una speciale licenza.

Con il tempo ogni itamae sviluppa una gestualità specifica e un proprio stile personale, tanto che nei ristoranti del Giappone i veri intenditori di sushi scelgono non solo le portate dal menù, ma anche l’itamae a cui affidarne la preparazione.

Il fascino di mangiare in un’oasi (dentro e fuori dalla città)

Se non ci si accontenta del take away si può godere dell’atmosfera suggestiva che rende davvero unica l’esperienza di un pasto nipponico e consente di immergersi in un angolo di Oriente senza cambiare fuso orario.

Entrare in un ristorante giapponese (indipendentemente dal fatto che la cucina sia più o meno contaminata nelle tecniche e negli ingredienti, e talvolta rivisitata in modo creativo) significa lasciarsi catturare dal fascino di una dimensione fluttuante al di sopra della frenesia cittadina, in cui lo stile moderno e minimalista dell’arredamento si combina con la presenza di elementi che evocano il contatto la natura (pietra, legno, bambù, resine, cristalli, acqua e piante).

Il piacere visivo diventa anche tattile grazie alla possibilità di maneggiare ciotole, bacchette e stoviglie particolari e, talvolta, di sedere sui tradizionali tatami. Talvolta capita persino di ritrovarsi in un giardino zen con ciottoli, piante, stagni e fontane, all’interno di oasi d’Oriente che possono trovarsi ovunque, anche nel cuore di grandi metropoli come la capitale italiana del sushi: Milano.

Qui tra le mete più rinomate tra i “sushi addicted” in cerca di un ambiente affascinante ci sono Aalto, Iyo, Osaka, Ronin, Nishiki, Zen Sushi, Sakura, Wicky’s Innovative Japanese Cuisine. Ma non sono da sottovalutare neppure le location più defilate dell’hinterland, avvantaggiate da spazi più ampi, luminosi e tranquilli, valorizzati da grandi vetrate e affacci sull’esterno.

Per citarne alcune: Kenzu Sushi a Monza, Niwa a Cologno Monzese, Kyubi (a Brugherio), Umami Taste Experience (a Seregno) e Mu Fish (a Nova Milanese), che nel 2018 è stato inserito nel Gatti-Massobrio nella categoria “cucina radiosa” e nel 2019 ha ricevuto per la seconda volta il riconoscimento da Gambero Rosso come uno dei ristoranti fuori Milano con il miglior rapporto qualità-prezzo.

L’Oriente nel bicchiere. Dai fermentati ai distillati

Se da almeno 2000 anni il sake ottenuto dalla fermentazione del riso è la bevanda alcolica più nota del Giappone, negli ultimi 20 anni non è più stata l’unica ad affascinare l’Occidente. Oltre alla produzione di whisky, avviata alla fine dell’Ottocento dalla distilleria Suntory secondo il disciplinare scozzese, oggi il Sol Levante deve la sua affermazione nel mondo degli Spirits soprattutto alla particolarità dei suoi gin.

L’esportazione verso l’Europa è iniziata solo nel 2017, ma da allora il successo è stato inarrestabile grazie alla capacità di questi distillati di raccontare il territorio e rispecchiare la connessione con la natura e il rispetto per la stagionalità degli ingredienti (o meglio, in questo caso, delle botanicals) che sono alla base anche della cucina e di tutti gli aspetti della quotidianità nipponica.

Oltre agli aromi classici del gin come ginepro, mela, cannella, scorze di limone e arancia, zenzero, le distillerie giapponesi utilizzano erbe, frutti, tè, fiori e spezie locali, distillati separatamente e solo in seguito miscelati insieme, in modo da tenere sotto controllo l’equilibrio dei sapori.

Tra gli esempi più interessanti ci sono Ki No Bi, prodotto da The Kyoto Distillery con yuzu, hinoki (cipresso giapponese), bambù, tè verde gyokuro e grani di pepe sansho; il Nikka Coffey Gin di Asahi Breweries, con agrumi autoctoni (yuzu, shikuwasa, kabosu e amanatsu) mela e pepe sansho, su una base di orzo e mais; il Kozue di Nakano BC che usa dei pinoli giapponesi, il Masahiro Okinawa Gin che utilizza il goya, il melone amaro tipico dell’isola di Okinawa e i particolarissimi Sakurao Gin, tra i cui ingredienti spiccano il wasabi e i gusci d’ostrica di Hiroshima.

Talvolta, invece, la particolarità sta tutta nella base, come nel caso di Wa Gin della Mars Shinshu Distillery, prodotto dal sakè di Meiri Shurui, fatto riposare per 10 anni prima di essere imbottigliato, e di Yuzu Gin, prodotto dalla distilleria Kyoya a partire dallo shochu, un liquore di patate.

Infine Roku Gin, nato nel 2017, racchiude l’anima del primo gin giapponese presentato sul mercato (il gin Hermes prodotto da Suntory dal 1936) e riassume nelle sue note ricche ma delicate tutta la disciplina, la pazienza e la ricerca di armonia che stanno alla base della cultura nipponica: “sei” (roku in giapponese) non è solo il nome del prodotto (ripreso dall’ideogramma in etichetta e dalla forma esagonale della bottiglia) ma anche il numero dei botanicals principali utilizzati.

Ognuno di essi, raccolto durante lo shun (il breve momento dell’anno in cui un elemento della natura esprime le sue massime caratteristiche), rappresenta una stagione e, tutti insieme, simboleggiano il legame indissolubile con la natura: i fiori e le foglie del sakura (ciliegio giapponese), raccolte in sole due settimane l’anno, rimandano alla primavera; il tè verde nelle due varietà sencha e gyokuro, che durante la bella stagione regalano il loro miglior raccolto (Summer Flush), evocano l’estate; il pepe sansho rappresenta l’autunno; infine lo yuzu, rimanda alla stagione degli agrumi, cioè l’inverno.

Insomma, i gin giapponesi racchiudono l’aroma delle proprie isole e ne raccontano la cultura: per apprezzarli al meglio non serve esagerare con le miscelazioni, ma basta limitarsi a uno spruzzo di acqua tonica o gustarli in purezza giocando sulla temperatura di servizio.

Molti sushi lovers non sanno che…

1. Il sushi non è giapponese e non è nemmeno un vero piatto

In origine il sushi era un metodo di conservazione (detto narezushi), importato attorno al IV secolo d. C. dalla Cina (o dalla Corea) e basato sulla fermentazione del pesce (crudo e salato) tra strati di riso (cotto e acidulato in aceto di riso) che poi veniva scartato. Nel periodo Muromachi (1336-1573) nasce il namanare, ovvero un piatto in cui il riso inizia a essere consumato insieme al pesce.

Ma solo a partire dall’epoca Edo (1603-1867), inizia a diffondersi il “sushi veloce” (haya-zushi), in cui non si aspetta più l’inacidimento del riso, ma lo si mescola con l’aceto e lo si serve insieme a pesce, verdure e uova. La svolta finale si ha nel dopoguerra, quando per ragioni igieniche il sushi smette di essere venduto per strada e diventa una prelibatezza di lusso servita nei ristoranti, trasformandosi nel kaiten-zushi (“sushi girevole”) che ha conquistato l’Occidente.

2. Salmone e wasabi sono dei “falsi”

Per quanto sia molto amato in Occidente, il sushi con il salmone non si trova negli autentici ristoranti di Tokyo, che preferiscono servire pesce fresco autoctono anziché specie d’importazione dalla Norvegia.

Invece per quanto riguarda la pasta piccante di colore verde servita assieme al sushi, bisogna sapere che spesso si tratta di semplice rafano misto a senape e colorato di verde, non di vero wasabi ( chiamato hon-wasabi) ottenuto dalla rara e costosa radice della Wasabia japonica (ravanello giapponese).

3. Esiste un galateo del sushi

Come ogni cucina che si rispetti, anche quella giapponese prevede delle “regole di buon comportamento” (o “comandamenti” secondo lo chef Susumu Yajima) da rispettare.

Innanzitutto, il sushi andrebbe mangiato a pranzo (e non a cena) e gustato subito dopo la preparazione, quando il riso è ancora caldo.

In secondo luogo non bisogna trascurare di lavarsi le mani prima di ordinare (anche utilizzando gli asciugamani caldi offerti dal cameriere) e di pronunciare la tradizionale formula di ringraziamento (itadakimasu) prima di iniziare a mangiare.

È consentito sorbire zuppe e ramen accostando la ciotola alla bocca, emettere “rumori di risucchio” (in Giappone interpretati come segno di apprezzamento) e persino mangiare il sushi (non il sashimi) con le mani; vietato invece spezzare i singoli bocconi (mai chiedere un coltello per mangiare il sushi!), infilzarli con le bacchette o portarli al di sopra dell’altezza della bocca.

Le bacchette non vanno impugnate bensì tenute con le estremità delle dita, non devono essere usate per indicare né lasciate sul piatto tra un boccone e l’altro (meglio riporle una accanto all’altra sul tavolo o sul porta-bacchette). Inoltre, per attingere da un piatto comune, è opportuno girarle, per utilizzare il lato opposto rispetto a quello con il quale il boccone verrà portato alla bocca.

La salsa di soia non va sprecata né mixata con il wasabi (vero o falso che sia) ma versata poco alla volta in modo da intingere il sushi dalla parte del pesce, senza bagnare il riso.

Le fettine di zenzero (gari) servono per pulire il palato tra un piatto e l’altro, quindi vanno assaggiate con parsimonia, non mangiate come fossero un’insalata né usate per condire il sushi.

Infine considerare che non lasciare nemmeno un chicco di riso nel proprio piatto è segno di grande rispetto per l’ospite e per lo chef, così come concludere il pasto ringraziando con la frase “gochisousama deshita”.

4. Non tutti i sushi-restaurant sono autentici

Tra “made in Japan” e “similgiappo”, nel mondo ci sono ormai centinaia di migliaia di ristoranti con insegna giapponese. In Italia, nel 2018 se ne contavano più di 3mila, di cui almeno 700 solo a Milano.

Per distinguere quelli gli originali dalle contraffazioni, da alcuni anni il Ministero dell’Agricoltura nipponico ha formulato un apposito disciplinare, che riguarda la qualità e la preparazione dei piatti, le modalità di accoglienza dei clienti e di presentazione dei piatti, ma soprattutto certifica con il marchio Japanese Food Supporter il livello di formazione degli chef (distinguendoli in “gold”, “silver” e “bronze”) e la loro adesione all’autentica cucina washoku, assegnando ai ristoranti che lo meritano l’ambito “bollino blu”, rilasciato dalla Japanese External Trade Organization.

5. La cucina giapponese non è solo sushi e sashimi

Oltre al pesce crudo, con o senza riso, nella cucina tipica giapponese ci sono anche molti altri ingredienti e tecniche di preparazione.

Sul menù si possono trovare carne (come il manzo kobe o wagyu), verdure (melanzane tonde kamonasu, funghi matsutake, carote, porri, daikon, germogli di bambù, gobo, aglio nero della regione di Aomori) e alghe (soprattutto nori e wakame), serviti in tempura, sottoforma di zuppa, oppure marinati (con soia e mirin) e cotti alla brace (nell’hibachi, letteralmente “ciotola del fuoco”, è un contenitore rotondo che, grazie alle piccole dimensioni, può essere portato anche al centro della tavola) o alla griglia (con la tecnica del robatayaki, che rappresenta anche una forma di spettacolo tra i fornelli, con movimenti acrobatici e fumate dai profumi invitanti).

6. Il 18 giugno è l’International Sushi Day

Celebrata per la prima volta nel 2009, la Giornata internazionale del sushi testimonia l’ampia diffusione dell’amore per la cucina giapponese, a livello globale, e rappresenta un’occasione in più per approfondirne la conoscenza, magari provando qualche ricetta nuova… al ristorante o anche a casa!

Kebab di lusso a 35 euro: in coda per assaggiarlo. Jeanne Perego su La Repubblica il 29 Agosto 2022.

Solo 15 porzioni al giorno disponibili a Monaco, nel locale di Cihan Anadologlu, imprenditore nato e cresciuto in Germania da genitori ristoratori turchi. Il segreto: la qualità degli ingredienti, a partire dalla carne Wagyu giapponese

A Firenze ha fatto scalpore la schiacciata al Pata Negra a 25 euro dell’Antico Vinaio, a Monaco di Baviera ha sorpreso tutti  il kebab a 35 euro, il più costoso della Germania definito “lussuoso” dalla stampa tedesca, in vendita da Hans Kebab.

Ma cosa rende così speciale il kebab creato da Cihan Anadologlu? La risposta è: gli ingredienti. Per il kebab di lusso "Da Istanbul a Tokyo"-si chiama così-  al posto della tradizionale carne di vitello viene utilizzata la pregiata carne giapponese “ Wagyu Short Rib" di Kagoshima. E l'esclusiva carne grigliata è accompagnata da una vinaigrette al tartufo e  wakame, puré di pastinaca, spezie Shichimi t?garashi (un particolare peperoncino rosso) e salsa di yogurt alle erbe fatto in casa. Il risultato è un kebab straordinario ispirato dall’amore di Cihan Anadologlu per il Giappone.

Nato e cresciuto in Germania da genitori ristoratori turchi, Anadologlu si è fatto un nome a livello internazionale come barman in locali prestigiosi a New York, Hong Kong, Londra e Singapore. Ha scritto libri di successo come “La Bibbia del bar” e ha collezionato riconoscimenti di ogni tipo.  Fu durante uno dei suoi numerosi viaggi in Giappone che assaggiò per la prima volta un hamburger preparato con carne Wagyu, considerata dai giapponesi e da molti chef  la più pregiata al mondo. Fu amore a prima vista, una passione che non l’ha più lasciato.  E mentre lavorava dietro il bancone di bar famosissimi, come il Schuhmann’s a Monaco, e come consulente per molte aziende, sperimentando tecniche da chef stellati che lo hanno portato a profumare  il whisky con note di roastbeef e il gin con avocado, ha continuato a  pensare come utilizzare quella carne in un progetto nuovo.

Post pandemia, ha coronato il suo sogno, aprendo un locale da kebab a Schwabing,  una delle zone più esclusive e vivaci  di Monaco. “Un negozio di kebab davvero cool”, come ha scritto lui stesso su Instagram. E, in effetti, il menu del ristorante Hans Kebab, dove tutto è preparato in casa senza ricorrere a semilavorati, è diverso da tutti quelli della sua categoria. Oltre ai kebab più classici, propone specialità come il “Lüks Döner Kebab" con carne di vitello, fichi freschi e uova  biologiche fritte, e l' "Ottomann Kebab" con riso alla ottomana, spiedino di pollo o di vitello alla griglia, cipolle rosse, rucola, pomodorini, salsa di aglio nero fermentato e yogurt fatto in casa. Ma la star è, appunto il kebab dal nome evoca che l’incontro tra il luogo di origine della specialità e la patria della carne Wagyu. 

 La carne non deve essere troppa cotta 

Ma si vende un kebab che costa  35 euro?  «Assolutamente sì -dice Anadologlu – e la domanda continua a crescere». In effetti fuori dal locale c’è sempre gente in coda, tra loro anche chi si è assicurato di poter mangiare il kebab di lusso avendolo prima prenotato. Ogni giorno ci sono al massimo 15 porzioni disponibili, spiega Anadologlu, riuscire ad averne una senza averla prenotata è come giocare d’azzardo. I clienti sono più che soddisfatti, come testimoniano i commenti sui social, la marezzatura grassa che rende speciale il sapore della carne conferisce al kebab un sapore unico e leggero. «Ma la carne deve essere cotta al sangue -dice il ristoratore- chi la ordina ben cotta perde tutto il sapore e la tenerezza che la carne Wagyu può offrire».

L’uomo dell’Azerbaigian che cucina in silenzio pecore intere. FEDERICA BIGNAMI su Il Domani il 27 giugno 2022

Tavakkul è un uomo dell’Azerbaigian che negli ultimi due anni ha raggiunto una straordinaria popolarità su YouTube raggiungendo i 3,3 milioni di iscritti al suo canale. 

Lo youtuber dedica a ricette difficilmente riproducibili, come capre intere arrostite su spiedi d’acqua, polli fritti sotto a un secchio o pilaf di fagiano. E lo fa sempre in silenzio. Non cucina una pannocchia di mais, ne cucina cento. Da solo riesce a gestire la cottura di verdure, carne, pesce in quantità che andrebbero bene per sfamare una scolaresca di adolescenti affamati.

Il suo stile è decisamente particolare e diverso da tutto quello che si vede online. Ma ha una cosa in comune con altri YouTuber: cerca di vendere la sua linea di prodotti pseudo-salutistici. 

La videocamera scorre lungo una vallata circondata da montagne. Un uomo sta scavando una buca per terra. Prende un’ascia e inizia a tagliare dei ciocchi di legno. Appende una carcassa d’agnello a un albero. Rovescia un sacco pieno di sale in una ciotola. Ci rompe dentro una decina d’uova e le mescola lentamente con un coltello. Riprende la carcassa d’agnello, la manipola con mani esperte e ne spalma l’interno con una miscela di sale, pepe, aglio. Ogni suo gesto è estremamente lento e tranquillo, e allo stesso tempo carico di una determinazione concentrata.

L’uomo nel video si chiama Tavakkul. Le informazioni in nostro possesso su di lui sono pochissime. È originario dell’Azerbaijan, dove tuttora vive in quello che definisce un “villaggio pittoresco”; ha un’età indefinita, probabilmente tra i trenta e i cinquant’anni; ed è una star di YouTube.

Il suo canale, Wilderness Cooking, ha 3,3 milioni di iscritti e, secondo i dati forniti da lui stesso sul suo sito, fa 30 milioni di visite al mese. Sempre sul suo sito sostiene di avere 130mila nuovi iscritti al mese e di pubblicare due nuovi video a settimana. Guardando al canale questi numeri non sembrano realistici ma con migliaia di commenti e centinaia di migliaia, a volte milioni, di “mi piace”, a ogni suo video, la popolarità di Tavakkul è innegabile. 

FENOMENOLOGIA DI UN PRIMITIVO

Tavakkul ha aperto il canale nel 2020 spinto, leggiamo sempre nel suo sito, spinto dalla «passione per cucinare» e dal suo «amore per la natura». Il primo video risale al 27 gennaio 2020 e si intitola Baked corn on the cob, mais cotto alla piastra. Fin dall’inizio la cifra distintiva di Tavakkul è che fa tutto in grande. Non cucina una pannocchia di mais, ne cucina cento. Da solo riesce a gestire la cottura di verdure, carne, pesce in quantità che andrebbero bene per sfamare una scolaresca di adolescenti affamati.

Nei primi video parla: si presenta, spiega cosa fa e guarda in camera, raccontando le ricette in un inglese con un accento molto marcato. All’inizio sembra volerci stupire solo con i grandi numeri, poco importa se cucina Coca Cola chicken drumsticks oppure Fruit in Tandoori with Nutella. 

Ma più passano i mesi più Tavakkul punta meno sull’effetto spettacolarizzazione (anche se tuttora pubblica ricette di pizze gigantesche ai sei gusti) e più su quello che dà il nome al suo canale, la wilderness appunto: il legame primitivo con la natura, con le mani ricoperte di sangue che scavano una buca per il falò.

Molte delle ricette che prepara sono afferibili alla tradizione gastronomica caucasica come i khinkali, ravioli ripieni di carne e brodo tipici della Georgia, oppure a quella mediorientale, come la shawarma di pollo e i dolma, o ancora il kalle pache khash, zuppa di testa di pecora dell’Iran, e così via. Ci sono anche ricette tipiche azere come la chigirtma, un piatto di pollo, melanzane, fagiolini, spinaci e montone. Per cucinare utilizza spesso un forno tandoor o uno spiedo per kebap.

Ma la vera peculiarità dei video di Wilderness Cooking è il silenzio. Ormai Tavakkul non pronuncia nemmeno più le poche parole che diceva all’inizio del suo canale. Si mette a cucinare in silenzio, mentre i sottotitoli elencano gli ingredienti senza dose.

La telecamera indugia sui dettagli e noi sentiamo solo il suono del coltello che taglia la carne o dell’olio che sfrigola. I suoi video potrebbero quasi rientrare nella categoria ASMR: quella categoria di video, ora popolarissima su YouTube, dove alcuni performer producono audio che sollecitano la “risposta sensoriale meridiana autonoma”.

IL SUCCESSO DEL SILENZIO

Il celebre cuoco e conduttore televisivo Jamie Oliver ha 5,68 milioni di iscritti al suo canale YouTube. Le visualizzazioni dei suoi video non sono così lontane da quelle di Tavakkul. Com’è possibile un perfetto sconosciuto dall’Azerbaigian sia diventato così famoso?

Le sue ricette non sono quasi mai riproducibili da un comune utente (a meno di non avere un forno tandoor in giardino o un montone disossato a disposizione). Eppure sotto ogni nuovo video si affastellano commenti in tutte le lingue del mondo. «You always add a pinch of love, a dash of imagination and a sprinkling of magic to your receipes [sic]. That’s why they look so delicious», commenta un uomo. «Chef Tavakkul is a master of good nutrition. [...] Thank you for lighting up our life with your amazing videos. Keep them coming, please». 

La prima impressione è che Tavakul sia arrivato davanti alla telecamera per caso, senza rendersi conto di cosa poteva succedere: un uomo solitario, che ama stare tra le montagne e sventrare capretti, che fa i video per diletto. Questa convinzione svanisce nel momento in cui visitiamo il suo profilo Instagram.

Qui rimanda a un link che scopriamo essere il suo shop dove vende utensili di vario uso culinario. Qui si lancia in affermazioni di dubbia veridicità scientifica: gli oggetti hanno una «composizione ecologica» che li rende completamente riciclabili e soprattutto non contengono «pericolose impurità chimiche che distruggono il corpo durante l’utilizzo» e «l’ambiente durante la decomposizione». Ma gli sconfinamenti in campo olistico non finiscono qui. Gli oggetti Home & Wild, ci racconta, sono impregnati di olio di semi di lino: serve a impedire al legno di assorbire l’acqua, o seccarsi, e soprattutto ha “proprietà curative”. 

FAGIANI E PIETRE

Tavakkul è uno YouTuber a dir poco atipico. In tempi in cui vanno per la maggiore ricette ultra-semplificate, con ingredienti di facile reperibilità, lui disossa fagiani e li cuoce in forni di pietra che costruisce con le proprie mani. Non fa chiacchiere, non scherza, non racconta aneddoti né imbastisce narrazioni.

Fa riscoprire al popolo dei social il fascino del suono del fuoco che scoppietta, la bellezza della pelle del pesce che si arrostisce lentamente sulla griglia, la soddisfazione del pane che lievita. Eppure anche lui non è immune dalla tentazione di guadagnare vendendo coltelli dalle proprietà curative, come una qualsiasi fitness blogger che pubblicizza tisane dimagranti. FEDERICA BIGNAMI

Nel nome del sushi. La verità, vi prego, sulla cucina orientale. Gastronomika su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

“Il dizionario dei sapori giapponesi. Ingredienti, piatti, cultura” di Richard Hosking, tradotto da Stefania Viti per Gribaudo, si annuncia come un punto di riferimento per i tanti appassionati di cucina orientale, per chi l’ha incontrata recentemente e per chi già la conosce. 

I giapponesi hanno iniziato a usare i tavoli solo nella seconda metà del secolo scorso. Prima di allora i pasti venivano serviti su vassoi a uso personale (oshiki) o vassoi con gambe (zen) posizionati a terra davanti a ogni commensale. Questa tradizione non si è affatto estinta e, al contrario di quanto avvenuto per l’usanza cinese, ha fatto sì che si continuasse a servire il cibo in porzioni individuali.

La principale eccezione a questa regola sono i piatti preparati in una grande pentola, come il sukiyaki, che si cucina al tavolo, e l’o-sechi ryōri, il cibo tipico di Capodanno, che è impacchettato in una grande scatola ed è per tutti i commensali. In famiglia tutti i piatti, a eccezione di quelli che devono essere mangiati caldi (come il riso e le zuppe) sono posizionati davanti al commensale, di solito in porzioni individuali. L’eccezione principale sono forse i sottaceti.

Dal momento che alcuni li amano moltissimo e altri no, è più comodo che vengano serviti su un piatto comune. Non sono molte le casalinghe che trascorrono la giornata a pensare all’estetica della sistemazione di tre sardine nel piatto, come farebbe uno chef professionista. Di conseguenza, il cibo che arriva in tavola è appetitoso, ma non esteticamente suggestivo.

Il menu consiste normalmente nel semplice ichijū sansai (una zuppa e tre piatti), seguito (o accompagnato) da riso, sottaceti e tè. I tre piatti sono di solito namasu (sashimi o pesce fresco con aceto), nimono (un piatto cotto stufato) e yakimono (un piatto grigliato). Questi tre possono essere sostituiti da nabemono (piatto cotto in pentola al centro del tavolo). Alla fine del pasto vengono serviti frutta fresca e tè.

Il pasto al sacco

Il pasto al sacco (bentō) è un’istituzione, versatile ed eccellente. Tutto, dal cibo da portare a scuola, per un picnic o da mangiare in treno, alla haute cuisine della shōkadō bentō o il poco più piccolo makunouchi bentō (che originariamente veniva mangiato negli intervalli delle performance di teatro Kabuki), può essere contenuto in una scatola e trasportato dove ne abbiamo bisogno. Non deve però necessariamente essere portato da qualche parte. Ci sono ristoranti, specialmente a Kyoto, che sono specializzati in pranzi in stile bentō. In questo caso, non tutto il cibo può essere contenuto in una scatola, che è il pezzo centrale di una bellissima natura morta. Solo la fame può indurre qualcuno a distruggere la gustosa disposizione di quei piccoli bocconcini.

Uno dei requisiti di un bentō è la varietà di cibi e di colori, da abbinare in modo che il risultato sia esteticamente piacevole. Dovrebbero esserci almeno dieci tipi diversi di cibo, sebbene il bentō vegetariano shōjin ryōri che si vende sulle banchine dello Shinkansen alla stazione di Kyoto ne contenga più di venti. Il riso può essere servito in una scatola separata che, unita a quella principale, forma una sorta di nido. Tradizionalmente il riso è freddo, ma al giorno d’oggi molti venditori riempiono le scatole di bentō con riso caldo al momento dell’acquisto.

Il pasto formale

I pasti formali sottintendono a un intricato e rigido sistema che regola la presentazione, dato che in questo caso l’estetica è la cosa più importante. Ka’ichi Tsuji, uno dei più grandi maestri dell’alta cucina giapponese scrive: «Nella cucina giapponese non c’è niente di più importante del saper sistemare bene il cibo, ponendo speciale attenzione al colore, su piatti scelti in modo tale da valorizzarlo». L’assenza di qualsiasi riferimento al gusto è significativa. Donald Richie, nel suo famoso libro A Taste of Japan, scrive, «Il cibo deve essere ammirato così come mangiato. L’ammirazione che si vuole suscitare va ben oltre il gusto. L’apparenza riserva le proprie soddisfazioni e si può dire che in Giappone gli occhi sono grandi tanto quanto lo stomaco. Certamente il numero di regole che coinvolgono modelli e metodi di presentazione indicano l’importanza che ha la presentazione visiva».

Ci sono due tipi principali di pasto formale. Il primo è il pasto che si consuma di solito a un matrimonio. In questo caso, la maggior quantità di cibo possibile è disposta in anticipo sul tavolo davanti al commensale. Cibi caldi come zuppe e creme salate vengono serviti durante il pasto. Il sushi o il sekihan (riso bianco al vapore con fagioli azuki, piatto celebrativo e molto delizioso) possono essere serviti a fine pasto, non tanto perché gli invitati li mangino subito, ma piuttosto perché li portino a casa.

Il menu dovrebbe essere composto secondo le seguenti regole di base: zensai (antipasto); suimono (zuppa leggera); sashimi (pesce crudo); yakimono (cibo alla griglia); mushimono (cibo cotto al vapore); nimono (cibo stufato); agemono (cibo fritto); sunomono (cibo sottaceto) o aemono (insalata di ingredienti cotti).

La fine del pasto non è sottoposta a regole troppo rigide, ma, come detto prima, è probabile che venga servito del sekihan. È altrettanto probabile che vengano serviti frutta fresca e tè.

Il secondo tipo di pasto formale è conosciuto come kaiseki ryōri (ryōri significa «cucina», «cibo cucinato«, «piatti»). Esistono due tipi di kaiseki, riconoscibili dal diverso modo nel quale vengono scritte le parole. Il tipo formale viene servito durante un certo tipo di cerimonia del tè piuttosto lungo, e viene dunque chiamato cha kaiseki. L’altro tipo di kaiseki assomiglia più a una festa dove si beve in allegria.

In tutti i pasti formali al commensale non è comunque data la possibilità di scegliere. Lo chef sceglie il menu, che segue rigide e complesse regole, la prima delle quali è che il menu deve valorizzare la stagione. Poi i piatti e recipienti devono essere scelti per valorizzare il cibo. La regola base è che il cibo di for- ma rotonda va servito su piatti quadrati, mentre cibi dalla forma squadrata o allungata su piatti tondi. C’è bisogno di molti piatti, dato che anche il modello e il colore deve accordarsi alla stagione. Il cibo è posizionato sul piatto secondo le regole giapponesi del moritsuke.

Ovviamente esistono molti altri tipi di pasti che si adattano ad altre occasioni. La colazione giapponese tradizionale segue la regola base che prevede riso bianco, zuppa di miso, sottaceti e piatti di contorno. Anche i picnic, durante i quali si mangia un’ampia varietà di cibo, sono molto popolari. 

Richard Hoskings (1933-2019) si è laureato a Cambridge ed è stato professore emerito di sociologia e di inglese all’Università Hiroshima Shudo. Ha vissuto in Giappone per oltre venticinque anni e ha tenuto lezioni sul cibo giapponese all’Oxford Symposium dedicato alla gastronomia e in moltissime altre parti del mondo. È autore di numerosi articoli e testi dedicati alla cultura nipponica. “Il dizionario dei sapori giapponesi”, originariamente pubblicata con il titolo “A dictionary of Japanese Food”, è la sua opera più conosciuta, nonostante non sia mai apparsa in Italia prima d’ora.

·        L’alimentazione alternativa.

Alessio Ribaudo per il “Corriere della Sera” il 27 settembre 2022.

La domanda inconsueta per un social come TikTok arriva dallo Spazio: «Perché non provate anche voi a mangiare gli insetti?». A porla è l'astronauta Samantha Cristoforetti mentre si gusta una barretta ai cerali a base di farine di grillo al mirtillo che fa parte dei cibi «bonus» che ogni componente dell'equipaggio spaziale può portare a bordo. 

Se sarà «la nuova frontiera del food», come la definisce AstroSamantha nel video subito virale, lo stabilirà il tempo ma, adesso, il suo endorsement ha diviso decine di migliaia di follower che la seguono anche su altre piattaforme come Twitter. Poi ha aggiunto sulla barretta: «È buona per te e per il Pianeta». 

La maggior parte dei suoi follower, però, sembra non essere troppo disposta a seguire il consiglio. In tanti replicano con l'ironia. Si va da Roberto che scrive di preferire «polenta e cinghiale» a Domi che si chiede: «Perché dovrei mangiare insetti? Paese che vai cultura che trovi: io sono cresciuto a spaghetti al pomodoro e non intendo rinunciarci. W la pasta!». Simona è possibilista: «Noi italiani potremmo insegnare al mondo a mangiare bene anche usando la farina di insetti!».

Astrosamantha, da domani comandante della Stazione spaziale internazionale (Iss), ha argomentato: «Sapevate che oltre 2 miliardi di persone nel mondo mangiano insetti? In molti Paesi gli insetti sono stati consumati e dati da mangiare agli animali da allevamento per secoli. Alcune specie sono addirittura considerate prelibatezze. Secondo la Fao, oltre 2.000 specie di insetti vengono consumate dagli esseri umani in tutto il Pianeta. E anche nello Spazio! La mia barretta ai cereali ai mirtilli contiene anche farina di grilli come fonte di proteine». 

In Italia alimenti a base di farine di insetti come chips e biscotti sono già sugli scaffali di supermercati, soprattutto in Veneto e Lombardia, da qualche mese e hanno creato polemiche. Presto arriveranno la pasta e ingredienti per preparare pane e pizza.

Cristoforetti ha poi voluto smitizzare alcune false credenze: «Se trattati in modo sicuro e nel rispetto del loro benessere gli insetti possono essere una fonte di cibo ricca di nutrienti ecologicamente sostenibile. In Europa grilli, vermi e cavallette sono considerati nuovi alimenti che si possono mangiare». A favore della scelta di AstroSamantha si schiera il nutrizionista Nicola Sorrentino. 

«Gli insetti che finiscono sulle tavole sono prodotti per questo scopo e sono sicuri - dice il direttore della Food Academy dell'Università Iulm di Milano -. È più una questione culturale perché, nonostante i benefici evidenziati dell'entomofagia, la sua diffusione è limitata in Occidente perché in molti pensano che solo la nostra dieta sia corretta e non modificabile. Alcuni provano disgusto all'idea di cibarsi così ma in Asia, Africa e America Latina gli insetti sono consumati per il loro sapore: alcuni bruchi o uova di formiche, sono considerate leccornie e venduti a prezzi alti».

Ci sono delle specie preferite: «Appartengono alle famiglie di coleotteri, bruchi, api, vespe, formiche e cavallette ma i grilli di cui ha parlato AstroSamantha sono fonte di proteine e, in molti casi, anche superiori a carne, pesce o soia. Forniscono poi energia, proteine e amminoacidi, acidi grassi essenziali e micronutrienti benefici per la salute umana. Alcuni contengono buoni quantitativi anche di minerali e vitamine, in particolar modo sodio, potassio, calcio e zinco». 

Sorrentino è positivo sul futuro dell'entomofagia: «Era impensabile 20 anni ipotizzare che in Italia si sarebbe mangiato tanto pesce crudo o alghe, eppure il successo del sushi è innegabile». Ci sono delle variabili da considerare: «L'industria alimentare ricoprirà un ruolo importante nel proporre gli insetti come cibo ma non stupiamoci se tra ci troveremo a consumare aperitivi a base di spiedini di larve e cavallette fritte». 

Da ilmattino.it il 14 febbraio 2022.

Il grillo domestico, o «del focolare», è il terzo insetto autorizzato come nuovo alimento nell'Ue. Lo ha annunciato la Commissione europea, dopo il parere scientifico positivo dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e il via libera dei paesi Ue. I grilli potranno essere commercializzati nel mercato unico interi congelati, interi essiccati e in polvere, come snack o come ingrediente nei prodotti alimentari. 

Le due precedenti autorizzazioni riguardavano il tenebrione mugnaio, meglio noto come tarma della farina, e la locusta migratoria. Già parte della dieta quotidiana di centinaia di milioni di persone nel mondo, negli ultimi anni l'interesse negli insetti come alimenti è cresciuto in Europa.

La strategia Ue «dal produttore al consumatore» (Farm to Fork) li identifica come una fonte alternativa di proteine a basso impatto ambientale. Nell'ambito di Orizzonte Europa, il programma Ue per la ricerca e l'innovazione, le proteine da insetti sono considerate una delle aree chiave. 

«L'uso degli insetti come fonte alternativa di proteine non è nuovo - spiegano a Bruxelles - poi spetta ai consumatori decidere se li vogliono mangiare o meno». C'è infatti anche un interesse di mercato, con la corsa delle imprese alimentari più innovative, anche italiane, a proporre prodotti che sostituiscono le fonti tradizionali di proteine.

È di un'azienda nazionale, ad esempio, la domanda di applicazione per la commercializzazione della farina di grilli. Ma le domande presentate all'Efsa per gli insetti sono solo 9 su 190. «Dall'entrata in vigore del nuovo regolamento Ue sui novel food, nel 2018, abbiamo assistito a un forte aumento delle domande per nuovi prodotti alimentari, comprese in particolare nuove fonti proteiche alternative», dice all'ANSA Ermolaos Ververis, del team Efsa sui nuovi alimenti.

Parliamo soprattutto di prodotti di origine vegetale, da alghe o funghi. L'esempio è l'estratto da fagiolo mungo, che ha ricevuto l'ok dall'Autorità in ottobre, per la sostituzione delle uova nell'industria alimentare. E sono in arrivo concentrati ed estratti proteici da lenticchie, riso e piselli. 

L'Ue «mette i grilli nel piatto e toglie il vino dal bicchiere», attacca Coldiretti, in riferimento al voto sul piano anti-cancro della settimana prossima all'Europarlamento, «che rischia di demonizzare il consumo di vino con misure come allarmi salutistici in etichetta già adottati per le sigarette l'aumento della tassazione o l'esclusione dalle politiche promozionali dell'Unione Europea». 

Gabriele Principato per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.  

Grilli, larve e locuste nei menu delle mense nelle scuole primarie.

Avverrà (forse) nel Regno Unito, ma intanto il progetto in fase di studio ha conquistato Beppe Grillo. Tanto che la notizia della ricerca degli scienziati britannici è diventata l'apertura del Blog del Garante del Movimento 5 stelle, come simbolo di un'alimentazione più sostenibile e attenta al pianeta. «I bambini impareranno così i benefici nutrizionali e ambientali del consumo di insetti - si legge nel post -, come grilli, cavallette, bachi da seta, locuste e vermi della farina». Dando seguito così a ciò che auspica da anni l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), che spinge verso il consumo di insetti anche in Occidente, forte del fatto che nel mondo facciano già parte della dieta di oltre 2 miliardi di persone.

Test dai 5 agli 11 anni Ma in cosa consiste davvero l'esperimento britannico raccontato dal sito di Grillo? La ricerca mira a studiare gli atteggiamenti dei bambini - tra i 5 e gli 11 anni - nei confronti delle questioni ambientali e come tali cambiamenti influiscano sul cibo che mangiano. Per fare ciò un team di accademici dell'Università di Cardiff e dell'Uwe di Bristol sta studiando dei menu a base di insetti per quattro scuole elementari. Ai giovanissimi studenti verrà offerto un prodotto chiamato VeXo, una combinazione di insetti e proteine vegetali.

Un progetto che ci offre uno sguardo sul paniere del futuro, secondo il blog del co-fondatore del M5s. «Ci sono circa 2.000 specie di insetti commestibili in tutto il mondo», ricorda Beppe Grillo.

Questi insetti «possono offrire un'alternativa sostenibile alle proteine tradizionali presenti nella carne e nella soia. Ciò potrebbe contribuire a ridurre i 64 milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse ogni anno dalla produzione e dal consumo di prodotti a base di carne».

Dalla Cina all'Olanda Nulla di strano. In altri continenti mangiare insetti è considerato normale. In Cina i millepiedi croccanti, arrostiti al forno e poi affumicati, sono un popolare snack. Stessa sorte per la hormiga culona colombiana, formica così chiamata a causa del suo addome prominente. Fritta o tostata è considerata una vera delizia. E in Europa? Nei menu di chef in Gran Bretagna, Olanda o Belgio compaiono già piatti a base di formiche, cavallette, scorpioni e altre pietanze del genere, buone per la salute - dicono gli esperti - perché ricche di proteine e prive di grassi.

I dubbi degli italiani Ciò vuole dire che in Italia, nel giro di qualche anno, troveremo gli insetti serviti nei ristoranti sotto casa? Non secondo un recente studio di Coldiretti/Ixe che ha evidenziato come il 54% degli italiani li consideri troppo distanti dalla nostra cultura gastronomica. Alla base di tutto, secondo numerosi studi sociologici, c'è il senso del disgusto, che però potrebbe essere contrastato con una corretta informazione e promozione del prodotto in sé.

Infatti, se fino a qualche anno fa l'uso a fini alimentari degli insetti era vietato, l'Unione europea, dopo la valutazione dell'Autorità per la sicurezza alimentare, ha dato il semaforo verde alla vendita di tre insetti per l'alimentazione umana: la locusta migratoria, la tarma della farina e il grillo domestico, che possono essere consumati interi congelati o essiccati, oppure macinati e uniti ad altri ingredienti per realizzare, ad esempio, prodotti da forno. O, ancora, utilizzati come mangimi per animali d'allevamento. Una scelta, questa di Bruxelles orientata a promuovere in Europa «il passaggio a un'alimentazione più sostenibile» secondo quanto previsto dal Piano d'azione Ue 2020-2030.

E dalla strategia alimentare comunitaria Farm to fork , che contempla gli insetti all'interno della categoria dei « novel food » - ossia i «nuovi alimenti» -, un'importante e innovativa fonte di proteine animali a basso impatto ambientale. Un esempio? Un chilo di grilli ha bisogno di 15 mila litri di acqua in meno rispetto a ogni chilo di carne prodotta e il loro allevamento genera 100 volte meno gas a effetto serra.

·        Il Brodo.

Gallina vecchia. Non è vero che tutto fa brodo. Thea Papa su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Il brodo è la spalla fedele di ogni bravo cuoco ma anche l’icona dell’ecosostenibilità in cucina. Ecco i nostri consigli per non farlo diventare un ricettacolo di avanzi da frigo

Vegetale, di carne, di pesce… è l’ingrediente principe di innumerevoli ricette, che ne ricevono in eredità l’armonia di sapori pazientemente conquistata con una lenta cottura. Che siano zuppe, secondi piatti o paste ripiene, saranno ineluttabilmente rovinati se sceglieremo di usare prodotti di scarto per il nostro brodo, perché otterremo un prodotto di scarto, proprio come quando decidiamo di sfumare un risotto con del vino scadente.

Dando per assodato che anche il dado è bandito, mettiamoci all’opera e prepariamo insieme un ottimo brodo di pollo – anzi – di gallina, che potrà tornare utile per le tavolate di amici e parenti che ci aspettano nel prossimo mese (basterà ridurlo di volume e congelarlo nei contenitori per i cubetti di ghiaccio).

Quattro ingredienti in cerca di un cuoco

Il brodo è di fatto un liquido, aromatico e gustoso, quindi il suo ingrediente principale è l’acqua, il solvente destinato ad accogliere e sciogliere tutti gli elementi contenuti negli altri ingredienti; per questo conviene usare l’acqua del rubinetto solo se è buona, applicando lo stesso metro di giudizio riservato alla preparazione della moka mattutina. Il gusto principale dipenderà dall’ingrediente che dà il nome al brodo, nel nostro caso sarà una gallina, o ancor meglio un cappone. In caso di “mancata reperibilità” andrà bene anche un pollo, a discapito di un po’ di sapore.

Cogliamo l’occasione per fare un po’ di chiarezza sul dubbio amletico che ha assalito tutti, almeno una volta, davanti ai banconi della macelleria: che differenza c’è tra pollo, gallina e cappone? Sul pulcino non dovrebbero esserci esitazioni: maschietto o femminuccia, è così chiamato fino ai sette giorni di vita. Il pollo – anche qui il termine è unisex – è un “pulcinotto” che ha superato i quaranta giorni ma non ha ancora raggiunto la maturità sessuale. Diventa gallo o gallina quando entra nell’età riproduttiva; le galline che troviamo in vendita al supermercato sono spesso ovaiole a fine carriera. Il cappone è invece un maschio castrato prima della riproduzione e destinato all’ingrasso, che viene macellato dopo aver raggiunto circa due chili e mezzo di peso.

Come uscire da questa dicotomia generazionale e compiere una scelta consapevole? Le ossa degli animali più giovani rispetto a quelli maturi contengono più collagene, quella proteina che trasformandosi in gelatina darà corpo al brodo. Se desiderate un liquido corposo scegliete dunque un pollo; se invece volete dare priorità al sapore, optate senza indugio per animali vecchi, come la gallina e il cappone: d’altra parte i proverbi popolari hanno sempre un fondo di verità…

Anche se il gusto è dettato dalla carne non bisogna mai dimenticare l’elemento vegetale, solitamente presente nella classica triade cipolle, carote e sedano, in rapporto 2:1:1; ma sentitevi liberi di modificare le proporzioni, magari sostituendo le carote con i porri se preferite un brodo meno dolce. Il quarto e ultimo ingrediente è costituito da erbe aromatiche e spezie: alloro, timo, gambi di prezzemolo, pepe in grani, chiodi di garofano… l’unico limite è la fantasia. Ora che la spesa è fatta possiamo rimboccarci le maniche e metterci ai fornelli.

La pazienza di Giobbe

È proprio questa che dovrete invocare per un risultato soddisfacente: le lunghe cotture sono infatti necessarie sia per estrarre le sostanze gustose dai vegetali e dalla carne, soprattutto se l’animale è vecchio, ma anche per sciogliere il collagene. Inseriamo i pezzi di carne in una pentola alta e stretta e copriamo tutto con acqua fredda in modo da sommergerli per almeno cinque centimetri; solitamente si aggiunge il doppio o il triplo del peso rispetto agli altri ingredienti, ovvero carne e ortaggi. Quanto al sale c’è sempre tempo, e conviene aggiungerlo alla fine quando il liquido si sarà ristretto.

Seguite il “consiglio della nonna” e usate l’acqua fredda, ma non per il motivo che (probabilmente) pensate: l’acqua calda non sigilla la carne, come narrano alcune leggende metropolitane, e i succhi che vogliamo estrarre e convogliare nel brodo uscirebbero comunque. Tuttavia, immergendo le ossa nell’acqua bollente, il collagene in esse contenuto non avrebbe il tempo di idratarsi, liberando quella gelatina che dona corpo al brodo. È un po’ come quando teniamo in ammollo i fogli di gelatina prima di strizzarli e aggiungerli nella panna calda per preparare una cheesecake: questo procedimento dà il tempo all’acqua di penetrare nel foglio in profondità, così da ammorbidirlo dall’interno e scongiurare il rischio di grumi, gli acerrimi nemici del pasticciere.

A questo punto accendiamo il fuoco a fiamma medio-alta e in prossimità dell’ebollizione abbassiamolo, perché l’acqua non deve assolutamente bollire se vogliamo ottenere un brodo bello limpido: le goccioline di grasso che si staccano dalla carne devono rimanere in superficie, così da poter eliminare la schiuma con l’aiuto di un colino (il movimento vigoroso dell’acqua in ebollizione le farebbe disperdere irrimediabilmente). Una temperatura tra 85°C e 95 °C è ottimale affinché l’estrazione dei sapori non risulti troppo lenta e al contempo il brodo non diventi torbido.

Dopo due o tre ore sarà il momento di aggiungere gli ortaggi, tagliati in pezzi di circa 5 centimetri, così che non debbano cuocere per più di un’ora. Non abbiate fretta, approfittatene per leggere un buon libro o per portarvi avanti in un’altra preparazione gastronomica e la pazienza saprà ripagarvi dell’attesa: durante le lunghe cotture alcune proteine si degradano, liberando degli amminoacidi dai sapori caratteristici, come il famoso acido glutammico responsabile di quel gusto umami che ci piace tanto (motivo per cui i dadi sono addizionati con il glutammato di sodio).

Trascorsa un’ora dall’aggiunta dei vegetali sarà il turno degli odori e delle spezie, che dovranno essere aggiunti a circa 30-45 minuti dalla fine della cottura per evitare che le sostanze aromatiche si degradino o si volatilizzino.

In questa fase assaggiate più spesso, per tenere sotto controllo l’intensità di sapori: può essere utile inserire le spezie in un sacchettino di garza e legare gli odori in un bouquet garni, per estrarli al momento giusto senza andare a pesca nel brodo.

Quando sarete soddisfatti, spegnete il fuoco e filtrate il liquido cercando di trattenere anche i più piccoli residui. Se dovete conservarlo attendete che si raffreddi prima di metterlo in frigorifero, ma consumatelo entro un paio di giorni, in caso contrario sarà meglio porzionarlo e congelarlo; quando lo riutilizzate ricordate però di portarlo a ebollizione, per evitare contaminazioni batteriche. E con la carne che si fa? Non vi mentiremo, tanto più saporito sarà il vostro brodo, tanto meno lo sarà il “lesso” che ne risulta, ma questo non vuol dire che sia da buttare via! Preparate un polpettone o usatelo come ripieno per ravioli e tortellini.

Il tempo è denaro

Sapendo che andate sempre di fretta vogliamo svelarvi qualche trucchetto per ridurre i tempi.

Se avete ospiti a cena e vi serve un brodo di carne seduta stante, usate la carne macinata e fatela bollire per 10 minuti in acqua pari al proprio peso, insieme alle verdure tritate a mo’ di soffritto, filtrate il tutto e otterrete un brodo saporito. Così facendo andrete a velocizzare il processo di estrazione dei sapori facendo penetrare l’acqua più velocemente, ma non sarete in grado di ottenere un liquido corposo, dal momento che lo scioglimento del collagene richiede i suoi tempi.

Ma non è questa l’unica via, perché esiste un magico strumento in grado di portare il brodo a temperature ben superiori ai classici 80-90 °C: nella pentola a pressione il vapore che proviene dal brodo in cottura non sfugge e si accumula sopra il liquido, alzando le temperature fino a 120°C e accelerando di conseguenza i processi di estrazione.

Ci sono però delle differenze rispetto al “classico” brodo, dal momento che le reazioni innescate a temperature così alte saranno necessariamente diverse: in alcuni casi si distruggono sostanze aromatiche delicate, in altri possono trasformarsi in molecole che intensificano il gusto finale. Inoltre gli aromi non possono sfuggire nell’aria come nella cottura tradizionale, ma rimangono nella pentola e in parte vengono ridisciolti nel brodo.

Ma quindi quale dei due è più buono? Non esiste una risposta giusta, perché la verità è che ognuno ha i suoi gusti. Non vi resta che provare ed eleggere il vostro vincitore.

·        I Cuochi.

Guida Michelin 2023, a Cannavacciuolo la terza stella: «La aspettavo dal ’99». ALESSANDRA DAL MONTE su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Lo chef Cannavacciuolo ha conquistato la terza stella Michelin. I nuovi bistellati si sono rivelati quattro, 33 i monostella e 19 le stelle verdi. La cerimonia di presentazione della Guida Michelin Italia 2023 si è svolta in Franciacorta ed è stata ricca di novità

«La verità? Le tre stelle le aspettavo dal primo giorno in cui sono entrato a “Villa Crespi”, nel 1999. È stato subito un obiettivo». Ci hanno messo troppo ad arrivare? «No, è giusto così, oggi con i miei 47 anni mi sento maturo per affrontare questo traguardo, era stato forse troppo veloce all’inizio: la prima nel 2003, la seconda nel 2006. Adesso sono pronto: ho ancora un bel po’ da lavorare, e voglio crescere come gruppo, con i miei ragazzi». I ragazzi erano quelli che ieri, alla presentazione della guida Michelin Italia 2023 in Franciacorta, non lo lasciavano salire sul palco da tanto lo tenevano stretto in un abbraccio. Collettivo e liberatorio.

Cannavacciuolo è il 12esimo tristellato d’Italia

Antonino Cannavacciuolo è diventato il dodicesimo chef tristellato d’Italia, a Orta San Giulio. Un cuoco televisivo — famoso soprattutto per Masterchef — che arriva a queste vette: è stata superata l’opposizione cucina-tv? «Io in realtà sono molto presente in cucina. La tv mi ha dato la possibilità di migliorare le mie aziende e di aprirne di nuove». Sul palco si è emozionato, e come prima cosa ha ringraziato la moglie Cinzia: «Oggi è il nostro anniversario, sarà l’unico anno in cui mi perdona perché non lo festeggiamo». Risate. «Nel 2003, anno della prima stella, ci siamo sposati. Nel 2006 aspettavamo nostra figlia Elisa. Oggi è pure l’anniversario di 50 anni di matrimonio dei miei: per ogni stella una tappa importante della vita», commenta. Poi però parla di quello che più gli sta a cuore, la squadra: «Il progetto di Villa Crespi non si ferma qui. Oggi lo abbiamo rafforzato, ma ci sono nuove aperture in vista, perché ho tanti ragazzi che vogliono iniziare a camminare da soli. Per salire magari, un giorno, su questo palco».

Le novità della Guida Michelin Italia 2023

Di giovani, ieri, se ne sono visti in effetti parecchi: tra le 38 novità della guida 2023, 20 chef avevano 35 anni al massimo, sei meno di 30. Nella galassia Cannavacciuolo è stato premiato Marco Suriano del «Vineyard», in Toscana, che porta a sette le stelle del gruppo. Mentre il mondo di Enrico Bartolini, chef tristellato che ieri ha preso il premio speciale come Mentor, è arrivato a 12 riconoscimenti con «Anima» a Milano e «Fuoco sacro» in Sardegna e le due stelle andate a Gabriele Boffa della «Locanda Sant’Uffizio» di Penango (Asti). Quattro in totale in nuovi bistellati: oltre a Boffa, «Acquolina» ed «Enoteca La Torre» a Roma, «St. George by Heinz Beck» a Taormina. I «monostellati» sono stati 33, tra i quali spicca Davide Guidara, 28 anni: stella rossa più stella verde per la sostenibilità e premio come Miglior giovane chef per la sua proposta vegetale da «Tenerumi», a Vulcano. Da segnalare, tra i doppi premi (stella rossa e verde) anche «Dalla Gioconda» (Gabicce Monte) e «Osteria del Viandante» (Rubiera), locali di proprietà di Marco Bizzarri, Presidente e Ceo di Gucci, che ha commentato: «Questi riconoscimenti aprono una porta verso un mondo di creatività e rispetto per il territorio e le persone».

In Franciacorta, territorio partner della Michelin, l’agriturismo «Il Colmetto» si è aggiudicato la stella verde: «Anche quest’anno abbiamo avuto il piacere di ospitare l’eccellenza della cucina italiana, ambasciatrice del Made in Italy», ha detto il presidente del Consorzio Silvano Brescianini. Spiace sempre vedere pochissime donne su quel palco. Quest’anno solo una, Sara Scarsella di «Sintesi».

Borsino stellato.  Cannavacciuolo conquista la terza stella Michelin. Anna Prandoni su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Due nuovi due stelle a Roma, a Taormina e alla Locanda Sant’Uffizio, che conquistano due macaron. Tantissimi i giovani nelle premiazioni, a dimostrazione che la nuova e giovane cucina italiana sta davvero facendo la differenza

Cannavaciuolo conquista la terza stella, e si aggiunge agli altri 11 ristoranti tristellati del nostro Paese. Due nuovi due stelle a Roma, Acquolina e Enoteca La Torre. Anche Salvatore Iuliano del St George di Taormina e Gabriele Boffa di Locanda Sant’Uffizio di Penango conquistano due macaron. Tantissimi i giovani nelle premiazioni, a dimostrazione che la nuova e giovane cucina italiana sta davvero facendo la differenza.

Tra le 38 novità, sono 20 gli chef con età uguale o inferiore ai 35 anni, 6 dei quali con età uguale o under 30. Un dato da sottolineare: tutti gli chef dei nuovi ristoranti hanno una età inferiore ai 35 anni! In guida quest’anno 150 nuovi ristoranti, di cui dieci ricevono la stella rossa e cinque la stella verde.

Per il secondo anno consecutivo la premiazione della guida Michelin avviene in Franciacorta, luogo partner della rossa per tre anni. La distribuzione delle prestigiose stelle Michelin italiane è stata svelata nel tardo pomeriggio di martedì 8 novembre, durante la premiazione al Relais Franciacorta.

«L’Italia ha particolarmente colpito i nostri ispettori quest’anno, che hanno assegnato 38 nuove stelle, tra le quali spicca un nuovo tre stelle che entra nell’Olimpo della gastronomia italiana: Villa Crespi». ha commentato Gwendal Poullennec, Direttore Internazionale delle Guide Michelin, «Questa Selezione 2023 della Guida racchiude 385 ristoranti stellati guidati da Chef con profili molto diversi tra loro. Un nuovo record per la penisola, che sottolinea quanto la tradizione della cucina italiana e l’innovazione siano un connubio perfetto per esperienze culinarie eccezionali, ricche di emozioni, storia e convivialità».

Enrico Crippa fa più uno conquistando anche la stella verde, che si somma alle tre stelle di Piazza Duomo ad Alba. Due nuove due stelle a Roma, e un nuovo due stelle a Taormina.

Enrico Bartolini vince il premio chef mentore 2023 e si emoziona per la prima volta su questo palco per un premio che si merita e che è il coronamento di una grande carriera personale ma anche di condivisione: nel tempo questo chef ha conquistato infatti dodici stelle complessive in otto ristoranti: «Si dice che Michelin sia avara, ma sono la dimostrazione che non è così».

Gwendal Poullenec, direttore internazionale delle guide Michelin, fa un ritratto della situazione attuale della cucina del nostro Paese: «È sempre un piacere tornare nelle sedi della tradizione della nostra guida, come l’Italia, dove c’è una grande diversità tra le tante regioni. Una cucina fatta di grande qualità, generosità e creatività. Abbiamo premiato i professionisti con percorsi diversi, in grado di offrire esperienze indimenticabili per la loro clientela. In questo Paese c’è una grande pluralità e in tutte le regioni si trovano competenze varie e affascinanti».

Silvano Brescianini, presidente del Consorzio Franciacorta fa gli onori di casa: «È un grandissimo piacere vedere qui riunita la grande ristorazione italiana, importante per la promozione dell’italianità per i tanti turisti che vengono qui a trovarci. E importante anche per quello che rappresenta: la gastronomia porta l’Italia nel mondo e permette di valorizzare la filiera del made in Italy all’estero. La cucina porta nel mondo lo stile, la cultura e promuove città, tradizioni e cultura. È anche l’occasione per i 123 produttori del Consorzio di ringraziare gli artigiani e gli agricoltori che creano nel nostro territorio i tanti prodotti e ingredienti protagonisti di questa cucina».

Da parte nostra non possiamo che essere entusiasti per una stella in particolare, quella conquistata da Davide Marzullo, che ha cucinato alla cena al nostro Festival che ha celebrato la nuova giovane cucina italiana. A lui, e a tutti gli altri premiati vanno i complimenti di Gastronomika e un grande in bocca al lupo per il loro futuro.

I due nuovi due stelle:

Acquolina – Roma – chef Daniele Lippi*

All’interno dell’hotel The First Roma – Il giovane Chef propone una cucina dove tecnica e fantasia esaltano la materia prima in modo mai banale, ma senza inutili virtuosismi. Tre i menu degustazione che presentano varie visioni della cucina dello chef al centro dei quali domina il Mediterraneo, con i suoi prodotti, i profumi e le sue tradizioni.

Enoteca La Torre – Roma – chef Domenico Stile*

I piatti dello chef campano celebrano la creatività con energia, esuberanza e i sapori intensi tipicamente del mediterraneo e della tradizione campana. L’amore per il proprio territorio accoglie tributi alla storia gastronomica della capitale e ai grandi classici della tradizione culinaria italiana per un viaggio goloso e variegato che può portare anche oltre i confini del Bel Paese.

St. George by Heinz Beck – Taormina – chef Salvatore Iuliano**

Che vi lasciate guidare dai due menu degustazioni oppure da un pasto alla carta, in tutte le preparazioni troverete la leggerezza, firma del maestro Heinz Beck e tratto distintivo del talentuoso chef calabrese Salvatore Iuliano. La sua proposta di cucina alterna piatti creativi a richiami della tradizione con tributi alla Trinacria, per chi è alla ricerca di una cucina mediterranea lontana dalle convenzioni.

Locanda Sant’Uffizio Enrico Bartolini – Penango   – chef Gabriele Boffa*

All’interno di un’antica struttura monastica divenuta un raffinato albergo, troviamo ai fornelli uno chef con mestiere e abilità non comuni. Gabriele Boffa, langarolo e profondo conoscitore della cucina piemontese, vanta straordinarie abilità tecniche sviluppate attraverso importanti esperienze maturate nei migliori ristoranti del mondo. La sua cucina spazia dai grandi classici regionali che esegue fedelmente – come gli straordinari agnolotti del plin – a piatti più creativi e innovativi che non tralasciano un legame con il territorio.

Macaron. Tutte le cose da sapere sulla Michelin, che oggi svelerà in Franciacorta le nuove stelle. Anna Prandoni su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Nonostante le polemiche che la vedono coinvolta ogni anno, per ogni nuovo annuncio, rimane il punto di riferimento indiscusso della ristorazione di livello. Vi spieghiamo perché, in attesa della serata di oggi, che seguiremo dalla Franciacorta

Chi vince la stella, chi perde la stella, chi ci piacerebbe aumentasse da due a tre, chi vorremmo la perdesse: nel piccolo mondo della ristorazione, questi sono giorni di scommesse. C’è un fittissimo scambio di messaggi, previsioni, idee, ma la realtà è che nessuno davvero sa nulla sullo “svelamento” della 68esima edizione della rossa, che avverrà martedì 8 novembre in Franciacorta, territorio partner dell’evento per un triennio.

E forse è proprio questa la vera forza di una guida storica, che fin dagli inizi del ’900 aiuta i gourmand di tutto il mondo a ritrovarsi a tavole gastronomiche, dove essere sedotti da piatti ricercati, preparati e serviti con cura e attenzione in un ambiente elegante. Il segreto mantenuto intorno a questa serata è totale, e neanche gli addetti ai lavori riescono ad avere anticipazioni. Gli chef coinvolti nella premiazione sanno all’ultimo momento se e come verranno premiati. A volte – come è capitato per esempio a Davide Oldani nel 2020, passato da una a due stelle – lo scoprono direttamente sul palco, e l’emozione è infinita e a favore di telecamera.

Potete seguire l’evento in streaming, e noi saremo in Franciacorta a raccontarvelo, sui social e anche qui sul sito, in un pezzo che sarà aggiornato in tempo reale per darvi man mano i risultati di questa guida 2023. Ma per prepararci all’evento, abbiamo provato a spiegare le regole del gioco di quella che rimane la più autorevole e influente guida al buono.

La guida Michelin in pillole

La guida Michelin è un precocissimo esperimento di brand journalism. Tutto iniziò da una piccola azienda di pneumatici, a fine ’800. I fratelli André ed Édouard Michelin la fondarono ma si resero subito conto che le auto in Francia erano poche e viaggiavano ancora meno. Per convincere i loro clienti a consumare più gomme, si inventarono un librino che li aiutasse a scovare officine, ma anche hotel e ristoranti fuori dalle città, per incentivare l’uso dell’auto e la conseguente usura delle ruote.

L’esperimento piacque ma la guida era offerta gratuitamente, il che la sminuiva soprattutto agli occhi dei meccanici. Il cambio di rotta avvenne nel 1920, anno nel quale la Michelin iniziò ad essere venduta a 7 franchi.

Le stelle, anzi, i macaron come più correttamente dovremmo chiamare i simboli che identificano le ottime tavole, vennero introdotti nel 1926, ma è solo nel 1936 che la classificazione con le stelle diventa la norma e assume un senso preciso. In Italia arrivò nel 1957 e da allora è un riferimento anche nel nostro Paese.

Quali sono gli asset della guida?

Essenzialmente, due. Gli ispettori sono dipendenti della guida, il che li rende inattacabii e incorruttibili. Il secondo asset è il linguaggio dei simboli: la guida parla per pittogrammi, il che la rende comprensibili a tutti, quindi perfetta anche per un cliente e lettore internazionale. Il lettore tipo è il Mr. Smith che gira il mondo alla ricerca di luoghi del gusto da scoprire: in ognuno deve trovare la sua identità e il suo equilibrio: un livello medio e costante nel quale riconoscersi. 

Ma che cosa significa ottenere le stelle, per un ristorante?

Innanzitutto è il coronamento di un sogno, perché il premio è prestigioso e universalmente riconosciuto. Ma è anche un grande viatico economico: una stella, e ancora di più due e tre, spostano decisamente verso l’alto il fatturato di un ristorante e permettono di essere visibili e conosciuti da una importante cerchia di clienti ben disposti a viaggiare per mangiare bene, esigenti ma anche alto spendenti. Succede anche con le altre guide? No, ed è questa la vera forza della “rossa”.

Tutti i ristoranti in guida sono “stellati”?

Questa è forse una delle false credenze per eccellenza. Solo il 20% dei ristoranti presenti in guida hanno la stella. La maggior parte, quindi, sono nella selezione ma non hanno macaron da vantare.

Ma premia gli chef o il ristorante?

La guida Michelin premia il ristorante nel suo insieme, quindi è scorretto parlare di “chef stellato” perché ad essere stellati sono i locali, e non i singoli interpreti. Tant’è vero che quando uno chef lascia il ristorante, non è detto che il locale perda le stelle, e di sicuro lo chef non le porta con sé nella nuova insegna. In assoluto, esserci o non esserci non è mai una questione personale, ma di ristorante.

Ma, esattamente, che cosa si intende con la classificazione?

1 Stella – Interessante: è un’indicazione per chi desidera approfondire la conoscenza della destinazione.

2 Stelle – Merita la deviazione: sono i luoghi che meritano una deviazione durante il viaggio.

3 Stelle – Vale il viaggio: sono gli “imperdibili”, luoghi di fama artistica, storica o naturale internazionale. Quelli per cui vale la pena creare un viaggio ad hoc.

E infine, può essere considerata critica?

La Michelin, come ci dice il suo direttore comunicazione e relazioni esterne Marco Do, è una guida che accompagna chi viaggia. Il lettore è una persona che si affida agli ispettori per un consiglio che deve essere soddisfatto. Questa è la grande differenza tra la critica gastronomica e la Michelin.

Tante, nei decenni, le storie e gli scandali, che hanno addirittura portato alcuni chef a suicidarsi per il mancato riconoscimento. Molte le voci sugli ispettori, anche dopo l’uscita del libro “L’inspecteur se met à table” di Pascal Remy, che per primo ha alzato il velo sulle prassi e le abitudini di questi soggetti mitici che girano per il mondo alla scoperta dei luoghi sacri del buon gusto.

Ma la credibilità della guida è sempre stata altissima, e nonostante le critiche che seguono ad ogni uscita, rimane un punto di riferimento assoluto per tutti coloro che vogliono delle certezze per scegliere un ristorante.

Forse troppo filofrancese, forse non abbastanza attenta alla creatività e alla contemporaneità, forse troppo improntata al classico, forse troppo attaccata alle insegne d’antan: sta di fatto che – nonostante tutti i difetti che negli anni le vengono attribuiti, “la rossa”, come viene chiamata dagli addetti ai lavori, ancora oggi a di 120 anni dalla sua fondazione, rimane un vademecum fondamentale per fare una fotografia della ristorazione.

Federica Maccotta per corriere.it il 26 giugno 2022.  

Alan Wong (1,1 miliardi di dollari)

Il Paperon de’ Paperoni degli chef è Alan Wong, con un patrimonio netto di 1,1 miliardi di dollari (per fare un paragone, il patrimonio del rampollo della famiglia Agnelli John Elkann secondo Forbes ammonta a due miliardi di dollari). Lo chef cinese-americano ha contribuito a lanciare la cucina hawaiana con i suoi ristoranti, i suoi libri e le sue partecipazioni a programma televisivi.  

Nel 2009, per dire, ha organizzato un party hawaiano per il presidente degli Usa Barack Obama alla Casa Bianca. A causa del Covid lo chef ha dovuto chiudere il suo ristorante di Honolulu, come si legge sul sito, e al momento sembra non avere altri locali aperti in giro per il mondo. 

Jamie Oliver (310 milioni di dollari)

Divo del mondo del cibo con un patrimonio netto di 310 milioni di dollari, Jamie Oliver non è solo uno chef, ma anche un autore di libri e un personaggio televisivo da anni sotto i riflettori. Reso famoso dal programma tv The Naked Chef, è proprietario di una catena di ristoranti nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Australia e a Dubai.

Gordon Ramsay (220 milioni di dollari)

Oltre a essere lo chef più seguito su Instagram con 13,7 milioni di follower, Gordon Ramsay si piazza al terzo posto dei più ricchi con un patrimonio netto di 220 milioni di dollari. Lo chef scozzese, noto per il suo carattere fumantino e per la presenza nei programmi televisivi, ha ricevuto sette stelle Michelin nell’arco della sua carriera e possiede una dozzina di ristoranti.

Nobu Matsuhisa (200 milioni di dollari)

Nobu Matsuhisa è il signore del sushi a livello mondiale. Nato in Giappone, lo chef (che ha un patrimonio netto di 200 milioni di dollari) è stato anche attore, recitando al fianco di Robert De Niro, con cui ha aperto un ristorante a Los Angeles. Oggi fa capo a un impero con oltre cinquanta ristoranti e hotel in tutto il mondo, Milano compresa (all’interno del quartier generale di Armani).

Paul Bocuse (185 milioni di dollari)

Pioniere della nouvelle cuisine francese, Paul Bocuse è morto nel 2018. Ma la sua ricchezza resta, con un patrimonio netto che Money Inc calcola in 185 milioni di dollari. Anche il suo ristorante di punta, «L'Auberge du Pont de Collonges» a Collonges-au-Mont-d'Or (Francia) è ancora aperto, però nel 2020 è passato da tre a due stelle Michelin.

Gli altri 15 classificati

La classifica di Money Inc continua con lo chef indiano e star della tv Sanjeev Kapoor (140 milioni di dollari), Thomas Keller (150 milioni di dollari) che è uno dei sette chef ad aver ricevuto tre o più stelle Michelin negli Usa e che ha fatto da consulente per la Disney/Pixar nel film d’animazione Ratatouille, la chef star della tv Rachael Ray (100 milioni di dollari). Al nono posto troviamo Wolfgang Puck (90 milioni di dollari), chef austro-americano che non disdegna le apparizioni in televisione, e al decimo Emeril Lagasse (70 milioni di dollari), chef che ha conosciuto l’apice della fama negli anni 90. 

La classifica continua poi con Ina Garten (60 milioni di dollari), regina delle ricette in tv indicata dal Times tra le cento persone più influenti del mondo, David Chang (60 milioni di dollari), lo chef newyorchese dietro l'impero «Momofuku» che ha reso noto di essere bipolare, l’americano Bobby Flay (60 milioni di dollari), Vikram Vij (50 milioni di dollari) che è nato in India ma ha fatto successo in Canada, il californiano Guy Fieri (50 milioni di dollari), lo chef spagnolo José Andrés (50 milioni di dollari) che è anche il fondatore di World Central Kitchen, associazione che fornisce pasti alle persone colpite da disastri naturali o guerre come quella in Ucraina, lo chef-musicista anglo-giamaicano Levi Roots (45 milioni di dollari), Marco Pierre White (40 milioni di dollari) che è considerato un pioniere della nuova cucina britannica, la chef italo-americana Giada De Laurentiis (30 milioni di dollari) nota soprattutto come conduttrice di programmi di cucina su Food Network e Rick Bayless (30 milioni di dollari).

·        Lo Zucchero.

Hashtag. Quello che non tutti sanno dello zucchero. Claudia Saracco su L'Inkiesta l'8 Giugno 2022.

Da Hollywood alla Treccani, passando per le Americhe e Napoleone: il folle viaggio dei granelli che addolciscono la vita ci racconta storie meravigliose di dolcezza e amarezza. 

Raffinato Il primo trattamento chimico risale a circa 2500 anni fa, in India. La prassi di trattare lo zucchero si estese poi anche a Est verso la Cina e a Ovest verso la Persia e il mondo islamico, raggiungendo infine il Mediterraneo nel 1200

Carta Nel 1600, quando il concetto di packaging non esisteva, confezionare i prodotti significava semplicemente avvolgerli in fogli di carta. Questa accortezza era riservata alle merci di valore in quanto anche la carta era considerata preziosa: vi si avvolgeva per esempio il tabacco e lo zucchero, prodotto nelle lontane Americhe e venduto a peso ancora fino a metà Novecento. Per nascondere le imperfezioni cromatiche della carta venivano usati pigmenti naturali come il guado o l’indaco, ottenendo una nuance desaturata, tra l’azzurro e il grigio, conosciuta ancora oggi con il nome di carta da zucchero

Rara Per tutto il Medioevo è considerato una spezia rara e costosa esattamente come il sale e il pepe

Consistenze Secondo la Treccani, ci sono tredici varianti: in polvere, in grani, a quadretti, in pezzi, in zolle, in pani, a velo, vanigliato, pilato, filato, bruciato, d’orzo, liquido

173,7 milioni di tonnellate La produzione mondiale prevista per il biennio 2021/22 (dati Fao). Il Brasile è il primo paese produttore al mondo, l’India il maggiore consumatore

1 euro il costo medio al chilo

Bilancia Una tazza da caffelatte corrisponde a 170 grammi; un bicchiere di vino a 150; un cucchiaio colmo a 25; un cucchiaio raso a 15; un cucchiaino colmo a 8 (se fosse raso sarebbero 5). Una lattina da 33 cl di Coca Cola ne contiene 30, una quantità che corrisponde a circa nove zollette 

25 grammi La dose quotidiana consigliata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 6 cucchiaini di caffè 

Napoleone Nel 1575 l’agronomo francese Olivier de Serres scopre che dalla barbabietola si può estrarre uno sciroppo simile a quello della canna da zucchero. La scoperta non ha grande seguito fino al blocco continentale del 1806 deciso da Napoleone Bonaparte che mette fine alle importazioni dall’Inghilterra. A questo punto la necessità di trovare un’alternativa allo zucchero di canna in arrivo dalle Americhe riporta in auge la scoperta di de Serres

Poesia «Un tempo si credeva che lo zucchero si estraesse solo dalla canna da zucchero, ora se ne estrae quasi da ogni cosa; lo stesso per la poesia, estraiamola da dove vogliamo, perché è dappertutto». Gustave Flaubert

Capitalismo Secondo l’antropologo Sidney W. Mintz, le prime vere fabbriche non sono quelle descritte da Marx in Inghilterra, bensì quelle create nei Caraibi per far fronte alla crescente richiesta di zucchero della classe operaia inglese. Secondo la ricostruzione di Mintz lo zucchero, disponibile via via a un prezzo sempre minore per la working class, è stato il vero motore del capitalismo

Bastoncini Uno dei simboli più iconici del Natale sono i candy cane, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse popolarissimi negli Stati Uniti. Nel libro “Sweet as Sin: The Unwrapped Story of How Candy Became America’s Pleasure” Susan Benjamin afferma che, con buone probabilità, sono nati in Europa nel Seicento, periodo in cui lo zucchero soffiato era di gran moda, soprattutto in Germania. All’inizio però erano solo bianchi e così rimasero fino a inizio Novecento. «Con l’arrivo delle strisce nacquero tantissime leggende – spiega Benjamin – come quella che ritiene che nascondessero un codice segreto per i cristiani perseguitati in Germania o in Inghilterra nel Seicento, un linguaggio privato che cambiava messaggio di volta in volta a seconda del numero di strisce: tre per la trinità, una per il sacrificio di Gesù. Più in generale, per molti il rosso sta a indicare il sangue di Cristo»

Rum Quello che i francesi chiamano rhum, gli inglesi rum, gli spagnoli ron è un parente prossimo dello zucchero, ottenuto anch’esso dalla lavorazione della canna. Quello tradizionale è derivato dalla distillazione della melassa, mentre il cosiddetto rum agricolo, di origine francese, utilizza il succo fresco

Libri Sidney W. Mintz, “Storia dello zucchero”, Einaudi; Wolfgang Schivelbusch, “Storia dei generi voluttuari”, Bruno Mondadori; Terence McKenna, “Il nutrimento degli dèi”, Apogeo

Bustina Nel 1908 due parigini, Loïc de Combourg e François de la Tourrasse, inventano la sucre-pochette ma oltreoceano, a Philadelphia esisteva già qualcosa di simile fin dal 1862, a opera di Mr Partridge. Durante la prima guerra mondiale, le bustine servono a razionare le quantità ed evitare gli sprechi, come raccomandano le scritte che vi appaiono sopra: ne gaspillez pas le sucre (non sciupate lo zucchero) e ration pour une tasse (razione per una tazza). Negli anni della Grande Depressione, in Germania si diffondono bustine a forma di piramide, che consentono di versare piccole quantità alla volta

Dosatore La tipica zuccheriera da tavola calda a forma di pera, con il beccuccio in acciaio che consente di versare l’equivalente di un cucchiaino, è stata progettata nel 1956 da Henry Keck. Lo storico del design Bill Stern l’ha definita «l’essenza stessa del modernismo, una perfetta fusione di funzione e forma». La forma si adatta al palmo della mano, l’inclinazione del beccuccio ci dice da che parte inclinare il dosatore mentre l’apertura è studiata in modo da indirizzare il contenuto nel punto preciso in cui deve uscire. «Ci hanno chiesto un distributore di zucchero che fosse più facile da tenere pulito per i lavoratori del ristorante e noi lo abbiamo fatto» ha affermato Keck al Los Angeles Times senza immaginare quale reazione avrebbero avuto i clienti: i nuovi shaker erano talmente perfetti che la gente li rubava, costringendo alcuni ristoratori a tornare al modello precedente

Marilyn In “A qualcuno piace caldo”, film del 1959 diretto da Billy Wilder, Marilyn Monroe è Zucchero, una suonatrice di ukulele col vizio dell’alcool. La famosa battuta “It’s me, Sugar” venne ripetuta 47 volte fino al ciak perfetto

Mary Poppins “Con un poco di zucchero la pillola va giù / La pillola va giù, la pillola va giù”. La canzoncina, premiata con l’Oscar nel 1964, ha una storia bizzarra: i compositori stavano cercando l’ispirazione giusta quando una sera, rientrando a casa, uno di loro, scoprì che i suoi figli avevano appena fatto il vaccino antipoliomielite ed erano felici perché la medicina non era affatto amara: nella fantasia dei bambini, il dottore l’aveva trasformata in una zolletta di zucchero. Era nata la colonna sonora di Mary Poppins 

Denti Può far sorridere che lo zucchero filato lo abbia inventato un dentista ma è esattamente così. Nel 1897 William Morrison con l’aiuto del pasticciere William J.Warton, costruisce una macchina in grado di conferire allo zucchero una struttura filamentosa. Il dolce, pur essendo composto unicamente da zucchero e aria, a parità di volume pare sia meno zuccherino rispetto a tanti altri classici dolci da luna park

Spazio Gli astronauti impegnati in orbita ricevono speciali sacchetti che contengono le bevande. Devono aggiungere acqua calda e agitarli ma come fanno a sapere se lo zucchero si è sciolto? «Esattamente come faremmo noi, assaggiano». Lo zucchero si scioglie anche nello spazio, assicura l’Esa

Dulcis in fundo, la canzone che ha ispirato questo pezzo.

·        Il Sale.

Estratto dell'articolo di Valentina Arcovio per “il Messaggero” il 28 agosto 2022.

Che il sale faccia aumentare la pressione sanguigna tanto da poter causare malattie cardiovascolari, anche molto gravi, lo sapevamo da tempo. Ora, però, uno studio della Vanderbilt University a Nashville, nel Tennessee (Usa), ha rivelato il meccanismo con cui il sale riesce ad agire come un vero e proprio killer contro il nostro organismo. 

I risultati, pubblicati sulla rivista Circulation Research, potrebbero un giorno consentire di individuare le persone con ipertensione più sensibili al sale e quindi più a rischio. Nello studio i ricercatori hanno scoperto che l'attivazione dell'inflammasoma NLRP3, un complesso proteico coinvolto nella risposta infiammatoria, in alcune cellule immunitarie contribuisce all'ipertensione sensibile al sale.

IL PASTO

[…] «L'aumento della pressione in risposta al sale - spiega Annet Kirabo, professore associato di Medicina e autrice senior dello studio - può essere abbastanza significativo da causare infarto, ictus e persino morte cardiaca improvvisa, eppure non è diagnosticato e non viene curato. È una minaccia silenziosa». […] 

L'inibizione o la rimozione dell'inflammasoma ha eliminato la sensibilità al sale della pressione sanguigna e la sua aggiunta ha ripristinato invece la sensibilità. […] Mentre la scienza avanza nella ricerca di nuovi modi per tenere a bada la pressione o si comincia a pensare al sale senza questo ingrediente, agli ipertesi non rimane altro da fare che mettere molta attenzione alle quantità di sale che utilizzano in cucina.

LE QUANTITÀ

«Numerosi studi hanno dimostrato che la riduzione del sale previene la malattia coronarica e l'ictus - conferma Ciro Indolfi, presidente della Società italiana di cardiologia (Sic), a pochi giorni dal meeting annuale dell'European Society of Cardiology, che si svolgerà a Barcellona dal 26 al 29 agosto. «Nella maggior parte dei paesi occidentali, l'assunzione di sale è elevata: dai 9-10 grami al giorno - aggiunge - In Italia il consumo medio di sale pro-capite stimato è di circa 10-15 grammi giornalieri, cioè 2-3 volte superiore a quanto raccomandato dall'Oms. Un abuso». […]

Riuscire a ridurre l'apporto giornaliero di sale può non essere affatto complicato, soprattutto se la riduzione avviene lentamente, facendo in modo che il nostro palato si adatti e si abitui al nuovo gusto in modo graduale. […] 

I SALUMI

Inoltre, gli esperti suggeriscono di limitare l'uso di altri condimenti contenenti sodio, come dadi da brodo, salse, maionese. Si può ridurre anche il consumo di alimenti trasformati, che sono ricchi di sale e, in qualche modo, costringono il palato, soprattutto dei giovani, ad apprezzare quasi solo cibi particolarmente saporiti. Quindi, vanno evitati snack salati, patatine, alcuni salumi e formaggi, cibi in scatola, ecc. […]

Caterina Galloni per blitzquotidiano.it il 18 luglio 2022.

Aggiungere troppo sale alle pietanze potrebbe comportare una morte precoce: è quanto emerge da uno studio della Tulane University a New Orleans, Louisiana. Come riporta il Daily Mail, per circa 10 anni i ricercatori hanno esaminato i dati della UK Biobank di 501,379 persone. 

I risultati hanno mostrato che coloro che aggiungevano sempre una dose extra di sale ai pasti avevano il 28% di probabilità in più di morire prima di compiere 75 anni, rispetto a chi non lo aggiungeva mai o raramente. 

Lo studio sul troppo sale

Durante un follow-up medio di nove anni, sono stati registrati circa 18.474 decessi prematuri (di età inferiore ai 75 anni). Circa tre persone su 100 di età compresa tra 40 e 69 anni muoiono prematuramente. Nuovi calcoli per lo studio, pubblicati sull’European Heart Journal, indicano che una persona su 100 che aggiunge più sale al cibo potrebbe morire giovane.

I rischi del troppo sale a tavola

L’eccesso di sale conduce alla ritenzione idrica nel sangue che aumenta la pressione sanguigna. Ciò può, successivamente, accrescere il rischio di infarto o ictus. Le malattie cardiache e gli ictus due dei più grandi killer, nel Regno Unito uccidono circa 160.000 persone all’anno, il bilancio delle vittime americane è di circa 887.500.

Le linee guida del SSN britannico affermano che gli adulti non dovrebbero assumere più di 6 g di sale al giorno. I bambini ancora meno.

Gli esperti sottolineano che il sale “nascosto” negli alimenti rischia di farne assumere più di quanto ci si renda conto. I ricercatori hanno deciso di prendere in considerazione l’aggiunta di sale a tavola perché valutarne l’assunzione complessiva è difficile a causa degli alti livelli presenti nelle diete quotidiane. 

Elena Meli per “Salute - Corriere della Sera” il 19 maggio 2022.

L'ipertensione non è un destino ineluttabile, man mano che l'età avanza. La maggioranza crede che sia così, ma come spiega Claudio Borghi, direttore del Centro Ipertensione del Policlinico Universitario S. Orsola di Bologna, si può fare parecchio per spostare in avanti il problema: «Con l'invecchiamento inevitabilmente i vasi sanguigni diventano più rigidi, perché aumenta la quota di tessuto fibroso nelle pareti e perché ci sono più depositi di calcio: così, per mantenere il flusso di sangue contro una resistenza maggiore, la pressione deve necessariamente salire. Tuttavia è possibile mantenere l'elasticità dei vasi molto a lungo, ritardando o anche evitando che si arrivi a una vera e propria ipertensione anche durante la terza età: basta seguire le regole della prevenzione».

 Che sono le stesse da mettere in pratica anche in caso di diagnosi di ipertensione ma richiedono costanza per avere un risultato, come osserva Guido Grassi, docente di medicina interna dell'Università di Milano Bicocca e presidente SIIA: «È necessario astenersi dal fumo, perché le sigarette di per sé inducono un incremento della pressione arteriosa; altrettanto fondamentale il controllo del peso, associato a un'attività fisica regolare: una camminata veloce di mezz' ora almeno tre volte alla settimana è indispensabile. Per dimagrire o mantenere il peso forma serve anche fare attenzione alla dieta, che per prevenire o trattare l'ipertensione non deve abbondare di sale».

«L'alimentazione antipertensiva è ricca di pesce, frutta e verdura», spiega Borghi. «Bisogna fare attenzione agli zuccheri, perché l'eccesso influenza la pressione arteriosa; in particolare è bene evitare il fruttosio come dolcificante, che viene trasformato in acido urico, una sostanza anch' essa coinvolta nello sviluppo di ipertensione. Con il fruttosio nella frutta invece non ci sono problemi, perché è bilanciato dalle fibre contenute nell'alimento. Quanto al sale, l'obiettivo è una dieta normosodica, che ne introduca circa 5 grammi al giorno: non c'è consenso sui vantaggi di una dieta iposodica per tutti, ma di certo è bene evitare cibi come patatine e noccioline che in una piccola quantità di peso concentrano tantissimo sale e fanno sballare il conto quotidiano».

 Che è già fuori controllo per moltissimi: le stime indicano che il 90 per cento degli italiani mangia troppo salato, con gli uomini che si attestano sui 10 grammi di sale al giorno e le donne intorno agli 8. Per intendersi, 5 grammi di sale corrispondono a un cucchiaino da tè ma esagerare è facile, perché la maggior parte dell'introito quotidiano arriva da alimenti «insospettabili» già preparati, in cui il sale viene aggiunto: si trova per esempio in biscotti, dolci, cereali per la prima colazione ma soprattutto in salse e condimenti, pane e crackers, formaggi spalmabili e fusi a fette, verdure in scatola.

Abbonda poi in salumi, carni e pesce in scatola o pasti pronti: appena un etto di prodotti impanati, da cuocere in forno o friggere, contiene da tre a cinque volte il tetto massimo di sale quotidiano. Contenerne l'utilizzo è perciò di grande aiuto, così come togliere la saliera dal tavolo (solo questo gesto pare possa far risparmiare un grammo di sale al giorno) e fare attenzione all'introito di potassio.

Se infatti il sodio contenuto nel sale da cucina è il principale responsabile dell'incremento della pressione, il potassio è indispensabile per l'equilibrio degli elettroliti e come contraltare del sodio: in caso di carenza di potassio si modificano gli scambi renali e cresce il pericolo di ipertensione, perciò è bene introdurne a sufficienza con l'alimentazione portando spesso in tavola i cibi che ne sono ricchi come frutta secca, banane, legumi, patate, funghi, carne fresca e cioccolato. O magari usando per condire il sale di potassio anziché il normale cloruro di sodio, per avere al contempo entrambi i minerali.

·        Il Pepe.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 17 luglio 2022.  

Che cos' hanno in comune la parola italo-settentrionale pévere, da cui il nome «salsa peverada», l'inglese piper, il francese poivre, lo spagnolo antico pebre, il tedesco pfeffer, l'inglese pepper? Di derivare dall'accusativo pipere(m) del latino piper, «pepe», collegato con il greco antico péperi e i lemmi dell'antica India dell'ovest pippal e pippalam cioè «bacca, grano di pepe». 

Il pepe è una tra le spezie più amate e si ricava da piante del genere Piper della famiglia delle Piperaceae.  Abbiamo detto piante, al plurale, e questa è una cosa molto bella da scoprire, perché ci sono vari tipi di pepe. Il pepe diffuso nei nostri supermercati è la spezia che si ricava dalla specie Piper nigrum. Da essa si ricavano diversi pepi, il pepe nero, il pepe verde e il pepe bianco che, quindi, sono la stessa cosa, semplicemente elaborata - come vedremo - in modo diverso.

C'è poi la specie Piper longum, il cosiddetto pepe lungo, normale sulle tavole asiatiche, ma decisamente raro su quelle italiane. Tuttavia esiste anch' esso, ha la forma di una piccola pigna smilza e si consuma, pensate, grattugiato! La società svedese Rivsalt, fondata dal designer Jens Sandriger, per esempio, produce grattugie da pepe ovviamente inutilizzabili con i normali piccoli grani di pepe nigrum, ma assolutamente necessarie per consumare il pepe longum.

Queste strumentazioni e i relativi alimenti sono molto interessanti ai fini della cultura gastronomica e vanno apprezzati per questo, non per l'appeal di status di consumatore di cibo «altospendente» che indirettamente conferiscono. Anche perché il pepe longum ha una storia pari a quella del nigrum. Di sapore più concentrato rispetto al nigrum, le connessioni tra longum e nigrum riguardano anche la loro storia. 

Gli antichi Romani conoscevano sia il nigrum sia il longum, li equiparavano e li confondevano. Il pepe ricorre in tantissime loro ricette e quando non c'era era sostituito dal mirto. Anche i popoli che, nella storia, precedono i Romani, li conoscevano. Un grano di pepe nero è stato trovato nella narice della mummia del faraone Ramsete II che risale al 1212 avanti Cristo.

Oltre agli Egizi, i Greci: anche nella loro civiltà erano diffusi sia il pepe nero, sia il pepe lungo. Non deve sorprendere che questi antichi popoli conoscessero il pepe, perché era presente in India, lungo le coste del Malabar, l'attuale Kerala, già in epoca preistorica. Inizialmente era meno costoso e più diffuso il pepe lungo. 

Dopo la conquista romana dell'Egitto nel 30 avanti Cristo, la rotta per acquistare il pepe nero dell'India divenne una prassi che resistette per circa 1.500 anni e decretò la maggiore convenienza del pepe nero rispetto al lungo. Merce pregiata, spesso era chiamato «oro nero», come poi abbiamo iniziato a definire il petrolio, ed era anche usato come moneta di scambio (quando Alarico, primo re della tribù germanica dei Visigoti, assediò Roma nel V secolo, chiese un riscatto che comprendeva anche 1.360 chili di pepe, quantità che di certo oggi non considereremmo un capitale).

Poi, entrambi i pepi divennero ordinaria amministrazione speziale. Ci si arrivò così: dopo la caduta di Roma e l'inizio del Medioevo, nel 476, assunsero il controllo definitivo del commercio del pepe prima i Bizantini, poi gli Arabi, spodestando pian piano dalla zona mediterranea il dominio del business che era stato anche della Repubblica di Venezia e della Repubblica di Genova.

Alla fine dell'alto Medioevo, nell'anno 1000, il pepe costava dieci volte più di qualunque altra spezia e gli Arabi erano i ras del pepe. In Europa, in quasi ogni città c'era una via che vendeva spezie, in primis pepe, come testimonia Rue du Poivre a Parigi. La cosa durò qualche secolo, perché man mano ci si avvicinava alla fine del Medioevo (1492) ebbero successo i tentativi dei Portoghesi di trovare una propria via commerciale verso l'India: nel 1498 Vasco da Gama arrivò in India e così i Portoghesi strapparono il dominio dell'import del pepe agli Arabi nell'oceano Indiano.

Tuttavia, gli Arabi e i Veneziani reagirono con il commercio di contrabbando. I Portoghesi cedettero i possedimenti in oceano Indiano a Olandesi e Inglesi (Malabar divenne possedimento olandese tra il 1661 e il 1663). Inoltre, con la scoperta del continente americano e del «pepe del Cile», per forma e gusto simile al pepe lungo, il pepe lungo fu sempre meno importato, poi per nulla. Inoltre, si aprirono anche altre vie di importazione del pepe nero in Asia. 

A quel punto, vista la massiccia importazione, il pepe nero divenne la spezia a bassissimo costo e accessibile a tutti che è per noi ancora oggi, abbandonando lo status di condimento per facoltosi che aveva ricoperto fino ad allora.

Si dice che siamo quello che mangiamo, ma siamo anche stati quello che mangiavamo, nel senso che procacciarsi un certo cibo fa la storia: trovare una rotta per le Indie e colonizzarle fu un rovello europeo dovuto al desiderio di impadronirsi delle spezie, in primo luogo il pepe. Un noto motto popolare parla dei famosi peli femminili che tirano più di un carro di buoi, ma i nostri grani (o «pignette», nel caso del pepe lungo) di pepe possono vantare pari attrattiva nella storia, forse maggiore. 

 Il gusto del Piper nigrum è leggermente piccante e dipende dall'alcaloide piperina (mentre nel peperoncino dipende dall'alcaloide capsaicina) che si trova nella polpa e nel seme in un rapporto del 5% con il peso. 

La piperina ha una piccantezza dell'1% rispetto a quella della capsaicina. La piperina si svilisce quando prende luce e per evaporazione, quindi la migliore conservazione del pepe è sottovuoto e in contenitore coprente o tenuto al buio. Altro motivo di perdita di aroma è la macinazione, ecco perché si consiglia di macinare sempre il pepe al momento dell'uso (o grattugiarlo al momento se è pepe lungo).

Oggi usiamo i macinini compatti, nei secoli passati si usavano pestelli, mortai e poi macinini a manovella simili a quelli utilizzati per il caffè. Altre notizie utili da sapere riguardano innanzitutto la simpatica natura trasformista di questa spezia: i grani di pepe verde sono le bacche fresche abbastanza acerbe, di solito conservate in salamoia.

Seccate, diventano il pepe nero, infatti a ben guardare i grani di pepe nero sono rugosi. Se le bacche sono lasciate a maturare completamente, diventano rosse e abbiamo il pepe rosso. Il pepe raccolto quasi maturo, messo a macerare in acqua perché si distacchi l'involucro esterno e poi essiccato - tecnicamente è un pepe decorticato - è il pepe bianco. Da questi trattamenti dipende anche il «peso» del sapore: il pepe verde è delicato e adatto a carni e pesci, il pepe rosso è anch' esso dotato di un sapore non impegnativo e con sentori fruttati, il pepe bianco è adatto a insaporire ma in modo più tenue rispetto al pepe nero, che invece è consigliato per pepare a dovere ogni pietanza. 

Il maggior produttore mondiale di pepe è il Vietnam, il pepe nero vietnamita è rinomato, ma lo sono anche quello indonesiano di Muntoq o quello cambogiano Kampot. E il pepe rosa? In realtà, è anche detto «falso pepe» perché non è una specie di Piper, ma la pianta Schinus terebinthifolius, della famiglia degli anacardi. Però si finge benissimo un pepe, aromatizzando con grazia e ricordando il sapore delle bacche di ginepro.

La creola è un mix di pepe bianco, nero, verde, rosa e pimento. Il pepe garofanato è il pimento, parola che in spagnolo significa pepe ma non lo è. Il pepe di Sichuan sono bacche di una pianta asiatica del genere Zanthoxylum. Il pepe è considerato un afrodisiaco, ma la sua principale proprietà è quella digestiva. Stimola l'appetito, favorisce la digestione, previene l'obesità, brucia i grassi, aiuta a perdere peso e ha proprietà antimicrobica, anche nello stomaco e nell'intestino. 

Ha poi proprietà antiossidanti e antinfiammatorie (la piperina aumenta le citochine antinfiammatorie), oltre a disintossicare e alleviare le infezioni bronchiali, polmonari e articolari. Il pepe migliora anche la circolazione cerebrale e ha una leggera azione preventiva e curativa nel morbo di Alzheimer. La piperina, inoltre, in alcuni test di laboratorio, riporta I cibi della salute.

Mangiare sano per stare bene, ha mostrato potere anticancerogeno nei confronti del carcinoma mammario. Essa è anche un potenziatore di biodisponibilità. Il pepe è un coadiuvante anche del benessere ambientale: per proteggere la casa e le piante dagli insetti può essere utile posizionare qualche grano sui davanzali e sulla terra dei vasi. 

·        Il Peperoncino.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 15 novembre 2022.

«Facile dire piccante», puntualizza sorridendo Barbara Palazzi, manager e anima di 20 Tre, locale chic della movida trendy genovese. «Ogni piccante, e non solo in gastronomia, deve essere affidato a un gioco intorno a limite, complicità, allusione. Una ricerca in questo senso, ad esempio, è quella che noi abbiamo condensato in uno spaghettone aglio olio e peperoncino con astice e briciole di pane di grano arso: sapori alti e richiami pop in un gioco di contrasti e di difficili equilibri che simulano una cena di seduzione, che sarebbe sicuramente piaciuta a Vàzquez Montalbàn per una delle sue ricette immorali». 

Zoppe di peperoncino, non avrebbero peraltro senso molte ricette del mondo, specie extraeuropeo, dove questa spezia è diffusa e amata. Al primo posto si può collocare l'India col vindaloo curry, poi si può spaziare dal diabolico jerk pork giamaicano all'otak-otak, la torta di pesce malese letteralmente coperta di peperoncini secchi.

Senza dubbio l'Europa non predilige il peperoncino nelle sue ricette, se non nella fascia Mediterranea, con Italia e Spagna. Tra le due culture è però la nostra Penisola il luogo dove si è sviluppato il maggior numero di variazioni sul tema, a partire dalla Calabria e dal suo cibo iconico, la nduja, il salume piccante, spalmabile come una Nutella. 

E non è quindi un caso se sia stato un oste calabrese trapiantato a Torino, Salvatore Marturano, a inventare una liberatoria da far firmare ai clienti del suo Rosso Peperoncino prima di avventurarsi sui piatti di piccante estremo. Fa parte tutto questo del lato oscuro del peperoncino, quello cioè di convocare qualche consumatore al gioco macho di chi lo regge più piccante.

Al contrario il peperoncino è invece un sapore che può decollare verso punte estreme, certo, come col cau cau, lo stufato di patate e verdure che in Perù si potenzia coi tipici peperoncini gialli, all'uso che risale agli aztechi di conferire una vibrazione di energia al cioccolato con un giusto dosaggio. Non si può a questo punto eludere il punto centrale della riflessione sul piccante, ovvero: come si misura questo parametro che sembra per molti versi soggettivo?

Il sistema fu inventato nel 1912 da un farmacista americano, Wilbur Scoville a partire dalla capsaicina, un composto che trasmette dalla lingua al cervello la sensazione terribile di bruciore. A un panel di degustatori venne così proposta una soluzione di estratto di peperoncino in diluizione di acqua e zucchero: il quantitativo necessario a far diventare neutro il composto era rappresentato con un numero che definiva la piccantezza di un peperoncino lungo una scala, rappresentata in unità chiamate shu, la quale aveva come limite massimo il numero 16 milioni, rappresentato dalla capsaicina pura.

Basandoci su Scoville, il peperoncino calabrese, rosso fuoco, gira sui 30 mila shu. Altra cosa il classico Habanero della cucina messicana, che arriva a 350 mila shu. Colpisce poi come il morso di un serpente il Naga Morich (questa la traduzione del nome) del Bangladesh, con aromi di cannella e ciliegia, che supera il milione di shu.

Il massimo fino a pochi anni fa era il Trinidad Scorpio dell'America centrale con due milioni di shu. Oggi il top dei top viene coltivato in Carolina del Sud con una sigla da film di James Bond HP22B, ma tutti lo chiamano Carolina Reaper, con picchi oltre i due milioni di shu, al punto che un frammento rende una bomba atomica anche un aglio e olio per una dozzina di persone.

·        La Cozza.

Cozza a chi? Ora anche dai mitili nascono le perle. Pasquale Raicaldo La Repubblica l'1 febbraio 2022.

Due ricercatori del Dohrn, Sara Fioretti e Francesco Patti, brevettano una tecnica di 'innesto' innovativa e vantaggiosa, anche per l'ambiente. Così anche dalle cozze del Mediterraneo potranno nascere le preziose sfere di carbonato di calcio.

L'ultima, rivoluzionaria ricerca made in Italy riscrive il futuro delle cozze, già apprezzate per le loro proprietà organolettiche e, da oggi, potenziali concorrenti a chilometro zero delle ostriche perlifere, celebri 'cuginè del Pacifico (a cominciare dalle più celebri, le Pinctada margaritifera). Già, perché come gran parte dei molluschi anche i mitili (Mytilus galloprovincialis il nome scientifico) sono in grado di "inertizzare" i corpi estranei trasformandoli in strutture generalmente sferiche costituite da carbonato di calcio. E allora perché non sfruttarle anche a questo scopo? Se lo è chiesto una ricercatrice di Ischia, Sara Fioretti, assegnista di ricerca all'Anton Dohrn, affiancata nel suo lavoro, confluito in una tesi di dottorato, da Francesco Paolo Patti, in collaborazione con l'università Federico II. Così nel laboratorio dell'Ischia Marine Center della Stazione Zoologica Anton Dohrn è stata messo a punto una tecnica di "grafting" (letteralmente 'innesto') particolarmente innovativa e vantaggiosa.

"Abbiamo iniettato, attraverso un foro praticato nella valva superiore della cozza e senza intaccarne i muscoli e la funzioni fisiologiche, una piccola sfera di plastica modellabile, e con lo stesso materiale abbiamo richiuso il piccolo buco, senza causare alcun danno all'organismo", spiega Fioretti.

Alcune cozze oggetto dell'esperimento di innesto. Si vede il materiale plastico che chiude il buco praticato nella conchiglia.  

L'idea di fondo è che il mollusco, come già accade per le celebri ostriche, secerna - una volta avvertito il pericolo - una sostanza uguale a quella di cui consiste la conchiglia, composta in prevalenza di carbonato di calcio, avvolgendo il corpo estraneo, proprio come nella formazione delle perle, un fenomeno altamente suggestivo al punto che fantasiose leggende d'antan la volevano legata alle lacrime di Dio o degli angeli, o al passaggio di un fulmine attraverso il corpo dell'ostrica. Quel che è certo è che l'esperimento è riuscito.

"Un'idea forse bizzarra - sorride la ricercatrice - che avevo condiviso, non senza reazioni d'incredulità, anche con alcuni mitilicoltori dei Campi Flegrei, in particolare di Lucrino e Capo Miseno, dai cui allevamenti abbiamo ricavato un centinaio di esemplari sui quali sperimentare per la prima volta la nostra tecnica". Cozze di un'età compresa tra i sei mesi e l'anno di vita, osservate nel tempo. Dopo circa un anno, la risposta attesa. "Dimenticate le perle perfettamente sferiche che nell'immaginario collettivo associamo alle ostriche perlifere", specifica la ricercatrice. Ma la struttura prodotta, generalmente attaccata alla valva, è per il resto perfettamente assimilabile a quella delle cugine d'Oltreoceano. "E innestando qualcosa di diverso dalla plastica, la risposta potrebbe essere qualitativamente migliore", annotano i ricercatori, che hanno depositato il brevetto della tecnica di grafting, sin qui mai sperimentata, e sottolineano come le nuove evidenze aprano prospettive nuove - anche in termini di sostenibilità - per la mitilicoltura di casa nostra. Già, perché produrre - in un futuro non troppo lontano - perle dalle comunissime cozze del Mediterraneo significherebbe, per esempio, sfruttare allevamenti in tratti di mare non più idonei all'uso alimentare, scongiurando così il rischio di una loro dismissione. E, anzi, sfruttando il ruolo di filtro naturale delle cozze nella depurazione delle stesse acque: un singolo esemplare può filtrare fino a mille litri al giorno. 

"In generale - aggiunge Fioretti - si tratterebbe di allevamenti a basso impatto ambientale in quanto non intensivi. La mortalità degli individui sottoposti a questa procedura è quasi nulla, a differenza delle 'cugine' del Pacifico, dove il grafting comporta tassi di mortalità molto elevati". E ancora: la produzione di perle "a chilometro zero" ha benefici indiretti sull'ambiente limitando gli impatti a lungo termine delle importazioni da Oltreoceano. 

In ultimo, in linea con le tendenze 'green' contemporanee, si tratta di allevamenti senza "sprechi": l'animale adulto, una volta prelevata la perla, può comunque essere usato per fini alimentari, magari come prodotto confezionato. E ai benefici ambientali a lungo termine si affianca, come sottolineano i ricercatori", le potenziali "ricadute economiche positive sull'intera filiera della mitilicoltura, in particolare a  beneficio degli allevamenti già presenti visto che la produzione di perle, da impiegare anche in campo farmaceutico e cosmetico, costituirebbe un importante plusvalore".

Ma in natura quel che è stato ingegnosamente riprodotto in laboratorio a Ischia già accade?

"La produzione di 'perlè in molluschi bivalvi già diffusi nei nostri mari è osservata, benché in casi piuttosto rari, anche nella Pinna nobilis, quella che comunemente viene chiamata nacchera di mare. Ma noi abbiamo fatto un passaggio in più: indurla attraverso una tecnica speciale di grafting". Una tecnica che mai, prima d'ora, era stata utilizzata, neanche sui bivalve generalmente utilizzati per la produzione delle perle, dalla Pinctada maxima alla Pinctada margaritifera. 

"E non abbiamo motivo di dubitare che, come per le cozze, possa essere applicata anche per altre specie di molluschi", spiega Sara Fioretti, che proprio per il suo studio ha ricevuto in questi giorni a Trieste il premio Bernardo Nobile, istituito dall'Area Science Park, per la miglior tesi di dottorato che abbia portato al deposito di un brevetto. Un brevetto che apre nuove, intriganti prospettive per la mitilicoltura italiana.

·        La Seppia.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 17 settembre 2022.

Schiuse le uova all'inizio dell'estate (nel Tirreno laziale un po' in ritardo quest' anno), le piccole seppie restano ancora sotto costa per qualche settimana prima di avventurarsi in mare aperto. Sta quindi per terminare il periodo in cui se ne pescano di più, sfidando però la loro notissima astuzia nel mimetizzarsi con colori cangianti o nascondendosi sotto gli scogli.

Non per nulla Arthur Schopenhauer nel 1851 sentenziava che «come la seppia, la donna si avviluppa nella dissimulazione e nuota a suo agio nella menzogna» (parole del filosofo tedesco, non nostre: sia ben chiaro, a scanso di equivoci). Andrea Camilleri, nel Ladro di merendine, più prosaicamente scriveva: «Quel giorno Adelina era entrata in azione, sicché Montalbano trovò in frigo il sugo di seppie, stretto nero, come piaceva a lui. C'era o no un sospetto di origano?

L'odorò a lungo, prima di metterlo a scaldare, ma magari questa volta l'indagine non ebbe esito».

Eccoci così in tema di cucina popolare, con un piatto le linguine al nero di seppia nato in Veneto (dove l'origano sicuramente non si mette). In ogni regione il mollusco dai dieci tentacoli nel piatto ha una diversa morte sua: in Liguria allo zimino (cotto assieme a verdure precedentemente lessate); nel Lazio e centro Italia con i piselli e in Abruzzo coi carciofi; ripiene quasi ovunque (variante al forno nelle Marche, piccantissime in Calabria).

Una sintesi adesso démodé era la pasta con il sugo di seppie ripiene. «Era un modo racconta lo chef due stelle Pino Cuttaia, siciliano di Licata - di assicurare con un'unica preparazione il menu del giorno: con il sugo si condiva la pasta e per secondo c'erano le seppie. La ricetta cambiava di quartiere in quartiere, di casa in casa. Di solito pero nel ripieno non mancavano mai i tentacoli della seppia, il pangrattato per dare compattezza, il tritato di maiale. Seppia e maiale può sembrare un connubio curioso, ma ha la sua ragion d'essere. Veniva utilizzato il maiale, altrimenti la pancetta o la salsiccia, perché la seppia è priva di grassi. La fusione di questi due elementi, tanto diversi tra di loro, produceva un connubio perfetto: l'unione delle proteine della seppia ai grassi del maiale».

Cuttaia ha creato un piatto geniale (l'uovo di seppia che sembra tal quale un uovo di gallina) partendo dal suo vissuto da ragazzo in una famiglia popolare. «La cucina afferma - e cultura: che la si prepari o la si consumi, è frutto dell'identità di ciascuno di noi e dunque si fa strumento per esprimere e comunicare quell'identità, quell'esperienza. Dietro ogni piatto c'è una narrazione che parla di noi».

La sua memoria va ai periodi in cui la seppia era la regina incontrastata della tavola. «Costava poco ed era disponibile in quantità. Mia madre cucinava le seppie, le madri dei miei cugini cucinavano le seppie, le madri dei miei amici cucinavano le seppie. C'erano periodi in cui non c'era modo di sfuggire alla dieta a base di seppie, neanche facendosi invitare a pranzo da qualcuno».

«Fortuna che la seppia conclude - si presta a numerose preparazioni, non perdendo la stessa capacita di mimetizzarsi e di nascondersi che ha in natura. Le donne di casa mettevano in atto vari espedienti, variandone la forma, la cottura o gli accostamenti, per dare corpo alla più amabile delle illusioni ed evitare che la famiglia si lamentasse di mangiar sempre la stessa cosa».

·        La Carne.

Andrea Greco per “la Repubblica” il 17 Novembre 2022.

È una nicchia con immense prospettive di crescita, in un mercato da 1.000 miliardi di dollari. Ma nel 2022 la crescita dell'alternative food , le proteine vegetali che replicano carne, latte e derivati, è ferma. Una crisi di risultati e anche culturale, davanti a un'inflazione che induce i consumatori a concentrarsi sui beni tradizionali. In Borsa gli effetti sono già evidenti: a New York il plotoncino dei marchi pionieri - da Beyond meat a Oatly, Tattooed chef, Impossible foods, Benson hill - in pochi mesi ha perso dal 70 al 90% rispetto ai picchi 2021.

I consulenti di Deloitte, basandosi sulla loro annuale statistica Future of fresh, trovano tre cause per la frenata delle proteine vegetali (dette Pba, Protein based alternatives ). La prima è la scalata al mercato globale meno roboante rispetto alle attese: Bloomberg intelligence censiva un giro d'affari 2020 di 30 miliardi di dollari, vedendolo quintuplicato a 162 miliardi nel 2030, ma i dati 2022 mostrano che, del 47% di consumatori che negli Usa «qualche volta compra carne Pba», la quota di chi è disposto a pagarla di più è scesa del 9%, e calano anche i clienti che la ritengono più salubre per la dieta (-8%) e più sostenibile per l'ambiente (-5%).

Proprio i rincari alimentari, a due cifre percentuali, sono per Deloitte il secondo fattore frenante. «Pagare di più per le proteine vegetali è chiedere molto al consumatore, che in questa fase semmai preferisce pagare di più per garantirsi buoni cibi tradizionali », rileva la ricerca. E poco importa se lo scarto di prezzo tra cibi tradizionali e alternativi si sia ristretto in questi mesi, per il rincari del 10-20% dei primi. Sui dati 2021, prima che tornasse a soffiare l'inflazione, Nielsen aveva censito un costo medio doppio per la carne bovina vegetale rispetto a quella animale, di oltre quattro volte per il pollo e di oltre tre per il maiale.

La terza "zeppa" riguarda i benefici dei cibi alternativi, che sempre più consumatori mettono in dubbio, specie per gli aspetti alimentari. Deloitte suggerisce a produttori e investitori, che dal 2010 hanno versato 10 miliardi e non smettono di cercare la proteina del futuro, tre strategie: «Esplorare nuove forme di penetrazione dei mercati, ridurre il divario dei costi, creare prodotti sani e anche gustosi ». Obiettivi difficili, ma «indispensabili per tornare a crescere forte ».

I dati trimestrali dicono, invece, che i pionieri difendono a fatica i ricavi, mentre sono le perdite ad aumentare a due cifre. Oatly, leader svedese nei prodotti caseari alternativi, ha aumentato di pochi spiccioli i ricavi, a 183 milioni, ma tagliato le attese 2022 di 100 milioni, e tra luglio e settembre il rosso è salito a 107 milioni, quarto trimestre di fila in perdita. Oatly prova a rimediare con drastici tagli del costo del lavoro (il 25%), senza dire quante persone riguardi. 

«Dati inferiori alle nostre aspettative, specie per le restrizioni Covid in Asia, i problemi della catena produttiva americana e gli effetti valutari», ha detto l'ad Toni Petersson. Beyond meat, leader delle carni vegetali fornitore di Mc Donald's e Whole Foods (e di supermercati e catene italiane), il 10 ha annunciato «risultati deludenti », con ricavi giù del 22% a 82 milioni e un rosso di 101 milioni. Subito è partita la «significativa riduzione dei costi operativi» e un'azione di marketing verso «i segmenti con miglior bilanciamento tra crescita a breve termine e opportunità a lungo termine». L'Eldorado resta lontano.

Capitalismo carnivoro. La carne è diventata una delle principali cause di conflitto internazionale. Francesca Grazioli su L’Inkiesta il 18 Novembre 2022.

Le crisi finanziarie ed ecologiche che stiamo attraversando ci impongono di riconcepire i piatti che mettiamo in tavola. Un sistema che utilizza il 70% delle terre agricole coltivabili del pianeta esclusivamente per lo sfruttamento animale non è più sostenibile

Il cibo è un abile persuasore occulto. Attraverso un piatto, sia esso una semplice ciotola di latte e cereali mangiata in solitudine davanti a uno schermo, o il buffet che anticipa la sfarzosità di un matrimonio mediterraneo, si esprime, e soprattutto si introietta, un sistema di messaggi ben precisi. Chi siamo, che ruolo abbiamo nella società e come dobbiamo comportarci.

La potenza di ciò che mangiamo viene in parte dalla sua invisibilità e dal suo ripetersi incessante. Si parte da un’ovvietà: dobbiamo mangiare per vivere, un istinto primordiale che solo una certa caparbietà di monaci e sante è riuscita a sublimare a forza di meditazione. Il cibo ci ancora al nostro corpo; basta saltare un solo pasto per cominciare a sentire i primi campanelli di allarme dati da nervosismo e stanchezza.

Il suo essere necessario spesso lo copre di trivialità, di comparsa muta nelle nostre giornate, se non del solo appagamento fisico. E nonostante sia una forma di linguaggio con una sua grammatica e regole ben precise, essendo un’attività che si ripete, giorno dopo giorno, il suo simbolismo tende a sfumarsi, a rimanere sottotraccia, come il profumo di casa propria, che si nota solo dopo essere mancati a lungo.

Il suo potere smette di essere silente nel momento in cui accade qualcosa che metta in discussione proprio il sistema di codici che porta con sé. Basta la scoperta della presenza di un unico commensale vegano a cena che, con alta probabilità, l’attenzione dell’intera tavolata virerà di colpo sulle sue scelte alimentari.

Rappresenterà una deviazione da ciò che viene percepita come la norma e farà sentire gli altri commensali in diritto di passare al setaccio tale scelta.

Perché tra tutti gli alimenti noti alla civiltà umana, la carne è ancora oggi la protagonista indiscussa. Suo il boccone dalla carica simbolica più potente. Densa di energia, rara e complicata da procacciare, facile alla putrefazione, fin dagli inizi della nostra storia, la carne ha giocato un ruolo chiave, non solo da un punto di vista nutritivo, ma anche nel definirci esseri diversi da tutti gli altri, in grado di compiere gesta meritevoli di memoria futura, come mostrano le prime pitture rupestri rappresentanti la caccia, il cui primo inchiostro era forse il sangue delle stesse fiere abbattute. È un ingrediente che inevitabilmente ci mette di fronte ai processi di vita e di morte, di scambio e reciprocità tra la sfera del visibile e degli spiriti.

Ovunque nel mondo, intorno alla caccia, e più avanti alla macellazione degli animali allevati, si è creato un sistema di riti complessi e di figure speciali che ne potessero prendere parte.

Macellai, boia, sacerdoti, individui appartenenti a caste reiette oppure temute erano tra i pochi incaricati di porre fine a una vita e di contaminarsi con la morte, per il beneficio dell’intera comunità. Piogge di editti, divieti e moniti, testi sacri, scritture delle religioni di tutto il mondo hanno tentato di controllare la carnalità dei loro credenti, tanto quanto quella che poteva

finire sulla loro tavola, sentenziando di quali animali cibarsi, delineando periodi di astinenza, come la cattolica quaresima, oppure le modalità di macellazione, come quella Halal o Kosher. Solo l’alcol, con il suo potere inebriante in grado di innalzare il nostro spirito quanto di schiacciarlo in infiniti abissi, ha goduto di una simile attenzione nella storia dell’umanità.

Ma anche a livello laico, la lussuria, la mortificazione, la mercificazione delle membra e l’ascetismo sembrano tutti accendersi o spegnersi alla presenza della carne, specialmente se rossa, e grondante di sangue.

Un tempo lusso per pochi, dal dopoguerra in poi, con l’aumentare del tenore di vita e l’abbassarsi dei costi di produzione, sempre più persone sono state in grado non solo di ambire a ciò da cui per generazioni erano rimaste escluse, ma di appropriarsene, di rendere la carne cibo del popolo quanto del re. Eppure, nonostante la sua diffusione e ubiquità, a torto o meno, la carne rimane l’unica sacerdotessa ancora considerata capace di trasformare un misero pasto in un rituale.

L’antropologo Claude Lévi Strauss, attraverso l’analisi di un antico mito indigeno brasiliano, intuisce ed elabora per primo l’idea che il modo in cui una certa società cucina possa fungere da lente per analizzare la sua struttura più profonda, e che la cottura della carne sia la sua chiave di lettura più potente.

Dove prevalgono mitologie legate all’arrosto, con le sue braci ardenti, il crepitio del grasso e il sangue che si mescola alle ceneri ancora calde, Lévi Strauss identifica popoli dai temperamenti bellicosi, celebranti l’atto della caccia così come della distruzione dei gruppi nemici. Graticole, spiedi e forconi sono ancora oggi tra i reperti di cucina che gli archeologi trovano nelle corti imperiali e altri luoghi dove risiedeva il potere politico in Europa, non nelle case dei comuni plebei.

Nei tuguri dove viveva il popolo, nei cortili, nelle stamberghe designate al ristoro dei viandanti, seppelliti da metri di polvere e fango, si trovano una moltitudine di ciotole, coppe e scodelle, pronte a contenere un caldo brodo. Al fuoco delle braci Lévi Strauss contrappone infatti la domesticità del bollito, leggendovi un’inclinazione familiare di cura della comunità intera, compassionevole, là dove le scintille del fuoco prefigurano la guerra.

Nel preparare la carne bollendola, essa ugualmente cuoce, ma mantiene i propri succhi, insieme a quelli degli altri ingredienti con cui viene cucinata, come verdure e cereali. Anzi, in tale contesto, la carne ricopre addirittura un ruolo marginale, ne basta un piccolo pezzo per donare sapore, e addirittura se ne può fare anche a meno, se si ha qualche osso.

Una tipologia di preparazione, dunque, conserva nelle ristrettezze, mentre l’altra brucia e consuma un’abbondanza inaspettata seppur effimera. La prima casalinga come una zuppa calda a fine giornata, l’altra celebrativa, occasionale, come i nostri barbecue domenicali.

A un livello ancora superiore, Lévi Strauss identifica proprio nell’atto della cottura, che richiede il dominio del fuoco, il passaggio cruciale dell’uomo dalla sfera della natura a quello della cultura. È nel muoversi tra il crudo e il cotto, anzi, tra la carne consumata cruda e la carne cotta, che l’uomo non solo si differenzia da tutti gli altri animali, ma comincia a vedersi al di sopra di essi, incoronandosene trasformatore, architetto, e infine padrone. La carne diventa dunque il simbolo della vittoria dell’uomo su tutto il resto.

«Il Barbecue è un diritto non un privilegio. Bigger is better. Niente scuse. L’uomo è in cima alla catena alimentare. Arrostisci di conseguenza.» Questa, la frase d’attacco del libro di ricette della Marlboro, Cook Like a Man. Il cui sottotitolo recita: «L’ultima arte dell’uomo». Credo sia difficile oggi trovare un concentrato di slogan e luoghi comuni migliore di questo per ammiccare ad aspiranti John Wayne.

Il messaggio arriva forte e chiaro. In una società in cui i ruoli si fanno sempre più fluidi, in cui il dominio assoluto di spazi politici, economici e sociali a solo appannaggio maschile iniziano a vacillare, un solo territorio rimane sicuro per il re della giungla urbana moderna. Nascosta nel giardino o nel retro dell’abitazione, brilla una grata sopra la quale sfrigolano salsicce e hamburger.

La guida della Marlboro sembra indicare che quello spazio sia un diritto da reclamare, uno luogo sacro in cui sentirsi di nuovo «in cima alla catena alimentare», tra una birra e l’altra. Certo, il genere è un costrutto sociale e culturale, un insieme di azioni e significati performativi che sono specifici di un determinato luogo e periodo storico. Ma vi sono degli stereotipi attaccati al mondo del cibo che a loro volta nutrono questo costrutto e le sue gerarchie; come messaggi persistenti, servono a mantenere lo status quo della società. Sono inoltre molto efficaci, proprio perché quotidiani e sottotraccia.

Il marketing della Marlboro sa come tranquillizzare il moderno maschio mesto, spingendolo a riappropriarsi della carne come il mezzo per mostrare la propria virilità. Così, il potere di tali costrutti sociali si serve anche delle consuetudini alimentari per mantenersi intatto. E ciò si evince soprattutto quando travalichiamo certi spazi. Alle bambine viene insegnato presto che a tavola è meglio non apparire troppo voraci, e che l’appetito va controllato.

Introiettano che a tavola, come altrove, bisogna stare tranquille e composte. Scavo nella memoria nella miriade di rappresentazioni televisive in cui è stato mostrato un primo appuntamento tra una coppia etero. Non riesco a ricordare una scena in cui la ragazza venga rappresentata mentre ordina una bistecca al sangue. Al contrario, cosa succederebbe se durante una cena post calcetto un giovane ordinasse un’insalata, o delle semplici verdure?

L’appetito maschile è considerato indice di buona salute, di spirito allegro, di entusiasmo verso la vita, e di prestanza fisica. La bramosia per la tavola può tradursi in appetito sessuale, che al contrario del caso femminile qui è ben concesso e accettato, quasi preteso. Ma allora, alla richiesta di un piatto vegetariano, i compagni di squadra se ne accorgerebbero? E di quale natura sarebbero i loro commenti?

Al contrario della carne, le verdure sono ancora relegate a vassalli o contorni, inadatte a chi dovrebbe sostenere il dominio della società patriarcale. Sono scenari facili da immaginare, ci siamo trovati tutti almeno una volta nella vita a un pranzo in cui qualcuno, o noi stessi, abbiamo deciso di superare le strette mura delle aspettative sociali entro cui dovevamo stare. E le conseguenze non si saranno fatte attendere.

Ciò che mangio dunque diventa un messaggio per gli altri, un tesserino identificativo che mi colloca in un determinato spazio della società in cui sto vivendo, come nell’esempio che segue e che ho vissuto pochi anni fa, sempre nel continente asiatico, ma in un contesto del tutto differente da quello del Bengala occidentale.

«Quelli sono i mangiatori di ratti!» urla il mio compagno di viaggio indicando in lontananza un gruppo di adulti e bambini, intenti a impilare dei fasci di riso appena tagliato in un’ordinata capanna di paglia. Li guardo scomparire all’orizzonte, e poco dopo ne compaiono altri, nelle distese dei campi di riso che il pullman su cui viaggiamo attraversa, disturbandone la quiete momentanea come fa un sasso scagliato in un acquitrino. Gurratan è un fiume in piena, un uomo minuto che tuttavia sembra contenere a fatica l’energia del mondo, ci tiene ad aiutarmi a decifrare i segreti di un paesaggio che altrimenti riuscirei ad apprezzare solo da un punto di vista estetico.

Sono nel sud del Nepal per raccogliere informazioni su delle varietà di semi tradizionali preservati in villaggi sperduti che potrebbero resistere ai prossimi cambi climatici, e lui è l’uomo giusto per questa missione. Ha capito che con me ha terreno fertile per sfoggiare la sua conoscenza del paese, e non ha perso l’occasione quando un particolare agglomerato di persone è comparso come un riverbero, per pochi istanti, ai bordi dei campi lucidi. Uno sguardo veloce bastava a comprendere il motivo di quel nome, i Mushar, letteralmente i mangiatori di ratti, una delle caste più basse che vivono nelle pianure del Nepal, che ancora oggi registrano tassi di alfabetizzazione a una sola cifra, vestono di stracci, per abitazioni hanno tende di fortuna o baraccopoli che spostano in base ai tempi della raccolta, e gli zigomi pronunciati di chi non riempie lo stomaco tutte le sere.

Come strategia di sopravvivenza, nella storia, questa casta aveva spesso fatto affidamento sulle carni dei ratti che infestavano le risaie che coltivavano per conto delle caste più alte. Animali più nobili erano destinati a ceti più elevati, e ancora una volta, nel ripetersi delle abitudini culinarie, la pratica diviene marchio identitario, o di stigma.

La carne è dunque un luogo, un sito poroso dove le identità mutano, dove la politica trova un riverbero, dove la razza, il genere, l’etica, la religione e la sessualità si mescolano, rivelandosi a tempi alterni. Definizioni che scivolano di continuo, come la stre di ghiaccio spezzate in un lago si ribaltano, si assottigliano fino a incastrarsi con altre, finiscono in mille pezzi, sciogliendosi o cristallizzandosi con il nuovo freddo. E il suo potere di mostrare le complessità e le contraddizioni del mondo di oggi aumenta quanto decidiamo di darle attenzione. 

Capitalismo carnivoro, Francesca Grazioli, il Saggiatore, 208 pagine, 17 euro

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 2 novembre 2022.

Giacomo Cattaneo Adorno Giustiniani, aristocratico genovese fa grandi vini nel Monferrato. All'ombra di del fiabesco castello di Gabiano, mille anni di storia, i vigneti respirano Piemonte con molto cuore alla Bourgogne. «Un abbinamento perfetto con un classico del territorio come il bollito misto. Un piatto convocante come pochi, salvo che per Carlo Magno che lo detestava», spiega il marchese. 

«In effetti Eginardo, il biografo dell'imperatore, raccontava dei suoi aspri litigi coi medici che, a causa della gotta, volevano levargli gli amati arrosti per sostituirli col bollito. La cronaca antica, in questo senso rivela un preciso marcatore: da una parte la selvaggina e lo spiedo, cibo forte, maschile, della cacce aristocratiche, e dall'altro il bollito, affidato alla mediazione del calderone e dell'acqua, in antico affidato a mani femminili, come ha scritto Claude Lévi-Strauss, assegnando al piatto un preciso segno di evoluzione culturale. Senza contare che il metodo consentiva di conservare più a lungo la carne è di avere a disposizione anche un buon brodo magari da sorbire a fine pasto stemperato col vino rosso, come facciamo qui».

Cibo popolare, entrato nelle abitudini aristocratiche nell'800, lungo la scia di Cavour e dei re sabaudi, il bollito misto, se interpretato alla lettera, diventa una sorta di rito dionisiaco collettivo. Chi se ne voglia rendere conto non ha che da recarsi il prossimo 15 dicembre a Carrù, nel basso Piemonte, per assistere alla 112esima edizione della grande Fiera del Bue grasso, un appuntamento che si conclude in omeriche abbuffate intorno al bollito, quello ortodosso che più ortodosso non si può. 

La tradizione prevede che in un grande pentolone cuociano sette tagli di manzo: fiocco di punta, noce, scaramella, culatta, tenerone, scamone, cappello da prete, con possibili variazioni da un campanile all'altro. Ma la faccenda non finisce qui, perché poi ci sono da considerare gli ammennicoli, sette pezzi anche loro, ma cucinati in pentole separate, ovvero la lingua, la testina, la coda, la rollata, il cotechino, la gallina, lo zampino. Le salse di accompagnamento, ovvero i bagnèt, sono a loro volta sette (cugnà, al miele, verde, rossa, mostarda, cren, verde rustica).  

In tavola non devono mancare sale grosso e almeno quattro contorni, come le indispensabili patate lesse, le cipolline in agrodolce, gli spinaci al burro e i funghi trifolati). E sul fatto che a fine pasto ci voglia davvero una bella tazza di brodo sferzata da un bicchiere di vino rosso, davvero non c'è dubbio.

 Detto questo non va dimenticato che il bollito misto non è prerogativa esclusiva dei piemontesi: versioni molto interessanti, tutte meno solenni, però, si gustano in Lombardia (dove tra le salse compare la mostarda di Cremona), in Veneto (che vanta tra le salse, nel veronese, la sapida pearà, a base di grana, pane, midollo e tanto pepe), oltre che in Emilia, dove il bollito viene chiamato lesso (che gastronomicamente è la carne cotta in acqua fredda per fare brodo). 

Il bollito, ormai è diffuso in tutta Italia, addirittura sconfinando in metafore potenti. Come nel caso di Luigi Bicchierai, detto Pennino, della Locanda di Lastra a Signa. Correva l'anno 1849 e Pennino scriveva nei suoi diari: «Con tutti questi moti di ribellioni e voglia d'accorpare l'Italia, io che sono oste e poco conosco di quelle faccende, ho pensato all'Italia così divisa, ma che tutti vogliono insieme, e me la figuro come un bel pentolone di bollito: zampa, lingua, carni varie, odori». 

Carne artificiale: che cos’è, come si ottiene e dove si può già mangiare. Tutti i pro e i contro. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 19 Ottobre 2022.

La carne artificiale è il business del XXI secolo. Per ricercatori e imprenditori tech non è solo la risposta più efficace al crescente bisogno di cibo proteico, ma anche uno strumento per abbattere le emissioni di gas serra. A questa nuova frontiera, che raccoglie ogni anno finanziamenti sempre maggiori, si oppone una parte del mondo agri-industriale che teme lo stravolgimento di un mercato da oltre 1.400 miliardi di euro. Inoltre si aggiunge la diffidenza della popolazione meno giovane verso un cibo creato in laboratorio.

Che cos’è la carne artificiale

La carne artificiale detta anche «carne coltivata» si ottiene prelevando cellule staminali da un animale. La tecnica è già utilizzata in medicina rigenerativa: si prelevano cellule da un muscolo vivente per coltivarle in un bioreattore che riproduce le stesse condizioni del corpo animale (temperatura, acidità, ph, etc.) e l’alimentazione avviene con una miscela di nutrienti affinché le cellule si moltiplichino in maniera esponenziale. Il sistema portato su scala industriale sarà in grado di produrre da una sola cellula 10 mila chili di carne. In pratica quelle cellule per diventare hamburger impiegano poche settimane, mentre attraverso la crescita naturale di un bovino occorre un anno e mezzo. 

Perché la carne in laboratorio?

I vantaggi sono prima di tutto ambientali. Gli allevamenti sono responsabili del 14,5% dei gas serra, e quelli intensivi sono la causa principale anche della deforestazione.  Per un kg di carne bovina servono in media 11.500 litri d’acqua, mentre secondo lo studio scientifico «Environmental Impacts of Cultured Meat Production» per la stessa quantità di carne coltivata bastano tra 367 e 521 litri. La ricerca dimostra anche che il consumo di suolo si riduce del 99%. Poi ci sono ragioni sanitarie: l’allevamento intensivo è fonte di epidemie (mucca pazza, influenza suina, aviaria etc.), e l’uso massiccio di antibiotici a scopo preventivo contribuisce a provocare l’antibiotico-resistenza negli esseri umani. Infine, le ragioni etiche: ogni anno sono allevati 60 miliardi di animali, la maggior parte prima di finire al macello vive in condizioni di tortura per ottenere massima produttività. A tal proposito è il caso di segnalare che dal 2018 in California è in vigore la «Proposition 12», norma che prevede negli allevamenti uno spazio minimo di 2,2 mq per ogni animale (vitelli, maiali e galline): ora sarà una sentenza della Corte Suprema a stabilire se estenderla a tutti gli Stati Uniti. 

Come nasce il cibo del futuro

I primi studi risalgono all’inizio del 2001 quando la Nasa avvia degli esperimenti sulla possibilità di produrre cibo fresco nello spazio in previsione dei viaggi su Marte. Il primo hamburger al mondo prodotto in laboratorio è stato realizzato prelevando cellule staminali dal muscolo di una mucca nell’agosto del 2013 da Mark Post, direttore del Dipartimento di fisiologia dell’Università di Maastricht. Per ottenere i 142 grammi di questo primo hamburger ci vollero tra i 250 e i 290 mila dollari. In 10 anni i costi sono crollati. A marzo 2022 - scrive Forbes - l’hamburger artificiale ha raggiunto un prezzo di 9,80 dollari «perché la scala della produzione è migliorata notevolmente, ma il prodotto resta ancora più caro di un hamburger in un negozio di alimentari o al ristorante».

Gli investimenti nella carne artificiale

Secondo i dati del «Good Food Institute» oggi 107 società in 25 Paesi si stanno occupando di carne artificiale. In Europa se ne contano 29, in Italia ce n’è una sola: la start up trentina Bruno Cell. Gli investimenti nel settore hanno raggiunto 1,38 miliardi nel 2021, circa il 71% in più rispetto all’anno precedente (410 milioni di dollari). Fra gli investitori che dal 2016 hanno puntato sulla carne coltivata ci sono i tycoon del mondo tecnologico come Bill Gates, Richard Branson, Sergey Brin, Peter Thiel e Li Ka Shing, personaggi dello spettacolo come Leonardo DiCaprio, ma soprattutto giganti alimentari e dell’industria della carne come JBS, Tyson Foods, Kellogg’s e Cargill. JBS, la più grande azienda di lavorazione della carne al mondo, recentemente ha annunciato 100 milioni di investimenti nella start up spagnola «BioTech Foods» e la costruzione di uno stabilimento per la ricerca e produzione di carne in provetta in Brasile. Da parte sua invece «Future Meat Technologies», azienda biotecnologica israeliana all’avanguardia nella produzione di pollo coltivato, a dicembre 2021 ha raccolto 347 milioni di dollari di finanziamenti da parte di varie società guidate dall’americana ADM Ventures e dal gigante della carne Tyson Foods. In generale i principali investimenti sono in Nord America (701 milioni di dollari), segue il Medio Oriente (475 milioni di dollari) e l’ Europa (121 milioni di dollari). 

Scendono in campo i governi

Il governo degli Stati Uniti ha promosso un concorso da dieci milioni di dollari per la creazione di un centro di eccellenza in agricoltura cellulare. Il governo spagnolo ha concesso 5,2 milioni di euro all’azienda BioTech Foods, il Regno Unito ha garantito un milione di sterline alla scozzese Roslin Tecnologies, mentre l’Unione europea ha assegnato alle aziende olandesi Mosa Meat e Nutreco un finanziamento da 2 milioni di euro. L’investimento più consistente resta quello di Singapore, città-stato che importa il 90% del cibo: il governo ha stanziato 426 milioni di euro per il mercato della carne coltivata. Infine l’Autorità israeliana per l’innovazione ha annunciato nel 2021 un finanziamento di 69 milioni per quattro consorzi innovativi, uno dedicato alla carne coltivata. A giugno 2021 Horizon Europe, il principale programma di ricerca e innovazione della Ue, ha invitato invece le aziende comunitarie a presentare progetti per la ricerca sulle proteine alternative: in ballo un finanziamento da 32 milioni di euro. 

Dove si vende la carne artificiale

Al momento il primo e unico Paese ad aver dato il via libera alla vendita è Singapore: dal 2021, «Good Meat», sussidiaria della start up Eat Just, vende crocchette nel lussuoso ristorante «1880» di Singapore a 23 euro a piatto. In Israele il ristorante «The Kitchen» permette di consumare pollo coltivato, ma i clienti devono firmare una liberatoria, assumendosi tutti i rischi. Una precauzione ragionevole poiché non esistono ancora studi sugli effetti nel lungo periodo (quelli li scopriremo solo vivendo). Negli Usa è atteso a breve l’ok della Food and Drug Administration (FDA), mentre in Europa il prodotto che cade sotto la disciplina dei «novel foods» dovrà superare prima il parere tecnico dell’Efsa (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare) e poi quello della Commissione. 

Le previsioni

ll rapporto «Cultivated meat: Out of Lab, into the frying pan» realizzato dalla società di ricerca McKinsey afferma che la carne artificiale potrebbe creare un mercato da 25 miliardi di dollari entro il 2030. Per gli analisti di AT Kearney entro il 2040 il 35% di tutta la carne consumata verrà da cellule staminali, mentre i sostituti a base vegetale copriranno una quota di mercato pari al 25%. La carne da macello finirebbe per coprire il 40% del mercato globale: «La carne coltivata non deve essere vista necessariamente come un sostituto di quella naturale – spiega a Dataroom Stefano Biressi, professore di Biologia molecolare all’Università di Trento che collabora con la start up «Bruno Cell» allo sviluppo di carne artificiale in Italia. I due prodotti, almeno all’inizio, saranno venduti parallelamente».

L’altra faccia della medaglia

Le resistenze non sono poche. A partire da Coldiretti: «Gli allevamenti - spiega Felice Adinolfi, direttore del Centro Studi Divulga - sono vitalità economica di interi territori, garantiscono la biodiversità, mantengono in equilibrio il consumo di suolo, evitando l’inselvatichimento di intere aree». C’è poi un tema che riguarda l’occupazione: solo in Europa l’intera filiera della carne (dai veterinari alla grande distribuzione) occupa 7 milioni di persone (in Italia lavorano nel settore zootecnico 270 mila imprenditori agricoli con allevamenti e 250 mila dipendenti) che i laboratori non rimpiazzeranno. Quanto all’ambiente ci sono due considerazioni da fare: a) la scomparsa degli allevamenti intensivi ridurrebbe moltissimo le emissioni di CO2; b) la quantità di energia per produrre carne coltivata è maggiore rispetto a quella necessaria al processo industriale della produzione di qualsiasi carne naturale (quello che va dal macello al supermercato). Lo dimostra lo studio scientifico «Anticipatory Life Cycle of in Vitro Biomass Cultivation for Cultured Meat Production in United States». Infine, questa nuova frontiera «aggira» un grande problema sanitario: tutti gli studi scientifici concordano sul fatto che la carne rossa fa male, dunque più che sostituirla con quella artificiale, bisogna mangiarne il meno possibile.  

Per il bene dell’ambiente e della salute, sostiene Jilles Luneau nel libro «Carne artificiale? No, grazie», occorre ridurre drasticamente gli allevamenti intensivi, puntando su quelli estensivi e biologici. Alla fine, però, ad orientare l’industria saranno i consumatori, perché sono loro a decidere cosa mettere nel piatto. 

Vitello tonnato, una storia tutta piemontese. Un po' antipasto e un po' secondo, il vitello tonnato è un piatto gustoso con origini antiche, emblema degli anni '80 ma tornato prepotentemente di moda. Monica Cresci il 15 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Non si può parlare degli anni '80 senza citare il vitello tonnato, una pietanza dalla consistenza morbida e dal gusto intenso. Servito spesso come antipasto o come secondo di sostanza, veniva scelto con frequenza perché considerato un pasto leggero. Conosciuto anche come vitel tonnè fingeva origini francesi non ben definite, una discendenza creativa ma non reale e imposta dal periodo stesso. Quando tutto era eccesso e apparenza, lustrini e luci, e la cucina tradizionale con i termini più classici era relegata in un angolo, perché considerata démodé. Ma dopo i fasti dell'epoca, e finito brevemente nel dimenticatoio, il vitello tonnato è tornato di moda divenendo piatto feticcio per le reinterpretazioni culinarie degli chef più noti.

Vitello tonnato, un po' di storia

L'origine di questa pietanza è motivo di rivendicazione regionale, in particolare tra Emilia Romagna, Lombardia e Veneto. Eppure questo taglio di carne morbidissima vanta natali piemontesi, e in particolare nella zona di Cuneo che se ne assume la paternità sin dal XVIII secolo. La provenienza francese del nome è in linea con lo stile linguistico del periodo, quello del Ducato dei Savoia dove era molto comune parlare in dialetto piemontese con l'aggiunta di francesismi. E quel tonnè così bohémien in realtà deriva da "tannè" ovvero conciato, in riferimento ai tagli di carne di vitello ottenuti con gli avanzi, lessati a lungo e conditi per una morbidezza eccezionale. Questa assonanza di suoni tra le due parole, nel tempo, ha così contribuito a cambiare il nome stesso del piatto ma anche della stessa ricetta.

L'ingresso del tonno è solo successivo, tutto merito dei collegamenti commerciali tra Piemonte e Liguria e degli acciugai piemontesi che viaggiavano verso le zone di mare per acquistare il sale a costi calmierati. Un prodotto carissimo e importato attraverso la pratica del contrabbando, nascosto con cura tra le casse delle alici per eludere i doganieri. Una pratica in voga fin dal Medioevo con grandi quantità di acciughe acquistate, per la bagnacauda, provenienti dalla Costa Azzurra. Con l'aggiunta di qualche tonno fresco ben nascosto sotto, come compenso per le fatiche legate all'importazione illecita. Una presenza che non è passata inosservata tanto da trovare posto all'interno della pietanza popolare, impreziosendola con il suo sapore.

Da piatto popolare a pietanza di classe 

Nato come ricetta popolare per sfruttare gli avanzi della carne di vitello, nel tempo è riuscito a catturare l'attenzione dei gastronomi dell'epoca attraversando epoche e periodi storici. Niente male per un insieme di avanzi di tagli di carne, lessata a lungo per raggiungere un buon livello di morbidezza ma anche per evitare la proliferazione di infezioni e batteri. Le prime tracce scritte si hanno grazie al gastronomo Pellegrino Artusi che decise di ammorbidire la carne di vitella bollendola con chiodi di garofano, alloro, sedano, carota e prezzemolo. Descrivendo il procedimento nel libro Scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Per poi tagliarla sottilmente, insaporendola con una salsa creata con acciughe, tonno, capperi, limon e olio. La pietanza veniva servita fredda oppure calda, arrostendo la carne e condendola con la salsa di cottura addensata con farina e succo di limone. All'inizio la ricetta non contemplava la presenza del tonno, si pensa infatti che il termine tonnato si riferisse alla tipologia di cottura, ovvero alla maniera del tonno. 

Con il tempo il piatto è riuscito a ritagliarsi un posto importante sulle tavole eleganti, divenendo una pietanza ricercata e famosa, sia negli anni '60 grazie alla ristorazione locale, e in particolare Guido e Lidia Alciati del ristorante Da Guido a Costigliole d'Asti, e poi principalmente negli anni '80. Fino a cadere nel dimenticatoio perdendo momentaneamente smalto, per poi ritornare sotto ai riflettori grazie all'interesse di molti chef. Come ad esempio Carlo Cracco, Heinz Beck, Antonino Cannavacciuolo pronti a rivisitare la ricetta con un tocco di creatività e grande passione. La preparazione classica prevede che la carne -preferibilmente un girello di fassona piemontese- venga lessata, con l'aggiunta di carota, sedano, cipolla, alloro, pepe in grani, sale e del vino bianco. Appena diventa tenera si taglia sottilmente così da disporla sopra un piatto replicando un carpaccio, insaporendola con la salsa creata frullando il tuorlo di un uovo con capperi, acciughe sotto sale, olio extravergine d'oliva, succo di limone, sale e pepe e tonno sgocciolato.

(ANSA il 29 settembre 2022) Torna domenica 2 ottobre Pollo Arrosto Day, la maratona social organizzata da Unaitalia - l'Associazione nazionale dei produttori di carni bianche - per celebrare il secondo piatto più amato dagli italiani e raccontare le sue diverse "anime", da quella familiare a quella popolare delle rosticcerie, fino a quella gourmet. 

Un piatto che mette d'accordo tutti, consumato dal 95% della popolazione e in tutte le culture. Il 74% degli italiani (40 milioni) lo mangia almeno una volta al mese; il 39% una volta a settimana e il 32% due volte (soprattutto i giovani), e senza salse (40%). 

Tra le ragioni del suo successo, fa notare Unaitalia, la versatilità e la trasversalità, anche culturale, del pollo che con 21.43 kg pro-capite continua ad essere la carne più consumata nel Belpaese. Re dei pranzi della domenica, il pollo arrosto sdogana i diktat del galateo. Oggi il 53% lo mangia con le mani, soprattutto a casa e in famiglia (59%), ma il 64% degli italiani sarebbe disposto a farlo se il galateo lo autorizzasse (il 29% anche in una cena romantica o formale).

Tanto che il 72% è convinto che il detto "chi non si lecca le dita gode solo a metà" si addica appieno anche a questo piatto perché "la sapidità rimane sulle mani e l'esperienza deve essere totale" (49%) e "fa tornare bambini" (33%). A rivelarlo un'indagine Doxa* realizzata per Unaitalia. 

Mani o forchetta? Questo il tema della sesta edizione che vede protagonisti gli chef Cristina Bowerman (1 stella Michelin), Max Mariola, i toscanissimi Federico Fusca e Daniele Rossi, chef-tiktoker che spopolano sui social con microricette da 30 secondi, oltre agli studenti dell'Istituto Europeo di Design (Ied) inventori di un utensile per non sporcarsi le mani. Nell'eterno bivio a tavola tra la scelta del petto o della coscia, molti gli chef che scelgono di annullare le distanze tra cibo e mani. Tra questi Andoni Luis Aduriz (Mugaritz, 2 stelle Michelin), per il quale "mangiare con le mani è una regressione naturale verso il nostro stato più primitivo, è ritrovare noi stessi. Senza artifici. Mangiare con le mani è anche condividere".

"Mangiare con le mani - afferma Bowerman - è il gesto più intimo che c'è: coinvolge tutti i cinque sensi e abbatte ogni elemento di separazione tra noi e il cibo. E si addice perfettamente al pollo, alimento centrale per la nostra dieta, tra le carni più salutari". Un gesto sdoganato oggi anche dal galateo che ora dice "con le mani si può". In occasione del Pollo Arrosto Day, l'Accademia italiana del Galateo, ha riscritto infatti le regole dell'assaggio in un manifesto con 10 spunti e consigli per gustare il pollo arrosto senza le posate.

GALATEO. Pollo arrosto, si mangia con le mani o con la forchetta? Ecco cosa dice il galateo. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 2 Ottobre 2022.

Il 2 ottobre è la giornata dedicata a uno dei piatti più amati e trasversali che ora (anche) il galateo ci autorizza a mangiare con le mani: ecco perché, e come

Come mangiare il pollo

È il piatto che salva spesso e volentieri la cena: se non si ha voglia di prepararlo, il pollo arrosto si compra in rosticceria e la serata è sempre un successo. Piace a tutti: resta uno dei piatti preferiti dai bambini, oltre che dagli adulti. Il 74% degli italiani (40 milioni) lo mangia almeno una volta al mese, il 39% una volta a settimana e il 32% per ben due volte (soprattutto, guarda caso, i giovani pochi avvezzi ai fornelli). Ecco perché ha una giornata dedicata: il 2 ottobre è il Pollo Arrosto Day, istituito da Unaitalia – l’Associazione nazionale dei produttori di carni bianche - che ha pensato di festeggiare questa ricetta così trasversale e al contempo goduriosa. Ammettiamolo: il bello del pollo arrosto è anche che puoi mangiarlo con le mani e magari leccarti le dita dopo averlo finito.

Un italiano su due - altri dati di Unaitalia che ha commissionato un’indagine ad hoc alla Doxa - lo fa d’abitudine quando è con la famiglia e non ha paura di essere giudicato. Inoltre il 64% lo farebbe anche fuori casa se solo il galateo lo autorizzasse.

Grande notizia: ora il galateo ci autorizza ufficialmente a mangiare il pollo arrosto con le mani. «Sì il pollo arrosto si può mangiare con le mani: è una trasgressione al galateo ortodosso ma è ammessa»: puntualizza Samuele Briatore presidente e fondatore dell’Accademia Italiana del Galateo. «Alcune regole devono essere infrante per essere sempre attuali», prosegue l'esperto, ricordando che in realtà già prima di noi, il problema se lo sono posti i nostri nobili antenati. Ad esempio la regina Margherita di Savoia: durante una certa a corte, vedendo uno dei commensali in difficoltà alle prese con il pollo arrosto, iniziò per prima a mangiarlo con le mani dando, di fatto, la concessione a tutto il tavolo di fare lo stesso.

Con il via libera del galateo, Unaitalia ha deciso di festeggiare il 2 ottobre proprio al motto #polloarrostoconlemani invitandoci a postare foto e racconti con questo hashtag sui social. Attenzione, però: ci sono regole molto precise da seguire. Unaitalia le ha stilate con l’Accademia Italiana del Galateo per lanciare un «manifesto del pollo con le mani». Scoprite le più significative continuando a leggere insieme ad alcune interessanti curiosità sul perché non usare le posate è diventato anche di gran moda.

Un'eccezione ma si può

«Street food e finger food sono cibi tradizionalmente consumati con le mani e il pollo arrosto rientra a pieno titolo. Ma fatelo esclusivamente in una serata easy e mai in una cena formale o al primo appuntamento», suggeriscono Unitalia e l’Accademia Italiana del Galateo.

Mettete i commensali a loro agio

Unitalia e l’Accademia Italiana del Galateo ricordano: «Anche la regina Margherita, arrivata a Napoli, mangiò (infrangendo la regola) una coscia di pollo con le mani per ingraziarsi il popolo e mettere a proprio agio il consuocero Nicola I. Mettete a proprio agio il commensale non fissandolo mentre mangia e mettendo a disposizione fazzoletti o salviette umidificate».

Un'esperienza appagante che coinvolge i 5 sensi (ma con moderazione)

Come suggeriscono anche il buon senso e l’educazione sono (almeno) quattro gli step fondamentali per mangiare correttamente il pollo arrosto con le mani: «Lavatevi bene le mani, usate indice, pollice e medio per portare il cibo alla bocca come faceva la nobiltà rinascimentale (senza alzare il mignolo), degustate in libertà ma non fino all’osso, pulite bocca e dita», ricordano Unitalia e Accademia Italiana del Galateo.

Usate il pollo arrosto come un’occasione per trasmettere fiducia

«Mangiare alcuni cibi, come il pollo arrosto, con le mani, è comunicare al proprio interlocutore che ci fidiamo di lui. Indica che il nostro rapporto va oltre il formale, all’insegna della riappropriazione dei sensi e dell’evasione. Fatelo con gli amici di vecchia data ma anche con la vostra dolce metà», suggeriscono Unitalia e l’Accademia Italiana del Galateo.

Infrangere le regole ma non troppo

Certe cose, come consigliano anche Unitalia e l’Accademia Italiana del Galateo, è sempre meglio farle da soli: «Evitate di riempire il pollo di salse e di toccarle con le mani. Una famosa pubblicità diceva che chi si lecca le dita gode solo a metà. Se proprio dovete farlo, fatelo in solitaria, magari davanti alla tv».

Fate piccoli piccoli bocconi

Mai esagerare, e il galateo - in quanto tale - puntualizza anche questo dettaglio per i più smemorati: «Usate le dita per portare alla bocca piccoli pezzi ed evitate di accanirvi su ogni singolo boccone: non vorrete apparire dei lupi affamati!».

Siate generosi

Ricordando un’altra regola di buon senso, Unitalia e l’Accademia Italiana del Galateo dicono: «Non rimestate e mescolate i pezzi (del pollo, ndr) alla ricerca del preferito, prendete il vostro con eleganza e velocemente. Valutate le quantità: ne deve rimanere a sufficienza per gli altri».

Ogni Paese ha le sue regole (anche) sul pollo arrosto

«Il pollo è un cibo che unisce i commensali di qualsiasi nazionalità e religione, che in numerose culture viene assaporato con le mani. Paese che vai, galateo che trovi: in India, così come in Etiopia, si mangia solo con la mano destra; in Marocco si usano solo le prime tre dita», consigliano ancora Unitalia e Accademia del Galateo.

Perché fa bene mangiare il cibo con le mani: cosa dice la sociologia

Non siamo i primi a chiederci se sia il caso di mangiare o meno il pollo arrosto (o altri cibi) con le mani. Norbert Elias, il più importante sociologo sulle maniere, sosteneva che l’introduzione delle posate sulle tavole non fosse dovuta a motivi igienici, piuttosto a creare una separazione tra l’uomo e il cibo, per placare la voracità.

Perché fa bene mangiare cibo con le mani: cosa dice la scienza

Insomma, mangiando senza posate si gode di più: lo conferma uno studio della Stevens University di New York, pubblicato sul Journal of Retailing. Lo studio dice: «Toccare il cibo direttamente con le mani migliora l'esperienza sensoriale e aumenta le valutazioni edoniche del cibo nei consumatori dotati di autocontrollo». Insomma, quel che conta, anche quando si mangia con le mani, è sapersi controllare.

Perché fa bene mangiare cibo con le mani, sin da bambini

Uno studio dell’Università di Nottingham dei ricercatori Ellen Townsend e Nicola Pitchfork pubblicato sul British American Journal è tra i tanti che provano che permettere ai bambini di alimentarsi da soli con le mani, con una selezione di cibi solidi a portata di mano fin dall'inizio dello svezzamento, li aiuta a mantenere uno stile di vita alimentare sano ed equilibrato.

I menù dei grandi chef da mangiare solo con le mani

Forse partendo da qui, o forse perché almeno a tavola vogliamo sentirci liberi, sono tanti gli chef anche famosi che hanno sdoganato le mani. Per esempio, la maggior parte dei piatti di Andoni Luis Aduriz (Mugaritz a Errenteria, Spagna, 2 stelle Michelin), si mangiano con le mani (anche il suo pollo arrosto). L'ostrica di pollo fritta, piatto culto dello chef e imprenditore statunitense David Chang, è nata apposta per essere mangiata senza posate. Cristina Bowerman, una stella Michelin al Glass Hostaria di Roma, considerata una delle chef più eclettiche d'Italia, ha ideato un intero menù da mangiare con le mani.

Il pollo di Cristina Bowerman

«È il gesto più intimo che c’è: coinvolge tutti i cinque sensi e abbatte ogni elemento di separazione tra noi e il cibo. E si addice perfettamente al pollo, alimento centrale per la nostra dieta, tra le carni più salutari. Tanto che nei prossimi mesi servirò quattro menù a sera basati solo sul pollo: tutte le parti del pollo in tante ricette diverse», ha annunciato Cristina Bowerman. Per il Pollo Arrosto day Cristina Bowerman ha pensato anche a una ricetta speciale: Pollo arrosto con kimchi di pesca e insalata con parisienne di pesche (in foto). Troverete la ricetta anche su vivailpollo.it

I festeggiamenti per il Pollo Arrosto Day

Cristina Bowerman svelerà la sua ricetta il 2 ottobre su suoi canali Facebook ed Instagram. Uno dei tanti appuntamenti del Pollo Arrosto Day che coinvolgerà sul tema «Mani o forchetta?» - sui social e su vivailpollo.it - anche lo chef Max Mariola, i toscani Federico Fusca e Daniele Rossi (tra le coppie di chef-tiktoker più seguite), la community di Giallo Zafferano. Si comincia alle 11.30 con un fitto programma e tanti ospiti, tra i quali anche Samuele Briatore, presidente e fondatore dell’Accademia Italiana del Galateo (che svelerà i 10 punti del Manifesto del #polloarrostoconlemani) e le studentesse dello IED Angelica Fu Fupei ed Emilia He Rui.

L’avvolgerello

Assieme al loro professore Davide Gallina, Angelica Fu Fupei ed Emilia He Rui hanno progettato l’«Avvolgerello»: un utensile frutto di un contest di design per inventare uno strumento pratico, ecologico e divertente per mangiare il pollo arrosto con le mani senza sporcarsi.

La bistecca è il motore dell’evoluzione: “Non è mai esistita una società vegana”. Carlo Cambi il 29/09/22 su Panorama

La Ue vuole abolire la zootecnia, ma la Fao replica: senza carne non si sfama il mondo. Se ne parla domani a Roma. Ecco lo studio di uno dei più famosi paleoantropologi: Ben Dor Carlo Cambi Se siamo ciò che siamo diventati e cioè abili, sapienti, intelligenti e longevi lo dobbiamo alla carne. Parola di paleoantropologo, anzi del massimo paleoantropologo il professor Ben Dor dell’università di Tel Aviv da almeno 30 anni impegnato a studiare come l’alimentazione ha influito sullo sviluppo umano. Un interrogativo a cui hanno tentato di dare risposta socioantropologi come Claude Levi Strauss – il suo “il crudo e il cotto” resta una pietra miliare - e nutrizionisti spesso però impegnati a guardare l’oggi piuttosto che a sondare il percorso. Sono i paleoantropologi cioè quelli che a bordo di una sorta di macchina del tempo indagano la remota contemporaneità dei nostri antenati per risalire fino a noi a descrive le traiettorie dell’evoluzione. Ben Dor smentisce tutta la vulgata vegana e toglie anche la giustificazione ai cibi Frankenstein quelli creati in laboratorio come la falsa carne finanziata da Bill Gates e dall’Europa. Sarà il ricercatore israeliano la guest star di un convegno che si tiene oggi a Roma organizzato da Assocarni e Coldiretti sul tema: “Cow is Veg: il ruolo dei ruminanti in una dieta sostenibile.”

Il convegno nasce dalla necessità di indagare se la prospettiva, sostenuta anche dalla Comunità europea con il programma Farm to Fork, di produrre meno per non nuocere all’ambiente eliminando del tutto alla dieta le proteine animali sia sostenibile dal punto di vista del bisogno alimentare e se sia giustificata dai dati ambientali, nutrizionali ed economici. A questa idea del mangiare insetti per non nuocere all’ambiente, del non mangiare carne per non avere danni alla salute e al pianeta, si contrappone un altro orizzonte che ruota attorno alla domanda centrale posta dalla Fao: come si fa a sfamare i 9,7 miliardi di uomini che abiteranno il pianeta da qui al 2050? La risposta possibile è: garantire un aumento medio del 30% della disponibilità di alimenti di origine animale, soprattutto nei paesi in via di sviluppo. Di questo si occupa la tavola rotonda sul tema “Carne rossa tra sostenibilità, nutrizione e futuro” animata dal professor Ben Dor con Anne Mottet - Livestock Development ,Officer, FAOFrank Mitloehner - Professore e Air Quality Extension Specialist, UC Davis USA- e Frederic Leroy - Professore nel campo della Scienza dell’Alimentazione alla Vrije University. Il ricercatore israeliano ci ha anticipato in questa intervista alcuni dei contenuti che illustrerà oggi.

Ben Dor Professore Ben Dor quanto è durato lo studio che avete condotto sul rapporto tra consumo di carne ed evoluzione? “Lo studio è stato condotto negli ultimi 12 anni. Ho raccolto migliaia di articoli sulla dieta, il comportamento e l'evoluzione umana durante il Paleolitico. Circa tre anni fa ho concluso che la migliore fonte di conoscenza sulla dieta durante l'evoluzione umana può essere trovata nel corpo umano, come segni di adattamento a una certa dieta. Ho quindi iniziato a rivedere più intensamente gli adattamenti umani genetici, morfometrici e  metabolici legati alla dieta. Il documento risultante, The Evolution of the Human Trophic Level, contiene più di quattrocento citazioni da articoli scientifici.” Come il consumo di proteine animali ha influenzato l’evoluzione? “Posso dire che gran parte dell'evoluzione del genere Homo è un adattamento per acquisire e assimilare la carne come principale fonte di energia e nutrienti. Il genere Homo comprende Homo hablis, Homo erectus, Homo sapiens e altri. Prima dell'arrivo del genere Homo, 2,5 milioni di anni fa, abbiamo trovato davvero poca carne ma nei siti archeologici Homo troviamo ossa di animali e strumenti di pietra che servivano per catturare le prede ed estrarre la carne e il midollo dalle ossa.” Esiste davvero una relazione tra consumo di carne e inquinamento ambientale? “Questo non è il mio principale obiettivo di ricerca. La mia impressione è che vi sia una confluenza di interessi che porti a un'esagerazione dell'effetto della carne, rispetto ad altri effetti agricoli e industriali sull'ambiente. Pesticidi, erbicidi e altre sostanze chimiche sono abitualmente utilizzati nell'agricoltura vegetale. Le piante prodotte vengono regolarmente trasportate per migliaia di chilometri in tutto il mondo e vengono lavorate da un'industria che utilizza energia fossile e prodotti chimici. Credo che l'effetto della carne sull'ambiente non sia superiore a quello di altri alimenti. Inoltre, l'effetto della produzione industriale non alimentare sull'ambiente è probabilmente superiore a quello dell'agricoltura, per non parlare dell'effetto parziale che la carne ha all'interno dell'agricoltura. L'attenzione che la carne ha ricevuto in questo senso mi sembra esagerata.” Ci sono tracce o testimonianze in epoche remote di popolazioni totalmente vegane? “Non ci sono segni archeologici di società umane vegetariane durante il Paleolitico e anche dopo. Le società vegetariane oggi lo fanno per motivi religiosi. Consumano ancora prodotti animali. Non c'è mai stata una società vegana per quanto ne so.”

Che pensa di questa idea di abbandonare il consumo di carne per sostituirla con insetti o con la cosiddetta falsa carne? Nella sua prospettiva di studioso questo ha una ragione storica? “Penso che sia una tendenza i cui risultati futuri dovrebbero essere studiati attentamente. La carne non è solo proteine. La carne e il grasso che la accompagna contengono vitamine come A, D, K2, E e B12, oltre ad altri nutrienti essenziali per la salute umana. Qualsiasi carne artificiale deve essere confrontata con la composizione completa della carne naturale. Lo stesso vale per le proteine degli insetti. Siamo metabolicamente adattati a consumare una quantità significativa di carne e penso che incasinare l'evoluzione sia pericoloso. Gli alimenti non naturali dovrebbero essere introdotti solo dopo un attento studio dei loro effetti e degli effetti collaterali sulla salute umana.”

Estratto dell'articolo di Paolo Travisi per “il Messaggero” il 26 settembre 2022.  

Difficile da digerire un secondo posto all'ottava edizione dei campionati mondiali di macelleria, sopratutto se a primeggiare è la Germania con la monotona (e monosapore) tradizione del würstel. Possiamo consolarci, però, con la medaglia d'oro per la migliore tecnica del disosso ai mondiali di Sacramento, negli Stati Uniti: «È come vincere i 100 metri alle Olimpiadi di atletica», racconta Andrea Laganga, uno dei macellai professionisti del team italiano che ha guadagnato 3 medaglie d'oro ed una di bronzo. Dietro ai tedeschi, ma davanti alla solida tradizione di Irlanda, Gran Bretagna e Francia. […]

Le squadre partecipanti hanno affrontato una serie di prove della durata di tre ore e mezza, cimentandosi con mezzo vitello, mezzo maiale, un agnello e cinque polli, iniziando dal disosso fino all'allestimento del banco espositivo. Ogni paese ha lavorato secondo il proprio stile e portando anche una scenografia ad arricchire la presentazione del loro antico mestiere. […] Per l'Italia, il tema scelto dal team di Laganga e soci, ha richiamato l'antica Roma.

«Noi abbiamo vinto per la miglior tecnica del disosso, il miglior preparato di agnello, mentre la nostra macellaia si è aggiudicata il miglior prodotto di pollo».  Per la prima volta in America, oltre ai macellai senior hanno partecipato anche due giovani promesse, un under 35 e un apprendista under 25, vincendo un bronzo che vale quasi un oro. […]

 […] «In Italia si diventa macellai per tradizione, ma manca un ricambio generazionale, perché non c'è una scuola formativa e se un giovane fosse interessato non saprebbe come fare. Tra l'altro il macellaio che lavora nella grande distribuzione, spesso non ha una formazione a 360 gradi come un artigiano», spiega Laganga. Inoltre la vittoria di una macellaia in una delle sezioni ai mondiali di Sacramento, dimostra anche l'evoluzione di un mestiere, ritenuto per tradizione prettamente maschile. Al contrario nella macelleria di Mara Labella a Sermoneta, vicino a Latina, unica donna nel team italiano, la presenza maschile è in netta minoranza. […]

Papa Francesco ai giovani: «Urgente ridurre il consumo della carne. Confido in voi». GAIA ROSSI su Il Corriere della Sera il 23 Luglio 2022.

In una lettera scritta per la Conferenza Europea dei Giovani, riuniti a Praga, il Santo Padre parla dell’importanza di un’alimentazione sostenibile per rispettare l’ambiente

Papa Francesco si fa ancora una volta portavoce di un messaggio ambientalista e lo fa con una lettera indirizzata alla Conferenza Europea dei Giovani, che si è tenuta a Praga nei giorni scorsi, in cui parla anche dell’importanza di un’alimentazione più sostenibile per il futuro del mondo. «È urgente ridurre il consumo non solo di carburanti fossili ma anche di tante cose superflue; e così pure, in certe aree del mondo, è opportuno consumare meno carne: anche questo può contribuire a salvare l’ambiente», scrive il Santo Padre, mettendo così l’accento sulle conseguenze degli allevamenti intensivi sul riscaldamento globale.

Nella lettera il Papa poi prosegue: «A tale riguardo vi farà bene – se non l’avete già fatto – leggere l’Enciclica Laudato si’, dove credenti e non credenti trovano motivazioni solide per impegnarsi in favore di una ecologia integrale». Il riferimento è all’Enciclica del 2015, in cui il Pontefice affronta temi come il cambiamento climatico, la mancanza d’acqua, la perdita di biodiversità e che contiene parole molto nette proprio sul rispetto degli animali. «È contrario alla dignità umana far soffrire inutilmente gli animali e disporre indiscriminatamente della loro vita», scrive ad esempio il Papa in uno dei passaggi chiave di quello che è considerato il suo testo programmatico più importante, per il quale è stato anche nominato Persona dell’anno dall’associazione animalista People for the Ethical Treatment of Animals (PETA). Anche a tavola, d’altronde, Papa Francesco dà il buon esempio: conduce una dieta molto leggera e semplice, con tanta frutta e verdura, proteine leggere provenienti prevalentemente da legumi e formaggi freschi e solo una volta a settimana pesce o carne bianca.

Uscite gastronomiche. Tutte le sfumature della carne bianca. Gastronomika su L'Inkiesta il 14 luglio 2022.

Un nuovo libro, scritto da Ramona Pizzano per Trenta editore, prende in esame i principali tagli - pollo, coniglio, vitello, agnello e maiale - dal punto di vista organolettico e della resa in cucina. 

La carne bianca è da sempre considerata la più salutare, quella che fa meglio al nostro organismo, che ci fa sentire bene e che dà alla nostra dieta un apporto proteico importante. Effettivamente, rispetto alla sua gemella carne rossa, la carne bianca è spesso consigliata dai nutrizionisti, in quanto ricca di vitamine B, aminoacidi e minerali, come ferro, zinco e rame. Il suo contenuto di grassi e colesterolo, inoltre, è nettamente inferiore, perché scarseggia di tessuto connettivo.

Proprio per questo motivo è tra le carni più consigliate per lo svezzamento dei bambini, perché la sua tenerezza facilita la masticazione e ne favorisce la digestione.

Un regolare consumo di carne bianca garantisce un’alimentazione sana e aiuta lo sviluppo muscolare, nonché lo smaltimento delle tossine. Essendo poi una carne ricca di grassi polinsaturi, è in grado di aiutare a gestire e a tenere sotto controllo cuore e arterie.

Ma come si classificano esattamente le carni bianche e perché si chiamano così? Generalmente parlando, il colore della carne deriva da una proteina chiamata “mioglobina”, che ha la funzione di immagazzinare l’ossigeno e di conferire alla carne un colore rosso.

Nelle carni cosiddette “bianche” il livello di questa proteina è davvero basso e, per questo motivo, la carne assume un colore più chiaro. Di questa categoria fanno, quindi, parte il pollo, il tacchino, il coniglio, l’agnello, il vitello e il maiale, anche se per questi ultimi due il discorso è un po’ diverso. 

Nonostante siano considerate carni bianche in tutto e per tutto, il loro colorito risulta più roseo, perché la quantità di mioglobina che si trova all’interno di queste carni è leggermente più alta rispetto alle altre. Nonostante ciò, il livello di mioglobina rimane comunque molto basso: ecco perché il vitello e il maiale vengono comunque considerate carni bianche.

Al giorno d’oggi la carne bianca è vista come un ingrediente standard, sia per il consumo casalingo che per quando andiamo a mangiar fuori: un buon filetto di maiale, degli straccetti di vitello e, per i più salutari, fesa di tacchino e petto di pollo “a go-go”.

Eppure la carne bianca non è una moda che è cominciata negli ultimi anni perché vogliamo essere tutti un po’ più fit. La storia ci insegna che questo tipo di carne ha sempre riscosso un grande successo sulle tavole dei nostri antenati: i primi riferimenti storici su un allevamento avicolo in Europa risalgono addirittura a III-II secolo a.C., mentre ai tempi dei romani la carne di gallina conquistava le tavole di gran parte della classe borghese, grazie al suo sapore delicato e alla sua consistenza tenera. Il maiale, addirittura, era uno dei must per chi possedeva un terreno o una fattoria, perché facile da allevare e perché la sua carne si conserva a lungo e si presta a diverse lavorazioni.

Anche il tacchino ha una storia molto particolare, specialmente quella legata alla tradizione americana: si tratta, infatti, della portata principale delle feste, come Natale e, ovviamente, il giorno del Ringraziamento che si tiene a fine novembre, tanto amato negli Stati Uniti. Ovviamente, rispetto ad allora, la produzione e il consumo di carne bianca si sono evoluti, ma rimane un grande apprezzamento di fondo per questi ingredienti dal sapore unico.

Per le carni bianche si tendono a preferire delle cotture semplici, in modo da preservare le proprietà benefiche dei prodotti, che devono essere comunque di qualità. Le cotture più in voga sono la cottura al vapore e quella alla griglia, che ne conserva vitamine e sali minerali.

L’unica cosa davvero importante da menzionare e mai da sottovalutare è che, qualsiasi sia la cottura che viene scelta, la carne bianca deve essere necessariamente cotta a puntino, perché spesso soggetta a contaminazioni e parassitosi. Inoltre, bisogna lavare sempre molto bene le mani e gli utensili utilizzati per tagliarla, maneggiarla o marinarla.

L’autore Nata a Irpinia nel 1983, Ramona Pizzano è sbarcata nel mondo del food giovanissima. Una passione, quella per la cucina, che l’ha spinta ad aprire un blog e a condividere in rete tutti i suoi esperimenti ai fornelli: Farina, lievito e fantasia è il suo diario virtuale dove trovare tantissime ricette ispirate alla tradizione culinaria italiana e non solo. Racconti di viaggi, foto e rubriche: anche questa è l’anima di un blog sempre in cerca di avventure. “Teneramente… bianca“ è il suo secondo libro per Trenta Editore, dopo il successo de “Il Paese dei limoni“ (2021).

Attilio Barbieri per “Libero Quotidiano” il 22 maggio 2022.

La carne rossa non accorcia la vita. La allunga. Una meta ricerca sugli studi al riguardo pubblicati in tutto il mondo dimostra che nei Paesi dove se ne mangia poca, a vantaggio ad esempio di cereali e tuberi, si campa di meno. 

Non solo: la carne rossa non fa venire il cancro. Il rischio di tumore al colon, semmai, cresce soprattutto in chi ha una dieta particolarmente ricca di fibre grezze e non raffinate come dimostra un altro studio validato e condotto in Gran Bretagna su 63.550 persone.

Al contrario la dieta vegetariana indebolisce la massa muscolare e accresce i rischi a carico delle ossa. Soprattutto negli anziani per i quali una dieta che includa le proteine animali può limitare la perdita di massa muscolare che in età avanzata è l'anticamera della disabilità. 

Insomma la carne è tutto fuorché un veleno. I rischi di ammalarsi sono perfino superiori in chi ecceda con i vegetali. «Non tutti, però», ci spiega il professor Giuseppe Pulina, presidente di Carni Sostenibili e confermato nei giorni scorsi nella World's Top 2% List, la graduatoria che include gli scienziati più citati nelle pubblicazioni scientifiche. «Il rischio cresce con un'alimentazione particolarmente ricca di fibre grezze, come la pula del grano, il riso integrale o i vegetali invecchiati». 

Come può essere?

«Queste fibre possono ledere le pareti intestinali e provocare infiammazioni che innescano un processo degenerativo della mucosa. Non è la fibra in sé ad essere pericolosa, ma la sua struttura». 

Più la ricerca fa progressi e meno certezze si hanno...

«Non è vero. Le fibre, quando non abbiano una struttura abrasiva, fanno bene. E il loro effetto benefico aumenta quando sono associate alle carni. C'è un accoppiamento di nutrienti che arrivano al microbiota intestinale e generano la produzione di acido butirrico che è un fattore antiinfiammatorio».

Dove sta il pericolo, allora? Mi fa un esempio?

«La lolla di riso contiene silice che è abrasiva e ne riduce oltretutto la digeribilità. Le fibre sono un mondo che conosciamo bene perché nella nutrizione animale le studiamo da un secolo e mezzo. Mentre nell'alimentazione umana stiamo scoprendo oggi le novità che le riguardano». 

Com'è possibile, invece, che la carne rossa allunghi la vita? Da decenni ci sentiamo ripetere l'esatto contrario. Ora apprendiamo che nei Paesi dove è più basso il consumo di proteine animali la vita media è più breve...

«È così. Esiste una correlazione, anche se le relazioni di causa ed effetto sono un'altra cosa. La carne è implicata direttamente nel quadro di salute e di longevità. Ma sicuramente è un indicatore di benessere.

Le popolazioni, diventando più ricche, aumentano il consumo di carne. Di sicuro nell'età evolutiva, la mancanza di alimenti di origine animale provoca un deficit di sviluppo. In Madagascar, ad esempio, l'altezza media è inferiore di 3-4 centimetri rispetto a quella che dovrebbe essere proprio per la carenza di alimenti di origine animale nella dieta dei bambini. Una carenza che si ripercuote poi per tutta la vita e può provocare addirittura ritardi cognitivi». 

E la carne rossa? Dopo l'incauto annuncio sulla sua pericolosità da parte dell'Oms che si è affrettata a smentirlo, resta comunque sul banco degli imputati.

«Le evidenze scientifiche successive a quel fatto hanno smontato un pregiudizio antecedente all'annuncio dell'Oms sulla carne rossa, che riguardava i grassi animali e le malattie cardiache. La novità è che le associazioni cardiologiche europee ed americana hanno riconosciuto che i grassi non c'entrano nulla con l'infarto e le altre patologie del cuore. Il burro e la carne, anche un po' grassa non sono direttamente responsabili. Pensi che anche nelle diete che puntano a riconquistare il peso forma, si ottengono risultati più evidenti riducendo i carboidrati piuttosto che tagliando i grassi».

Come si spiega questa cosa?

«La nostra specie si è evoluta per due milioni e mezzo di anni, mangiando proteine e grassi con pochissimi carboidrati che ora, al contrario, rappresentano il 60% della nostra dieta e assieme all'alcol sono la vera causa del sovrappeso». 

Eppure, per decenni ci hanno inculcato la convinzione che sia tutta colpa dei grassi se ci ammaliamo...

«Per cinquant'anni». 

Come si è scoperta la verità?

«L'associazione dei nutrizionisti americani in un position paper ha analizzato le serie storiche da quando, negli anni Ottanta, negli Stati Uniti sono uscite linee guida che hanno iniziato a chiedere cibi con pochi grassi o addirittura senza grassi. Da quel momento l'obesità negli Usa è diventata un fenomeno pandemico». 

Il motivo?

«Il nostro organismo il grasso lo legge in termini di sazietà. Lo zucchero no. Sono i neuromeccanismi della sazietà che percepiscono chiaramente i lipidi. È l'evoluzione della specie che ci ha abituati a sentirci sazi con le proteine e con i grassi. Siamo costruiti fisiologicamente per mangiare carne, mentre chi si trovi in una condizione di sovrappeso è spesso sovralimentato e sottonutrito».

Da cosa dobbiamo guardarci?

«Dai cibi ultraprocessati che squilibrano il nostro metabolismo e spesso abbondano di sale, il vero killer della nostre arterie. Pensi che i burger di origine vegetale hanno 39 componenti, mentre la carne uno soltanto». 

Come si distinguono i cibi ultraprocessati?

«Gli alimenti che abbiamo più di quattro ingredienti sono considerati processati. Oltre i sette elementi sono cibi ultraprocessati».

Bufale da macello. Report Rai PUNTATA DEL 02/05/2022 di Bernardo Iovene

Collaborazione di Alessandra Borella, Greta Orsi 

Le infezioni stanno decimando gli allevamenti di bufale in provincia di Caserta.

Gli allevatori sono sul lastrico e chiedono nuovi metodi di analisi visto che il 98,5% delle bufale post mortem risulterebbe non malata. Brucellosi e Tubercolosi sono le infezioni che stanno decimando gli allevamenti di bufale in provincia di Caserta. La beffa è che la carne delle bufale dichiarate infette, lo stesso giorno della macellazione viene dichiarata idonea per il consumo ed entrano sul mercato della carne bovina gestita da un unico macello di proprietà di Cremonini, azienda leader in Europa. Report ricostruirà questa triste vicenda attraverso le voci degli allevatori sul territorio, le contraddizioni riscontrate da Consiglio di Stato e veterinari degli allevatori e le risposte dell’Asl di Caserta. L’8 marzo scorso, la regione Campania ha pubblicato il nuovo piano di eradicazione: per gli allevatori, che continuano a protestare contro una strage di animali che ritengono evitabile e inutile, sarebbe addirittura peggiorativo.

BUFALE DA MACELLO Di Bernardo Iovene Collaborazione Alessandra Borella e Greta Orsi Ricerca immagini Silvia Scognamiglio Immagini Alfredo Farina Grafica Federico Ajello

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora passiamo a un’altra strage, però cambiamo argomento. Quella che si sta consumando silenziosamente nel nostro Paese riguarda le bufale da latte, le bufale nel casertano. Si tratta di un comparto strategico per il nostro Paese: la mozzarella, viene definita l’oro bianco la mozzarella di bufala, hanno anche indetto un campionato nazionale, ci sarebbe anche un vincitore però siccome poi avrebbe creato un incidente diplomatico, hanno deciso che a vincere fossero in due. Il nostro Bernardo Iovene, che è un casertano doc, ha dovuto ingoiare un amaro boccone salernitano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nella cornice della collina di Posillipo l’estate scorsa a Palazzo Petrucci, si è svolto il campionato nazionale della mozzarella di Bufala.

LINO SCARALLO - CHEF È l'oro bianco no? Quello che tutti vogliono mangiare.

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Siamo partiti con 180 caseifici in tutta Italia, ne abbiamo selezionati 100, da questi 100, 32: 16 di mozzarella dop, 16 mozzarella non dop.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA Poi abbiamo assaggiato senza guardare di chi erano le mozzarelle

BERNARDO IOVENE L’avete fatto al buio, avete assaggiato 180 Mozzarelle!

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA non tutte in un giorno.

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Ora hanno vinto due caseifici, uno del salernitano, diciamo per la categoria non Dop che è Vannulo, e uno invece per la categoria Dop del Casertano di Mondragone che è Libera Terra.

BERNARDO IOVENE Due vincitori, non uno solo?

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA Si, si. Due vincitori

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Due vincitori per non creare incidenti diplomatici nel caso a vincere la finalissima fosse stata una non DOP.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA Non abbiamo fatto la finalissima

BERNARDO IOVENE Mi risulta di sì però, eh

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA Diciamo che non è stata ufficializzata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E allora abbiamo improvvisato un nuovo assaggio tra le mozzarelle finaliste davanti alle nostre telecamere. E arriva l’ora della verità!

LINO SCARALLO - CHEF Io penso che Vannulo fa la differenza poi…

BERNARDO IOVENE quindi parliamo di una non Dop

LINO SCARALLO - CHEF Non Dop

 BERNARDO IOVENE E di una non Casertana.

LINO SCARALLO - CHEF Non casertana. Questa è mozzata a mano, e si vede.

BERNARDO IOVENE È mozzata a mano questa

LINO SCARALLO - CHEF Sì, è mozzata a mano

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un verdetto che ha confermato quello che ufficialmente nel campionato non era stato dichiarato

LINO SCARALLO - CHEF Il punteggio più alto era tutto su Vannulo e nessuno sapeva quale fosse

BERNARDO IOVENE Che non sta né dentro al consorzio e né Dop

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA E soprattutto non ha punti vendita fuori dal caseificio

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Vende solo al banco lì

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA È proprio un modello di artigianalità

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Incuriositi siamo andati da Vannulo, che è a pochi passi da Paestum, un’azienda che ha un unico punto vendita, non spedisce la sua mozzarella e per comprarla bisogna venire qui dove arrivano anche pullman di turisti

 ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Ho creato un terrazzino perché io ho molte visite di stranieri

BERNARDO IOVENE che vengono qua a visitare.

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Visitare sì. La cosa interessante dell'azienda è che questi animali si autogestiscono. Adesso ci sta l’animale in mungitura, e l'altro animale sta aspettando che finisce di mungere per entrare, e quindi viene per conto suo

BERNARDO IOVENE Ma io non ci credo, veramente?

ANTONIO PALMIERI - TENUTA Sono loro che stabiliscono quando si vogliono far mungere

BERNARDO IOVENE E l'altro è in fila.

ANTONIO PALMIERI - TENUTA Esatto

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le bufale entrano da sole in queste gabbie dove un robot individua i capezzoli e le munge. Le altre aspettano pazienti e rispettano la fila. Poi vanno a mangiare quando ne hanno voglia, si fanno massaggiare e infine vanno riposare, e qui c’è l’altra sorpresa.

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO E là dove dormono ci sono i materassini di gomma.

BERNARDO IOVENE Ma dove mi faccia vedere

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Ecco qua

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le bufale riposano sui materassi!!!

BERNARDO IOVENE È un materasso proprio?

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO È un materasso

BERNARDO IOVENE Non ci credo...

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO È abbastanza morbido

BERNARDO IOVENE A loro piace stare qua

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Gli piace. L’azienda è aperta, tutti possono vedere quello che faccio

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Si possono vedere gli animali, e poi assaggiare yogurt e cioccolata fatti in azienda con il latte di bufala, visitare il museo contadino, la bottega di pelletteria di pelle di bufala, il latte arriva attraverso questo sistema di tubi direttamente dalle bufale. Dai vetri esterni turisti e clienti possono vedere come si fa la mozzarella, prodotta e venduta in giornata esclusivamente in sede: non si spedisce, non si esporta, si trova solo qua.

ANTONIO PALMIERI -TENUTA VANNULO Ce la mangiamo intera

BERNARDO IOVENE La mangiamo intera?

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Facciamo un boccone, ce la fai?

BERNARDO IOVENE Eh, oh

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Lo senti il sapore del latte?

BERNARDO IOVENE Si, lei lo sa che io sono nato da quell’altra parte però?

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Lo so

BERNARDO IOVENE Sono abituato a un altro sapore

ANTONIO PALMIERI - TENUTA VANNULO Sei casertano

BERNARDO IOVENE Però non è male devo dire dai….

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E mentre qui nel salernitano si godono la gloria coccolando le bufale, nel casertano monta la protesta degli allevatori contro gli abbattimenti di decine di migliaia di capi macellati – dicono – ingiustamente.

MASCHERATI Oggi buttiamo il latte nel simbolo dell’allevamento, è la cosa più brutta che si possa fare perché buttiamo il frutto del nostro lavoro. De Luca ci ha imbrogliato… ha firmato un piano per la chiusura delle aziende e noi oggi ci troviamo a combattere non solo la brucellosi e la tubercolosi, ma anche i costi delle materie prime

BERNARDO IOVENE Questo nuovo piano non risolve niente?

MASCHERATI Questo nuovo piano è fatto per chiudere le aziende a Caserta, non per risolvere i problemi. 140.000 bufale massacrate ingiustamente e 300 aziende che hanno già chiuso. Questo latte è il frutto dei nostri sacrifici. Ci stanno costringendo a buttarlo. Lo facciamo con rabbia e con dolore ma anche con una speranza. Non ci arrendiamo, non ci fidiamo di gente che ci sta prendendo in giro. Gli speculatori ringraziano, siamo destinati a chiudere. Ci sentiamo presi in giro, truffati, non ci arrendiamo. Non ci facciamo schiacciare da una banda di speculatori. Siamo pronti a tutto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Abbiamo capito che se Salerno ride, Caserta invece piange. Le Bufale di Vannulo le abbiamo viste, vengono massaggiate, si riposano su comodi materassini, vanno ad auto mungersi quando loro sentono il bisogno. Forse non è un caso che le loro mozzarelle vengano giudicate le migliori d’Italia. Invece nel casertano le bufale sono colpite da casi di tubercolosi e sono in preda ad una epidemia di brucellosi, un batterio che se colpisce l’uomo può provocare una febbre, un’infezione, in casi rarissimi, molto rari, anche la morte. Ora la politica per prevenzione da parte della Asl di Caserta prevede che se un allevamento supera il 20% delle bufale contagiate viene abbattuto anche il restante 80%. Una politica che ha portato dal 2019 ad oggi, alla sparizione di 300 aziende e all’abbattimento di oltre 40 mila bufale. Ora, poco importa se poi risulteranno negative. Poi però c’è una beffa perché quando si è trattato di fare i test post mortem si è scoperto che gli animali malati erano solamente il 2% di quelli abbattuti, il rimanente 98% veniva mandato, destinato al consumo, all’alimentazione umana. Ora, questi dati gli allevatori li hanno conosciuti perché la magistratura ha imposto agli enti pubblici, alla Asl, di renderli pubblici. Si sono letteralmente infuriati e hanno ipotizzato che dietro la politica degli abbattimenti ci fosse una vera e propria regia. Da parte di chi? E poi, chi è che guadagna da tutto questo? Il nostro Bernardo Iovene.

BERNARDO IOVENE Questi sono i primi passi.

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Sì sì, queste sono proprio la prima ora di vita.

BERNARDO IOVENE Quella è la mamma? Come si chiama la mamma?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO La mamma c’ha una lettera e un numero. T57

BERNARDO IOVENE C’ha ancora la placenta. L’ha espulsa?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Sì. È un buon segno, vuol dire che un animale che sta bene

BERNARDO IOVENE Mo se la mangia pure?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Sì. Se la mangia.

BERNARDO IOVENE Ah sì?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Il papà di questa manza si chiama Bernardo. Un segno del destino

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Bernardo è uno dei donatori con il quale Migliaccio sta ripopolando la sua azienda attraverso la fecondazione artificiale. Il suo allevamento era stato dimezzato. Gran parte delle sue bufale sono state abbattute perché risultate positive alla brucellosi dopo le analisi dell'Asl

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Questi sono animali frutti di ripopolamento, li ho comprati da poco…

BERNARDO IOVENE E dove si comprano?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Da altre aziende. A noi hanno abbattuto circa 800, 850 capi.

BERNARDO IOVENE 800 su?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Su 1200. Potevano essere salvati con una semplice vaccinazione.

BERNARDO IOVENE Per ogni bufala lei è stato risarcito immagino, no?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Sì, tra i 1500 e i 3500. Questo premio non consente neanche di ricomprare il semplice animale. Gli animali hanno un chip elettronico all'interno del rumine e passandoci questo lettore vicino alla pancia… eccolo qua.

BERNARDO IOVENE Eccolo qua.

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Ha letto il bove e ora c'è scritto il numero della matricola dell'animale che è il numero ministeriale associato. È lui, esiste solo lui al mondo che si chiama così.

BERNARDO IOVENE Quindi voi state ripopolando

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICULTURA CASERTA – SETTORE BUFALINO Però ci vuole del tempo. Un vitello che nasce oggi fa latte tra tre anni. Questi hanno una quindicina di giorni. Stanno dei giorni con la mamma e poi dopo passano nelle gabbiette e prendono il latte al secchio, come tutti i vitelli insomma.

BERNARDO IOVENE Solo due biberon? Li fate litigare…

ALLEVATORE No, no ne teniamo dieci. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo in provincia di Caserta, il regno delle bufale da latte e della mozzarella. In questa zona la brucellosi era stata quasi debellata con una campagna di vaccinazione. Ma poi nel 2014 si è deciso di interromperla e i casi sono saliti a decine di migliaia l'anno. E si è scelta la line dell’abbattimento. Gli allevatori sul lastrico protestano, chiedono il ripristino della vaccinazione e l'autocontrollo delle stalle.

ALLEVATORE 1 Avevo più di 400 capi.

BERNARDO IOVENE Non ha più niente?

ALLEVATORE 1 Sono tre anni che non c’ho niente più.

BERNARDO IOVENE Lei quanti capi?

ALLEVATORE 2 400 capi. Abbattuti. Abbattimento totale.

ALLEVATORE 3 1700 capi, due abbattimenti totali

ALLEVATORE 4 Ci hanno ammazzato circa 500 capi

ALLEVATORE 5 Abbattimenti in stalla di circa 700 capi in un anno e mezzo

ALLEVATORE 6 Abbattimento totale

BERNARDO IOVENE Quanti capi?

ALLEVATORE 6 350

ALLEVATORE 7 Fino ad ora ne abbiamo abbattuti 330 su 500

BERNARDO IOVENE Quanti capi?

ALLEVATORE 8 Circa 350 animali

BERNARDO IOVENE Avete avuto abbattimenti voi?

ALLEVATORE 8 Si, abbattimento totale

BERNARDO IOVENE Quanti animali?

ALLEVATORE 8 206.

BERNARDO IOVENE Buonasera, volevamo sapere se vi hanno abbattuto dei capi?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Ne hanno abbattuti 1100

BERNARDO IOVENE Quanti?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE 1100, 1200. Dice che erano ammalati di brucellosi, vennero a prelevare il sangue, erano ammalati di brucellosi e le hanno abbattute. Chi lo dice se è vero o non è vero? Chi la fa la contro prova?

BERNARDO IOVENE Vi hanno rovinato?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Ci hanno buttato in mezzo a una strada, no rovinati!

BERNARDO IOVENE E quindi avete ripopolato?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Abbiamo ripopolato

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'asl, dopo un certo numero di positivi riscontrati in un allevamento, decide per l'abbattimento totale, anche se i capi restanti sono negativi, vanno comunque al macello. Ed è quello che è successo a Salvatore, che ha deciso di ricominciare da capo acquistando bufale e tori. Per lui è meglio la monta.

BERNARDO IOVENE Ma quando decide lui oppure siete voi che lo fate montare?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Decide la bufala e lui, noi non c’entriamo, sono cazz suoi

BERNARDO IOVENE Sono cazzi suoi…

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Questo è un altro toro

BERNARDO IOVENE Questo è un altro toro

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Questo è un altro toro

BERNARDO IOVENE Ah, ma come fa a distinguerli?

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Voi che mestiere fate la radio?

BERNARDO IOVENE Io faccio eh sì…

SALVATORE NOBIS - ALLEVATORE Io faccio il bufalaio

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Adesso ha 600 capi e vive con il timore che torni un'infezione. Poco più avanti siamo a Cancello Arnone, c'è l'allevamento di Mario Diana. Anche a lui è arrivato l'abbattimento totale.

BERNARDO IOVENE Ma perché tutte sono risultate positive?

MARIO DIANA – ALLEVATORE No. Siamo arrivati a 135 capi e l’abbattimento totale.

BERNARDO IOVENE Adesso piano piano avete ripreso?

MARIO DIANA – ALLEVATORE Abbiamo ripreso, stiamo riprendendo e speriamo che ci lasciano stare.

BERNARDO IOVENE Però vi hanno indennizzato perlomeno, no?

MARIO DIANA – ALLEVATORE Mi hanno dato 1000 e più… Ho speso 3500 ogni capo poi abbiamo fatto sacrifici, abbiamo sistemato l'azienda, abbiamo fatto tutto così ci hanno dato il permesso di riaprire.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche l'azienda di Giovanni Galasso aveva metà delle bufale negative, ma ha dovuto abbatterle tutte. La stalla adesso è vuota. Un patrimonio genetico iniziato dai nonni. Tutto da rifare.

BERNARDO IOVENE Quanti capi avevate?

GIOVANNI GALASSO - ALLEVATORE Circa 300 capi.

BERNARDO IOVENE Tutte 300 abbattute?

GIOVANNI GALASSO - ALLEVATORE Sì, le altre 148 negative

BERNARDO IOVENE Eh, sono state abbattute pure quelle

GIOVANNI GALASSO - ALLEVATORE Sono state abbattute pure quelle. Questa è una cosa che ci viene da piangere

BERNARDO IOVENE Eh, lo so che vi viene da piangere

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Giovanni ha le stalle vuote, ma ha intenzione di ripopolare. Più avanti c'è il cugino, il film è lo stesso. I veterinari dell'Asl, quando trovano un focolaio, tornano in un allevamento ogni 21 giorni.

ANTONIO GALASSO - ALLEVATORE 291 capi abbattuti. Ultimi che abbiamo caricati 76 mi è arrivato l'abbattimento totale. Abbiamo… abbiamo pulito

BERNARDO IOVENE Ce li avevate qua?

ANTONIO GALASSO - ALLEVATORE Sì, tutti qua, destra, sinistra. Ammazzato gli animali, sento ancora i rumori dei miei animali in questa stalla e dei vitellini che chiamavano le mamme da lì fuori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo un abbattimento totale puoi ripopolare la tua stalla solo adeguandola ai criteri di biosicurezza per difendere le bufale da animali selvatici che intrufolandosi nell’allevamento possono propagare dall’esterno l’infezione.

ANTONIO GALASSO - ALLEVATORE E poi, dopo sei mesi, se abbiamo un’altra volta il nostro problema della brucella, noi dobbiamo ricominciare daccapo.

GUIDO DIANA - ALLEVATORE Nel giro di tre mesi abbiamo tolto tutti i 330 animali.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Guido Diana ha dovuto abbattere tutti i 330 capi di bufale. Era l'azienda di famiglia, del nonno e del padre. Abbattute le bufale, si è abbattuto anche lui. Gira per le stalle ormai deserte.

GUIDO DIANA - ALLEVATORE Cioè, non so che fare, anche... mi si è preso un’ansia addosso… non so nemmeno se, non so se andare avanti, se fermarmi… se… non lo so, non lo so.

BERNARDO IOVENE Ho visto che gli altri si sono ripresi, hanno ricominciato a ripopolare, hanno cominciato a riacquistare. Lei non ce l'ha fatta?

GUIDO DIANA - ALLEVATORE Dottò, non è che io non ce l’ho fatta, se io rimetto gli animali qua dentro, e poi dopo ritorniamo un’altra volta che mi fanno l’abbattimento totale, io che devo fa? Mi devo solo impiccare?

SAVERIO DIANA – ALLEVATORE Quando ho visto tutte ste stalle vuote, sono stato una giornata intera a piangere…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui ci sono due aziende vicine di due fratelli. Una ha chiuso definitivamente.

ATTILIO GALEONE – ALLEVATORE Abbiamo dovuto abbattere più di 450 bufale. Questa è l'azienda di mio zio

BERNARDO IOVENE E tuo zio mo’ che fa?

ATTILIO GALEONE – ALLEVATORE Sta fermo.

PAOLO GALEONE – ALLEVATORE Cristo, si piange. Le abbiamo cresciute come i nostri figli, le abbiamo cresciute... e poi ce le vediamo che ce le tolgono

BERNARDO IOVENE Sottratte

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'altra azienda è gestita dal giovane Attilio, ma sta per fare la stessa fine.

ATTILIO GALEONE – ALLEVATORE Prima qua ne avevo 400, adesso sono rimasto con circa 40 bufale, 40-50 bufale. Il mese prossimo vengono a controllare anche queste e speriamo bene.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un fattore che complica la gestione delle infezioni da parte degli allevatori sono i ritardi dei risultati delle analisi dell'Asl e dell'Istituto zooprofilattico. Per legge dovrebbero arrivare dopo sette giorni, in modo da mettere subito in quarantena i sospetti positivi e salvare gli altri. Ma i tempi non vengono rispettati.

ATTILIO GALEONE – ALLEVATORE Qua hanno fatto i prelievi il giorno 5 agosto, ci hanno dato i risultati il giorno 17, vedi 12 giorni dopo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La profilassi è gestita dal Dipartimento di prevenzione dell'Asl di Caserta. Ci concedono una giornata con i veterinari che effettuano i prelievi per la brucellosi e il controllo della tubercolosi, che è l'altra infezione che sta decimando gli allevamenti casertani. Dietro le nostre spalle ci sono i dirigenti che supervisionano.

BERNARDO IOVENE Per la brucellosi no, voi avete prelevato il sangue e adesso va all'Istituto Zooprofilattico.

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA Va all'Istituto Zooprofilattico.

BERNARDO IOVENE Quanto tempo si impiega normalmente? Mi deve dire la verità però.

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA Mediamente…

BERNARDO IOVENE A chi sta guardando

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA No, no, no. Mediamente impiega sui sette giorni

BERNARDO IOVENE Sette giorni, dovrebbe, mediamente dovrebbe.

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA Mediamente dovrebbe

BERNARDO IOVENE E invece? Realmente?

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA Qualche disguido c’è

BERNARDO IOVENE Questa cosa qua però penalizza l'allevatore.

GIANCARLO CAIOLA - VETERINARIO ASL CASERTA Penalizza l'allevatore, ma penalizza soprattutto le procedure d’eradicazione della malattia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo gli abbattimenti, la famiglia Galeone ne ha avuti 18, hanno chiesto e ottenuto i rapporti di prova post mortem.

BERNARDO IOVENE Dopo gli abbattimenti, sono state fatte le analisi?

ATTILIO GALEONE – ALLEVATORE Sì, sì. La maggior parte degli animali post mortem sono risultati tutti negativi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I rapporti di prova sono effettuati a campione dall'Istituto Zooprofilattico e noi, oltre a quelli di Galeone che per la ricerca di brucella è risultato “assenza per tutti i capi”, ne abbiamo raccolto di decine di aziende, anche per il micobatterio della tubercolosi, post mortem non è stato trovato, “assente” per tutti, nemmeno uno presente

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Sulle 29 bufale già battute mi sono arrivati già i post mortem, che sono tutti, tutte negative.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dario è l’ultimo rampollo di una famiglia storica di allevatori. Entro 15 giorni, deve abbattere altre 45 bufale. Le ha messe in isolamento, ma è in attesa dei risultati per il resto della mandria che non arrivano perché oltre ai ritardi fisiologici, sono spuntate altre complicazioni.

DARIO DI TELLA- ALLEVATORE Dopo 14 giorni, mi hanno comunicato che da quei prelievi 17 animali non erano esaminabili. Quindi si sono dovuti ripetere i prelievi e questo fa sì che ci sia una diffusione di malattie infettive.

BERNARDO IOVENE Siete andati in un tunnel…

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Siamo entrati in un tunnel da cui è difficile uscirne.

BERNARDO IOVENE Fra quanti giorni vanno al macello?

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Io ho 15 giorni di tempo per mandarle al macello. Sta andando così, mi sto vedendo pian piano la stalla venire meno. Tu giovane che hai cercato di portare avanti questa attività, ti vedi finire tutto nelle tue mani.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il rammarico è grande perché ha lasciato gli studi contro la volontà del papà.

BERNARDO IOVENE Il papà che dice?

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Papà dice che ho sbagliato io

MAURIZIO DI TELLA - ALLEVATORE Ha sbagliato perché io gli ho detto anni fa che non c'erano le condizioni di fare questo lavoro. Bisogna chiudere e basta. Io gliel'ho detto un sacco di volte, per dirgliene una, no… L'anno scorso ha insistito di rinnovare la sala mungitrici

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Ho fatto, ho fatto pure questo capannone nuovo.

MAURIZIO DI TELLA - ALLEVATORE Quindi la sala è venuta 60 mila euro. Io gli dicevo lasciala stare perché comunque non sappiamo, eravamo negativi. Quella sala fra sei mesi non servirà più

DARIO DI TELLA - ALLEVATORE Per permettere anche agli operatori di lavorare con più tranquillità. Però alla fine aveva ragione mio padre. E questo è Berna…

BERNARDO IOVENE Che tristezza.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È questo un po' il sentimento tra gli allevatori. Ma perché sono aumentati i casi di brucellosi? Intanto rispetto all’epidemia del 2008, 2013, si è abbandonata la campagna di vaccinazione. Si è preferito, una volta eradicato il batterio, gestire i singoli casi di contagio con l’abbattimento. Poi sono aumentati i controlli, le analisi, che vengono fatte anche con modo diretto, e quando poi i veterinari trovano dei casi di contagio all’interno di un allevamento, vanno lì ogni 21 giorni. Le risposte dovrebbero darle entro sette giorni però ritardano e questo è un guaio perché il ritardo alimenta la diffusione, il rischio di diffusione del contagio. E quando viene rivelato che il 20% delle bufale sono contagiate, viene abbattuto tutto l’allevamento, abbattimento totale. Gli allevatori a volte tentano di ripopolare, comprano la bufala mediterranea che però insomma viene risarcita meno di quello che vale, sono costretti a investire anche sull’impianto di sicurezza e una volta che magari hanno rimesso in piedi l’allevamento, si imbattono in un altro caso di contagio e sono costretti all’abbattimento completo nuovamente. Con questa politica dal 2019 a oggi sono scomparse 300 aziende ed è scomparso soprattutto un patrimonio, quella selezione genetica che gli allevatori si erano tramandati da generazione in generazione. Ora il batterio si trasmette attraverso l’aria o attraverso il latte e i suoi derivati però quelli non pastorizzati e anche per contatto, da animale a uomo, da uomo a uomo. A rischio sono le categorie degli allevatori, dei veterinari e quelle dei macellai. Ora, se prende l’uomo, se l’uomo viene contagiato, può scatenare il batterio una febbre, un’infezione che colpisce alcuni organi, il fegato, il midollo, il cervello. In casi rarissimi può comportare la morte, può portare alla morte. Ora però bisogna dirlo, chiaramente, il batterio nella mozzarella non c’è perché la filiera viene lavorata a cento gradi e anche sugli animali poi abbattuti solo il 2%, come abbiamo detto, è risultato malato, il 98% viene destinato all’alimentazione umana e a beneficiarne sostanzialmente è un solo macello che però dista 150 km dal cluster dell’epidemia. Di chi è questo macello?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L'altra beffa è che le bufale abbattute per sospetta brucellosi o tubercolosi, una volta al macello, lo stesso giorno, sono dichiarate idonee per il libero consumo, e arrivano sulla nostra tavola vendute come carne bovina. L'azienda di Arturo Noviello e Figlie, da maggio dell'anno scorso ha subito dieci abbattimenti. Poi dal macello, già il giorno dopo arrivava il referto di abbattimento.

MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE Queste sono le ultime, le ultime 78. Questo è il modello 9/33. Destinazione delle carni. Libero consumo. Queste carni ce le mangiamo.

BERNARDO IOVENE Ce le mangiamo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In tutti i referti che abbiamo visto la carne di tutti i capi è stata destinata al libero consumo. A decidere sono i veterinari dell'Asl che stazionano nei macelli privati che acquistano le bufale infette. All'Asl cercano prima di minimizzare

BERNARDO IOVENE L.C. sta per libero consumo.

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Libero consumo

BERNARDO IOVENE E N.N. sta per “nella norma”?

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Nessuna lesione sì

BERNARDO IOVENE Questa carne che è risultata infetta

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA L’animale è risultato infetto. La carne può essere data a libero consumo in determinate situazioni

BERNARDO IOVENE Tutta la carne cioè, quasi tutte le bufale

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Quasi tutte le bufale, ma alcune vengono distrutte, dipende da quello che si trova…

BERNARDO IOVENE Sì, ma uno, due insomma…

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Da quello che trova il collega.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, controllando le carte si capisce che la carne macellata da animali infetti va a libero consumo non solo in determinate situazioni, ma quasi sempre. E il dottor Ferrara alla fine conferma

BERNARDO IOVENE E sono quasi la totalità insomma parliamoci chiaro… Quindi questa carne comunque poi viene commercializzata

CARLO FERRARA - DIRETTORE SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Normalmente sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi normalmente la carne delle bufale infette viene venduta a libero consumo. Intanto i Noviello, dopo dieci abbattimenti, si preparano all'undicesimo. È appena arrivata una nuova ordinanza.

 MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE Loro dicono animali positivi e dubbi. Allora io devo mandare al macello degli animali dubbi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Eccole le condannate: sono in quarantena, isolate, da mandare al macello entro 15 giorni.

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE C'è pure scritto qua, zona di isolamento.

MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE Zona di isolamento.

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE Queste sono 14 e quelle sono 32.

MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE E lui ha sempre fatto la selezione genetica. Quindi comunque alla fine uno dopo che tanti anni… devi mandare la bufala al macello, che non sai nemmeno se è veramente così, questo è il nostro dubbio. Allora se fosse un pericolo, fosse assodato, accertato, se io fossi sicura che le analisi sono accurate.

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE No, io me ne devo andare … Io non ce la faccio…

BERNARDO IOVENE Che è successo?

MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE No, si è commosso. Allora io voglio dire papà non ha mai parlato. Mai, mai. Lui è più demoralizzato di me.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le bufale abbattute finiscono quasi tutte a Flumeri, al macello Real Beef di Inalca S.p.A., che fa capo al gruppo modenese di Cremonini, azienda leader nella produzione e distribuzione delle carni con i marchi Montana, Manzotin, Fiorani, Ibis. La ristorazione ferroviaria con Chef Express. Le Bisteccherie Roadhouse e la Marr in Russia, dove produce gli hamburger per McDonald, sponsorizzato da tutti i nostri ministri dell'agricoltura.

LUIGI CREMONINI – PRESIDENTE GRUPPO CREMONINI (DAL TG RAI DEL 19/10/2009) La Russia è troppo importante per il mio mestiere, gli investimenti van fatti sempre se uno ci crede in un paese

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il macello di Flumeri, provincia di Avellino, è a circa 150 chilometri dalla cosiddetta zona cluster dei focolai. Da qui partono il 90% delle bufale infette acquistate da intermediari che a loro volta le rivendono al macello avellinese di Cremonini, l'intermediario della ditta di Arturo è Raffaele, figlio di Salvatore O biondo, leggiamo. Dalla bolla di carico si evince che la carne la paga 2 euro al chilo: e il peso è quello netto della carne ricavata dalla bufala abbattuta.

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE Questo è il peso morto eh… solo le carni.

MICHELA NOVIELLO - ALLEVATRICE Eh, infatti. È la carne

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE E lui le manda là in verità perché si prende qualcosa in più sul prezzo della carne. BERNARDO IOVENE Poi questi soldi che voi prendete dal commerciante vengono detratti

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE Vengono detratti dal contributo all’indennizzo che dovremmo avere dalla Regione.

BERNARDO IOVENE Dalla Regione. BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ministero della Sanità e Regione Campania indennizzano per ogni bufala abbattuta in media 1.500€. Ma da questa valutazione viene detratta la quota che l'allevatore riceve dal macello, che sono soldi che riceve subito, mentre quelli della regione arrivano dopo mesi o anni. E siamo al giorno della deportazione. I camion sono di proprietà del macello Realbeef. È presente anche Raffaele, l'intermediario.

BERNARDO IOVENE Una volta che sono al macello no, lei che cosa fa?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO È finito il mio compito, una volta che stai al macello basta, è finita.

BERNARDO IOVENE Se lei si compra gli animali, poi dopo li vende al macello?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Sì.

BERNARDO IOVENE A quali macelli li manda lei?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Vanno a Realbeef.

BERNARDO IOVENE Perché sceglie di mandarle là?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Perché li ho sempre mandati là gli animali e mi trovo bene.

BERNARDO IOVENE Realbeeef paga bene evidentemente.

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Sì.

BERNARDO IOVENE Come si chiama?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Io Raffaele.

BERNARDO IOVENE Detto?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO O biondo.

BERNARDO IOVENE Detto o biondo. E perché si chiama detto o biondo?

RAFFAELE NAPOLANO - INTERMEDIARIO Eh, così chiamavano mio padre.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Arrivano anche i veterinari dell'Asl.

BERNARDO IOVENE Lei non assiste alla…

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE No.

BERNARDO IOVENE Al carico degli animali.

ARTURO NOVIELLO - ALLEVATORE No.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Prima di caricarle, i veterinari attraverso il bolo controllano che siano quelle individuate come positive.

VETERINARIO ASL 98, 84, 02.

VETERINARIO ASL 2 Eccolo qua.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi si caricano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Dopo un viaggio di 150 chilometri arrivano a destinazione. All'interno, dove abbiamo chiesto ma non ci fanno entrare, ci sono i veterinari dell'Asl che il giorno dopo – leggiamo – dal modello 933, dopo la macellazione, hanno stabilito che tutte le 41 bufale più cinque vitelli, per un totale di 46, sono idonei al libero consumo. Contestualmente, Salvatore o biondo e figlio hanno inviato i conti della carne ricavata: sono 20.600€, cifra che sarà detratta quando arriverà l'indennizzo dell'Asl.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La politica degli indennizzi funziona così: una bufala può valere circa 3000 euro, un po' di più se è iscritta all’albo genealogico. Quando viene abbattuta, l’allevatore percepisce 500 euro dallo Stato, poi interviene la Regione, che fa valutare l’animale, e stanzia 1500-2000 euro. A questa cifra però viene sottratta quella che l’allevatore ha ricevuto in anticipo dal macello che lavorerà la sua bestia abbattuta. Nel macello ci sono i veterinari che guardano a vista gli animali abbattuti e controllano gli organi bersaglio, vedono se ci sono state delle lesioni da parte del batterio e poi danno il via libera al libero commercio, quindi anche nella catena dell’alimentazione umana. Ora, in base a una norma del 2000, il fatto curioso è che questa carne, proveniente da una bufala abbattuta, può essere venduta ed equiparata ad una carne bovina. Ovviamente questo è a vantaggio del macello, soprattutto uno che può avere garantita un’importante fornitura di carne. Il macello è quello della Inalca che si trova a Flumeri, a 150 km dal cluster della brucellosi, che fa capo al gruppo modenese Cremonini. Cremonini che ha anche aziende in Russia dove produce, pensate un po', gli hamburger per McDonald. Ora, come fa tutta questa carne ad arrivare sostanzialmente ad un unico macello che dista anche 150 km dagli allevamenti? Questo è grazie all’abilità dei mediatori, uno in particolare è tra i più bravi, Raffaele detto o ‘Biondo.

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In provincia di Caserta vicino agli allevamenti ci sono due macelli, uno proprio dove c’è l’Asl, a san Marcellino. Siamo arrivati senza preavviso e ci hanno aperto le porte.

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Qua in questo macello potete vedere tutto. Qua non abbiamo niente da nascondere a nessuno. Ecco, stanno macellando, stanno macellando.

BERNARDO IOVENE Stanno macellando.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Stanno macellando, ma non sono bufale. Sono bovini perché qua bufale non ne arrivano.

BERNARDO IOVENE Ah, è un veterinario lei?

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Sì. Veterinario sì.

BERNARDO IOVENE Dell'Asl?

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Sì.

BERNARDO IOVENE Ci stanno 120.000 bufale abbattute. Qua che lei è proprio nel cuore, qua ci sta l’Asl no?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Sì.

BERNARDO IOVENE Quante ne arrivano qua?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Poche.

BERNARDO IOVENE E ma poco quanto?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Poco, poco.

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Il 10%, il 5%

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) il 5%. BERNARDO IOVENE Il resto vanno tutte e quante a Flumeri?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Tutte a Flumeri

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Io che sono un veterinario vedo pure un controsenso, perché le malattie infettive e non si possono spostare gli animali da un territorio a un altro. Perché la malattia si diffonde se si va da altre parti.

BERNARDO IOVENE E non siete voi che dovreste fermarli questi spostamenti?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Eh ma se l’autorità grande dice che si possono spostare…

BERNARDO IOVENE Perché? Lei se l’è mai spiegata questa cosa?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Forse perché gli dà di più.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Gli faccio vedere allora il prezzo al chilo pagato agli allevatori dai commercianti che vendono al macello avellinese.

BERNARDO IOVENE Voi non riuscite a pagare questi prezzi?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Come no?

BERNARDO IOVENE Allora non è che pagano di più, sono gli stessi prezzi vostri?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Sì.

BERNARDO IOVENE E perché vanno là allora?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Non lo so. Per simpatia forse.

BERNARDO IOVENE Io non sono del settore, che ne capisco.

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA È da capire

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) È da capire

BERNARDO IOVENE E lo so però io come faccio a capire se qualcuno non me lo dice.

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Spegnete questa cosa.

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Può darsi che sia stato dato qualcosa in più… un regalino diciamo… sul quel listino è stato dato un regalino

BERNARDO IOVENE a nero…

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Spegnete un po'.

BERNARDO IOVENE Spegni, spegni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Mi dicono che loro negli anni ci hanno provato a fare denunce, ma poi hanno avuto pressione nei controlli e adesso non si vogliono esporre.

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Mi hanno mandato l'ispezione qua dentro, visto come è pulito il macello? Mi hanno chiuso il macello per igienicità.

BERNARDO IOVENE E ride?

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) No, devo ridere perché lo sanno tutti di queste cose.

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Non è da meravigliarsi di queste cose.

EDUARDO DI TELLA – AMMINISTRATORE MACELLO DI TELLA SRL SAN MARCELLINO (CE) Perché lo sanno tutti. È una cosa normale

BERNARDO IOVENE È normale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Lo sanno tutti, ma nessuno ci mette la faccia. Perché poi si temono i controlli dell'Asl, visti come ritorsioni. Intanto gli allevatori denunciano un fatto gravissimo: ad avvisarli che le bufale sono risultate positive, prima dell'Asl, sono proprio gli intermediari, i commercianti.

ALLEVATORE COPERTO Ho abbattuto circa 300 animali e sono stati tutti macellati alla Realbeef.

BERNARDO IOVENE Ha scelto lei di mandarli alla Realbeef?

ALLEVATORE No, il commerciante. Noi della positività degli animali lo abbiamo saputo prima tramite il commerciante che dall’Asl.

BERNARDO IOVENE È venuto e vi detto: guardate che le vostre bufale risulteranno positive. Lui lo sapeva già?

ALLEVATORE No, sono positive.

BERNARDO IOVENE Ah, sono positive v’ha detto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non solo, a tanti viene proposto anche una quota in nero.

BERNARDO IOVENE Quanti abbattimenti ha avuto lei?

ALLEVATORE Ho battuto 500 capi. Sono stati inviati tutti alla Realbeef. Praticamente il commerciante è venuto in azienda, prima mi ha comunicato che i capi erano infetti, prima della comunicazione dell'Asl.

BERNARDO IOVENE Ah, prima…

ALLEVATORE E quindi portando gli animali lì, ti davano una somma prima a nero.

BERNARDO IOVENE Quindi era conveniente?

ALLEVATORE Sì, era conveniente sì, è normale e andavano tutti alla Realbeef però gli animali dovevano andare i capi abbattuti, si dovevano abbattere per forza lì.

BERNARDO IOVENE Non è un rappresentante della Realbeef, è uno che lavora per conto suo?

ALLEVATORE Sì. Porta tutti gli animali lì.

BERNARDO IOVENE Vi conoscete tutti no quelli che hanno fatto gli abbattimenti? Questo nero è stato proposto a tutti?

ALLEVATORE Sì.

BERNARDO IOVENE Addirittura, il commerciante lo sa prima lui che sono positivi gli animali, a volte. È vero o no? È vero o no?

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA Molte volte lo sa

BERNARDO IOVENE E come si spiega? Glielo dite voi veterinari?

GENNARO CIARAMELLA - VETERINARIO ASL CASERTA No io sto nel macello, io non ho a che fare con gli allevatori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Tanti allevatori hanno fatto ricorso alle ordinanze di abbattimento. La Lega degli allevatori si è rivolta all'avvocato Taormina che ha tracciato e denunciato un teorema tutto da verificare, che porterebbe alla commercializzazione della carne di bufala che viene venduta come carne bovina.

 CARLO TAORMINA – AVVOCATO Il mattatoio è il cuore del problema. Tutto quello che arriva là diventa commercializzabile come carne bovina. Questo meccanismo è egemonizzato dalla camorra. Più si abbatte, più ne arriva e più si guadagna.

BERNARDO IOVENE Ma che c'entra, che c’entra la camorra su questo?

CARLO TAORMINA – AVVOCATO La regia è camorristica. La regia…

BERNARDO IOVENE Ma gli abbattimenti li decide l’Asl, li decide l’Istituto zooprofilattico.

CARLO TAORMINA – AVVOCATO Certo. E infatti è una catena sulla quale noi abbiamo chiesto che si indaghi perché riteniamo che ci sia il filo che coinvolge tutte le amministrazioni pubbliche…

BERNARDO IOVENE Cioè la Asl, l'Istituto zooprofilattico.

CARLO TAORMINA – AVVOCATO E autorità veterinarie.

BERNARDO IOVENE Però lei sta parlando di una multinazionale, è molto forte.

CARLO TAORMINA – AVVOCATO Eh, infatti, trova un grosso vantaggio. 100.000 bufale pagate al prezzo x e utilizzate al valore x più 1000. È un affare colossale.

CARLO TAORMINA – AVVOCATO Personalmente sono convinto che è una grossa porcheria

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO All'Asl pare che nemmeno sappiano che le bufale da abbattere vanno in un solo macello.

BERNARDO IOVENE Queste bufale che vanno al macello, che vanno in un solo macello, che vengono, vengono poi queste.

 CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Perché vanno in un solo macello?

BERNARDO IOVENE La maggior parte vanno in un solo macello insomma.

CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Ma questa è una scelta dell'allevatore eh…

BERNARDO IOVENE Si però dico non si capisce perché. Infatti ho chiesto dice “come mai”? Ce le pagano di più e quindi insomma noi le mandiamo là.

CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Io non entro in merito a quale macello sceglie l'allevatore e quando li vuole mandare. Per me l'importante è che li manda nei 15 giorni, altrimenti io neanche gli do l'indennizzo. Chiaro?

BERNARDO IOVENE Fuori provincia può andare? Cioè voi che siete Asl, no?

CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Sì, ma questa è un’altra cosa…. Questa è una cosa pure che era stata scritta dall'avvocato qui. Purtroppo, l'avvocato non era aggiornato perché era una vecchia norma. Io, che mi considero ancora un servitore dello Stato. Ok? Io non ho interessi. Io sono abbastanza salomonico ed equidistante per decidere se una cosa è giusta per il consumatore, se una cosa è giusta per l’allevatore. Io sono super partes.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non lo mettiamo in dubbio però i macellai della zona che pur essendo nel pieno del cluster dell’epidemia della brucellosi, insomma, le bufale da abbattere passano sotto il naso, abbiamo visto finiscono in un macello che è a 150 km di distanza, quello che fa capo al gruppo Cremonini. Dicono anche che quando hanno denunciato questa anomalia alla Asl hanno cominciato ad avere più controlli, secondo loro sarebbero delle ritorsioni. Insomma, invece il direttore della Asl Caserta insomma smentisce, dice che è tutto sotto controllo, lui è super partes e ovviamente, insomma, gli crediamo, ci mancherebbe altro. Tuttavia, il nostro Bernardo Iovene ha raccolto delle testimonianze che sono importanti. Degli allevatori hanno detto addirittura che i mediatori, quelli che portano le bufale da abbattere al macello, li avrebbero informati prima delle Asl dei risultati delle analisi e alcuni allevatori hanno anche ammesso di aver percepito dei compensi, degli anticipi in nero per garantire la fornitura delle bufale al macello. Ora, tutte queste anomalie sono finite nella denuncia dell’avvocato Taormina che è rappresentante di alcuni di questi allevatori, il quale sospetta che dietro la politica degli abbattimenti ci sia addirittura una regia camorristica. Ora, su questo stanno indagando ovviamente la procura di Santa Maria Capua Vetere e anche la DDA di Napoli. E poi insomma ecco tutto questo ha scatenato una guerra a colpi di carte bollate, un caos di situazioni, braccio di ferro legali. E’ intervenuto anche uno studioso, Vincenzo Caporale, che è ex presidente di varie commissioni, dell’OIE, una specie di OMS degli animali, che è stato anche ex direttore dell’Istituto Zooprofilattico dell’Abruzzo e del Molise, secondo il quale le analisi fatte nelle modalità della Asl di Caserta, cioè quelle nella stalla, il test sierologico, sarebbero obsoleti, addirittura non in linea con le norme europee che prevederebbero la conferma della diagnosi di brucellosi solo quando viene isolato l’agente patogeno. Poi a queste situazioni si è aggiunto anche il Consiglio di Stato che ha accolto i ricorsi degli allevatori e ha congelato gli abbattimenti, facendo anche riferimento ad uno studio dell’Istituto Superiore di Sanità anzi ha chiesto all’Istituto Superiore di Sanità di aggiornarlo quello studio e di identificare dei nuovi metodi di rilevamento del batterio della brucellosi. Però qui c’è stato un colpo di scena, l’Istituto Superiore di Sanità si è rifiutato e quindi si è creato un altro imbarazzo legale. Ora ci sono gli allevatori che devono gestire la quarantena delle bufale in attesa di giudizio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Regione Campania ed Istituto zooprofilattico del Mezzogiorno a noi non rilasciano interviste. Intanto la Procura di Santa Maria Capua Vetere, su richiesta di altri avvocati di allevatori che non riuscivano ad avere i dati complessivi sia degli abbattimenti che dei rapporti di prova post mortem, ha intimato all'Asl di trasmetterli.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO I dati, e questo è un elemento di inciviltà assoluta da parte della Regione Campania, sono stati dati solo a seguito di una denuncia penale.

BERNARDO IOVENE Sono abbattimenti questi?

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Questi sono gli abbattimenti.

BERNARDO IOVENE E su 10.455...

ANTONIO SASSO - AVVOCATO 95…

BERNARDO IOVENE Solo 95 hanno…

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Hanno isolato il batterio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I dati sono eclatanti. nel 2020 sono risultati realmente positive 30 bufale su 8187 abbattute.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Numero degli animali abbattuti in quanto positivi, 30.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per la brucellosi c'è un metodo a campione. Siamo nel 2019, a sole 39 bufale positive su 11.722, e a 16 su 14.109 bufale abbattute nel 2020.

BERNARDO IOVENE Il 98,8% delle bufale che sono state abbattute non andavano abbattute. Quindi insomma è stata una strage inutile.

CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Perfetto. È un'interpretazione sbagliata. In un allevamento infetto sono molti gli animali infetti, ma sono pochi gli animali malati, cioè quelli che sui quali troviamo la lesione macroscopica, sia per un principio di precauzione sia perché lo prevede la norma, prevede che gli animali infetti vadano alla macellazione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi, per un principio di precauzione, con prove considerate indirette, si abbattono gli animali che poi non risultano malati. Secondo il dottor Caporale, che è stato direttore dell'Istituto Zooprofilattico di Teramo, così non è corretto.

VINCENZO CAPORALE – DIR. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DI TERAMO 1990-2011 Se tu dichiari infetto un allevamento solo attraverso le prove indirette fai una cosa che è tecnicamente scorretta ed è una cosa che non è contemplata né nei regolamenti comunitari né nelle norme di carattere internazionale.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La norma europea è la 689 del 2020 e recita che in un animale “è confermata la malattia solo quando è stato isolato l'agente patogeno”. Ma la linea regionale prevederebbe l'abbattimento al solo sospetto.

VINCENZO CAPORALE – DIR. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DI TERAMO 1990-2011 Quando si ha una prova di tipo in vivo, sierologica piuttosto che la famosa tubercolina, il famoso gamma interferone positivo, questo ti permette semplicemente di dichiarare che ti trovi di fronte a un sospetto.

BERNARDO IOVENE Quindi abbiamo il sospetto qua… cioè stiamo abbattendo…

VINCENZO CAPORALE – DIR. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DI TERAMO 1990-2011 Sì, ma si chiama proprio così. Che devi confermare.

BERNARDO IOVENE Ma stiamo ammazzando gli animali, cioè… decine di migliaia di animali

VINCENZO CAPORALE – DIR. ISTITUTO ZOOPROFILATTICO SPERIMENTALE DI TERAMO 1990-2011 Stanno utilizzando meccanismi francamente obsoleti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO I meccanismi obsoleti sarebbero gli esami sierologici in stalla che rilevano facilmente l'infezione.

CARLO FERRARA - DIRETTORE DEL SERVIZIO VETERINARIO ASL CASERTA Dal punto di vista mio, scientifico, questo è il dato. Ok? Le prove in stalla sono quelle giuste. Sar, Fdc per la brucellosi sono quelle. Sono metodi altamente sensibili perché purtroppo da noi, visto che abbiamo questa situazione per la brucellosi, dobbiamo utilizzare dei metodi facili, sicuri e veloci. E Sar, Fdc hanno queste caratteristiche. Ci sono tot animali positivi poi al macello non troviamo niente, ma al macello tu non trovi niente perché non c'è necessità di trovarlo, perché non è quello che conferma quello. È proprio il presupposto che è sbagliato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un presupposto che non ha convinto il Consiglio di Stato che in decine di decreti firmati da Franco Frattini sottolinea la irragionevolezza di abbattimenti di intere mandrie in presenza di numerosi falsi positivi accertati post mortem, e ne ha bloccato la soppressione a tutti gli allevatori che hanno fatto ricorso.

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO La teoria che il mero esame sierologico sia sufficiente è superata dall'evoluzione scientifica. L'evoluzione scientifica prevede delle, dei test di conferma.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi Frattini individua uno studio dell'Istituto Superiore di Sanità sull'attendibilità dei test sierologici e ordina al presidente dell'Istituto di verificare nuove approfondite analisi non limitate al solo esame sierologico. Ma a sorpresa, l'Istituto Superiore di Sanità cambia idea e si rifiuta.

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Il Consiglio di Stato ha detto all'Istituto superiore di Sanità che devono venire in azienda a fare le profilassi.

BERNARDO IOVENE Con un'altra metodologia

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Con un’altra metodologia. Ma non è venuto nessuno fino ad oggi. Sono passati più di 90 giorni.

BERNARDO IOVENE Ma poteva farlo? L’Istituto superiore di Sanità non ha se non ha ottemperato alla sua ordinanza…

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO Io credo che le parti in causa abbiano molti modi per far valere questa sorta di inottemperanza. Un'ordinanza dettagliata che non viene eseguita. Io posso decidere, traendo argomenti contrari per la causa finale contro colui che non ha ottemperato, perché altrimenti le istruttorie non hanno nessun senso. Io accolgo il ricorso.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto chi ha fatto ricorso si trova in una situazione paradossale.

BERNARDO IOVENE Queste stanno in piena attività?

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Sì.

BERNARDO IOVENE Producono latte tutti i giorni?

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Producono latte, queste qua producono latte.

BERNARDO IOVENE Eh, e queste invece sono positive?

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Queste sono positive. B

ERNARDO IOVENE Quindi siamo a quasi due anni. E voi avete le bufale positive.

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE Sì, le bufale positive in azienda.

BERNARDO IOVENE Stanno praticamente cos’è a due metri da quelle da quelle negative.

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE A quattro metri…

BERNARDO IOVENE Anche qua no? Queste sono tutte negative, col rischio che si infetta tutto. Però io la vedo tranquillo, perché probabilmente lei non ci crede proprio a questa brucellosi.

PAOLO CARLINO - ALLEVATORE No. Io penso che non sono positive. Perché io poi sto bloccato, sto avendo un sacco di problemi, ritorsioni della Asl che vengono spesso a controllare se io ho i maschi dentro, perché i maschi non possono stare dentro le bufale perché possono propagare la malattia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anche il principe Mariano Hugo Windisch ha 41 bufale in quarantena da due anni per la tubercolosi. Ha fatto ricorso perché ritiene che le bufale siano state analizzate con un kit, il BOVIGAM, che non è stato ancora validato dall’OIE, l’Organizzazione mondiale della sanità animale, come dimostra questo certificato della stessa ditta produttrice.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO La procedura per certificare il kit per il bufalo d’acqua è iniziata ed è in corso di valutazione.

BERNARDO IOVENE Quindi è in fase sperimentale.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Questo documento…

BERNARDO IOVENE Mentre invece viene utilizzato sistematicamente.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Sistematicamente. Gli animali per i quali viene disposto l’abbattimento sono analizzati con questo kit.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi un decreto del Consiglio di Stato anche per lui ha sospeso gli abbattimenti in attesa di nuove metodologie di analisi che il principe aspetta invano da due anni! e intanto è avvenuto un miracolo.

MARIANO HUGO DI WINDISCH-GRAETZ – ALLEVATORE È stata fatta l'anno scorso una verifica che è risultato una cosa incredibile che sono guarite dalla tubercolosi.

BERNARDO IOVENE Perché dice incredibile?

MARIANO HUGO DI WINDISCH-GRAETZ – ALLEVATORE Perché da tutti gli scienziati del mondo, sappiamo bene che dalla tubercolosi non si guarisce.

BERNARDO IOVENE Ma è l'Asl che ha rifatto le analisi da dove risultano negative?

MARIANO HUGO DI WINDISCH-GRAETZ – ALLEVATORE Assolutamente sì. È questa è la cosa che non mi spiego.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A rifare le analisi è la stessa Asl con le stesse metodiche e ha fatto un autogol. Ecco la documentazione, con le vecchie analisi del 2019 le bufale erano tutte positive. Dopo un anno e mezzo, il 21 giugno del 2021, le stesse bufale - controlliamo scrupolosamente tutti i codici - sono risultate negative.

BERNARDO IOVENE Quindi vuol dire che erano, sono sempre state negative?

MARIANO HUGO DI WINDISCH-GRAETZ – ALLEVATORE Sono miracolate!

BERNARDO IOVENE Sono miracolate.

MARIANO HUGO DI WINDISCH-GRAETZ – ALLEVATORE È veramente una tristezza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il paradosso è che le 41 bufale sono ancora in quarantena e, anche se negative, rimane ancora l'ordinanza di abbattimento che non è stata revocata. Anche perché, dopo che Frattini è stato promosso a presidente del Consiglio di Stato, chi è arrivato al suo posto ha ribaltato le ordinanze confermando la nuova linea dell'Istituto superiore di sanità, e cioè che i metodi di analisi utilizzati fino ad oggi garantiscono l'affidabilità dei risultati.

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO È noto ovviamente che ogni collegio ha autonomia.

BERNARDO IOVENE Lo sa cosa hanno detto? “È cambiato il governo” agli avvocati che facevano queste cose…

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO Oggettivamente quella causa è arrivata a un risultato opposto. Io credo che tutte le mie ordinanze fossero adeguatamente motivate. Poi vengo a scoprire che la carne viene venduta a libero consumo, quindi ce la mangiamo noi.

BERNARDO IOVENE Quasi il 100% va al libero consumo.

FRANCO FRATTINI – PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DI STATO Sono stupefatto che questo possa accadere, e anche che i controlli veterinari che sono attentissimi quando si tratta di ordinare uccideteli tutti, poi con la carne macellata e la si vende al consumatore, come dire…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E mentre il presidente Frattini scrupolosamente emetteva decreti, ordinanze motivate, adesso le nuove ordinanze che sono sulla linea degli abbattimenti della Regione Campania, vengono emanate in serie e in modo approssimativo. L'avvocato Iazeolla cura i ricorsi solo per brucellosi, anche a lui il nuovo corso del Consiglio di Stato gliene ha respinto uno ma commettendo un grave errore.

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO E lo ha rigettato con un'ordinanza nella quale si parla di sussistenza del focolaio di TBC, di tubercolosi.

BERNARDO IOVENE Hanno preso fiaschi per fischi?

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO Esattamente. Diciamo che è tecnicamente è un errore di diritto grave.

BERNARDO IOVENE Hanno fatto un copia incolla?

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO Eh sì, purtroppo sì.

BERNARDO IOVENE Cioè hanno presa quella del 4 marzo che era per la TBC e l’hanno copiata pari pari. GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO L’hanno copiata pari pari per un caso di brucellosi che ovviamente andava trattato in maniera diversa.

BERNARDO IOVENE Non è mai successo?

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO Così no, per situazioni così delicate no.

BERNARDO IOVENE Come spiega lei?

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO Assisteremo a un'ecatombe, cioè migliaia di capi che andranno al macello, migliaia…

BERNARDO IOVENE Che sono quelli che sono stati sospesi?

GIOVANBATTISTA IAZEOLLA – AVVOCATO Che sono quelli sub iudice.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, ci mancava anche il copia e incolla in una sentenza del Consiglio di Stato. Hanno scambiato casi di brucellosi con quelli di tubercolosi. Ora, gli allevatori hanno fatto ricorso e hanno ottenuto il congelamento dell’abbattimento, però ogni giorno devono comunque raccogliere il latte, mandarlo al macero e gestire, diciamo così, le bufale in quarantena che sono in attesa di giudizio. Perderanno anche probabilmente gli indennizzi della regione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, ben tornati, stiamo parlando della strage delle bufale nel casertano, quelle che producono la favolosa mozzarella di bufala appunto è un comparto strategico per il nostro paese. Ora, siccome sono in preda ad una epidemia di brucellosi, le linee della regione sono quelle di abbattere l’intero allevamento quando si supera il 20% delle bufale contagiate. Ma gli allevatori si sono letteralmente imbufaliti quando sono stati pubblicati dei dati sui test post mortem, pubblicazione voluta dalla magistratura, attenzione perché gli era stata sempre negata, in base alla quale si evidenziava il fatto che sulle carni delle bufale abbattute solo il 2% presentava la malattia e il 98% veniva invece destinato all’alimentazione, al commercio, all’alimentazione anche umana. A beneficiarne era praticamente, è praticamente un solo macello, quello che fa capo al gruppo Cremonini che ha così una garanzia di fornitura praticamente di carne illimitata. Ora, che cosa è successo? Che poi questo clima di controlli della Asl, queste politiche di abbattimento hanno impaurito gli allevatori, che poi non è nient’altro che la linea che viene ispirata dall’Istituto zooprofilattico del Mezzogiorno e a capo c’è il direttore generale Antonio Limone, nominato da de Luca. Però insomma Limone è lì da molto tempo perché già nel 1999 era stato nominato commissario straordinario dell’Istituto zooprofilattico, poi confermato da Bassolino e da Caldoro. Ora, tra i primi dati da commissario Limone si era intanto aumentato lo stipendio poi aveva licenziato il dottor Fenizia. Fenizia era il direttore che all’epoca aveva, della prima epidemia, quella che si è consumata tra il 2008 e il 2013, aveva ispirato la campagna di vaccinazione. Inoltre, è l’autore di uno studio in base al quale si sostiene che la brucellosi, nelle bufale da latte, va trattata in maniera diversa da quella che colpisce i bovini perché, nella bufala ad acqua, la brucellosi, dopo un po' di tempo, regredisce. Ora l’8 marzo scorso è stato presentato dalla regione, con una task force il nuovo piano per contrastare la brucellosi, sarebbe stata l’occasione per redimere i contrasti e fare chiarezza, invece si è trasformata nell’occasione di tirarsi gli stracci in faccia.

BERNARDO IOVENE Questo nuovo piano non risolve niente.

ALLEVATORE Questo. Questo nuovo piano è cattivo, distruttivo per le aziende. La prima cosa bisogna cambiare quel gruppo di lavoro.

BERNARDO IOVENE Quel gruppo di lavoro…

ALLEVATORE Stanno da vent’anni là…Il dottor Limone, Campanile, Sarnella devono andare via.

BERNARDO IOVENE Limone è Istituto zooprofilattico no?

ALLEVATORE Sì.

BERNARDO IOVENE Sarnelli è il capo dei veterinari diciamo.

ALLEVATORE Sì.

 BERNARDO IOVENE Campanile che cos'è?

ALLEVATORE Campanile è uno che mangia intorno a loro

BERNARDO IOVENE Mangia?

ALLEVATORE E come no, è dell'università. Lui fa consulenze a mangimifici, agli allevamenti. E poi, dall'altro lato, all'altro lato.

BERNARDO IOVENE Viene a controllare.

ALLEVATORE Viene a controllare e si schiera contro di noi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È dai consiglieri regionali di opposizione che riusciamo ad avere qualche informazione, visto che dai banchi della maggioranza per noi di Report c'è totale chiusura alle interviste. Il consigliere Zinzi ci mostra il decreto che attiva il Nucleo Operativo di Biosicurezza, il Nob, dove tra i dirigenti di Asl e Istituto Zooprofilattico, c'è anche il professor Campanile dell'Università Veterinaria di Napoli.

BERNARDO IOVENE La partecipazione del gruppo di lavoro è a titolo gratuito.

GIANPIERO ZINZI – CONSIGLIERE REGIONE CAMPANIA – LEGA SALVINI PREMIER Esatto.

BERNARDO IOVENE Però hanno funzione di controllo.

GIANPIERO ZINZI – CONSIGLIERE REGIONE CAMPANIA – LEGA SALVINI PREMIER Esatto, sono tutti controllori, sono tutti controlli

BERNARDO IOVENE Cioè non potrebbero fare consulenze private?

GIANPIERO ZINZI – CONSIGLIERE REGIONE CAMPANIA – LEGA SALVINI PREMIER Assolutamente no.

MASSIMO GRIMALDI - CONSIGLIERE REGIONE CAMPANIA – FORZA ITALIA Il Nob, già il termine… non le sembra un termine che incute paura, terrore… cioè, l’atteggiamento è sempre lo stesso. Mettiamo paura agli allevatori, controlliamoli in continuazione.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se poi chi controlla e incute paura facesse anche consulenze private, sarebbe gravissimo. Ma pare che di questo conflitto di interessi sia stato informato e davanti a più testimoni anche l'assessore all'Agricoltura Caputo.

PEPPE PAGANO - CONSORZIO NUOVA COOPERAZIONE ORGANIZZATA E il professor Giuseppe Campanile, che lo stesso assessore alla riunione con gli allevatori aveva ascoltato che incassava consulenze in nero dagli allevatori, ma quasi da una marea di allevatori.

BERNARDO IOVENE L'assessore è a conoscenza? Cioè l’avete….

PEPPE PAGANO - CONSORZIO NUOVA COOPERAZIONE ORGANIZZATA Era una riunione pubblica, cioè nel senso c'erano più persone a questa riunione.

 BERNARDO IOVENE Cosa è successo dopo?

PEPPE PAGANO- CONSORZIO NUOVA COOPERAZIONE ORGANIZZATA Io mi sarei aspettato una presa di distanza o eventualmente che avrebbe detto a questo signore quello che è emerso dalla riunione. Eventualmente che questo signore ci avrebbe querelato. Ma non è successo né l’uno e né l'altro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Anzi, in commissione agricoltura l'11 marzo, questo è il resoconto testuale, l'assessore ringrazia il professore che sta lavorando alla definizione della stalla modello del nuovo piano. In tanti si sarebbero avvalsi delle sue consulenze, pagandole – dicono - a caro prezzo. Sperando poi, visto il ruolo, di avere dei vantaggi. ALLEVATORE Mi faceva sia ginecologia che alimentazione….

BERNARDO IOVENE C'è un conflitto di interessi. Lui non poteva fare queste consulenze.

ALLEVATORE Eh, no.

BERNARDO IOVENE E lei lo sapeva comunque?

ALLEVATORE Sì, sì,

BERNARDO IOVENE L’ha chiamato lei per avere qualche vantaggio?

ALLEVATORE Esattamente.

BERNARDO IOVENE La parcella è più alta rispetto alle altre?

ALLEVATORE Sì sì, 30 o 40 per cento in più.

BERNARDO IOVENE Lei ha pagato con fattura oppure a nero?

ALLEVATORE A nero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per chi invece necessita di fattura il metodo cambia.

ALLEVATORE Io faccio l’assegno, mi fanno la fattura ma non la fa direttamente lui. La fa un altro veterinario che lui porta con sé e gli paga la prestazione di quella giornata o più giornate

BERNARDO IOVENE Cioè lei sta parlando di uno in particolare che sta dentro la task force dell’assessorato all’agricoltura?

ALLEVATORE Sì, certo, assolutamente sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Il professor Campanile al telefono smentisce categoricamente e afferma che si tratta di convenzioni, che gli allevatori fanno con l’Università. Ci ha spedito un l’elenco che parte dal 2007, sono consulenze e attività di ricerca per il miglioramento dell’attività produttiva e riproduttiva della specie bufalina.

BERNARDO IOVENE Alcuni allevatori ci hanno detto insomma che gli avrebbero dato dei soldi in nero.

GIUSEPPE CAMPANILE - PROF.MED. VETERINARIA UNIVERSITA’ DI NAPOLI Assolutamente, non è mai successo. È ovvio che io adesso facendo parte del gruppo che sta legiferando sulla brucellosi, gli allevatori devono denigrare per queste cose. I soldi di queste consulenze… l'università non è che non mi dà i soldi e me li metto in tasca. Io faccio borse di studio e assegni di ricerca.

BERNARDO IOVENE A noi quello che hanno detto che lei farebbe fatturare anche ad altre persone quando l'allevamento ha bisogno di fattura….

GIUSEPPE CAMPANILE - PROF.MED. VETERINARIA UNIVERSITA’ DI NAPOLI Guardi non è mio costume. Ho sempre criticato chi ha fatto questo. Se hanno le prove, sarei contento che le cacciassero e devono e praticamente andarmi a denunciare perché mi danno la possibilità di denunciarli. Io faccio quello che sta scritto nelle convenzioni, gestione dell’attività riproduttiva e gestione dell’attività produttiva. Questo faccio, e mi è permesso ed è legale, è chiaro?

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Intanto la protesta degli allevatori non si ferma. Da dicembre scorso, dallo sciopero della fame di un allevatore e un insegnante, è nato un coordinamento unitario di tutte le associazioni. Chiedono la vaccinazione per tutte le bufale, ma nel nuovo piano regionale presentato l'8 marzo è prevista solo per i vitelli da sei a nove mesi e solo per gli allevamenti liberi dalla malattia.

GIANNI FABBRIS - COORDINAMENTO UNITARIO ALLEVATORI BUFALINI Troviamo questo elemento una limitazione assurda perché questo depotenzia evidentemente la funzione del vaccino.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono limitazioni sull’autocontrollo e sui tempi dei prelievi sulle bufale che paradossalmente si allungano da 21 a 30 giorni.

GIANNI FABBRIS - COORDINAMENTO UNITARIO ALLEVATORI BUFALINI Favoriamo con queste scelte in realtà la diffusione della brucella.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi, per ottenere il ripopolamento, occorre fare lavori complicatissimi e costosissimi. Inoltre, non si possono utilizzare i terzisti.

GIANNI FABBRIS - COORDINAMENTO UNITARIO ALLEVATORI BUFALINI E soprattutto devi mettere il personale tuo. Una follia inapplicabile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E dopo un abbattimento totale, se vuoi riaprire, non devi confinare nel raggio di 500 metri con aziende che hanno focolai di brucellosi e tubercolosi.

GIANNI FABBRIS - COORDINAMENTO UNITARIO ALLEVATORI BUFALINI Ho ammazzato tutti gli animali, sto ripopolando. Per farlo devo spendere centinaia di migliaia di euro per metterla in sicurezza. Ma se un mio vicino, lontano 500, 500 metri ha un problema, per cui ha la brucella, io non potrò ripopolare.

BERNARDO IOVENE Cioè devo star fermo?

GIANNI FABBRIS - COORDINAMENTO UNITARIO ALLEVATORI BUFALINI Cosa accade? Sì, che significa questo? Tagliare le gambe all'intero comparto produttivo. Si dica chiaramente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La linea regionale rimane quella intrapresa dal 2014. L'eradicazione delle infezioni passa attraverso gli abbattimenti. Non conta che alla verifica post mortem risultano non malate. Una linea discussa al cosiddetto tavolo verde, dove siedono le segreterie regionali dei sindacati che pare non ascoltino i loro stessi sindacati provinciali.

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO Siamo favorevoli alla vaccinazione e favorevoli a un processo di autocontrollo che ci permetta di testare più spesso e più rapidamente i nostri animali.

BERNARDO IOVENE Questa è la posizione ufficiale di Confagricoltura che sarà al tavolo verde?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO Sì. Di Confagricoltura Caserta.

BERNARDO IOVENE Caserta. Quella che invece siede al tavolo verde non è Confagricoltura Caserta?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO È Confagricoltura Campania.

BERNARDO IOVENE Campania. Che la pensa diversamente da lei?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO Che la pensa…

 BERNARDO IOVENE Come la pensa?

ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO La pensa come la pensa l'assessore

BERNARDO IOVENE Ah, ho capito.

 ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO Quindi se la Regione Campania cambia idea, cambierà idea anche lui.

BERNARDO IOVENE Ma è triste questa cosa che mi sta dicendo

 ENRICO MIGLIACCIO - PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CASERTA - SETTORE BUFALINO Eh… è triste… abbiamo segnalato anche a Confagricoltura nazionale la problematica, ma…

 BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Siamo andati allora a trovare il presidente di Confagricoltura Campania che siede al tavolo verde con la Regione e sui numeri degli animali abbattuti, risultati poi non malati, la posizione è netta.

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA Se ci sono degli abbattimenti sbagliati se la vedrà la magistratura, se ci sono. Dal punto di vista politico.

BERNARDO IOVENE Ma sbagliati perché? Perché c’è una politica sbagliata. Anche di… anche di…

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA Guardi, se lei sostiene che ci sono tecnici che sbagliano a… lo dice lei, non io. Gli animali abbattuti sono frutto di una questione tecnica, non di una questione politica.

BERNARDO IOVENE Però lei adesso mi sta confermando che è un po’ sordo rispetto alle esigenze di questo territorio. Oggi andiamo da un allevatore, 900 capi, 900 capi. Cioè, lei ha idea di quello di cui stiamo parlando?

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA E’ a quelli che stiamo vicini… affinché se gli vengono abbattuti i capi, legittimamente vengono risarciti, tra l'altro ristrutturano l'azienda. Tra l’altro se io sapevo che lei voleva parlare degli abbattimenti, non della politica, non la ricevevo nemmeno.

BERNARDO IOVENE E lei adesso mi sta facendo capire come stanno, come sono andate le cose fino adesso.

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA Tutte le epidemie portano degli abbattimenti, è necessario che siano abbattuti gli animali che devono essere abbattuti.

BERNARDO IOVENE È un dato eclatante quello che è uscito fuori…

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA Ma quale dato eclatante. Ma lei… Ma le puttanate sono sentite da tutti no? Io le ho sentite come lei…

BERNARDO IOVENE Allora lei la considera una puttanata per questa cosa qua?

FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA Non quelle che sono non giustificate. Allora se ci sono…

BERNARDO IOVENE Allora secondo lei è una puttanata?

 FABRIZIO MARZANO – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA CAMPANIA No. Se ci sono animali che sono stati abbattuti ingiustamente, che intervenga la magistratura, no il chiacchiericcio.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E infatti già la magistratura è dovuta intervenire però per far pubblicare dalle Asl i dati riguardanti i test post mortem dai quali si evince che solo il 2% degli animali abbattuti aveva contratto la malattia, il resto veniva mandato al macello e a beneficiarne era uno solo come abbiamo visto sostanzialmente, il gruppo Cremonini. Ora, secondo invece Confagricoltura Caserta e gli allevatori, bisognerebbe insomma cambiare il metodo di controllo anche perché è imbarazzante una cifra del 2% su tutti gli animali abbattuti. Vorrebbero intanto reintrodurre la campagna di vaccinazione che nel 2013 aveva eradicato il batterio e poi instaurare un sistema di autocontrollo che consentirebbe loro di testare con più frequenza lo stato dell’allevamento. Mentre, invece, Confagricoltura Campania, abbiamo visto, lega la bufala dove vuole il padrone, cioè la Regione che con noi non ha voluto parlare, così come non ha voluto parlare neppure Cremonini ed è un peccato perché è un’occasione persa per fare chiarezza su una vicenda invece sulla quale bisogna fare chiarezza soprattutto per riconquistare la fiducia degli allevatori. Anche perché quello della mozzarella è un’eccellenza italiana, un comparto strategico, il secondo Dop più esportato al mondo dopo il grana padano e va tutelato. 

Il futuro della carne a "impatto zero": cosa accadrà. Alessandro Ferro il 28 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Sfidare (o quasi) le leggi della natura e produrre carne in laboratorio: è questa la sfida dei prossimi anni con i mercati mondiali in fermento e pronti a investire miliardi di dollari.

Per i puristi della carne sembrerà una bestemmia ma il mondo eco-sostenibile andrà anche in questa direzione: si produrrà e mangerà carne prodotta dalle cellule staminali degli animali e avremo quella "costruita" anche con proteine vegetali. Sembra un ossimoro (carne-vegetale) ma è la direzione dei grandi mercati mondiali con un giro di denaro che vale già miliardi di dollari.

Cos'è la "curated meat"

Letteralmente "carne curata", la curated meat è conosciuta anche come "carne in vitro" o "pulita" (curata) differente rispetto alla classica bistecca, guancia o tagliata che sia. Ma come si fa a produrre una tipologia di carne del genere? In pratica, con una biopsia viene estratta una cellula dell'animale che si vuole replicare, inserita speciali bioreattori per farla sviluppare in un brodo di nutrienti. Sembra assurdo, oltre che fantascientifico, ma soltanto negli ultimi due anni questo settore è stato finanziato per due miliardi di dollari di investimenti che diventeranno 162 entro il 2030 secondo un'analisi di Bloomberg.

L'hamburger sintetico del 2013

Molti non lo ricordano o non ne sono a conoscenza, ma la novità di una carne diversa fu sperimentata già 9 anni fa, nel 2013, quando per 300mila dollari fu realizzato il primo hamburger sintetico realizzato con due anni di "fatica". Da quel momento la situazione non si è evoluta e ci sono voluti sei anni, il 2019, affinché il primo e unico Paese al mondo, Singapore, mettesse nei menù dei propri ristoranti bocconcini di pollo creati in laboratorio alla modica cifra di 17 dollari. Secondo il fondatore dell'azienda Eat Just, Josh Tetrick, sarà "vegetale" il futuro della carne che troveremo dappertutto anche dai kebabbari. Non si sa nulla, però, sulle tempistiche: "potrebbero volerci 300 come 30 anni", tutto dipenderà dalle autorizzazioni governative e se i consumatori saranno disposti ad un cambiamento di cultura e filosofia.

La scommessa del marketing

Se i prezzi crolleranno e la carne sintetica e di laboratorio arriverà a costare pochi dollari al chilo, a quel punto il mercato avrebbe i suoi due concorrentI: carni naturali e da laboratorio. Come riporta Repubblica, il marketing punterebbe molto sull'innovazione con una testimonial d'eccellenza: chi se non Greta Thumberg? Il punto è sempre quello: la produzione dei gas serra, il cui 14,5% globale è prodotto dagli allevamenti animali mentre con la carne vegetale ci sarebbe una riduzione del 90% di emissioni oltre a risparmiare sui consumi di acqua e terra. Discorso diverso per quella in vitro estratta dalle cellule animali, più complicata da realizzare e sicuramente pià costosa rispetto a quella sintetica.

Nel mondo, sono già "avanti" con le procedure la Silicon valley, Israele e l'Olanda. La Cina, come spesso accade, non sta a guardare e il ministero dell'agricoltura ha inserito per la prima volta la carne in vitro e quella vegetale nelle proprie linee guida per la "sicurezza alimentare". Dal momento che dal 1980 i consumi si sono triplicati e viene consumata da quasi un terzo della popolazione mondiale, di certo non mancherà di richieste di mercato. "È una, se non la più importante svolta nella storia delle proteine alternative", conclude Tetrick.

Allevamenti addio. La carne sintetica esiste ed è già tra noi. Andrea Walton su L'Inkiesta il 22 Gennaio 2022.

Ecco quali sono gli ultimi sviluppi della produzione artificiale di“carne senza carne”, dall’agricoltura cellulare agli investimenti nel settore, e perché stanno subendo un’accelerazione.  

Mangiare carne senza contribuire all’inquinamento generato dagli allevamenti e senza prendere parte alla compravendita del corpo di un animale. La carne sintetica, un alimento derivato dalla coltura in vitro di cellule di tessuto animale, consente di realizzare questo duplice obiettivo grazie all’uso di complesse tecniche bioingegneristiche applicate alle cellule staminali animali. Il sistema di produzione è oggettivamente complesso, ma il risultato finale è stupefacente (o inquietante, a seconda dei punti di vista).

Le cellule staminali proliferano grazie ad un mezzo di coltura, formulato con carboidrati, grassi, proteine e minerali e vengono poi fatte fermentare dando vita ad un taglio di carne che può assumere le sfaccettature richieste. Tra i vantaggi potenziali della carne allevata in laboratorio ci sono un minor rischio di contaminazione dal batterio E. coli (che si trova nelle feci animali) e da altri agenti che si possono trovare negli impianti di lavorazione della carne e la minor presenza di antibiotici rispetto a quelli ricevuti dal bestiame allevato in maniera tradizionale per mantenerlo in salute. L’impatto ambientale è minore perchè si riducono in maniera significativa le emissioni di gas serra scaturite dalla produzione di carne bovina e l’abbattimento di aree forestali da destinare ad altri usi. Non mancano alcuni dubbi. La carne coltivata contiene cellule animali e non può essere considerata vegana e molti vegetariani sono indecisi in merito all’approccio da adottare.

I prezzi di vendita della carne sintetica sono significativamente più alti rispetto a quelli della carne tradizionale e questo dato rischia di rivelarsi scoraggiante anche per il consumatore (ambientalista) più motivato. Un burger non convenzionale, come ricordato dal periodico Elle, può costare fino a 21 euro al chilo contro i 18 euro di un taglio pregiato come la scottona di manzo. Il divario si amplia ancora di più se si parla di carni bianche: la fesa di pollo può arrivare a massimo ad 8 euro al chilo. Le cose non cambiano negli Stati Uniti dove la carne sintetica costa il doppio di quella tradizionale. Questa situazione rende difficile ai nuclei familiari a basso reddito, pressati da problemi più urgenti, di passare al lato oscuro della carne. I costi della carne sintetica sono ancora eccessivi ma si sono progressivamente ridotti nel corso del tempo e questo trend potrebbe proseguire anche in futuro.

Nel 2008 il prezzo per ottenere 250 grammi di prodotto ammontava ad un milione di dollari, nel 2015 era sceso a 250mila dollari mentre oggi, come ricordato dal professore di biologia e zoologia Carlo Alberto Redi su True numbers, «costa poco più di 10 dollari». L’azienda Eat Just, che si occupa di tecnologia alimentare e produce carne coltivata, è stata la prima impresa al mondo a rivendere il proprio prodotto in un ristorante nella città di Singapore. Sul menù c’è un tris di piatti al prezzo di 23 dollari e questa iniziativa è stata accolta con molto interesse. Patrick Morris, amministratore delegato di Eat Beyond (legata ad Eat Just), ha dichiarato che «Eat Just sta aprendo la strada all’industria dell’agricoltura cellulare, che ha il potenziale per trasformare completamente i nostri sistemi alimentari oggi per renderli più sostenibili e umani» e che «Il prodotto finale, la carne coltivata, è ancora abbastanza costoso in quanto i costi di produzione sono elevati, ma una volta che il costo sarà diminuito vedremo questa industria crescere rapidamente, è solo questione di tempo».

La fiducia da parte dei consumatori è un elemento imprescindibile per il successo della carne coltivata e non c’è modo migliore che realizzare ricerche per testarla. Uno studio a cui hanno preso parte le fasce più giovani della popolazione, commentato sul portale Food Ingredients First, sembra indicare «un certo grado di apertura mentale» nei confronti dell’argomento. I membri della Generazione Z sembrano essere i più entusiasti, con l’87-89 per cento dei suoi esponenti che si dichiara «almeno parzialmente curioso» di provare la carne coltivata. La percentuale scende, leggermente, tra i Millenial (84-85 per cento di curiosi) ed in maniera più significativa tra la Generazione X (76-77 per cento)  e tra i più adulti (70-74 per cento) ma sempre senza scendere sotto i due terzi dei consensi. Future Meat Technologies, una start up leader nello sviluppo di tecnologie innovative per produrre carne coltivata, ha reso pubblici i risultati di una ricerca, realizzata nel 2021, a cui hanno preso parte 2016 consumatori americani. Un intervistato su tre si è detto pronto ad integrare la carne coltivata nella propria dieta quando sarà lanciata ed il 58 per cento del campione ha riferito di essere a conoscenza della sua esistenza.

Rom Kshuk, amministratore delegato di Future Meat Technologies, ha dichiarato che «la carne coltivata è più vicina che mai al mercato. In qualità di leader di questo nuovo settore, spetta a noi non solo creare il prodotto, ma anche aiutare il mercato a familiarizzare con esso, mitigare le preoccupazioni e renderlo accessibile ai consumatori finali». La carne sintetica ha attirato l’interesse di istituzioni internazionali come l’Unione Europea, che ha disposto un contributo di 2 milioni di euro a vantaggio delle aziende olandesi che si occupano della ricerca volta alla produzione di carne in provetta e anche di Bill Gates, che ha investito nel settore. La mossa di Bruxelles ha suscitato le reazione della Coldiretti secondo cui, come riportato dal portale Luce, «il business privato della carne in provetta nasconde rilevanti interessi economici e speculazioni internazionali dirette a sconvolgere il sistema agroalimentare mondiale». La Coldiretti pone l’accento sulla concorrenza sleale affermando che «si va ad aggiungere alla campagna in atto contro la vera carne e costituisce una doppia tenaglia che minaccia di far chiudere le stalle». La battaglia è appena cominciata.

·        Gli Insaccati.

Questione di chimica. Report Rai. PUNTATA DEL 14/11/2022 di Lucina Paternesi

Collaborazione di Giulia Sabella

Prosciutto cotto, quale scegliere?

Il prosciutto cotto è il salume più amato dagli italiani, ogni anno ne consumiamo in media 4 chili a testa e ne produciamo quasi 300 mila tonnellate. Viene consigliato nelle diete ed è ricco di proteine e sali minerali. In commercio viene venduto tagliato fresco o in vaschetta, aromatizzato, affumicato, a cubetti o sotto forma di hamburger e polpette. Ma quale scegliere? Il viaggio di Report inizia sull’Appennino Tosco-Emiliano, dove un’azienda a conduzione familiare ha deciso di puntare tutto su un prodotto di qualità e a filiera corta, dall’allevamento fino alla trasformazione del prodotto finito. Un’etichetta semplice e trasparente come i pochi ingredienti di cui è fatto: acqua, sale, zucchero, spezie, antiossidante e conservante. Ma è sempre così? Una fonte che per anni ha lavorato per l’industria alimentare, ci svela alcune pratiche: tra aggiunte di acqua e polveri chimiche, coloranti e colle per carni, quanto è trasparente l’etichetta dei prodotti che troviamo in commercio e che costano di meno? Scopriremo che anche per il cibo esiste un botox e che anche alcuni hamburger sono “rifatti”.

QUESTIONE DI CHIMICA di Lucina Paternesi Collaborazione: Giulia Sabella Immagini: Giovanni De Faveri, Cristiano Forti, Andrea Lilli, Paco Sannino, Davide Fonda, Dario D’India Montaggio e grafica: Giorgio Vallati

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO A colazione o per lo spuntino, nell’insalata di riso che mangiamo a pranzo, nel toast che prepariamo ai bimbi a merenda, sulla pizza capricciosa che ordiniamo per cena. Tra i salumi, il prosciutto cotto è il più amato dagli italiani: ogni anno ne consumiamo in media quattro chili a testa e ne produciamo quasi 300mila tonnellate. Viene inserito nelle diete ipocaloriche ed oltre alle proteine è ricco di sali minerali come potassio, calcio e ferro.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Prosciutto cotto Praga, se uno piace un pochettino il gusto affumicato; se a uno piace gusti un pochettino un po’ più speziati e forti, questo è un altro prosciutto arrosto.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Al supermercato vengono offerti con grande varietà: tagliato fresco o in vaschetta, arrosto, affumicato, a forma di hamburger o polpette. Ma non tutti si fregiano della stessa qualità.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Questi cubotti sono tutti prodotti un po’ più economici e scadenti, fatti per i toast.

LUCINA PATERNESI Il basso prezzo è già un indice della scarsa qualità.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Sì, sì.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Quello in vaschetta si conserva più a lungo ma a scapito di freschezza e genuinità. Per chi può permetterselo c’è il banco dei freschi.

ANTONELLO BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Prosciutto cotto di alta qualità nazionale, dunque vuol dire che la coscia è allevata e macellata in Italia. Nella fascia 32 - 28,90 c’è tutta l’alta qualità.

LUCINA PATERNESI Quali sono le differenze tra questi quattro?

ANTONELLO BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE La vedi che è anche una fetta più asciutta, non è lucida.

LUCINA PATERNESI La fetta lucida che significa?

ANTONELLO BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Vuol dire che è un prodotto che ha molta umidità dentro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, se c’è l’imbarazzo della scelta al supermercato è anche grazie, o responsabilità, del decreto salumi, che è stato modificato. Fino al 2016 potevi chiamare prosciutto cotto solo il coscio del suino dove erano identificabili almeno tre delle fasce muscolari. E invece con la modifica, dal 2016 in poi, puoi chiamare prosciutto cotto anche quello che ha forma rettangolare, quadrata o a cubotti. Il decreto nel 2016 ha anche aumentato la tolleranza dell’umidità, questo significa che ha consentito l’uso di più acqua, ma se metti più acqua poi come fai a far sentire ugualmente il sapore? Ecco, e qua, insomma, bisogna dire che ce lo spiega un pentito dell’industria chimica che ha lavorato per lungo tempo per l’industria alimentare. E possiamo dire che poi, insomma, quando vedi un prosciutto cotto lucido, ben colorato, con forme armoniose, non sempre è sinonimo di qualità. Per capire la differenza siamo andati laddove c’è chi segue tutta la filiera, dall’allevamento del maiale al taglio della fetta. La nostra Lucina Paternesi.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Questi sono animali che nascono qui da noi e si muovono agilmente, quasi come un animale selvatico.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO I maiali dell’azienda Savigni hanno a disposizione 74 ettari di bosco a mille metri d’altezza, sull’Appennino Tosco Emiliano.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Hanno la fortuna di vivere in un territorio ricco di querce, tra poco inizieranno a far cadere le ghiande.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La storia dell’azienda è la storia di una famiglia: nasce qui, in questa macelleria. Da vent’anni ormai Savigni segue l’intera filiera, dall’allevamento fino alla trasformazione finale del prodotto.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Ingredienti: noi utilizziamo sale di Cervia, che non è un sale chimico iodato ma è un sale marino.

LUCINA PATERNESI Quanta acqua?

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) 15 litri d’acqua.

LUCINA PATERNESI 15% acqua e il resto è carne.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) È carne. Ora partiamo con il nostro conservante: in etichetta è chiamato E250, che sarebbe il nitrito di sodio.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Carne, sale, zucchero, l’ascorbato di sodio come antiossidante e, come conservante, il nitrito di sodio. Non c’è trucco in questa etichetta, l’additivo è dichiarato. È necessario per conservare la carne e scongiurare la formazione di muffe, batteri e botulino. La legge fissa dei limiti ben precisi per la presenza di nitriti perché lo IARC, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro, li ha classificati come probabili cancerogeni.

LUCINA PATERNESI Questo è l’unico conservante che voi mettete.

 NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Sì, assolutamente sì.

 LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Senza conservanti non si può produrre il prosciutto cotto ma si possono nascondere nelle pieghe delle etichette utilizzando i nomi di spezie o aromi. I produttori che non vogliono dichiararli in etichetta usano quelli che si trovano, in natura, nella barbabietola, nel sedano o negli spinaci e che possono essere riportati con la dicitura aromi.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Ora prendiamo una serie di spezie, che può essere dal pepe bianco, all’aglio, al macis, alla cannella, ai chiodi di garofano. Questi sono gli unici ingredienti della nostra salamoia.

 LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Una volta creata la salamoia, cioè il liquido che serve ad aromatizzare la coscia, si passa alla siringatura.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Tutti gli aghi stanno distribuendo sull’intera superficie del prosciutto cotto la soluzione salina che noi abbiamo preparato.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Poi le cosce finiscono in questa macchina, la zangolatrice, che le massaggia lentamente per 36 ore di seguito.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Quindi lo andremo a inserire dentro a uno stampo, lo presseremo.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Una volta messi gli stampi nel forno, sono necessarie almeno 32 ore di cottura. In una piccola azienda artigianale come questa, dove si lavorano dalle 10 alle 15 cosce a settimana, la produzione dura circa dieci giorni, a cui si aggiungono altri 4-5 giorni di riposo prima che il prosciutto arrivi in macelleria, pronto per essere affettato.

LUCINA PATERNESI Prezzo al chilo?

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Questa è una spalla cotta di cinta senese, siamo a 35, invece qua siamo a un prosciutto cotto di qualità a 28 euro e 90.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Il fatto che Savigni controlli tutta la filiera e determini gli ingredienti, dall’alimentazione dei maiali a quelli da inserire nella macellazione, fino al taglio della fetta, gli consente di offrire al consumatore un prodotto di altissima qualità che si percepisce già al tatto.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) La cosa che si percepisce è che non è liscio, non scivola.

LUCINA PATERNESI Non scivola.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Se entriamo nello specifico, guarda, vediamo anche le fibre, date da pezzi di carne anatomici interi.

LUCINA PATERNESI Assaggiamo.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Lo senti che è un qualcosa che quando ne mangi cento grammi sicuramente sei pieno.

LUCINA PATERNESI Sì, sì, si sente tutto.

NICOLÒ SAVIGNI - IMPRENDITORE AZIENDA AGRICOLA SAVIGNI – PAVANA PISTOIESE (PT) Non hai bevuto, hai mangiato.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Non hai bevuto, dice Savigni, perché il rischio è di comprare un prodotto industriale che contiene più acqua che carne. Secondo il disciplinare, esistono in commercio tre tipi: l’alta qualità, scelto e il prosciutto cotto.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE È l'acqua aggiunta che fa la differenza. Un esempio semplice: su un prosciutto cotto di alta qualità andiamo aggiungerci 15-20% di salamoia, alla fine della cottura abbiamo perso quasi tutta l'acqua e l'umidità che ci abbiamo messo dentro.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Ma già se scendi di tipologia nel disciplinare e compri il prosciutto cotto…

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Lì andiamo su siringature che vanno dal 60-70%.

LUCINA PATERNESI Cioè stiamo comprando acqua.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Stiamo comprando in un certo senso l'acqua.

LUCINA PATERNESI Ma perché si mette acqua?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Si mette l’acqua per fare un prodotto più economico.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Per abbassare i costi si diminuisce laquantità di carne ma per dare poi sapore al prodotto si devono per forza aggiungere altri ingredienti.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Degli amidi, delle carragenine, degli ingredienti che aiutano a trattenere l’acqua.

LUCINA PATERNESI Come viene fatto questo cubotto?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Questo cubotto, come si vede, c’è qualche, qualche pezzo, vedi? Qualche pezzo di muscolo, tanto per dargli un po’ la sembianza del cotto. Però tutta questa parte qui è tutto macinato.

LUCINA PATERNESI Quindi questa non è una vera coscia di suino? Sono pezzi?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE No, assolutamente. Sono pezzi di altre lavorazioni, vengono macinate e vengono assemblate tramite o una zangola o un’impastatrice vera e propria.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Grazie a una modifica al Decreto salumi, dal 2016 anche questi cubettati ricomposti si possono chiamare prosciutto cotto, denominazione prima riservata alla sola coscia di suino in cui sono riconoscibili tre dei quattro muscoli principali.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Si vede la fascia muscolare dopodiché sono d’accordo che non è un esempio di prodotto molto bello.

LUCINA PATERNESI Però vi siete battuti voi per far chiamare anche i cubotti prosciutto cotto.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Noi non ci siamo battuti. Noi oggettivamente abbiamo chiesto una norma di questo tipo.

LUCINA PATERNESI Ma se quello è un pezzo ricomposto con la cotenna attaccata sarà diverso da una coscia, no?

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Sì, ma ho capito, una coscia… Sì, lo è, ma infatti il Decreto serve a questo.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Il prosciutto cotto che troviamo nei tramezzini del bar, sulla pizza, nei toast che facciamo a casa potrebbe essere proprio come questo. E gli ingredienti sono molti di più di quelli che leggiamo in etichetta. Ce lo racconta un pentito dell’industria chimica che per anni ha lavorato con i grandi marchi italiani e l’industria della carne.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Nel tempo si è approfittato per aumentare la parte di acqua da mettere all’interno della carne. Quindi con cento chili di carne tu riesci a fare 170 chili di prosciutto cotto finito.

LUCINA PATERNESI Come si fa a fare un prosciutto cotto con il 60-75% di acqua?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Con tanta chimica.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Il nostro insider è un tecnico che per anni ha prodotto i mix di polveri da vendere all’industria. Ogni giorno creava miscele di acqua e chimica, tanta chimica, e ci mostra per la prima volta come lavora l’industria.

LUCINA PATERNESI Che cosa c’è in questi sacchetti?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA C’è una parte funzionale che serve per inglobare l’acqua ed è formata da ingredienti chimici che hanno l’azione non solo di fare bere l’acqua alla carne ma anche di ricompattare la carne una volta messa in cottura. Allora adesso mettiamo la parte di antiossidante, le due parti di fosfato, che anche queste saranno fondamentali per far venire fuori la forma quadrata. Mettiamo anche la parte di sale, questa è una miscela di vari aromi.

LUCINA PATERNESI Servono a?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA A dare il sapore perché, avendo diluito la materia prima in maniera così importante, bisogna dare una mano al sapore.

LUCINA PATERNESI E infine?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA E adesso aggiungiamo anche il nostro colorante.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La carne viene aggiunta solo in seguito e il paradosso è che viene tritata e sminuzzata per poi essere ricomposta. LUCINA PATERNESI Ma non si faceva prima a usare una coscia intera?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Una coscia intera non puoi inserire tutta quell’acqua.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In appena 12 ore la carne assorbe tutto il liquido e raddoppia di volume.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Questo è il nostro risultato. L’acqua è stata tutta assorbita, vedi che è tutto bello appiccicoso. Adesso prendiamo uno stampo, si versa pian piano nello stampo in modo tale che la forma della fetta è già quadrata. Qua chiudiamo e adesso cuciniamo per 8- 10 ore e dopo il prosciutto è pronto.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO L’aspetto lascia un po’ a desiderare, il prosciutto una volta cotto assume un colore rosa intenso, la forma è quadrata perché evita sprechi, tuttavia il profumo è lo stesso di un cotto artigianale. E il sapore?

LUCINA PATERNESI Buono!

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Queste sono le ricette di alcuni dei prodotti che troviamo in commercio. Ma chi li produce?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Non si può classificare un produttore come cattivo e uno buono, hai la stessa azienda che fa l’alta qualità e fa anche la pessima qualità. Noi lavoravamo per le grandi aziende, e anche tanti produttori con marchi non famosi ma che lavorano per queste aziende qui.

LUCINA PATERNESI Questo è come si fa il prosciutto cotto di questi tipi. Si sminuzza tutta la carne, salamoia, polveri.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Allora, io conosco tantissime aziende, sono nel settore da tanti anni, io non ho mai visto niente di simile. Non è una pratica che le aziende che Assica rappresenta fanno. Faccio un esempio: il colorante non è ammesso, non si può usare. L’altra sostanza…

LUCINA PATERNESI Ma è colorante naturale, è aroma.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Sì, ho capito, però non in quel modo. Quello che vedo lì non è un prosciutto cotto, oggettivamente, non può chiamarsi tale.

LUCINA PATERNESI Che cosa le chiedevano i suoi clienti?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA O proprio di creare delle miscele per delle produzioni particolari, oppure domandavano di nascondere numeri “E”.

LUCINA PATERNESI Cioè additivi?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Additivi, perché magari quella determinata grande distribuzione non li vuole però il produttore non è in grado di fare la produzione e aver quel guadagno senza quegli ingredienti.

LUCINA PATERNESI Vorrei sapere se il prosciutto cotto che è qui dentro viene fatto in questo modo. Se dentro c’è colla per carne per ricompattare insieme tutto, se dentro c’è il colorante.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Ci sono tutti i sistemi, tutti gli strumenti per controllare queste cose, le aziende sono responsabili della sicurezza alimentare dei loro prodotti. È ovvio che da parte dell’associazione quello che ho visto adesso è assolutamente non bello, non va bene, sono d’accordo con lei.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non è bello, no. Allora, il pentito dell’industria chimica che ha lavorato per grandi gruppi alimentari, dice: non esiste il produttore buono e quello cattivo. I produttori hanno una linea per l’alta qualità, l’altra per la linea più economica. Mentre invece Calderone, direttore delle associazioni produttrici di carne, dice: non ho mai visto una cosa simile. Allora, intanto facciamo chiarezza: il pentito dell’industria chimica ha realizzato quel prosciutto solo a scopo dimostrativo, però il metodo e le polveri sono quelle che vengono utilizzate in maniera più sofisticata dall’industria alimentare. Ora, per ricapitolare: come si riconosce un prosciutto di alta qualità da uno ricomposto? Il prosciutto di alta qualità viene intanto siringato con una salamoia che prevede massimo IL 15% di acqua, sale, zucchero e le spezie (pepe, aglio, cannella, chiodi di garofano, poi chi vuole ci mette anche altre cose). In più l’antiossidante e il conservante. Mentre invece per il ricostituito si prendono pezzi di carne, vengono tritati, si può mettere fino al 75% di acqua, sale, zucchero, poi amidi, le carragenine che sono un prodotto gelatinoso proveniente dalle alghe e altre sostanze che servono per far trattenere alla carne l’acqua e anche per incollare i pezzi tra di loro. Ma siccome hai messo anche tanta acqua devi poi poter recuperare il sapore. E che cosa fai? Usi della polvere di spezie, polvere di proteine di animali, il colorante naturale rosa, ultimo tocco: i fosfati, che servono per stabilizzare il prodotto e dargli una bella forma quadrata. E grazie al disciplinare puoi chiamarlo prosciutto cotto. Ora, è un grande favore fatto all’industria alimentare però è anche un’opportunità per il consumatore meno abbiente, però il consumatore come fa a distinguere? Insomma, qualche consiglio è quello di vedere intanto con l’occhio le tre forme dei muscoli, no, e si vedono nel prosciutto di alta qualità. Poi diffidare se un prodotto è troppo umido, troppo colorato di rosa e se ha la forma squadrata. Ecco, questi sono degli indicatori perché i consumatori in Germania sono invece più favoriti perché c’è l’obbligo lì di dire se un prosciutto è ricomposto, è fatto da carne ricomposta. Noi qui invece abbiamo l’obbligo di segnalare se c’è la presenza di acqua che supera il 5% ma anche là non tutti lo fanno, come non tutti dichiarano se c’è la colla per la carne.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora per la prima volta un pentito dell’industria chimica che ha lavorato per quella alimentare ci ha fatto vedere come si produce un prosciutto cotto ricostituito. Insomma, con pezzi di carne tritata e poi tanta acqua e tanta, tanta polvere, questa, e poi anche un po’ di colla per la carne.

LUCINA PATERNESI Ma il consumatore alla fine lo sa che qui c'è magari il 60% di acqua?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Non credo.

LUCINA PATERNESI Nell’etichetta si può rintracciare?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE No.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Le etichette spesso nascondono molti ingredienti e fasi di lavorazione. L’acqua aggiunta oltre il 5% dovrebbe essere dichiarata, ma non tutti lo fanno.

LUCINA PATERNESI Qui secondo lei non c’è acqua aggiunta? Qui acqua aggiunta non c’è scritto. Qui acqua aggiunta non c’è scritto ma l’acqua la vedrà.

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Per definire che questi prodotti siano non, come dire, correttamente etichettati bisogna andare a verificare se la percentuale di acqua aggiunta sia superiore o meno al 5%. Io da una visione così, è un prosciutto cotto di alta qualità, oggettivamente potrebbe tranquillamente…

 LUCINA PATERNESI Secondo lei è un prosciutto cotto di alta qualità come quello fatto artigianale, pressato a mano?

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Non è una questione di essere fatto… no no, guardi. Questa confezione qua, quando non c’è scritto acqua aggiunta, è presumibile che non ci sia. Ovviamente, come in tutte le situazioni, può esserci l’errore o può esserci la mancata indicazione.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO E gli altri ingredienti di un prodotto industriale quali sono? Nei preparati ricomposti l’elenco è lunghissimo.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Sale, sciroppo di glucosio, parliamo sempre di zuccheri, destrosio, aromi, addensanti, qui iniziamo a trovare un ingrediente nuovo che è addensante, carragenina.

LUCINA PATERNESI Cioè serve appunto per tenere insieme questi pezzi di carne.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Sono alghe. Fecola di patata. Poi qui abbiamo gli stabilizzanti, sono i difosfati e i trifosfati, sono i polifosfati.

LUCINA PATERNESI Stabilizzante che cosa significa, appunto sempre per tenere insieme?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Sempre per tenere insieme, per legare.

LUCINA PATERNESI Cose che altrimenti non starebbero insieme.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Non starebbero insieme.

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Sono delle sostanze, anche queste, abbastanza pericolose. Hanno un effetto negativo soprattutto sul metabolismo del calcio dell’osso. Il motivo per cui negli alimenti da bambini i polifosfati sono stati tolti.

LUCINA PATERNESI E gli amidi?

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Tecnicamente gli amidi hanno un effetto glicemico, non sono certo, come dire, additivi da mettere come pericolosi.

LUCINA PATERNESI Quindi il diabetico dovrebbe evitare questo tipo di prodotti?

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Il diabetico deve essere consapevole del fatto che non sta mangiando carne ma sta mangiando un alimento con destrosio.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Anche le proteine animali sono polveri chimiche e si possono non dichiarare.

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Sì, si possono, possono sicuramente esserci degli ingredienti che tu non hai obbligo di dichiarazione. Sono le proteine, suine, proteine della carne. Per legge, rientrano negli aromi.

LUCINA PATERNESI Ma a che servono?

GIANLUCA BIGLIARDI - TECNOLOGO ALIMENTARE Per legare meglio il prodotto.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO A volte vengono inserite anche all’insaputa di chi sta producendo quel prosciutto.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA In certe situazioni neanche l’addetto o il responsabile di una linea di produzione sa cosa c’è dentro i sacchi che butti.

LUCINA PATERNESI Ma nelle schede tecniche di questi sacchi…

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Su questa scheda tecnica viene dichiarato l’amido, il destrosio, e dopo vengono messi… la dicitura aroma naturale. E dopo abbiamo la transglutaminasi che loro dichiarano ma che dopo il produttore non dichiarerà.

LUCINA PATERNESI Ma se sono ricomposti e c’è molta più acqua e c’è transglutaminasi, colla per carni non dichiarabile in etichetta, ma il consumatore ha il diritto o no di saperlo?

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Sono prodotti che chiaramente costano molto meno, hanno una loro allocazione sul mercato, questo non vieta di farli perché comunque magari garantiscono sicurezza alimentare allo stesso modo, l’importante è che siano etichettati correttamente. Io sono perfettamente d’accordo con lei.

LUCINA PATERNESI Lei se lo fa il panino con quel cubotto a casa?

DAVIDE CALDERONE – DIRETTORE ASSOCIAZIONE INDUSTRIALI DELLE CARNI E DEI SALUMI Sì, io non lo vedo problematico, questo è fuori frigo da tre giorni… Questa però cosa costerà? Io posso permettermelo di comprare una cosa più buona? Me la compro; scusi lei quando va a mangiare il pesce può permettersi tutte le volte il caviale o le ostriche Gilardeau? Probabilmente no, neanche io, quindi, voglio dire, magari mi accontento dell’aringa o dell’acciuga. È la stessa cosa.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La transglutaminasi, un enzima di origine batterica. Diversamente dagli additivi alimentari, gli enzimi e i coadiuvanti tecnologici possono non essere dichiarati in etichetta secondo il Regolamento Europeo del 2008. Viene utilizzata in tantissimi prodotti: dalla lievitazione ai gelati, dagli yogurt ai formaggi e alle mozzarelle, oltre che per incollare insieme pezzi di carne.

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Compatta le proteine e aumenta la resa.

LUCINA PATERNESI Tiene insieme, no?

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Serve per non far migrare le proteine del latte nel siero.

LUCINA PATERNESI Quindi si usa anche nelle mozzarelle?

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Si usa anche… Ce l’hanno chiesta proprio ieri un caseificio turco.

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Il problema della transglutaminasi è che in Italia eh, poi in Turchia non lo so, per essere utilizzata come…

LUCINA PATERNESI Coadiuvante?

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Coadiuvante, bisogna che non ci rimanga traccia di transglutaminasi dopo, dopo… ci vuole un trattamento termico immediatamente dopo.

 LUCINA PATERNESI Per questo la usano nella carne e non…

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PA.RMA Nella carne dopo che è cotta ad esempio.

LUCINA PATERNESI Per non dichiararla in etichetta.

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA Per non dichiararla.

LUCINA PATERNESI Ma perché non si potrebbe dichiarare? Cioè, è un enzima naturale, no?

RIVENDITORE AROMI - CIBUS TEC PARMA È un enzima però… siccome con la transglutaminasi poi ci sono anche dei problemi di intolleranze, crea dei problemi all’intestino allora bisogna che non sia attivo l’enzima. LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La chiamano la colla per carne e all’estero viene utilizzata persino per creare un polpettone fatto di capesante incollate insieme e messe sottovuoto. Una volta cotta la transglutaminasi si inattiva e non se ne trova traccia nel prodotto finito. I più grandi produttori sono i giapponesi, i cinesi e anche un’azienda italiana per un valore di oltre 474 milioni di dollari nel 2021 e una previsione di crescita del mercato del 7,4% in dieci anni. Un lavoro di ricerca della facoltà di medicina di Haifa in Israele e di un istituto tedesco ipotizza che la transglutaminasi aggiunta nei cibi processati potrebbe contribuire a scatenare nei celiaci reazioni autoimmuni.

ALESSIO FASANO - PEDIATRA E GASTROENETEROLOGO HARVARD MEDICAL SCHOOL Loro fanno questo tipo di ipotesi che appunto questa accelerazione dell’aumento della celiachia sia anche dovuto al fatto che l’industria alimentare ha usato e forse abusato l’uso della transglutaminasi.

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Quello che dovremmo capire perfettamente è in base alle quantità di transglutaminasi quante vengono realmente digerite a livello gastrico. Servono studi per definire questi rischi.

LUCINA PATERNESI Non ci sono. ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Esattamente.

LUCINA PATERNESI Nel frattempo l’industria può liberamente utilizzarla.

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Questo succede per la maggior parte delle sostanze chimiche che noi utilizziamo negli alimenti e nell’ambiente. Il problema fondamentale è che l’industria del cibo non si occupa mai di salute. Il punto fondamentale loro di arrivo è la palatabilità.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO I rischi li sta valutando l’Efsa, l’Autorità europea di sicurezza alimentare. Se la prendono comoda: entro il 2099 avranno stabilito se la transglutaminasi aggiunta agli alimenti può essere rischiosa.

ENZO SPISNI – DIRETTORE LABORATORIO FISIOLOGIA DELLA NUTRIZIONE UNIVERSITÀ DI BOLOGNA I dossier che vengo presentati a Efsa su queste sostanze nuove sono dossier aziendali, quindi è l’azienda che presenta il dossier dicendo: va benissimo perché questo, perché questo, eccetera…

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Di questi tre hamburger, quale sceglieresti?

LUCINA PATERNESI Beh, questo sembra il più bello: lucido, vivo, sembra appena macinato.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Si presenta bene.

LUCINA PATERNESI Forse questo.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Hai scelto l’hamburger che è stato colorato e a cui è stata aggiunta una grande parte di acqua. In realtà l’hamburger naturale, con solo il sale, è questo qui.

LUCINA PATERNESI Che sembra in realtà più vecchio.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Che sembra più vecchio perché abbiamo l’idea che gli hamburger debbano essere rosso fuoco, mentre la carne macinata ha questo colore. Qui abbiamo 100 grammi di carne, qui abbiamo 80 grammi di carne e 20 grammi di acqua.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La carne una volta tritata viene emulsionata con questi mix e con altri ingredienti.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Carne, il sale, l’acqua e la polvere che farà l’azione di bere tutta l’acqua.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Che cosa contiene questo mix di polveri rosa?

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Qui ci sono dentro delle fibre che hanno l’azione di bere questa acqua. Dentro è rosa perché c’è un colorante, diluiamo la materia per cui mettiamo dentro anche dell’aroma perché se no non sa più di hamburger.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO In cottura la forma rimane perfetta, mentre quelli composti da sola carne si arricciano e diventano più scuri.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Quello colorato con l’acqua risulta bello vivace.

LUCINA PATERNESI Lo apriamo.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA E lo apriamo. LUCINA PATERNESI Dentro è rimasto rosa.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Mentre quello naturale sarà completamente bianco. In questi dieci minuti che abbiamo cucinato possiamo vedere come l’hamburger senza nessun ingrediente a parte il sale si è ossidato, ok? Mentre il nostro hamburger colorato rimane tale e quale. Tanto lo hai già comprato al supermercato.

LUCINA PATERNESI Beh, è molto più saporito, buono.

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA È molto più saporito.

 LUCINA PATERNESI Buono!

EX TECNICO AZIENDA CHIMICA Buono. Ed ecco che abbiamo convinto un’altra consumatrice a prendere il nostro hamburger.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È facile conquistare un nuovo consumatore anche perché abbiamo perso completamente la cultura del cibo. Gli affabulatori dell’industria alimentare hanno vinto dopo un paziente e certosino lavoro ai fianchi del palato. Ecco, e per quello che riguarda le nostre scelte preferiamo una bella fetta di prosciutto cotto di color rosa, quando invece la carne cotta è di colore marrone. Per quello che riguarda invece la transglutaminasi, è un enzima che si trova in natura, non si conosce qual è l’impatto sulla salute umana: alcuni studi fanno sospettare che possa accelerare la celiachia nei soggetti predisposti. Il paradosso è che viene utilizzata per assemblare farine senza glutine per celiaci, ecco, e non viene neanche messa in etichetta perché è un coadiuvante tecnologico. In merito ad eventuali rischi l’Efsa, l’Agenzia europea per la salute alimentare, ci fa sapere che comincerà a darci qualche risultato a partire da marzo del 2023 e ci ricorda che nel frattempo l’ente preposto, responsabile, è il ministero della Salute, interpellate il ministero della Salute, ci ha detto. Ecco, noi l’abbiamo fatto ma il ministero non ci ha risposto.

Da repubblica.it il 17 ottobre 2022.

“Non c’è dubbio si apprezzi il salame perché ha una storia, un radicamento, un’importanza culturale e gastronomica fondamentale per questo territorio, ma anche simbolo diffuso della Liguria”. Parola del  presidente di Regione Liguria Giovanni Toti in occasione della festa del salame di S. Olcese.

Da ieri il poliedrico governatore può fregiarsi di un altro titolo: è infatti stato nominato  Nobile Protettore dell’arte del salame. Un riconoscimento nei confronti del presidente di Regione Liguria che si è concretizzato con una cerimonia solenne nell’Oratorio di San Giovanni Battista, a Sant Olcese. L'onere dell'investitura è toccato ad  Andrea Pedemonte Cabella la cui bisnonna oltre 100 anni fa aveva dato il via all’omonimo salumificio.

“Un prodotto che è inserito in un’offerta integrata che regala alle persone che sono qui oggi un’emozione particolare – aggiunge Toti - fatta anche da altri prodotti come il pesto, i nostri vitigni autoctoni, o una tela di Rubens dentro un palazzo di Genova o lo scorcio di un tramonto dalle alture della città. Quei beni non delocalizzabili che fanno dell’Italia un posto unico. E’ difficile riprodurre la bellezza dei Rolli, o la sapienza del nostro pesto, e i profumi di una terra che è unica, compreso il salame di Sant'Olcese che fa parte a pieno titolo della nostra tradizione".

La Porchetta. Gemma Gaetani per "la Verità" l'11 giugno 2021.

Alcuni, tra cui il candidato sindaco di Roma Carlo Calenda, hanno usato la ormai nota statua Dal panino si va in piazza del giovane artista Amedeo Longo in chiave anti Raggi, ostentandola sui social come esempio di orrore della sua amministrazione. Concordiamo che l'amministrazione pentastellata della capitale sia stata orrida, ma forse il concorso per la statua che celebra un piatto italiano così importante è una delle rarissime cose buone di questo quinquennio politico romano. Stupisce che l'industriale 4.0 Calenda si sia scagliato in maniera così grossolana contro la raffigurazione celebrativa di un'eccellenza del cibo italiano, che non è solo cultura, ma anche giro d'affari.

Lo sa bene Matteo Salvini, che seppure accusato in passato da Michela Murgia di avere «il muso unto di porchetta» come se la cosa fosse vergognosa (ma la Murgia si nutre di ambrosia e nettare degli dei?), invece non si vergogna a mangiarla e difenderla come patrimonio tricolore: nel 2018 il Messaggero raccontò che il leader leghista aveva organizzato una festa nella sua residenza romana a base di porchetta di Ariccia, nel 2019 twittò, con una bella pagnottella ripiena in mano: «Spero nessuno abbia qualcosa da ridire se mangio un panino con la porchetta offerto dagli amici di Campli!».

Dopo le proteste e i danni degli attivisti animalisti, la statua della porchetta a Trastevere è stata rimossa per essere restaurata. La presidente del Municipio Roma Centro, Sabrina Alfonsi, ha pronunciato parole che non possiamo non condividere: «La violenza con cui una minoranza di persone hanno manifestato la loro contrarietà è inaccettabile». E ci auguriamo che rimetta la statua al suo posto e non assecondi l'Oipa (della quale apprezziamo le attività di protezione degli animali, ma non amiamo la lotta per l'imposizione del vegetarismo) la cui delegata romana Rita Corboli ha dichiarato: «La "statua della discordia" rende chiara la sofferenza degli animali, declassati a meri oggetti e a cibo per gli uomini. Il sangue innocente versato per tradizioni insensate e anacronistiche non potrà mai essere arte». Ma la statua eccome se è arte, perché imita perfettamente la vera preparazione, e la porchetta, oltre che arte di Amedeo Longo, è cibo.

La porchetta è una preparazione tipicamente italiana, in particolar modo diffusa in alcune regioni dell'Italia centrale e qualcuna settentrionale. Si trova dove ci sono vigne e si fa il vino, essendo il tipico cibo delle «merende in cantina», ma è anche un classico dei venditori ambulanti che offrono i panini in sagre, mercati, feste oppure, stabilmente, sul territorio. Non si conosce con certezza l'origine del busto di maiale (rigorosamente femmina ad Ariccia) intero, svuotato, disossato e condito, anche perché, come spesso avviene, molti ne reclamano l'ideazione. In primo luogo gli abitanti di Ariccia, comune in provincia di Roma, nella zona - vinicola, appunto - dei Castelli.

Ma la tradizione è antichissima in molti altri siti: a Norcia, dove già i Romani allevavano maiali (tanto che «norcino» è sinonimo di «salumiere»); nel Lazio centrale (secondo alcuni sarebbe nata a Poggio Bustone in provincia di Rieti, dove è nato anche Lucio Battisti); a Campli in provincia di Teramo; nelle Marche, in Romagna e nel Ferrarese, mentre la diffusione in Veneto, dove è molto amata a Treviso e Padova, risalirebbe al secolo scorso. Qui si tengono anche sagre a essa dedicate, in quasi ogni momento dell'anno. La società americana Reservation ha ideato un giro del mondo in 365 giorni per inseguire la primavera, costo tra i 24.000 e i 47.000 euro. Spendendo molto meno, si potrebbe girare quasi tutta l'Italia per quasi un anno semplicemente partecipando a tutte le sagre della porchetta.

C'è a gennaio a Sant' Antonio Abate, alle pendici del Vesuvio; a San Terenziano-Gualdo Cattaneo in Umbria e a Monterado nelle Marche a maggio; a Campli, in Abruzzo, a Costano, in Umbria e a Selci, nel Lazio, in agosto; a Monte San Savino, in Toscana, e ad Ariccia, nel Lazio, a settembre; a Poggio Bustone, ancora nel Lazio, in ottobre.

Pur essendo una preparazione diffusa quasi in tutta Italia, solo la porchetta di Ariccia ha ottenuto il riconoscimento europeo di Igp (Indicazione geografica protetta) un decennio fa, il 14 giugno 2011. Il legame tra porchetta e Ariccia pare avere età millenaria, precedente la conquista romana dei territori occupati dai Latini. Provenivano da Ariccia i sacerdoti che preparavano le carni suine da offrire in sacrificio nel tempio di Giove Laziare sul vicino Monte Cavo. E, successivamente, la maestria artigiana e l'uso presso molte famiglie ariccine di preparare le tipiche porchette sono state affinate dall'abitudine dei nobili romani di trasferirsi ad Ariccia per la stagione estiva o per effettuare battute di caccia.

Maestria e abitudine sono state tramandate di generazione in generazione fino a noi, come testimonia Giulio Cesare Gerlini nel libro del 1974 Ariccia Storia-Arte-Folclore: «L'arte di preparare i porcellini destinati a diventare "porchetta" si può dire che è una esclusività di poche famiglie ariccine i cui componenti si tramandano di padre in figlio». Egli spiega anche che «l'idea della sagra venne perché si desiderava far conoscere che il prodotto ariccino si era affermato a tal punto che persino all'estero viene spedita a imbandire tavoli di conosciuti ristoranti e locali alla moda»: dal 1950, infatti, il piatto è protagonista della Sagra della porchetta di Ariccia, ideata dall'allora sindaco Domenico Ovidio Cioli, che ancora prosegue, ogni anno a settembre, nella suggestiva Piazza di Corte, progettata dal Bernini su commissione di papa Alessandro VII.

Nella rivista I Castelli romani - Vicende, uomini, folclore, Vincenzo Misserville nel 1958 scrive che «tra le numerose sagre dei Castelli, quella ariccina "della Porchetta e del Pane casareccio" è forse l'unica che, per il suo carattere di semplicità paesana, giustifica il suo appellativo: persino nella denominazione essa ha un sapore schiettamente casalingo». Casalingo e musicale. Nel 1962, infatti, il duo artistico e sentimentale Rita Pavone e Teddy Reno ideò la rassegna canora Festival degli sconosciuti, anche detto Talentiere, fondendo gastronomia e musica (sul palco ariccino si sono esibiti da Domenico Modugno a Marcella Bella, da Claudio Baglioni a Ivan Cattaneo).

Nel 1957, Carlo Emilio Gadda nel romanzo Quer pasticciaccio brutto de via Merulana descrive la vendita della porchetta di Ariccia a Roma facendo dire al venditore: «La porca, la porca! Ciavemo la porchetta signori! La bella porca del'Ariccia co' un bosco de rosmarino in de la panza! Co' le patatine de staggione!... Carne fina e delicata, pe' li signori proprio! Assaggiatela e proverete, v' oo dico io, sore spose: carne fina e saporita!... Porchetta arrosto cor rosmarino! e co' le patate de stagione...». Il rosmarino è una delle caratteristiche della porchetta aricciana e in generale laziale.

Ciò che caratterizza la porchetta è anche il modo di condire, aromatizzare, legare e predisporre per la cottura. I porchettari ariccini, così si chiamavano e vengono ancora chiamate le famiglie che sono storiche produttrici, secondo tradizione usano soltanto animali femmine. Quindi la porca, cioè la femmina del porco, nome popolare del maiale, perché ha carne più magra e saporita rispetto a quella del maschio, che diventa «porchetta» perché è piccola: si scelgono infatti suini di 1 anno, del peso massimo inferiore al quintale. Dopo essere stati uccisi e dissanguati, si immergono in una caldaia d'acqua bollente per procedere alla depilazione e al lavaggio. Poi si apre, si eviscera, disossa e condisce con sale da cucina, pepe, teste d'aglio vestito e, a seconda della tradizione, fegato e milza tagliati a tocchetti e manciate di rosmarino o di finocchio selvatico.

Qui si profila un'importante differenza tra le varie porchette italiane, oltre al fatto che l'uso della femmina sia tassativo, per disciplinare, solo ad Ariccia. Nella Toscana meridionale, nei Castelli Romani del Sud, in Sabina e in altre aree del Centro Italia, si aromatizza con il rosmarino (ramerino in toscano). Nell'Alto Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Romagna si aromatizza con il finocchio selvatico. La porchetta di Campli si differenzia ancora: non si usa il finocchio selvatico. Dopo il condimento, la porchetta viene infilzata con un bastone che fuoriesce dalla bocca e dall'altra estremità, utile anche per trasportarla post cottura, e si lega bene con lo spago. Alle fasi della disossatura e speziatura segue quindi la legatura, che serve a mantenere compatte le carni perché non si slabbrino troppo durante la delicata fase del taglio che avviene durante la vendita sui banchi (l'animale all'interno è cavo).

Infine, c'è il processo di cottura al forno, con vasche di raccolta dei grassi liquefatti, per un tempo che può andare dalle 5 alle 8 ore, a seconda del peso. Secondo tradizione, la porchetta andrebbe cotta nel forno a legna, proprio come la pizza. Tuttavia, giusto come avviene per la pizza, oggi si usa cucinarla anche nei forni elettrici senza alcuno scandalo. In alcune località si preferiscono maiali più giovani, di 6 o 7 mesi. In ogni caso, il peso della carcassa intera e disossata con zampe e testa è solitamente compreso tra 60 e 90 chili e quello del tronchetto, cioè la porzione della mezzena (mezzo suino senza testa) tra 14 e 25, mentre il peso post cottura deve essere, rispettivamente, tra 27 e 45 chili e tra 7 e 13 chili. Sono questi i due tagli tipicamente prodotti per la vendita.

È molto difficile risalire alle calorie per 100 grammi di porchetta, perché la quantità di grasso residuo dopo la cottura varia in funzione dell'effettiva zona alla quale appartengono le fette. Per 100 grammi di pietanza molto grassa, come nel caso della pancia, possiamo avere tra le 400 e le 500 calorie, per 100 di quella semigrassa del coscio, del lombo, della spalla e del collo dalle 300 alle 400 calorie, per quella molto magra da 180 a 200 calorie. Di media, abbiamo comunque questi valori: 240 calorie per 100 grammi, 18 grammi di grassi di cui 7,1 saturi, 0,7 grammi di carboidrati, 19 grammi di proteine, 1,8 grammi di sale, 0,416 grammi di potassio. In sostanza, la porchetta è un arrosto e infatti è tipicamente consumato a fette. La loro collocazione ideale è tra due fette di pagnotta o all'interno di un panino sempre rustico, come la rosetta (michetta fuori Lazio) o la ciriola, preferibilmente caldo. Il pane si può anche non scaldare, ma la porchetta dovrebbe essere calda, appena sfornata o anche riscaldata.

Se si vuol stare più leggeri, senza pane, si può consumare direttamente in piatto proprio come l'arrosto, accompagnata da verdure o legumi di contorno, che grazie alle fibre possono diminuire l'impatto dei grassi modulandone l'assorbimento - parte del grasso è assorbito dalla fibra che soprattutto se insolubile non assimiliamo, non da noi. Se da una parte abbiamo le proteine nobili della carne di maiale, dette ad alto valore biologico perché di facile assorbimento e comprensive di amminoacidi che il nostro organismo non è in grado di sintetizzare da solo, che aiutano a riparare i tessuti, generare energia e mantenere pelle e capelli sani, dall'altra parte abbiamo anche una quota di grassi.

Diversamente da quanto pensano in molti, la cotenna della porchetta, che grazie alla lunga cottura diventa particolarmente croccante e saporita, non contiene molti grassi, apporta soprattutto proteine (è ricca di collagene, la principale proteina del tessuto connettivo negli animali). Il grasso è sotto, nel tessuto adiposo. Ma anche in questo caso, non si tratta di grassi preoccupanti. Dovremmo togliere questa parte solo se stiamo seguendo una dieta dimagrante o soffriamo di ipercolesterolemia o di ipertrigliceridemia. In un'alimentazione normale, i grassi devono fornire dal 20 al 40% delle calorie totali quotidiane, e dovrebbero essere per il 55% grassi monoinsaturi, 20% polinsaturi e 25% grassi saturi e idrogenati: la carne di maiale è l'unica che contiene più grassi monoinsaturi e polinsaturi che saturi, quindi il suo rapporto lipidico è in linea con questa regola (eccedere con i grassi saturi può condurre a un maggior rischio di sviluppare patologie cardiovascolari e tumorali).

Abbiamo poi anche vitamine come la PP (la Pellagra Preventive, anche detta niacina), utile al sistema nervoso, alla pelle e alla digestione, la vitamina A (che aiuta la vista e il sistema immunitario e nella carne troviamo in forma definitiva di retinolo, nei vegetali, invece, in quella dei carotenoidi che sono precursori di vitamina A) e le vitamine del gruppo B (che favoriscono il funzionamento del sistema nervoso e il tono muscolare, oltre a trasformare i carboidrati in glucosio, perciò sono considerate vitamine antistanchezza). Per i minerali, abbiamo il ferro, che nella carne è presente sia come ferro eme - maggiormente assorbibile - che come ferro non eme, mentre negli alimenti di origine vegetale troviamo solo ferro non eme, poi potassio e sodio, molto utili durante la calura estiva.

La porchetta, volente o nolente l'attivista animalista che pretende di eliminare la tradizione perché infastidisce il suo sguardo, appartiene alla cultura italiana pop e non soltanto, oltre che a quella gastronomica. Nel 2010 siamo entrati nel Guinness dei primati con il record di porchetta più lunga del mondo (44,93 metri), ottenuto legando più maiali a Monte San Savino. E nel disegno di Leonardo da Vinci RL12397, della collezione di suoi disegni conservati nel Castello di Windsor a Londra e proprietà della regina Elisabetta, che apparentemente raffigura un paesaggio di rocce, lo studioso di pittura rinascimentale Antonio Zambetta ha rintracciato una composizione nascosta di figure di altro senso, tra le quali una porchetta, con tanto di segni di legatura e capi dello spago. La tesi è esposta nel libro I mille volti di Leonardo - Leonardo oltre il visibile.

Nel libro di Alessandro Vezzosi, Agnese Sabat e lo chef Enrico Panero del ristorante Leonardo da Vinci di Eataly Firenze, Leonardo non era vegetariano. Dalla lista della spesa di Leonardo alle ricette di Panero (Maschietto editore), si spiega come Leonardo acquistasse e cucinasse anche carne, nonostante venga spacciato da molti vegetariani come vegetariano. 

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 23 agosto 2022.  

Montegiove è un borgo di poche anime dell'Alto Orvietano dominato dalla mole del castello medioevale dei marchesi Misciattelli, impegnati da tempo in una colta opera di tutela del territorio e delle sue qualità, anche con vini, premiatissimi come Elicius, godibile uvaggio di Montepulciano e Sagrantino. Ma non è il vino la sola eccellenza, perché ai piedi del borgo si apre la macelleria laboratorio di Franco Zazzarini, Franchino per tutti, norcino come il nonno Napoleone, ma soprattutto porchettaro supremo.

 Per trovarlo conviene prendere un appuntamento, ma è molto più divertente coglierlo col suo furgone mobile in giro per fiere e sagre dell'Umbria. Leader irresistibile, cantante e chitarrista dilettante, bisogna sentire Franchino quando con fare complice declama lo facciamo col mucchio?, dove il mucchio sta per una notevole mole di porchetta che affianca il pane col quale sarà accompagnata.

COME DISOSSARE

«Da noi il segreto sta nella scelta rigorosa dei maiali - spiega Zazzarini - nella cottura dolce in forno a legna (così la porchetta esce morbida e croccante), nella scelta della legna giusta. Si disossa a mano, fegato, stomaco, zampe e orecchie vanno bollite prima di essere impiegate nel ripieno. Ma soprattutto non deve mancare il finocchietto selvatico, che io vado a raccogliermi per campi e che è il profumo che fa la differenza».

Una differenza che è in qualche modo anche un marcatore culturale che separa la porchetta della Tuscia e dell'Umbria dalla classica porchetta romana, quella che parte dal rosmarino. Basti ricordare l'ambulante evocato da Gadda nel Pasticciaccio: Ciavemo la porchetta signori! La bella porca de l'Ariccia co' un bosco de rosmarino in de la panza! Co' le patatine de staggione! Carne fine e delicata pe' li signori proprio. In questo pensiero gaddiano c'è tutto: il rosmarino, tanto, l'idea del cibo di strada, ma soprattutto la paternità di Ariccia come capitale di questa specialità.

 E se Ovidio Cioli, sindaco di Ariccia, fu l'inventore della prima sagra, nel 1950, non va dimenticato anche che, dal giugno 2011, la porchetta di Ariccia può vantare la tutela dell'Igp. Chioschi, ambulanti, fraschette, davvero ad Ariccia non c'è che l'imbarazzo della scelta.

LE COTTURE

Ma altre porchette buone si possono trovare in giro per l'Italia, specie al Centro, dal Chianti a Campli nel teramano, fino alle Marche o ancora, a Nord, il coscio cotto intero con l'osso, tipico del trevigiano. «Non dimentichiamo però che l'anno scorso il Ny Times ha citato una porchetta siciliana come una delle cinque eccellenze gastronomiche top del mondo - sorride Stefania Agnello, aristocratica siciliana e raffinata trend setter legata al mondo del cibo e dell'ospitalità.

 «La preparano nel messinese al Vecchio Carro nel parco dei Nebrodi. La concia è ecumenica: rosmarino, finocchietto, cannella, timo e salvia. Ma io trovo tutte da provare anche le cotture cosiddette in porchetta. Vale il coniglio a Rimini, oppure una chicca come la carpa sul lago Trasimeno».

La porchetta, street food per eccellenza, non poteva non suggestionare i grandi chef. Su tutti, Mario Uliassi, tre stelle a Senigallia, che propone un panino a tre strati fatto con acqua affumicata (per dare il senso dei vecchi forni) nell'impasto: sopra lardo croccante al forno, in mezzo la porchetta (36 ore di cottura a bassa temperatura con scorza di arancia) e poi cotenna bollita e quindi fritta.

Gemma Gaetani per “la Verità” il 4 aprile 2022.

«I salumi, dalla pancetta salata cinese alla bresaola lombarda, hanno nutrito popoli interi nei magri mesi invernali e stuzzicato il gusto di gourmet antichi e moderni», spiega Cibo. La storia illustrata di ciò che mangiamo, Gribaudo editore. L'ottica del libro è mondiale, ma se guardiamo solo ai nostri salumi scopriremo anche in questo caso, come si dice, un mondo. 

Li chiamiamo «affettati», trasformando un aggettivo in un sostantivo, perché ormai li compriamo sempre più spesso già a fette e impacchettati, ma dovremmo chiamarli salumi. In Italia ce ne sono 666 tipi diversi e si può certamente parlare di biodiversità norcina, che è un patrimonio culturale e anche economico, perché i nostri salumi sono apprezzati in tutto il mondo.

Con il termine «salume» si intende l'alimento a base di carne cruda o cotta «conciata» e conservata. La salumeria nasce come pratica atta a conservare la carne fresca per un consumo successivo e storicamente è direttamente collegata alla macellazione del maiale, animale che nel tradizionale abbattimento invernale forniva una quantità di carne impossibile da smaltire in breve tempo e che si doveva centellinare per tutto l'anno a venire. 

Il salume può esser fatto anche con altre carni, provenienti da altri animali da allevamento come bovini, oche, capre, asini, pecore, oppure carni di selvaggina come cinghiale, cervo, capriolo. Ci sono poi anche i salumi di pesce, ditelo al prossimo che vi decanterà le virtù del katsuobushi giapponese, il tonnetto fermentato, affumicato e seccato. Come la ficazza di tonno della Sicilia, la bottarga della Sardegna, i salami di trota del Trentino e del Piemonte e il musciame calabrese.

Ma il re della carne per salumi è certamente il maiale.

Per conservare la carne in forma di salume si può usare il pezzo intero, come nel caso del prosciutto con la coscia del maiale, che si sala a secco (è il prosciutto migliore), per immersione in salamoia o per iniezione salina, poi si stagiona. Oppure si può utilizzare la carne tritata: si mescola con grasso, che è sempre di maiale, e poi erbe e spezie, le più disparate, che costituiscono la cosiddetta concia, ed elementi odierni come destrosio, nitriti e nitrati, poi si inserisce in un contenitore che di solito è un budello animale o artificiale, cioè fatto di cellulosa o collagene, e poi si stagiona.

Consideriamo «salami» sinonimo di «salumi», ma i salami sono soltanto quelli di forma oblunga, come il salame Milano. Talvolta sono mini e poi ci sono i salami freschi come le salsicce che vanno consumate previa cottura e che in alcune zone d'Italia si chiamano, non a caso, salamelle. 

Nella generale criminalizzazione che oggi colpisce la carne e, di conseguenza, anche la carne conservata, si è affermato lo stereotipo della presunta insalubrità dei salumi. Le obiezioni più comuni sono: il contenuto di nitriti e nitrati, che però non tutti i salumi contengono, si trovano anche nelle verdure, addirittura in quantità maggiori, e se ne evita la trasformazione in nitrosammine tramite la vitamina C. Poi, la presenza di sale.

Il sale è un conservante naturale del salume, ne dobbiamo consumare massimo 5 grammi al giorno, ma una cosa che non tutti sanno è che sodio e sale non sono sinonimi. Per capire quanto sodio c'è nel sale che troviamo indicato sulle etichette basta dividere quel numero per 2,5: 5 grammi di sale corrispondono a 2 grammi di sodio e abbiamo bisogno di un quantitativo - ripetiamo, non eccessivo, non oltre 5 grammi - di sale quotidiano.  Rispetto a quelli del passato, i salumi contemporanei contengono dal 4% al 47% di sale in meno e, in ogni caso, basta avere l'accortezza di non salare troppo le pietanze che accompagnano i salumi e che li contengono.

Altra preoccupazione è il contenuto di grassi, ma il contenuto di grassi dei salumi odierni è molto diverso da quello dei salumi precedenti gli anni Novanta. A partire da quegli anni, infatti, si è cominciato a ridurre il contenuto di grassi saturi e colesterolo, preferendo i grassi monoinsaturi e polinsaturi, migliori, che sono passati dal 30% al 60% dei grassi totali nella maggior parte dei salumi. I salumi cotti hanno subìto la maggiore riduzione, quasi il 40%, il prosciutto cotto addirittura il 50%.

I salumi sono un'ottima alternativa alla carne da cuocere al momento e, in generale, al secondo piatto. Il consumo quotidiano di proteine raccomandato è di 0,9 grammi per chilo di peso corporeo: pesando 60 chili, dobbiamo assumere circa 54 grammi di proteine al giorno. Un macronutriente importantissimo contenuto nei salumi sono le proteine animali.

Suddividendo in tre, che sono i pasti medi della giornata, il numero di proteine totali, otteniamo una quota di 20 milligrammi, che troviamo in 60 grammi di bresaola, 70 di prosciutto crudo o di speck, 85 di coppa di Parma, 100 di prosciutto cotto oppure in un panino da 80 grammi con 40 di bresaola o 50 di prosciutto. Abbiamo poi il ferro, ricordiamoci che il ferro contenuto nella carne, il ferro eme, è diverso e più performante nell'ostacolare l'anemia rispetto al ferro di origine vegetale. Abbiamo poi le vitamine del gruppo B, che servono per la trasformazione dell'energia, la produzione dei globuli rossi, la sintesi proteica e la riparazione dei tessuti.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 6 marzo 2022.  

Se lo specchio di Cenerentola si fosse sentito domandare del salume più magro e non della più bella, la risposta sarebbe stata certamente: «È la bresaola il salume più magro del reame!». Secondo alcuni, il nome di questo salume di carne cruda essiccata dalla forma a parallelepipedo o cilindro, avvolto da budello (non sempre edibile) proviene da «brisiola», cioè braciola. 

Per Atlante Slow Food dei prodotti regionali italiani, Slow Food Editore, «l'origine del nome pare risalga al modo di dire salaa come brisa (salata come la brisa, una ghiandola dei bovini)». Secondo altri ancora bresaola deriva da brasa cioè brace, perché in passato il salume si faceva asciugare in locali riscaldati da bracieri. Chissà. In Italia, siamo tutti pazzi per la bresaola.  

Secondo dati Cia-Agricoltori italiani, il consumo di bresaola vale 454 milioni di euro, il settore occupa 1.400 persone per una produzione di 12.600 tonnellate, la grande distribuzione è il principale canale di vendita, cresce l'acquisto della bresaola in vaschetta (circa il 50% della produzione totale) rispetto a quello al banco taglio, la quota export è il 7% della produzione, quasi totalmente esperita dalle aziende del Consorzio della bresaola della Valtellina Igp, che si può produrre solo in provincia di Sondrio.  

Bresaola di qualità che si ricava dai muscoli della coscia di vitello come fesa, punta d'anca, sottofesa, magatello e sottosso (i tagli si rifilano, si conciano, si pongono in vasche tra strati di miscela salante, dopo 10 giorni si lavano, si asciugano, si insaccano nella bondeana di bovino e si stagionano al sole e poi in ambienti ventilati asciutti). 

Essendo un Igp, basta che solo uno tra gli stadi di produzione, trasformazione ed elaborazione si svolga nell'area geografica nella quale la tradizione del prodotto tutelato si è sviluppata. Le carni trattate oggi provengono anche da bovini allevati e macellati da Brasile, Argentina e Irlanda.  

Per alcuni, fare bresaole da animali che giungono da fuori Valtellina renderebbe quella bresaola meno valtellinese. Un'applicazione semplice semplice del concetto di territorialità farebbe in effetti pensare a un'origine rigorosamente locale della materia prima, altro che saper fare o clima necessario a elaborarla. 

Tuttavia, utilizzando un'ottica più complessa si capisce come a un rigore produttivo localista per prodotti originari di piccole zone dovrebbe corrispondere un consumo altrettanto piccolo e dunque locale. Per un consumo nazionale, come ci hanno spiegato sia la ristoratrice valtellinese Emma Marveggio di Sciatt à porter, sia il produttore di bresaole valtellinese Emilio Mottolini, gli animali allevati nella filiera carne in Valtellina non possono assolutamente soddisfare numeri così alti. Esistono varianti come la bresaola di cavallo, di cervo, di maiale, di bufalo oppure quella affumicata. 

Non è facile da trovare, ma c'è anche la bresaola cotta. Con gli scarti di produzione, le parti più vicine all'osso, si produce la slinzega. La bresaola è diventata un secondo piatto molto diffuso grazie alla preparazione tipica del carpaccio, che l'altra settimana abbiamo visto essere un affettato di carne cruda e fresca. 

Per estensione, il concetto si applica anche a pesce, verdura, frutta e carne in questo caso cruda ma essiccata. Per un carpaccio di bresaola a regola d'arte si crea una citronette con olio di oliva, succo di limone e pepe, ci si irrorano le fette e si lascia insaporire qualche minuto. Parmigiano e rucola (da apporre dopo la marinatura, 1 parte di rucola ogni 4-5 di bresaola) sono un'aggiunta nazionale, come il limone. 

Il carpaccio valtellinese originario è la «bresaola santa», fette al naturale affiancate da riccioli di burro al ginepro e pane di segale. Il Consorzio definisce la bresaola alleata della felicità perché aiuta a produrre serotonina, l'ormone del buonumore, grazie al triptofano, è ricca di vitamina B12 (0,77 microgrammi per 100 grammi), considerata la vitamina dell'energia, e fornisce zinco (4,5 milligrammi) e selenio (7 microgrammi) che aiutano il sistema immunitario. 

Presenta solo 151 calorie, 33,1 grammi di proteine (nobili, cioè quelle di origini animale) e con il suo ferro (2,6 milligrammi) aiuta la produzione di globuli rossi e contrasta l'anemia. Ricordiamoci che il ferro animale è ferro eme, più assorbibile di quello non eme vegetale. Inoltre, migliora l'assorbimento del ferro non eme, proprio come fa l'acido citrico del limone. Seppure il carpaccio rucola e limone sia più espressione di un gusto nazionale che di uno precisamente valtellinese, da un punto di vista salutistico l'abbinamento esalta l'assorbimento del ferro eme e non eme della combinazione. 

La bresaola contiene 1,6 grammi di sodio, rapporto sfavorevole con il potassio, 630 milligrammi (il rapporto virtuoso tra i due è pari a 1), ma è anche vero che il prosciutto ne contiene 6 grammi, il salame 4 e il cotto 2. Il limite massimo giornaliero di sodio è di 2 grammi: un etto di bresaola neanche lo tocca. Quanto al colesterolo, siamo a 63 milligrammi: il tetto giornaliero è di 300 milligrammi. Poiché un etto di bresaola è un quinto del massimo, via libera non solo alla conferma di salume decisamente magro, ma anche al consumo come secondo piatto o merenda (la bresaola è estremamente digeribile e si presta a essere consumata anche come merenda proteica, provate!).

Il crudo e il cotto. La tragedia in due aggettivi del prosciutto declassato. Maurizio Assalto su L'Inkiesta l'1 agosto 2022.

Se compare in una lista di panini o sul tavolo di un salumificio, il sostantivo viene ormai sempre omesso e al suo posto restano i suoi due classici attributi che designano il tipo di preparazione. Ciò avviene in nome della brevità, certo, ma anche della complicità tra parlanti.

Le cru et le cuit è il saggio del 1964, primo volume delle Mythologiques, in cui Claude Lévi-Strauss individuava la cottura dei cibi come snodo fondamentale nel passaggio dallo stato naturale a quello culturale. In Italia il titolo venne tradotto alla lettera due anni dopo (dal Saggiatore) come Il crudo e il cotto. Oggi non sarebbe possibile: si potrebbe scambiare per un libro sul prosciutto.

Perché, da molti anni ormai, il prosciutto ha perso il diritto al suo nome per ridursi a un aggettivo (sia pure sostantivato)? Il downgrading è sotto gli occhi (nelle orecchie, nella bocca) di tutti.

Al bar, pausa pranzo, tripudio di panini, tramezzini, focacce, croissant salati: pomodoro e mozzarella, speck e brie, bresaola e lattuga, salame, bresaola, crudo.

Sul treno, servizio ristorazione: “Ci sono rimasti solo panini: crudo, mortadella… Ah no, posso anche farle un toast: cotto e formaggio”.

Al ristorante, voce “antipasti”: “crudo e melone” (che poi chissà perché uno al ristorante, dicesi al ristorante non allo snack bar/tavola calda, dovrebbe ordinare un banale prosciutto e melone).

Dal salumiere: “Mi faccia due etti di crudo”, o anche, è lo stesso, “di cotto” (ecco, anche la signora si è adeguata all’andazzo; a resistere cocciutamente, come gli ultimi samurai nel Borneo, solo qualche strenuo ultraottantenne).

Dire semplicemente “crudo” o “cotto”, anziché stare a farla lunga con la parola “prosciutto”, non corrisponde soltanto a esigenze di brevità: sottintende tutta quella appiccicosa trama di complicità e di riconoscimento reciproco tra persone che si compiacciono di condividere un certo codice comunicativo, per lo più strampalato ma percepito come up-to-date (un po’ come quelli che dicono “settimana prossima” anziché “la settimana prossima”, su ciò cfr. “Linguaccia mia”).

Nella parola “prosciutto” si avverte forse un suono dimesso, logorato dall’uso casalingo, vagamente pantofolaio; al cospetto del quale “crudo” (latino crudus, sanguinolento, dalla stessa radice di cruor che si riferisce al sangue che cola da una ferita, mentre sanguis è quello che scorre nelle vene) evoca sensazioni forti, con la profondità della u velare chiusa che si pronuncia con le labbra spinte in avanti e la sonorità di quella erre che una voce femminile, in uno spot televisivo di alcuni anni fa, arroventava in una vibrazione densa di allusioni eroticheggianti (un nesso già lamentosamente implicato, nei madrigali cinque-secenteschi, dagli amanti infelici che all’amato/a insensibile rimproveravano il “crudo core”). Derubricato il prosciutto in presenza dell’aggettivo “crudo”, il dado era tratto e per imitazione-contrapposizione anche “cotto” si è messo in proprio.

Resta il fatto che “crudo” e “cotto”, in quanto aggettivi, sono quelli che in termini aristotelici si definirebbero “accidenti” (symbebokói), ossia determinazioni che non ineriscono in modo essenziale a un dato ente, ma vi si aggiungono (in latino accidunt, accadono, giungono sopra; il verbo greco è symbáino). E se giungono sopra, devono per forza avere sotto qualcosa: questo qualcosa è la prima e fondamentale categoria dell’essere, che Aristotele chiama hypokéimenon, letteralmente “ciò che sta sotto”, in latino substantia, ossia quel che di un ente non muta mai e lo distingue da tutto ciò che è accessorio. Dunque essere crudo o cotto è un accidente che può accadere soltanto se si dà qualcosa a cui farlo accadere, in questo caso il prosciutto (il quale prosciutto, peraltro, è già un disdicevole accidente per il povero maiale, ma vabbè).

Si dirà: è l’ellissi, bellezza (e tu non puoi farci niente). Nell’uso corrente “crudo” e “cotto” si sostantivano con l’omissione del sostantivo “prosciutto” (che è anche un modo di dematerializzare linguisticamente questo alimento, distanziandolo ulteriormente da ciò che vi sta sotto e quindi dall’atto di macellazione che ne è all’origine): e infatti tutti i dizionari, sub voce “crudo” e “cotto”, registrano queste accezioni come forme ellittiche. Ciò non toglie che a qualche orecchio possano risultare moleste, al pari di tanti vezzi linguistici, oltre a esporre a equivoci evitabili soltanto presupponendo la complicità comunicativa di cui sopra, che non sempre ci si può attendere da tutti. Nella salumeria il prosciutto non è l’unico prodotto crudo in vendita: ci sono anche il salame, il lardo, lo speck, oltre alla bresaola, alla pancetta, alla coppa, alla salsiccia che almeno, essendo di genere femminile, non possono ingenerare confusione quando un avventore chiede una certa quantità di “crudo”. Né di cotto c’è solo il prosciutto: altrettanto appetitoso (più problematico per i livelli di colesterolo) è ad esempio il salame cotto. Senza contare che la parola “cotto” è usata come sostantivo perlomeno dall’Ottocento per indicare il materiale laterizio ottenuto dall’argilla che si impiega soprattutto nella produzione delle piastrelle da pavimento.

Insomma, sarà pure l’ellissi, bellezza, ma ci sarebbe materia per una “tragedia in due battute” di Achille Campanile. Tuttavia non è vero che non possiamo farci nulla. Qualcosa possiamo fare: rimetterci in bocca il prosciutto non soltanto quando lo mangiamo.

 Giacomo A. Dente per "il Messaggero" il 15 febbraio 2022.

Ma chi lo ha mai detto che un tour gourmet non possa cominciare tra le austere stanze di un museo? E invece succede così con Bologna dove, attraversato il chiostro spettacolare di Palazzo Galvani, sede del Museo Civico Archeologico, chi si addentra fra le sale si imbatte in due stele romane del I secolo che raffigurano un porcaio col suo branco di maiali e un mortaio, in latino mortarium, dal cui nome deriverebbe la parola mortadella (che per alcuni avrebbe origine invece da un antico salume romano, il farcium myrtatum, caratterizzato dall'impiego del mirto come conservante-aromatizzante).

A distanza di due millenni, il museo vivente in città si chiama invece Simoni e si trova nei vicoletti del centro storico bolognese: spalle e guanciale come base, cottura a vapore secco di stufa per 20 ore e, a seguire, insaccatura in pelle naturale e legatura a mano per un prodotto di altissima artigianalità e straordinario sapore. 

In alternativa, a due passi da piazza Maggiore, c'è Pigro dal 2013 Mortadelleria dove il salume è accompagnato da un calice di bollicine, così non si rischia di fare la fine di Gordon Pym, il personaggio di E.A.Poe che, imbarcato verso i mari del Sud, soffrì una sete atroce perché aveva mangiato troppa mortadella. 

Insomma, cibo oggi di vocazione pop, certo, anche se in antico pensato per palati aristocratici, tanto da essere molto imitato già in tempi remoti, tanto che già nel 1661 il cardinale Farnese fu costretto a prescrivere con un bando ai salaroli una sorta di doc ante litteram, con le giuste proporzioni e parti del maiale da impiegare per un prodotto conforme alla tradizione.  

L'Unione Europea ci sarebbe arrivata per parte sua solo nel 1998 con l'iscrizione del salume di Bologna al marchio IGP, decretando l'indissolubile legame tra Mortadella e città felsinea. Un legame che è entrato anche nella metafora politica. Ne sa qualcosa Romano Prodi, associato al nomignolo Mortadella, con grande divertimento dell'uomo politico, fiero di questo aggancio goliardico con la sua città. 

«Avrà anche origini aristocratiche, ma da noi a Roma la mortadella, anzi, la Mortazza, è cibo pop per eccellenza: street food, prima colazione, pranzo, in indispensabile abbinamento, però, con la pizza bianca, che sembra nata per valorizzarla», precisa Alessandro Roscioli, anima e patron del Roscioli, gastro-bistrot e salumeria chic alle spalle di Campo dei Fiori. 

Senza scomodare d'altronde il celebre film La Mortadella del 1971 di Mario Monicelli, dove l'iconico salume viene bloccato alla dogana di New York insieme a Sofia Loren, basti ricordare la scena di Se Dio vuole di Edoardo Falcone, dove i protagonisti Marco Gaslini e Alessandro Gassmann approdano a un'amicizia vera e senza fronzoli davanti a pizza e Mortazza. I grandi chef si sono invece divertiti a portare la mortadella nelle stanze della cucina alta. 

Ci hanno pensato ad esempio Massimo Bottura, con una spuma sifonata da servire come spuntino con tigelle o crescentine, e col romano Marco Martini che, per simulare il sapore della pizza bianca la prepara in un incredibile brodo da abbinare a tortelli croccanti di mortadella, da gustare con una birretta, tanto per stare al gioco. 

Gemma Gaetani per “La Verità” il 6 febbraio 2022.  

Molti, leggendo «mortadella», penseranno al soprannome di Romano Prodi detto «il Mortadella», secondo alcuni per un'imitazione di Corrado Guzzanti che lo rappresentò con una mortadella al guinzaglio alludendo alle origini emiliane. Per altri, l'imitatore formalizzava un soprannome già esistente. 

Non si sa se il passaggio sia in effetti stato dalla giustapposizione all'identificazione o viceversa, ma di certo la silhouette del politico, collo corto e volto largo su corpo un po' a rettangolo, può ricordare il salume rosa dalla tipica forma a cilindro con punte arrotondate. La mortadella è un salume insaccato cotto che può avere pezzatura piccola, media e gigante. Se per fiere e manifestazioni si realizzano mortadelle di diversi quintali, nei negozi arrivano forme tra i 12 e i 14 chili con involucro artificiale, mentre quelle più piccole sono insaccate nella vescica del suino o del bovino.  

Abbiamo detto «o del bovino» perché soltanto la mortadella Bologna IGP deve contenere, secondo disciplinare di produzione, solo carne suina. Quella bolognese è prodotto di indicazione geografica protetta, Igp, dal 1998 e può essere preparata solo in Emilia Romagna, Lombardia, Veneto, Piemonte, Toscana, Marche, Lazio e provincia di Trento. 

Si ottiene da carne suina da muscolatura striata appartenente alla carcassa, prima sgrossata e omogeneizzata, poi ridotta a grana fine tramite tritacarni con piastre di diametro decrescente e aggiunta di lardelli di grasso - sempre suino - di gola ridotti a cubetti, scaldati, lavati e sgocciolati.  

Dopo impasto e insaccamento, la mortadella si cuoce ad almeno 70 gradi e poi si raffredda a meno di 10 gradi. Non si può usare carne separata meccanicamente, ma si può aggiungere lo stomaco del suino demucosato, il grasso suino duro, aromi, spezie, piante aromatiche, zucchero nella misura massima dello 0,5%, nitrato di sodio e/o potassio in misura massima di 140 parti per milione, acido ascorbico e suo sale sodico, glutammato di sodio e pistacchio. 

Non bisogna pensare che esista solo mortadella con pepe e pistacchio. In Portogallo la si aromatizza con olive e, tornando in Italia, abbiamo la mortadella farcita con bacche di mirto, che non è una bizzarria contemporanea. Gli antichi romani chiamavano farcimen myrtatum o farcimen murtatum una salsiccia aromatizzata con bacche di mirto e nel XVII secolo Ovidio Montalbani teorizzò che il nome mortadella derivasse proprio da farcimen murtatum. Secondo altri, deriva da mortarium cioè mortaio, lo strumento usato per pestare, in questo caso la carne.  

Che già gli antichi romani producessero mortadelle è testimoniato da due stele funerarie gemelle dell'età imperiale, ora custodite nel Museo archeologico di Bologna, raffiguranti una un branco di sette piccoli maiali al pascolo e l'altra mortaio e pestello.

Che la mortadella Bologna Igp possa usare solo carne di maiale è un'antica tradizione bolognese: nel 1661 fu pubblicato un bando del cardinale legato di Bologna Girolamo Farnese, che vietava il ricorso a carni diverse da quella suina. Certamente, nel Bolognese esistevano anche mortadelle preparate con altre carni in aggiunta a quella di maiale e continuano a esistere oggi anche fuori da quell'area.  

Nelle mortadelle diverse dalla Igp Bologna possono confluire carni bovine, ovine e suine e se invece sono preparate con sola carne di suino possono usare la dicitura commerciale «mortadella di puro suino». 

Nonostante non sia molto noto, ci sono molte mortadelle italiane: c'è la mortadella classica, in sostanza una mortadella Bologna rigorosamente artigianale e presidio Slow Food; la mortadella della Val d'Ossola, praticamente un salame; la mortadella di Prato, anch' essa presidio Slow Food e arricchita di alchermes; la mortadella di Camaiore (anch' essa cruda come l'ossolana); la mortadella di fegato diffusa nel Comasco, nel Mantovano, nel Pavese e nel Lodigiano, e la mortadella di fegato di Novara, entrambe crude; la mortadella di Campotosto col parallelepipedo rettangolo di grasso centrale, anch' essa cruda; la mortandela della val di Non, anch' essa più simile a un salame, nel gusto e perché cruda (tutte queste mortadelline crude si consumano così o tostate prima del consumo, a fette, in padella, un po' come si fa con bacon o pancetta). E c'è perfino quella americana. 

Si chiama Bologna sausage o lyoner, boloney, baloney, polony e jumbo; può contenere pollo, tacchino, bovino, maiale o, nella versione vegetariana, soia, e, pensate, era anche nel menù del Titanic. Tutti conoscono la classica accoppiata dello street food di Roma, calda pizza bianca tagliata in due e imbottita con fette di mortadella, connubio talvolta chiamato «pizza e mortazza».  

Sempre dal fornaio, con la mortadella si riempiono anche rosette e ciriole, per avere «colazioni a portar via» capitoline tanto economiche e pop quanto gustose. Non confondete, però, quest' uso romano della mortadella con la mortadella romana, anche nota come spianata, che si insacca in budelli naturali, si fa asciugare tra due assi di legno e come altre mortadelline italiane minormente note non è cotta e si considera un salame. 

La mortadella è stata resa iconica dal manifesto del film di Bigas Luna Bambola: una splendida Valeria Marini ne sovrastava una intera come cavalcando. La scena è stata tristemente imitata dalla rapper Miss Keta, che ha trasformato un'immagine certamente audace ma non volgare, sospesa tra Fellini e Milo Manara, in orrido e spurio trash. E la salute? Dobbiamo sfatare molti pregiudizi sulla mortadella, colpita dalla grassofobia alimentare contro la quale ci battiamo sempre. La mortadella è di sicuro energetica, ma non più di altri salumi. 

Un etto di mortadella di solo maiale ha 317 calorie e quella Bologna Igp addirittura 288, meno del salame e del prosciutto, mentre quella suino-bovina ne ha in media 388, non così tante rispetto a salami (336) e prosciutti (345). Il rapporto tra grassi saturi e insaturi è a favore di quelli insaturi, meno pericolosi per la salute rispetto ai primi e, a dispetto dello stereotipo di «cibo grasso», il colesterolo si attesta sui 70 milligrammi ogni 100 grammi di prodotto: un soggetto in buona salute può consumare grassi saturi fino al 10% delle calorie totali quotidiane e non oltre 300 milligrammi di colesterolo al giorno.  

La mortadella fornisce anche vitamina B12, fondamentale per la crescita cellulare e la cui carenza può causare anemia, tumori e modifiche del Dna; ferro eme, quello da emoglobina e mioglobina, che è più assorbibile del ferro non eme contenuto nei vegetali e ne migliora l'assorbimento; infine, proteine di alto valore biologico. 

Perciò si può consumare in maniera regolare, un paio di volte alla settimana al posto dell'hamburger o della bistecca. Soprattutto se si è incinte: in gravidanza, la mortadella, in quanto salume cotto come prosciutto cotto, wurstel o cotechino, si può mangiare tranquillamente, mentre vanno evitati tutti i salumi crudi a meno che non si sia già immuni alla toxoplasmosi, che i salumi crudi possono portare, quelli cotti no.

·        Gli Alcolici.

DAGONEWS il 29 ottobre 2022.

Tutti sanno che l'alcol agisce come afrodisiaco, aumentando il desiderio sessuale.

Bere qualche drink scioglie le inibizioni, ci rende più avventurosi e ci garantisce orgasmi più intensi. Ma tutto questo è vero se ci si limita a uno o due drink. Bevete di più e scoprirete che non è poi così piacevole. La sexperta Tracey Cox ha raccolto le storie di tre persone che hanno integrato l’alcol nella loro relazione traendone risultati diversi. 

Amo il sesso da ubriaco anche se a volte mi rende triste

Lisa ha 36 anni, è single e lavora per un'agenzia pubblicitaria

«Non credo di aver mai fatto sesso da sobria e non sono sicura di volerlo. Sono ambiziosa e mi sto concentrando sulla mia carriera in questa fase della mia vita, quindi ho solo relazioni fugaci. L’alcol mi aiuta a sentirmi meno in imbarazzo durante un appuntamento con persone che non conosco, mi mette di buon umore e il sesso è più divertente.

Bere mi dà fiducia. Essere un po' ubriachi ti dà anche una scusa per scatenarti. Faccio fatica a raggiungere l'orgasmo se ho bevuto troppo. Ho sempre e solo l'orgasmo attraverso il sesso orale, il che significa che il ragazzo deve essere abbastanza sobrio da farlo correttamente. Se non raggiungo l'orgasmo nei primi dieci minuti, non accadrà. 

Uno svantaggio per me del bere e del sesso è che può farmi sentire vulnerabile. Lavoro molto e lavoro da casa e mi sento sola. Sono consapevole di avere relazioni con uomini con cui non ho intenzione di instaurare una vera relazione. Voglio solo avere qualcuno con cui fare sesso nei fine settimana. Ma posso diventare piuttosto malinconico dopo che il sesso è finito. Mi risveglio e mi ritrovo sola. 

Ho smesso di bere e amo il sesso da sobria

Elena ha 34 anni ed è sposata 

«Quando ho incontrato il mio attuale marito e mi ha detto che era astemio, mi ha scoraggiato. Non volevo che qualcuno mi guardasse e mi giudicasse da quello che bevevo. Soprattutto, temevo che il sesso sarebbe stato terribile. Ma dopo la prima uscita non mi sono sentita a disagio. Lui non mi guardava male, ma ho aspettato un mese prima di fare sesso perché non ero sicura che sarei stata in grado di farlo da sobria con una persona che non aveva bevuto un goccio di alcol. 

La prima volta è stata terribile, ma ci abbiamo riso su. Ero innamorata di lui, sentivo che era diverso dalle relazioni avute in precedenza. Lo abbiamo rifatto al buio, sotto le coperte e mi è sembrato più naturale.

A poco a poco, ci siamo sentiti più a nostro agio l'uno con l'altro. Ed è allora che ho scoperto quanto può essere sconvolgente il sesso da sobri. Innanzitutto, funziona tutto. Non ha mai avuto problemi di erezione e io non ho mai avuto problemi a raggiungere l'orgasmo. Ogni tocco sembra così intenso. È molto più facile dire a qualcuno cosa ti piace quando il tuo cervello è vigile e puoi comunicare correttamente. C'è molto contatto visivo durante il sesso. Lo guardo quando raggiungo l'orgasmo e questo è incredibilmente intenso.

Stiamo insieme da quattro anni e siamo sposati da un anno. Non potrei essere più felice – o più sobrio. A volte bevo qualche drink, ma adesso apprezzo tutto anche senza alcol. 

Mia moglie ha smesso di bere e la nostra vita sessuale è finita

Jeremy ha 54 anni ed è sposato da 27

«Se mi avessero detto che io e mia moglie saremmo diventati una di quelle coppie che non fa quasi mai sesso, avrei riso. Facevamo sesso selvaggio mentre i nostri amici ci avevano già rinunciato. A entrambi ci piaceva bere e tra i nostri ricordi più belli ci sono le serate alcoliche al pub e il sesso tornati a casa. 

È tutto finito quando mia moglie ha deciso di smettere di bere. È iniziato quando ha compiuto 50 anni. Ha deciso di astenersi dall’alcol per un mese e la prima cosa a soffrirne è stato il sesso. 

Dopo il primo mese aveva perso un po’ di peso e ha deciso di continuare. Ha cercato di farmi smettere di bere, ma mi sono sentito abbastanza infelice. Il sesso è diventato sempre meno frequente e quando lo facevamo, sembrava che lo stesse facendo solo per compiacermi. Non mi sono mai sentito così prima. Ne abbiamo parlato e lei è d'accordo sul fatto che il suo desiderio sessuale sia scomparso, ma lo attribuisce alla menopausa.

Mi sento come se avessi perso la mia complice. Ci divertivamo così tanto insieme e ora no. Non la disturbo più per il sesso. Ma mi manca così tanto il nostro sesso e mi sento disperatamente depresso».

Bisogno dell’anima. Così l’alcol ha aiutato l’uomo a creare la civiltà. Edward Slingerland su L'Inkiesta il 18 Agosto 2022.

Come spiega il professor Edward Slingerland nel suo saggio “Sbronzi” (Utet) nonostante stordirsi sia una pessima idea sul piano della salute, il consumo di vino e birra ci avrebbe aiutato, nel tempo, a costruire legami più forti a livello sociale

L’uomo, quindi, si sbronza, si stona e viaggia grazie alle sostanze psichedeliche da tempo immemore e in tutto il mondo. Non mancano libri interessanti che documentano la predilezione della nostra specie per le sostanze inebrianti, oltre che l’incredibile varietà di modi con cui soddisfiamo il nostro desiderio di raggiungere uno stato mentale alterato. Come osserva il guru della medicina alternativa Andrew Weil: «L’ubiquità dell’uso di droghe è così stupefacente che deve senza dubbio rappresentare una tendenza umana fondamentale».

In modo analogo, nella sua panoramica dell’impressionante varietà di tecnologie che l’uomo ha messo a punto per stordirsi, l’archeologo Andrew Sherratt sostiene che «probabilmente la ricerca deliberata dell’esperienza psicoattiva è antica almeno quanto l’uomo anatomicamente (oltre che dal punto di vista comportamentale) moderno: è, in altre parole, una delle caratteristiche di Homo sapiens sapiens».

Tuttavia, in queste indagini storiche e antropologiche sull’assunzione di sostanze psicotrope non viene esaminato l’enigma di fondo sul perché gli uomini hanno così tanta voglia di stordirsi. Da un punto di vista pratico, ubriacarsi o drogarsi sembra proprio una pessima idea. A livello individuale, l’alcol è una neurotossina che compromette le funzioni cognitive e motorie e danneggia l’organismo. A livello sociale, il nesso fra ubriachezza e disordine sociale non è un’invenzione dei moderni hooligan o degli studenti universitari. Nell’antica Roma si tenevano regolarmente i baccanali – dal nome del dio Bacco, il Dioniso dei greci – festività selvagge e pericolosamente caotiche. Le descrizioni e le raffigurazioni di rituali e banchetti a base di bevande alcoliche provenienti dall’antico Egitto e dalla Cina mostrano con chiarezza come confusione, zuffe, malessere, perdita di coscienza nei momenti meno indicati, vomito copioso e sesso illecito siano da sempre le tipiche conseguenze del consumo di alcolici.

I vari allucinogeni utilizzati dall’uomo in tutto il mondo sono ancora più pericolosi e nocivi. Oltre a disconnetterci del tutto dalla realtà, la loro composizione chimica può portarci alla morte. Un piccolo arbusto che cresce nel deserto di Sonora, Sophora secundiflora, è così tossico che una sola bacca ucciderebbe un bambino nel giro di pochi secondi. Si potrebbe pensare che l’uomo abbia imparato in fretta a tenersene alla larga. Ma non è così. Il motivo è che le bacche di mescalina possono anche provocare un violento stordimento. Sebbene non abbiano alcun valore culinario noto, tracce della bacca sono state rinvenute in resti archeologici risalenti a diversi millenni fa, quando le culture del deserto la utilizzavano per il suo potere inebriante. […]

Bere qualcosa di forte è il rimedio per ogni genere di malanno, il cordiale per qualunque dispiacere. A un matrimonio si beve per festeggiare; a un funerale si beve per scacciare la tristezza. Si beve per celebrare l’amicizia e per alleviare la fatica del lavoro. Il successo merita un premio e un fallimento lo richiede. Chi è indaffarato beve perché è indaffarato; i fannulloni bevono perché non hanno altro da fare. L’allevatore deve bere perché il suo è un lavoro duro; l’operaio perché fa un’attività monotona e sedentaria. Fa caldo, allora beviamo per rinfrescarci; fa freddo, allora beviamo per scaldarci.

Possiamo fare meglio di così. Innanzitutto diamo un’occhiata alle classiche spiegazioni scientifiche del desiderio di bere. Almeno a prima vista, sembrano migliori delle razionalizzazioni prese di mira dai proibizionisti, ma alla fine si rivelano altrettanto insoddisfacenti. 

Da “Sbronzi. Come abbiamo bevuto, danzato e barcollato sulla strada della civiltà”, di Edward Slingerland, Utet libri, 400 pagine, 26 euro

Das süße LebenAperitivo, il vero rito italiano. Gastronomika su Linkiesta il 27 Luglio 2022.

Per sette stranieri su dieci in visita nel nostro Paese, il drink da sorseggiare all’aperto è un momento irrinunciabile, simbolo dell’attitudine tipicamente nostrana a godere dei piaceri della vita

Prendi un angolo d’Italia di grande fascino come può essere piazza Duomo ad Ortigia o piazza del Campo a Siena, aggiungi una comitiva di turisti, i tavolini di un bar all’aperto, una giornata di sole e un po’ di ghiaccio che tintinna nei bicchieri: la perfetta istantanea della vacanza made in Italy, secondo la maggior parte degli stranieri.

È quanto emerge da uno studio promosso da Sanbittèr condotto con metodologia WOA (Web Opinion Analysis) su un campione di trecento turisti attraverso un monitoraggio dei principali social network, forum, blog e community lifestyle internazionali. 

L’aperitivo all’italiana, tra gli stranieri, è un trend che non conosce battute d’arresto (68%) e i suoi più grandi estimatori sono i tedeschi (61%) che hanno superato americani (56%), francesi (45%), turisti dell’Est Europa (37%) e cinesi (32%).

Ad affascinare è l’Italia dei piccoli borghi, dove la frenesia non ha sopraffatto la qualità e il buon vivere, e dove è bello fermarsi per sorseggiare un drink circondati da piazze incantevoli, monumenti storici e luoghi d’arte.

Ed è proprio l’atmosfera delle piazze italiane, a fare la differenza insieme con gli orari non prestabiliti e la possibilità di ripeterlo più volte al giorno (44%), l’offerta gastronomica (39%), la leggerezza del momento (34%) e il richiamo alla tradizione e all’italianità (41%).

Nei più importanti bar italiani la maggioranza dei turisti sceglie soprattutto vini nostrani (76%) e cocktail analcolici (59%).

Per quanto riguarda invece gli appetizer, sono la ‘nduja e il pesto genovese (45%) a spopolare tra tedeschi, francesi e spagnoli che non sanno resistere alla piccantezza del peperoncino e alla dolcezza del basilico, ma piacciono sempre di più anche la mozzarella di bufala (33%), la pizza e la focaccia (41%) e il tradizionale tagliere di salumi tipici e formaggi regionali, amatissimi soprattutto da tedeschi e statunitensi.

Ecco allora che da New York a Parigi da Londra a Berlino, l’aperitivo nostrano è diventato tendenza, un “canto della sirena” cui non si può resistere.

Il food & beverage rappresenta circa il 25% delle spese fatte da ogni turista in viaggio nel Bel Paese, e può salire fino al 35%. Ad attrarre non c’è soltanto il piacere della bevuta, aspetto conviviale del rito collettivo, ma anche un ricco corollario fatto di atmosfera, profumi, emozioni di cui i visitatori fanno esperienza e che rendono unica la vacanza in Italia.

Per i tedeschi il modo di vivere italiano rappresenta un ideale; per loro l’italiano è, per definizione, spontaneo, spensierato e pieno di vita e fantasia, con un tocco artistico. Ma sono anche tantissimi i turisti newyorkesi e inglesi che ogni anno scelgono l’Italia come meta di viaggio, spinti da una serie di motivi che spaziano dalla bellezza delle architetture ai paesaggi suggestivi fino al buon cibo e al clima. Infine, anche i vicini francesi scelgono l’Italia per non rinunciare all’arte e alla cultura e alle atmosfere incantevoli, neppure in vacanza al mare.

Tra gli ambasciatori dell’aperitivo all’italiana, nonché promotore della ricerca, c’è Sanbittèr, brand nato nel 1961 come Bitter Sanpellegrino, primo aperitivo analcolico del Bel Paese, che recentemente ha promosso la campagna “Tutti i Colori dell’Aperitivo”, allo scopo di lanciare un messaggio di positività e condivisione attraverso la sua gamma di prodotti analcolici dai colori solari e dalle caratteristiche inimitabili.

Bruna Magi per “Libero quotidiano” il 16 luglio 2022.

La storia delle nazioni potrebbe anche essere collegata a sostanziose bevute. Non è una battuta, lo scoprirete leggendo Sbronzi, sottotitolo Come abbiamo bevuto, danzato e barcollato sulla strada della civiltá (Utet editore, pag.398, euro 26), di Edward Slingerland, docente di filosofia all'Università della Columbia britannica. Sostiene l'autore che l'inclinazione all'ebbrezza non è un errore evolutivo, anzi ci ha permesso di affrontare le sfide: migliora la creatività, allevialo stress, aiuta a costruire la fiducia, e ha compiuto il miracolo di far cooperare tra loro le tribù primitive. 

Giocando un ruolo cruciale nella formazione delle prime società. Ragion per cui ci invita al divertimento e all'abbandono dionisiaco, parte da Tacito e arriva a Federico il Grande di Prussia, che aveva scoperto come le sue truppe fossero più coese e intraprendenti se bevevano birra invece del caffè, e passa per George Washington e Lord Byron, arrivando alle whiskey room di Google.

I resti di quelli che sembrano tini, con immagini di feste e danze, rinvenuti nella Turchia orientale e risalenti forse a 12000 anni fa, fanno pensare che gli uomini si riunissero per fermentare cereali e uva, fare musica e prendersi sbronze colossali «perché il desiderio di raggiungere uno stato mentale alterato affonda le sue radici negli albori della civiltà». 

Si sostiene che i primi agricoltori fossero spinti dal desiderio di produrre birra, prima di inventarsi di come fare il pane, ragion per cui l'archeologo Patrick Mc Govern ha suggerito che la nostra specie andrebbe chiamata Homo imbibens: «Le immagini di persone che bevono o gozzovigliano dominano tanto i reperti archeologici più antichi, quanto le gallerie di Instagram del XXI secolo».

Ma già gli antichi invitavano alla moderazione, Eubulo, saggio politico ateniese, aveva posto le regole: «Tre coppe di vino, non di più, stabilisco per i bevitori assennati. La prima per la salute. La seconda per risvegliare l'amore e il piacere. La terza per conciliare il sonno. Bevuta quest' ultima, i saggi convitati prendono la strada di casa. La quarta non è più nostra, e appartiene alla hybris (la tracotanza, ndr). La quinta agli schiamazzi. La sesta alla bisboccia. La settima agli occhi pesti. L'ottava alle denunce, la nona alla bile. Alla decima si è perso il senno, e si diventa bestie».

A parte gli eccessi, non c'è alcun dubbio che l'alcol aiuti a vivere, di fronte ai dolori e ai guai della vita si consiglia «bevi qualcosa di forte», lo sapevano bene i personaggi di Tolstoj, che bevendo cercavano di sfuggire alla propria coscienza, e nell'antichità lo testimonia un inno dedicato alla dea sumera della birra: «Hai versato una libagione sul mattone del destino...bevendo birra, con umore beato, bevendo liquore, sentendosi inebriato, con gioia nel cuore e un fegato felice» (anche se sul benessere del fegato noi qualche dubbio lo nutriamo). 

E i poeti condividevano questa teoria ad ogni latitudine. Diceva il lirico greco Alceo: «La migliore di tutte le difese è mescolare molti vini. E bere». E il cinese Tao Yuanming rilanciava: «Innumerevoli tribolazioni si susseguono. Vivere non è forse estenuante? Come posso soddisfare le mie emozioni? Lasciate che mi goda un po' di vino torbido».

Proseguendo nel tempo, l'autore cita un delizioso film del 1987, Il pranzo di Babette, dove una cuoca francese, fuggita dalla Rivoluzione arriva in un paesino danese nel quale i rapporti sociali si stanno sfaldando, e lo ricompatta allestendo un pranzo favoloso, soprattutto innaffiato da vini di pregio. 

Così la tensione si allenta e le vecchie amicizie si rinsaldano. Sentenzia l'autore: «Ci sono molti modi in cui gli uomini possono aspirare a una coscienza collettiva, ma l'alcool è certamente il più rapido». E che dire del proverbio in vino veritas? Ancora Tacito, ci fa sapere come tra le tribù germaniche «qualsiasi decisione politica o militare doveva passare attraverso le forche caudine dell'opinione comune, debitamente innaffiata dall'alcool».

Lui trovava l'usanza barbara e detestabile ma sia i greci che i suoi connazionali romani condividevano, il nesso tra sincerità e ubriachezza era dato per scontato. E anche il collegamento tra il fluire dell'oratoria e il bere. Platone, nel suo Simposio cita un proverbio secondo il quale il vino e i fanciulli sono i soli a dire la verità. Le persone sobrie sarebbero fredde e calcolatrici, riflettono prima di parlare e sono attente a quello che dicono. Infatti, ma non esageriamo: la mamma ci diceva che prima di parlare è comunque saggio contare fino a dieci

DRINK LIST. La storia dei cocktail simbolo della mixology in tre ricette ad hoc. Valentina Ardia su L'Inkiesta il 15 Luglio 2022.

Americano, Boulevardier e Martini cocktail. Nella top ten dei cultori del drink non possono mancare questi tre capolavori da gustare ghiacciati, come spiega Luca Crinò in una lezione speciale al bancone del milanesissimo bar pasticceria Massimo 1970

Primo appuntamento al Bar Pasticceria Massimo 1970 con il bartender Luca Crinò che ripercorre con Linkiesta Eccetera la storia di alcuni drink antologici per gli appassionati di mixology.

A prima vista potrebbe sembrare una di quelle pasticcerie tipiche milanesi che attraggono prima con l’olfatto e poi a seguire con vista e gusto. Ma c’è di più. Quello che si scopre, una volta entrati, è che Massimo 1970 (in via G. Ripamonti, 5) è anche un cocktail bar molto speciale, con tanto di vermut e bitter della casa marchiati Crinò, come il cognome della famiglia che lo gestisce, creati dal bartender Luca e prodotti dall’azienda astigiana La Canellese

La prima  ricetta non poteva non essere quella dell’Americano preparato con Crinò n.3 e Crinò n.7 in parti uguali, ghiaccio e 2 gocce di angostura.

«Ma partiamo dalle basi. L’Americano rimane il drink più popolare in Pasticceria Massimo 1970, con la formula Crinò (in bottiglia, prodotta in house) e che rispetto al classico Americano non prevede l’aggiunta di soda al bitter e al vermut, questo perché il bitter artigianale Crinò è totalmente naturale, con 3° in meno del leggendario Campari, e non ha bisogno di ulteriori diluizioni. Ha un carattere più dolce, con un finale amaro. 

Il bitter che realizziamo artigianalmente ha una selezione di botaniche particolari: genziana in contrapposizione a tutte le famiglie di agrumi. Naturale perché i tre ingredienti che danno il nome alla formula Crinò n.3 sono ribes nero, carota e mela. Questi estratti danno il colore rosso rubino senza l’aggiunta di chimica. Il vermut Crinò n.7 è la mia prima formula con 7 ingredienti appunto. Base di Marsala – una nota fuori dagli schemi se pensiamo che i vermut sono prodotti generalmente con vitigni piemontesi come il Moscato e il Trebbiano – in omaggio alla storia siciliana della mia famiglia. Su questa base ho poi costruito il tutto con zenzero, bacche di goji, cacao, carrube, cardamomo e scorze di arance amare. Nasce un vermut più morbido, perfetto per questo americano rivisitato».

Seconda ricetta: il Boulevardier

Il cocktail Boulevardier è spesso liquidato come una semplice variante del Negroni. Nasce negli Anni 20 a Parigi da un barman americano che dedica il cocktail a uno scrittore che aveva fondato una rivista dal nome Boulevardier. Base Bitter, Vermut e,  a differenza del Negroni, con il Bourbon whisky al posto del Gin. Sempre con l’aggiunta di due gocce di angostura.  

«Questo è un drink armonico, dove i 3 ingredienti stanno insieme senza spigoli. Lo mixiamo e lo versiamo in una coppetta ghiacciata. Diamo un twist di scorza di arancia che lega il tutto. Il bello di questa ricetta è chiuderlo con una decorazione particolarissima: una foglia di coppa essiccata a bassa temperatura a 60° per 4 ore. Alla coppa diamo una glassatura con del Bourbon che dona un accento di grassezza a contrasto».

Chiudiamo con il re dei cocktail: Martini Cocktail. 

«Martini cocktail: essere non apparire. Il Martini fissa il momento, il bartender deve cogliere l’attimo. Ci sono dei passaggi essenziale che io ho imparato da grandi maestri, ovvero i clienti. Il primo passaggio è raffreddare il mixing glass. Secondo passaggio dare la bagna del ghiaccio con vermut Crinò n.5. la terza produzione di casa, dove ho mantenuto un’aggiunta di Marsala che conferisce alla formula una nota sapida perfetta per la mia idea di miscelazione. Dopo che abbiamo fatto il passaggio di vermut per dare profumo al ghiaccio, noi lo teniamo con le olive che verranno messe in coppa a parte. Il Martini ha cento per cento base Gin. 

Il nostro Gin Crinò n.10 ha alcol bio di cereali italiano, ginepro selezionato dall’Appennino umbro-toscano. Diamo la giusta diluizione con 20 girate di bar spoon. Sul top del drink diamo una spruzzata di oli essenziali come rifinitura. Io che sono un purista del Martini cocktail non amo sporcarlo con nulla, per chi vuole l’aggiunta di olive c’è la coppetta a parte e il gioco è fatto». 

Non resta che ordinare il secondo giro.

Il Negroni. Marco Gemelli per "il Giornale" il 6 febbraio 2022.  

Ci ha messo 102 anni, ma finalmente il Negroni è il cocktail più ordinato al mondo. Il drink inventato dall'omonimo conte fiorentino nel 1919 ha scalzato l'Old Fashioned dal trono ed è stato incoronato dagli esperti del magazine inglese Drink International che ogni anno premia le miscelazioni più amate al mondo. Il 7 gennaio la rivista ha annunciato il passaggio di consegne, riportando i risultati delle interviste ai cento cocktail bar più importanti a livello globale, cui è stato chiesto di segnalare i gusti dei propri ospiti. 

Nel ranking dei cocktail più bevuti al mondo, quest' anno per la prima volta si celebra l'italianissimo drink, la cui storia sembra fatta apposta per ispirare i romanzieri. Quella del Negroni, in fondo, è la narrazione di una vita straordinaria - quella del conte Camillo, nato e morto sulle rive dell'Arno - ricca di colpi di scena e passaggi inaspettati. 

Se l'inizio e la fine della sua epopea si svolgono proprio nel capoluogo toscano, tutto ciò che sta in mezzo è un viaggio che a oltre cent' anni di distanza ancora affascina gli amanti del bere miscelato. Anche dopo un secolo dalla sua nascita, infatti, il cocktail che porta il suo nome non ha perso nulla del suo appeal internazionale: appena poche settimane fa, ad esempio, è stato protagonista di una puntata della serie tv Netflix La casa di carta, dove Berlino arriva a distruggere un bar proprio perché gli era stato servito un Negroni non all'altezza. 

E dire che tutto ha origine a Firenze, dove il conte Negroni nasce da nobile discendenza, padre italiano e maGli ingredienti del Negroni: Vermouth, Bitter e Gin. Il cocktail fu inventato dal Conte Camillo a Firenze dre inglese. D'animo romantico e irrequieto, da giovane si mette nei guai per faccende di cuore e - come usava all'epoca - costretto a partire per salvare l'onore. Da qui comincia il suo viaggio, in Wyoming a fare il cowboy, a New York a insegnare scherma e a Londra a frequentare i salotti dell'alta società. 

Ritorna a Firenze arricchito d'esperienza e di buon gusto, anche nel bere. Il conte era solito sostare in via Tornabuoni al Caffè Casoni, dove oggi - caso unico in Italia una targa celebra la nascita del drink. In un'epoca in cui tutti ordinavano le bevande più alla moda, ossia l'Americano (Vermouth e Bitter), in un pomeriggio di maggio il conte Camillo convinse il giovane barista Fosco Scarselli ad aggiungervi l'inglesissimo Gin, omaggio ai suoi viaggi o alle sue origini, chissà. Per distinguersi dagli altri avventori, il conte amava guarnirsi i cocktail con una fetta d'arancia, tocco finale ideale per quel mix secco e deciso appena inventato. 

In breve tempo questa versione dell'Americano conquistò tutti. Era il 1919 quando per la prima volta quel cocktail fu servito, e oggi - 102 anni più tardi in tutto il mondo lo chiamano con il suo nome: un Negroni, please. Ma come siamo arrivati al top mondiale? 

«Nel mondo del bar, come in quello della cucina - spiega l'esperto Federico Bellanca - c'è stata un'evoluzione del palato medio. Se negli anni Novanta si bevevano principalmente cocktail dolci per nascondere la gradazione, oggi invece il mercato è più maturo: la nota amaricante e botanica tipica della liquoristica italiana è sempre più ricercata nella miscelazione moderna. Ciò è per l'Italia non solo motivo di vanto, ma anche fonte di ritorno economico: vermouth e bitter sono due eccellenze made in Italy, mentre col boom dei craft gin è possibile bere quasi in ogni bar un Negroni 100% italiano.  

Infine - conclude Bellanca - il primato dell'Old Fashioned era tenuto su soprattutto dagli Usa, dove il drink a base di whiskey americano è piuttosto diffuso. Il successo del Negroni invece è veramente globale, dalla Cina all'Australia».

Il Martini. Giacomo A. Dente per "il Messaggero" l'1 febbraio 2022.  

Stregante, coinvolgente, emozionante. Il Martini si può raccontare o, meglio ancora, bere in mille modi diversi. Trasparente, algido nella sua coppa leggendaria, questo cocktail, prima ancora che Gin e Dry Vermouth miscelati in una determinata proporzione, rappresenta una concezione del mondo.  

Non per caso i martiniani costituiscono un popolo a parte di devoti alla convocazione di questo cocktail da leggenda. E la parola leggenda non è poi così stravagante, perché nessuno può dire con certezza quando e dove sia nato il Martini. Qualcuno lo attribuisce a Jerry Thomas (autore nel 1862 della prima guida sui cocktail) che col nome di Martinez, una città californiana, ne avrebbe miscelato una prima versione. 

Per altri fu invece un certo Martini, ligure di Arma di Taggia, a servire a John D.Rockfeller ai tavoli del Knickerbocker Hotel di New York un indovinato mix di Gin e di Vermouth, costruendo le basi di un successo che sarebbe diventato subito inarrestabile. 

«L'arma più micidiale degli Stati Uniti» secondo Nikita Kruëv, tracimò così rapidamente nella vita quotidiana, nel cinema e nella letteratura. Hemingway in Di là dal fiume e tra gli alberi ne propose una versione dove il Gin è in proporzione di 15 a 1 rispetto al Vermouth, battezzandolo Montgomery, il generale che aveva teorizzato questa proporzione di forze per una vittoria certa sul nemico.  

Luis Buñuel diede una sua versione mistica sull'impiego, che deve essere minimo, del Vermouth, evocando lo Spirito che feconda come Luce nell'Immacolata Concezione. La leggendaria scrittrice mondana Dorothy Parker ne descrisse in maniera graffiante gli effetti dionisiaci: «Adoro farmi un Martini, massimo due, al terzo finisco sotto il tavolo, al quarto sotto il mio ospite». 

E ancora, Scott Fitzgerald, inventore del verbo to cocktail, lo preferì ad ogni altra bevanda, perché il Gin non corrompeva l'alito, così come amò anche la coppa, indissolubile dal Martini, comparsa per la prima volta nella Esposizione Universale di Parigi. 

Ai nostri giorni nella cornice del Golfo di Napoli e di un immenso agrumeto è nato un luogo unico al mondo, il Dry Martini Sorrento by Javier de las Muelas all'interno del Majestic Palace Hotel, dove del Martini ne propongono 101 versioni. 

Spiega il patron Lucio D'Orsi, maestro di mixology, «il nostro bancone ha uno spazio dedicato solo alla preparazione dei cocktail Martini sia in gin che in vodka che viene denominato Altare. La nostra filosofia è molto semplice: toccare la coppa che viene prelevata da un congelatore a meno 30 gradi una sola volta, mai più di due Martini per volta nello stesso mixing glass». 

Massimo D'Addezio al Chorus di Roma nella irripetibile infilata di via della Conciliazione, considera il cocktail bar italiano una sintesi di solida cultura professionale, buon umore, combinazione coi sapori giusti della cucina (che in questo caso è guidata da Arcangelo Dandini). 

Poi ridendo aggiunge «e se mai foste colti dalla cattiva idea di fingervi James Bond al bancone di un bar, fermatevi chiedendo solo un Martini, senza aggiungere, come 007, mescolato, non agitato, perché in questo modo, perfino con la vodka, come piaceva a Bond, il cocktail perde la sua mitica trasparenza».  

Il Whisky. Carlo Ottaviano per “Il Messaggero” il 21 gennaio 2022.

Come tradurre in italiano le parole scozzese whisky o irlandese whiskey non si sa, ma come si produce lo scotch iniziamo a saperlo bene anche noi, tanto da avere presto due distillati 100% Made in Italy: a Seregno, in Lombardia, è nata la distilleria artigianale Strada Ferrata (in cantiere prove con essenze mediterranee, anche capperi di Pantelleria); in Veneto il produttore di grappe Sandro Bottega sta affinando scotch nelle botti di Amarone della Valpolicella e di Brunello di Montalcino.

E proprio in Veneto c'è già una etichetta Wilson & Morgan che prende premi in tutta Europa ed è esportata in Estremo Oriente e Australia. «Facciamo delle edizioni particolari, da 100 a 300 bottiglie racconta il brand ambassador Luca Chichizola - selezionando le botti per creare prodotti personalizzati, sartoriali, per i clienti».

Imbottigliatori indipendenti sono a Milano Federico Mazzieri e Marco Maltagliati di Dream Whisky, un locale dove si può degustare in purezza, in pairing (come abbinamento) o in miscelazione. Nella miscelazione dei cocktail la parola d'ordine è semplicità.

LE SFUMATURE

 «Il whisky, complesso e ricco di sfumature spiega Antonio Lugli, barmanager di Dream Whisky - ha già tutte le caratteristiche di cui abbiamo bisogno in un cocktail, come dolcezza, acidità, speziatura o torbatura. Quindi, suggeriamo pochi ingredienti di qualità e focus sul ghiaccio, cristallino e lavorato a mano».

«Il whisky aggiunge Mattia Pastori, uno dei bartender più famosi d'Europa - è un ingrediente molto interessante per l'uso in mixology perché è uno spirit dotato di grande varietà: in base alla sua provenienza e al suo stile di produzione può regalare sfumature diverse all'interno del cocktail. 

Le note aromatiche legano bene con Vermut e Bitter, ma anche con succhi acidi come il limone o l'arancia per creare cocktail sour. Mentre i whisky dalle note più dolci come i Bourbon si sposano bene anche con frutta come la pesca o l'ananas». 

Per sapere tutto e di più, non c'è che aspettare il 5 e 6 marzo quando (Covid permettendo) si terrà la decima edizione di Roma Whisky Festival (corsi, degustazioni, acquisti, academy).

Quest'anno oltre che al Palazzo delle Fontane all'Eur, l'evento sarà spalmato in molti bar selezionati del centro e all'Oro Whisky Bar di Viale Giotto, una vera boutique del bere distillato. Sicuramente è il locale italiano con più etichette di whisky, ben 500. Con prezzi per la mescita che vanno dagli 8 euro ai 150 per un Brora distillato nel 1981 quando già aveva 23 anni di invecchiamento in botte.

IL RECORD

Tutto considerato un prezzo abbordabile se pensiamo che a inizio dicembre Pandolfini a Firenze ha aggiudicato in asta a 107.800 euro una bottiglia di Macallan Red Collection invecchiata 60 anni, imbottigliata nel 2020. Prezzo record mai raggiunto in Italia per un whisky.

Volendo assaggiare buoni prodotti ma stando con i piedi per terra, ecco i consigli di Dario Allegretti, mixologist abruzzese trapiantato in Emilia (è al bancone dell'Executive Aria Cocktail di Fiorano Modenese, a un tiro di schioppo da Maranello e dal Museo Ferrari).

A casa suggerisce di avere «un torbato per coprire la tipologia affumicato molto intenso e persistente; un giapponese che fa tendenza e se ne trovano a prezzi abbordabili; un single malt e un bourbon per la morbidezza tipica della quercia bianca».

·        Il Vino.

Bollicine a confronto. Il Prosecco non è Champagne (e viceversa!) Daniela Guaiti su L’Inkiesta il 22 Novembre 2022. 

Due icone, simbolo di due modi di bere lontani eppure vicinissimi, legati da una linea fatta di bollicine. Quali sono i punti in comune e le differenze? Con l’aiuto dell’esperto, abbiamo messo i calici sotto la lente

“E i Francesi che si incazzano” cantava Paolo Conte: si parlava di biciclette, ma il punto della rivalità tra Francia e Italia non cambia, si parli di calcio, di formaggi o di vini. Ma c’è un’eccezione che conferma la regola. Prosecco e Champagne non sono in competizione, anzi.

«Si tratta di due prodotti iconici di due territori, di due metodi, sono simbolo del made in Italy e del made in France, talmente definiti nell’immaginario dei consumatori da non essere in concorrenza. Hanno un’identità troppo precisa, non si possono confondere, e assolutamente non si fanno guerra, tanto che in Francia il Conegliano Valdobbiadene Prosecco superiore è in netta crescita». A Parlare è Diego Tomasi, direttore del Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg.

Anzi, i Francesi sembrano apprezzare il Prosecco, come sottolinea Corrado Mapelli, direttore Generale di Gruppo Meregalli, leader nella distribuzione di vini in Italia, che spiega: «La Francia è oggi il quarto mercato export per il Prosecco, dunque certamente i Francesi amano il Prosecco quanto noi Italiani amiamo lo Champagne; in merito alle tipologie dell’uno o dell’altro certamente va evidenziato come l’Italia sia uno dei Paesi con l’incidenza maggiore sulle importazioni di Champagne “premium”, il Prosecco ha al contrario una storia più recente, dunque siamo tutti curiosi di scoprire la sua evoluzione».

Perché sono simili: la varietà del territorio

Prosecco e Champagne sono due spumanti, e questo è ovvio. Ma non basta, Sono due prodotti che provengono da territori ampi e variegati, in cui si susseguono condizioni climatiche e pedologiche diverse, che danno vini con sentori aromatici differenziati.

«Delimitata da una legge del 1927, la zona di produzione dello Champagne (Aoc) si estende per poco più di 34.000 ettari, in 320 “crus” di cui 17 classificati come “Grands Crus” e 44 come “Premiers Crus”. La denominazione sorge a circa 150 chilometri a est di Parigi e si distingue per la straordinaria conformazione del suo territorio collinare, disegnato da un mosaico di micro-vigneti in cui si coltivano Pinot Noir, Chardonnay e Pinot Meunier» spiega Bastien Collard membro della sesta generazione della famiglia Pol Roger, Maison più amata da Winston Churchill e fornitore ufficiale della Corona Britannica.

A rendere unico questo territorio è una combinazione di fattori naturali irripetibile altrove: clima, suolo e topografia sono gli ingredienti del successo internazionale dello Champagne.

Chiunque visiti questo angolo di Francia può apprezzarne la straordinaria bellezza e vocazione all’eccellenza dovuta anche alla coesistenza di due diversi fattori climatici: le influenze continentali portano gelate invernali spesso devastanti, ma forniscono anche alti livelli di soleggiamento in estate. Le influenze oceaniche, invece, mantengono le temperature basse ma assicurano anche una stabilità di precipitazioni, senza grandi sbalzi di temperatura di anno in anno.

Le quattro zone dello Champagne sono la Montagne de Reims, la Vallée de la Marne, la Côte des Blancs e la Côte de Bar che comprendono 278.000 singoli appezzamenti di vigneto, ciascuno con una dimensione media di circa 1.800 mq. I vigneti di Pol Roger raggiungono oggi un’estensione di 92 ettari, tra la Valle della Marna, la Côte des Blancs e la Montagne de Reims: le vigne di proprietà costituiscono il 40 per cento degli approvvigionamenti mentre le altre uve sono fornite da viticoltori fidelizzati, legati al brand da contratti a lungo termine».

Non meno complesso il quadro territoriale in cui nasce il Prosecco, come esemplificato dalla produzione di Villa Sandi: «Grazie alle sue tenute che spaziano in tutte le denominazioni, dalle più pianeggianti zone del Prosecco Doc ai morbidi colli Asolani ai più erti e ripidi pendii delle colline di Valdobbiadene fino allo speciale cru del Cartizze, Villa Sandi è in grado di interpretare le diverse sfumature e peculiarità di ciascuna area – spiega Giancarlo Moretti Polegato, presidente dell’azienda – Tutte sono caratterizzate dalle tipiche note floreali e fruttate, esprimono i diversi terreni dove l’uva è coltivata».

Così Asolo Superiore presenta una più marcata mineralità mentre il Valdobbiadene Superiore più intensi profumi fino al Cartizze che rappresenta una perfetta armonia di carezzevole cremosità e fragrante freschezza. La Glera è coltivata nella vasta area Prosecco, ma se il vitigno è lo stesso, diversi sono le rese per ettaro e soprattutto i terreni e il microclima.

Oltre alla storica e tradizionale area collinare della Docg Conegliano-Valdobbiadene Prosecco Superiore e, più a ovest, le più morbide coline di Asolo, una più vasta area pianeggiante fornisce le uve per la produzione del Prosecco Doc.

L’area della provincia di Treviso vanta la più antica consuetudine, esperienza e vocazione vitivinicola. Anche in questa zona, vicina alla storica Docg, si produce un Prosecco fragrante, fresco e fruttato, che può vantare in etichetta la denominazione Doc Treviso a segnalare la provenienza da una area particolarmente vocata, all’interno della più vasta Doc Prosecco veneto-friulana.

Anche Moretti Polegato sottolinea come non ci sia opposizione tra Prosecco e Champagne, tanto che: «Siamo importatori e distributori di uno Champagne (il Montaudon, n.d.r.) a sottolineare che Prosecco e Champagne non sono in competizione, sono per due diversi momenti di consumo, due diversi approcci alla bollicina, da un lato la freschezza e l’immediatezza, dall’altro la complessità e l’evoluzione».

Perché sono simili 2: storia e futuro

Entrambi i vini hanno una storia antica, sono prodotti in aree in cui la tradizione enologica è radicata e risale a tempi remoti. Ed entrambi i vini vengono oggi prodotti con una grande attenzione alla sostenibilità.

«Sia noi, come Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg, che loro dello Champagne partecipiamo a progetti legati al tema della sostenibilità, perché è quello che oggi il mercato chiede e perché è una scelta giusta – spiega Tomasi – e miriamo a raggiungere la certificazione ambientale nel 100 per cento dei vigneti entro il 2029. Oggi noi ci attestiamo sul 40 per cento, i Francesi probabilmente sono un po’ più avanti. Un altro percorso che stiamo seguendo insieme, ma sul quale forse siamo più avanti noi, è quello che porta a creare un dialogo sul territorio tra vignaioli e abitanti che non lavorano nel settore del vino; stiamo creando un rapporto di reciproca fiducia che sta dando ottimi risultati».

Perché sono diversi

La prima differenza è evidente: lo Champagne è per sua natura un vino più costoso e impegnativo nel suo consumo, mentre il Prosecco è un vino più “democratico”.

Bisogna poi ricordare che, mentre il Prosecco deriva da un unico vitigno autoctono, la Glera, lo Champagne deriva da varietà internazionali coltivate in tutto il mondo, Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier.

«Nello Champagne c’è un’impronta varietale composta da vitigni fortemente caratterizzanti in grado di sopportare una lunghissima sosta sui lieviti, mentre la Glera – spiega Tomasi – è un vitigno con una impronta mediamente aromatica e da un medio contenuto zuccherino».

Di qui l’utilizzo di metodi di produzione che si sono sviluppati proprio per valorizzare le diverse tipologie di uva. Il Prosecco in linea di massima viene prodotto con il metodo Martinotti, ossia con una rifermentazione in autoclave; lo Champagne è prodotto con Metodo Classico, ossia con una rifermentazione in bottiglia. «Il Metodo Martinotti – sottolinea Tomasi – mantiene la freschezza e l’eleganza dell’uva, ed esalta i suoi profumi».

Su questo concetto ritorna anche Federico Dal Bianco, vicepresidente di Masottina: «Si tratta di vini provenienti da differenti regioni del mondo e risultato di due diversi metodi di produzione, ma allo stesso tempo accomunati da una lunga tradizione e storia vitivinicola. La differenza più significativa in termini di metodo è il contenitore dove viene svolta la seconda fermentazione. Entrambi i metodi sono però il risultato ed espressione della cultura e sperimentazione enologica del territorio, volta a valorizzarne le principali caratteristiche della materia prima che determinano l’uva: il terroir e il vitigno. Il metodo utilizzato per i vini Prosecco è il Metodo Italiano (Martinotti), reinterpretato poi dalla scuola Enologica di Conegliano per permettere di esaltare le peculiarità del vitigno d’origine, proprio come lo Champenoise, riportando quindi nel nome un rimando a territorio e vino stesso».

Per esaltare la freschezza e l’aromaticità della Glera, il Metodo Prosecco prevede una fermentazione più breve: per questo spesso è stato interpretato come un vino dallo scarso valore, perché non soggetto all’evoluzione nel tempo.

«È innegabile – prosegue Dal Bianco – che lo Champagne, come i grandi metodi classici Italiani, abbia un grande potenziale d’invecchiamento, risultato proprio della fermentazione in bottiglia: io in prima persona sono un appassionato di Champagne per questo. Allo stesso tempo però, ho sempre pensato che il Prosecco, fatto con la giusta cura dei dettagli in campagna e in cantina, fosse un vino che potesse raccontare qualcosa d’interessante nel tempo. Così da una sfida personale, quella di conservare in cantina le annate dei nostri due Cru: R.D.O. Ponente, R.D.O. Levante, nasce il nostro progetto di valorizzazione del vino Prosecco attraverso la scoperta delle vecchie annate. Gli R.D.O. infatti sono apprezzati in gioventù, ma ci sorprendono con il passare del tempo, acquisendo un profilo gastronomico che li rende ancor più adatti all’abbinamento con l’alta Ristorazione; nasce così il progetto degli R.D.O. Ambassador per avvicinare il consumatore che non credeva un vino Prosecco potesse supportare un grande abbinamento e ancor di più con vecchie annate».

È dunque possibile bere Prosecco invecchiato, così come è possibile sorseggiare un Prosecco realizzato con il Metodo Classico. Ma non è questa la regola.

Una differenza legata alla commercializzazione è infatti quella sottolineata da Tomasi: «Lo Champagne dura nel tempo. Per questo i Francesi mettono in vendita ogni anno una metà della produzione. Il resto li ripongono in magazzino. Poi il mercato gestisce l’offerta: se c’è richiesta si mette in vendita anche lo Champagne rimanente. In questo modo si riesce a tenere il prezzo sempre alto. Il Prosecco non ha questa longevità: deve essere prodotto e consumato entro due annate».

Non rimane che pensare all’abbinamento, e anche su questo tema schematizzare non è semplice: «nel caso dello Champagne gli accostamenti dipendono più che altro dal fatto che ogni produttore in qualche modo firma uno stile e concorre al posizionamento della categoria: ci sono Champagne più gastronomici, altri più legati all’aperitivo alla francese (ostriche), altri più trasversali, altri più “intellettuali”». A parlare è Luca Maruffa, responsabile marketing Gruppo Cantina Produttori Valdobbiadene – Val D’Oca, che continua: «iI Prosecco a mio avviso non dovrebbe perdere la sua identità: un prodotto fresco, vibrante, trasversale, davvero adatto a molteplici occasioni. È una bollicina “social”. Credo comunque che ora anche il Prosecco, dopo il grande successo internazionale della categoria, possa arrivare a differenziarsi. Con il grado zuccherino, certo. Dal Dry, molto tradizionale e legato al fine pasto, fino all’Extra Brut, che personalmente amo per accompagnare crudi di pesce, ma anche primi piatti. Ecco il nostro “gastronomico”. Le differenze sono poi molte e nettamente percepibili se prendiamo in considerazione la tipologia delle Rive: se penso ad esempio al nostro Rive di San Pietro di Barbozza, le note di lemongrass si esprimono benissimo con il sushi. Se penso al Rive di Santo Stefano, le abbinerei invece a una frittura delicata».

E se alla degustazione freschezza e aromaticità sono le parole che definiscono il Prosecco, mentre ricchezza e intensità raccontano lo Champagne, l’ultima parola rimane ai gusti di chi acquista e beve il vino: «Non dovrebbero esistere consumatori diversi a prescindere – conclude Mapelli – ma certamente prodotti diversi, o meglio più giusti in base al momento e alla esperienza di bevuta ricercata. Chi sa bere bene sa cosa e quando scegliere».

Illusioni enoiche. Il vino naturale non esiste. Giambattista Marchetto, Federica Randazzo su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Il dibattito è in continuo fermento. Ma appassionati e produttori concordano su un punto di partenza: il vino deve essere buono, che sia convenzionale o no

Durante il Festival di Gastronomika uno dei tavoli più vivaci è stato senz’altro quello dedicato a un grande dibattito nel mondo del vino: naturale o convenzionale? La discussione è iniziata affrontando subito l’elefante nella stanza: il termine “naturale” fa storcere il naso a non pochi produttori e addetti al mestiere. “Naturale”, infatti, rimanda a un qualcosa di ottenuto direttamente dalla natura, senza intervento dell’uomo e potrebbe dunque ingenerare confusione nei consumatori. Tuttavia, sorprende come espressioni quali “acqua naturale” o “yogurt naturale” non destino lo stesso scalpore e lo stesso sdegno dI “vino naturale”. Sembra quasi che non si voglia guardare oltre al proprio naso e ci si trinceri su una questione semantica pur di non guardare al messaggio che porta con sé il movimento del vino naturale.

Il Movimento nasce in Francia alla fine degli anni ’70 del secolo scorso come reazione alla viticoltura e all’enologia industriale, che ha iniziato a imporsi nel secondo dopoguerra. Dopo il secondo conflitto mondiale, infatti, aumenta significativamente nell’industria agroalimentare l’utilizzo massiccio di sostanze chimiche come erbicidi e pesticidi e, pochi anni dopo, si assiste anche a un incremento dell’uso degli additivi nella vinificazione. A questa tendenza si ribella un gruppo di produttori del Beaujolais, che pone l’accento sull’importanza di un’agricoltura biologica o biodinamica e su un processo di vinificazione poco interventista fatto di pochi o nessun additivo.

Oggi quello del vino naturale è oggi un movimento vivo e radicato in tutte le regioni vitivinicole e porta con sé pregi e difetti dell’essere diventano una moda.

Un successo di mercato

Il mercato, infatti, ci racconta che la fama del vino naturale stia crescendo – come evidenzia il report Wine Intelligence “Alternative Wine Opportunity Index in 2022” in cui il vino naturale risulta la categoria preferita tra i vini “Sola”, ossia Sustainable, Organic, Lower alcohol, Alternative, davanti ai vini organici e a quelli prodotti in maniera sostenibile.

Tuttavia, dallo studio emerge un altro dato interessante: per la maggior parte dei consumatori, il vino è naturale in quanto tale, a prescindere dal livello di intervento delle lavorazioni in vigna e in cantina.

Il vino naturale è quindi ancora alla ricerca di una propria identità definita, sia a livello comunicativo che a livello produttivo e giuridico.

Per quanto riguarda il primo aspetto, i sommelier e gli enotecari presenti hanno sottolineato come il vino naturale sia in grado di toccare le corde emotive dei consumatori, in modo molto simile a quello che fa l’arte. Chi acquista vino naturale, infatti, vuole bere prima di tutto le idee, la visione e la sensibilità di chi lo produce, Vuole, insomma, bere una storia, un racconto che vada oltre il prodotto di per sé.

Il vino naturale è dunque in grado di avvicinare nuovi pubblici e di fungere da input per aprire un sentire diverso del vino meno snob e più conviviale.

Vini naturali… e corretti

Tuttavia, la bandiera di vino naturale non può essere utilizzata per giustificare vini sciatti, pieni di difetti e poco piacevoli. Difatti, come convenuto da tutti i presenti, è necessario che il vino – naturale o convenzionale – sia buono e privo di devianze. Troppo spesso, invece, dietro la categoria dei vini naturali si celano prodotto di bassa qualità e omologati da difetti quali il brett e la volatile.

Il punto di partenza sul quale tutti concordano, amanti e produttori di vino convenzionale e non, è che il vino deve essere buono. Non tutti i vigneti sono adatti per i vini naturali (forse anche per il vino in generale), quindi bisogna saper riconoscere la vocazione di un terreno. Non si possono dimenticare cento anni di enologia precedente e demonizzare tutti i prodotti che non fermentano in modo spontaneo.

Al centro del discorso rimangono la consapevolezza dei tempi della vigna, delle stagioni e del lavoro che dev’essere fatto con rigore. E il tema diventa: quanto si deve essere interventisti? Il vino è anche scienza quindi non si può affidare tutto al caso o alla natura. Il prodotto dev’essere salubre e deve cercare di tirare fuori l’essenza del vitigno e preservarlo con una vinificazione il più pura possibile.

Dallo storytelling al disciplinare

Il concetto di “artigianale” sicuramente si porta dietro una storia, delle persone oltre al territorio e il cliente vuole questa esperienza, cerca un racconto. Il mondo del naturale, per qualcuno, ha riportato il vino al centro della tavola, la figura del sommelier negli anni ha allontanato il consumatore. E qui entra in gioco una comunicazione più emotiva, personale e inclusiva tanto che il segmento convenzionale prende ogni giorno i termini e il linguaggio del suo competitor.

L’ultimo nodo affrontato al tavolo è quello giuridico. Ci si chiede infatti se si debba creare un disciplinare per il vino naturale. Gli animi si scaldano, c’è chi sostiene la questione sia noiosa e rischia di mettere fine al movimento, chi invece pensa che sia semplicemente un modo per fotografare la realtà. Peraltro a breve sarà introdotta in etichetta la lista degli ingredienti – in base a una direttiva Ue – e questo potrebbe fare della dicitura “naturale” un’etichetta meno da storytelling e più legata al contenuto reale della bottiglia.

In conclusione, emerge con chiarezza la delicatezza del tema. Perché se è vero che il dibattito non è nuovo, anzi non è nemmeno recente, ancora gli animi si accendono e i punti di vista si incrociano. Niente di più intrigante…

Quello che non ci dicono sull’aceto balsamico. MICHELE A. FINO su Il Domani il 27 agosto 2022

L’8 agosto il governo ha dato mandato all’avvocatura dello Stato di agire, in sede europea, contro la Slovenia “rea” di voler regolamentare il proprio “Balzamični kis”. Ma vale la pena di indagare su questa furibonda reazione italiana.

In Italia non c’è un solo aceto balsamico: esistono due tipi di prodotti inconfondibili. L’aceto balsamico di Modena (Abm) e l’aceto balsamico tradizionale, di Reggio Emilia o di Modena. 

Mentre l’aceto balsamico tradizionale è un prodotto rarissimo e costoso, l’Abm, che l’Italia vuole tutelare con riferimento alla questione slovena, è in realtà un prodotto di massa che viene venduto a prezzi che vanno da pochi euro al litro ad alcune centinaia e può essere imbottigliato ovunque.

Da il Messaggero il 29 settembre 2022.

Si ripete a Marino, nel prossimo fine settimana, il miracolo delle fontane che danno vino. Questa spettacolare iniziativa, conosciuta in tutto il mondo, si svolge nell'ambito della Sagra dell'uva di Marino, la più antica d'Italia, ideata a promossa dal poeta romanesco Leone Ciprelli nel 1925. La manifestazione è giunta alla 98esima edizione e prevede una serie di eventi culturali, folcloristici ed enogastronomici. 

Rispetto allo scorso anno, non ci saranno ingressi contingentati e non si pagherà nessun biglietto. Insomma una Sagra dell'uva, in formato riveduto e corretto, dopo le restrizioni imposte dal Covid19, che però non rinuncia agli aspetti più caratteristici della tradizione. Domani ci saranno l'inaugurazione della Sagra dell'uva, il Palio della città di Marino, l'apertura dell'area degustazione e uno spettacolo teatrale. E per direttiva del Comune: banditi i bicchieri di vetro, solo carta o materiali biodegradabili.

IL CALENDARIO Sabato invece la Sagra propone presso l'aula consigliare: alle ore 10 la conferenza Lo scudo della Battaglia di Lepanto: nuove informazioni alla luce degli ultimi studi storici, delle recenti analisi e restauri, alle ore 15 la presentazione del libro La viticoltura a Roma e nei Castelli Romani: origini, sviluppo, declino, idee per la rinascita scritto da Giulio Santarelli. A seguire le rievocazioni storiche con i banditori a cavallo a Villa Desideri, a Palazzo Colonna Il Governatore di Marino annuncia la vittoria della Battaglia di Lepanto e a Piazza San Barnaba sfilata di sbandieratori e musici.

Domenica alle ore 10 nella Basilica di San Barnaba Apostolo ci sarà la celebrazione eucaristica presieduta da monsignor Vincenzo Viva, vescovo della diocesi di Albano, a cui seguirà la storica processione della Statua della Madonna del SS. Rosario. Domenica gli eventi clou, che saranno replicati lunedì. Alle ore 15 con un corteo storico, con circa 300 figuranti in rigorosi costumi d'epoca, viene rievocato il vittorioso ritorno di Marcantonio Colonna, signore di Marino e condottiero, che portò alla vittoria la flotta cristiana contro gli infedeli nella Battaglia di Lepanto, combattuta nel 1571.

Nei panni di Marcantonio Colonna e Felice Orsini ci saranno gli attori Sebastiano Galasso e Matilde Gioli. Il corteo è stato curato dalle associazioni: Lo storico cantiere, Arte e costumi marinesi, Lo scudo di Lepanto e con la partecipazione di altri gruppi storici dei Castelli Romani. Sempre domenica alle ore 17 per alcuni minuti ci sarà l'erogazione del vino bianco castellano dalla Fontana dei Quattro Mori situata in Piazza Matteotti, generalmente questo evento è accolto con un boato da migliaia di cittadini. La Sagra che prevede spettacoli musicali e cabaret, godrà di luminarie artistiche. Tra gli spettacoli programmati si segnalano alle ore 20 di domenica la cover Renato Zero di Daniele Quartapelle e lunedì lo spettacolo di Alberto Rocchetti con la partecipazione di Elisabetta Gregoraci. Luigi Jovino

Donne straordinarie. La visionaria che inventò il marketing dello champagne sfidando i pregiudizi.

Barbe-Nicole Ponsardin ha riscritto la storia del suo tempo, afferrando le redini della Maison di Reims in mezzo a una caterva di pregiudizi. Paolo Lazzari il 16 Novembre 2022 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Barbe-Nicole Ponsardin prima di Veuve Clicquot

 L'incontro con la vigna

 Una visionaria innovatrice

L’acqua che si increspa suggerisce la riemersione in corso. Prima un braccio, poi l’intera muta. La squadra di sub che ha appena setacciato un relitto finito nella pancia del mar Baltico è incredula. Fuori erompe l’estate del 2011, ma lo scintillio non c'entra nulla con i raggi solari. In quelle tetre profondità abissali, bucate soltanto dalla tiepida luce delle torce, è stata rinvenuta una cassa di bottiglie. Risalgono a circa due secoli prima: l’imbarcazione è stata inghiottita dal mare tra il 1825 e il 1830, mentre compiva il suo tragitto verso la Russia. Sui colli delle bottiglie, un marchio che stappa una storia inequivocabile: quella di Madame Veuve Clicquot. Ma chi è questa grande donna del passato?

Barbe-Nicole Ponsardin prima di Veuve Clicquot

Il suo nome è Barbe - Nicole Ponsardin. Scansiamo subito le suggestioni favolistiche: è nata in una famiglia facoltosa, decisamente dalla parte comoda della storia. Fin da piccola flirta con i numeri anziché gingillarsi con le bambole: una risolutezza che abita nel sangue. Virtù comunque derubricate a inutili propaggini dal codice Napoleonico, se a possederle è una femmina. Per la legge del tempo le donne non sono soggetti di diritto e qualsiasi velleità deve ottenere il lasciapassare del padre o del marito.

L'incontro con la vigna

Così quando sposa Francois, il ricco rampollo di una delle famiglie produttrici di champagne in Francia - i Clicquot - il suo destino pare già inciso nella pietra. Vivere cucita all’ombra del marito è tutto quel che la vita sembra riservarle. Una compressa al cianuro per una donna che nutre ambizioni profonde. Ma l’esistenza, si sa, è un arnese fragile. Quando scocca il 1805 Francois muore improvvisamente - alcuni sussurrano insolentemente che si tratti di suicidio - e lei si ritrova da sola, a ventisette anni soltanto, con tutti quei vigneti che si estendono rigogliosi davanti alle sue pupille.

Qualunque donna dell’epoca farebbe quel che il senso comune impone: vendere la sua parte e trascorrere il resto dei giorni portando il lutto. Barbe invece ha altri progetti. Si sfrega quella pelle alabastrina, aggiusta i boccoli e raggiunge il suocero Philippe. Poi lo tira per la giacca e lo mette placidamente al corrente di un fatto: da lì in poi penserà lei all’azienda di famiglia. Quello per fortuna non si scompone, forse perché ha intravisto un potenziale che attende soltanto di divampare. Così le risponde che si può fare, a patto che sia disposta a sciropparsi un apprendistato per muoversi con disinvoltura dentro a ogni pertugio dell’impresa. Si stringono la mano e sorridono compiaciuti.

La sfida è tutt'altro che una docile pianura. Assomiglia piuttosto a un declivio scosceso. I banchieri si rifiutano di farle credito, persuasi che si tratti di una richiesta impudente, ché una donna non può certo garantire lo stesso grado di affidamento di un uomo. Lei però è troppo arguta per arrendersi. Ritrosie e difficoltà sono l’innesco per la nascita del suo marchio: inizia ad andare in giro costantemente vestita a lutto e a firmare tutti i documenti ufficiali con la sigla Veuve Clicquot Ponsardin. Quella vedovanza esplicitata racconta la presenza di un marito che non c’è più: abbastanza, comunque, per far cambiare idea a chi la osteggia.

Nel 1810 diventa la prima imprenditrice vinicola a produrre uno champagne millesimato nella sua regione: è già un prodigio, ma il meglio deve ancora venire.

Un anno dopo se ne sta con il naso all’insù, come praticamente mezza Francia. Nel cielo luccica la cometa di Flaugergues, fenomeno astronomico destinato a sfrigolare per 260 giorni. La sua coda è lunga 160 milioni di chilometri. Per molti è un presagio di sventura. Lei, che è alle prese con un raccolto fenomenale, ci intravede la sua buona stella. Negli stessi giorni in cui Napoleone sta invadendo la Russia travasa quel nettare, imprimendo su ogni bottiglia il marchio della cometa.

Una visionaria innovatrice

“Una sola qualità, la migliore”. Un mantra che è solita ripetere, ma che attende di dilagare anche fuori dai confini. Mica semplice, se Napoleone ti disinstalla i sogni con un embargo che colpisce mezza Europa. Più facile, certo, se un giorno tambureggia alla tua porta un seducente ufficiale russo. Porta in dote un paio di messaggi inequivocabili. Il primo: la corte di San Pietroburgo va pazza per il suo Champagne. Il secondo: lui la stima parecchio, e non solo come imprenditrice. Barbe sarà anche vedova, ma cede all’umana tentazione. Quella relazione scandalosa e spregiudicata le apre un varco inatteso. La società arriccia il naso, ma la sua ricchezza è una bardatura insuperabile.

Con i russi mette a segno il colpo che vale una vita: 10.000 bottiglie di champagne contrabbandate. Ovunque, nelle trincee, si disseta l’arsura a colpi di sabrage, la tecnica che prevede di ghigliottinare il collo di vetro con la lama di una sciabola. Barbe è ribalda, ma anche ingegnosa: sua l’idea di distinguere della vigne Grand Cru. Sempre sua la trovata di ruotare le bottiglie in cantina - con la table de remuage - e quella della sboccatura, per inseguire la limpidezza del contenuto.

Non basta ancora: Madame dispone che il gusto del suo champagne venga levigato e adattato di volta in volta, per sprimacciare i differenti palati europei. Una serie di abili tessiture che la posiziona sempre più in alto. Con lei alla guida un’azienda che produceva 60mila bottiglie all’anno passa all’implausibile soglia delle 700mila.

Impudente a oltranza, alzerà gli occhi al cielo di fronte alle vecchie carampane che la accusano di spassarsela con il giovane Louis Bohne Ed Edouard Werlè. Segni particolari: ventitré anni in meno, futuro marito, erede dell’impero al momento della dipartita di Barbe, nel 1866.

Dicono che una delle bottiglie estratte dai fondali del Mar Baltico sia stata venduta all'asta per 30mila euro. Chi ha potuto scolarsela, probabilmente, ha fatto tintinnare i calici in onore della Vedova.

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 28 ottobre 2022.

Di questi tempi, il racconto e la valorizzazione dei prodotti italiani è sempre più di vitale importanza. La nostra capacità di riconoscerne qualità, varietà e pregevoli differenze dovrebbe indurci a consumare e difendere – non a parole ma nei fatti – il made in Italy.

Oggi più che mai occorre proteggere il nostro patrimonio enogastronomico interno (che per assurdo è il più stimato a livello internazionale), anteponendolo a scelte modaiole un po' eccentriche, derivate da manie esterofile dilaganti poco sensate e, oltretutto, convenienti in misura modesta. 

Per quale ragione sempre più spesso nelle nostre carte dei vini – principalmente quelle dei consumi alla mescita e nei wine bar – si dà più rilevanza alle etichette francesi che a quelle italiane? Perché molti locali, soprattutto a Milano, propongono più Champagne che spumanti Metodo Classico? Grossomodo la zona della Franciacorta dista da Milano quanto la Champagne da Parigi, quindi potrebbe essere considerata la nostra Champagne ma così non è. Non viene percepita come tale.

Di fatto continua a crescere la proposta di piccoli produttori di Champagne, a prezzi abbastanza contenuti, quando in diverse zone come l'Alta Langa, il Trento Doc, la Franciacorta, appunto (solo per fare alcuni esempi) si trovano spumanti Metodo Classico di tutto rispetto. Anzi, spesso a parità di prezzo sono molto più buoni. Un discorso analogo vale per i bianchi e i rossi di Borgogna “a buon mercato”, oramai importati un po' ovunque in Italia, soprattutto se provenienti da piccoli produttori raccontati con la storiella che “quello è cugino di quell'altro molto più noto”. 

E quando un vino italiano viene proposto in carta sopra i cinquanta euro, il pensiero di molti si riduce al concetto approssimativo che su quella fascia tanto valga bere francese. Ecco, si tratta di un ragionamento sbagliato: perché per bere grandi bottiglie di Borgogna, quelle buone per davvero – che sono una piccola produzione – bisogna essere pronti a una spesa importante. Insomma, in molti pensano superficialmente che i vini francesi siano migliori dei nostri ma non è sempre vero.

Occorre informazione e, chi informa, dovrebbe assumersi alcune responsabilità prima di celebrare etichette che in molti casi nell'ultimo anno hanno rialzato i listini con percentuali superiori al 20%, rincari che su quelle italiane nessuno è disposto ad accettare. 

Aggiungo una verità un po' scomoda: i grandi vini francesi possono permetterseli in pochi e non sempre valgono il prezzo al quale vengono proposti. I vari Bordeaux, Borgogna o Champagne e soprattutto i Grand Cru sono ad uso e consumo di un'élite, non di certo alla portata di tutti. A dire il vero, in generale, le grandi bottiglie sono sempre più destinate al consumo per pochi. In Francia e soprattutto a Parigi, i vini di fascia bassa finiscono nelle mescite dei “Bar à Vin”, mica sulle carte dei vini del vasto numero di ristoranti stellati che la guida Michelin riconosce nel suo territorio di origine! Evidentemente non sono ritenuti all'altezza.

In generale oggi se si vogliono acquistare all'asporto vini internazionali spendendo meno di venti euro, si rischia la standardizzazione del nuovo mondo. Oppure, come dicevo prima, prodotti dimenticabili – perché onestamente troppo semplici – se si guarda alla Francia. In Italia, al contrario, si possono bere ottime bottiglie che hanno uno schema di valore incredibile e non soltanto nelle zone blasonate.

In conclusione, resta comunque una nota amara: il vino buono sta dimostrando di essere sempre più elitario, destinato a poche persone che non è nemmeno detto siano in grado di capirlo.

Gambero Rosso, i vini migliori sotto i 15 euro regione per regione. Vini ottimi, ma abbordabili: ecco i migliori calici «pop» secondo Vini d’Italia, tra le più autorevoli guide del settore. Il Corriere della Sera il 22 Ottobre 2022.

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro

Un vino non dovrebbe mai costare poco, perché a pagare poi potrebbero essere l'ambiente e l'intera filiera, cioè chi il vino lo fa, oltre alla qualità del prodotto in sé. Ma un vino non deve nemmeno necessariamente costare tanto: si possono comprare delle ottime etichette anche con 15 euro o 10. Ce lo ricordano da tempo gli esperti e tante guide del settore che sempre più spesso, oltre ai «top», offrono delle interessanti sezioni dei vini «pop», cioè appunto a un costo abbordabile.

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Alto Adige

Lago di Caldaro Classico Superiore, Quintessenz ’21, Cantina Kaltern

Santa Maddalena Classico ’21, Tenuta Ansitz Waldgries

Valle Isarco Grüner Veltliner ’21, Tenuta Ebner Florian Unterthiner

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Abruzzo

Abruzzo Pecorino ’21, Tenuta I Fauri

Abruzzo Pecorino ’21, Tenuta Terraviva

Abruzzo Pecorino Superiore Mantica V. di Caprafico ’20, Tommaso Masciantonio

Cerasuolo d’Abruzzo Rosa-ae ’21, Torre dei Beati

Cerasuolo d’Abruzzo Superiore, Villa Gemma ’21, Masciarelli

Montepulciano d’Abruzzo Becco Reale ’18, VignaMadre

Montepulciano d’Abruzzo Mo Riserva ’18, Cantina Tollo

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Campania

Aglianico del Taburno ’18, Fontanavecchia

Falanghina del Sannio Janare Anima Lavica ’21, La Guardiense - Janare

Falanghina del Sannio Lazzarella ’21, Vigne Sannite

Falanghina del Sannio Svelato ’21, Terre Stregate

Fiano di Avellino ’21, Tenuta Scuotto

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Basilicata

Aglianico del Vulture Calice ’20 Donato D’Angelo di Filomena Ruppi

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Lazio

Anthium Bellone ’21, Casale del Giglio

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Piemonte

Barbera d’Asti La Villa ’21, Tenuta Olim Bauda

Gavi del Comune di Gavi Monterotondo Et. Nera ’20, La Mesma

Gavi del Comune di Gavi Vigne Rade ’21, La Toledana

Moscato d’Asti Canelli Tenuta del Fant ’21, Tenuta Il Falchetto

Ovada Convivio ’20, Gaggino

Roero Arneis Sarun ’21, Stefanino Costa

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Veneto

Bardolino Montebaldo Morlongo Anniversario 50 Vendemmie ’20, Vigneti Villabella

Conegliano Valdobbiadene Rive di Ogliano Extra Brut ’21, BiancaVigna

Custoza Superiore Amedeo ’20, Cavalchina

Custoza Superiore Ca’ del Magro ’20, Monte del Frà

Custoza Sup. Summa ’20, Gorgo

Soave Cl. Monte Alto ’19, Ca’ Rugate

Soave La Broia ’20, Roccolo Grassi

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Puglia

Brindisi Rosso Susumaniello Oltremé ’20, Tenute Rubino

Five Roses 78° Anniversario ’21, Leone de Castris

Gioia del Colle Primitivo Fanova ’20, Terrecarsiche 1939

Gioia del Colle Primitivo Lavarossa ’19, Vito Donato Giuliani

Notarpanaro ’17, Cosimo Taurino

Primitivo di Manduria Lirica ’20, Produttori di Manduria

Primitivo di Manduria Passo del Cardinale ’21, Paolo Leo

Salice Salentino Rosso Riserva ’19, Cantele

Torre del Falco Nero di Troia ’21, Torrevento

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Lombardia

Capriano del Colle Bianco Fausto ’21, Lazzari

OP Buttafuoco Il Cacciatore ’20, Fiamberti

OP Riesling Renano V. Martina Le Fleur ’20, Isimbarda

Riesling ’21, Monsupello

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Toscana

Chianti Classico ’20, San Felice

Chianti Classico Valiano ’20, Piccini 1882

Costa dell’Argentario Ansonica ’21, Antica Fattoria La Parrina

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Calabria

Cirò Rosso Classico Superiore Duca Sanfelice Riserva 20, Librandi

Pecorello ’21, Ippolito 1845

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Sicilia

Etna Rosso Vulkà ’20, Cantine Nicosia

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Emilia Romagna

Colli Bolognesi Pignoletto Superiore ’21, Gaggioli

Reggiano Lambrusco Concerto ’21, Ermete Medici & Figli

Romagna Albana Secco Bianco di Ceparano ’21, Fattoria Zerbina

Lambrusco di Sorbara del Fondatore ’21, Cleto Chiarli Tenute Agricole

Lambrusco di Sorbara Leclisse ’21, Alberto Paltrinieri

Lambrusco di Sorbara Omaggio a Gino Friedmann FB ’21, Cantina di Carpi e Sorbara

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Friuli

Collio Malvasia ’21, Ronco dei Tassi

FCO Friulano ’21, Torre Rosazza

Friuli Pinot Bianco ’21, Vigneti Le Monde

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Marche

Lacrima di Morro d’Alba Superiore Orgiolo ’20, Marotti Campi

Offida Pecorino ’21, Tenuta Santori

Offida Pecorino Artemisia ’21, Tenuta Spinelli

Verdicchio di Matelica Collestefano ’21, Collestefano

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Sardegna

Mandrolisai Fradiles ’20, Fradiles

Vermentino di Gallura Petrizza ’21, Masone Mannu

Gambero Rosso, i vini migliori sotto 15 euro: Umbria

Montefalco Rosso ’19, Moretti Omero

Sua Signoria ’21, Briziarelli

Todi Grechetto Superiore Colle Nobile ’20, Tudernum

Il riconoscimento al vino prodotto da persone con disagio psichico. Vitematta, dai terreni confiscati di Casal di Principe alla guida “Vinibuoni d’Italia”. Redazione su Il Riformista il 27 Settembre 2022 

Vitematta vince 4 stelle, il massimo del punteggio, nella selezione “Vini da non perdere” per il 2023, con il suo Pietra Bianca – Asprinio Igt Terre del Volturno. Il prestigioso riconoscimento va alla realtà di Casal di Principe che produce vino su un terreno confiscato alle mafie. Su questi terreni Eureka ha dato vita al Centro di agricoltura sociale “Antonio di Bona”, agricoltore di Casal di Principe, vittima innocente di camorra. Cogliendo la sfida del riutilizzo sociale e produttivo dei beni confiscati alle mafie, la cooperativa include nel suo team persone svantaggiate nell’ambito della salute mentale, con il fine di contribuire al loro percorso di emancipazione. Da qui il marchio Vitematta.

L’Asprinio “Pietra Bianca” di Vitematta

Pietra Bianca – Asprinio IGT Terre del Volturno è un vino alla vista brillante e trasparente con riflesso giallo paglierino tenue, al naso si percepiscono note fresche tipicamente agrumate mentre al palato spiccano l’acidità e la mineralità tipica dei terreni di origine vulcanica. Un Asprinio prodotto a Casal di Principe su terreni confiscati alla criminalità organizzata.

L’Asprinio di Vitematta, come tutta la produzione Vitematta, viene prodotto da un’uva che nasce su due terreni confiscati alla criminalità organizzata nel territorio di Casal di Principe. Terreni affidati nel 2009 alla Cooperativa Eureka, creatrice di Vitematta, cooperativa sociale mista A/B aderente al consorzio di cooperative sociali N.C.O. Nuova Cooperazione Organizzata.

Su questi terreni Eureka ha dato vita al Centro di agricoltura sociale “Antonio di Bona”, agricoltore di Casal di Principe, vittima innocente di camorra. Cogliendo la sfida del riutilizzo sociale e produttivo dei beni confiscati alle mafie, la cooperativa include nel suo team persone svantaggiate nell’ambito della salute mentale, con il fine di contribuire al loro percorso di emancipazione. Da qui il marchio Vitematta.

La tradizione dell’Asprinio

E’ su questi terreni che Vitematta persegue l’obiettivo di preservare la tradizione ancestrale dell’Asprinio, e non solo. Una tradizione che risale agli antichi Etruschi con la tipica Alberata Aversana di vite maritata al pioppo.

Da Vitematta il vino è vinificato nelle tipiche grotte secolari dell’Agro Aversano scavate nel tufo.

Vinibuoni d’Italia – guida del Touring Club Italiano

Vinibuoni d’Italia è una guida unica nel panorama italiano e internazionale perché è la sola dedicata ai vini da vitigni autoctoni. Cioè a quei vini prodotti al 100% da vitigni che sono presenti nella Penisola da oltre 300 anni. Vinibuoni d’Italia si basa su un processo di selezione eccezionale per impegno e per trasparenza. Infatti collaborano oltre 80 degustatori riuniti in 21 commissioni di lavoro che operano nella loro regione di competenza. La finale per l’assegnazione dei massimi riconoscimenti, ovvero la Corona e la Golden Star, viene fatta pubblicamente ed è aperta alla partecipazione dei media.

Vincenzo Letizia, Responsabile di Vitematta afferma: “Siamo onoratissimi di essere con il nostro Pietra Bianca – Asprinio Igt Terre del Volturno in una delle più importanti guide del vino in Italia e non solo. Un traguardo di tale importanza ci gratifica ulteriormente per il nostro intenso lavoro di riscatto territoriale, di inclusione di persone sistematicamente escluse dalla società, per la nostra missione di salvaguardia dell’Asprinio e la qualità del nostro vino”.

Il vino del Piemonte è il più ricco d’Italia. L’analisi di Mediobanca. Marcello Pasquero su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.

Nella top 20 per fatturato c’è solo una cantina del territorio. Ma per redditività le imprese della regione sono in vetta alla classifica italiano. 

Solo una cantina tra le prime 20 d’Italia per fatturato, appena sei tra le prime 40. Tutte in un fazzoletto di km tra Santo Stefano e Cossano Belbo, Costigliole d’Asti, Canelli e Castel Boglione, nella zona dell’Asti Docg e Moscato d’Asti. Nel resto del Piemonte le aziende sono mediamente piccole, spesso poco strutturate, rigorosamente a conduzione famigliare, ma estremamente solide e redditizie. Sono queste le caratteristiche delle cantine piemontesi che emergono dal Report Vino 2022 di Mediobanca. Le aziende ai vertici di fatturato e bottiglie prodotte sono altrove, nella Toscana delle famiglie nobiliari, nel Veneto del Prosecco, nel Trentino del Trento Doc e nelle cooperative dell’Emilia-Romagna, ma il modello piemontese si conferma un unicum di successo, con un Roi (ritorno sugli investimenti) dell’8,2%, quasi doppio rispetto alle venete (5,5%) e alle toscane 4,4%). Piemonte in vetta anche per margini industriali (9,8% l’ebit margin), secondo solo alla Toscana, primo per esportazioni (72,2%), primo anche per rapporto tra costo del lavoro e valore aggiunto netto (Clup) pari al 38,7%.

C’è chi pensa in grande

Lo Z-score, uno degli indicatori più significativi per valutare lo stato di salute di un’azienda, vede ai vertici ben quattro delle sei cantine piemontesi con un fatturato superiore a 50 milioni di euro. In prima posizione la Santero Fratelli di Santo Stefano Belbo, in quarta Capetta Group, seguita da Fratelli Martini (l’unica piemontese con un fatturato superiore a 200 milioni di euro) e da Casa vinicola Morando. La zona dell’Asti, lo ha sottolineato più volte il direttore del consorzio Giacomo Pondini, gode di ottima salute, con oltre 90 milioni di bottiglie esportate, più del 30% del totale dell’export piemontese. Menzione a parte merita Gianfranco Santero, la mosca bianca dell’enologia piemontese. Prese in mano le redini della piccola azienda di famiglia, a Santo Stefano Belbo, ha sparigliato le carte con una comunicazione rumorosa, colorata ed efficace diventando uno degli inserzionisti di primo piano di Tv generalista, Pay tv e carta stampata arrivando nel 2020 a sfondare quota 100 milioni di fatturato, quasi unicamente sul mercato italiano, con crescite nell’ordine del 20% annuo. Il 958 ha “invaso” il mercato del Bel Paese a suon di spot: «Siamo stati i primi e siamo ancora gli unici ad essere andati oltre, ad aver creato una linea di bicchieri con il nostro marchio, ad aver diversificato puntando sull’aperitivo, sullo zero alcol e ora anche sugli energy drink, non ci poniamo limiti».

Seconde generazioni

Da Santo Stefano Belbo, precisamente da frazione Valdivilla, arrivano anche Bruno e Marcello Ceretto, fondatori della cantina omonima con una produzione da boutique: un milione di bottiglie, nei cru di Roero, Barbaresco e Barolo, in quella stessa Langa un tempo della Malora dove un fazzoletto di terra costa come un attico a Montecarlo e dove il paragone con la Borgogna, fino a ieri ardito, oggi inizia quasi a stare stretto. Roberta Ceretto Presidente e responsabile della comunicazione dell’Azienda vitivinicola di famiglia, sottolinea: «Non mi stupisce che nessuna azienda di Barolo, Barbaresco e Roero sia entrata nella classifica delle prime cantine per fatturato. Penso sia proprio questa la nostra forza. La storia del nostro territorio è fatta di piccoli produttori come mio padre che credendo fortemente nell’unicità dei loro vini hanno portato le Langhe e il Roero nel Mondo». Tanti solisti che hanno fatto, inconsciamente, un grande lavoro di squadra, ma Roberta Ceretto invita la seconda generazione dei patriarchi del vino a non abbassare la guardia investendo in qualità e comunicazione.

Gli investitori

Se la redditività media del vino piemontese sfiora il 10%, nella Langa del Barolo l’Ebitda supera ampiamente il 20%. Un dato che ha attirato investitori da ogni parte del mondo. Imprenditori scafati e già ben inseriti nel settore come il proprietario delle cantine Vietti e Enrico Serafino, Kyle Krause, si sono calati pienamente nella realtà Langhetta diventandone parte attiva. Una tendenza che dopo l’euforia del pre covid ora sembra aver rallentato perché, nonostante la marginalità elevata, troppe rimangono le incognite, dovute alle condizioni atmosferiche, per poter definire l’acquisto di vigneti in Langa un investimento sicuro. Il calo stimato del vendemmiato 2022 nell’ordine del 9%, a livello regionale, per la mancanza di precipitazioni, colpirà la Langa e in modo ancora più forte il Roero, come conferma il presidente del consorzio della sinistra Tanaro Francesco Monchiero: «Il Roero, più sabbioso rispetto ai territori limitrofi è il più colpito dalla siccità, prevediamo una qualità molto alta, ma perdite in quantità nell’ordine del 20% e in alcune zone del 30%. Come se non fosse bastata la grandine che ha azzerato il raccolto nell’area di Castellinaldo nel 2021». Incognite che non hanno fermato Riccardo Illy. Sfumato l’accordo con la Manzone di Monforte d’Alba, l’ex sindaco di Trieste ribadisce: «Stiamo trattando, come Polo del Gusto, con alcune aziende nella zona del Barolo su cui mantengo il riserbo per evitare che sfumi nuovamente l’affare. Le trattative sono in fase avanzata e confido che l’acquisizione possa essere annunciata entro la fine del 2022».

Il fortino dei barolisti

Nel comitato di accoglienza per l’imprenditore friulano potrebbe non esserci il presidente del Consorzio del Barolo e Barbaresco Matteo Ascheri: «La Langa dei nostri nobili rossi è come la barriera corallina che è stata preservata per anni dagli indigeni, ma che rischia di essere messa a repentaglio se calpestata e non rispettata da chi non ne conosce la storia, i sudori e i sacrifici. Elementi su cui sono stati piantati i vigneti. Penso che Barolo e Barbaresco non abbiano bisogno di investitori, men che meno se questi arrivano da settori diversi da quello vitivinicolo. La fortuna di questo territorio si fonda su piccole aziende famigliari e su una produzione di nicchia, finché il modello sarà questo resterà un modello vincente, in caso contrario il rischio è di pregiudicare il sottile equilibrio della nostra barriera corallina. Non dimentichiamo che solo qualche decennio fa le nostre colline erano considerate zona depressa».

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 3 ottobre 2022.

Le etichette dei vini non riportano i suoi ingredienti e nemmeno i possibili allergeni. Sempre più spesso però nelle retro-etichette troviamo indicate alcune certificazioni come biologico, biodinamico o sostenibile. Ma non solo, perché tra queste diciture può anche esserci quella di “vino vegano”. 

Il perché un vino abbia bisogno di certificarsi vegano non è chiaro a tutti, a partire da molti sostenitori del veganismo. In effetti, a rigor di logica, sembrerebbe scontato il fatto che i processi produttivi agronomici ed enologici non prevedano l'utilizzo di prodotti o attrezzature di origine animale. Insomma, si è portati a pensare che il vino – derivato dalla fermentazione dell'uva, che essendo un frutto appartiene al mondo vegetale – si produca in assenza di sfruttamento animale ma, evidentemente, così non è.

La produzione di vino vegano, infatti, si ottiene attraverso rigorose verifiche effettuate da marchi privati, ma non è certificata da normative europee, a differenza del biologico, parola che nei paesi di cultura anglosassone si traduce in etichetta con il termine organic. 

Invero il vino vegano esula da requisiti ambientali verificando solo l'assenza di prodotti di origine animale negli ingredienti e, a seconda della certificazione, anche nel packaging.

Per quanto riguarda invece i vini non vegani, possono essere utilizzati in fase di produzione prodotti di origine animale. Per fare un esempio su tutti, nel processo di chiarificazione è possibile l'utilizzo di proteine animali come l'albumina d'uovo (che figura peraltro nella lista degli allergeni). Torniamo dunque al discorso di partenza, giacché una bottiglia di vino non contiene soltanto il risultato della fermentazione di una frutta chiamata uva.

Per quanto riguarda il packaging certificato vegano, è vietato chiudere le bottiglie con la cera prodotta dalle api, così come sono bandite colle e inchiostri di origine animale, solo per fare alcuni esempi. Tuttavia, un vino vegano può non essere biologico che, come già detto, è una certificazione garantita da una normativa europea e viene prodotto a residui zero, nel rispetto dell'ambiente, delle risorse e del clima.

Seppure a maglie larghe, a mio parere, la normativa stabilisce confini molto netti su cosa sia ammesso per la produzione e cosa categoricamente no. Esiste poi il vino sostenibile (al giorno d'oggi ampiamente diffuso), ovvero quello che viene prodotto dalle aziende che analizzano il proprio impatto sull’ambiente e si impegnano costantemente per diminuirlo, con azione attiva nell'ambito etico, sociale ed economico su tutta la filiera. 

Un’azienda che produce un vino sostenibile, per altro, è tenuta a dimostrare di attuare delle politiche di tutela verso i lavoratori, comunicazione trasparente, attività nel sociale e consapevolezza della propria filiera.

Ricapitolando. Non è detto che il vino vegano sia biologico e nemmeno che sia sostenibile. Escludo che possa dichiararsi biodinamico in quanto le regole della biodinamica – pseudoscienza figlia dei dettami dell'austriaco Rudolf Steiner – prevedono la cosiddetta “dinamizzazione” dei suoli attraverso l'utilizzo dei cavalli sui terreni e del cornoletame, che mi farete la cortesia pudica di approfondire altrove, così da risparmiarmi di concludere parlando di deiezioni animali

Un vino non si giudica con il libretto delle istruzioni. SONIA RICCI su Il Domani il 23 settembre 2022. Ci sono regole per giudicare i vini che sono semplicemente vecchie e barocche. Forse è tempo di cambiarle

Una delle prime cose che si imparano ai corsi per sommelier è distinguere il colore del vino. Paglierino, verdolino, chiaretto, aranciato, rubino, porpora, granato. E che ogni bicchiere ha il suo grado di limpidezza, consistenza ed effervescenza nel caso degli spumanti. Il naso, dicono a volte le associazioni di sommelier, racconta molto più di quello che può dirti il palato.

Un vino può essere carente di intensità o ampio in complessità, e le descrizioni si sprecano: vinoso, floreale, fruttato, erbaceo, etereo, franco, fragrante, speziato e minerale, termini che spesso vengono pronunciati a sproposito. Immersi in questa dialettica è difficile trovare la risposta a una domanda: il vino può essere racchiuso in quattro regolette da tramandare di studente in studente? Davvero il paese con il maggior numero di vitigni autoctoni al mondo (ben 545), com’è l’Italia, può accontentarsi di una simile schematizzazione terminologica? Eppure è così.

Questi criteri vengono utilizzati anche per giudicare le bottiglie che vogliono vantare i contrassegni Doc o Docg. La procedura è lunga, il vino deve rispettare le regole del disciplinare, essere analizzato chimicamente e assaggiato da una commissione di degustazione. Se supera i tre passaggi può esporre la fascetta, altrimenti no. Ma è proprio nell’ultimo passaggio che molti vini vengono bocciati. A volte ingiustamente. 

REGOLE VECCHIE

È il caso della cantina umbra Raína e del suo vignaiolo Francesco Mariani, lo ha ricordato Jacopo Cossater su questo giornale, che ha deciso di rinunciare alla certificazione per il suo Trebbiano spoletino, dopo che, per più volte, la commissione lo ha respinto per “anomalie” all’olfatto e al gusto. Mariani non è il primo a prendere una decisione simile, rischiosa perché può incidere sulle vendite; i marchi Doc e Docg sono un traino importante. Eppure quell’etichetta non è insufficiente, anzi, è una delle migliori interpretazioni presenti in regione.

Sono le regole semantiche e barocche che vigono nel mondo del vino a essere vecchie e parziali. Quelle sì che sono insufficienti a raccontare una viticoltura che negli ultimi vent’anni è cambiata profondamente, che ha immesso nel mercato nuovi vini, diversi e meno omologati. Un discorso che, è sempre bene specificare, non riguarda i vini scorretti o con puzze di ogni tipo. Insomma, sarebbe ora di finirla con i corsi infarciti di un linguaggio che in cantina non si parla, così come è necessario riformare le commissioni che utilizzano criteri troppo limitati per i tempi in cui viviamo.

SONIA RICCI. Nata a Foligno nel 1987, è redattrice di Domani. Ha lavorato per quasi dieci anni per l'agenzia stampa Public Policy come giornalista parlamentare. Ha scritto per Repubblica e Il Messaggero. Si occupa di politica ed enogastronomia. È coautrice de "L'Italia di vino in vino" edito da Altreconomia.

I vini di Puglia tra storia e gusto. Nell’«Atlante dei vitigni di territorio» un viaggio alla scoperta delle varietà autoctone. Angelo Sconosciuto su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Settembre 2022.

È sufficiente pensare all’alberello – «pugliese», appunto – per considerare quanto sia antico e solido il legame tra la Puglia e la viticoltura: riscopriamo Andrea Bacci ed il suo «De naturali vinorum historia de vinis Italiæ et de conuiuijs antiquorum libri septem» stampato a Roma a fine Cinquecento? Nossignore: restiamo all’attualità di una ricerca con l’«Atlante dei vitigni e vini di territorio», curato da Alberto Palliotti, Oriana Silvestroni e Stefano Poni e pubblicato da Edagricole di Milano qualche mese fa. In esso si propongono in materia sistematica, e secondo un criterio geografico regionale, i «genotipi italiani autoctoni poco noti e diffusi».

«A testimonianza del rinnovato interesse verso i vitigni di territorio – scrivono i curatori –, è stato di recente codificato il termine “autoctono”» e, citando la legge, spiegano che le espressioni «vitigno autoctono italiano» o «vitigno italico» altro non stiano a significare se non «il vitigno appartenente alla specie “Vitis vinifera”, di cui è dimostrata l’origine esclusiva in Italia e la sua presenza – lo dice la legge – è rilevata in aree geografiche delimitate del territorio nazionale». Se poi si pensa che dal 2010 ad oggi, sono stati iscritti nel «Registro nazionale delle Varietà di Vite da vino» «ben 169 vitigni, dei quali 112 autoctoni (43% a bacca bianca e 57% a bacca nera), 19 sono vitigni da incrocio di varietà “Vitis vinifera”, 3 stranieri e 35 varietà ibride interspecifiche resistenti a peronospora e oidio», il quadro è ben delineato ed hanno ben donde i curatori a sottolineare «l’importanza che i vitigni autoctoni stanno rivestendo nel panorama viticolo italiano, da un lato, e il recepimento della necessità di valorizzare meglio il legame “vitigno autoctono – paesaggio”, dall’altra». In sostanza, nell’«Atlante» si descrivono 126 vitigni, «originari di specifici territori di tutte le regioni italiane e a diffusione limitata, ovvero non superiore a 200 ettari di superficie coltivata».

Puntando ora lo sguardo sulla Puglia, che vanta 87mila ettari di superficie coltivata a vite, gli studiosi coinvolti nella redazione dell’«Atlante» (Pierfederico Lanotte, Pasquale Venerito, Giovanna Bottalico, Costantino Silvio Pirolo e Vito Nicola Savino) hanno prima evidenziato i tre bacini viticoli omogenei fra Capitanata, Murgia centrale e Salento–arco jonico, quindi hanno posto in risalto come la produzione di vini Dop si attesti sul 4,9% del totale ed i vini Igp sul 22%. Accanto ai già noti bianchi «Verdeca/Pampanuto», «Bianco di Alessano» e «Bombino Bianco» ed ai vitigni a bacca rossa «Primitivo», «Negro Amaro», «Malvasia nera di Brindisi/Lecce ed altri vitigni in via di diffusione come il Susumaniello nell’area Salento–Arco Jonico», «Nero di Troia e Bombino Nero nell’aerea Murgia Centrale e Capitanata», gli studiosi considerano «altri vitigni minori a rischio di erosione genetica», ricordano l’alberello pugliese e non dimenticano che, soprattutto pensando ai Monti Dauni, dall’antico «Arbustum» deriva il tendone.

E quindi ecco «Cigliola Bianca», «Maresco», «Minutolo», «Moscatello Selvatico», vitigni a bacca bianca; nonché «Notardomenico», «Ottavianello» e «Somarello Rosso», vitigni a bacca nera: sette in tutto, e ben descritti dagli studiosi. Non c’è alcuno dei tre bacini a non essere coinvolto in queste tipicità studiate. Perché se i vitigni di «Cigliola Bianca» con i loro acini dalla polpa carnosa e capaci di conservare «a maturità un sapore gradevole e leggermente aromatico» sono nella provincia di Lecce ed in Valle d’Itria, «dove è conosciuto con il sinonimo di “Uva Attina”», quelli di «Maresco», invece, sono propri della Valle d’Itria con quegli acini «dal caratteristici colore giallo intenso e polpa succosa e acida». La Cigliola, però, è attestata in Terra d’Otranto già nella seconda metà dell’Ottocento, mentre il «Maresco», «pur non citato nei lavori di ampelografia pugliese – si legge –, è presente nella zona da epoca remota».

Anche con i vitigni di «Minutolo» restiamo in Valle d’Itria e se le parole hanno un senso preciso, di questo vitigno – la cui «polpa, succosa e fortemente aromatica, rappresenta la caratteristica distintiva fondamentale» – va detto che «identifica le produzioni pugliesi della Valle d’Itria..., anche se l’interesse per la varietà è allargata ai produttori di tutta la Regione». E poi: «in passato, e ancora oggi fra i vecchi viticoltori – si legge –, il Minutolo era conosciuto come Fiano...». Pure il «Moscatello Selvatico» con «polpa debole e molle tenera», ha la sua bella storia. «Identifica fortemente le produzioni pugliesi... del Moscato di Trani, nel circondario di Barletta», annotano gli studiosi e proprio sul versante della storia ricordano come «la produzione di vini a base di Moscato, a cui indubbiamente concorreva anche il Moscatello Selvatico, era tradizione in Puglia già nel XVII secolo».

Le province di Brindisi e Bari attestano poi la presenza del vitigno «Notardomenico», i cui acini di colore rosso scuro–violetto hanno «buccia fortemente pruinosa». Citato da autori di fine ‘800 «è stato generalmente coltivato e vinificato in uvaggio con l’Ottavianello, altro vitigno autoctono del Brindisino col quale entra per la produzione del vino Doc Ostuni». E ricordando che «lo stesso vitigno è presente con altre denominazioni in differenti aree vitivinicole della regione Puglia», volgiamo appunto l’attenzione sull’«Ottavianello» vitigno diffuso in provincia di Brindisi e in Valle d’Itria, i cui acini presentano «polpa succosa e consistente». Anche qui una storia da raccontare circa la sua importazione da altri luoghi d’Italia, la sua qualità di essere «resistente alle malattie crittogamiche ed al favonio, vento caldo e secco proveniente da Ovest, nocivo per l’agricoltura della Regione». Chiude la rassegna di questo «Atlante» il «Somarello Rosso» registrato in provincia di Foggia, Bat e Bari. «Polpa carnosa e succosa, leggermente aromatica e zuccherina», si legge del grappolo del Somarello «che ha una storia antica e popolare» e così, mentre il Somarello Nero «è praticamente scomparso dalla coltivazione (restano alcuni esemplari nei campi collezione)», l’altro «è coltivato seppur su superfici modeste o addirittura piccoli pergolati e in alcuni comuni del Foggiano». Una pagina di storia regionale, quella descritta nell’«Atlante»: una pagina da leggere tra i pampini e all’odore della terra coltivata.

Cantine Due Palme premiata da Gambero Rosso come “Miglior Cantina Cooperativa” dell’Anno. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 21 Settembre 2022 

Un riconoscimento che ricompensa tutto l’investimento fatto negli anni per la tutela del patrimonio autoctono e la cieca fiducia racchiusa nel sogno di un uomo del Sud, che con entusiasmo e capacità imprenditoriali ha nesso in piedi un team di 250 persone e portato avanti una passione ereditata, e a sua volta trasmessa con analogo successo a figli e nipoti

La cantina salentina fondata da Angelo Maci ed ora guidata dalla figlia Melissa è una protagonista della vitivinicoltura pugliese, sia per i numeri che per la qualità. Una realtà in cui la cooperazione gioca un ruolo decisivo nell’assicurare una costante produzione di livello. Per i 33 anni di grande lavoro svolto sul territorio, Due Palme è per Gambero Rosso la “Prima Cantina Cooperativa dell’Anno” . 

Un premio assegnato in base a molteplici fattori di merito, tra cui l’impegno profuso per una produzione sempre più green. Ormai da diversi anni, infatti, Due Palme investe tempo e risorse per raggiungere quest’obiettivo, a partire dal confronto e dalla formazione con i 1000 soci viticultori su metodi agricoli innovativi a basso impatto ambientale, alla scelta delle materie prime.

Un riconoscimento che ricompensa tutto l’investimento fatto negli anni per la tutela del patrimonio autoctono e la cieca fiducia racchiusa nel sogno di un uomo del Sud, che con entusiasmo e capacità imprenditoriali ha nesso in piedi un team di 250 persone e portato avanti una passione ereditata, e a sua volta trasmessa con analogo successo a figli e nipoti. 

La vera svolta in casa Due Palme infatti, è stata la nomina di Melissa Maci a Presidente della cooperativa che negli anni ha incorporato 6 cantine e, di recente, il “Wine Resort Villa Neviera“. Compito ardimentoso ma che rende tutta la famiglia Due Palme fiera di essere guidata da una figura femminile coraggiosa e determinata, dotata di spiccate capacità imprenditoriali. “Questo premio è uno dei più importanti della mia carriera – ha commentato il fondatore Angelo Maci, che non nasconde il proprio entusiasmo – perché racchiude sacrifici, scelte e tempo investito a coltivare un sogno che, a questo punto, sarebbe più giusto chiamare progetto, in cui io per primo ho creduto, ma che non avrei portato avanti senza i miei collaboratori, e che ha generato un indotto di cui non posso che essere fiero perché finalmente tutto il mondo ha rivolto lo sguardo verso una terra in cui nessuno credeva“. 

“Un eminente professore dell’università americana di Yale, avrebbe detto: Nessuno può fischiettare una sinfonia. Ci vuole un’intera orchestra per riprodurla. – dice Melissa Maci, Presidente di Cantine Due Palme – Ho sempre creduto nella forza cooperativistica e soprattutto che lavorare in squadra potesse portare a raggiungere traguardi inimmaginabili. Nel futuro della Due Palme c’è sicuramente la voglia di continuare a crescere, facendo conoscere ovunque il frutto del lavoro di tanti soci conferitori che continuano a darci fiducia. Questo premio ci motiva ulteriormente a perseguire gli scopi che determineranno il nostro futuro come, ad esempio, la creazione di nuovi progetti che possano far conoscere appieno il mondo del vino attraverso experience che conquistino e stupiscano enoappassionati e curiosi.”

“Dedico questo premio in primis a mio Padre, ai suoi sforzi, ai suoi sacrifici e alla sua caparbietà; al Consiglio di Amministrazione che mi supporta e mi consiglia in ogni scelta – aggiunge Melissa Paci – ai soci e a tutte le loro famiglie che continuano ad aver fiducia nel sistema cooperativistico, permettendo a questa terra di crescere; ai miei collaboratori, che per me sono famiglia, con i quali ogni giorni affrontiamo sfide sempre nuove con lo scopo di non deludere mai il mandato che ci è stato dato; ai nostri clienti che continuano a scegliere i nostri vini e ai nostri fornitori grazie ai quali continuiamo ad essere competitivi sui mercati nazionali e internazionali “.

Redazione CdG 1947

Vendemmia di notte, quando la terra non brucia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Settembre 2022

La "Vendemmia Notturna" è ormai un rito propiziatore di un’annata proficua e copiosa. Una serata dedicata al vino ma anche alla storia, alla tradizione ai sapori e alla musica, ricordandoci sempre che se tutto parte dalla terra, e alla terra e chi la tutela, ama e protegge, che si deve sempre dire grazie

Puntuale torna a settembre uno tra gli appuntamenti più amati dagli amanti del vino: la “Vendemmia Notturna” di Cantine Due Palme evento che miscela diversi “mood” come il vino, il food a km 0 e lo spettacolo. L’edizione 2022 della manifestazione è stata organizzata come sempre nei minimi dettagli da Antonella Maci, event manager dell’azienda vinicola pugliese che quest’anno è stata affiancata dal Movimento Turismo Del Vino Puglia guidato dal suo presidente Massimiliano Apollonio. Una serata dedicata al vino ma anche alla storia, alla tradizione ai sapori e alla musica, ricordandoci sempre che se tutto parte dalla terra, e alla terra e chi la tutela, ama e protegge, che si deve sempre dire grazie. 

L’appuntamento tra i vigneti di Cantine Due Palme ha riunito gli appassionati ed esperti del settore alla riscoperta di prelibatezze enogastronomiche del Salento e soprattutto dei vini Due Palme nella splendida cornice di Villa Neviera, il progetto più ambizioso dell’azienda cellinese, fortemente voluto dal suo fondatore Angelo Maci e da sua figlia Melissa Maci, Presidente del consiglio di amministrazione di Cantine Due Palme. 

La “Vendemmia Notturna” è ormai un rito propiziatore di un’annata proficua e copiosa e, in occasione di questa edizione, a brindare all’antica Villa Neviera che ha aperto le sue porte per far conoscere la sua bellezza e soprattutto la sua storia, quale antica residenza del marchese Antonio de Viti De Marco e rifugio del re Vittorio Emanuele III che tra i suoi viali di pini secolari ha fatto da cornice all’infanzia di generazioni di uomini e donne del Salento.

Molti gli amici che hanno partecipato alla manifestazione e portato il loro saluto, dal Presidente di Assoenologi Riccardo Cotarella ai Presidenti dei Consorzi di Tutela del Salice Salentino DOC Damiano Reale e Novella Pastorelli, recentemente eletta Presidente del Consorzio di Tutela del Primitivo di Manduria; presenti anche molti Presidenti di Aziende Vinicole che si sono ritrovati insieme con l’intento di rendere memorabile quella che possiamo definire una vera e propria festa dell’enologia pugliese.

Al centro della serata-evento la “Wine Experience” proposta da Cantine Due Palme: un vero e proprio viaggio tra le eccellenze enogastronomiche della Puglia accompagnato dai vini propri vini. 

Tra le degustazioni una versione gourmet firmata dallo chef Ivan Tronci del FRISCOUS di Petramarè, nuovo must delle cucine di tutto il Salento; in degustazione, grazie anche all’estro dello chef Alessio Gubello, i legumi dell’Azienda di Zollino “Calò&Monte” rappresentati dal Pisello Nano vero e proprio fiore all’occhiello della nostra terra. La “Wine experience” ha incluso anche la degustazione dei Salumi firmati dalle sorelle Mocavero, i formaggi biologici della Masseria Cinque Santi e il pane dello Chef panificatore Antonio Torre. Le degustazioni si sono chiuse in dolcezza, con i dolci della tradizione culinaria pugliese preparati dalla Pasticcera Serena Cosma che ha realizzato delle tartellette con bavarese al cioccolato e mirtilli. 

La serata è stata accompagnata musicalmente dalla TRIBUTE BAND FUTURA del cantante Simone Perrone ha aperto il palco all’esibizione più attesa, quella del cantautore Bungaro accompagnato dal pianista Antonio Fresa, che ha raccontato, con la sua eleganza artistica, trent’anni della sua meravigliosa storia musicale. Redazione CdG 1947

Scientificamente. Cambiare la narrazione del vino. Gastronomika su L'Inkiesta il 5 Settembre 2022

Siamo sempre più convinti che anche nel giornalismo enologico serva una nuova impostazione e partendo da basi solide vogliamo raccontarvi questo ambito più dall’interno. Per questo da oggi abbiamo un consulente tecnico

Quando abbiamo conosciuto Andrea Moser, poco più di un anno fa, abbiamo subito capito che, oltre a saper fare bene il vino, aveva un’altra grande dote: spiegare a noi comuni mortali le tecniche produttive e rendere facilmente fruibili anche ai non addetti ai lavori concetti complessi del mondo dell’enologia. Da allora abbiamo lavorato insieme sulla comunicazione e siamo particolarmente felici di essere arrivati oggi a un suo coinvolgimento diretto su Enologika, la costola dedicata al vino di Gastronomika. Da questo settembre, l’enologo e Kellermeister affiancherà la Redazione come consulente tecnico-scientifico e ci aiuterà a raccontare meglio la sua professione e questo settore. Speriamo così di diventare bevitori più consapevoli e di riuscire ad andare anche nel mondo del vino al di là di recensioni e di degustazioni, con un approccio più mirato a migliorare le nostre conoscenze su come si coltiva e come si produce questo prezioso testimone di territori e veicolo di italianità nel mondo.

Ve lo presentiamo usando le sue parole, così che possiamo conoscere la sua storia e le sue competenze prima di vederlo alle prese con il suo primo impegno con noi: raccontare la vendemmia 2022.

Andrea Moser è Kellermeister in una importante cantina dell’Alto Adige, sul meraviglioso lago di Caldaro. Gestisce come enologo e direttore tecnico una cooperativa vitivinicola formata da 590 soci e 450 ettari vitati, nata a inizio del 1900 e che ha riunito nel tempo tutte le realtà cooperative della zona. 

Detesta le note verdi nel vino, la mancanza di eleganza a tutto tondo, le persone che afferrano il bicchiere per il bevante e i vini fatti male da chi non ha gli strumenti per capire cosa sbaglia. Ama i rapporti umani dal vivo, le persone curiose di imparare e i winemaker che sanno cosa fare, ma soprattutto non fare, per creare un vino davvero unico. Ama il vino visceralmente, e ogni giorno lo fa, lo studia, prova a capirlo e soprattutto… lo beve!

Ha un animo alpino ma il suo cuore è al mare, qualcuno gli ha appioppato il nomignolo di “Pirata del Kalterersee”. Adora pescare, cucinare per le persone che ama e da grande farà la Dakar, perché, come dice spesso, se è tutto sotto controllo, non stai andando abbastanza veloce. Precisione, ricerca e curiosità sono sempre con lui: cerca di non smettere mai di capire perché succedono le cose, soprattutto in questo mondo così affascinante. 

Nato a Trento nel 1982, vive a Caldaro e ha studiato presso l’Istituto Agrario di San Michele all’Adige (diploma di Enotecnico 2003) e in seguito presso l’Università di Trento (ingegneria alimentare con specializzazione in Viticoltura ed enologia).

Il suo percorso professionale è iniziato in Friuli Venezia Giulia presso l’Azienda Agricola Vie di Romans sotto la guida del grande tecnico Gianfranco Gallo. Negli anni successivi è stato a Margaux presso Chateau Ferriere, per una partecipazione attiva alla vendemmia, per poi tornare verso casa, alla cantina Franz Haas. Questa immersione nel mondo altoatesino ha segnato la sua visione enologica e il suo modo di interpretare il vino. Il lungo rapporto con Franziskus Haas ha gettato le basi e ha ampliato la sua esperienza di enologo, e gli ha dato la possibilità di crescere a livello umano e organizzativo.

Con Agostino Arioli e Matteo Marzari ha fondato nel 2009 il birrificio Klanbarrique.

Alla ricerca di un confronto internazionale, arricchito da numerose esperienze lavorative all’estero, nel 2008 si è recato in Nuova Zelanda per una vendemmia nella mitica Cloudy Bay winery, che ha fatto nascere in lui l’amore per il Sauvignon Blanc.

Alla continua ricerca di nuove sfide, nel 2013 ha intrapreso una breve collaborazione come enologo capo presso Cantina di Isera per poi approdare con entusiasmo alla sua occupazione attuale, una realtà che lo ha scelto e ha avuto il coraggio di scommettere su un giovane per cambiare radicalmente la propria impostazione.

Si è così trovato proiettato in una vendemmia 2014 di non facile interpretazione, galvanizzato da questa sfida e, allo stesso tempo, rassicurato da un gruppo di collaboratori e di soci votati alla ricerca della qualità a tutti i costi.

Il suo obiettivo a lungo termine è quello di rilanciare il vitigno che incarna al meglio il territorio di Caldaro, la Schiava. Questa sua attenzione si affianca all’esaltazione dei caratteri altoatesini dei due varietali che meglio esprimono il carattere regionale, Pinot bianco e Sauvignon blanc. Ama sperimentare, e ha creato fin da subito un progetto dall’anima rock, che mescolasse le meravigliose uve di questo territorio con tecniche e vinificazioni contemporanee. Qualcosa che andasse fuori dagli schemi e diventasse una sperimentazione per i vini del futuro. Sono nati così i vini di #ProjectXXX eXplore – eXperiment – eXclusive. Oggi, a distanza di otto anni, sono 22 etichette che raccontano la sua storia qui, espressione del percorso professionale e del modo di intendere il vino di questo giovane interprete dell’enologia italiana.

Benvenuto a lui e in bocca al lupo per questa nuova avventura con noi! 

Uva sucus. Plinio il Vecchio, l’enologo dell’Antica Roma. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

Una guida per appassionati di vino: agile, divertente, chiara, scritta con competenza. E ha 2000 anni. 

Nella Naturalis Historia Plinio descrive e cataloga decine di varietà di vite, analizza le caratteristiche dei diversi terroir, recensisce bottiglie italiane e straniere. Viaggiare tra le sue pagine è scoprire quanto l’antichità classica sia ancora vicina, almeno nel bicchiere.

Non c’è mai niente di nuovo sotto il sole. La passione per il vino buono e la voglia di raccontarlo, l’attenzione al territorio e alle sue tipicità, la cura posta nell’organizzare catalogazioni utili a scegliere con criterio, l’attenzione alle proprietà nutrizionali e salutistiche. Tutto era già passato attraverso la penna di Plinio il Vecchio un paio di migliaia di anni fa. Anche la rivalità sempre attuale tra Italia e Francia. «Da dove potremmo meglio cominciare, se non dalla vite, rispetto alla quale l’Italia ha una supremazia così incontestata, da dar l’impressione di aver superato, con questa sola risorsa, le ricchezze di ogni altro paese, persino di quelli che producono profumo? Del resto, non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore». Con queste parole Plinio inizia la sezione della Naturalis Historia (“La storia naturale”, edizioni Einaudi) dedicata al mondo del vino.

È questa l’opera più importante di un grande studioso, dal sapere enciclopedico e dalle straordinarie capacità di ricercatore: quasi 500 le fonti greche e latine consultate per creare una summa culturale che spazia dalle arti figurative alla geografia, dalle scienze naturali alla medicina, fino alla botanica e alla gastronomia. Plinio, nato a Como nel 23 d. C. da una ricca famiglia appartenente all’ordine equestre, ricoprì importanti incarichi politici e militari, ma è al sapere che dedicò la sua esistenza: comandante della flotta con base a Miseno, come seppe dell’eruzione del Vesuvio del 79, accorse con le navi per portare aiuto alla gente di Pompei e di Ercolano, e per osservare da vicino il fenomeno. Troppo da vicino: morì a Stabia, soffocato dalle ceneri.

La sezione della Naturalis Historia dedicata all’enologia è organizzata con rigore e chiarezza: la prima parte del libro XIV è dedicata alla vite, la seconda al vino, la terza alle tecniche di lavorazione delle uve.

La vite e i vitigni

«La vite, introdotta nell’accampamento, simboleggia, in mano al centurione, l’autorità e il comando… le viti hanno suggerito le idee per le macchine d’assedio. Per ciò che concerne il potere medicinale, hanno un’importanza così grande, da essere esse stesse, senza altra aggiunta, una medicina col vino che danno», Poco da stupirsi, quindi, che l’erudito dedicasse tanto spazio alla catalogazione delle viti, partendo dalle varietà straniere per arrivare a quelle italiane.

Tra queste «il primo posto è assegnato alle viti aminnee, per la robustezza del loro vino che prende corpo sempre di più con l’invecchiamento»: sono le viti più celebri del mondo romano; il loro nome deriva da quello di una località campana e molti ritengono che da esse derivi l’attuale Aglianico. «Il secondo posto va alle viti nomentane che, per il legno rossastro, sono state da taluni chiamate viti rossicce… sono resistentissime alle gelate e soffrono di più la siccità che la pioggia, più il caldo che il freddo; per questo motivo eccellono nelle zone fredde ed umide», caratteristiche per le quali non stupisce che dall’antica Nomentum, Mentana, nel Lazio, queste viti si siano trasferite sulle Alpi, e molti le identifichino con il Traminer.

Poi «alle viti apiane hanno dato questa denominazione le api, che ne sono ghiottissime»: alcuni le ricollegano al Moscato per la loro dolcezza, altri al Fiano, che prenderebbe nome da apianus, appunto. Tutte queste erano uve autoctone: Plinio passa ad elencare quelle che già allora erano note come importate, coltivate in Italia e provenienti dalle isole greche o dalle regioni del Nord, dall’Epiro o dalla Spagna.

Lo storico sottolinea il legame forte tra le viti e il loro territorio d’origine, tanto che spesso «non possono essere trasferite in alcun luogo senza che la loro qualità venga intaccata». L’influenza del terroir era già chiara, così come l’azione del clima, di fattori come la brezza marina o la pioggia, che fortificano o indeboliscono di volta in volta le diverse varietà di vite: un esempio? La spionia che «sopporta il calore e cresce con le piogge autunnali; anzi è la sola ad essere rinvigorita dalla nebbia, fatto per cui è tipica dell’agro ravennate».

Si passa poi a elencare le varietà locali, quelle meno comuni e gli ibridi. Si parla della perusinia, antenata del Lambrusco, diffusa a Modena fiera dei suoi acini neri, «il cui vino sbianca nel giro di quattro anni». E proprio a Modena «esiste, cosa straordinaria, un tipo di uva che segue i movimenti del sole e che per questo è denominata streptis», ossia pieghevole. Nessuno ne ha mai trovato traccia: sarà davvero esistita?

I vini

Se già leggendo la sezione dedicata alle viti si rimane sorpresi per la grandissima attualità del testo, è quando Plinio passa a raccontare i vini e le loro qualità che tra le pagine prende vita il lavoro di un moderno sommelier. Si parte dai vini omerici, famosissimi nel mondo antico, che ancora si producevano all’epoca di Plinio e si apprezzavano tanto che i loro prezzi erano altissimi: si trattava di vini molto forti, al punto che andavano diluiti con otto parti di acqua per ogni parte di vino e in alcuni casi addolciti con miele. Ma non solo la tradizione e la fama decretavano il successo di una bottiglia (o di un’anfora): già allora l’annata era considerata un fattore fondamentale. «Restò celebre un’annata per la bontà di tutte le specie: fu l’anno del consolato di Lucio Opimio (121 a.C.), quando il tribuno Caio Gracco, attizzando le sedizioni della plebe, fu assassinato. Tale fu la temperatura – la si chiama cottura – mantenuta da un sole splendente nell’anno 633 dalla fondazione di Roma, che si conservano tuttora vini di quell’anno vecchi di quasi duecento anni, ormai trasformatisi in una sorta di miele amaro (è proprio questa, infatti, la caratteristica dei vini invecchiati), che non si possono bere puri o stemperati in acqua, perché l’incorreggibile rancidezza conferisce loro un sapore amaro; ma, mischiati in piccolissima quantità, si usano per tagliare gli altri vini che si vogliono valorizzare». Competenze tecniche, conoscenze storiche, sensibilità del palato, chiarezza di scrittura: tutto quello che sarebbe richiesto ancora oggi a un giornalista enogastronomico. Anche uno sguardo approfondito al mercato: «Tanto denaro rendono le cantine! Nessun’altra merce acquista più valore nel giro di vent’anni».

Plinio è consapevole che il miglior giudice della qualità di un vino è il consumatore. A questo proposito racconta i gusti di alcuni VIP dell’epoca. Giulia Augusta, seconda moglie di Augusto, sosteneva che grazie al vino di Pucino era arrivata all’età di 86 anni: prodotto in piccola quantità nei pressi delle sorgenti del Timavo, nella zona di Trieste, aveva fama di avere virtù curative. E se fosse il nonno del Prosecco? Ma il divino consorte, l’imperatore, al Pucino preferiva il vino di Sezze, nell’Agro Pontino: una preferenza condivisa da molti altri imperatori, che ne apprezzavano la digeribilità.

Il più famoso vino dell’antichità era già scomparso ai tempi di Plinio, che lo ricorda come un prodotto di grande qualità: il Cecubo, proveniente da un ristretto territorio vicino a Terracina. Secondo classificato il famosissimo Falerno: cru del Falerno era il Faustiniano. E come accade oggi, la produzione era regolamentata e limitata ad alcuni determinati poderi dai confini precisi: la DOC dell’epoca. E come oggi già allora non mancavano polemiche: «anche il Faustiniano è in fase di regresso da quando è in mano a gente che bada più alla quantità che alla qualità». Chissà quanto l’attuale Falerno assomiglia a quello bevuto da Plinio…

Al terzo posto si collocano i vini albani, antenati dei vini dei Castelli, dolci e raramente forti. Celebri erano anche i vini di Sorrento, sulla cui qualità però non c’era unanimità, anzi, Tiberio sosteneva che «i medici si erano messi d’accordo per conferire celebrità al vino di Sorrento che di per sé era solo un aceto di qualità», mentre Caligola lo definiva «uno svanito illustre».

Seguono in questa classifica i vini mamertini, quelli di Messina, amatissimi da Cesare, che li offrì per il banchetto in occasione del terzo consolato: e non mancavano i falsificatori, che spacciavano per mamertino il vino di Taormina.

L’elenco successivo dei vini italiani è ricchissimo e circostanziato, e abbraccia regioni tuttora dedicate alla viticoltura: si celebrano il vino di Luni e quello di Bolsena, il vino retico nel Veronese e quelli di Cesena, quelli Pugliesi e quelli calabresi. Attenzione invece ai vini di Pompei, che «provocano mal di testa fino a mezzogiorno dell’indomani».

A conclusione dell’elenco una considerazione semplice e illuminante: «È inutile voler enumerare tutte le specie, poiché una stessa vite dà risultati diversi a seconda dei luoghi».

Dall’estero: diffidare dei Galli

La qualità dei vini francesi non era apprezzata da Plinio e dai suoi contemporanei. Quello di Marsiglia era considerato un vino da taglio, ed è una delle migliori sorti che potessero capitare. «La rinomanza dei vini di Beziers rimane entro i confini delle Gallie. Sugli altri vini della Narbonense non si può dire nulla, poiché è stata allestita una fabbrica per colorarli affumicandoli e volesse il cielo non anche con erbe ed ingredienti nocivi! Infatti i commercianti usano perfino l’aloe per alterarne il gusto e il colore».

Miglior fortuna hanno agli occhi di Plinio i vini spagnoli: l’enologo apprezza in particolare i vini «di Tarragona e di Lauro, con quelli delle Isole Baleari, che competono con quelli italiani». E poi vini greci, egiziani, da Tripoli e da Petra, elencati con attenzione alle particolarità organolettiche e tecniche: gli abitanti di Cos aggiungevano acqua marina in notevole quantità al loro vino, che assumeva un gusto salato; un procedimento particolare come quello, chiamato talassite, che prevedeva l’invecchiamento del mosto in vasi calati nel mare. Una pratica che alcuni oggi riprendono.

Bianchi e rossi, dolci e passiti

Come ogni guida che si rispetti, anche gli scritti di Plinio classificano i vini in più tipologie: «i vini dolci sono meno profumati; più un vino è leggero, più ha profumo. I vini hanno quattro colori: bianco, giallo, rosso sangue, nero». Le varietà prodotte da uva passa hanno un sapore particolare, e tra queste le più apprezzate sono quelle di Creta e africane. «In Italia si produce un vino dall’uva che i Greci chiamano psitia, noi apiana, nonché dalla scripula, lasciando lungamente seccare al sole i grappoli sulla pianta o immergendoli nell’olio bollente».

Il procedimento migliore per ottenere il passito consisteva però nello staccare gli acini essiccati e immergerli in vino di ottima qualità perché si gonfiassero nuovamente, per poi spremerli. Il vino dolce era molto amato dai Romani, che lo preparavano con tecniche diverse: tra le altre il melitite si otteneva dal mosto bollito con una parte di miele e un poco di sale, mentre il deuteria, chiamato anche “vino dei lavoratori”, era un’alternativa povera, preparata facendo macerare nell’acqua la vinaccia.

Graditissimi anche i vini aromatizzati con la mirra, una moda che all’epoca di Plinio era considerata però già “antica”. Le diverse metodiche di lavorazione vengono descritte da Plinio con precisione e competenza. Una precisione e una sapienza tecnica che lo storico rivela anche nel trattare le pratiche di vinificazione e le modalità di conservazione.

Guida al consumatore (consapevole) antico

Plinio raccomanda di fare attenzione ai sistemi usati per conservare il vino in recipienti più o meno adatti: da evitare quelli trattati con cera o che hanno contenuto vino dolce, da preferire quelli usati per l’aceto.

Ovviamente mette in guardia dalle sofisticazioni: aggiunte di coloranti e aromi che rendevano il prodotto gradevole ma indigesto; «grazie a così numerosi veleni, il vino deve piacere per forza; e poi ci meravigliamo che faccia male!».

E non essendoci etichette stampate a tutelare il consumatore, si poteva ricorrere a uno stratagemma: «è prova che il vino comincia a guastarsi quando una lama di piombo, immersavi, cambia colore». Una volta portato a casa il vino, poi, occorre prendere alcune precauzioni: non tenere troppo vicini i dolia (i vasi) l’uno all’altro e prediligere quelli impeciati, evitando quelli a bocca larga; «i vini leggeri vanno conservati in dolia interrati, quelli forti in dolia esposti all’aria». Fondamentale è calcolare le fasi lunari per scegliere il momento migliore per “stappare” un vaso.

Ma il consiglio più importante è quello conclusivo: bere responsabilmente. Sono passati 2000 anni, ma la chiusura è affidata a questo messaggio, importante quanto attuale. Plinio descrive le terribili conseguenze che possono avere gli eccessi, il male fisico e morale cui può condurre l’ubriachezza. E tra gli alcolisti illustri nominati da Plinio va senz’altro ricordato Marco Antonio: secondo l’autore era tanto schiavo del vizio del bere che arrivò ad ammettere la propria dipendenza scrivendo un libro sulla sua ubriachezza, consapevole che «l’abitudine a bere ne accresce la voglia».

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 15 luglio 2022.

La temperatura di servizio del vino è un aspetto molto importante per poter apprezzare l'ampia gamma dei sentori olfattivi e gustativi che esso ci offre. Spesso perdiamo la piacevolezza delle sfumature organolettiche dei vini a causa di errori marchiani facilmente evitabili. 

Ecco quindi un piccolo prontuario, sintetico e veloce (spero anche utile) per meglio orientarvi su questo tema. L'obiettivo è sempre lo stesso: cercare di avvicinare le persone alla piacevolezza di un calice di vino, raccontandolo con parole semplici, comprensibili e alla portata di tutti.

A costo di ripetermi come una vecchia zia, comincio subito ricordandovi di demolire il luogo comune sul “vino rosso a temperatura ambiente”. È una sciocchezza, mi pare ovvio, perché dipende dall'ambiente. Mia nonna viveva con i riscaldamenti spenti per risparmiare, al contrario della sua vicina che li regolava su temperature sahariane. Ambienti simili, adiacenti, con temperature molto diverse che due bottiglie dello stesso vino non avrebbero affrontato in egual modo. La temperatura ambiente, parlando di vino, non esiste. Piuttosto, esistono temperature di servizio corrette a seconda delle diverse tipologie che andremo a proporre.

Per quanto riguarda spumanti, champagne – e bollicine in generale – è buona norma stare su una temperatura di 6-10° C, non di più. A meno che non si tratti di bottiglie con qualche anno sulle spalle, più mature e complesse. In quel caso non freddatele troppo. 

Diverso è il discorso per i bianchi e i rossi dell'annata più recente in commercio: i primi andrebbero bevuti a circa 12°, i secondi fra i 14-16°. I vini rosati e quelli frizzanti sono piacevolissimi a 10-12°, mentre con i bianchi importanti o da invecchiamento potete regolarvi sui 12° e non oltre i 14°.

I vini passiti - insieme ai muffati - vengono spesso proposti a temperatura ambiente, ma si esprimono molto meglio se rinfrescati, quindi serviti non oltre i 10°. 

Possiamo salire di temperatura con i rossi di medio corpo (15-16°) e i rossi più strutturati e da grande invecchiamento che, comunque, non dovrebbero mai superare i 18-20°. 

Esistono poi eccezioni comprensibili con po' di buon senso o un pizzico di esperienza. Per esempio, la temperatura di servizio iniziale del Pinot Nero non dovrebbe superare i 15-16°.

Per concludere, un'altra questione importante: come raffreddare un vino in maniera corretta? Il metodo migliore resta quello tradizionale del cestello col ghiaccio riempito quasi fino all'orlo con dell'acqua e due manciate di sale grosso. In questo modo otterrete un raffreddamento uniforme della bottiglia. In alternativa esistono in commercio le fasce refrigeranti, da conservare in freezer e da far “indossare” alla bottiglia per portarla alla temperatura ideale. Un metodo veloce ed economico anche se – bisogna dirlo – non è il massimo dell'eleganza. 

Adesso che sapete tutto sulle temperature, potete affrontare questa torrida estate senza rinunciare a un buon calice di vino servito correttamente. Se temete che la vostra memoria faccia cilecca proprio al momento del servizio, vi consiglio di stampare questo piccolo vademecum e di appiccicarlo all'anta del frigorifero o sulla porta della cantina. Sono certa che sia voi che la bottiglia farete un figurone coi vostri ospiti.

Il mondo del vino non sa che fare con i Millennial. JACOPO COSSATER su Il Domani il 02 luglio 2022

Questa è la prima tappa della rubrica Vino sul divano. Ogni mese, con il nuovo inserto Cibo, esploreremo le tendenze dell'enologia, guardando soprattutto al di là dei confini italiani, perché se è vero che il nostro paese possiede la più grande biodiversità di vitigni autoctoni, che è doveroso raccontare, è importante smettere di guardarsi l'ombelico e vedere cosa succede altrove. 

Ormai da anni i consumi sono in calo, soprattutto in quei luoghi che per decenni hanno trainato le vendite, Stati Uniti su tutti. Una questione generazionale: per decenni il grosso dei consumi ha riguardato una specifica generazione, quella dei cosiddetti baby boomer.

Il ricambio è stato però solo parziale, i Millennial bevono meno vino non solo perché hanno meno possibilità economiche ma anche perché hanno più scelta.

Il fatto che in Italia la pandemia abbia portato con sé anche un leggero aumento dei consumi pro capite, chiusi tra le mura domestiche abbiamo evidentemente trovato rifugio nel vino, è dato che non deve trarre in inganno e che anzi va inserito in un contesto più ampio, che vede non solo il nostro paese ormai da decenni bere sempre meno vino ma anche i consumi mondiali ai livelli di circa quindici anni fa, in calo per il terzo anno consecutivo.

Da una parte il mondo del vino è riuscito nel corso degli ultimi due decenni a valorizzare la propria produzione alzando il prezzo medio delle bottiglie vendute nelle enoteche e nei ristoranti, portando così i consumi verso una fascia sempre più premium, a discapito dei vini più economici.

Dall’altra si tratta di economia che ha fatto la propria fortuna grazie a una precisa fascia di mercato, identificabile con la generazione dei baby boomer, quei nati tra la fine della seconda guerra mondiale e il 1964 che per decenni hanno trainato le vendite tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, primo mercato mondiale per consumi complessivi di vino.

LA NUOVA GENERAZIONE

Un segmento che però sta invecchiando rapidamente, quindi bevendo meno, e il cui entusiasmo nei confronti del vino non è mai stato del tutto rimpiazzato dai cosiddetti Millennial, la generazione cui appartiene chi è nato tra gli anni Ottanta e Novanta.

Se ne è occupato recentemente sul New York Times il critico Eric Asimov, identificando due problematiche. La prima squisitamente economica, essendo il potere di acquisto della Generazione Y meno vivace rispetto a quello della precedente.

La seconda più sociale e culturale, legata alle abitudini e soprattutto alla grande offerta che una persona può trovare oggi nei bar e nei ristoranti di tutto il mondo. Se infatti trenta o quarant’anni fa il vino rappresentava una delle pochissime alternative di qualità a birre industriali a basso costo e a quei cocktail così amati dai propri genitori oggi il panorama non potrebbe essere più diverso: la birra riesce a essere ovunque o quasi sinonimo di creatività grazie al lavoro di innumerevoli stabilimenti artigianali, in tutto il mondo, mentre il bere miscelato vive ormai da qualche anno il suo periodo più brillante grazie a una categoria professionale che sta vivendo una seconda giovinezza, quella dei baristi (o mixologist, per usare un termine forse più centrato).

L’unione di questi due fattori fa sì che oggi sia più economico bere una birra artigianale o un cocktail fatto bene che un bicchiere di vino di qualità, soprattutto nei grandi centri, lontano dai luoghi di produzione. 

VALORI DIVERSI

Lo ha seguito qualche settimana dopo Janice Williams su The Drop, autorevole testata della piattaforma Pix, con un articolo che approfondisce le grandi differenze di consumo di cui sopra. Se i Millennial hanno un approccio nei confronti del vino lontano da quello dei loro genitori è perché hanno valori diversi: sono più attenti alla salute e all’ambiente, cercano quindi vini con meno alcol, meno calorie e capaci di trasmettere una maggiore idea di trasparenza a proposito del loro procedimento produttivo.

Tutte cose che il mondo del vino più tradizionale non ha ancora fatto proprie. Non è un caso, sottolinea, che chi è nato a cavallo degli anni 90 trascini oggi i consumi di vino naturale e di vino in lattina, a dimostrazione di un consumo meno ambizioso ma non per questo meno consapevole rispetto a quello delle generazioni precedenti.

Negli Stati Uniti, inoltre, se il consumo di vino è in calo quello della birra artigianale, dei cosiddetti drink “pronti da bere” e degli hard seltzer sembra non conoscere crisi, ennesima dimostrazione di un mondo molto diverso rispetto a quello di un paio di decenni fa.

C’è bisogno di un rebranding, concludono entrambi gli autori. Il mondo del vino deve essere cioè in grado di identificarsi anche con questo genere di bevitori, sia in termini di produzione che di comunicazione. Ma non sarà un processo breve, probabilmente neanche indolore.

JACOPO COSSATER. Giornalista, è specializzato nel racconto del vino e appassionato delle sue ripercussioni sociali. È senior editor di Intravino, uno dei blogzine italiani più popolari e longevi, e ha cofondato il magazine cartaceo Verticale.

L’Italia è il Paese dei giovani vignaioli: ogni giorno nascono 18 nuove imprese fondate da ragazzi. Gli under 35 puntano sempre di più sull’agricoltura, ma c’è il rischio della frammentazione. Perché i big intanto aumentano le concentrazioni per affrontare meglio l’export. Bianca Mazzinghi su La Repubblica il 27 Giugno 2022.

Francesco e Nicoletta hanno deciso nel 2015 di tornare a Pantelleria e avviare la loro azienda; 25 anni lui, 28 lei. Nessuna tradizione vinicola in famiglia, nessuna possibilità di investimenti importanti. Si parla di vino, tra grandi poli in consolidamento, piccoli artigiani e medie imprese in difficoltà. Si parla di vino come di molti altri settori, di una situazione sempre più faticosa e della necessità di misure e obiettivi precisi, sia a livello aziendale che legislativo.

«A 14 anni ho avuto proprio una vocazione», dice Francesco. «A una cena, un cugino portò un dépliant sull’enologia e sentii che dovevo fare quello; mi sono laureato e ho iniziato collaborazioni in Italia e all’estero. È stata l’ultima esperienza in Nuova Zelanda ad aprirmi gli occhi: ero nella cantina Seresin e iniziò a maturarmi forte il desiderio di tornare, di trasferire quelle esperienze a casa mia». Così nasce Tanca Nica, azienda che produce oggi circa 4mila bottiglie da un paio di ettari. Francesco Ferreri è originario dell’isola; la compagna, Nicoletta Pecorelli, sarda. Tanca Nica è una delle piccolissime realtà agricole fondate da giovani produttori. Come molti, hanno dovuto iniziare facendo anche altri lavori, rinunciando a cene o viaggi, e creando pian piano l’azienda, tra i rimproveri di genitori più favorevoli a scelte meno rischiose da consulenti piuttosto che una ripartenza da contadini. Oggi sono riusciti a prendere un mutuo per costruire non la loro casa, ma la loro cantina.

Secondo un’analisi della Coldiretti, nel 2021 sono nate 18 nuove imprese agricole under 35 al giorno, con un incremento del 2 per cento in cinque anni. Parlare di ritorno alla terra, dovuto alla pandemia o alla crisi, è esagerato, ma concreto è invece considerare oggi tra i lavori possibili quelli di vignaiolo o agricoltore.

Parallelamente, si stanno consolidando anche in Italia alcuni agglomerati, sul modello delle realtà che già dominano il settore internazionalmente. È di inizio mese la notizia dell’acquisto della storica cantina Isole e Olena, nel Chianti Classico, da parte della holding francese Epi, la stessa che nel 2016 ha comprato Biondi Santi, altro pilastro della viticoltura toscana, azienda simbolo di Montalcino e creatrice del Brunello. Varie movimentazioni ci sono state tra le principali aziende vitivinicole italiane: Italian Wine Brands spa si è, per esempio, rafforzata acquisendo Enoitalia e raddoppiando il fatturato 2021 a 423,6 milioni, piazzandosi al secondo posto nella classifica dei grandi gruppi. Il fondo Clessidra ha preso il controllo di Botter e Mondodelvino, confermando l’intenzione di voler continuare nella creazione di un forte polo vinicolo. Ambizioni simili ha Prosit, la partecipata dal Made in Italy Fund (Quadrivio & Pambianco). 

Anche famiglie storiche come Frescobaldi o Antinori si sono riorganizzate, la prima aprendo tra l’altro un ufficio nella Bordeaux dei negociant, per rafforzare la rete vendite nel mondo, la seconda acquisendo la friulana Jermann. Sono soltanto alcune di una serie di acquisizioni e fusioni di holding, fondi d’investimento e grandi gruppi vinicoli italiani, andate in porto negli ultimi anni.Intanto, i vini Biondi Santi sono già saliti nelle quotazioni e importanti operazioni sono state fatte sia nel potenziamento del marchio sia per quanto riguarda gli investimenti in vigna e cantina.

Questi agglomerati, oltre ad avere grandi possibilità d’investimento, possono sfruttare una potente rete internazionale commerciale e di competenze, necessaria oggi per concorrere sui mercati esteri. (Approfondisce su questo punto il report Ismea “Il mercato del vino in Italia e nel mondo prima e dopo il Covid-19”). La frammentazione delle aziende italiane è tema ricorrente: la superficie media è di circa 2 ettari, contro i 30 in California o i 19 in Francia, dove in dieci anni sono scomparse 11mila aziende vinicole, il 16 per cento. Anche in Italia, si legge nel rapporto, la pandemia e i problemi connessi hanno «riportato in auge questa problematica e sono stati parecchi i produttori e i manager che in questi mesi hanno imputato alla dimensione troppo ridotta delle aziende una gran parte delle problematiche attuali del settore. Alcuni hanno anche chiesto un intervento del legislatore al fine di agevolare la possibilità delle imprese di aumentare le loro dimensioni».

Un percorso di concentrazione inevitabile, ma anche di polarizzazione verso i due estremi di microazienda o grande gruppo, con molte realtà di mezzo in difficoltà a definire la propria identità e svincolarsi dagli aiuti. Le dinamiche e i campi di gioco sono imparagonabili, tanto che qualsiasi contrapposizione o confronto avrebbe poco senso, se non fosse però che gli adempimenti e il sistema di incentivi e contributi sono gli stessi.

«A livello burocratico ti fanno impazzire. Devi davvero amare quello che fai», dice Francesco. «Il mio lavoro a Pantelleria richiede circa 800 ore ad ettaro se vuoi gestire in biologico. Per dare un’idea, produttori capaci in Sicilia hanno un tempo di lavoro stimato su circa 150 ore. Noi siamo sempre in campagna, gestire tutte le fasi è impossibile e dobbiamo per forza trascurare qualcosa; noi trascuriamo la parte commerciale. Per fortuna, avendo poche bottiglie, lavoriamo su assegnazione e finiamo il vino prima che esca». Il caso di Francesco è estremo, essendo Pantelleria un territorio difficile da lavorare, ma i suoi sono problemi comuni a tanti produttori. Chi ha una dimensione artigianale, oltretutto in zone periferiche, non può contare sull’aiuto di agronomi o consulenti validi. Le pratiche e la burocrazia occupano una mole di ore ingente del lavoro quotidiano e i tanti sostegni a disposizione non sono sempre adeguati, diventando più importanti man mano che l’azienda cresce in dimensioni e capacità d’investimento.

Il piano nazionale di sostegno al settore vitivinicolo può contare su circa 324 milioni di euro all’anno di fondi comunitari, distribuiti alle regioni secondo vari parametri. La Toscana, per esempio, ha al momento attivi bandi per investimenti in imprese agricole (un Psr da 26 milioni), un Ocm da 9 milioni per il miglioramento delle attrezzature vitivinicole, 2 milioni sull’innovazione in agricoltura, oltre agli Ocm vino promozione in Paesi terzi in arrivo, i fondi della promozione Strade del Vino e quelli paralleli del Pnrr. Sono cifre importanti, alcune concesse a fondo perduto, altre con un contributo in percentuale in base all’investimento. In alcuni casi sono previste soglie d’investimento minime.

Elia Lamberti, Livio Craveri e Giovanni Cismondi sono piemontesi e hanno fondato a febbraio 2020 l’azienda Braccia Rese. Nessuno di loro superava i trent’anni. Partecipano alla fiera Tutto in un Sorso a Montalcino. Sono tre ragazzi molto entusiasti, un designer, un geometra e un enologo che gestiscono oggi insieme quasi due ettari, dividendosi i compiti. Il portavoce è Livio: «Per noi gli incentivi sono stati molto importanti per partire. Soprattutto gli sgravi Inps per i ragazzi sotto i 35 anni e il fondo Insediamento giovani, 35 mila euro a fondo perduto che abbiamo utilizzato per piantare un nuovo vigneto». È lui che si occupa di monitorare i finanziamenti: «Ci sono grandi aiuti per chi inizia ma se non tieni sempre tutto sott’occhio rischi di perderli. A un giovane consiglierei prima di tutto un corso di gestione aziendale, a me per fortuna aiuta la mia ragazza che ha studiato queste cose altrimenti sarebbe stato difficile». Ad altri finanziamenti, non sono interessati o non possono accedere, come gli Ocm in Paesi extra europei o gli aiuti per comprare attrezzature troppo costose anche con il rimborso di una parte. «È importante avere produttori in zona a sostegno che all’inizio prestano macchinari o mettono a disposizione la cantina ai giovani».

Proprio al tavolo a fianco c’è Stefano Amerighi, noto produttore di Cortona, in provincia di Arezzo, e presidente del consorzio Vini Cortona. All’attivo qualche vendemmia in più e qualche giovane già formato: «In Italia oggi ci sono due grandi scogli: quello burocratico ed economico iniziale e quello di essere introdotti nella rete di giuste collaborazioni. Tra burocrazia, diritti di reimpianto, permessi, Asl, certificazioni, serve comunque una passione molto forte». Secondo Amerighi, per sostenere ancora di più le aziende medio piccole, in alcuni casi sarebbe utile spostare fondi dalla promozione internazionale ad altri aiuti per insediamenti o un altro tipo di promozione. «Un terzo punto fondamentale è comunque quello della visione personale, dell’originalità. I giovani non devono replicare progetti già esistenti ma andare a cercare idee nuove. Il momento è buono per questi progetti, c’è futuro per i piccolissimi artigiani, ma soltanto se originali». Da lui sono passati alcuni ragazzi che dopo qualche anno si sono staccati avviando le proprie microaziende, potendo contare sulla rete di competenze e contatti sviluppata nel periodo di pratica.

Anche per Francesco è stata fondamentale la rete: «Il tutto si è sbloccato per me quando ho conosciuto Sandro Sangiorgi (giornalista e scrittore): mi ha dato fiducia, mi ha fatto capire che non ero solo e messo in contatto con tanti produttori con cui oggi mi confronto. Conosci quella poesia di Danilo Dolci “Ciascuno cresce solo se sognato”? Significa che, se qualcuno sogna insieme a te, e ti sogna, allora cresci». Come parte di una comunità, che condivide speranze, concretezza e, senza paura di perdere niente di proprio, anche i sogni dell’altro. E forse è proprio in questo che tante microaziende italiane sono più capaci delle medie.

Morello Pecchioli per “la Verità” il 10 maggio 2022.

Paolo Monelli è il raffinatissimo padre della nuova sintassi del vino, il dolcestilnovista della letteratura enoica moderna. 

Prima di lui, fin da Noè, una pletora di scrittori, letterati e poeti ha riempito pergamene e libri sul nettare degli dèi, ma nessuno ha scritto di vino in modo espressivo e convincente come l'elegante giornalista e scrittore modenese. Monelli è uno stilista: basta una cucitura, una metafora per illuminare la cantina più buia, ingentilire la più briccona delle osterie e nobilitare una vecchia trattoria. 

I due libri che scrisse sul buon mangiare e sul bere meglio, Il Ghiottone errante (1935) e O.P. ossia il vero Bevitore (1963), rimangono ancora - mutatis mutandis e con rispetto parlando - la Divina Commedia e I promessi Sposi della letteratura enogastronomica italiana. 

Dal Ghiottone errante: «Sugli aurei gnocchi cotti nel burro di montagna versammo l'oro lieve e corrusco del Soave». 

C'è tutto: il piatto, il vino, il perfetto abbinamento, il territorio e l'atmosfera. «Sulle paparelle coi fagioli dal colore perso di crepuscolo malinconico accendemmo il sole rosso e ardito del Valpolicella». Magico. 

Scrittore erudito, Monelli scioglie le briglie alla cultura applicando la bimillenaria lezione di Orazio: «Non c'è professore meglio del vino». Da O.P. (sono le iniziali latine di Optimus Potor, vero bevitore): «La sera che mi capitò di gustare un Clastidio d'un bel colore sanguigno che si impadroniva del palato con grata ruvidezza, mi venne da definirlo "bellicoso". Qualche giorno dopo seppi che a Clastidium (Casteggio nell'Oltrepò Pavese) le legioni romane del console Claudio Marcello nel 222 a. C. misero in rotta i Galli di Viridomaro. Per arcano modo quei colli abbeverati dal sangue dei Galli danno ancora attraverso i secoli un gusto guerriero al vino che se ne produce».

Monelli mise al mondo generazioni di monellini. Tracciò la via che altri O.P. imboccarono toccando le vette del maestro. Mario Soldati fu narratore altrettanto elegante e colto: «Un sorso: ma neppure il più piccolo sospetto di sapore zuccherino: un asciutto, un amaro tutto amaro, di un amaro gradevolissimo. Un sorso di Gattinara». Nei due volumi di Vino al Vino percorre l'Italia alla ricerca dei vini genuini. 

Scrive di territori, di personaggi, di famiglie. Dialoga con i grandi vini italiani e con i meno conosciuti. Nobilita la grappa. Fu il primo, con l'eterno sigaro tra le dita, a percorrere per la Rai, come regista e conduttore, la vallata del Po alla ricerca dei sapori padani genuini. Nel 2006 per il 100° anniversario della nascita, la distilleria veneta Bottega gli eresse un «monumento» di vetro soffiato: la bottiglia Acqua e fuoco, grappa selezionata e un Toscano fatto a mano, il Soldati, nell'incavo della bottiglia. 

Luigi Veronelli irruppe nel mondo della vite e del vino come un Robespierre. Sparigliò le convenzioni e la lingua arricchendo il vocabolario enologico di neologismi e modi di dire. Un grande Barolo o un Amarone? Vini da meditazione. Fu il Palazzeschi dei sentòri: libero lessico in libera degustazione. Scandalizzò enotecnici e appassionati quando accostò un Krug 1976 alla parola «sperma»: «Bouquet maschio, diretto, elegante; netto, malizioso e conturbante, sentore di sperma». La Maison di Reims rispose con ironia: «Consigliamo il signor Veronelli di lavarsi le mani quando beve il nostro champagne».

Lasciò, però, un'eredità. Paolo Baracchino, avvocato, sommelier e «fine wine critic», affermò di sentire in uno champagne «profumo di sesso sfrenato» e Piero Grigolato, nei corsi per assaggiatori tenuti per anni, parlò di sentòre d'«amore appena consumato». 

Gianni Brera, ovvero Gioânn Brera fu Carlo, poeta del calcio e amante dei vini dell'Oltrepò Pavese (e non solo di quelli) abbinò i vini ai calciatori. «All'amato Barbaresco abbino Maldini e Vialli. Il Barbaresco è principe, non re, però ha il pregio ai miei occhi e al mio palato di avere spume più lievi, persino un po' frivole, in tanta austerità di corpo». 

«Quali sono i pedatori degni di venir gemellati a Brunello e Barolo? Due difensori tosti: Baresi e Bergomi». Di un vino siciliano scrisse che gli ricordava un «delitto d'onore». Fantasie audaci? Può darsi, ma il mondo del vino oggi pullula di monellini, soldatini, veronellini e breriani: sommelier e assaggiatori che nel vino sentono di tutto, anche quello che non si sente. Chi ascolta il vino affidandosi a memoria ed esperienze è un vero sommelier. Chi vuol stupire strolicando vocaboli stravaganti e bizzarri è un barocchista del Chianti, il Giovan Battista Marino di Lambrusco e Frascati. 

Qualche anno fa - Vinitaly 2014 - Donatella Cinelli Colombini, presidente delle donne del vino e titolare dell'azienda Casato prime donne, accondiscendendo alla geniale trovata di Carlo Alberto Delaini, capo ufficio stampa di Verona Fiere, raccolse nel suo blog un vocabolario di fantasie linguistiche sfrenate. 

Luca Gardini, campione del mondo dei sommelier nel 2010, in una vecchia annata di Barolo di Serralunga sentì la cipria: «Una nota polverosa e leggermente aromatica». Baracchino si vantò di distinguere negli aromi del vino colla da colla, Vinavil dalla Coccoina, e latte da latte: quello di cocco da quello di mandorla. 

Gran naso, in un vino ha colto l'acidità del gambo di ciclamino spezzato. Il lessico del sommelier d'oggi è un campionario di sentori fragranti, aromatici, balsamici, floreali, ma anche graveolenti. Tra i più curiosi citiamo l'odore di figurine Panini (Eleonora Guerini, Gambero Rosso, in un un vino campano); porro cotto, minestrone (Gigi Brozzoni, Seminario Veronelli in un rosso non giovane); spogliatoio di calcio, canfora (Fabio Giavedoni, Slow Wine, in un Verdicchio); luna park (Franco Ziliani in un Brunello di Montalcino caramelloso).

Nel vocabolario dei sentòri non comuni ci sono pietra focaia, pancetta affumicata, bacon and eggs, punta di matita, coda di volpe bagnata, budella di cinghiale, sudore di cavallo, carruba birmana, kamasutra, cerotto, sangue, acqua stagnante, stalla. 

Seguendo per anni degustazioni di vini in tutta Italia, la sommelier e scrittrice Ilaria Santomanco, ha messo da parte una collezione di sentòri-perle con un divertente commento introduttivo (in corsivo). Sognando un harem: Morbidezze da odalisca. Abbinamenti del giorno: Selezione di pesce crudo secondo il pescato. Lo speleologo: Percezioni minerali di roccia rossa da cava. Visita otorinolaringoiatra: Un gusto dolce che rimane sulle tonsille.

Dopo che è passato il gatto: Qualche lisca di acciuga essiccate al sole. Meraviglioso quest' ultimo: Esci da questo corpo!: Si annusa scuro, sensi di baita lontana, lontani rumori e fumi di una carbonaia montana. Il frutto giallo è maturo e dolce e il gelsomino è ormai appassito; al fiume erbe lacustri in secca. 

Fieno all'ombra di una quercia, una cartuccia esplosa in un campo di zafferano ed arnie che aspettano la raccolta del miele. Il viaggio si ampia (sic!) in bocca con morbidezze condite da una controllata e viva acidità.

Di un Aglianico del Vulture Luca Maroni parla di «tannicità tramosa» «un vino di persistenza aromatica superiore sì come la sua glicerinosa cremosità estrattiva». L'ultima parola spetta ad Adua Villa, sommelier televisiva, che in un vino eclettico ha sentito la musica di David Bowie. 

Dopotutto, se Brera vedeva in Mancini «un labile ma qualche volta esaltante Grignolino», perchè la bella Adua non può avvertire in un vino le scosse rock di Bowie? Edoardo Raspelli, conduttore televisivo, critico enogastronomico , spara: «Ne ho le palle piene di queste boiate. Di un vino mi interessa la storia, il produttore, il territorio. Parole concrete, essenziali». Marzia Morganti, giornalista, sommelier, è d'accordo: «Quando un sommelier dice di sentire odore di pipì di gatto in un vino, mi fa schifo, mi vien da vomitare. È cattivo gusto e spregio verso il lavoro dei vignaioli per esaltare sé stessi».

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 5 maggio 2022.

Il prezzo delle bottiglie nelle carte dei vini dei ristoranti è spesso tema di discussione in quanto soggetto a rincari significativi, se confrontato con quello degli scaffali delle enoteche. Per non parlare del raffronto con l'acquisto diretto nelle cantine da parte dei privati. I produttori vitivinicoli tuttavia – salvo smentita – quando vendono al cliente privato attraverso gli store aziendali, lo fanno nel rispetto degli accordi stabiliti con i rivenditori ufficiali: enoteche, distributori o ristoranti che siano. 

Venendo al dunque, quando si parla di grandi vini, ovvero di etichette obiettivamente costose, molti cultori scelgono di conservare e consumare le bottiglie a casa propria. Altro discorso è quello del collezionismo che muove su binari e finalità completamente diverse. In alternativa, qualcuno dei sopracitati cultori/consumatori invoca l’estensione del “diritto di tappo”, usanza che nei ristoranti si sta diffondendo soprattutto negli Usa, ma non solo. 

Funziona così: il cliente, in fase di prenotazione del tavolo richiede la possibilità di portarsi da casa le bottiglie di vino che intende consumare nel corso della serata. Il ristorante applica un costo detto appunto “diritto di tappo” che include il servizio, i calici adeguati e le professionalità del personale di sala. 

Può sembrare tutto molto democratico, ma sarebbe come accettare il fatto che ci si presenti al ristorante con gli ingredienti della propria dispensa, relegando un team di professionisti al ruolo di servitori e non più di consiglieri e specialisti dell'accoglienza. 

Indipendentemente dalla dotazione delle nostre cantine di casa, credo che i vini vadano acquistati nelle carte dei ristoranti e – salvo alcune eccezioni che riguardano catene di albergo di lusso internazionali e alcuni stellati – in Italia i ricarichi sono molto più bassi che altrove. Aprire una bottiglia di vino al ristorante, infatti, è un gesto che crea un rapporto personale con qualcuno che ci applica un determinato trattamento. Qualcuno appunto, non qualcosa, trattandosi di una persona in carne ed ossa e non di un distributore automatico di noccioline o sigarette.

Peraltro, a sostegno di questa tesi, ampia o angusta che sia la nostra cantina, essa non ci permetterà di spaziare nella scelta e, dato non meno importante, di cambiare un vino “difettoso” a costo zero: cosa che avviene normalmente nei ristoranti Italiani (in quelli francesi un po' meno).Prima di conservare e poi stappare una grande bottiglia a casa dunque, ricordiamoci sempre di quanto sia importante l'intermediazione di quei professionisti che vendono etichette di prestigio – seppur a costi innegabilmente più elevati – sapendoci dare indicazioni sul giusto abbinamento al piatto o sul punto di bevuta (né troppo vecchio, né troppo giovane). Così facendo andiamo a creare un rapporto umano e commerciale di reciproca convenienza, ma anche di convivialità. Ovvero ciò che, alla fine, rende speciali le nostre tavole italiane, in barba al “diritto di tappo”!

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com l'1 luglio 2022.  

Stiamo affrontando un'estate torrida un po' ovunque in Italia e le previsioni sulla vendemmia 2022, per ora, non sono incoraggianti. Se le cose vanno avanti così infatti - in assenza prolungata di piogge e importanti escursioni termiche fra il giorno e la notte - rischiamo di raccogliere vasetti di marmellata e uva passa per i panettoni di Natale. 

La stagione siccitosa è gravata inoltre dall'assenza diffusa di riserve idriche nei terreni, poiché anche l'inverno è stato troppo mite in molte regioni. Ad ora, quello che possiamo fare, è solamente sperare che la situazione migliori da qui alla fase vendemmiale, giacché stiamo entrando nel periodo più importante e delicato, quello che toglie il sonno ai produttori di vino.

Ma affrontiamo un problema alla volta, senza allarmismi. Organizziamoci sul da farsi (anzi sul da bersi) resistendo alle provocazioni di un andamento climatico fuori controllo, suggeritore di idee balzane sul futuro, tipo la conversione dei circa 600mila ettari vitati italiani in piantagioni di ananas e banane (chiedo venia per la facezia, in effetti c'è poco da scherzare!).La prima regola da seguire è quella di smettere di servire i vini rossi a temperatura ambiente, e vale per tutto l'anno. Chiaramente dipende dalla struttura dei vini, ma in generale non bisognerebbe mai superate i 16 gradi centigradi. Il caldo accelera l'evoluzione del vino, lo fa invecchiare precocemente e conferisce sentori tutt'altro che piacevoli.

Dopodiché, liberatevi del pregiudizio tutto italiano nei confronti dei vini rosati. Se ne trovano di molto buoni e accompagnano bene diversi piatti, soprattutto quelli con una “macchiatura” di pomodoro spesso presenti nella nostra cucina di mare. Pertanto un buon vino rosato può funzionare non solo come aperitivo, ma anche a tutto pasto, tenetelo a mente. 

Buone notizie anche per i consumatori di champagne e spumanti coi cubetti di ghiaccio. La “Vin Piscine” alla francese è ufficialmente sdoganata anche in Italia, quindi fate come vi pare senza sentirvi giudicati. Piuttosto, nel caso, occupatevi della qualità, della purezza e della consistenza del ghiaccio, elemento fondamentale nella mixology. 

Siete bevitori di Spritz? E allora provate la ricetta originale a base di vino e acqua gassata. Oggi alcuni bravi barman lo preparano con qualche aggiunta creativa che personalizza una bevuta rinfrescante, piacevole e moderatamente alcolica. Non sto suggerendo di allungare il vino con l'acqua, giammai! Casomai il contrario, cosicché l'acqua guadagni quell'aroma in più, che non guasta mai.

Infine, per quanto riguarda i vini bianchi, potete anche freddarli più del solito, soprattutto se non hanno strutture molto impegnative. Per farlo, utilizzate il classico secchiello pieno di ghiaccio. Evitate di conservare le bottiglie in frigorifero per molti giorni perché il freddo prolungato riduce la percezione dei profumi e tende, inoltre, a cristallizzare le particelle in sospensione e lo scricchiolio dei cristalli sotto ai denti non è piacevole anche se il vino, nel caso, non sarebbe comunque da buttare.

Dagospia l'1 luglio 2022. Il premio Vigna D’argento nasce in Puglia nel 2011 da un idea di Pino Lagalle dell’associazione di promozione sociale “ città della musica” . Una scultura che nella simbologia rappresenta ARTE e TERRITORIO e il rispetto e la riconoscenza che le dobbiamo . La Vigna frutto della terra , del lavoro e dell’ operosità dell’uomo  in questi anni è divenuto un progetto nazionale con tre edizioni che si svolgono a Lecce, Roma e Milano denominato UNITALIA, un paese sempre UNITO nel rispetto di un grande patrimonio artistico e culturale del nostro grande Paese. 

Da Piazza Duomo culla del barocco Leccese  a Roma presso Montecitorio, Campidoglio e Milano presso la nuova sede della Regione Lombardia in un tour che ha visto premiare talenti ed eccellenze del nostro Paese , esempi positivi e punto di riferimento di vari settori produttivi  al servizio del bene comune : Ennio Morricone, Nicola Piovani , la Banda dei Carabinieri, Pippo Baudo, Al Bano, Lino Banfi , Armando Trovaioli, Raffaella Carra ‘, Garinei , Maurizio Costanzo solo per citarne alcuni che hanno onorato il nostro Premio con il loro impegno ,  la loro generosità e disponibilità . Prossimo appuntamento alla sua  terza edizione a Roma il 22 settembre.

Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 21 aprile 2022.  

Quando si parla di vino il discorso scivola spesso sul rapporto qualità/prezzo, ma occorre fare chiarezza perché, al momento, sono variati diversi parametri come i costi energetici, gli innegabili cambiamenti climatici e non solo. Diciamo che il tema del corretto rapporto qualità/prezzo è un argomento di interesse diffuso, che gira però intorno a un concetto – a mio avviso – un po’ sopravvalutato. 

Casomai penserei alla relazione tra qualità e valore, non senza tenere a mente che soprattutto quando si parla di etichette fungibili – rinunciando alla griffe, per esempio – la scelta è meno netta e i parametri da considerare aumentano (mentre se la scelta parte da una bottiglia che deve avere quel marchio per forza, la decisione è già presa).

Attualmente sui prezzi dei vini ci sono tensioni che ci ricordano una sorta di diffusa sudditanza psicologica rispetto alle etichette francesi che presentano rincari percentuali superiori alle nostre ma, a quanto pare, più digeribili. In Francia chi produce vino solitamente stabilisce i prezzi in base agli obiettivi commerciali, mentre le aziende nostrane sono più legate ai prezzi medi di mercato, se si fa eccezione per qualche marchio molto noto in tutto il mondo o alcune etichette, quasi inestimabili, alle aste internazionali. 

I costi di produzione sono saliti un po’ ovunque, non soltanto a casa nostra. A causa dei rincari energetici, vetro, carta e cartone sono diventati infatti introvabili e diverse vetrerie e cartiere hanno recentemente chiuso i battenti. Anzi, qualcuno è proprio fallito, a dire il vero.

Ora, aggiungiamoci il fatto che la produzione di vino - dipendentemente dall'andamento climatico - può ridursi drasticamente. Vale a dire che per mantenere gli standard qualitativi nelle annate meno felici, le aziende sono costrette a operare scelte inevitabili, per esempio declassando i cru e le riserve. 

Questo significa inevitabilmente rinunciare al vino di punta, ossia destinare le proprie uve al “fratellino minore” che - voci di corridoio - daranno come più bello e conveniente del solito, quindi di eccellente rapporto qualità/prezzo. Tutto questo in Francia succede molto meno, anche perché la circolazione delle informazioni fra produttori di vino, da quelle parti, è molto più filtrata. Non per niente, gli appassionati che si recano in visita nelle cantine delle mete classiche dell'enoturismo, come Borgogna, Champagne, Bordeaux e si confrontano abitualmente con i produttori, faticheranno a darmi torto.

Insomma, per concludere: il rapporto qualità/prezzo è una direzione artificiosa, non strettamente legata ai costi della materia prima e a quelli produttivi, quindi non esiste il buon rapporto qualità/prezzo nel vino o, perlomeno, ha poco senso parlarne in questo momento storico. Piuttosto, è la qualità a prezzo moderato che dovrebbe convocare la nostra curiosità e farci dire: “servirebbe un esperto!”. 

In un Paese fra i più importanti produttori di vino al mondo, non mi dispiacerebbe infatti vedere flussi di monopattini per strada condotti da persone ben consapevoli di questo nostro grande patrimonio italiano.

Negroamaro, il vitigno che racconta la Puglia meridionale. Qui è stato imbottigliato anche il primo rosato, e c’è chi lo «veste» di bianco. Giuseppe Mazzarino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Aprile 2022.

Signori, sua maestà il Negroamaro. E’ uno dei tre grandi vitigni a bacca rossa della Puglia, il più «meridionale», egemone nelle vigne dell’antica Terra d’Otranto (Taranto, Brindisi, Lecce). Dà origine a grandi, finissimi vini rossi, adatti anche all’invecchiamento (e con vendemmie tardive entra nella stratosfera), dal colore intenso e dal profumo complesso, con leggera speziatura, che evoca la prugna secca, il tabacco, il caffè tostato, e che evolve con gli anni verso il cioccolato, ma è anche, storicamente, il re del rosato.

Il rosato vero, uve rosse vinificate in rosa, «a lacrima» (bassa resa; grande risultato): stoffa, corpo, giusta acidità e grado alcoolico di tutto rispetto. Niente a che vedere con le acquette rosa pallido a bassa gradazione che vanno di moda, seguendo un certo andazzo provenzale. Tra l’altro, è in Puglia, che da uve Negroamaro, è nato il primo rosato imbottigliato e commercializzato in tutta l’Italia. E da subito destinato anche all’esportazione.

La leggenda del grande rosato pugliese da Negroamaro comincia con l’arrivo degli Alleati in Puglia nel 1943. A Salice salentino, il paese che darà il nome ad una storica doc pugliese (a base di Negroamaro e Malvasia nera) l’antica azienda agricola della famiglia De Castris (1665) possiede un appezzamento che si chiama Cinque Rose. Qui c’è un vigneto di Negroamaro, dal quale i De Castris ricavano un potente vino rosato (in realtà arancio carico) che piace molto al generale americano Charles Poletti, commissario per gli approvvigionamenti delle forze alleate, che richiede una grossa fornitura del vino prodotto con le uve del feudo Cinque Rose; nome difficile da pronunciare in Inglese: e fu così che nacque il Five Roses. Sul conto del quale c’è un altro gustoso aneddoto: un famoso bourbon (un whiskey americano) si chiama Four Roses, molto apprezzato dagli ufficiali alleati; dopo aver assaggiato il forte rosato salentino Poletti, o chi per lui, avrebbe esclamato «E’ meglio del Four Roses! Questo è un Five Roses!». Che, come detto, sarà il primo rosato italiano messo in bottiglia. L’uvaggio Negroamaro – Malvasia nera sarà usato anche per il rosso più significativo dell’area, il Salice salentino; che debutta con la vendemmia 1954 e che nel 1976, anche grazie al considerevole volume delle esportazioni, ottiene la denominazione di origine controllata (Doc): Negroamaro per almeno il 75%; possono concorrere altri vitigni a bacca rossa; di solito si tratta di Malvasia nera. Spesso i due vitigni erano compresenti infatti nelle vigne «miste». La Malvasia, più morbida, attutisce infatti l’aggressività e l’acidità spigolosa del Negroamaro, rendendo più armonico il vino.

Oggi il Negroamaro viene anche vinificato in purezza, c’è la Doc Negroamaro di Terra d’Otranto e quella Brindisi Negroamaro; ma il disciplinare ammette una presenza fino al 10% di altre uve (la più usata è appunto la Malvasia nera); e molti sono i Negroamaro Igp. E a base di Negroamaro (associato alla Malvasia nera) sono quasi tutte le Doc di rosso e rosato salentine e joniche (Primitivo a parte), che per motivi campanilistici si son volute distinguere le une dalle altre ed hanno quindi difficoltà a pubblicizzare e commercializzare adeguatamente le proprie produzioni. Fra le cantine storiche il cui nome è legato al Negroamaro (ne producono varie, anche innovative tipologie) c’è Coppola: vitivinicultori dal XV secolo, iniziano ad imbottigliare nel 1947. Il Doxi Alezio Doc rosso riserva è il loro Negroamaro di punta, insieme con il Li Cuti 1489 Alezio doc rosato.

Manduria e il suo «Primitivo», una storia lunga più di 200 anni. Giuseppe Mazzarino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Marzo 2022. 

Dalla «dote» a un matrimonio, alla sua origine di gioia fino alla rinascita negli anni novanta: aneddoti di uno dei vini italiani più esportati nel mondo

Un vino, un vitigno, una storia, un territorio. Non soltanto gusto, consistenza, profumi. Il vino non si tracanna, si gusta; e non si beve per sete. In un calice di buon vino non c’è soltanto alcool. Il Primitivo di Manduria, per esempio: una carta vincente dell’enogastronomia pugliese, uno dei vini italiani più esportati nel mondo. Racchiude in sé valori culturali, storici, paesaggistici, economici e sociali, oltreché – naturalmente – gustativi.

Il suo boom è relativamente recente. C’è voluta la crisi del metanolo per far virare la produzione dalla quantità di vino da taglio (o da distillazione) verso la qualità. Ancora negli anni ’90 stava per perdere la doc per mancanza di produzione. Ma i miglioramenti qualitativi, la commercializzazione non più artigianale, la «scoperta» che uno dei più accorsati vini californiani, lo Zinfandel, altro non è che un clone del Primitivo (e sostanzialmente lo stesso vitigno è il croato Crljenak Kaštelanski), hanno creato le premesse, consolidate dalla costituzione del Consorzio di tutela, per un successo rapido, travolgente e che non conosce riflusso. Tanto che una delle varianti del Primitivo di Manduria, il dolce naturale, è stato il primo vino pugliese ad ottenere la Denominazione d’origine controllata e garantita (Docg).

La storia di questo vino, e del vitigno da cui prende il nome, è affascinante: intanto, il nome non indica una origine lontana nel tempo o una vinificazione al modo antico, perché Primitivo (in origine Primativo) sta per «primaticcio», «precoce»: è un’uva che matura presto, prima delle altre.

Nell’attuale area della denominazione protetta (in provincia di Taranto: il territorio dei Comuni di Manduria, Carosino, Monteparano, Leporano, Pulsano, Faggiano, Roccaforzata, San Giorgio Jonico, San Marzano di San Giuseppe, Fragagnano, Lizzano, Sava, Torricella, Maruggio, Avetrana e Taranto, limitatamente alla frazione di Talsano ed alle isole amministrative intercluse nei territori di Fragagnano e Lizzano; in provincia di Brindisi i territori dei Comuni di Erchie, Oria e Torre Santa Susanna) il vitigno arrivò da Gioia del Colle, dove era stato selezionato da un sacerdote, come dote di una giovane sposa.

Siamo nel 1799, quando don Filippo Indellicati mette ordine nei suoi vigneti, separa i vitigni ed impianta una vigna di sole viti che producono quest’uva precoce dal colore tendente all’indaco ed un vino di un profondo porpora, profumatissimo e gustoso: è l’atto di nascita del Primativo, che riscuote subito successo, tanto che dilaga nel territorio di Gioia, Altamura, Acquaviva (dove tuttora, come nel confinante versante di Nord Ovest della Provincia jonica, specie a Crispiano, si produce un ottimo Primitivo, molto diverso da quello di Manduria; ne parleremo altra volta; così come altra volta tratteremo del Primitivo di Manduria dolce naturale docg).

Ed arriviamo ad una data certa: il 1881; l’altamurana contessina Rosa Sabini va sposa in Manduria a «don» Tommaso Schiavoni Tafuri (il don, sempre derivazione del latino dominus, non indica un ecclesiastico ma è titolo di rispetto), e porta in dote, tra l’altro, alcune barbatelle di Primitivo. Che il cugino di don Tommaso, Menotti Schiavoni, impianta a Campo Marino, frazione di Maruggio: di fronte al mare, che mitiga l’arsura della Puglia e crea un microclima favorevolissimo al vitigno, che teme il caldo eccessivo.

E proprio col nome Campo Marino, nel 1891, viene imbottigliato il primo vino che diventerà il Primitivo di Manduria. E’ più alcoolico, più morbido, più profumato di quello di Gioia. Il nuovo vitigno rigorosamente impiantato ad alberello (oggi al limite anche a spalliera), conquista rapidamente Manduria, Sava, Lizzano, San Marzano. Lo battezzano «di Manduria» perché nell’antica città dei Messapi c’è la stazione ferroviaria da cui partono i vagoni-cisterna carichi del purpureo nettare che la Francia soprattutto, ma anche l’Italia del Nord, userà come vino da taglio, per la gradazione alcoolica ma anche per il colore.

E a Manduria nasce anche la prima cantina cooperativa di Puglia, nel 1928, la Federazione Vini; quattro anni dopo assumerà ufficialmente la forma cooperativa e si ribattezzerà Consorzio produttori vini e mosti rossi superiori da taglio di Manduria; azienda che pur semplificando il nome (oggi si chiama Produttori di Manduria – Maestri in Primitivo) resterà all’avanguardia anche nel miglioramento qualitativo. Negli anni ’30, comunque, il Primitivo è ancora considerato essenzialmente vino da taglio: troppo plebeo per diventare un vino di qualità, incapace di invecchiare, troppo alcoolico... ma non era vero. Tutto stava, e sta, a come si vinifica: perché l’uva nasce nel terreno, il vino nasce in cantina. Il Primitivo di Manduria ebbe la doc nel 1974, ma già pochi anni dopo rischiava di perderla: i produttori che lo imbottigliavano erano pochi, e il vino non riusciva a superare i confini locali. E molte cantine, per non aggiornare gli impianti, continuavano a produrre vino sfuso. Ci volle la crisi del metanolo, insieme con l’emergere di nuove generazioni di imprenditori ed operatori, per creare, a partire dalla metà degli anni ’90, per trasformare una doc morente in un vino di successo planetario, fra i più esportati d’Italia. Con alcuni Primitivi (dop – che è il nuovo marchio europeo – ma anche igp) da urlo, che si impongono in importanti concorsi enologici.

Francesca Basso per corriere.it il 16 febbraio 2022.

Il «consumo nocivo di alcol» è un fattore di rischio per il cancro e non più il «consumo di alcol». L’introduzione dell’aggettivo «nocivo» è una delle modifiche votate martedì sera dagli europarlamentari riuniti in plenaria a Strasburgo alla relazione sul Piano anti-cancro, che affronta la questione della lotta al cancro in tutti i suoi aspetti, dalla diagnosi precoce all’accesso alle cure, dalla ricerca alla prevenzione, indicando una serie di proposte.

Dal testo è stato anche cancellato il riferimento ad avvertenze sanitarie in etichetta (sul tipo di quelle usate per le sigarette) sostituito con «informazioni sul consumo moderato e responsabile».

Il voto a Strasburgo

Il 15 febbraio gli eurodeputati riuniti in plenaria a Strasburgo hanno votato gli emendamenti al report presentato dalla commissione Beca. Sono passati gli emendamenti presentati dagli eurodeputati della cosiddetta «maggioranza Ursula»Paolo De Castro (Pd, S&D), Herbert Dorfmann (Svp, Ppe) e Ire’ne Tolleret (Renaissance, Renew).

Mercoledì c’è il voto al testo nel suo complesso e sarà reso noto nel pomeriggio. Il piano non è una proposta legislativa né è un documento vincolante, ma è un documento di indirizzo politico. 

Il mondo del vino italiano ed europeo era però in agitazione, prima del via libera alla modifica del testo. Il report infatti include tra le sostanze cancerogene l’alcol, ricordando che «in Europa circa il 10% di tutti i casi di cancro negli uomini e il 3% di tutti i casi di cancro nelle donne sono riconducibili al consumo di alcol» e cita l’Oms dicendo che «riconosce che non esiste un livello sicuro di consumo di alcol per quanto riguarda la prevenzione oncologica».

Questa parte però è stata così modificata: «il livello più sicuro di consumo di alcol non esiste per quanto riguarda la prevenzione oncologica». Il testo chiede anche un aumento delle tasse sulle bevande alcoliche. È stato bocciato l’emendamento che modificava questa parte. 

Mentre è passato un emendamento che ammorbidisce la parte sulle sponsorizzazioni. Nel testo si invitava a proibire «la sponsorizzazione di manifestazioni sportive da parte di produttori di bevande alcoliche» quando partecipano minori. L’emendamento approvato invita a proibire «la pubblicità e la sponsorizzazione di bevande alcoliche in occasione degli eventi sportivi qualora a tali eventi partecipino principalmente i minori».

La soddisfazione dell’Italia

Tra gli europarlamentari italiani c’è grande soddisfazione bipartisan per gli emendamenti approvati. «Abbiamo ottenuto un risultato straordinario, i nostri emendamenti che puntavano a tutelare il vino e il settore vitivinicolo italiano sono stati approvati», ha commentato il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. 

Paolo De Castro del Pd, tra i promotori degli emendamenti, ha sempre insistito sul fatto che «è l’abuso di alcool che si deve combattere non il consumo consapevole». Per Dino Giarrusso del M5S «al Parlamento europeo vince il buon senso e passano gli emendamenti cofirmati e fortemente sostenuto da noi del Movimento 5 Stelle».

Stefania Zambelli, eurodeputata della Lega componente della commissione Beca, ha sottolineato che «la lotta contro il cancro è un argomento troppo importante per essere banalizzato con insensate demonizzazioni contro il vino o altri prodotti alimentari». 

«Soddisfazione per il grande risultato ottenuto», anche da parte del copresidente del gruppo Ecr- FdI al Parlamento Ue, Raffaele Fitto, e dell’eurodeputato FdI e relatore ombra per il gruppo Ecr in commissione Beca, Pietro Fiocchi: «Sono stati accolti anche i nostri emendamenti per modificare una formulazione eccessivamente rigida riguardo al controllo delle bevande alcoliche».

Manila Alfano per "il Giornale" il 16 febbraio 2022.

Per una volta, il blocco italiano a Strasburgo ha lottato fino all'ultimo per difendere il vino, per distinguere l'uso dall'abuso e per allontanare dalle bottiglie l'etichetta dal bollino nero. Il voto del Parlamento europeo sulla strategia per la lotta ai tumori agita i Paesi che hanno importanti filiere nell'agroalimentare e l'Italia si è dimostra uno dei Paesi più compatti nel voler difendere la specificità sul vino. 

Il legame tra tumori e consumo di alcol è infatti uno dei fattori presi in esame dalla relazione - che non ha effetti legislativi immediati - e s'intreccia con il tema della difesa alla dieta mediterranea da tempo messa in campo dall'Italia.

Benché, nei fatti, si tratti di tavoli diversi. Nell'occhio del ciclone, a Strasburgo, sono allora finiti i paragrafi relativi all'uso di alcol e alla possibilità d'introdurre etichette informative per le bevande alcoliche. 

Il voto riaccende i riflettori sul sistema di etichettatura NutriScore, proposto dai francesi (che però non è menzionato nel testo sulla lotta al cancro). Roma, ad esempio, si è mossa con una proposta alternativa, che il governo ha battezzato NutrInform.

Ovvero, spiega il ministro della salute Roberto Speranza, un sistema che «ambisce a creare una nuova consapevolezza sui valori della dieta mediterranea». Per quel che riguarda il testo della strategia Ue sul cancro, l'idea è cambiare i paragrafi relativi ai rischi legati ai consumi di alcol. 

Le modifiche chiedono l'inserimento della dicitura «consumo nocivo» di alcol al posto del semplice «consumo» e la sostituzione della frase «avvertenze per la salute» con «informazioni su un consumo moderato e responsabile» per quanto riguarda le etichette sulle bottiglie. Un dibattito acceso e che rischia di penalizzare un settore specifico.

Preoccupazioni condivise anche alla Commissaria Ue alla Salute, Stella Kyriakides, che in aula si è dimostrata alquanto seccata: «Non c'è alcuna intenzione di prendere di mira la cultura gastronomica, il nostro lavoro punta a garantire sistemi di prevenzione e cure efficaci a tutti gli europei ed è basato su dati scientifici». 

Il punto è, ricorda, che il consumo di alcol in Europa è alto e, per questioni di salute, «va ridotto». In molti si sono battuti affinché siano chiare almeno le distinzioni fondamentali: «Il 92% dei tumori da alcol è provocato dall'abuso di esso e non dal salutare bicchiere di vino rosso che aiuta per le malattie cardiovascolari e cardiocircolatorie», ha fatto notare l'eurodeputata di Forza Italia Luisa Regimenti. «Dobbiamo contrastare l'abuso di sostanza alcoliche e non discutere se sia opportuno o meno bere un bicchiere di vino». 

L'Europa ha il livello più elevato di consumo di alcol al mondo e può causare diversi tipi di cancro, ecco perché un piano con un chiaro obiettivo per raggiungere una riduzione di almeno il 10% nel consumo di alcol, come sostenuto dall'Oms comunque ci vuole, salvaguardando però l'eccellenza italiana.

AnCu. per "il Giornale" il 16 febbraio 2022.

C'è preoccupazione nel mondo italiano del vino per la possibilità concreta che oggi l'europarlamento di Strasburgo voti la direttiva che - stabilendo che l'alcol favorisce il cancro a prescindere dalla quantità assunta - parificherebbe un bicchiere di buon rosso a quattro Gin tonic dopo cena. 

Naturalmente viticoltori e addetti ai lavori sono preoccupati. «Il cancro è la malattia del secolo, ma non ci sono dati per condannare il vino spiega a Winenews Luigi Mo io, presidente dell'Oiv, Organizzazione internazionale della vigna e del vino, e professore ordinario di enologia presso il dipartimento di Agraria dell'Università Federico II -. Dal punto di vista scientifico non ci sono abbastanza dati per condannare il vino e metterlo sullo stesso piano di tabacco e superalcolici».

«Il primo obiettivo - aggiunge il vicepresidente Unione italiana vini e presidente dell'Associazione europea Wine in moderation, Sandro Sartor - è quello di evitare che oggi diventi una data spartiacque per il futuro del vino italiano ed europeo. Senza la fondamentale distinzione tra consumo e abuso, tra diversi contesti e modelli di consumo lo scenario che si delineerebbe per il settore sarebbe disastroso sul piano socio-economico».

Le decisioni che arriveranno da Bruxelles e da Strasburgo potrebbero creare importanti danni all'intero comparto del vino, del quale l'Italia è il primo produttore mondiale, con 49.066.000 ettolitri nel 2021 (in Francia sono 46.944.000) ed esporta per 7 miliardi di euro l'anno. Non solo: il mondo del vino dà lavoro, in un modo o in un altro, a 1,3 milioni di italiani.

Secondo l'Uiv se oggi il Cancer Plan dovesse essere approvato senza i necessari correttivi, l'industria del vino italiano potrebbe subire un danno enorme, con una contrazione dei consumi stimabile attorno al 25/30 per cento in termini di volume e del 35 per cento in termini di valore. 

Ci sarebbero anche un effetto svalutazione degli asset investiti e molti danni per l'indotto. Quanto ai consumatori, saranno costretti a pagare di più un prodotto probabilmente di minore qualità, perché le maggiori accise spingeranno i produttori a scelte più scadenti. Complessivamente si stima una contrazione del margine lordo alla produzione del 50 per cento, con migliaia di aziende agricole che scompariranno.

Strano ma vero. Un calice di vino rosso della Champagne? Anna Prandoni su L'Inkiesta il 31 Gennaio 2022.

Se non vi sognereste mai di ordinarlo, è perché ancora non conoscete il lato meno noto della celebre regione francese che è apprezzata per le bollicine ma che sa anche fare bene anche molto altro.

La Champagne ha conquistato il mondo con il suo celebratissimo spumante. I numeri sono impressionanti: oltre 27 milioni di bottiglie vendute in un solo anno in Gran Bretagna, più di 25 milioni negli Usa, 14 milioni in Giappone, 8,4 milioni in Italia, ma anche un milione destinato a rifornire navi e aerei. E poi dati ancora più sorprendenti: 350mila bottiglie vendute in Costa d’Avorio, 1,3 milioni in Messico e altrettante a Singapore, fino agli insospettabili 1,8 milioni annui degli Emirati Arabi Uniti o al mezzo milione di bottiglie spedito in Qatar![1] 

È così che, con le sole esportazioni, lo champagne genera un giro d’affari stimato in 2,6 miliardi di euro l’anno. Un risultato che può sembrare incredibile, se si pensa che questa regione si trova talmente a nord da rendere difficoltosa una piena maturazione dell’uva.

Questo trionfo è stato reso possibile da una sorta di prestidigitazione: aver intuito, trecento anni or sono, che la produzione di vini spumanti – adatta a un ambiente fresco – poteva trasformare gli storici problemi di un clima inclemente in un asso nella manica.

Tuttavia la Champagne non è sempre stata una fucina di vini dorati effervescenti. Se è vero che vi si coltiva la vite da quasi due millenni, è altrettanto vero che fino a metà Ottocento quest’area della Francia settentrionale produceva soprattutto vini rossi, come tante altre regioni, quale ad esempio la vicina Borgogna. Del resto qui sono da sempre le uve nere, prime tra tutte il celebre pinot noir, a fare la parte del leone.

Nell’ultimo secolo e mezzo il trionfo della spumantistica ha però spazzato via la concorrenza dei vini fermi. Questi ultimi si sono limitati a sopravvivere, sotto forma di reliquia, in una denominazione d’origine controllata (appellation d’origine contrôlée – AOC) che sulla carta ricopre lo stesso vastissimo territorio in cui si possono produrre spumanti, ma che nei fatti partorisce appena qualche decina di migliaia di bottiglie l’anno, a fronte degli oltre 300 milioni di metodo champenois.

Dopo aver cambiato più volte nome, dal 1974 questa AOC si chiama Coteaux-Champenois – traducibile in “Colli della Champagne” – e consente di produrre, con le stesse uve dello spumante, vini fermi rossi, bianchi o rosati.

Quando alcuni anni fa indagai per la prima volta in modo minuzioso questa tipologia, gli stessi vignaioli che visitai si dimostravano circospetti sul suo interesse e sulle sue potenzialità. Quasi non ci credessero. Eppure avevano scelto di riservare una parte (minima) dei loro vigneti ai vini fermi, perlopiù rossi. Come mai allora tutto questo scetticismo? È facile da spiegare.

Produrre un buon vino tranquillo in Champagne è più difficile e meno redditizio. Non gode della stessa notorietà di uno champagne, cui basta il nome per proporsi con successo sul mercato. Richiede terroir di grande valore e più lavoro in vigna, per ottenere uve di qualità superiore. La moltitudine di operazioni enologiche della spumantizzazione consente infatti di trasfigurare in cantina mosti di livello anche modesto. E dato che lo spumante si basa sulla leggerezza e sull’acidità, si possono utilizzare uve più diluite, provenienti da rese maggiori. Quindi di produrre di più. In pratica quasi solo vantaggi.

Perché allora un vignaiolo dovrebbe sacrificare tempo, energie e quantitativi per ottenere un vino meno quotato, meno abbondante, e che non potrà vendere a un prezzo più alto? La risposta è una sola: per tradizione, passione e orgoglio.

Quanto al cliente, perché mai dovrebbe a sua volta comprare questi vini piuttosto costosi? Per curiosità, certo. Per cultura enologica, indubbiamente. Ma anche perché i migliori coteaux-champenois sono di stimolante originalità gustativa. Si tratta di vini leggiadri, molto fini, espressivi ed eleganti. Sono bottiglie che testimoniano un’insolita levità gustativa, senza tuttavia sacrificare sul suo altare carattere e personalità. Sono anche vini dotati, grazie a queste virtù, di un’eccellente bevibilità. In tempi in cui è sempre più facile imbattersi in “vinoni” da 14 o 15 gradi alcolici, non sempre molto digeribili, questo è un indubbio pregio. Infine, i buoni coteaux-champenois ci riconciliano con l’idea stessa che la leggerezza sia una virtù.

La rinascita dei Coteaux-champenois

A una manciata di anni dai miei primi sopralluoghi e indagini si constata un cambio di rotta. I vignaioli che producevano coteaux-champenois all’epoca hanno saldamente confermato quella scelta. Quelli che nicchiavano o sostenevano si trattasse di eventi episodici o isolati, forse destinati a non ripetersi, hanno rinnovato gli esperimenti. Diversi altri che non producevano vini fermi hanno iniziato ad avventurarsi su questo terreno, incluse alcune grandi maisons che non lo facevano.

Che cosa è successo? Probabilmente un effetto di moda, come spesso accade nel mondo del vino. Ma anche una crescente attenzione per i vini di territorio, che i coteaux-champenois incarnano meglio del sofisticato champagne, spesso percepito come una lussuosa bevanda alcolica, più che come un vino a pieno titolo. Infine il riflesso del surriscaldamento climatico, che sta rendendo sempre più agevole ottenere uve mature anche nelle regioni nordiche.

Qualche produttore distintivo

Districarsi nel dedalo dei produttori di coteaux-champenois non è facile. In genere l’aura di cui gode lo champagne mette in ombra, nei cataloghi aziendali, i vini fermi. Inoltre i quantitativi prodotti sono così ridotti da rendere scarsamente disponibili le bottiglie (i piccoli vignaioli producono spesso non più di due o tre botti di coteaux-champenois l’anno, e solo nelle annate favorevoli), ardue anche da reperire in enoteche o ristoranti.

Eccovi dunque una serie di suggerimenti tra i quali provare a scovare il vino che fa per voi. Buona fortuna!

Tra le grandi maisons solo Bollinger e Drappier vantano una tradizione duratura di vini fermi. La prima produce da anni la cosiddetta “Côte aux Enfants”, un rosso concentrato e costoso (attorno a 120 €), da una singola vigna di Aÿ. Drappier invece propone da tempo sia un rosso (oggi denominato “Permission”) sia un bianco (“Perpétuité”) schietti, eleganti e molto rappresentativi, a un prezzo abbordabile. Da poco si è aggiunta la singolare etichetta “Trop m’en faut”, prodotta con solo pinot grigio – caso più unico che raro.

Tra le celebri maisons che si sono cimentate di recente vanno citate Charles Heidsieck e la pionieristica Louis Roederer, quest’ultima tra le case più dinamiche e visionarie.

Il panorama dei piccoli vignaioli (récoltants) è più diversificato.

Tra di essi si staglia la figura di Francis Égly (Domaine Égly-Ouriet), che con il suo ambonnay rouge “Cuvée des Grands Côtés” (prima annata 1995) si è imposto come riferimento qualitativo dei grandi rossi di stile e ambizione borgognoni. È un pinot nero sontuoso, ricco, strutturato, levigato (e assai costoso – spesso oltre 200 €!), da lasciare invecchiare pazientemente in cantina. Le annate 2018 e 2019, attualmente in circolazione, non andrebbero stappate prima del 2025/2030.

All’altra estremità geografica della regione, Olivier Horiot incarna un’eccezione nell’eccezione: quando rilevò la guida della tenuta di famiglia ai Riceys decise di produrre… solo vini fermi! Lo champagne arrivò in un secondo tempo. Sia il coteaux-champenois rosso sia il bianco sono deliziosi, teneri, eleganti, delicati. Ma questo paese dell’Aube è anche l’unico di tutta la Champagne a poter vantare una terza denominazione d’origine: Rosé des Riceys, dedicata ai soli rosati fermi. Quelli di Horiot sono sapidi, golosi, longevi e dotati di grande finezza.

Non lontano dai Riceys, a Courteron, la maison a dimensione famigliare Fleury – pioniera della biodinamica in Champagne – ha recentemente messo a frutto nel campo dei vini tranquilli il proprio lungo savoir-faire spumantistico. Il suo coteaux rosso 2018 è aromaticamente puro, squillante, speziato; in bocca acidità e leggerezza sono compensate da un tannino gagliardo. Ma quest’azienda produce anche un coteaux-champenois bianco 100% pinot blanc e un rarissimo rosé da pinot nero.

Tornando a nord, tra Montagne de Reims e Vallée de la Marne, alcuni altri vignerons meritano senz’altro una segnalazione.

I fratelli Raphaël e Vincent Bérêche confezionano due coteaux-champenois, uno per colore, espressivamente incostanti ma di sicuro interesse: un rosso (800 bottiglie l’anno) ficcante e tannico, prodotto da vigne di Ormes, nella Petite Montagne, e un bianco fatto a Ludes, ancora più raro. Entrambi risentono del rovere. David Léclapart di Trépail, uno dei portabandiera della biodinamica in Champagne, ha iniziato nel 2013 a produrre un coteaux-champenois bianco aggraziato e soave, segnato dal legno. Ma è il suo verace trépail rouge, tutto pinot nero, che fin dal 1999 illustra il potenziale di questo territorio e di questo vignaiolo per il vino fermo.

Nella Vallée de la Marne, i fratelli Mélanie e Benoît Tarlant hanno còlto l’occasione di un’annata generosa come la 2019 per sperimentare la produzione di un vino fermo ottenuto da vecchie viti di pinot nero piantato nel 1946 e vinificato in bianco interamente in barrique. Il rovere lascia un segno aromatico inequivocabile nel bouquet del vino, che rivela un simpatico profilo guizzante e spigliato, con un corpo sottile e nervoso. Una bottiglia che restituisce appieno l’espressività tipica della Champagne.

Nel medesimo areale la casa Dehours & Fils fa insolitamente leva sul vitigno pinot meunier per produrre sia un coteaux rosso sia uno bianco di pregevole carattere. Il rosso “Troissy – La Croix Joly” ha bisogno di qualche anno per fondere il legno e la struttura tannica. L’edizione 2018 (appena 567 bottiglie!) ha grana tannica ancora burbera e aroma tostato: aspettatelo qualche anno.

Chiudiamo la nostra carrellata con tre vignaioli della Valle della Marna.

Franck Pascal confeziona sulla riva destra della vallée due coteaux-champenois, entrambi denominati “Confiance”. Il rosso 2018 è un ottimo esempio di sapidità e rilassatezza, condotte sul fino dell’eleganza e della spontaneità espressiva. Anche il bianco, frutto dell’assemblaggio di ben quattro annate diverse, è convincente. Si configura come un vino facile ma elegante, di beva godibilissima, fragrante e gustosa.

Bourgeois-Diaz produce un rosso “BD’LP” (meunier 80%, pinot nero 20%) più robusto e corpulento, a tratti ruvido e selvaggio, dalla bocca solida e saporita.

Jérôme Lefèvre ha da pochissimo fondato la sua piccola cantina personale a Essômes-sur-Marne. Tra i suoi progetti, un coteaux-champenois da meunier e pinot nero vinificati in bianco in barrique. Il colore dorato scuro, quasi ramato, prelude a una dolcezza di rovere evidente ma ben gestita, che incontra un frutto croccante e molto libero. Vino teso e fragrante, per gli amanti dello stile “nature”.

Due indicazioni pratiche, per finire. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, i vini fermi della Champagne non vanno bevuti giovani: sono spesso troppo crudi e spigolosi, talora aspri. Fateli invecchiare alcuni anni.

In secondo luogo, la temperatura di servizio dei rossi, da non mescere mai alla cosiddetta “temperatura ambiente”, bensì a 14-15 °C. •

[1]    Dati CIVC riferiti al periodo pre-Covid (anno 2019). I dati 2020 della pandemia sono ovviamente più bassi, ma già in robusta risalita nel 2021.

Per chi vuole approfondire, c’è il volume sul tema di Possibilia Editore. 

Brunello di Montalcino, quel mito rosso che si trasformò nel miglior investimento. Quella del Brunello è una lunga storia di successi e prodigi. Il vino ha portato prosperità e notorietà a un paese toscano che mezzo secolo perdeva gli abitanti. Mauro Bassini su La Voce di New York il 04 Dicembre 2021.

Nel 1992 un mio caro amico comprò un bell’appartamento a Bologna per 500 milioni di lire. Abita ancora lì. Se oggi vendesse quell’appartamento ne ricaverebbe (secondo la stima di un’agenzia immobiliare) circa 450 mila euro, massimo 500 mila. Se il mio amico, nel 1992, avesse investito lo stesso denaro in terreni agricoli nella zona di Montalcino, patria del Brunello, i suoi 500 milioni di lire non sarebbero diventati 450 mila euro, ma una cifra pazzesca: circa cinque milioni di euro. Il calcolo è il risultato di una recente analisi di un autorevole sito specializzato in vini: WineNews.it. Sì, i vigneti che producono il celebre vino rosso toscano valgono venti volte di più rispetto al 1992. Un ettaro di terreno in zona Brunello costa sui 700-750 mila euro, con punte da un milione di euro per cru di particolare pregio. Non siamo ai tre milioni a ettaro che in Borgogna sono praticamente la norma, ma il boom è comunque notevole. Nel Collio, magnifica zona vinicola del Nord-Est italiano, ai confini con la Slovenia, un ettaro di terreno costa circa 100mila euro.

Del celebre rosso toscano conosciamo da sempre la classe e la piacevolezza. Con 30 o 40 euro si può comprare un accettabile Brunello, ma da decenni vediamo decollare i prezzi di grandi bottiglie delle migliori annate (negli ultimi dieci anni le annate definite ‘eccezionali’ sono state addirittura quattro: 2012, 2015, 2016 e 2019). Abbiamo letto recentemente che il vino più costoso d’Italia è un riserva Biondi Santi da 52.400 euro. Brunello, naturalmente. Ma mai come oggi il rosso orgoglio di Montalcino è stato anche sinonimo di magnifico investimento.

Il suo mito, solido e antico, è legato a filo doppio alla famiglia Biondi Santi. A fine Ottocento fu Ferruccio Biondi Santi, farmacista e vignaiolo, a inventare il Brunello dell’era moderna. Sangiovese al 100 per cento, coltivato in una miracolosa zona appena collinare nella provincia di Siena, ai confini con quella di Grosseto. Fama di origine medievale, rilanciata e rinvigorita nel secolo scorso. Un celebre salone dei vini tipici, svoltosi nel 1933 a Siena alla presenza del re d’Italia, ne decretò la consacrazione. Lo slogan di quella mostra fu ideato dal fondatore e maestro del futurismo italiano: Filippo Tommaso Marinetti. “Il Brunello è benzina”. Slogan discutibile per chi ama apprezzare gusti e retrogusti di un buon rosso. Eppure funzionò e rimase perfino nella storia. Furono i Biondi Santi a battersi per creare il consorzio dei produttori di Brunello, a sostenere la necessità di tutelare quel prezioso vino con un preciso disciplinare, e anche a inventare il rito della ricolmatura. È una vera e propria cerimonia in cui le bottiglie d’annata vengono stappate e poi ritappate dopo un assaggio (a verificarne l’intatta qualità) e un rabbocco con vino della stessa annata.

C’è un mondo attorno al Brunello e ci sono regole ferree a presidio della sua eccellenza. Due anni in rovere e altri quattro mesi in bottiglia prima della vendita, consentita dal gennaio successivo al termine di cinque anni (compreso quello della vendemmia).

Dagli anni Cinquanta il successo del Brunello è esploso anche oltre confine. Nel 1966 arrivò il riconoscimento della doc, nel 1980 la docg (denominazione di origine controllata e garantita). Vino meraviglioso con le carni rosse, la selvaggina, i funghi, tanti piatti al tartufo. Presenza fissa nei primi posti delle più autorevoli classifiche enologiche del mondo. Fra i sette e i nove anni di età, dicono i sommelier quasi unanimi, quel vino dà il meglio di sé.

Quella del Brunello è una lunga storia di successi e prodigi. Il vino ha portato prosperità e notorietà a un paese che oggi ha quasi seimila abitanti e a una zona che fino agli anni Sessanta e Settanta faceva scappare i suoi residenti alla ricerca di lavoro e di sicurezze. Il risultato fu uno spopolamento del 70 per cento. Oggi tutto è cambiato. Miracoli del vino. Tra questi, uno va raccontato. Un talentuoso musicista inglese bevve solo birra fino a vent’anni. Poi raccontò che, proprio grazie al Brunello, si convertì al vino rosso e si innamorò della Toscana. Risultato: nel 1997 comprò una splendida tenuta tra Figline e Incisa Valdarno, dove tuttora produce un olio e un vino di cui va orgoglioso. Il suo nome è Sting.

Mauro Bassini è un giornalista di Bologna. Dal 1977 lavora per il gruppo di quotidiani Il Resto del Carlino-La Nazione- Il Giorno. Da sempre si interessa di buona tavola e libri antichi. Con Minerva Edizioni ha pubblicato diversi libri sui ristoranti e sulla grande tradizione gastronomica emiliana. Il suo piatto preferito? Le tagliatelle al ragù

I vini migliori al mondo per qualità prezzo (tra 10 e 30 euro). MARCO VASSALLO su Il Corriere della Sera il 28 febbraio 2022.

La Top 100 Value Wines ($35 or less!), classifica curata da James Suckling, uno dei maggiori critici enologici americani, racchiude le migliori bottiglie per rapporto qualità prezzo. Nella selezione del 2021 ci sono 19 etichette italiane e ben tre vini premiati della cantina altoatesina Kuenhof.

La Top 100 Value Wines

È opinione diffusa tra i wine lover che il valore del vino sia in gran parte soggettivo e il gradimento si misuri in questo modo: la bottiglia migliore del mondo è quella che ci regala il maggior piacere al minor costo. Se la si pensa così– e non sembra affatto una teoria sbagliata– è indispensabile pure una guida per orientarci e scovare ciò che fa per noi. Perché i vini sono tantissimi, si fanno in tutto il globo e hanno prezzi diversi. La Top100 Value Wines ($35 or less!), la classifica curata da James Suckling, uno dei maggiori critici enologici americani, nasce proprio da tale intento: indicare agli appassionati quali sono le migliori bottiglie per rapporto qualità prezzo (non sopra i 35 dollari, cioè circa 31 euro). Tra le 100 etichette segnalate nell’edizione 2021, il vino vincitore è un Riesling australiano che nel confronto con gli altri poteva contare su un costo medio giudicato molto conveniente (14 euro). Ma tra i 15 Paesi che hanno almeno un loro prodotto in lista, è l’Italia quello più rappresentato con 19 bottiglie (di cui 3 vengono dalla cantina altoatesina Kuenhof). Non bisogna stupirsi. «In qualità di nostra principale fonte di vini di valore, l'Italia offre un'ampia varietà di stili e tante etichette a prezzi accessibili, dalla Sicilia fino al Veneto passando per il Centro – si legge nell’introduzione alla classifica – Il miglior vino italiano nella nostra lista è il Foradori Manzoni Bianco Vigneti delle Dolomiti Fontanasanta 2020, che si è classificato quarto. È un vino biodinamico certificato Demeter che il senior editor, Stuart Pigott, ha descritto come “forse il più grande vino bianco naturale che abbia mai assaggiato”». Nelle prossime schede vi raccontiamo i primi tre vini della graduatoria e poi i 19 prodotti italiani della top 100. I prezzi medi di ogni bottiglia che vi riportiamo sono, generalmente, quelli indicati nella classifica (presi dal motore di ricerca Wine Searcher). Sono orientativi e possono essere soggetti a diverse variabili, come le spese di spedizione.

Pewsey Vale Riesling Eden Valley 2021

Questo vino bianco, piazzatosi al primo posto della classifica, viene dal sud dell’Australia. Non è una novità il successo dei vini della Eden Valley australiana, dato che già l’anno scorso aveva vinto un Riesling proveniente dallo stesso territorio. Questo, premiato nell’ultima classifica, al naso emana un dolce profumo con note definite di limone. Al palato è intenso e vibrante con aromi di frutta bianca e ancora limone. Si può bere subito ma anche aspettare e aprirlo più in là. Prezzo medio: 14 euro.

Vino, classifiche e consigli

Michel Guignier Morgon Vieilles Vignes 2019

Il secondo classificato è un vino rosso che viene prodotto nel Beaujolais, terra (vulcanica) di uve gamay. I vigneti da cui proviene arrivano fino a 70 anni di età e sono curati da Michel Guignier, che si auto–definisce l’enologo alchimista. Recita la scheda dedicata nella classifica: «Così profondo e sottile, ma anche luminoso e floreale al naso, ti toglie il fiato! Con un palato vivace e incontaminato ha un’energia sbalorditiva». Prezzo medio: 18 euro.

Jean-Marc Burgaud Morgon Côte du Py 2019

I vini del Beaujolais sono tra i più apprezzati in questa classifica. Ben cinque, infatti, si trovano nella top 10. Questo rosso è fresco, goloso, succoso e croccante. Ricco di sapori e aromi, si rivela al contempo molto strutturato, con un finale lungo e ampio. Prezzo medio: 22 euro.

Foradori Manzoni Bianco Vigneti delle Dolomiti Fontanasanta 2020

Al quarto posto troviamo questo bianco che nasce proprio vicino Trento. Qui c’è un terreno collinare e argilloso dove crescono uve Manzoni bianco, un incrocio tra riesling e pinot bianco. Da bere subito o da lasciare in cantina per qualche anno. Questo vino biodinamico, prodotto da una realtà sorta nel 1939 e guidata oggi da Elisabetta Foradori, ha letteralmente conquistato il suo degustatore. Al naso evidenzia un’intensità di frutto davvero profonda, con note di mela essiccata, pesca e mango. Di corpo è pieno, equilibrato, con un sorso appagante, caratterizzato da un leggero retrogusto minerale. Prezzo medio: 24 euro.

Inama Soave Classico Vigneti di Foscarino 2019

Con questo Soave Classico, in undicesima posizione, ci troviamo in provincia di Verona. Il Foscarino è un bianco fresco, minerale, profondo, con aromi di fiori di campo (sambuco, iris, camomilla). Al palato, invece, si presenta ricco e con un retrogusto di mandorla. Prezzo: 19 euro.

Suavia Soave Classico Monte Carbonare 2019

Subito dopo, dodicesimo, c’è un alto Soave Classico, prodotto, stavolta, dalla cantina Suavia. Un vino dalla mineralità tagliente. Prezzo medio: 19 euro.

Tasca d’Almerita Nerello Mascalese Etna Rosso Tascante Ghiaia Nera 2019

Questo rosso siciliano nasce dal dialogo tra il vitigno nerello mascalese e i terreni vulcanici dell’Etna. Il risultato è un vino, quindicesimo, dai tannini morbidi, buona bevibilità e freschezza. Prezzo su Xtrawine: 18,06 euro.

Kuenhof Peter Pliger Südtirol Eisacktal Kaiton 2019

ll Riesling «Kaiton» è un vino bianco altoatesino affinato in botte. Al naso è fruttato e floreale. Al palato, incisivo, minerale, sapido e rotondo. Prezzo Callmewine: 19,90 euro.

Feudo Maccari Grillo Terre Siciliane Family and Friends 2020

Il secondo siciliano della graduatoria, quindicesimo nella top 100, è un bianco ricavato da uve grillo e prodotto da una realtà della parte sud-orientale dell’isola. Prezzo medio: 23 euro.

Tolaini Toscana al Passo 2018

Al diciannovesimo posto un rosso toscano prodotto con uve sangiovese, cabernet sauvignon e merlot. Maturato per 14 mesi in botti grandi e piccole è caratterizzato da un profilo fruttato, speziato e boschivo. Prezzo medio: 18 euro.

Castello di Monsanto Chianti Classico Riserva DOCG 2018

Ventunesima posizione per questo Chianti prodotto da una delle cantine più prestigiose della zona. Elegante, armonioso e corposo. Prezzo medio: 25 euro.

Firriato «Chiaramonte» Nero d'Avola Sicilia 2018

Tre posizioni posizione più indietro, alla n.24, c’è un Nero d’Avola. È un vino di media struttura: morbido e potente, ha tannini setosi e un finale fruttato. Prezzo medio: 10 euro.

Bindi Sergardi Toscana Tenuta I Colli Governo all’uso toscano Nicolò 2019

Questo rosso Igt toscano è ricavato interamente da uve sangiovese coltivate in provincia di Siena ed è prodotto da una cantina storica le cui origini risalgono al 1349. Prezzo su Tannico: 13,90.

Mastroberardino Fiano di Avellino Radici 2020

Questo Fiano di Avellino, prodotto da una delle realtà vinicole più importanti della Campania, si è piazzato in trentatreesima posizione. Prezzo medio: 14 euro.

Tornatore Etna Bianco Zottorinotto 2019

C’è anche un Etna Bianco in graduatoria (n.34) ricavato da uve carricante in purezza. Un bianco che unisce eleganza e potenza, ed è espressione autentica del territorio. Prezzo medio: 25 euro.

Kuenhof Peter Pliger Grüner Veltliner Südtirol Eisacktal 2019

Anche questo bianco, al posto 36, viene dalla cantina Kuenhof, già premiata per il Riesling. Questo invece è un Veltliner di grande equilibrio, di spiccata aromaticità e mineralità. Prezzo medio: 20,80 euro.

Kuenhof Peter Pliger Sylvaner Südtirol Eisacktal 2019

Il quarantanovesimo vino è il terzo della classifica proveniente da questa realtà altoatesina nata nel 1990. Questo bianco è un Sylvaner. Prezzo medio: 25 euro.

Renieri Chianti Classico Gran selezione 2018

Cinquantesimo posto per questo Chianti Classico dai tannini setosi prodotto, sin dal 1967, nella zona di Castelnuovo Berardenga. Prezzo medio: 30 euro.

Montevetrano Campania Core 2018

Un vino campano realizzato in provincia di Salerno, quello al sessantaquattresimo posto. Ricavato interamente da uve aglianico, viene affinato per 10 mesi in barrique nuove. Prezzo medio: 20 euro.

Conti Zecca Luna Salento IGT 2020

Un bianco salentino (chardonnay 50%, malvasia bianca 50%) aromatico e floreale. Si piazza in settantaduesima posizione. Prezzo medio: 13 euro.

Banfi Bolgheri Aska 2018

Verso la fine della graduatoria, al novantacinquesimo posto, c’è il Bolgheri di Banfi, famosa cantina italiana. Un rosso elegante che si presta a un lungo invecchiamento. Prezzo medio: 18 euro.

Zeni Amarone della Valpolicella Classico 2018

Chiude l’intera classifica l’Amarone della Valpolicella della cantina Zeni, storica realtà nata nel veronese nel 1870. Prezzo medio: 26 euro.

·        La Birra.

La birra artigianale può farcela solo se esce dalla sua bolla. EUGENIO SIGNORONI su Il Domani il 26 luglio 2022

La birra artigianale italiana è diventata una delle realtà più interessanti della scena gastronomica nazionale. È nel 1996 che si fa strada nel nostro paese una produzione brassicola fino a quel momento inedita.

Il nostro movimento deve molto, soprattutto in termini di ispirazione, a quanto avvenuto negli Stati Uniti a partire dagli anni Sessanta del Novecento e per questo analizzare il movimento americano può essere per capire meglio anche le prospettive italiane

I princìpi che definiscono un birrificio artigianale negli Stati Uniti sono simili ai nostri però le dimensioni sono molto diverse e se da noi, per esempio, un birrificio per essere craft deve produrre meno di 200 mila ettrolitri, oltreoceano il valore è 35 volte più alto.

La storia della birra artigianale italiana viene fatta iniziare nel 1996. È allora che si fa strada nel nostro paese una produzione brassicola fino a quel momento inedita: indipendente da qualsiasi grande gruppo industriale, condotta su impianti microscopici, poco più che casalinghi e dedita a birre dai gusti complessi e variegati. Oltre vent’anni dopo, da quel primo piccolo nucleo è fiorito un movimento culturale ed economico che oggi conta oltre mille produttori, vale il 3,7 per cento del mercato totale della birra italiana e che ha portato la nostra nazione, nel 2016, a essere la prima al mondo a dotarsi di una legge che stabilisce il confine tra industria e artigianato in tre semplici paletti: indipendenza societaria ed economica da qualsiasi industria brassicola, produzione annua inferiore ai 200mila ettolitri, divieto di pastorizzazione e microfiltrazione.

Ora che il settore artigianale è maturo e solido e che ci si è definitivamente lasciati alle spalle l’idea che si possa trattare di un fatto modaiolo e passeggero, una delle sfide principali per il comparto è quella di uscire dalla propria zona di comfort. Una bolla che in questi anni l’ha certamente aiutato a crescere e, in parte, l’ha protetto, ma che oggi rappresenta anche uno dei principali ostacoli alla crescita.

Uscire da questa bolla è, infatti, necessario per accrescere la quota di mercato occupata dalla birra artigianale così che possa definitivamente diventare anche per il consumatore occasionale, una vera alternativa al prodotto massificato dell’industria. 

LA CRAFT BEER

È questo che è avvenuto, per esempio, negli Stati Uniti, la nazione che tra la metà degli anni Sessanta e la fine dei Settanta, per prima ha visto svilupparsi un movimento di birra alternativo e dove oggi la craft beer rappresenta il 13 per cento del mercato interno (dieci punti percentuali più del nostro), contribuisce all’economia statunitense con 62 miliardi di dollari e impiega 400mila addetti, dei quali 140mila direttamente nei birrifici e gli altri in pub, beer shop e nei vari ambiti collegati.

Capire la scena americana, anche se con le doverose differenze, prima tra tutte quella legata ai consumi che vedono gli statunitensi bere una media di 99 litri di birra pro capite all’anno e noi italiani fermi a quota 32, può essere molto utile per cogliere quale potrebbe essere il futuro della birra artigianale italiana, quali le opportunità e quali i rischi.

Tra poco arriveremo ai numeri, ma prima è necessario avere un quadro più preciso di cosa il termine craft indichi per la Brewer association, l’associazione di categoria dei birrifici artigianali statunitensi. Pur non trattandosi di una prescrizione di legge, è comunque la descrizione che più ci si avvicina. 

LE CONDIZIONI

Il primo aspetto a essere preso in considerazione sono le dimensioni produttive. Per poter essere considerato craft un birrificio dev’essere piccolo. Un termine che per gli standard d’oltreoceano significa non superare i sei milioni di barili (poco più di 7 milioni di ettolitri) prodotti in un anno solare. E qui iniziano le differenze: la dimensione massima della descrizione americana è 35 volte più grande rispetto alla nostra.

«È un valore molto grande, è vero» sottolinea in un’intervista concessa a Domani Bart Watson, responsabile degli aspetti economici della Brewer association «ma si deve considerare che per il nostro mercato sei milioni di barili non sono poi così tanti se li si paragona agli 80-90 milioni che ogni anno l’industria mette in distribuzione».

Un ulteriore aspetto da tenere in considerazione è che i birrifici che arrivano a produrre queste quantità, e che sono catalogati come regional breweries, sono poco più del 2,5 per cento dei produttori attivi: il restante 97,5 produce meno di 15mila barili ed è catalogato come microbirrificio, brewpub o taproom.

Il secondo fattore è invece quello dell’indipendenza economica: per poter essere catalogato come craft un birrificio non deve essere posseduto per più del 25 percento da un altro produttore di una qualsivoglia bevanda alcolica. «L’indipendenza è ancora oggi un valore molto importante per i consumatori», afferma Watson, «da una nostra indagine interna per oltre il 60 percento si tratta ancora oggi di uno degli elementi che più indirizzano le scelte».

Anche per questo da qualche anno la Brewer association si è dotata di un logo che può essere messo sull’etichetta dai birrifici craft e che li identifica immediatamente come indipendenti. Una strategia talmente efficace da essere stata adottata anche dall’omologa associazione italiana Unionbirrai.

Ora che abbiamo più chiaro come vengono catalogati i birrifici statunitensi possiamo passare ai numeri. I birrifici craft negli Stati Uniti sono oggi 9.118 e da almeno dieci anni la loro crescita si è fatta più intensa (nel 2012 erano poco più di 2.500) e non si è arrestata nemmeno con la pandemia, che pur avendo fatto segnare un calo nella produzione e nelle vendite di circa il dieci per cento, in gran parte già recuperato con l’anno 2021, non ha portato a un numero così elevato di chiusure.

I GRANDI GRUPPI

Da segnalare, infine, il dato legato alle acquisizioni: a partire dal 2011 i grandi gruppi industriali hanno iniziato ad acquisire alcuni dei birrifici più importanti e noti della scena craft. Il primo è stato Goose Island di Chicago comprato dal gruppo AbInBev, mentre il più clamoroso per valori economici è stato l’acquisto del californiano Ballast Point che nel gennaio 2015 è passato nelle mani della società di distribuzione Constellation per un miliardo di dollari.

Queste operazioni, che nel periodo tra il 2015 e il 2017 sembravano destinate a crescere, si sono invece quasi del tutto interrotte già prima della pandemia. Questo calo non ha però limitato le conseguenze: i birrifici acquisiti oggi rappresentano da soli il quattro per cento del mercato e poiché nell’immaginario collettivo continuano a essere considerati craft rappresentano un problema per il settore e un motivo di confusione per il consumatore.

EUGENIO SIGNORONI. Bresciano, classe 1983, cresce a Cologne, paese della Franciacorta ai piedi del Montorfano che tra le sue vie ne ha una dedicata al Brodo di Cappone. Mentre fa il liceo, sognando di fare il cuoco, frequenta per gioco le cucine di Vittorio Fusari, ma la vita lo porta in Piemonte a frequentare l’università di Scienze gastronomiche di Pollenzo. È curatore delle guide Osterie d’Italia (dal 2010) e Birre d’Italia (dal 2012), autore de Il piacere della Birra (Slow Food Editore, 2017), Cuocere, Dalla scoperta del fuoco ai giorni nostri (Slow Food Editore, 2020) e dei podcast Lievito Madre (Piano P, 2021) e Beer Revolution (Piano P, 2022). Scrive per Cook.inc e Linkiesta.it, collabora con Roads and Kingdoms.

Workers Buyout. La vera storia della Birra Messina, dai licenziamenti all’accordo con Heineken. Tonia Garofano su L'Inkiesta il 21 Aprile 2022.

Il racconto dei figli degli operai che hanno risollevato l’azienda reinvestendo il proprio Tfr. Ora le nuove generazioni di birrai lavorano accanto ai padri e alle madri che per 18 mesi nel 2011 hanno manifestato giorno e notte davanti agli stabilimenti messinesi della bottiglia famosa per i cristalli di sale, che però in larga parte viene prodotta a Massafra (Taranto)

Delle tante Sicilie, tante che «non finiremo mai di contarle» come suggeriva lo scrittore Gesualdo Bufalino, di certo quella dei 15 mastri birrai di Messina è una Sicilia da raccontare. È nella città distesa sullo Stretto che guarda al continente, che nel 1923 la famiglia Presti-Faranda apre il birrificio che produrrà la famosa “Birra Messina”. Il marchio vede crescere il mercato soprattutto nelle regioni del Sud, ma negli anni Ottanta, causa una concorrenza crescente, viene venduto a Dreher – parte del gruppo Heineken – che sposta progressivamente la produzione in Puglia, nel birrificio di Massafra, in provincia di Taranto. A Messina resta uno stabilimento dedito al solo imbottigliamento.

Da qui bisogna partire per raccontare l’identità della birra diventata famosa in tutta Italia per la ricetta con i cristalli di sale dei mari di Sicilia, ma prodotta in larga parte nei birrifici di Massafra e solo in parte nello storico Birrificio Messina, salvato dai 15 mastri birrai eroi. Una doppia identità che in questi anni ha creato non poche polemiche. Ma basta guardare l’etichetta per decifrarne la provenienza. Senza nessun inganno.

Tra Messina e Massafra

Nel 2007, la famiglia Faranda acquista da Heineken lo stabilimento di via Bonino, conosciuto come Triscele, nel centro della città di Messina, promettendo la tutela dei posti di lavoro per cinque anni. I problemi iniziano però nel 2011, quando i nuovi proprietari annunciano la chiusura della fabbrica e per i 41 dipendenti arrivano le lettere di licenziamento. Iniziano le proteste e per 18 mesi i lavoratori presidiano il cancello d’ingresso ininterrottamente: il tendone allestito diventa la loro casa. Giorni e notti trascorsi tra caldo e piogge, per difendere la storia di tre generazioni di lavoratori al servizio della più antica tradizione brassicola di Messina.

A Messina il lavoro manca. E perderlo a 50 anni significa per molti cadere nel baratro della disoccupazione senza via d’uscita. L’unica risorsa a disposizione dei birrai messinesi è l’esperienza. Nel birrificio hanno lavorato padri e nonni. Il mestiere si tramanda di generazione in generazione. Che fare?

Nel 2013, 15 operai dei 41 in protesta investono il proprio Tfr per risollevare le sorti della produzione della birra a Messina: nasce la cooperativa Birrificio Messina. Nel 2016, mentre gli impianti industriali sono ancora in corso di installazione, l’attività viene inaugurata: è la rivincita dei 15 soci, il loro rientro nel mercato del lavoro, non da operai ma da imprenditori.

Il nuovo stabilimento nella zona di Asi di Larderia avvia la produzione della Birra dello Stretto e della Doc 15. «Per noi tutti è stata un’emozione immensa, perché dopo anni di presidio, di incertezze, di rammarico, si realizzava un sogno, quello di riportare la produzione di birra nella nostra città, lanciando un marchio tutto messinese: una opportunità di occupazione per noi stessi. Con dignità», racconta Domenico Sorrenti, mastro birraio da tre generazioni e presidente della società cooperativa.

La rivincita arriva nel 2019, quando la stessa Heineken firma una partnership con la cooperativa per riportare Birra Messina nella “sua” isola. È l’accordo per la produzione di parte della famosa Birra Messina Cristalli di Sale, etichetta color mare dello Stretto e merlettato barocco, una lager di puro malto non filtrata, che viene preparata con il sale marino delle saline di Trapani. Ma è anche e soprattutto l’accordo per la distribuzione delle birre artigianali realizzate dalla cooperativa attraverso la rete distributiva di Heineken in Italia. Un piccolo investimento per il gruppo olandese, ma che per il Birrificio Messina significa il raddoppio potenziale della produzione e l’opportunità di crescere ancora e distribuire la propria birra.

In base all’accordo, Birra Messina Cristalli di Sale, di proprietà dell’Heineken, è prodotta in piccola parte, compatibilmente con le capacità del birrificio, nello stabilimento di Messina, la restante parte a Massafra, in provincia di Taranto. E a fianco di questa produzione, viene garantita la distribuzione delle etichette del birrificio. «Anche questa opportunità si rivela un gran passo in avanti, una commessa che ci aiuta ad aumentare i nostri volumi, abbassando i nostri costi», aggiunge Sorrenti.

Sulla doppia identità della Birra Messina Cristalli di Sale da sempre i birrai sono stati chiari. La Birra Messina resta una produzione dell’Heineken, mentre lo stabilimento siciliano produce solo una parte quella con i cristalli di sale. Come del resto è scritto nell’etichetta. Lo stesso Sorrenti ha spiegato che per riconoscere la birra prodotta in Sicilia è stato aggiunto anche un codice: la M indica come zona di produzione Massafra, la E invece indica lo stabilimento di Messina.

Ma le birre che identificano la produzione del birrificio siciliano sono altre due: la Birra dello Stretto e la Birra Doc 15. Quindici come i soci fondatori del Birrificio.

Di padre in figlio

La commessa di Heineken, al di là delle polemiche, resta comunque un punto di svolta nella storia del birrificio. Subito dopo, nella cooperativa entrano cinque giovani, la quarta generazione di mastri birrai. Nel 2020 la compagine lavorativa praticamente raddoppia. E oggi presso il Birrificio lavorano 11 nuovi giovani lavoratori, tutti figli dei soci fondatori.

Come Alessandra Cagliari, che in azienda gestisce principalmente la dogana, entrata nel birrificio seguendo le orme del padre. «Sento che nel Birrificio Messina c’è l’eredità materiale e morale di mio padre. È questa la motivazione che mi ha spinto a entrare in azienda. Ammiro mio padre e i suoi compagni per ciò che hanno raggiunto con coraggio, sacrificio e forza: non si sono mai arresi e hanno faticato molto per arrivare al punto in cui ci troviamo adesso», racconta Alessandra.

«Gli anni incerti che hanno caratterizzato la storia precedente alla nascita del Birrificio coincisero con i miei cinque anni di scuola superiore. Non conoscevo i dettagli della storia ma sapevo che papà aveva perso il lavoro e capivo che la mia famiglia stava attraversando un momento difficile. Sono sempre stata abituata al fatto che il mio papà lavorasse, quindi la sua presenza in casa era insolita e in più il suo volto era spento anche se cercava di non mostrarlo. Non oso immaginare quanto sia stato strano e complicato per lui ritrovarsi in casa: modificare le sue abitudini dopo aver lavorato sin da quando era molto giovane, celare le preoccupazioni agli occhi delle sue figlie cercando di non farci mancare nulla. Poi è arrivata l’idea del Birrificio e ho rivisto nel suo volto la speranza di un futuro, di poter garantire alla nostra famiglia una stabilità economica ma anche la paura dell’ignoto: i 15 stavano investendo tutto in un progetto senza la certezza che l’esito sarebbe stato positivo».

Anche Dominique Fiorentino è tra i nuovi entrati, arrivata «nel momento in cui c’era bisogno di un aiuto in più perché i volumi andavano via via aumentando». Lei, racconta, sente di «appartenere al mondo brassicolo non solo per tradizione territoriale ma anche familiare: prima di mia madre anche mio nonno e il mio bisnonno lavoravano nello storico birrificio della nostra città». Oggi si occupa di spedizioni ed è responsabile della logistica e delle vendite. «Lavoro qui già da alcuni anni, accanto a mia madre Francesca Sframeli, vicepresidente del Birrificio Messina».

Dominique di quei giorni di anni fa ricorda «i dubbi e le perplessità», ma le è rimasto ben impresso il ruolo di supporto che i legami familiari hanno avuto. «Dopo tante esitazioni, abbiamo voluto sognare insieme ai nostri genitori e abbiamo voluto credere che non sempre dalle sfortune della vita si deve uscire distrutti, che bisogna sfruttare i fallimenti e renderli un trampolino di lancio per qualcosa di più grande. Ovviamente non è stato un totale salto nel vuoto, i soci erano onestamente consapevoli delle loro capacità e sapevano che se qualcuno avesse creduto nel loro progetto e li avesse sostanzialmente aiutati, sarebbero riusciti nella loro impresa. E così è stato. È stato un crescendo di emozioni, a partire dal giorno in cui gli sono state consegnate le chiavi dei capannoni e hanno spalancato le porte di quello che sarebbe diventato il birrificio. Sembrava un sogno perché si guardava tutto con gli occhi del cuore, ma in effetti gli ambienti erano in uno stato rovinoso e bisognava rimettere tutto a nuovo, riadattando allo stesso tempo i locali per la nuova funzione che avrebbero ricoperto. Anche in quel momento i soci hanno messo del proprio e si sono riscoperti manovali e tuttofare. Mia madre e l’altra socia della cooperativa hanno lavorato come back office, riallacciando i rapporti con i fornitori che conoscevano quando lavoravano come dipendenti».

Working buyout

Quella del Birrificio Messina è una esperienza positiva di working buyout, una vera e propria politica attiva del lavoro che vede i lavoratori recuperare le imprese in crisi, attraverso la formula cooperativa, salvandole dal fallimento o dalla chiusura. Uno strumento strategico che contribuisce alla salvaguardia dei livelli occupazionali e contrasta i rischi di dispersione delle competenze, conferendo all’azienda un’aurea di impresa sociale come bene comune a servizio dell’economia e della società.

Nel caso dell’esperienze dei mastri birrai di Messina, si tratta di un buyout in cui i protagonisti non sono solo i lavoratori ma anche la comunità locale: per la rinascita del Birrificio Messina, è stata centrale la partecipazione della comunità, grazie alla Fondazione di Comunità Messina, che ha svolto un ruolo importante per catalizzare risorse provenienti dalla cittadinanza e da altri enti finanziari e filantropici. «Ci ha supportato per stilare un piano finanziario, strumento indispensabile per richiedere finanziamenti alle banche, mettendo a disposizione personale qualificato a svolgere questo tipo di lavoro», spiega Sorrenti.

Un percorso non semplice, in un settore fortemente in espansione ma governato da grandi operatori economici multinazionali. E il percorso continua con le nuove generazioni. «Ci stiamo innanzitutto forgiando», dice Dominique, «e allo stesso tempo formando, attraverso corsi di formazione specifici. La volontà di continuare quanto con enorme fatica e impegno è stato creato dai nostri genitori non fa di noi dei ragazzi che hanno avuto la strada spianata, ma da figli di operai conosciamo bene i sacrifici e ce la mettiamo tutta per dare il meglio di noi».

Birre, le migliori bionde da comprare al supermercato secondo Altroconsumo. MARCO VASSALLO su Il Corriere della Sera il 28 Marzo 2022.

L’associazione di consumatori ha effettuato un test su 28 bottiglie (Pilsner e Lager) della Gdo, stilando una classifica in base alla completezza dell’etichetta, analisi di laboratorio e prova dell’assaggio. Ecco i risultati

Il test sulle bionde di Altroconsumo

Il nostro è certamente un Paese di wine lover, inutile nasconderlo. Ma agli italiani non dispiacciono neanche luppolo e malto. E ogni anno si toccano cifre record a livelli di consumi, produzione ed export di birra. Poi è arrivato il covid e insieme le difficoltà in tutta la filiera: secondo Assobirra, sono stati «solo» poco meno di 19 i milioni di ettolitri bevuti nel 2020 al di qua delle Alpi. Dati, che nel primo anno del virus hanno mostrato un calo fisiologico dei consumi dell’11%, senza intaccare un amore che ha resistito alla crisi. Secondo una ricerca dell’Istituto Piepoli, la birra era infatti diventata, durante il primo lockdown, addirittura la bevanda più consumata dal 71% degli italiani (più di vino rosso e caffè per intenderci). Chiara, rossa, scura, Weiss, Ipa, Porter, al supermercato ne troviamo davvero tante. Ma come facciamo a scegliere davanti agli scaffali? Se siamo indecisi, possiamo affidarci anche all’ultimo report di Altroconsumo. L’associazione dei consumatori ha infatti analizzato 28 prodotti della Gdo, stilando una classifica finale. L’indagine si è svolta in questo modo: controllo dell’etichetta per verificare l’esaustività delle informazioni riportate, poi analisi di laboratorio su acidità, quantità di malto/altri cereali, colore etc.; e infine la prova dell’assaggio a cura di 15 esperti. A ogni birra è stata data una valutazione in centesimi che tiene conto di questi parametri. Ecco le bottiglie analizzate nel test.

Menabrea Original: la migliore del test

Secondo Altroconsumo la birra migliore fra quelle testate è la Menabrea Original. La bottiglia prodotta dallo storico birrificio biellese ha totalizzato 77/100. Un punteggio di ben 7 unità sopra i 70 (fissata dai giudici come soglia di «ottima qualità»). L’Original è una classica birra a bassa gradazione (4,8%) dal gusto pieno, raffinato e molto versatile. Si può bere da sola o abbinare infatti a numerosi piatti. Prezzo? Mediamente 0,84 centesimi a bottiglia (33 cl).

Peroni Birra

Al secondo posto ci sono la Peroni e la 4 luppoli di Poretti (entrambe a quota 74 ). Partiamo dalla prima. La Lager prodotta fin dal 1846 dal birrificio di Francesco Peroni non ha bisogno di presentazioni. Con il suo giallo paglierino è la fida compagna di tante tavolate italiane, dal nord al sud. Che sia accanto a una pizza o con un panino alla mortadella, chi non ha mai assaggiato una Peroni? Il prezzo medio indicato da Altroconsumo è di 65 centesimi a bottiglia.

Poretti 4 luppoli

A quota 74 punti c’è anche la Poretti. Il birrificio di Induno Olona si distingue per etichette numerate con i luppoli. La 4 è una birra dall'aspetto limpido e il corpo leggero, con una gradazione alcolica di 5,0%. Viene realizzata con un luppolo «dominante» coltivato in Italia ma di origine americana. Si chiama Cascade ed è lui a determinarne il sapore caratteristico. Costa mediamente 71 centesimi.

Dreher Birra Lager originale

Alla Dreher, che ha totalizzato 73 punti, va invece la medaglia di bronzo. Il birrificio deriva da un’antica famiglia boema che iniziò a produrre birra a fine ‘700. Ora viene realizzata in Italia sotto il controllo del gruppo Heineken. La bottiglia, con una gradazione alcolica di 4,7%, ha i riflessi dorati, una schiuma fine, compatta e aderente. Gli aromi sono delicati e riconducibili al cereale, con un gusto moderatamente luppolato con leggere note di miele. Prezzo medio: 0,72 euro.

Ichnusa Anima sarda

A quota 71 c’è Anima sarda di Ichnusa. Da sempre prodotto rappresentativo del birrificio sardo, questa birra si distingue per l’impronta del granturco. Ingrediente che le dona una certa rotondità. Dal colore dorato scarico, è poco amara e dissetante. Il prezzo, invece, è di 0,83 euro di media a bottiglia.

Paulaner Munich Lager

Ci sono altre 4 birre che Altroconsumo definisce di «qualità ottima», cioè che hanno ottenuto un punteggio non inferiore a 70/100. La prima è la Munchner Hell di Paulaner (72), Pilsner baverese molto beverina e rappresentativa dello storico birrificio tedesco. A Monaco si usa berla all'ombra degli ippocastani nei Biergärten, mentre il luppolo che la caratterizza e e la rende popolare nel mondo è l’Hallertauer Tradition. In bottiglia si trova intorno a 1,18 euro.

Pedavena Birra di Tradizione italiana

La birra Tradizione Italiana di Pedavena (70) viene da un birrificio nato nel 1897 nel cuore delle Dolomiti bellunesi. Ancora oggi è prodotta con l’acqua oligominerale delle sorgenti dei monti Oliveto e Porcilla. Ha una gradazione alcolica media (5% gradi) e una leggera nota luppolata. La schiuma è molto persistente e il colore è di un bel dorato. Il prezzo medio corrisponde a 0,99 euro.

Tennent’s Lager

Con gli stessi punti della dolomitica c’è la Lager di Tennent’s (70). Forse meno famosa della cugina strong Tennent’s super, questa lager scozzese presenta un buon equilibrio tra luppolo amaro e fruttato. Costa mediamente 1,40 euro.

Perlenenbacher Pilsener di Lidl: «il miglior acquisto»

Quando dobbiamo spendere, un buon rapporto qualità prezzo diventa un fattore fondamentale per la nostra scelta. Ecco perché Altroconsumo assegna un bollino speciale alla birra che meglio lo interpreta. Il riconoscimento di «miglior acquisto» va alla Perlenenbacher Pilsener: il brand distribuito dalla Lidl ha un prezzo medio di 50 centesimi a bottiglia e ha ottenuto un punteggio di 69/100, sinonimo, per l’associazione, di «buona qualità».

Le altre della classifica

Ecco le altre birre inserite nella classifica di Altroconsumo:

Coop birra italiana;

Corona extra.

Birra: proprietà e benefici per i senior. Rosa Scognamiglio il 4 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La birra è una bevanda ricca di nutrienti e qualità utili all'organismo e, in quantità moderate, aiuta la salute delle persone senior.

La birra è una delle bevande più consumate al mondo dopo il tè e il caffè. Ottima per rinfrescare il palato durante un pasto particolarmente ricco e gustoso, è dotata di notevoli proprietà benefiche. Non a caso viene definita "pane liquido" proprio perché, al di là dei luoghi comuni, è una fonte preziosa di nutrienti.

Amatissima dai giovani, la birra è perfetta anche per i senior. Le sue componenti sono un vero e proprio toccasana per la salute di ossa, reni e cuore. Inoltre, favorisce la digestione e migliora la circolazione del sangue, riducendo l'insorgenza di patologie cardiache. Va da sé che, trattandosi di una bevanda alcolica, si consiglia un consumo moderato – non più di un bicchiere una tantum per gli adulti sani - e mai prima di mettersi alla guida di un veicolo.

Componenti della birra 

La birra è una bevanda di origini antichissime. Nota fin dai tempi della Mesopotamia, ha trovato larga diffusione durante il Medioevo e nelle epoche successive. Furono soprattutto i monaci trappisti, e in più in generale le comunità monastiche, a incrementarne la produzione e incentivarne il consumo. 

Quanto alla composizione, la birra è costituita da circa l'80% di acqua mentre l'alcol è presente in concentrazioni oscillanti tra il 3% e il 9%. Gli altri tre ingredienti fondamentali sono: il luppolo, i cereali maltati e il lievito. Esistono poi delle varianti che prevedono l'utilizzo del riso, frumento o mais in alternativa ai cereali.

L'estratto secco della birra (il mosto di malto) è ricco di zuccheri, vitamine del gruppo B (B6 e B9 in particolare) e sali minerali (il silicio in percentuale maggiore). Il luppolo, che conferisce il retrogusto amaro alla bevanda, è costituito perlopiù da flavonoidi (di gruppo diverso rispetto a quelli del vino), oli essenziali e fitoestrogeni (sostanze di derivazione vegetale che svolgono una funzione ormonale).

I benefici per i senior 

Le proprietà nutrizionali e salutistiche della birra per i senior sono confortate da numerosi studi scientifici. Ricerche condotte in epoche recenti hanno dimostrato che i nutrienti contenuti in questa bevanda riducono significativamente il rischio di patologie cardiovascolari, renali e ossee. Per questo motivo, può rientrare a buon diritto in un regime alimentare sano ed equilibrato.

Nello specifico, la birra è utile per:

agevolare la digestione;

rinforzare le ossa riducendo il rischio di osteoporosi;

prevenire la formazione di calcoli renali;

ridurre il rischio di patologie cardiovascolari;

mantenere sotto controllo i livelli di colesterolo;

migliorare la circolazione del sangue;

favorire la diuresi;

proteggere i denti dall'insorgenza di patologie paradontali.

La birra è dotata anche di proprietà sedative e antinfiammatorie. Alcuni studi hanno accertato che gli acidi delle resine contenute nel luppolo sono in grado di inibire efficacemente lo sviluppo di infiammazioni locali.

Da ultimo, sembrerebbe che alcuni derivati dello xantumolo (una molecola polifenolica appartenente alla famiglia dei flavonoidi) riescano a ridurre la cosiddetta "angiogenesi tumorale", ovvero, la formazione di nuovi vasi sanguigni mediante cui un tumore riesce a riprodursi per metastasi. In buona sostanza, queste microparticelle priverebbero la massa tumorale di ossigeno e nutrienti necessari alla sua sopravvivenza.

Spumante, alleato della salute dei senior

Quantità consigliate 

Circa le quantità e le modalità di consumo vale la pena ricordare che, seppur ricca di nutrienti e ipocalorica (un bicchiere apporta circa 43 calorie), la birra è una bevanda alcolica. Dunque, così come per il vino, vale la regola della moderazione.

Per "quantità moderata" si intendono 2/3 unità alcoliche per gli uomini in perfetta salute e 1/2 per le donne sane. Ma superata la soglia degli "anta" sarebbe meglio regolarsi al ribasso, sempre e comunque. Insomma, un bicchiere una tantum è la misura ideale.

In alternativa alla birra classica, ad esempio, si potrebbe optare per una analcolica. Il mercato propone un'ampia varietà di gusto, aroma e percentuale alcolica. Ma se proprio volete concedervi uno strappo alla regola puntate su quelle naturali e, perché no, magari a chilometro zero.

L'ultima buona notizia riguarda gli intolleranti al glutine. In commercio ci sono birre realizzate con riso e mais al posto dei cereali maltati. Vedrete, non vi farà rimpiangere quella tradizionale.

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

·        Il Caffè.

Franco Berrino per corriere.it il 9 dicembre 2022.

Ma il caffè fa male al cuore? A giudicare dalla tachicardia di cui soffriamo quando beviamo troppi caffè si direbbe di sì, ma in realtà no, anzi ni. La tachicardia da caffè è dovuta al fatto che la caffeina aumenta la produzione degli ormoni surrenalici, quelli dello stress. 

Lo stress serve a difendere l’uomo dai pericoli del mondo esterno: quando c’è un pericolo, il cuore batte più in fretta per far arrivare nutrimento ai muscoli nel caso in cui ci sia da scappare o da lottare e il cervello è stimolato a essere sveglio e attento. Con il caffè questi effetti si manifestano anche se non c’è alcun pericolo. 

Una grande ricerca epidemiologica appena pubblicata assicura, però, che bere caffè non causa aritmie cardiache pericolose, cosa che invece era fortemente sospettata. Si sospettava in particolare che aumentasse il rischio di fibrillazione atriale. Ogni tazza di caffè in più al giorno, invece, pare ridurre il rischio di aritmie, compresa la fibrillazione atriale, del 3 per cento (con intervallo di confidenza al 95 per cento fra 2 e 4 per cento; E. Kim et al. 2021 JAMA Int Med. 18: 1185).

Una meta-analisi recente, inoltre, mostra che chi beve caffè si ammala meno di ictus cerebrale, in particolare di ictus trombotico, una complicazione frequente della fibrillazione atriale (L. Chan et al. 2021 BMC Neurol. 21:380). 

Una meta-analisi di dieci studi prospettici riscontra inoltre una riduzione del rischio di ipertensione, un’altra causa importante di ictus cerebrale: 2 per cento in meno per ogni tazza in più (C. Xie et al. 2018 J Hum Hypertens. 32:83). 

Il progetto EPIC, che segue 500.000 persone in dieci Paesi europei, aveva già mostrato chiaramente che chi beve caffè muore meno: si riducono soprattutto le morti per malattie dell’apparato digerente e per le malattie cardiovascolari (3 per cento in meno per ogni tazza di caffè in più, ma non sembra che consumarne più di tre tazze protegga ulteriormente (MJ Gunter et al. 2012 Ann Intern Med. 167:236). 

Una meta-analisi di quaranta studi con complessivamente oltre 400.000 decessi suggerisce che la quantità ideale sia di 3 tazze al giorno, che ridurrebbero la mortalità totale del 15 per cento (Y. Kim et al. 2019 Eur J Epidemiol. 34:731). Nonostante il caffè faccia alzare acutamente la glicemia, apparentemente non danneggia i diabetici: una meta-analisi di dieci studi prospettici su complessivamente oltre 80.000 diabetici ha mostrato che chi ne beve di più, circa quattro tazze al giorno, rispetto a chi non ne beve, riduce la mortalità del 21 per cento, e la mortalità cardiovascolare del 40 per cento (Shahinfar H, et al.2021 Nutr Metab Cardiovasc Dis. 31:25).

Anche chi ha avuto un infarto può bere caffè: complessivamente, anzi, gli studi suggeriscono che migliori la prognosi (E M Ribeiro et al. 2020 Nutr Metab Cardiovasc Dis 30:2146).

 In Italia però le cose vanno diversamente: la componente italiana del progetto EPIC mostra che all’aumentare del consumo di caffè aumenta il rischio di infarto o comunque di danni alle coronarie che richiedono interventi di rivascolarizzazione (stent, bypass): il rischio aumenta del 18 per cento per una o due tazzine al giorno, del 37 per cento per 2-4 tazzine, del 52 per cento per cinque tazzine o più (S. Grioni 2015 Am J Clin Nutr. 102:14).

Perché queste differenze? Si ipotizza che sia per il diverso modo di fare il caffè: filtrato su carta da filtro in Nord Europa, espresso o moka in Italia, bevande molto diluite in Europa e molto concentrate in Italia. In generale il caffè fa aumentare il colesterolo e i trigliceridi, ma chi beve caffè filtrato ha più bassi livelli di colesterolo LDL nel sangue rispetto a chi beve espresso, anche se non tutti gli studi sono coerenti. 

La carta da filtro trattiene una sostanza del caffè — il cafestol — che ha effetti tossici, in particolare alterando i grassi nel sangue. Meglio quindi filtrare, ma come fare a conciliare il filtro con la tradizione italiana? Poiché i giovani d’oggi non sanno più cos’è la «napoletana» e i vecchi se ne sono dimenticati, consiglio a tutti di rivedere il monologo di Eduardo De Filippo sulla preparazione del caffè, quando metteva un «coppitello di carta sul becco» per non disperdere il fumo denso del primo caffè che percolava: «La nuova generazione ha perduto queste abitudini che, secondo me, sotto un certo punto di vista sono la poesia della vita, perché, oltre a farvi occupare il tempo, vi danno pure una certa serenità di spirito». Ebbene, oltre al coppitello si tratta di ritagliare un tondino di carta da filtro e applicarlo sulla parte interna della capsula bucherellata della napoletana, in modo che il caffè percoli attraverso il filtro.

Non c’è prova scientifica che riduca l’infarto, ma certamente aumenta la poesia della vita, perché il caffè, come insegna Eduardo, è da gustare lentamente, non da ingollare rapidamente. Godiamocelo, questo caffè, non prendiamolo solo per essere più produttivi.

25 millìlitri. Caffè espresso, l’eterno best seller della colazione italiana. Elisa Marocchino su L'Inkiesta il 27 Ottobre 2022

Dolce o salata, una buona colazione ha bisogno dei suoi tempi. E per il futuro, seguendo il percorso fatto da birra artigianale e gelato, gli addetti ai lavori concordano sulla necessità di farla diventare più cool

Alla domanda «Che cosa identifica la colazione italiana?» la risposta che raccoglie i consensi di tutti è: l’espresso. Ne sono convinti i professionisti del settore, riuniti al Teatro Franco Parenti di Milano, dopo una ricca colazione (ça va sans dire).

Sono tutti altrettanto convinti che la colazione resti prevalentemente dolce, anche se Nicola Robecchi di Wilden Herbals ricorda che «Prima della Seconda Guerra Mondiale era salata, poi l’industria alimentare ha trasformato le nostre abitudini». Negli ultimi anni il salato è tornato. A Cagliari, racconta Piero Ditrizio, «Funziona bene, a volte finisce ancora prima dell’orario di pranzo». Nella sua pasticceria propone varianti locali come la pizzetta sfogliata, ma anche toast e quiche. E i clienti sono disposti ad aspettare (a volte più di trenta minuti) per sedersi a uno dei cinque tavolini e assaggiare una delle sue specialità, non solo nel fine settimana. Anche Alberto Barbiero della pasticceria Babu dolce e salato (appunto) a Vicenza ha ampliato la sua offerta con le referenze salate, sia a colazione che nel brunch del weekend.

Il cornetto al burro però non può mai mancare. E qui si apre il tema del prezzo. Non tutti i consumatori sono disposti a pagare fino a tre volte tanto rispetto ai prodotti delle grandi catene della ristorazione. Il food cost è sicuramente critico – burro e farine di qualità costano – ma secondo il milanese Alain Locatelli «L’assaggio fa dimenticare il prezzo». Lo conferma Barbiero: «I clienti non si sono nemmeno accorti quando ho aumentato i prezzi».

Concedersi una buona colazione non è però solo una questione economica, ma anche di tempo. La pasticciera Diletta Maria Grasso precisa che si tratta di un fenomeno tipicamente italiano: «A Londra il bancone proprio non esiste, il lavoratore si sveglia prima per potersi sedere con tranquillità anche a colazione». Da noi invece ci si concede più tempo nel fine settimana, magari per un brunch.

Daniele Bonzi, capo pasticciere al Four Seasons di Milano, racconta che dopo la pandemia la clientela business dell’hotel ha sempre fretta, ma ora dedica più tempo al primo pasto della giornata. Le nuove modalità di lavoro come lo smart working hanno contribuito a modificare le nostre abitudini. Giuseppe Adelardi di Idea Food and beverage porta l’esperienza fiorentina di Fluid specialty coffee and sharing, dove hanno osservato maggiori consumi nella fascia centrale della mattinata, non solo da parte dei turisti.

Insomma, dei passi avanti nel dare dignità alla prima colazione sono stati fatti, ma la strada è ancora lunga.

Sempre Bonzi fa un interessante paragone con il mondo del gelato: «Fino a quindici anni fa si apriva un locale con poche migliaia di euro e i gelati si preparavano usando polverine». La colazione deve fare lo stesso percorso che ha portato alle gelaterie artigianali, «Deve diventare cool, com’è capitato alla birra artigianale oltre che al gelato».

Per Gianni Tratzi di Mezzatazza in Italia la figura del barista, che negli anni ’60 rivestiva un ruolo sociale, oggi è sottovalutata: «I più bravi in Australia sono delle star come gli chef». E gli stipendi si muovono di conseguenza. Il tema cruciale conclude Locatelli è che «Non facciamo sistema, come in Francia», che significa valorizzare la professione e fare cultura.

Un invito agli addetti ai lavori viene da Laura Onofrio, pasticciera di O|nest Milano: «Siamo noi professionisti del settore ad avere un ruolo fondamentale nel fare cultura quando ci muoviamo come clienti».

Da Cuba con amore. Buono, pulito e giusto, il caffè diventa sostenibile. Gastronomika su L'Inkiesta il 6 ottobre 2022.

Una rete globale creata da Slow Food e Gruppo Lavazza mette l’etica al centro del rapporto con i produttori di caffè nel mondo. A Terra Madre Salone del Gusto sono state presentate le prime sei miscele pilota 

Il 22 aprile 2021 veniva presentata la Slow Food Coffee Coalition (Sfcc) il cui obiettivo era quello unire i tanti attori della filiera del caffè, dai coltivatori ai consumatori, passando per torrefattori e distributori. Durante l’edizione appena conclusa di Terra Madre Salone del Gusto i suoi fondatori – Slow Food e Gruppo Lavazza – hanno tracciato il bilancio di questo primo periodo e anticipato al pubblico i prossimi obiettivi. Alla conferenza hanno preso parte Edward Mukiibi, presidente di Slow Food e Giuseppe Lavazza, vicepresidente del Gruppo Lavazza.

«Questa coalizione, ispirata ai valori della cooperazione, è una risposta concreta alla crisi che stiamo vivendo per la quale è necessaria la rigenerazione, tema portante di Terra Madre Salone del Gusto 2022», ha commentato Mukiibi. «È un esempio concreto di transizione ecologica, e come tale richiede il coinvolgimento consapevole di tutta la filiera, da chi cura le piante di caffè a chi assapora il caffè in tazza. Per far questo, è essenziale prepararsi ad affrontare le sfide del futuro con strumenti come le reti, le coalizioni e la collaborazione tra comunità», ha continuato. «Con la Slow Food Coffee Coalition ci impegniamo affinché da un lato venga riconosciuto il lavoro dei coltivatori e dall’altro i consumatori possano fare scelte più consapevoli».

«Come Gruppo Lavazza abbiamo deciso di fondare con Slow Food la Coffee Coalition per ampliare al massimo la rete collaborativa della filiera del caffè intorno agli obiettivi di sviluppo sostenibile: nel suo concetto fondante, infatti, c’è un’assunzione di responsabilità e una condivisione dei diritti e dei doveri. E la responsabilità è uno dei Valori chiave del Gruppo Lavazza, al centro del nostro Manifesto della Sostenibilità» ha affermato Giuseppe Lavazza.

Il progetto pilota di Sfcc: la coltivazione del caffè a Cuba

L’obiettivo principale della Sfcc è quello di aumentare la crescita economica e sociale e migliorare l’impatto ambientale e socioculturale delle famiglie dei produttori e delle produttrici di caffè nelle loro comunità.

Sono stati coinvolti 170 produttori cubani che hanno aderito al progetto, tra questi la la comunità Slow Food BioCuba Cafè Frente Oriental che ha beneficiato di un programma di sviluppo sostenibile tuttora  in corso tra la Fondazione Giuseppe e Pericle Lavazza e il Ministero dell’Agricoltura di Cuba volto a sostenere e valorizzare la coltivazione del caffè biologico cubano attraverso azioni per incrementarne produttività, redditività, resilienza all’impatto dei cambiamenti climatici, oltre a promuoverne la biodiversità.

Da questa comunità di coltivatori di caffè, che lavorano nella parte orientale del Paese, nelle province di Santiago e Granma, proviene la miscela di caffè biologico cubano, La Reserva de ¡Tierra! Cuba, nuovo prodotto Lavazza certificato bio-organico, con un packaging 100% riciclabile, presentato in anteprima a Terra Madre che sarà disponibile sul mercato internazionale da gennaio 2023.

Terra Madre Salone del Gusto è stata l’occasione per presentare anche gli altri cinque caffè pilota della Sfcc provenienti dalle Comunità Slow Food che hanno scelto di avviare il percorso Participatory Guarantee System – Pgs (Cuba, Honduras, India, Messico e Perù) ed espressione di undici diverse torrefazioni (dieci italiane e una danese). Oltre alla citata La Reserva de ¡Tierra! Cuba di Lavazza sono state presentate Rio Colorado, Dona Elda, La Chacra d’Dago Armonia, Wild Robusta, Café Cooperativo Familia Oltehua Vásquez.

Lavazza anche in questa edizione ha rinnovato la partnership con Terra Madre Salone del Gusto, rinsaldando un sodalizio basato su un profondo legame valoriale con origine fin dalla prima edizione del 1996, quando l’azienda non solo scelse di sponsorizzare la manifestazione, ma ne sposò la filosofia e l’accurata attenzione alla qualità del prodotto.

Il mondo in una tazzina - Mariella Baroli su Panorama il 02/10/22.

Un italiano su sette lo considera uno dei piaceri della vita e nove italiani su dieci dicono di consumarne almeno una tazzina ogni giorno. Parliamo del caffè, quello «stimolante liquido convenzionale» che il mondo celebra ogni primo ottobre.

Un italiano su sette lo considera uno dei piaceri della vita e nove italiani su dieci dicono di consumarne almeno una tazzina ogni giorno. Parliamo del caffè, quello «stimolante liquido convenzionale» che il mondo celebra ogni primo ottobre. Ed è proprio allo studio di questa celebre bevanda che si dedica l’Università del Caffè, polo d’eccellenza fondato a Trieste nel 1999 dal brand illycaffè per diffondere la cultura del caffè di qualità attraverso la formazione, la ricerca e l’innovazione. Con sedi in tutto il mondo, questo istituto internazionale di conoscenza offre attività formative e di divulgazione a professionisti e appassionati. Panorama.it ha incontrato il suo direttore, Moreno Faina.

Moreno Faina Cosa si “nasconde” dentro una tazzina di caffè? Un mondo e un paradosso. In ogni tazzina c’è un percorso di 15/16 mesi che inizia a 10.000 chilometri di distanza da noi. Parliamo di una filiera molto lunga, che tendenzialmente la gente non conosce. Inizia tutto dalla fioritura. Dopo nove mesi, una vera e propria gestazione, il fiore si trasforma in una ciliegia. Ognuno di questi frutti contiene solo due dei 50 chicchi che andranno a comporre la nostra tazzina. Dal momento della trasformazione in ciliegia, il produttore ha dalle due alle tre settimane per estrarre i chicchi, stabilizzarli e raccoglierli in sacchi. E non è ancora finita. I chicchi vanno poi sottoposti ad analisi chimiche, modificati e tostati. E alla fine, il barista ha solo 30 secondi per esaltare questo incredibile lavoro o distruggerlo. Capite quanto può pesare questo compito? Anche a casa le cose non cambiano: in pochi minuti si può esaltare o rovinare quello che è successo in tutta la filiera del caffè.

Oggi si celebra la «Giornata mondiale del caffè», qual è il segreto del successo di questa bevanda? In quanto italiani, ma lo stesso discorso vale per numerosi paesi al mondo, siamo culturalmente molto legati al caffè. Il caffè è un vero e proprio rito che viene tramandato da generazioni. È qualcosa di connaturato al nostro essere e poi non dimentichiamo che il caffè ha un effetto stimolante, che lo rende capace di darci quello sprint in più necessario per affrontare una lunga giornata. Come mi piace dire: un espresso è nero ma schiarisce le idee. L’Università del Caffè è un polo d’eccellenza su scala internazionale. Qual è la vostra storia? Il progetto dell’università nasce più di 20 anni fa quando parlare di «studio del caffè» era davvero pionieristico. Inizialmente il nostro istituto parlava ai professionisti con l’obiettivo di aumentare e diffondere la cultura del caffè. Tra gli anni Novanta e Duemila è nato un progetto didattico parallelo in Brasile, questa volta pensato per i produttori. Attraverso le nostre 26 filiali possiamo dire di aver formato quasi 320.000 persone. Oltre alla formazione, fate da anni opera di divulgazione. Qual è l’obiettivo che volete raggiungere? La nostra opera di divulgazione cha un respiro molto ampio. Il nostro obiettivo è duplice: aumentare la cultura e la curiosità attorno alla bevanda. Quello che vogliamo è aiutare chi si avvicina alla nostra università a capire la qualità. Per fare un esempio concreto, il nostro lavoro è molto simile a quello che viene fatto con il vino o con l’olio. L’Università del Caffè offre così diversi corsi in presenza e online pensati per scoprire il mondo che si cela dietro una tazzina. Esistono corsi dedicati a un’esplorazione olfattiva della bevanda, o allo studio dei suoi colori, ma anche momenti dedicati all’utilizzo del caffè come ingrediente di cucina o allo studio delle diverse tecniche di preparazione. Qual è uno degli aspetti che più colpisce gli appassionati che seguono i vostri corsi? Sicuramente la complessità e la durata della filiera del caffè. Il consumatore tende poi a stupirsi della consapevolezza della degustazione. Quando si iniziano a conoscere gli aromi, e ne esistono circa 1000, si inizia a consumare il caffè in maniera più consapevole. Scoprendone le sfumature, le persone diventano più attente e capiscono che bisogna prendersi del tempo anche quando si beve una tazzina al bar o in ufficio, per dare modo ai nostri sensi di reagire. Qual è uno degli errori da correggere quando si beve un caffè? L’acqua andrebbe bevuta prima, mai dopo. La cifra di un buon caffè è quel gusto che resta nella nostra bocca per circa 15 minuti dopo aver bevuto la nostra tazzina. Vi state fortemente impegnando in un percorso di sostenibilità. Quali sono i progetti che state portando avanti? Stiamo conducendo una serie di attività nei paesi produttori e all’interno della nostra azienda, partendo dalla sostenibilità sociale. Combattiamo il lavoro minorile finanziando scuole per avvicinarci ai produttori di caffè e sostenerli nel loro quotidiano. C’è poi il capitolo dedicato alla sostenibilità ambientale, fondamentale per noi in quanto BCorp. Il nostro obiettivo è creare un’economia circolare. Ridurre e riutilizzare. E per farlo è importante capire tutte le variabili della filiera, specialmente nelle trasformazioni.

Sfatiamo un mito. L’espresso è davvero il “vero” caffè, come sostengono gli italiani? (Ride). L’espresso caratterizza da sempre il nostro paese ed è vero che la sua preparazione è una delle più complesse e delicate. Credo però che diversi tipi di caffè si adattino a diversi momenti della giornata e a diversi bisogni. Ad esempio, io non riesco a iniziare la mia giornata senza bere un espresso, ma durante la giornata mi piace bere altri tipi di caffè. Il cold brew, l’estratto a freddo, rappresenta un’alternativa interessante da provare almeno una volta. Ogni metodologia offre un composto aromatico nuovo, e credo sia importante ampliare i propri orizzonti. Dopotutto è quello che cerchiamo di fare ogni giorno alla nostra università.

Come bere il caffè correttamente? 5 regole per godersi tutto il buono dell’espresso. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 2 Settembre 2022.

Non è solo una tazzina: il caffè per noi italiani è un rito e in quanto tale va vissuto, seguendo alcune prescrizioni che possono renderlo ancora più speciale

Il caffè, un rituale tutto italiano

Non è semplicemente una bevanda: il caffè è un rito che unisce l'Italia intera. Ogni giorno ogni italiano ne beve almeno uno, per un totale di 9,3 milioni di caffè l’anno, che sono un caleidoscopio di sapori e aromi da miscele sempre più raffinate, per questo capaci di rendere ancora più speciali le nostre pause.

Il caffè è anche questo: un break, un momento per fermarsi e pensare ad altro. Per questa (e molte altre ragioni) ci è mancato poco perché diventasse (anche) Patrimonio Immateriale dell'Umanità dell'Unesco: non ci è riuscito, ma per ora la candidatura de «Il caffè espresso italiano tra cultura, rito, socialità e letteratura nelle comunità emblematiche da Venezia a Napoli» è stata solo momentaneamente accantonata perché sono in tanti a credere fermamente che l’intero mondo che ruota intorno al caffè vada tutelato.

Un mondo, appunto, che include anche le regole per gustare il caffè al meglio. La prima (di una lunga lista) riguarda i baristi perché sta a loro, nel porci la tazzina perfetta, seguire il principio aureo delle «tre c» servendocela cioè «calda, comoda e carica». A noi, consumatori, invece, il compito di maneggiarla (e non solo) come merita, seguendo regole del bon ton che poi sono essenziali per vivere l'esperienza del caffè in tutta la sua pienezza, anche dal punto di vista organolettico.

Il caffè va sempre mescolato (ma nel verso giusto)

Che ci si metta o meno lo zucchero, il caffè va sempre mescolato muovendo il cucchiaino esclusivamente dall'alto verso il basso perché è solo così che aromi e sapori si distribuiscano alla perfezione. Siete tra quelli che lo fanno decantare come fosse un calice di vino? Sbagliato! Non solo dal punto di vista organolettico non serve a niente, ma vi priva di un piacere: in questo modo, infatti, la cremina si attacca alle pareti della tazzina.

Tazzina, piattino e cucchiaino vanno usati in un certo modo

Il bon ton (e la buona educazione) insegnano che ogni volta che si beve dovremmo dimenticarci del mignolo: non va mai tenuto all'insù, né quando si beve il vino né quando si beve il caffè. La tazzina va impugnata dal manico, con pollice e indice, e per il massimo dell'eleganza sarebbe bene tenere il piattino nell'altra mano. Il cucchiaino? Andrebbe messo nel piattino, sulla destra.

Il caffè non va mai bevuto in un solo sorso

Il caffè è un rito e in quanto tale va goduto. Cosa vuol dire? Anzitutto va gustato bevendo lentamente e non mandandolo giù tutto d'un sorso come spesso facciamo presi dalla fretta. Inoltre, se bevuto in compagnia, una delle regole non scritte del galateo del caffè, è sfruttarlo come momento piacevole scegliendo conversazioni opportune.

Sul caffè non bisogna mai soffiare

La prima regola di un buon espresso è che sia caldo perché solo così sprigiona al massimo tutto il suo aroma. A Napoli, per questo, lo servono molto spesso in tazza calda. Ma, nonostante sia bollente, proprio per non intaccarne le caratteristiche organolettiche, è buona norma non soffiare mai sul caffè per farlo raffreddare: piuttosto, meglio aspettare qualche secondo.

L’acqua va sempre bevuta prima

Potreste far rimanere molto male il barista se beveste il bicchiere d'acqua che vi serve con il caffè dopo aver bevuto la tazzina che vi ha preparato. Potrebbe indicare che vi ha lasciato l'amaro in bocca, perché non era buono come vi aspettavate. Anche per questo l'acqua andrebbe bevuta prima del caffè: dal punto di vista più strettamente organolettico ha la funzione di pulire la bocca proprio per gustare la tazzina.

Come servire il caffè in casa

Siete voi a servire il caffè ai vostri ospiti? Fateli accomodare in salotto (e mai intorno al tavolo), portate il caffè con tazzina, piattino e cucchiaino in un vassoio, e limitatevi a versare la bevanda: sono loro a doverla zuccherare e, eventualmente, ad aggiungere del latte che proporrete con una lattiera.

Ecco la guida completa per capire come trovare la macchina del caffè più adatta alle nostre esigenze e una serie di alternative per tutti i gusti. Vittorio Pipia su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2022.

Il caffè è un piacere, e se non è un piacere che piacere è? Recitava così una nota pubblicità di inizio millennio e a ragion veduta: un buon caffè, fatto con una buona macchina, è sicuramente un momento di piacere e condivisione condiviso da milioni di italiani. Oggi, 6 giugno, in cui Google ricorda proprio l’inventore della macchina del caffè, l’italiano Angelo Moriondo, ne vogliamo parlare ancora di più. La scelta della macchina del caffè potrebbe essere più difficile del previsto e non tutte garantiscono lo stesso risultato. Il mercato offre soluzioni di ogni tipo: cialde, capsule, automatiche, tipo bar, con o senza vaporizzatore per fare degli ottimi cappuccini. Ognuna ha i suoi pro e i suoi contro e soprattutto i costi possono variare molto a seconda del modello scelto, così come il tipo di manutenzione. Vediamo dunque quali sono i parametri da tenere in considerazione prima della scelta e come scegliere la macchina del caffè più adatta alle proprie esigenze.

Macchina caffè con capsule, quali sono?

Le macchine del caffè con capsule sono ormai molto diffuse e di solito si caratterizzano per delle dimensioni compatte e per dei costi piuttosto accessibili. Sono tre le tipologie di capsule più diffuse:

Nespresso – capsule di piccole dimensioni. Il costo per singola capsula può variare da un minimo di 39 centesimi fino a un massimo di 60 centesimi per le edizioni speciali o i sapori più particolari. Il pregio principale è la grandissima varietà di capsule originali, ma anche di capsule compatibili provenienti da produttori di terze parti.

Nespresso Vertuo – Le nuove capsule Vertuo permettono ancora più flessibilità e un gusto più intenso. Cambia la forma, che adesso assomiglia a una semisfera e sono disponibili in tre diverse grandezze per consentire la giusta dosatura a seconda della lunghezza scelta. La dimensione viene automaticamente riconosciuta dalla macchina, che adegua così pressione e quantità per poter offrire il miglior aroma possibile.

A Modo Mio – le capsule a modo mio hanno una forma più appiattita e larga e sono compatibili con tutte le macchine del caffè a Modo Mio. In questo caso la fascia di prezzo è ben più ampia e varia da 21 centesimi a 42 centesimi per capsula. Ci sono molti produttori di terze parti che forniscono capsule compatibili con prezzi molto simili o talvolta più bassi.

Dolce Gusto – si tratta delle capsule con la più ampia varietà di sapori e prezzi disponibili. Il costo varia molto a seconda della fornitura e del sapore scelto ma risulta comunque molto simile rispetto alle altre due alternative. Disponibili anche cialde per tisane, zuppe, tè o bevande di qualsiasi tipo, come latte macchiato e cappuccino.

Quali sono i pro e i contro?

Ognuna delle tipologie di capsule sopracitata è compatibile con le apposite macchine del caffè. In questo caso risulta di cruciale importanza decidere quanto spendere. I costi possono variare da circa 40-50 euro fino a superare i 200 euro per le macchine più complete, dotate di cappuccinatore, serbatoi di acqua più capienti e tante altre funzioni.

La criticità più grande è senza ombra di dubbio il prezzo di acquisto delle capsule originali. Se si consumano molti caffè durante il giorno, potrebbe risultare alla lunga sconveniente affidarsi a una di queste soluzioni, seppur la qualità offerta sia in media molto elevata. Attenzione poi agli intervalli di pulizia e manutenzione delle macchine del caffè. Nonostante il funzionamento a cialde, è comunque doveroso effettuare la decalcificazione a intervalli di tempo regolari e la normale pulizia almeno ogni volta che si riempie il serbatoio delle cialde usate.

Macchina caffè con cialde

Le macchine del caffè con cialde ESE sono una buona via di mezzo tra quelle a cialde e quelle automatiche dotate di macinatore. Funzionano spesso sia con il caffè macinato, sia con le apposite cialde E.S.E. da 44 millimetri. In questo caso i costi si alzano leggermente rispetto alle macchine di accesso dotate di capsule. Si parte da circa 90 euro per quelle più semplici, con erogatore manuale e dotate di vaporizzatore. Mentre per quelle dotate di maggiori funzioni, come il termostato e la realizzazione in materiali più pregiati, si possono superare facilmente i 200 euro. I vantaggi sono la semplicità di reperibilità delle cialde ma soprattutto i minori costi di gestione. Le cialde ESE partono da circa 10 centesimi a cialda e solo le più pregiate arrivano a raggiungere i costi delle capsule. Sono anche più facili da smaltire e risultano più ecologiche: infatti sono realizzate in carta e quindi possono essere gettate nell’umido.

Macchina caffè automatica

Le macchine automatiche sono sicuramente le più complesse e le più costose dal punto di vista dell’acquisto iniziale. Tra i principali produttori possiamo citare Saeco, Krups, Philips e tante altre ancora. Le macchine del caffè automatiche hanno due principali criticità:

Ingombri – sono molto grandi e quindi occupano parecchio spazio. Questo perché al loro interno hanno la parte elettronica per la gestione, il macinatore, il serbatoio dell’acqua, quello per i grani del caffè, l’erogatore e un serbatoio di raccolta. È dunque bene valutare il posizionamento prima dell’acquisto.

Manutenzione – macinare il caffè dona senz’altro un sapore di tutt’altro livello rispetto al caffè già macinato, o a quello delle capsule. Consente infatti di sprigionare al meglio la tostatura e le note dolci e amare del chicco appena macinato. Tuttavia i chicchi di caffè lasciano parecchi residui oleosi ma anche polvere di caffè. Proprio per questo le macchine automatiche richiedono tanta manutenzione. Circa una volta a settimana è necessario pulire l’interno mentre una volta al mese è consigliato effettuare una pulizia completa. Da non dimenticare la decalcificazione, più o meno ogni 500 tazzine.

Perché prendere una macchina del caffè automatica?

Le macchine automatiche, nonostante il costo di acquisto più elevato, presentano anche diversi vantaggi. Prima di tutto permettono all’utente di scegliere la miscela di caffè da usare. Questo significa potersi recare in torrefazione e selezionare i chicchi a seconda dei propri gusti. Il caffè poi avrà sempre un sapore ottimo come quello del bar. Bisogna poi considerare che l’elevato costo di acquisto verrà ammortizzato nel tempo in quanto il costo per un chilogrammo di caffè in grani è nettamente inferiore rispetto al corrispettivo in cialde.

Ci sono poi diverse funzioni utili. È possibile creare bevande come latte schiumato, caffè macchiato o cappuccino grazie agli accessori inclusi, ma anche regolare la lunghezza per ciascuna di esse. Insomma, spazio non solo al gusto ma anche alla personalizzazione in modo da ottenere esattamente ciò che si vuole in ogni momento. Alcune macchine possono anche essere programmate per l’accensione e lo spegnimento in modo da risultare pronte quando lo si desidera.

Migliori macchine economiche a capsule e cialde: De’Longhi Nespresso 

Piccola, economica e facile da usare, la De’ Longhi Nespresso è tra le macchine del caffè a capsule più apprezzate sul mercato. Disponibile in vari colori si adatta a qualsiasi ambiente ed è dotata di due pulsanti che consentono di erogare un caffè lungo, o corto. La lunghezza del caffè può inoltre essere regolata tramite funzione Memo. Il serbatoio dell’acqua ha una capacità di circa 700 millilitri mentre l’erogatore fornisce una pressione fino a 19 bar. Si scalda in soli 25 secondi e fornisce un ottimo caffè.

La macchina del caffè Lavazza A Modo Mio Tiny 

Lavazza A Modo Mio Tiny è l’alternativa più economica per quanto riguarda le macchine del caffè compatibili con cialde A Modo Mio. Ha un serbatoio per l’acqua di 0,75 litri e una potenza di 1750 Watt. Misura solo 29 x 12 x 24,6 centimetri ed è quindi poco ingombrante e facile da installare. Le componenti possono essere lavate in lavastoviglie, fornisce una pressione di 15 bar e un cavo di alimentazione lungo 80 centimetri.

De’Longhi Nespresso Vertuo Next 

La macchina del caffè De’Longhi Nespresso Vertuo Next adotta un design minimal e molto elegante, che ben si sposa con le nuove cialde. La parte inferiore è più snella e regolabile in altezza, in modo da consentire il posizionamento di diverse tazze, da quella dell’espresso a quella per il latte macchiato. Compatibile con il nuovo sistema Centrifusion, permette un’erogazione precisa che si adatta alla cialda scelta e alle preferenze dell’utente. E’ infatti possibile scegliere tra espresso (40ml), doppio espresso (80ml), gran lungo (150ml), tazza (230ml) e alto (414ml). Il serbatoio per l’acqua ha capacità da un litro, si spegne automaticamente ed è pronta in soli 30 secondi dal momento dell’accensione.

Krups Nescafè Dolce Gusto Mini 

Una macchina del caffè iconica che nella colorazione grigia e nera ricorda nelle forme un simpatico pinguino. Misura 16 x 31 x 24 centimetri e arriva con un serbatoio removibile da 0,8 litri. Integra un sistema di spegnimento automatico che spegne la macchina dopo 5 minuti di inutilizzo. Compatibile con tutte le cialde del sistema dolce gusto, può erogare sia a caldo che a freddo, per la preparazione di praticamente ogni sorta di bevanda. La pressione garantita è di 15 bar.

Migliori macchine del caffè automatiche: la Philips Serie 2200

Philips ha una lunga tradizione con le macchine del caffè e la Serie 2200 rappresenta il punto di accesso alle macchine automatiche. Non per questo però rinuncia a caratteristiche piuttosto avanzate. Il grande display touchscreen nella parte frontale consente di scegliere tra 12 macinature, 3 intensità di aroma e 3 livelli di lunghezza personalizzabili. La capienza del serbatoio è di 1,8 litri e l’avanzato sistema di filtraggio consente un’erogazione di 5000 tazzine di caffè senza decalcificazione. Una macchina dotata anche di cappuccinatore, per creare bevande personalizzate ottime come quelle del bar.

Macchina caffè automatica De’ Longhi Magnifica 

La De’ Longhi Magnifica è tra le migliori macchine del caffè automatiche. Può essere utilizzata sia con la polvere che con i chicchi di caffè e consente dunque agli utenti di scegliere in autonomia la propria miscela. Offre poi la regolazione della macinatura fino a 13 livelli. Nella parte anteriore c’è un pratico pannello LED con tasti soft touch che consentono di personalizzare intensità e lunghezza delle bevande e consente anche la preparazione simultanea di due tazze. Integra infine il cappuccinatore.

Macchina del caffè automatica Philips Saeco Picobaristo 

Philips Saeco Picobaristo si posiziona nella fascia più alta del mercato e offre tantissime funzioni. Le macine in ceramica garantiscono una macinatura uniforme dei chicchi del caffè oltre a una grande durata nel tempo. Con il filtro AquaClean l’acqua viene filtrata in modo da migliorare ulteriormente il caffè. Dalle impostazioni si possono regolare vari parametri come la lunghezza del caffè, l’intensità dell’aroma, la temperatura e tanto altro. Si possono poi creare varie bevande come latte macchiato o cappuccino con un singolo tocco, grazie alla presenza del serbatoio per il latte.

Da ansa.it il 19 maggio 2022.

Multa da mille euro per la caffetteria Ditta Artigianale di Firenze, per non aver esposto al bancone il prezzo di una tazzina di caffè. 

Il fatto è avvenuto in seguito alla contestazione di un cliente che, indispettito per il costo ritenuto alto, pari a due euro, di un decaffeinato, ha deciso di chiamare la polizia municipale visto che il prezzo non era esposto. 

«Credo che con tutto quello che oggi si somministra nei bar questa legge ha tanto dell'assurdo e andrebbe cambiata, altrimenti il 99,9% di bar e ristoranti sarebbero facilmente in errore», ha scritto su Facebook Francesco Sanapo, titolare di Ditta Artigianale e noto anche per essere stato più volte campione italiano di caffetteria, rivelando l'accaduto e sottolineando che il decaffeinato in questione era un caffè «di una piantagione messicana, preparato con molta professionalità dai miei baristi».

Sanapo non discute la multa, («Sono pronto a pagare per i miei errori», ha scritto ancora), ma chiede «che nessuno più si scandalizzi se paga un espresso due euro: è una missione e la porterò avanti a testa alta». 

L'appello di Sanapo per la valorizzazione della qualità del prodotto è stato raccolto da Confartigianato Firenze: «Non considerare la qualità di un prodotto dove c'è un grande lavoro dietro - ha affermato in una nota il presidente Alessandro Vittorio Sorani - è qualcosa che mi amareggia profondamente. La qualità si paga ed è a vantaggio di tutti». 

Per Serena Nobili di Dini Caffè «siamo nel 2022 ma ancora in Italia non si può parlare di qualità quando si parla di caffè, in questo settore la qualità non viene percepita: è gravissimo». 

Se il caffè non è caffè: dalla cicoria al malto, quando in tazzina finisce il surrogato. Giulia Mancini su La Repubblica il 20 Maggio 2022.

Furono le due guerre mondiali a diffondere nel nostro Paese i succedanei della più famosa tazzina d'espresso. Oggi vivono una seconda giovinezza, complici anche una maggiore attenzione al pianeta e alla salute fisica.

Vita difficile al suo esordio, un po’ come il pomodoro e le patate. Il nuovo, il diverso e quello che viene da lontano è spesso malvisto, all’epoca come oggi, anche se quando poi se ne apprezza il bello e il buono diventa un indispensabile. Fu il caso del caffè. Quando l’ambasciatore Costantino Garzoni ne scriveva per la prima volta era il 1573, riferendo ai senatori della Serenissima degli Ottomani soliti sorbire una bevanda scura e calda. Avevano scoperto i semi nello Yemen apprezzando lì la purezza dell’infusione pura, senza le spezie usate dagli arabi, e ne facevano il turk kahvesi, caffè turco. Tanti erano i legami e i traffici fra Venezia e l’Oriente: lì le hahvehane, caffetterie, erano apprezzate dai commercianti tanto che decisero di importare anche il caffè. Pochi anni dopo, senza alcun legame, il medico e botanico Prospero Alpino seguendo il console Giorgio Emo approdò in Egitto, dove per tre anni raccolse dati per le sue osservazioni scientifiche. Nelle sue opere 'De medicina Aegyptiorum’ del 1591e nel ‘De plantis Aegipty’ del ’92 fu il primo europeo a descrivere la pianta del caffè, oltre al banano e al baobab, nelle vesti di medico per gli effetti della bevanda e di botanico per le specifiche della pianta. Nel corso di questi anni egiziani, osservando la coltivazione delle palme da datteri, intuì la differenza sessuale nelle piante che sarebbe divenuta poi con Linneo fondamento della classificazione scientifica. Fu sempre lui a suggerire la radice di cicoria, essiccata e tritata grossolanamente per farne un caffè. 

Insomma, il primo a parlare di caffè in termini botanici consigliava già un surrogato, come già proposto dal giardiniere reale Timme di Tubinga. La dizione comune lo chiama ‘caffè di cicoria’, riferendosi al metodo di infusione che coinvolge la moka o la caffettiera per ottenere l’infuso, ma è sbagliato. Non basta sia una bevanda calda, scura, amara e ottenuta dallo stesso strumento per arrogarsene il nome; secondo la direttiva 1999/4/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 22 febbraio 1999 relativa agli estratti di caffè e agli estratti di cicoria si riserva tale dicitura per “il prodotto concentrato, ottenuto mediante estrazione dai grani di caffè torrefatti, utilizzando l'acqua come unico agente di estrazione, ad esclusione di qualsiasi procedimento di idrolisi con aggiunta di acido o di base. Oltre alle sostanze insolubili, tecnicamente ineliminabili e gli olii non solubili provenienti dal caffè, esso deve contenere esclusivamente i principi solubili e aromatici del caffè". 

Se ottenuto dalla cicoria è sbagliato, quindi, chiamarlo caffè anche se per decenni, soprattutto in periodi di guerra e autarchia, ne ha preso il posto. Nei secoli passati le classi meno abbienti, non avendo accesso al pregiato caffè importato da terre lontane, trovavano nelle radici, nei legumi, nei cereali e in alcuni frutti essiccati valide alternative. Basti pensare a come con lo scoppio della prima guerra mondiale gli approvvigionamenti diventassero via via più difficili, fu poi nel 1936 con l’invasione dell’Etiopia che la Società delle Nazioni impose sanzioni all’Italia. Il fascismo iniziò così a parlare di autosufficienza, autarchia, anche per sopperire alle limitazioni nelle importazioni; quando poi la seconda guerra mondiale scoppiò e l’impero coloniale cadde, il caffè, come altri generi coloniali, divenne sempre più raro sul mercato, sempre più caro e fu sempre più necessario trovare un’alternativa a quello che ormai era diventato il rito del primo mattino.  

Succedaneo, sostanza che può sostituirsi a un'altra in ordine a certe funzioni seppure di qualità e quindi di costo inferiore, e surrogato, prodotto alimentare di qualità inferiore che si può usare in luogo, recita il dizionario. Ciofeca lo chiamava Totò, napoletano amante del caffè, parlando del cosiddetto caffè di cicoria, caffè di guerra ricordavano i nonni con gli occhi velati dal ricordo degli orrori e dal peso delle privazioni. Oggi le importazioni di questo genere alimentare non subiscono limitazioni di quel tipo, il commercio globale lo rende disponibile in larga misura nonostante il cambiamento climatico e i disastri naturali che ne mettono a repentaglio la coltivazione in alcune zone del mondo. Eppure, per ragioni di gusto o di esigenze salutari, i surrogati del caffè stanno vivendo una nuova vita, stavolta per scelta e non per necessità. Frutti o loro parti, radici e rape, semi o altre materie prime sono i principali succedanei del caffè. Erronei nel nome, da ora in poi usato solo per rendere l’idea e non per appropriatezza dei termini, una panoramica su tipologie e storia dei principali surrogati. 

Caffè d’orzo. Molto diffuso in Italia, già dagli anni ’70 ha visto un ritorno nelle cucine grazie alla mancanza di caffeina che lo rende adatto anche ai bambini; cereale fra i più adatti all’uso, si predilige la tipologia orzo mondo, e non il perlato più adatto da mangiare. Tostato e macinato si prepara nella moka, ma ne esistono anche versioni solubili, nelle attività commerciali orami infuso con cialde e capsule. 

Caffè di malto. Ottenuto da cereali maltati, sottoposti a germinazione, essiccazione e tostatura per rendere gli amidi dapprima solubili in acqua, poi caramellizzarli per conferire colore e aroma. Era il 1889 quando il parroco bavarese Sebastian Kneipp suggeriva di sostituire il caffè con quello di malto; sofferente nella salute in giovane età, si affido all’idroterapia dopo la lettura del manuale di Hahn e si riprese, tanto che ne divulgò i principi secondo il metodo che da allora porta il suo nome. Nello stesso anno venne messa in commercio la miscela ‘Pfarrer Kneipps Gesundheitskaffee’, caffè della salute del parroco Kneipp. 

Yannoh. Ancora di cerali ma in miscela, nasce da un’idea di George Ohsawa, scrittore giapponese e principale divulgatore di antiche teorie orientali nonché divulgatore della macrobiotica. Secondo i dettami di quest’ultima l’alimentazione si basa su cereali, legumi e verdure, ed è proprio da questi in miscela che si compone lo yannoh. Ceci, cicoria, fagioli azuki, riso e grano intergali.

Caffè di cicoria. Dopo Prospero Alpino si arriva al 1770  quando l’oste Christian Gottlieb Förster ottenne una licenza per produrre caffè di cicoria; quattro anni prima Federico II di Prussia aveva proibito le importazioni e il commercio privato di caffè, tanto che contrabbando e alternative fiorivano. In pochi anni l’industria divenne fiorente, al punto che nel 1890 nell’impero tedesco si contavano 123 fabbriche. Radici pulite dalla terra, nettate e schiacciate venivano essiccate nei forni prima di essere tostate, in modo che l’insulina caramellizzando assuma un gusto simile a quello voluto. Macinate da fredde, le radici sono pronte all’infusione. 

Caffè di lupini. Anche questo nasce come espediente quando il Dipartimento di Nutrizione austriaco emise nel 1918 un’ordinanza che voleva regolamentare i surrogati e menzionava i lupini come alternativa ai pregiati chicchi. Lupinus pilosus, lupino peloso o dalle foglie villose, legume che ha trovato ad Anterivo, in Sud Tirolo, luogo di elezione per la sua coltivazione è alla base di questo preparato. Deamarizzati i lupini, tostati e macinati danno vita al caffè che prende il nome della località di montagna ed è menzionato già nel 1887 in un documento vescovile. 

Caffè di noccioli di datteri. Tradizionale nelle oasi berbere, la bevanda si ottiene dopo aver prelevato dai datteri i noccioli e averli puliti dai filamenti che vi rimangono attaccati; lasciati al sole per essiccare, vengono poi tostati mescolando continuando per non bruciare. Ai primi segnali sonori che i semi emettono scaldandosi, vengono macinati in polvere cui poi si aggiunge acqua bollente. Filtrata si ottiene una bevanda energetica e digestiva, senza caffeina, che può essere aromatizzata con spezie.

Caffè di fichi. O tostato, in maniera più corretta, si ottiene dai fichi neri tostati essiccati e tostati prima di essere macinati e dà una bevanda popolare in America Latina, soprattutto in Argentina, Aromatico nel ricordo del frutto secco, privo di caffeina e digestivo può essere usato anche in miscela con il caffè per limitarne il consumo. 

Caffè ai funghi. Nasce tutto con il Ganoderma Lucidum, chiamato anche Rieshi noto nella medicina tradizionale cinese e giapponese per le sue virtù tanto da essere chiamato anche fungo dell’immortalità. Il mushroom coffe, ancora poco diffuso qui da noi, è in realtà un caffè addizionato con questo fungo, ma ne esistono alcune tipologie ottenute da miscele di funghi con il reishi unito a shiitake, chaga, Lion’s Mane, o fungo del prete, e Cordyceps, fungo della giovinezza dalle proprietà rinvigorente, macinati puri. Non deve stupire questa attitudine dei funghi a essere usati per ottenere bevande corroboranti simile al caffè, già durante la seconda guerra mondiale il chaga, fungo che ben si adatta a crescere a temperature rigide, veniva usato in Finlandia a tale scopo.

Gemma Gaetani per "la Verità" l'8 maggio 2022.  

È molto utile conoscere bene il caffè e quelli che chiameremo caffake, i finti caffè che a volte sono, semplicemente, una vera altra bevanda che però beviamo al posto del caffè. Il nome arabo del caffè, qahwah, in italiano vuol dire «bevanda stimolante». La quantità di caffeina, il principio attivo stimolante, dipende dalla specie: la Coffea arabica ne ha tra lo 0,8 e l'1,4%, la Coffea robusta tra 1,7 e 4%. 

Il caffè cresce bene nei luoghi caldo-umidi con temperature medie annue fra 15 e 25 gradi, con piogge abbondanti alternate a siccità, quindi Sud America, Africa, India e Sud-est asiatico. Però l'azienda L'orto di nonno Nino di Terrasini (Palermo), che produce da 10 anni frutti esotici come papaie, mango e banane in serra, nel 2018 ha ottenuto il primo caffè 100% italiano inserrando piante che in campo aperto abbozzavano fiori che non si aprivano a causa del clima invernale troppo freddo rispetto a quello tropicale. 

Il raccolto è piccolo, la coltura sperimentale, ma è una felice conquista. Il caffè serve a tirarci su, dando energia alternativa a quella del cibo oppure quella necessaria a digerire: lo beviamo al mattino con il resto della colazione e per molti «'na tazzulella 'e cafè», per dirla con l'omonima canzone di Pino Daniele, è l'intera colazione. E lo beviamo dopo pranzo, tanti anche dopo cena, per digerire. Anche la sua etimologia rende conto di questa proprietà tonica. 

La parola coffee arriva nella lingua inglese nel 1582 tramite il koffie olandese, a sua volta in prestito dal kahve della lingua turca ottomana, che da noi diventa caffè, derivante da qahwah. La parola araba qahwah deriva dal verbo qah che vuol dire «mancanza di fame». Con ciò si dava atto dell'effetto anoressizzante della bevanda. La parola qahwah per alcuni fa anche riferimento a quwwa, «potenza, energia». 

Per altri, caffè deriva dal nome della regione nella quale la pianta spontanea era più diffusa, la Caffa in Etiopia sudoccidentale. Ci sono vari tipi di caffè. Innanzitutto, i caffè a estrazione, anche detti a percolazione. Su questi svetta il caffè espresso, per noi così familiare che è anche detto «caffè normale». C'è al vetro, nel bicchierino vitreo anziché la tazzina di porcellana. C'è corto o ristretto, con tanto aroma e meno caffeina di una tazzina di caffè. 

Di converso c'è il caffè lungo, che fatto con la macchina espresso contiene più caffeina di quello normale e ancora più di quello ristretto. C'è il caffè americano, che noi concepiamo come un espresso allungato con acqua calda, ma il vero caffè americano si fa in altro modo (che spiegheremo più avanti). 

C'è il caffè corretto, con aggiunta di grappa, anice o altro superalcolico, addirittura Pat (prodotto agroalimentare tradizionale) come la moretta fanese, caffè di Fano corretto con fetta di limone e liquore all'anice, rum e brandy, o la versione livornese del punch, il ponce, originario del diciassettesimo secolo, che al posto del tè usa il caffè concentrato, e c'è il resentin, dal veneto resentare cioè sciacquare: il resentin è la diluizione con la grappa del residuo in tazzina una volta bevuto il caffè. 

C'è l'Irish coffee con whiskey, il Jamaican coffee col rum, c'è il caffè alla valdostana, la bella tradizione del caffè comunitario da bere nella grolla, aggiunto di grappa e genepì. C'è il caffè freddo, che nel Centro-Sud Italia si prepara freddando in frigo il normale caffè, nel Nord è un caffè shakerato con ghiaccio. C'è il caffè macchiato, un espresso con un po' di latte o panna, e lo schiumato, un macchiato con latte caldo e schiumoso.  

C'è il marocchino, in vetro, prima la schiuma del latte, poi il caffè, poi cacao; c'è il cappuccino, latte e caffè. Ci sono poi i caffè con estrazione non espresso, ma sempre estratti per percolazione, come il caffè americano anche detto caffè filtro, che no, non si fa allungando un espresso, ma con una macchina elettrica nella quale si posa un filtro in carta riempito di polvere macinata grossa su cui cola acqua calda.  

C'è il caffè che si prepara in casa con la moka e c'è il caffè casalingo napoletano preparato con la caffettiera napoletana. Infine, ci sono i caffè con estrazione non espresso e nemmeno percolati, ma infusi o decotti. C'è il caffè verde, il café de olla messicano, preparato tenendo in infusione i chicchi di caffè macinati grossi o addirittura interi nella terracotta apposita detta appunto olla; il caffè turco e il caffè liofilizzato, ottenuto dalla disidratazione dei chicchi di caffè torrefatti e macinati.  

La caratteristica principale di questi caffè e il motivo per cui li beviamo è la caffeina. Una tazzina di caffè espresso del bar contiene mediamente 25-35 millilitri di caffè, una di caffè preparato in casa con la moka circa 50 millilitri, una tazza di caffè americano circa 200-250 millilitri. 

A seconda della miscela, abbiamo 1-2 grammi di caffeina ogni 100 grammi di polvere di caffè e, in una tazzina di caffè troviamo, a seconda del metodo di preparazione (espresso, moka e americano) e del tipo di miscela da 50 a 120 milligrammi di caffeina. Tutti questi tipi di caffè, però, possono essere anche preparati con la polvere di caffè decaffeinato. 

Il caffè si decaffeina ad acqua o a CO2 supercritica (metodo più costoso), riducendo drasticamente il contenuto di caffeina, che diventa inferiore allo 0,1%. Una tazzina di decaffeinato ha un decimo di caffeina di una di caffè, circa 8 milligrammi per una tazzina da 60 millilitri. La caffeina estratta dal processo di decaffeinizzazione confluisce nella preparazione di prodotti salutistici e farmaceutici.  

Va ricordato che ci sono anche i caffè naturalmente decaffeinati, come la Coffea humboltiana del Madagascar e altri tipi provenienti dal Brasile e ottenuti per selezione biotecnologica. 

Dopo l'eventuale decaffeinizzazione, i chicchi di caffè vengono torrefatti: è una cottura a 200-240 gradi che dà al caffè le sue caratteristiche organolettiche e morfologiche tipiche, che differiscono dal caffè non torrefatto anche noto come caffè crudo. Innanzitutto il colore. Il crudo è verde, quello tostato marrone perché gli zuccheri cotti caramellano. 

Il caffè verde, poi, contiene meno caffeina e diversa da quella del tostato: la caffeina del caffè verde è acido clorogenico, combinazione dell'acido caffeico con l'acido (L)-chinico: la assorbiamo più lentamente e con un effetto più prolungato, senza i picchi alto-basso di minore durata della caffeina del caffè tostato. 

Nel caffè verde c'è maggiore quantità di sali minerali e vitamine e il ph è più neutro, intorno a 5 (più acido del latte ma meno acido dell'aceto e del succo di limone), rispetto al ph più acido del caffè tostato, intorno a 3-3,5. Il caffè verde, antiossidante, antinfiammatorio grazie all'acido caffeico, riducente dell'assorbimento dei grassi grazie alle metilxantine e utile anche a chi soffre di diabete perché agisce sulla mucosa intestinale inibendo l'assorbimento degli zuccheri, è già un'alternativa valida al caffè tostato.  

Una volta compiuta la tostatura, il caffè viene macinato e poi preparato con i vari metodi già visti. La caffeina del caffè verde è disponibile nella forma più «virtuosa» dell'acido: dopo la tostatura questo acido si separa aumentando la frazione di 1 3 7 trimetilxantina.  

La caffeina (presente anche nelle piante di cacao, tè, in particolar modo nero, cola, guaranà e mate, nelle bevande da esse ottenute e nelle bevande contemporanee come il caffè al ginseng o i drink energetici) è un alcaloide che interagisce sul sistema nervoso centrale con effetto psicotropo, perché migliora il livello di attenzione e di concentrazione.

 Essa potenzia anche la reattività muscolare, perciò è anche detta «doping dei poveri» (per sfruttarne a pieno l'effetto per scopo sportivo, il caffè va consumato 15 minuti prima della performance e magari riconsumato dopo 45 minuti dal suo inizio). La caffeina ha effetto anche a livello cardio-circolatorio: funziona come vasodilatatore e accelera il ritmo del cuore. 

Ed è anche diuretica, a causa dei suoi effetti leggermente irritativi sull'epitelio renale, infatti è contenuta anche nei drenanti e nei preparati contro la ritenzione idrica. Oltre che in alcuni farmaci antiemicranici (il vecchio rimedio del caffè con il limone contro il mal di testa si basa su un uguale sfruttamento della caffeina). Per uso topico, la metilxantina si trova in prodotti anticellulite e dimagranti: ha effetto termogeno, cioè stimola la mobilitazione dei grassi dal tessuto adiposo e la successiva ossidazione. 

Quando si tosta il caffè, si forma anche il caffeone, miscela di composti capaci di irritare la mucosa gastrica, soprattutto nei soggetti particolarmente sensibili. Se da una parte il caffè deve essere evitato o bevuto con molta moderazione da chi soffre di irritabilità gastrica, perché può procurare sgradevoli bruciori di stomaco, dall'altra chi non ha problemi può giovarsi delle proprietà eupeptiche, cioè che facilitano la digestione, di caffeina e caffeone: l'irritazione della mucosa gastrica favorisce infatti la secrezione di acidi e la digestione può essere in qualche modo favorita.  

Il caffè è controindicato, quindi, in chi soffre di Gerd (malattia da reflusso gastroesofageo), gastrite, ulcera, colon irritabile, diarrea, emorroidi, ipertensione, cardiopatologie, ipertiroidismo, glaucoma e anche da chi è incinta e da chi è giovane (mai il caffè ai bambini) oppure ansioso. 

Esso può anche interferire con terapie antipertensive e ansiolitiche, oltre che con l'assorbimento dell'alendronato, farmaco usato per l'osteoporosi, e del ferro dei relativi integratori. Dall'altra parte gli antibiotici chinoloni possono aumentare l'assorbimento della caffeina. Secondo la Food and drug administration e l'Autorità europea per la sicurezza alimentare, un individuo adulto e sano può ingerire fino a 4-5 tazzine di caffè al giorno per un totale di 300/400 milligrammi di caffeina (un espresso può contenere fino a 85/90 milligrammi di caffeina). 

Una bevanda molto affermata come sostituta del caffè è il caffè al ginseng. Si tratta di caffè con radice di Panax quinquefolius, il ginseng americano, entrambi liofilizzati e solitamente aggiunti di zucchero (ma rispetto al caffè tradizionale, ce ne vuole meno perché il ginseng è dolciastro di suo) e crema di latte. 

 Ne risulta un caffè con meno caffeina, ma comunque tonico grazie al ginseng. Ci sono poi le bevande che non contengono caffè, ma che chiamiamo «caffè di». Si possono bere in aggiunta al caffè normale, oppure al suo posto se ci è vietato il caffè.  

Il caffè d'orzo è il più diffuso: dà energia grazie al contenuto di amido, zucchero semplice che l'organismo assimila velocemente, vitamine e sali minerali, rallenta l'assorbimento dei carboidrati abbassando il tasso glicemico (tiene a bada anche il colesterolo), grazie alla presenza di fibre aiuta la regolarità intestinale ed è lenitivo ed emolliente per l'apparato digerente. 

 Anche Ippocrate, nella Grecia del 400 avanti Cristo, nelle lunghe giornate di studio con i suoi allievi, consumava decotto d'orzo per avere più energia e concentrazione. E i gladiatori nell'Impero romano mangiavano orzo e bevevano bevande derivate perché accelerava il recupero muscolare dopo le lotte.

Didattica a distanza. Il caffè è una cosa semplice. Gastronomika su L'Inkiesta il 26 Aprile 2022.

Un mini format di dirette Instagram a tema caffè, dalla pianta al prodotto finale, pensato per raccontare (e spiegare) questo incredibile ingrediente. Si chiama Tazzine e il primo appuntamento sarà venerdì 29 aprile. 

Non è la prima volta che ci ritroviamo a parlare di caffè sul nostro giornale e questo è dovuto in parte ad una crescita sempre maggiore del fenomeno specialty coffee nel mondo consumers ma sicuramente anche a una effettiva carenza nozionista da parte di chi questa bevanda la sceglie, la compra e la beve. Gianni Tratzi, dopo anni trascorsi in Marzocco e in altre importanti realtà del settore, è uno dei massimi esperti di grani, macinatura, tostatura, varietà di caffè che si possano interpellare in Italia. Uno dei pochi a conquistare il brevetto da Q Grader, un riconoscimento introdotto da Coffee Quality Insitute nel 2003 che funge da certificazione professionale per degustatori di caffè. Un percorso intensivo di sei giorni, con lezioni ed esami, articolato in 19 prove specifiche su diverse aree tematiche. «Mi sono reso conto che sul tema caffè c’è moltissima confusione. E il fatto che ora sempre più bar e ristoranti se ne stiano interessando con più coscienza di causa, introducendo la realtà dello specialty e monorigini selezionate, non ha fatto altro che aumentare falsi miti e informazioni imprecise. Ci sono tanti luoghi comuni che vanno sfatati e c’è urgenza di fare chiarezza. Perché in fondo – e ne ho fatto anche il claim di Mezzatazza, la mia società di consulenza – il caffè è una cosa semplice».

Tazzine, un nuovo progetto sul caffè in partenza venerdì 29 aprile, nasce dalla volontà di Gianni Tratzi e Chiara Buzzi – imprenditrice e giornalista nella vita reale e divulgatrice del settore food and beverage sui social – di iniziare a dare delle risposte alle tante domande comuni e frequenti su questa bevanda. «Come spesso avviene, ci siamo ritrovati in più occasioni a scambiarci opinioni e battute sul tema e, un po’ per trovare un pretesto per collaborare un po’ per fissare un punto di inizio, abbiamo creato Tazzine» ci racconta Chiara. «Anche io, che sono una consumatrice media di caffè e indubbiamente una persona che per lavoro e per passione non può ignorare questa nouvelle vague, mi rendo conto di aver avuto le idee spesso confuse e tanti interrogativi irrisolti». Perché dunque non provare ad analizzare il tema partendo dalle sue origini, da un punto di vista geografico e culturale, per arrivare a raccontare come il caffè viene trattato, consumato e percepito oggi? Un prodotto che troppo spesso viene descritto nella sua fase finale, quando è già arrivato nelle singole torrefazioni o nelle nostre case. Come ogni materia prima, ogni chicco di caffè ha una storia alle sue spalle che lo caratterizza e lo rende diverso dagli altri. La filiera del mondo caffè è forse una delle più lunghe e articolate e sono troppo pochi coloro che riflettono con consapevolezza su quali e quante lavorazioni ci sono prima di arrivare a quel liquido bollente versato nelle nostre tazzine.

Un progetto pilota per sondare l’interesse di una community – quella che sui social segue con costanza atmezzatazza atsulaclaire e atgiannitratzi – attraverso tre dirette Instagram aperte a tutti. Il quarto appuntamento a conclusione del format, sarà invece un workshop live ( a numero chiuso e a pagamento) dove i partecipanti avranno modo di toccare con mano il caffè. Nel senso letterale del termine: dal chicco al macinato, imparando ad usare gli strumenti corretti, lavorando a temperature controllate e arrivando quindi a farsi un caffè “come si deve”. Dal vivo, anche il momento degustazione sarà affrontato non solo su basi teoriche ma proprio nel tentativo di individuare le caratteristiche che tutti dovremmo ricercare in un buon caffè non solo in bocca ma anche visivamente.

Un progetto di comunicazione trasversale, che nasce digitale e che termina in presenza, per affrontare un tema davvero caro a tutti e allo stesso tempo nebuloso ancora per molti. Possiamo auspicare ad un consumo di caffè più etico – concedeteci il termine – per gli anni a venire? Forse è ancora presto per dare delle risposte ma sicuramente questo è un piccolo passo in avanti.

Carlo Ottaviano per “Il Messaggero” il 23 gennaio 2022.

Escludendo le piccole coltivazioni sperimentali di Morettino sulle Madonie in Sicilia, in Italia non produciamo un chicco di caffè. Eppure, il rito dell'espresso - da Nord a Sud - è un patrimonio socio culturale per il quale il governo italiano ha chiesto venerdì ufficialmente il riconoscimento di bene immateriale dell'Umanità e l'inserimento negli elenchi dell’Unesco. 

Il caffè italiano - il sistema dei bar e le numerose torrefazioni - ancora prima che culturale, è un patrimonio economico di tutto rispetto che muove un giro d'affari di circa 4 miliardi di euro, con 800 torrefazioni che occupano settemila dipendenti a cui vanno aggiunti i circa diecimila addetti nelle caffetterie.

Proprio queste ultime hanno sofferto maggiormente a causa delle chiusure per la pandemia. Nonostante circa 30 milioni di tazzine consumate al giorno, gli italiani non sono - con i 5,6 chili di consumo annuo pro capite - i maggiori consumatori europei di caffè.

Ne bevono di più olandesi, finlandesi, norvegesi e svedesi. Siamo invece più forti nell'esportazione di caffè torrefatto. Il Consorzio promozione caffè parla di export di quasi cinque milioni di sacchi prevalentemente nell'Europa comunitaria (oltre il 60%), soprattutto Francia, Germania e Austria.

Tra i Paesi extra Ue i mercati di destinazione principali sono Svizzera, Usa, Australia, Russia e Canada; mentre si registrano aumenti dell'export, in particolare, nell'Europa orientale, in Cina, Israele, Corea del Sud.

L'Italia è inoltre il maggior produttore mondiale di attrezzature per il settore. I 500 milioni di giro d'affari sono destinati probabilmente ad aumentare grazie allo sviluppo delle macchine per la distribuzione automatica, in considerazione del fatto che il caffè rappresenta l'86% delle bevande consumate.

L'espresso - prettamente solo italiano - sta comunque conquistando appassionati in tutto il mondo tanto da attrarre anche investimenti internazionali. Il closed definito venerdì dell'acquisto da parte del colosso tedesco Tchibo (3 miliardi di euro di fatturato) del Caffè Molinari di Modena (presenza commerciale in 60 Paesi) è solo l'ultimo di una lunga serie.

Le operazioni finanziarie hanno riguardato aziende italiane interessate ad espandere ulteriormente i loro mercati e multinazionali che guardano con favore la capillare rete di distribuzione dei brand italiani.

Ecco così l'accordo tra lo storico Caffè Vergnano di Torino (presenza in 90 Paesi e 160 caffetteria a marchio) e Coca Cola Hbc che ha acquisito il 30% del capitale e più recentemente la cessione di una quota di minoranza di Illy a Rhone Capital, fondo Usa di private equity. Operazione tutta italiana che guarda allo sviluppo all'estero è quella dell'Italmobiliare della famiglia Pesenti che ha rilevato il 60% dello storico marchio Caffè Borbone.

Purtroppo, le note positive terminano qui. Alla crisi causata dalla forzata chiusura dei bar durante la pandemia, da alcuni mesi si aggiunge l'inarrestabile aumento del costo della materia prima che prevalentemente viene acquistata in Brasile, Vietnam, Colombia, India, Uganda e Indonesia. 

All'origine dell'aumento che ha toccato punte dell'89% c'è il calo della produzione mondiale di caffè a causa del maltempo diffuso e in particolare delle gelate negli stati brasiliani di Minas Gerais, San Paolo e Paranà che hanno abbattuto i raccolti del 2021. 

I dati degli ultimi giorni dimostrano però anche la presenza di una forte leva speculativa. La Compagnia nazionale di approvvigionamento prevede per il 2022 una ripresa della produzione di Arabica (la varietà più richiesta) in aumento del 16,8% ma nessuno, però, accenna a diminuzione del costo della materia prima.

E, sicuramente, nessun gestore di bar tornerà indietro dopo aver portato il prezzo della tazzina a quota 1,50 euro. Intanto, a proposito della candidatura Unesco, il sottosegretario all'Agricoltura Gian Marco Centinaio ha confermato di «aver trasmessa l'istanza di candidatura alla Commissione nazionale italiana per l'Unesco e confidiamo che questa la approvi e la trasmetta entro il 31 marzo a Parigi».

Il caffè napoletano patrimonio dell’Unesco: la candidatura è ufficiale. Ignazio Riccio il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Questa bevanda, in città, è molto di più di una tradizione gastronomica, rappresenta una filosofia di vita e ha radici molto lontane.

Ne ha cantato le lodi anche il compianto cantautore napoletano Pino Daniele, nell’album d’esordio nel panorama musicale italiano “Terra mia”. La famosa “tazzulella di caffè” nella città partenopea è un rito irrinunciabile e, come già è successo per la pizza, sta per diventare patrimonio immateriale dell’umanità dell’Unesco. È oramai ufficiale, dopo il via libera del ministero delle Politiche agricole alimentari e forestali, la candidatura del caffè napoletano all’ambito riconoscimento. Migliaia le firme raccolte per sostenere la designazione al premio. La notizia è stata accolta con grande soddisfazione dai cittadini napoletani, che tengono in particolar modo alla loro quotidiana razione di caffè.

Al Gran Caffè Gambrinus, locale storico di Napoli, si è festeggiato. “Alla fine – ha dichiarato al Corriere del Mezzogiorno il titolare della caffetteria Massimiliano Rosati – il ministero, come aveva annunciato, ha presentato per l’Italia una candidatura unica per riunire le peculiarità del caffè espresso italiano e di quello napoletano fatto di aggregazione, cultura e socialità”. Questa bevanda, a Napoli, è molto di più di una tradizione gastronomica, rappresenta una filosofia di vita e ha radici molto lontane. Si tramanda, infatti, che il caffè sia giunto in città alla fine del 1700, introdotto da Maria Carolina D'Asburgo, la quale cancellò una diceria diffusa tra i napoletani, ossia che la bevanda, perché di colore nero, portasse sfortuna a chi la beveva.

Con l’arrivo a Napoli della regina, che sposò Ferdinando IV di Borbone, il caffè diventò un rituale, tramandato di generazione in generazione. Nella città partenopea questa bevanda assume un sapore esclusivo, inimitabile, anche se i motivi non sono ben chiari.

Alcuni dicono che dipende dall’acqua utilizzata nelle macchinette, altri che il segreto sta nella tostatura dei chicchi di caffè. Ma poco importa agli avventori, soprattutto stranieri, che giungono in città. Il loro desiderio è assaggiare “la tazzulella di caffè” nei tanti locali che operano in città, una delizia per i palati più fini che, a breve, avrà anche la certificazione dell’Unesco.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere

·        Il Cacao.

Quello che non sapete sul cacao (e l'ambiente). Alessandro Ferro il 28 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Le piantagioni di cacao creano un ecosistema favorevole all'uomo e alle foreste grazie alla presenza di uccelli e pipistrelli che evitano l'uso dei pesticidi: ecco la scoperta.

Oltre al benessere fisico con il miglioramento dell'umore e il gusto, unico, il cacao ha un ruolo fondamentale anche per l'ecocosistema e l'ambiente.

La scoperta

Infatti, oltre al cioccolato consumato e utilizzato in ogni angolo del pianeta, alcuni ricercatori dell'Università di Göttingen, in Germania, hanno scoperto numerosi vantaggi che spaziano a 360 gradi dalle piante coltivate agli animali, dalle foreste ai contadini. Infatti, il cacao che in Perù viene crescere all'ombra degli alberi, garantirebbe una protezione maggiore della foresta tropicale favorendo la presenza di uccelli e pipistrelli, fondamentali per l'ecosistema perché si cibano di insetti patogeni, spesso e volentieri dannosi per l'uomo. Come si legge su Repubblica, questa ricerca è stata condotta in 12 fattorie nell'angolo nord-occidentale del Perù dove è stata osservata una più alta ricchezza e abbondanza di popolazioni di uccelli.

L'importanza del cacao

Un'altra prova a favore dei ricercatori è stata l'aumento degli uccelli insettivori nella stagione secca rispetto a piovosa come a dimostrare come le coltivazioni fornissero un importante supporto alimentare in periodi di siccità. Insomma, tre indizi fanno una prova: gli alberi del cacao fanno la differenza in maniera diretta nella catena dell'ecosistema: più ce ne sono, meglio è. I pipistrelli ci proteggono, ad esempio, dai parassiti del cacao il cui habitat naturale è formato da fasce tropicali calde e umide con temperature comprese tra 18 e i 32 °C.

Non è un caso che piantagioni ed alberi crescano bene nella fascia equatoriale lungo tutta la fascia africana che comprende Stati come Nigeria, Cameroon, Costa d'Avorio, Ghana per arrivare in Indonesia, dove sono presenti in grandi quantità. Il cacao, poi, è refrattario alla luce del sole: è per questo motivo che viene "protetto" da alberi come banani, limoni, alberi da legno, con una chioma molto folta che impedisce ai raggi di penetrare se non in una quantità minima che non crea danno al cacao.

Gli effetti sul raccolto

La coltivazione si sta diffondendo sempre di più nelle zone d'ombra tropicali, dove ha avuto origine, con una stima di mille piante ogni ettaro e mezzo che riescono a produrre fino a 450 kg di fave all'anno. Ma i vantaggi non sono finiti: come si legge su Repubblica, uno studio internazionale ha dimostrato che nelle piantagioni di Sulawesi, in Indonesia, il pestidicida biologico emesso dalle piantagioni riesce a salvare fino al 31% del raccolto che si traduce in un guadagno netto di 520 dollari ogni ettaro. Ecco le varie sfaccetture che il cacao produce per l'ecosistemam fornendo un valido aiuto alla foresta vera e propria perché riesce a proteggere la fauna.

Saranno, però, necessari almeno cinque anni affinché, appena piantata, l'albero la pianta cominci a dare frutti. Da quel momento, per almeno 30 anni si potranno avere i gustosi frutti. I tempi così lunghi e dilatati nel tempo consentono di vedere questa attività da un altro punto di vista, ossia come un'alternativa ecologica (oltre che economica) in grado di ricreare la foresta e con un potenziale di sostituzione dell'allevamento di bestiame e della coltivazione di soia che, invece, hanno un effetto diametralmente opposto.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        L’Olio d’Oliva.

Da scattidigusto.it il 25 novembre 2022.

Regola confermata dalle prime posizioni della classifica, occupate dal migliore olio extravergine d’oliva che si può comprare nei supermercati. Tutti oli che gli assaggiatori di Altroconsumo definiscono di “qualità ottima”. 

·       1. Monini Bios 100% Italiano Biologico

·       Voto 78. Prezzo 8,34 € a bottiglia.

·       2. Clemente La Terra dell’Olio 100% Italiano

·       Voto 75. Prezzo: 9,32 € a bottiglia.

·       3. Carapelli Bio

·       Voto 73. Prezzo: 8,14 € a bottiglia.

·       3 a pari merito. Podere del Conte (in vendita da Eurospin)

·       Voto 73. Prezzo: 4,79 € a bottiglia.

·       5. Carapelli il frantoio

·       Voto 71. Prezzo: 5,41 € a bottiglia.

·       5 a pari merito. Desantis 100% italiano

·       Voto 71. Prezzo: 6,13 € a bottiglia. 

Nella classifica del migliore olio extravergine d’oliva c’è poi il prodotto consigliato per il rapporto qualità prezzo molto vantaggioso, vale a dire il Desantis Classico. Che è sempre di “qualità ottima”, raggiunge il punteggio di 71 ma costa “solo” 4,43 € a bottiglia. 

La classifica prosegue così: 

·       8. Conad verso Natura Bio

·       70 –  5,73 €.

·       8 a pari merito. De Cecco classico

·       70 – 5,70 €.

Da questa posizione in poi il livello di qualità passa da “ottima” a “buona”

·       10. Carapelli Oro verde

·       68 – 8,90 €.

·       11. Farchioni il casolare biologico

·       67 – 6,90 €

·       12. Monini classico

·       66 – 5,86 €.

·       13. Farchioni estratto a freddo

·       65 – 5,17 €.

·       14. De Cecco 100% italiano

·       64 – 8,46 €.

·       15. Zucchi bio estratto a freddo

·       62 – 7,37 €.

·       15 a pari merito. Coop origine 100% italiano

·       62 – 7,25 €.

·       17. Olio Carli fruttato

·       61 – 9,80 €.

·       18. Sagra classico

·       60 – 5,79 €.

Da questa posizione in poi la qualità passa da “buona” a “media”.

·       19. Filippo Berio 100% italiano

·       57 – 8,40 €.

Dopo il migliore, il peggiore olio extravergine di oliva secondo Altroconsumo

Di seguito trovate le 11 etichette uscite male dal test, cioè con il punteggio più basso. “Bassa” diventa anche la qualità. 

Questi oli sono stati assaggiati per una seconda volta dopo il test iniziale, come prevede la legge quando gli assaggiatori riscontrano difetti che impediscono di classificarli come extravergine.

Anche il secondo panel di assaggiatori, riconosciuti dal Consiglio oleicolo internazionale, ha bocciato gli 11 prodotti, non classificando il contenuto come “extra vergine” ma come “vergine”. Dopo il migliore olio extravergine di oliva disponibile tra gli scaffali dei supermercati, ecco dunque le marche che hanno fatto peggio. 

·       20. Costa d’oro il biologico non filtrato

·       34 – 6,07 €.

·       21. Pietro Coricelli 100% italiano

·       33 – 9,13 euro a confezione.

·       22. Bertolli Gentile olio

·       33 – 5,41 €.

·       23. Carrefour classico

·       33 – 4,77 €.

·       24. Cirio classico

·       33 – 5,44 €.

·       25. Pietro Coricelli racconti di famiglia

·       31 – 5,24 €.

·       26. Olio Viola – La Colombara

·       31 – 6,77 €.

·       27. Primadonna (Lidl) classico

·       30 – 3,79 €.

·       28. Sasso classico

·       30 – 6,54 €.

·       29. Dante terre antiche

·       29 – 6,31 €.

·       30. Costa d’oro l’extra

·       29 – 5,37 € 

Come viene fatto l'olio di oliva (Chef in Camicia). Chef in Camicia Federico Pizzileo su Panorama il 24 Novembre 2022.

L’Italia è senza dubbio una delle nazioni che può vantare l’alta qualità dell’olio di oliva prodotto dai frutti del proprio territorio. Questo ingrediente così ricercato e amato in tutto il mondo è talmente prezioso da essere stato definito "oro giallo" - anche perché particolarmente costoso, a causa del costo della materia prima e della lavorazione. Ma se siete qui è perché siete curiosi di scoprire come viene fatto l’olio di oliva, perciò ecco di seguito gli step dei processi di produzione, che sono ben sette: raccolta, stoccaggio, defogliazione e lavaggio, molitura e gramolatura, estrazione e imbottigliamento.

Raccolta e stoccaggio La prima fase è quella della raccolta delle olive, ed è molto importante che avvenga effettuata attraverso una serie di tecniche specifiche, che permettono di adoperare il frutto senza alterare il gusto e la qualità. Per questo motivo non è da considerare un processo semplice, tutt’altro; va affrontato con la consapevolezza tramandata. Ovviamente, una volta raccolte andranno stoccate secondo alcuni procedimenti; meglio se portate al frantoio entro 48 ore. Una volta raccolto, il frutto è molto fragile, quindi se stoccato in sacchi rischia di schiacciarsi e rovinarsi, se lasciato per terra potrebbe iniziare a macerare: in entrambi i casi la qualità dell’olio di oliva cambierebbe.

Defogliazione e lavaggio Una volta raccolte e stoccate, il processo prevede la lavorazione vera e propria, ma non bisogna dimenticarsi di due passaggi intermedi: la defogliazione e il lavaggio del frutto. La prima operazione è quindi quella di eliminare eventuali elementi che vadano in contrasto con le più elementari norme igienico-sanitarie, come parti di arbusto, fogliame e piccioli. In seconda battuta, con l’acqua potabile, l’oleificio di occupa di lavare il frutto per evitare la comparsa di cattivi odori.

Molitura e gramolatura Le successive fasi di lavorazione delle olive e di produzione dell’olio di oliva prevedono l’impiego della cosiddetta "molazza" , ossia di una macina in pietra che serve, meccanicamente, a schiacciare il frutto esercitando molta pressione e una rotazione continua e costante. In questo macchinario si trovano anche delle lame, che hanno la funzione di rimuovere la pasta d’olio. A questo sarà necessario rompere l’emulsione tra olio e acqua e infine estrarre l’olio di oliva puro attraverso metodi come: la pressione, la centrifugazione e il percolamento.

Imbottigliamento La parte finale della filiera prevede che l’olio di oliva estratto venga quindi imbottigliato in confezioni scure che possano evitare il contatto del liquido con il calore naturale del sole.

Morello Pecchioli per “la Verità” il 24 settembre 2022.

I seggi non sono ancora aperti, ma c'è già una vincitrice: l'oliva all'ascolana. La deliziosa oliva farcita di tenera carne macinata, impanata e fritta si conferma un goloso richiamo elettorale. Lo hanno capito bene quei candidati che, in campagna elettorale, hanno preso i cittadini votanti per la gola. Promesse e programmi vanno bene, dovrebbero essere la spina dorsale di chi aspira alla poltrona di Camera e Senato, ma un ricco buffet è una potente calamita per attirare le simpatie degli elettori. E l'oliva all'ascolana è la regina del buffet.

Non solo di quello elettorale, ma di qualsiasi altro rinfresco: dal ricevimento radical chic all'aperitivo letterario; dal self service di una inaugurazione alla goliardica festa di laurea; dal buffet di una vernice d'arte al bancone di un elegante bar che propone stuzzichini da accompagnare con spritz o bollicine all'ora dell'aperitivo. Chi proprio non può fare a meno di barbarismi ha il permesso di chiamarli finger food e happy hour.

Le olive all'ascolana sono come le ciliegie: una tira l'altra. Chi ne assaggia una apre la via a parecchie altre sue sorelle. Alzi la mano chi, davanti ad un vassoio di croccanti, dorate, saporite olive all'ascolana, non è caduto e ricaduto nella tentazione di allungare la mano sulle auree polpettine. Posso resistere a tutto, diceva Oscar Wilde, tranne che alle tentazioni. Lo stesso noi.  

Alzi la mano anche chi, alla presentazione di un libro o di una mostra, s' è messo in tasca la cultura per poter sgomitare meglio cercando un pertugio nel muro di schiene piantate davanti al buffet. L'importante è arrivare in tempo alle olive prima che la solita irriducibile signora di taglia forte non le arpioni una a una con aria indifferente lasciando vuoto il vassoio. 

Assodato che le olive ascolane piacciono a tutti, rendiamo loro giustizia anche se qualcuno ci resterà male: almeno il 90% delle olive all'ascolana che si gustano nei bar, nei ristoranti, sulle mense apparecchiate dai vari catering non hanno mai veduto Ascoli, né il Piceno. Sono olive fritte ripiene. Gustose fin che si vuole, ma solo e soltanto generiche olive fritte ripiene. Sono copie dell'originale. L'«oliva tenera ascolana» è tutta un'altra cosa. 

Prima di tutto, è un prodotto gastronomico che le ricerche degli studiosi della gastronomia picena fanno risalire alla cucina borghese dell'Ottocento. Altri tirano in ballo la cucina rinascimentale e papa Sisto V. Il pontefice ascolano (era nato a Grottammare) era sì ghiotto delle olive della sua terra, ma di quelle in salamoia. 

Secondo Benedetto Marini, giornalista e storico locale che sull'argomento fece approfondite ricerche, l'oliva all'ascolana ripiena e fritta nasce nell'Ottocento quando le famiglie ricche si trovarono nella necessità di consumare la sovrabbondanza di carne: conservarla tutta non era possibile e lo spreco era inammissibile. Fu così che i cuochi a servizio dei ricchi inventarono la carne come ripieno e l'oliva come sapido contenitore.

Dai cuochi alle madri di famiglia il passo fu breve. Ancora gli studiosi di gastronomia assicurano che la ricetta - la sapiente salamoia, la preziosa farcitura, l'impanatura di farina e uova e la frittura che riveste le olive di una croccante doratura - sia stata tramandata di madre picena in figlia picena dall'Ottocento. Con un segreto. Ogni famiglia aveva il suo. Ancora adesso, garantiscono nella città delle cento torri, ogni donna capace di preparare la specialità del territorio, nasconde quel segreto nella pancia dell'oliva. Sia le olive in salamoia sia quelle farcite e fritte vantano il riconoscimento europeo della Denominazione d'origine protetta, Dop (dal novembre 2005). Un Consorzio tutela l'oliva ascolana del Piceno, cultivar già conosciuta in epoca romana.

Grazie alla Dop nessuna azienda italiana o estera può produrre e vendere olive non picene definendole «ascolane». Rischia l'accusa di truffa alimentare e il sequestro del corpo del reato da parte del Nucleo repressione frodi e dal Corpo forestale che già in passato si è distinto nel debellare maxi truffe alimentari. Il disciplinare di produzione dell'oliva ascolana del Piceno, nel paragrafo relativo alle notizie storiche, dice che i latini conoscevano le olive provenienti dai territori originari di Ascoli e di Teramo come ulivae picenae.  

Catone sottolinea la loro bontà nel De Rustica e consiglia il modo migliore per conservarle: «Prima che diventino nere (Antequam nigrae fiant...) si pestino e si mettano a bagno nell'acqua. L'acqua va cambiata spesso. Poi, quando saranno macerate bastantemente (Deinde, ubi satis maceratae erunt), si scolino, si premano e si mettano in aceto, aggiungendo olio e sale. Si conservino in aceto, finocchio e lentisco. Quando se ne desidera si prendano con le mani pulite». Non è forse la ricetta della salamoia?

Publio Valerio Marziale testimonia quanto fossero apprezzate sui triclini dei patrizi romani. Lo ribadisce Gaio Petronio nel Satyricon: le olive picene in salamoia non mancavano mai sulla tavola di Trimalcione. Con le testimonianze di tali personaggi non c'è da andar fieri? No. Gli orgogliosi discendenti degli antichi Piceni puntualizzano che, ben prima delle conquiste di Roma, «Ascoli era Ascoli, Roma era pascoli». Finita la civiltà dei Cesari, aggredita dalle orde barbariche, anche quella della tavola declinò inesorabilmente. 

Non gradite dai rozzi gusti di Visigoti, Vandali, Unni, le ghiotte eredità di Lucullo e di Apicio, finirono disperse e anche l'oliva tenera ascolana rischiò di perdersi nei tempi bui dell'alto Medioevo. Furono i monaci benedettini a salvare la coltivazione varietale picena, così come furono salvati nei monasteri tanti capolavori del pensiero classico. L'olivo fu potato, curato e mantenuto rigoglioso dai religiosi contadini (ora et labora) e anche i segreti della concia in salamoia furono tramandati dai monaci cucinieri.  

L'aurea pallina impanata è protagonista del tradizionale fritto all'ascolana, un misto di verdurine e carne d'agnello. Un piatto da incorniciare. Oltre alle olive all'ascolana, quelle dop vengono usate nella cucina picena per preparare piatti gustosi come gli Ziti col sugo di magro all'ascolana (pomodoro, tonno e olive tenere) o come il Baccalà di Natalitte (piccolo Natale), preparato e cucinato col baccalà salato, carote, sedano, uvetta e olive.  

Il ristorante di Ascoli dove si fanno le olive all'ascolana più buone del mondo è, secondo Tripadvisor (ma non tutti i giudizi sono d'accordo), il locale di Marinella Filipponio, titolare e cuoca, che si chiama, guarda caso, «Migliori olive ascolane». 

Un nome, un programma. Marinella raccomanda di snocciolare le olive una a una con un taglio a spirale. Un'operazione lunghissima e noiosa. La cuoca ascolana consiglia di distrarsi guardando un film che duri almeno due ore. «Non importa che sia bello», dice, «l'importante è che sia lungo 120 minuti. Una volta snocciolate, le olive vanno messe nell'acqua che le deve coprire completamente. Nella salamoia vanno messi anche pezzi di finocchio selvatico, possibilmente bollito per evitare che partano fermentazioni indesiderate. 

Occorre poi preparare l'impasto per la farcitura. Come ingredienti si usano: manzo, maiale, pollo, carota, sedano, cipolla, vino bianco e altre varianti. Quali? Dipende dal gusto e dalla tradizione famigliare. C'è chi mette il salame, chi la mortadella, chi aggiunge un cucchiaino di pomodoro. Sono i tanti segreti tramandati di madre in figlia per cucinare al meglio questo piatto che una volta rappresentava il momento più importante della festa a tavola. Il mio segreto? Capite bene che non posso rivelarlo. Se lo facessi non sarebbe più tale».

Olio bollente. Quanto è bello fare il fritto da Trieste in giù. Chiara Di Paola su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.

Dolce o salato, di carne, pesce, verdure o frutta, servito al piatto o in versione street food, è la preparazione democratica per eccellenza. Il nostro viaggio tra le padelle d’Italia parte da Nord. 

Ogni regione italiana ha le proprie tipicità, e per chi non si accontenta dei “classici” più rassicuranti ci sono molte chicche da scoprire nelle padelle di tutte le regioni. Partiamo da Nord per il nostro viaggio a puntate tra le padelle d’Italia

Valle d’Aosta

Ai piedi del Gran San Bernardo l’influenza culturale d’oltralpe si fa sentire sia nei nomi dei piatti sia nella loro preparazione: a parte la rinomata cotoletta alla valdostana (la versione nobile del cordon bleu), la tradizione del fritto valdostano punta soprattutto sui dolci, con le celebri frittelle di mele, i chüjini, i chiechene (o rissili, simili alle chiacchiere di Carnevale), gli hòckiené (gonfiotti fritti), i pòmpernòsslené (rettangoli di pasta sottile aromatizzata con grappa e fritti) e le frittelle dolci di Gressoney (un dolce “di riciclo” a base di pane raffermo, latte e uova, con cui si prepara una crema da friggere un cucchiaio dopo l’altro in olio di arachide (volendo anche burro o strutto) e servire spolverizzata con zucchero e cannella.

Infine ci sono i semolini fritti (o fritura dossa) tipici di Issime, piccolo comune walser ai piedi del Monte Rosa, che si preparano a partire da una polenta dolce fatta con latte, acqua, zucchero e scorza di limone, raffreddata in teglia con uno spessore di 3-4 cm, tagliata a rombi, impanata con uovo e pangrattato e, ovviamente fritta!

Piemonte

Del maiale non si butta via niente, e nemmeno del vitello. Anzi, con la cucina tradizionale antispreco si entra nel mistico mondo del “quinto quarto”, che in Piemonte viene nobilitato innanzitutto nel classico fritto misto ma anche nel batsoà tipico della tradizione canavesana.

Protagonista di questo piatto è il piedino (di vitello o maiale, appunto), disossato-impanato-fritto nel burro e servito con il bagnet verd, una “salsa verde” in stile regionale a base di prezzemolo, aglio, acciughe, mollica, olio, aceto, sale, pepe e talvolta anche tuorlo d’uovo e capperi.

Da segnalare anche il semolino dolce fritto, un dolce tipico del Carnevale, ma ideale tutto l’anno come colazione, merenda o dessert di fine pasto, gustato ancora caldo, spolverizzato con lo zucchero a velo e accompagnato (in versione adulta) con un vino liquoroso tipo passito oppure (in versione bambino) con del semplice latte.

Liguria

Un solo nome, mille varianti: si tratta dei frisceau (con la “o” stretta), frittelline che si possono fare con qualsiasi ingrediente, dal baccalà ai porri, dalle bietole fino ai preziosissimi (e costosissimi) “gianchetti” o “bianchetti”, ovvero la versione neonata di sardine (in inverno) o acciughe (da maggio a settembre).

Quelli classici genovesi si preparano solo con le erbe aromatiche (in particolare con l’erba cipollina) e, sostituendo la farina 00 con quella di ceci, diventano cuculli, ma la sostanza resta la stessa.

Per chi invece vuole provare lo street food ligure per eccellenza (focaccia a parte) c’è la panissa, preparata con un impasto a base di acqua, farina di ceci, sale e pepe, fatto compattare, tagliato a cubetti e fritto in olio di semi, a cubetti. L’ideale è mangiarli caldi, accompagnati da un bel calice di Vermentino freddo (possibilmente evitando la congestione!).

Lombardia

Tra “necessità storica” e campanilismo nordico, a Milano si frigge nel burro (chiarificato). Ma il capoluogo lombardo non è solo cotoletta (o costoletta): dalla padella delle sciure più affezionate alla tradizione emergono anche i tipici mondeghili, polpette contadine ereditate dalla dominazione spagnola del 1535-1706 e preparate con carne di manzo lessata, salsiccia, mortadella di fegato cotta, formaggio Grana, pane raffermo bagnato nel latte, prezzemolo, uova, aglio, sale e pepe.

Più a nord, specificamente in Valtellina e dintorni, si preparano gli sciatt, frittelle dalla forma insolita (il nome, in dialetto, significa “rospo”) realizzate con una pastella di farina di grano saraceno e bianca, grappa/acquavite e birra, e ripiene di formaggio Casera DOP, lo stesso utilizzato per condire i pizzoccheri.

Trentino-Alto Adige

Solo tre ingredienti e una Confraternita (fondata a Sporminore nel 1998) a proteggerne la ricetta originale: il fritto più tipico della tradizione contadina in Trentino-Alto Adige (e in particolare nelle valli di Non e Sole) è il tortel de patate, che si prepara con un impasto di patate crude grattugiate tipo Kennebec, sale e olio per friggere (o strutto) e si accompagna generalmente a formaggi, salumi, carne salada e verdure.

Passando dall’antipasto al dolce si incontrano gli strauben (o strabodi), frittelle dolci a forma di chiocciola, tipiche delle occasioni festive in Baviera e nel Tirolo, che si preparano facendo cadere un composto di farina, uova, latte, zucchero, burro e grappa nell’olio bollente con uno strumento tipico che assomiglia a un imbuto di ferro. Si servono cosparse con zucchero a velo e accompagnate da una confettura di mirtilli rossi.

Veneto

Le moéche (moleche o “pepite di Venezia”) sono un Presidio Slow Food e le protagoniste di un piatto da “carpe diem”: si tratta infatti delle femmine di piccoli granchi verdi pescati nella laguna veneziana solo in determinati periodi dell’anno (tra aprile e maggio e ottobre e novembre), nel momento in cui sono nella loro fase di muta tra un carapace e l’altro, quando sono così morbidi da poter essere mangiati interi, semplicemente pastellati (con o senza uova) e fritti nell’olio bollente, in modo che diventino rossi e croccanti e acquistano un sapore lievemente dolce, con retrogusto di alga e mare. Si possono gustare al ristorante, in uno dei tipici bacari veneziani o in versione street food in cartocci da passeggio, con o senza polenta bianca in accompagnamento.

Per dolce invece ci sono le fritoe venexiane (fritole o frittelle veneziane), dolce antichissimo risalente alla seconda metà del Trecento e riconosciuto come “dolce nazionale dello Stato Veneto”, la cui ricetta (a base di uova, latte, olio, grappa, rhum succo e buccia d’arancia e limone, vanillina, farina, uvetta, pinoli, mela grattugiata, zucchero e sale) è conservata in un documento di gastronomia, custodito a Roma presso la Biblioteca Casanatense.

Durante il Rinascimento e fino alla fine del XIX secolo, erano preparate per strada dai “fritoleri”. Oggi si fanno in casa e in pasticceria, per lo più nel periodo del Carnevale, così come i galani (o crostoli sulla terraferma: sono la variante veneziana delle chiacchiere e possono essere più  meno larghi e spessi, ma il sapore resta lo stesso.

Friuli-Venezia Giulia

Oltre al piatto regionale per antonomasia (il frico), nelle varianti con solo formaggio o con l’aggiunta di patate e cipolle, tra i fritti tipici del Friuli Venezia Giulia ci sono i chifeletti (preparati soprattutto a Trieste), a base di patate lesse, uova, farina e burro vengono poi fritti in olio di semi. Il loro nome richiama quello austriaco e tedesco dei kifel ossia dei cornetti, di cui riprende la forma a mezzaluna.

Sono una preparazione neutra e versatile, che si può servire come primo piatto o contorno salato, oppure in versione dolce, cosparsi di zucchero semolato. Infine ci sono gli strucchi, fagottini fritti tipici delle valli del Natisone, che si preparano dolci (con pastafrolla e un ripieno di noci, uvetta, pinoli, zucchero, grappa, scorza grattugiata di limone) o salati (con un ripieno di patate) e si condiscono con burro fuso ed eventualmente zucchero e cannella.

Olio bollente. Quanto è bello fare il fritto da Trieste in giù (parte seconda). Chiara Di Paola su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.

Il nostro tour tra le padelle roventi continua con una carrellata di preparazioni tipiche del centro Italia, dalle crescentine emiliane al supplì passando per le cicerchiate abruzzesi 

Emilia-Romagna

Emilia Romagna fa rima con gnocco fritto, un tipico street food nel tempo diventato il cavallo di battaglia per numerose città della bassa Pianura Padana. Viene proposto con nomi diversi: torta fritta a Parma, chisolino a Piacenza, pinzino a Ferrara.

A Bologna diventa invece crescentina e si arricchisce di olio extravergine, lievito di birra e latte tiepido nell’impasto, mentre a Reggio Emilia si trasforma in chizza e viene farcito con il Parmigiano Reggiano.

Fritto nello strutto (o talvolta in olio bollente) fino a diventare gonfio e dorato, si gusta in abbinamento a taglieri di salumi e formaggi locali, come sostituto del pane, accompagnato da vini frizzanti e secchi.

Toscana

Tra Firenze e dintorni sono famosi i coccoli (detti anche sommommoli o cazzotti per la loro forma), palline di pasta di pane fritta in olio che, grazie a una perfetta proporzione tra gli ingredienti (farina bianca tipo 00, lievito di birra, sale, acqua), diventa dorata fuori ma resta morbidissima dentro. In passato erano un cibo da strada per tutte le ore, venduti nei caratteristici cartocci di carta gialla; oggi sono l’ideale per l’aperitivo e si trovano anche nel menù di alcuni ristoranti e osterie, che li servono accompagnati da formaggi, salse e affettati locali. In alternativa, con lo stesso impasto tirato al mattarello, si preparano le  ficattole (a forma di rombo) e le donzelle (a forma triangolare o rettangolare), due varianti neutre che possono essere declinate in versione dolce o salata dopo la frittura.

In tutta la Valdarno, nel periodo di Carnevale, si trovano i cenci (o crogetti), la versione “con la gorgia” delle più famose chiacchiere, il cui nome in questo caso è dovuto al modo fiorentino di indicare gli stracci di stoffa.

Umbria

In Umbria la preparazione fritta più tipica e antica (risalente alla tradizione contadina fin dal XVII secolo) è quella dei brustenghi, una sorta di frittelle che possono assumere forme diverse e che, in origine, erano consumate nei giorni di festa, dolci o salati, come colazione o merenda. I perugini veraci (veri ideatori della ricetta) chiamano arvoltoli, mentre nell’area dell’orvietano prendono il nome di tortucce (ma anche poltricce, fregnacce o cresciole). Esistono sia salate, preparate con acqua, farina e sale, che si mangiano con salumi e formaggi, sia dolci.

Oggi si trovano solo sulle tavole più legate alla tradizione e nelle sagre paesane, ma vale la pena provarle. Come sempre non può mancare la variante carnevalesca del fritto dolce regionale, che in Umbria si traduce nei ficanassi, girandole di pasta fritta al sapore e profumo di agrumi e zucchero caramellato, e nelle frittelle di pancotto, preparate con pane raffermo e uvetta. Infine c’è la versione local delle castagnole, che a differenza di quelle classiche si preparano con un impasto meno compatto a cui viene tradizionalmente aggiunto un goccio di liquore all’anice.

Marche

Il fritto misto all’ascolana (che comprende anche le famose olive) è forse una delle ricette più conosciute e apprezzate dell’antica tradizione della zona del Piceno.

Sebbene sia un piatto ricco, presente sulle tavole nobili del Sette-Ottocento, si tratta comunque di una preparazione antispreco, nata dall’abilità dei cuochi nel riutilizzare gli avanzi dei pranzi, inclusa la crema pasticcera, che viene fatta rassodare, ritagliata, impanata, fritta e servita insieme a costolette di agnello, carciofi, zucchine e, ovviamente, le immancabili olive all’ascolana (rigorosamente della varietà Oliva Ascolana del Piceno DOP, che è verde, grande e naturalmente dolce).

Un dolce dalle idee più chiare (ma non del tutto!) sono le cresciole, frittelle preparate con gli avanzi di polenta,  amalgamata con la farina e stesa fino a formare delle simil-piadine, che in frittura si gonfiano diventando croccanti e si servono cosparse di zucchero a velo. E a Carnevale? Stroccafusi, dolcetti tipici dell’entroterra che hanno al loro interno il mistrà o l’Anisetta, liquore tipico a base di anice.

Lazio

In questo caso c’è solo l’imbarazzo della scelta, perché di piatti fritti tra Roma e dintorni, ce n’è davvero per tutti i gusti e per tutte le stagioni. Il re indiscusso resta il supplì (dal francese surprise come le truppe napoleoniche descrissero questo antipasto nel 1874). Oggi è una crocchetta dalla forma leggermente allungata a base di riso cotto nel ragù di carne, con al centro un cubetto di mozzarella che deve diventare filante (se non fila non c’è “telefono”!), presente in tutti i menù della Città Eterna, classico o in versioni gourmet (cacio e pepe, all’amatriciana, o alla gricia e così via). Ma pochi sanno che la ricetta originale non prevedeva l’uso di pomodoro né della panatura ma includeva solo riso legato con l’uovo e un ripieno di rigaglie (interiora di pollo) e scarti di animelle. Il cuore di mozzarella arrivà solo in un secondo momento, nel Novecento, proprio come l’invenzione di Meucci che si spera di trovare ogni volta che si apre questo scrigno goloso.

Abruzzo

Pecorino e uova sono due degli ingredienti più ricorrenti nella cucina abruzzese, quindi non potevano mancare nemmeno come protagonisti di uno dei fritti più tradizionali della regione: appunto le pallotte cac’e ove, polpette di pane raffermo, uova e avanzi di formaggio (soprattutto pecorino), fritte e saltate in un sugo di pomodoro e basilico. Che siano grandi o piccole, servite come secondo o antipasto finger food, sono un piatto legato alla transumanza e alla cucina povera contadina, nato dalla necessità di sopperire alla scarsa disponibilità di carne con un’alternativa altrettanto soddisfacente, tanto da essere adatto anche ai giorni di festa. Infatti veniva tradizionalmente preparato per il Martedì Grasso e l’11 novembre, per festeggiare San Martino e il vino nuovo.

Passando al dolce, dalla friggitrice abruzzese escono le cicerchiate, palline dorate inserite nell’elenco dei prodotti italiani agro alimentari tradizionali a marchio PAT che si servono cosparse di miele bollente e decorate con mandorle o sprinkles colorati; gli sgaiozzi della provincia di Pescara, a base di farina di mais, semplici o con l’aggiunta di uvetta o semi di anice all’impasto; i torcinelli dolcetti dalla forma allungata e attorcigliata composti principalmente da patate, e i caggionetti (o cauciunitti), ravioli a forma di mezzaluna, con un ripieno a base di ceci o castagne lessati, mandorle e cacao, che vengono fritti e serviti caldi, spolverizzati con un po’ di zucchero e velo.

Un tempo questi dolci, calorici e sostanziosi, erano preparati quotidianamente come merenda energizzante per chi lavorava in campagna, mentre oggi sono riservati quasi esclusivamente al periodo natalizio e al Carnevale.

Molise

Per quanto piccolo, il Molise ha una tradizione culinaria di tutto rispetto, che non ha nulla da invidiare alle altre regioni. E i fritti non fanno eccezione:  i caggiuni (o calcioni) sono la variante locale dei classici calzoni fritti e si servono ben caldi come antipasto, con una farcitura a base di prodotti della pastorizia e dell’agricoltura (per esempio il classico prosciutto e provola).

Le scarpelle invece sono frittelle a marchio PAT, tipiche delle feste natalizie, che si ricavano da una pastella e si possono servire dolci, semplicemente cosparse con zucchero semolato, oppure salate, come stuzzichino, antipasto o secondo piatto, soprattutto se si aggiungono nella pastella pezzi di baccalà, filetti di alici o ciuffi di cavolfiore sbollentati.

Sul fronte pasticceria spiccano le rosacatarre (o rosachitarre), dolcetti a forma di rosa, diffusi soprattutto a Larino e nella provincia di Campobasso, che assomigliano alle cartellate pugliesi, con la differenza che una volta cotte vengono irrorate di miele caldo e non di vincotto.

Olio bollente. Quanto è bello fare il fritto da Trieste in giù (ultima parte). Chiara Di Paola su L'Inkiesta il 21 Luglio 2022.

Il Sud è il paradiso della cucina croccante e dorata e oltre a calzoni, panzerotti e misti di paranza c’è molto altro. Il nostro viaggio riparte dalla Campania e, sfrigolando, raggiunge le isole

Campania

Dalle montanarine (pizzette fritte con pomodoro e formaggio grattugiato o con burrata e alici) alla mozzarella in carrozza, dagli sciurilli (i fiori di zucca ripieni pastellati e fritti) agli scagliozzi (o scagliuozzoli) a base di polenta e salvia, fino alle zeppoline di pasta cresciuta, alle palle di riso e alle frittatine di pasta: la cucina partenopea si caratterizza per una netta predilezione per i fritti, che in versione street food trovano accoglienza nel tipico cuoppo, un cono di carta paglia che ne accoglie un mix di terra o di mare.

Tra tutti spiccano i crocchè (o panzarotti, come li chiamano a Napoli), polpette fritte a base di patate e uova, che sono diventate una vera e propria istituzione regionale, ma le cui origini restano incerte.

Secondo alcuni sarebbero eredi delle croquettes francesi apprezzate nel XVIII secolo alla corte di re Luigi XVI, secondo altri deriverebbero dalla rivisitazione in chiave umile della ricetta delle croquetas de jambon spagnole.

Qualunque sia la verità, vale la pena provarli, acquistandoli nelle friggitorie che affollano il centro storico di Napoli. Probabilmente non ci sarà un “panzerottaro” a incalzarci «Fa marenna, fa marenna! Te ne magne ciento dint’ ‘a nu sciuscio ‘e viento» («Fai merenda, fai merenda! Te ne mangi cento in un soffio di vento»), ma la tipicità dell’esperienza (e del gusto) è comunque garantita.

Puglia

Oltre al panzerotto (o calzone), classico o rivisitato, e al fritto misto di paranza, se ci si spinge fino al tacco dello stivale vale la pena scoprire qualche altra chicca croccante e dorata.

Una nota di merito va alle cozze nere fritte, non tanto per la ricetta in sé (non c’è nulla di esotico in semplici mitili tuffati in pastella e poi nell’olio bollente) ma per la qualità della materia prima: la cozza nera tarantina è una prelibatezza che trova ampio spazio nella gastronomia pugliese fin dal Cinquecento e che proprio di recente è (dal 28 aprile 2022) è diventata Presidio Slow Food.

Altra delizia Pat sono i lampascioni (i parenti meridionali e selvatici delle cipolle), che oltre a essere bolliti e conservati sott’olio o sottacetio, vengono anche fritti e serviti croccanti, cosparsi con un pizzico di sale, con il vincotto o con qualche goccia di aceto balsamico. Infine ci sono le auui’ sfritt, le olive nere fritte, della varietà dolce Nolca, le prime a maturare a settembre, che si caratterizzano per il colore scuro e il gusto amarognolo, che si corregge con l’aggiunta di sale durante la preparazione. Una volta fritte sprigionano un profumo irresistibile e acquistano un sapore unico, che le rende ideali da farcire la tradizionale puccia salentina.

Basilicata

Tra i prodotti tipici simbolo della Basilicata ci sono i Peperoni di Senise, che crescono in  in provincia di Potenza e che dal 1996 sono riconosciuti come prodotto ortofrutticolo a Indicazione geografica protetta (Igp). Diventano źafaranë crušchë (o  peperoni cruschi) quando, dopo l’essiccatura, vengono fritti in olio extravergine di oliva e conditi con il sale.

Definiti anche “oro rosso” lucano, si usano interi come chips da sgranocchiare al posto delle patatine, oppure sbriciolati o polverizzati (zafaran pisat) come condimento tradizionale per la pasta, il baccalà, le carni rosse, ma anche come aromatizzante per salse, formaggi e verdure fresche, come fave e insalate. L’usanza vorrebbe che l’olio di frittura dei si usasse per preparare lo stoccafisso o le uova fritte all’occhio di bue o strapazzate.

Per un fritto in declinazione dolce ci sono invece i cauzunziedd’ (calzoncelli di castagne), il simbolo della tradizione lucana legata tradizione natalizia: fagottini di pasta fritta che racchiudono un ripieno morbido a base di castagne (o ceci), arricchito con cioccolato e un mix di spezie, tra cui la cannella e i chiodi di garofano.

Calabria

L’unica preparazione calabrese denominata “fritta” è la pitta, che pure fritta non è ma ricorda piuttosto la “pita” greca e assomiglia a una sorta di piadina.

Per trovare un fritto vero bisogna puntare sulle crispedde (crespelle) o cullurialli (nome condiviso da tutte le preparazioni a forma di curulla, “corona”), che secondo la tradizione si preparano l’1, l’8 e il 24 dicembre, le ricorrenze più importanti del mese dedicato a Gesù, ma ormai sono un evergreen per tutto l’anno. In alcune zone si preparano gli squaratielli (detti anche, scoratelli o scoratedd’, cullurialli ritti a ventu, o a bentu), piccole ciambelle lievitate a base di farina e patate, impastate con acqua bollente che “squara” (“scotta”), a cui si deve il nome della ricetta.

Tra i fritti in versione salata sono famose le classiche crispeddi chi lici (crespelle con alici o quelle con pomodori secchi, ricotta, baccalà), mentre virando sul dolce ci si imbatte nei crustuli (o guanti, la versione calabra delle chiacchiere), ma anche nelle pettole (o zeppole), che una volta fritte vengono servite cosparse di zucchero ed eventualmente cannella), oppure miele o mosto cotto.

Tra i dolci più antichi ci sono gli alaci tipici del territorio di Gioiosa Ionica ed eredi dei taralli magnogreci  (“lalakia”) e le nacatole che si preparano soprattutto nell’area della Locride, e devono il loro nome alla forma tipica della naca (“culla”), che rievoca la nascita di Cristo, ma possono essere anche realizzate in forme diverse, soprattutto se preparate al di fuori del periodo natalizio.

Sicilia

In Sicilia si frigge tutto… persino il latte! La ricetta del latte fritto è una delle preparazioni popolari più antiche della Regione, probabilmente portata dai dominatori spagnoli e tramandata dalle suore Clarisse nel Seicento.

Nel periodo di Carnevale per tradizione si fa dolce, ma esiste anche in versione salata a base di formaggio. In ogni caso resta una ricetta povera, che assomiglia al latte brusco genovese, alla crema fritta salata emiliana e ai fritti di latte abruzzesi, ma si distingue per l’originaria assenza di uova e per il delicato aroma di agrumi che caratterizza l’impasto, una crema di latte densa che viene raffreddata, lasciata rassodare dalle 3 alle 12 ore, quindi tagliata a cubetti, impanata e fritta.

Altra tipicità (Pat) sono le iris palermitane, dolci ideati nel 1901 dal pasticcere palermitano Antonio Lo Verso in onore della prima messa in scena dell’opera “Iris” di Pietro Mascagni al Teatro Massimo.

In origine la ricetta prevedeva l’uso di rosette rafferme private della crosta e di parte della mollica, oggi invece sono ritagli di pasta brioche impanata e fritta, con un cuore classico di crema di ricotta e scaglie di cioccolato, cui nel tempo si sono aggiunte altre versioni, farcite con diversi tipi di creme. A Palermo sono le iris sono considerate tra i cibi di strada più apprezzati, da gustare a tutte le ore… rigorosamente caldi.

Sardegna

La Sardegna offre tipicità davvero particolari, come gli orziadas (otziadas o capelli di Venere), ovvero gli anemoni di mare, che soprattutto nelle zone di Oristano e Cagliari si trasformano in un aperitivo finger food ideale per chi ama sperimentare, ma anche in un secondo piatto o in un’aggiunta per i classici spaghetti con la bottarga.

Anche i tradizionali culurgiones (o culurgionis, ma anche culungioneddos de arrescottu, cruxioneddus de mindua, culurgiones de mendula a seconda della zona), ravioli a forma di spiga ripieni di patate e menta, possono essere fritti in olio bollente anziché cotti, e serviti come finger food per l’aperitivo. Esistono anche in versione dolce, con ripieno di ricotta, oppure mandorle o crema alla vaniglia, che si servono cosparsi di zucchero a velo o di miele e scorza di arancia grattugiata.

Meno noti ma altrettanto tipici sono i dolci sardi legati al Carnevale, ma anche alle occasioni speciali, come le feste di paese o le cerimonie: i frati fritti (fatti fritti o parafrittus), soffici ciambelline lievitate, fritte e poi passate nello zucchero semolato, e gli acciuleddi, ovvero dolcetti che assumono nomi diversi a seconda della forma (a treccia, a ruota, a corona, a mazzetto o a fisarmonica) o delle zone d’origine (tricciulini , origliettas, rugliettas, orilletas, lorigliettas, orullettas, ritzas, montogadas), ma che hanno in comune lo stesso impasto e il condimento a base di miele oppure di zucchero a velo.

Insomma, il panorama delle padelle del Bel Paese è ricco e variegato. Scoprirlo significa ritrovare sapori, profumi e consistenze che, ovunque ci si trovi, fanno subito “casa”, ma per chi ama sperimentare e uscire dai percorsi più battuti (anche dal punto di vista culinario) c’è di che restare sorpresi, e tornare a casa arricchiti… magari con qualche etto in più.

Made in Taranto. Il miglior olio del mondo è pugliese. Gastronomika su L'Inkiesta il 14 Aprile 2022.

Dalle olive viola intenso della Murgia Tarantina nasce Ulivè Grand Cru, un extravergine pregiato frutto di un terroir unico, premiato con la medaglia d’oro all’Olive Oil Competition di Dubai. 

Emmanuel Sanarica è un giovane olivicoltore che ha deciso di investire nella propria terra costruendo un’azienda agricola a Montemesola, in provincia di Taranto, in un’area minacciata dalla xylella. La passione della famiglia Sanarica per l’olivo è tramandata da quattro generazioni, in un territorio da sempre dedito alla produzione di olive e oli di qualità. Emmanuel ha ereditato dai nonni i segreti della produzione artigiana, diventando a sua volta ambasciatore di antichi saperi contadini. Il prodotto di punta è Ulivè Grand Cru, un olio extravergine di oliva di altissima qualità, contenuto in uno scrigno prezioso. Un concentrato della tradizione olivicola della Puglia che ha già ricevuto un importante riconoscimento a livello internazionale. «Abbiamo appena vinto il premio come miglior olio del mondo nella competizione internazionale Dubai Olive Oil Competition – spiega con soddisfazione Sanarica – e siamo super fieri di questo premio. Una ricompensa per chi come noi ogni singolo giorno dell’anno, si impegna a coltivare e curare gli ulivi con amore, rispettando la terra e il suo ciclo naturale. Uniamo le tecniche di coltura tradizionali e moderne, assieme a una molitura di avanguardia per produrre il nostro olio di altissima qualità». 

L’azienda si estende su 80 ettari tra le colline della Murgia Tarantina, a 200 metri sul livello del mare. Il microclima della zona è influenzato positivamente dal Mar Piccolo di Taranto, distante pochi chilometri e visibile, con il suo intenso colore azzurro, da molti versanti degli oliveti. «Il clima mite e la forte influenza del mare rendono l’aroma delle nostre olive intenso ma delicato, donando un basso livello di acidità e una forte presenza di polifenoli, caratteristiche perfette per la produzione di un olio con qualità organolettiche elevatissime».

Anche la biodiversità è un valore prezioso: gli uliveti sono formati da tanti piccoli appezzamenti che custodiscono ben 10 varietà di olive differenti. La selezione delle olive che compongono Ulivè Grand Cru avviene pianta per pianta, selezionando le varietà al momento giusto di maturazione, per dare vita a un blend unico, capace di arricchire i palati e impreziosire i piatti.

Da “il Messaggero” il 12 gennaio 2022.  

Consumare più di 7 grammi (una quantità superiore a mezzo cucchiaio) di olio d'oliva al giorno è associato a un minor rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, per cancro, malattie neurodegenerative e respiratorie. Come si legge in uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. 

Il lavoro ha rilevato che la sostituzione di 10 grammi al giorno di margarina, burro, maionese e grasso di latte con la quantità equivalente di olio d'oliva è associata a un minor rischio di patologie gravi. I ricercatori hanno analizzato 60.582 donne e 31.801 uomini statunitensi privi di malattie cardiovascolari e non colpiti da tumore all'inizio della ricerca nel 1990. Durante i 28 anni di follow-up, è stata valutata la dieta.

Il questionario chiedeva con quale frequenza si consumassero determinati alimenti, grassi e oli. Nonché di quale tipo si utilizzassero per cucinare e aggiungessero a tavola. Quando i ricercatori hanno confrontato coloro che consumavano raramente o mai olio d'oliva con chi si trovava nella categoria di consumo più alto è emerso che questi ultimi avevano il 19% in meno di rischio di mortalità cardiovascolare, il 17% in meno per cancro, il 29% in meno per patologie neurodegenerativa e il 18% in meno per quelle respiratorie.

Raccolta amara. La preoccupante crisi dell’olio nel Nord Italia. Pietro Mecarozzi su L'Inkiesta il  14 Febbraio 2022.

Veneto, Lombardia, Liguria, e parte della Toscana hanno registrato un calo netto dell’industria dell’olivicoltura, con zone come il lago di Garda che stima una perdita del 98% della produzione. Le cause sono svariate, il rischio è l’abbandono degli appezzamenti di terra e il blocco di tutto l’indotto. 

Annata nera per l’olio di oliva italiano. E tra i molti fattori in gioco, la colpa è anche del clima. La stagione della spremitura è da poco terminata e si possono già trarre i primi bilanci.

L’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare (Ismea) conferma che, con le operazioni di raccolta e molitura ben avviate su gran parte del Paese, il dato generale è di 315mila tonnellate di olio di oliva per la campagna 2021-22. Più del 15% sul 2020 (quando furono 273mila) ma comunque molto al di sotto rispetto a quella che sarebbe considerata «una buona annata», come le 429mila tonnellate del 2017 o le 506mila del 2012.

Non solo. La situazione per aree geografiche risulta molto eterogenea e, pur con differenze importanti anche tra zone contigue, dalle indicazioni disponibili il dato migliore è un leggero incremento produttivo al Sud, che induce una spinta positiva sull’intera produzione nazionale. In cima c’è la Puglia, con un +38% sullo scorso anno, che non soddisfa comunque i produttori.

La crescita è risultata quindi nettamente inferiore sia alle aspettative che alle potenzialità. Molti sono stati i fattori climatici che hanno contribuito alla perdita di produzione – le gelate primaverili, la siccità estiva e la frequente alternanza di caldo freddo – che non hanno favorito l’ottimale sviluppo vegetativo degli oliveti. Soprattutto al centro-nord.

Qui «nel 2019 e nel 2021 abbiamo perso il 98% della produzione di olive. C’è sempre stata alternanza tra annate buone e annate meno buone, ma non abbiamo mai avuto un periodo così buio», spiega Laura Turri, presidente del Consorzio olio Garda Dop.

Se l’anno scorso in Veneto i circa 5mila ettari di uliveti, di cui 3.500 nell’area di Verona, hanno prodotto 240mila quintali di frutti, quest’anno la media si attesta al 80-90% in meno. Un crollo verticale. Ma il problema non riguarda soltanto il Triveneto, ma anche la Lombardia, la Liguria, la Toscana e parte dell’Umbria.

Le cause? «Il clima instabile, la presenza della cimice asiatica, l’impossibilità di effettuare trattamenti contro la mosca olearia e l’abbandono totale da parte delle istituzioni», aggiunge Turri.

Ad esempio, gran parte dei 470 soci del Consorzio di Tutela dell’olio extra vergine di oliva Garda Dop sono rimasti esclusi dal fondo governativo da trenta milioni di euro per lo sviluppo e il sostegno della filiera olivicola-olearia incluso nel decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale lo scorso 8 gennaio 2022.

Delle risorse del fondo potranno beneficiare solamente «i produttori olivicoli associati a organizzazioni di produttori riconosciute» e con una «superficie minima interessata pari a 2 ha». La decisione di elargire il contributo esclusivamente alle aziende legate ad Organizzazioni di produttori (Op) riconosciute, di fatto esclude le aziende associate solo al Consorzio di Tutela.

«Una scelta che a noi produttori appare in contrasto gli obiettivi del decreto e con il ruolo stesso del Consorzio di Tutela che, come riconosciuto dallo stesso Ministero dell’agricoltura, è quello di tutelare e promuovere il prodotto Garda Ddp ma anche assistere i soci nel perseguire la qualità dell’olio e la sostenibilità della filiera di cui facciamo parte».

Insomma, dopo un 2018 eccellente, coronato da un’abbondante produzione (220.000 quintali di olive in Veneto), nel 2019 le piante vengono colpite da gelate nel pieno della fioritura e subiscono altri danni a causa della mosca olearia e della cimice asiatica, con produzione quasi azzerata. Nel 2020 si registra invece una buona annata, con un raccolto quasi ai livelli del 2018 e rese produttive aumentate del 555 per cento rispetto all’anno precedente.

Il 2021 si conferma per il Veneto (e per l’Italia tutta) un anno disastroso, anche sotto il profilo del mercato. L’ultima stima arriva da OlivYou, la maggiore piattaforma e-commerce specializzata nella vendita di olio extravergine di alta qualità. La maggioranza dei consumatori (il 60%) non riuscirà ad acquistare sul sito l’olio appena spremuto: la disponibilità basta a soddisfare solo il 40% della domanda.

Un problema che colpisce non solo i produttori, ma anche i frantoi, che per correre ai ripari acquistano spesso olive provenienti da altre regioni italiane – o dall’estero – annullando così il principio di unicità del prodotto. «Le aziende devono pagare gli operai e far tornare i conti, ma acquistando olive non autoctone viene meno la natura del nostro prodotto», spiega Leonardo Granata, presidente degli olivicoltori di Confagricoltura Veneto. «Stiamo cercando di ottenere dei contributi per finanziare studi scientifici in grado di inquadrare le problematiche più ingenti in termini ambientali. Dobbiamo salvaguardare la nostra produzione anche se considerata “minore” a livello nazionale, in quanto eccellenza italiana ed elemento fondamentale per l’economia e il turismo locale», continua Granata.

A livello mondiale, invece, le prime stime produttive attestano i volumi della campagna 2021/22 a 3,1 milioni di tonnellate, sintesi della flessione della produzione comunitaria (-3%), determinata dalla riduzione attesa in Spagna (-7%) e Grecia (-14%), e della contestuale crescita fuori dai confini della Ue, trainata dalla Tunisia (+71%), oltre che dalla Turchia (+9%) e dal Marocco (+25%).

Dati che aggravano la posizione sul mercato internazionale dei prodotti italiani, e che accentuano la necessità di un intervento da parte delle istituzioni. Anche perché al momento l’alternativa è una sola: «Senza finanziamenti e sostegni pratici si andrà verso la cessazione delle coltivazioni. Il che significa l’abbandono degli appezzati e l’estinzione della produzione di olio del Nord Italia» conclude Granata.

·        L’Olio di Palma.

Meno foreste, più monocolture. La palma da olio devasta l’ambiente e la vita dei contadini. Lavoratori sfruttati, multinazionali che si accaparrano territori sempre più vasti. Il boom dell’agricoltura intensiva elimina i boschi e cancella specie animali e vegetali che rendono stabile la biosfera. Chiara Sgreccia su L'Espresso il 14 febbraio 2022.

Distese senza fine di palme africane fanno ombra sulla highway 20, man mano che da Santo Domingo de los Colorados si avvicina alla provincia settentrionale di Esmeraldas, dove l’Ecuador confina con la Colombia. Le più grandi piantagioni di palma da olio sono qui, nella Foresta del Pacifico, o Chocó-Darién ecuadoriano, l’ecoregione ai piedi della cordigliera delle Ande che taglia in due la piccola Repubblica del Sudamerica, dall’anno scorso guidata da Guglielmo Lasso, primo presidente di centrodestra dopo due decenni.

·        Il Formaggio.

I 10 migliori formaggi italiani del 2022: i premiati degli Italian Cheese Awards. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Le migliori produzioni casearie del nostro Paese: autentiche, tipiche, artigianali, realizzate con solo latte e caglio 100% italiano. Ecco il meglio da assaggiare

I 10 migliori formaggi italiani

I formaggi sono una delle tante eccellenze gastronomiche del nostro Paese, e a ricordarcelo ogni ci sono anche gli Italian Cheese Awards. Sono i premi che ormai da sette edizioni premiano le migliori produzioni casearie italiane autentiche, tipiche e artigianali realizzate con solo latte e caglio 100% italiano. In tutto 10 categorie, che vanno dal formaggio freschissimo a quello a pasta molle passando per stagionato, semistagionato ed erborinato.

Una carrellata del meglio da assaggiare che è il risultato della selezione tra centinaia di candidati tra i quali poi una giuria di esperti - composta da 13 esperti assaggiatori, titolari di gastronomia specializzate in formaggio, giornalisti gastronomici e appassionati - sceglie i vincitori.

Quest'anno la premiazione si è tenuta nella sala del Centro Congressi di Fico a Bologna e, oltre ai 10 vincitori, Guru Comunicazione (agenzia che organizza questo ed altri eventi dedicati all'arte casearia) ha conferito 7 premi speciali dedicati ai produttori oltre che ai formaggi: piccoli artigiani che, oggi, nonostante tutto, producono secondo tradizione per regalarci sapori e profumi unici. Li trovate tutti continuando a leggere

Premio al miglior formaggio freschissimo: Stracchino- Caseificio San Rocco di Tezze sul Brenta (Vicenza)

Formaggio da latte vaccino. La nota dolce, la consistenza cremosa e morbida, derivano da una selezione di un buon latte e fermenti lattici vivi che rispettano le antiche tradizione.

Premio al miglior formaggio fresco: Caprino Nobile, Agricola Monte Jugo , Viterbo

Formaggio da latte crudo di capra a pasta compatta, morbida. Fa parte della categoria di formaggi a crosta fiorita: è ricoperto di un sottile velo di muffa, che imprime al prodotto un gusto unico ed inconfondibile.

Premio al miglior formaggio a pasta molle: Puzzone di Moena DOP stagionato a 300 giorni, Caseificio Sociale Predazzo e Moena (Trentino)

Formaggio da latte vaccino crudo a crosta lavata. Deve il suo nome all’odore forte e acuto che lo caratterizza. Viene preparato secondo la tradizione con l’impiego del latte intero e del caglio selezionato di vitello.

Premio al miglior formaggio a pasta filata: Stracciatella, Caseificio in Masseria Fratelli Cassese, Grottaglie (Taranto)

Formaggio da latte vaccino. La stracciatella, tipico formaggio pugliese, ha una consistenza morbida e cremosa poiché prodotta con panna e straccetti di pasta filata strappati a mano. È il ripieno della burrata.

Premio al miglior formaggio pasta filata stagionata: Caciocavallo di Agnone , Caseificio Di Nucci, Agnone (Isernia)

Prodotto ad Agnone con il latte vaccino raccolto esclusivamente da 15 allevamenti dislocati tra pascoli e montagne dell’Alto Molise, è un formaggio ottenuto da un processo interamente manuale ed artigianale di lavorazione del latte crudo della filiera agricola locale, caglio, siero innesto e sale. La stagionatura avviene fino ad 8 mesi nelle cantine di pietra rapillo di Agnone.

Premio al miglior formaggio semistagionato: Tipico Branzi FTB 180 gg - Latteria di Branzi, Zogno (Bergamo)

Formaggio da latte vaccino dal sapore dolce, determinato dalle particolari essenze vegetali dei monti, è tra i più antichi e tipici delle Orobie. Prende il nome dal paese dell’alta valle Brembana in cui è nato con i malgari: quando si trasferivano con le loro mandrie dalle stalle dei monti e della pianura sugli alpeggi dell’alta valle del fiume Brembo, convogliavano nelle casere di Branzi i formaggi da loro prodotti in quota.

Premio al miglior formaggio stagionato: Brenta Selezione Oro, Caseificio Latterie Vicentine, Bressanvido (Vicenza)

Prodotto artigianalmente e in quantità limitate il Brenta Selezione Oro è fatto con latte vaccino pastorizzato a pasta semicotta, e viene stagionato e affinato per almeno 8 mesi in una grotta naturale. Dal profumo delicato con note erbacee, ricco di sapori e dal gusto gradevolmente intenso e dalla consistenza piuttosto pastosa, si presenta con una crosta dura ma sottile, compatta, di colore bianco paglierino che tende ad acquistare una maggiore consistenza e un colore più intenso con il progredire della stagionatura.

Premio al miglior formaggio stagionato oltre 24 mesi: Formaggio Vacche Rosse, Caseificio I Sapori delle Vacche Rosse, Reggio Emilia

Formaggio da latte vaccino, prodotto secondo un disciplinare molto restrittivo, tra i più severi dei formaggi a pasta dura: l’utilizzo di mangimi certificati no-OGM, l’obbligo all’impiego di foraggi freschi nel periodo primaverile-estivo e di semi di lino nel periodo invernale per mantenere, quando non c’è l’erba, gli Omega 3 e Omega 6 agli stessi livelli ed il divieto dell’unifeed (piatto unico cioè miscela di mangimi e foraggi secchi utilizzato per sfruttare di più le lattifere).

Premio al miglior formaggio aromatizzato: Cuordi, Società Agricola Il Colmetto, Rodengo Saiano (Brescia)

Formaggio a crosta fiorita affinato in crosta, semistagionato, deve il suo profumo al fatto che la forma, in asciugatura, viene messa in un disco di crema di marroni.

Premio al miglior formaggio erborinato: Smo'King, Latteria di Aviano - Casearia Del Ben, Aviano (Pordenone)

Smo’king è un formaggio erborinato selezionato dalla Casearia Del Ben per la sua dolcezza e cremosità, affumicato nella “stufa”, una forma per volta per 24 ore con legno di faggio.

Premi speciali - Il miglior derivato del latte: Ricotta di Pecora, Caseificio I Sapori del Latte, Chiusa Sclafani (Palermo)

Dicono i giudici: «La ricotta dell’azienda “I Sapori del Latte” sa esprimere profumi, sapori ed emozioni, considerati ormai perduti, ma che sa trovare in terra siciliana, produzioni che riportano alla mente i tempi antichi».

Premi speciali - Donne del Latte: Luciana Cianchi, Azienda Agricola Astolfi - Abruzzo

Scrive la giuria: «Casara storica del Consorzio del Pecorino di Farindola, Luciana Cianchi è una donna ricca di grande esperienza che perpetra i segreti di una tradizione secolare. Un esempio per le nuove generazioni affinché possano conservare e proteggere una tradizione tra le più antiche e ricche di storia del territorio abruzzese».

Premio al Cheese Shop dell’anno: La Casera - La bottega con i tavoli, Intra (Verbania)

Scrive la giuria: «Non è una semplice attività commerciale, ma il sogno di ogni appassionato di formaggi di altissima qualità. Un luogo dove Eros Buratti, stagionatore ed affinatore di formaggi, ricerca e propone piccole preziose produzioni artigianali della vicina Valdossola, il meglio della tradizione casearia italiana e della vicina Svizzera».

Premio alla carriera: Francesco Miotti, Latteria Sociale Valtellina

Racconta la giuria: «Francesco Miotti nasce a Ponte in Valtellina, a due passi da Sondrio. Da giovanissimo intraprende la scuola casearia di Thiene ed è

Premio al Caseificio dell’anno: Azienda Agricola Brugnoli - Bardi, Parma

Scrive la giuria nella motivazione: «Bardi è un piccolo borgo medievale della Valceno in provincia di Parma. Attraversando il paese, proseguendo nella valle, si incontra il caseificio a conduzione biologica dei F.lli Brugnoli, qui da quattro generazioni. In un ambiente incontaminato e mitigato dalle brezze del golfo di Genova, le vacche vengono allevate ponendo al primo posto il benessere animale riservando loro ampi spazi sia al pascolo che in stalla. Mucche felici che donano un latte di straordinaria qualità. Ma l’attenzione non si ferma agli animali. Antiche tecniche produttive, lavorazione manuale del latte e l’aria di montagna completano l’opera regalando un formaggio Parmigiano Reggiano di straordinaria qualità».

Premio al formaggio dell’anno: Gregoriano, Bio Agriturismo Valle Scannese, Scanno (L’Aquila)

Scrive la giuria: «Il “Gregoriano” è un formaggio pecorino a latte crudo a pasta molle, fermentazione lattica e con breve stagionatura. Evocativo di quei formaggi tradizionali prodotti sugli alpeggi abruzzesi con latte appena munto e un pugno di sale che per secoli, insieme a poco altro, ha rappresentato l’alimento principe dei pastori. Il formaggio non poteva che prendere il nome di colui, che come nessun altro ha rappresentato l’immagine più bella e romantica del pastore abruzzese: Gregorio Rotolo, spentosi lo scorso marzo a causa di una malattia. Molto noto nell’ambiente caseario era considerato l’icona della pastorizia abruzzese che non si arrende mai. Un personaggio schietto, sincero, sempre con il berretto di lana, appoggiato al suo bastone e alla sua sottile ironia».

 

CIBO – UNICITÀ ASIATICHE. Due capre e un prete belga hanno portato il formaggio in Corea del Sud. LORENZO BIAGIARELLI su Il Domani il 13 settembre 2022

In una zona del mondo con la più alta percentuale di intolleranti al lattosio è scoppiata un’incontrollabile passione per il formaggio filante.

Prima delle pizzerie americane e delle stringhe di “mozzarella cheese” un sacerdote Belga, padre Didier t’Serstevens, cominciò a produrre formaggio con del latte di capra.

Cinquant’anni dopo ad Imsil, la capitale casearia coreana, il formaggio porta introiti per 24 milioni di euro l’anno, anche grazie ad un enorme e surreale parco a tQuesto articolo è tratto dall’ultimo numero del nostro mensile Cibo. Puoi leggerlo tutto a questo link. 

LORENZO BIAGIARELLI. Scrive di cibo e viaggi, cibo e cultura, cibo e tendenze, cibo e ricette sui suoi profili social. In tv con È Sempre Mezzogiorno su Rai1.

La Burrata di Andria, tesoro pugliese nato da una tempesta di neve. Mario Luongo su La Repubblica il 2 Settembre 2022.  

A quasi un secolo dalla sua invenzione da parte del casaro Lorenzo Bianchino, è ancora una delle espressioni gastronomiche più importanti della regione

C'è sempre un mito fondativo dietro una realtà celebre. Abramo fondatore di Israele, Teseo con Atene, Enea prima e Romolo poi, per la fondazione di Roma, e così via. La Burrata di Andria non è una città, certo, ma quella città la rappresenta quasi quanto il celebre Castel del Monte di federiciana memoria. E come una città, all'origine della sua nascita c'è una storia in bilico tra leggenda e realtà, che comincia negli anni 30 del secolo scorso, con una forte nevicata. A causa di questa il casaro andriese Lorenzo Bianchino (esperto nell’arte della manteca, ossia l’arte di conservare il burro nella pasta di scamorza) era impossibilitato nel portare il latte dalle pendici di Castel del Monte alla città di Andria, e dovette trasformare la materia prima  per non sprecarla. 

Così, utilizzando le stesse tecniche usate per la lavorazione della manteca, creò un sacchetto fatto di pasta filata (la stessa utilizzata anche per la mozzarella) e lo riempì con degli sfilacci della stessa pasta immersi nella panna che naturalmente affiorava dal latte. Infine, racchiuse il tutto donando al prodotto una caratteristica chiusura apicale. Nasceva così la prima Burrata di Andria, che a distanza di quasi un secolo, continua a rappresentare una delle espressioni gastronomiche più apprezzate della terra pugliese, simbolo di quel saper fare artigianale capace di partorire un'eccellenza da un problema. Problem solving ante litteram, se vogliamo.  

Un'accortezza, però: “La vera Burrata (la B maiuscola è d’obbligo in quanto trattasi di formaggio specifico e non generico) è esclusivamente quella di Andria, oggi riconosciuta con l’indicazione geografica protetta IGP, dotata dunque di un disciplinare di produzione che definisce la qualità delle materie prime e le caratteristiche organolettiche, le modalità di produzione nel rispetto della tradizione casearia andriese e prevede la completa tracciabilità a garanzia dei consumatori sull’origine e sulla qualità del prodotto”, come spiega Francesco Mennea, direttore del Consorzio di tutela della Burrata di Andria IGP. Una realtà costituita nel 2017 per valorizzare e promuovere questo prodotto caseario, ma anche per proteggerlo e differenziarlo dalle tante imitazioni che nel tempo sono nate sia all’estero che in patria (dalle simil burrate pugliesi prodotte in Emilia, fino a quelle catalane, colombiane, statunitensi,  lituane e così via).

Dunque, quando si parla di Burrata Igp,  si parla di un formaggio fresco specifico e non di una preparazione gastronomica, come spesso si vede in tavole (anche pugliesi) con scenografiche “burrate” ripiene di orecchiette al sugo. Del Consorzio fanno parte 14 aziende di piccole, medi e grandi dimensioni (l’elenco completo è sul sito del Consorzio): l’area di produzione è l’intera Puglia (quindi non solo Andria) ma per avere il riconoscimento IGP la produzione deve seguire rigorosamente le fasi previste dal disciplinare. 

Come si prepara la burrata?

Gli ingredienti previsti dal disciplinare di produzione sono: latte, fermenti (o siero innesto o acidi alimentari citrico o lattico), caglio e panna. Il resto lo fa l'artigianalità della lavorazione e la bravura del mastro casaro. Partendo da un latte di qualità, attraverso la sua acidificazione e successiva coagulazione si giunge alla cagliata, il coagulo alla base di tutti i formaggi. Questa viene poi ridotta in piccoli grumi della dimensione di una nocciola e, aggiungendo acqua bollente, si inizia la lavorazione della pasta. Grazie all’alta temperatura dell’acqua (circa 85/90°) la pasta comincia a filare, e viene poi salata e lavorata per raggiungere il grado di elasticità voluto dal mastro casaro; a questo punto si realizza una “fettuccia” (una sfoglia di pasta spessa qualche millimetro) che verrà “sfilacciata” e rotta manualmente, ottenendo dei sottili filamenti detti “lucini”. Questi, aggiunti alla crema di latte, costituiranno il ripieno della Burrata, ossia la “stracciatella”. Dalla stessa pasta filata lavorata si andrà a formare l'involucro esterno (“il sacchetto”) dello spessore di circa 2 millimetri che verrà riempito con la stracciatella e poi richiuso all’apice, saldato con acqua bollente o chiuso con steli di rafia alimentare, ed immerso in acqua fredda per rassodare. 

Le curiosità.

Non tutti sanno che quando fu inventata la Burrata di Andria, il “sacchetto” veniva soffiato a bocca, praticamente gonfiato come un palloncino, ma oggi tale operazione non è più possibile per ovvie ragioni sanitarie ed il sacchetto viene realizzato a mano o con l’uso di riempitrici ad aria. Inoltre, in passato il prodotto veniva avvolto con foglie di asfodelo, tipica pianta della Murgia, e sempre per il rispetto dei regolamenti sanitari questo  tipo di confezionamento non è più possibile, pertanto nel confezionamento si utilizzano foglie finte di asfodelo in ricordo di questa antica tradizione.

Le ricette degli chef.

Non solo Puglia, anzi: la Burrata di Andria ha varcato i confini regionali per entrare sempre di più nelle cucine italiane e internazionali. Utilizzata tanto nei ristoranti tradizionali quanto in quelli gourmet, è continuo oggetto omaggi, declinazioni particolari o semplicemente ingrediente utile a conferire quei tipici sentori di lattico fresco, crema e burro, a ricette complesse. Solo per fare qualche esempio celebre, da Nord a Sud dello Stivale: Antonio Guida, tricasino doc e pugliese nel cuore, nonché bistellato al Seta dell'Hotel Mandarin di Milano, con le sue Lumache, crema di erbe, burrata e fiori di zucchina; Heinz Beck con il Saccottino di burrata con pesto di erbe e fragranza di lemon balm (lo chef tedesco nella sua esperienza inglese - conclusa - al Beck at Brown's  proponeva anche l'antipasto  a base di Burrata di Andria IGP con zucchine fritte in carpione); Raffaele Ros del ristorante San Martino a Scorzé (Venezia), tra le cucine di mare più interessanti della provincia veneziana, con le sue Capesante tostate al burro di cacao su letto di carciofi, pralina di Burrata; e poi Tony Lo Coco del ristorante I Pupi di Bagheria con il suo Ricordo di Anelletti al forno riempiti con burrata e un ragù di tonno ccuinato come quello di carne, con alloro e noce moscata. Andando fuori patria, si approda a SoHo, nel cuore di Manhattan dove chef Philip Guardione ha conquistato non pochi palati  con i Fusilli, Burrata e scampi nel sui ristorante Piccola Cucina.  

La versione di Pietro  

Non si può concludere però senza un omaggio alla Burrata di Andria da parte di uno chef che all'ombra del Castel del Monte da anni porta in alto la cucina pugliese. Pietro Zito, il cuoco contadino, nel corso della sua lunga carriera con il ristorante Antichi Sapori ha spesso utilizzato in cucina questo prodotto caseario. Ecco la sua ricette delle Orecchiette con favetta, olive dolci nere e burrata di Andria.

Ingredienti (per 4 persone): 

g. 300 di orecchiette, g. 500 di fave secche, g. 300 di olive nere dolci, g. 100 di burra- tina di Andria, g. 40 di pomodorini, olio, sale, pepe e aglio q.b., alloro in foglie, g. 50 di sedano, g. 50 di carota, g. 50 di cipolla. 

Procedimento:

Cuocere in un tegame le fave secche sgusciate (lasciate a mollo il giorno prima) con gli aromi sopra elencati. Quando le fave si saranno cotte, eliminare tutti gli aromi e frullarle al mixer con olio extravergine d’oliva formando una crema, detta appunto favetta, che terremo in caldo. A parte, in una pentola con abbondante acqua salata, cuocere le orecchiette per circa 5 minuti, scolarle e saltarle in padella con la favetta aggiustando di sale e pepe. Servire le orecchiette aggiungendo le olive nere dolci denocciolate e saltate anch’esse precedentemente in padella e burrata di Andria tagliata a pezzi. Servire con abbondante olio extravergine novello e amalgamare il tutto. 

Gemma Gaetani per “La Verità” il 28 maggio 2022.

Il pecorino stagionato è un formaggio ovino, ossia di latte di pecora. Latte che è più ricco di grasso e caseina di quello vaccino e per questo connota anche il formaggio con un gusto diverso da quello di Parmigiano reggiano o Grana padano. Quando parliamo di formaggi da grattugia, a pasta dura e semidura da grattugiare sopra un primo piatto fumante, noi italiani pensiamo in primo luogo a questa coppia, ma anche il pecorino «lotta e condisce molti primi insieme a noi».

Insieme, infatti, parmigiano, grana e pecorino costituiscono una triade di straordinaria eccellenza tricolore e Dop, dal grandissimo apprezzamento e dall'imponente consumo in Italia e all'estero. Alcuni formaggi sono disponibili a un solo livello di stagionatura. Non è il caso del pecorino, per il quale, oltre all'uso grattugiato, ci può essere quello da tavola.

Una fetta di pecorino più fresco non ha nulla da invidiare a una di altri formaggi dalla simile stagionatura breve. La stagionatura determina il livello di densità della pasta del formaggio. La pasta del formaggio è tutto il formaggio crosta esclusa e la sua consistenza varia in base alla quantità d'acqua contenuta e al periodo di stagionatura. La pasta semidura presenta acqua tra 36% e 45% e ha subito una stagionatura media da 1 a 6 mesi. 

Con meno acqua, dal 30 al 36%, massimo 40, e stagionatura lenta da 6 a 12 mesi abbiamo la pasta dura e poi pasta extradura per stagionatura oltre 12 mesi. La stagionatura, anche detta maturazione, è un processo di riposo in ambiente umido, la cantina o il magazzino, che fa fermentare gli zuccheri e degrada grassi e proteine.

Può avvenire anche in grotta o fossa, infatti c'è anche il pecorino di fossa. La pasta molle, quella del formaggio fresco, «stagiona» meno di 30 giorni, contiene fino all'80% di acqua e non ha crosta. Nel caso del pecorino è il livello «tuma», non salato e non stagionato che va consumato entro una settimana. La tuma invece subito salata e poi stagionata circa 30 giorni dà luogo al pecorino «primosale». 

Il pecorino che stagiona almeno 4 mesi si chiama «secondosale» ed è un semistagionato; il pecorino che stagiona ulteriormente si dice stagionato.

Conoscere le stagionature può sembrare un vezzo inutile, ma ci sono ricette per le quali è più adatto un pecorino poco stagionato, per esempio le pallotte cacio e ova abruzzesi; altre per le quali, come i tonnarelli cacio e pepe romani, va bene qualsiasi stagionatura ma, ai fini di un buon risultato, posto un diverso grado di stagionatura, cambia la preparazione e per ottenere la famosa «cremina» della cacio e pepe occorrerà più o meno acqua a seconda che si voglia liquefare un pecorino semiduro, duro o extraduro, i quali hanno un livello progressivamente maggiore di proteine e grassi e inferiore di acqua.

Nel Lazio e in Sardegna non si mangia solo pecorino, anzi. Ma quando si nomina il pecorino si pensa sempre a quello laziale e a quello sardo. In Italia ce ne sono molti altri. Abbiamo ben otto Dop: Pecorino romano, Pecorino toscano, Pecorino sardo, Pecorino di Filiano, Pecorino crotonese, Pecorino di Picinisco, Pecorino siciliano e Pecorino delle Balze volterrane.

Poi, ci sono quelli che rientrano nell'elenco dei presidi Slow Food, come il Pecorino della montagna pistoiese, o in quello dei prodotti agroalimentari tradizionali (Pat) del ministero delle Politiche agricole e forestali come il Pecorino dell'Appennino reggiano: sì, pensare che il pecorino sia una produzione solo dell'Italia centromeridionale e insulare è uno stereotipo, c'è anche al Nord. Le tre Dop più diffuse e conosciute restano tuttavia il Pecorino romano, quello sardo e il toscano. Hanno la caratteristica di essere il prodotto di un territorio specifico, ma due di questi sono fatti con latti di più territori.

Il Pecorino romano è prodotto in Sardegna per il 97%, in Toscana per il 2% (nella sola provincia di Grosseto) e nel Lazio per l'1%. Il Pecorino toscano è prodotto in Toscana, Umbria e Lazio. La Dop è l'etichettatura più rigorosa in termini di collegamento della materia prima con il territorio. 

Territorio ovviamente nazionale, che però non è la via dietro casa e a volte va inteso in senso più esteso del chilometro zero, ovvero come territorio transregionale. Il caso del Pecorino romano, cioè laziale fatto con latte sardo, è un esempio di estensione del chilometro zero nel Dop. Il motivo di questa estensione è la connessione storica tra i due territori, una tradizione che la Dop replica e perpetua. Applicando ottusamente il concetto di chilometro zero, cadiamo nel determinismo alimentare per cui si può mangiare solo quello che cresce o si alleva accanto a noi. 

Questa è, tra l'altro, una delle critiche che viene fatta al Dop da chi lo accusa di eccessiva chiusura. Ma, come è evidente, non sempre il Dop produce a «chilometro letteralmente zero» e questo accade, attenzione, per rispettare la tradizione, non per «truffare» il consumatore. Il pecorino romano era prodotto e consumato già dagli antichi Romani. Ma nel 1884 fu introdotto il divieto di salagione all'interno delle mura capitoline e così molti casari romani, costretti a trasferirsi, scelsero proprio la Sardegna. 

Lì, in poco tempo, il loro pecorino divenne più abbondante del fiore sardo pastorale. L'estensione sarda del pecorino romano è, quindi, storia. La Dop è del 2001. Il disciplinare una volta prevedeva una doppia dicitura, «Pecorino romano dop genuino» e «Pecorino sardo romano». Poi si è abolita la distinzione. Ora c'è solo la dicitura «Pecorino romano del Lazio» su quello fatto nel solo Lazio e i produttori che si trovano nel Lazio sono pochissimi, rispetto agli anni Sessanta e Settanta quando erano una quarantina, ma ci sono.

Parafrasando la teoria che fu di Don Giovanni riguardo alla varietà femminile con la quale si intratteneva, moltitudine che confliggeva con l'esclusività necessaria al sentimento, teoria racchiusa nella frase (del libretto di Da Ponte per il Don Giovanni di Mozart) «È tutto amore», di fronte ai vari pecorini si potrebbe affermare che... sia tutto pecorino allo stesso modo. In parte è vero, in parte no. Il Pecorino sardo ha due varianti, dolce o maturo. Il dolce ha crosta sottile e chiara, pasta bianca, consistenza morbida ma compatta da tagliare agevolmente con il coltello, sapore dolce, stagionatura da 20 a 60 giorni. Il maturo stagiona oltre 2 mesi, ha crosta più grossa e più bruna, pasta più chiara dal sapore forte e leggermente piccante, consistenza friabile.

Il Pecorino romano è a pasta dura, con crosta avorio e interno compatto e bianco, sapore più o meno piccante a seconda della maturazione, che dura minimo 5 mesi per la variante da tavola, fino a diventare piccante intenso nella varietà da grattugiare, stagionata ben 8 mesi, è più salato dei suoi parenti nazionali. 

 Il Pecorino toscano invece ha consistenza tenera o semidura e sapore più dolce e delicato dei precedenti due anche nella variante stagionata, mai piccante neanche a stagionatura molto avanzata. Con il 35% di proteine, il pecorino può essere anche un ottimo secondo piatto, essendo le proteine animali ricche di aminoacidi essenziali: è una valida alternativa - o compendio - della carne.

Lo sapevano i legionari romani che avevano diritto a una razione di pane e farro con 1 oncia (28 grammi) di pecorino per acquistare vigore ed energia. 100 grammi di pecorino presentano 383 calorie, se è fresco, e 418 se è stagionato. Il pecorino è ricco di calcio (600 milligrammi in un etto), che aiuta lo sviluppo e il mantenimento - si pensi alle donne in menopausa e gli anziani e al rischio osteoporosi - di ossa e denti forti e la funzionalità di muscoli e nervi, oltre che a dormire meglio.

 Importante anche il fosforo, 590 milligrammi, cioè oltre l'80% della razione giornaliera consigliata (anche il fosforo è di ausilio per denti e ossa e riduce l'affaticamento muscolare) e, tra le vitamine, spiccano la B2, 0,47 milligrammi ossia il 36% della razione giornaliera consigliata (aiuta la formazione di globuli rossi e di anticorpi), e la vitamina A retinolo equivalente, 380 microgrammi cioè il 40% della Rda (che aiuta la vista, innanzitutto, poi i tessuti e l'immunità). Se volete un pecorino particolare, valutate il Piacentinu ennese, anch' esso Dop, arricchito di zafferano - la pasta diventa gialla - e grani di pepe disponibile anch' esso come «primosale» (1 mese), semistagionatura (2-4) e stagionatura di oltre 4 mesi.

Pecorino reggino, un formaggio calabrese sulla vetta del mondo. Giuseppe Smorto su La Repubblica l'8 aprile 2022.

Prodotto da Fattoria della Piana, un progetto multietnico con dipendenti di 17 nazionalità differenti guidato da Federica Basile, ha vinto la medaglia d'oro per le nuove proposte al World Cheese Award.

Una vittoria al buio, una storia a colori. Oviedo, sezione innovazione ai World Cheese Award: ogni formaggio è un numero, i 250 giudici assegnano l’oro al “Pecorino Reggino”, stagionatura minima di 12 mesi, fatto con gli enzimi del Parmigiano e del Grana, e il latte di pecora da pascolo primaverile che arriva dalle prime colline dell’Aspromonte. Battuti 4078 concorrenti.

Alla “Fattoria della Piana” è festa: 112 dipendenti, appartenenti a 17 nazionalità diverse. Nel cuore della Piana di Gioia Tauro, nel minuscolo comune di Candidoni, a due passi da Rosarno, dove la stagione della raccolta degli agrumi vuol dire sfruttamento, prime forme di organizzazione sindacale e buona imprenditoria, la “Fattoria” è un piccolo modello. Federica Basile, 29 anni, è direttrice operativa e responsabile della distribuzione. Il marito Zeeshan Wadiwala, inglese di origini indiane, segue la produzione. Ma come sono arrivati fin qui? Federica ha studiato Economia e Management a Trento, poi al Trinity College di Dublino. Subito assunta ad Amazon, ha lavorato nel primo magazzino robotico di Europa, fino a diventare Operation Manager. In Amazon ha conosciuto Zeeshan e ora dice: “È stato lui a spingermi a tornare in Calabria”.

Lei è figlia di Carmelo Basile, oggi presidente della cooperativa. Lui arriva alla “Fattoria” da contabile. Dopo una visita in Germania nel 2008, mette su il primo impianto di biogas che oggi lavora gli scarti agricoli di tutte le aziende della zona, producendo concime ed energia. Convince il proprietario a non fermarsi a ricotte e mozzarella: il Monte Poro, terra del pecorino Dop è a due passi, anche se nella provincia di Vibo.

Seguono successi e sperimentazioni, una delle ultime è il Bergorino, formaggio al sapore di bergamotto, agrume che cresce solo in alcune aree del reggino, usato soprattutto per profumi e aromi, un limone nobile. Oggi la Fattoria raccoglie il latte di tutti i pastori della zona, esporta il 45% dei prodotti stagionati e il 20 per cento di quelli freschi.

Il “Pecorino Reggino” nasce invece nel momento più difficile, in quello che Federica chiama “periodo apocalittico”. “Nell’aprile del 2020 qui c’eravamo solo noi”. Insieme a Raffaele Barbalace, il casaro, che ha portato in azienda i due figli, provano e riprovano. “Va bene l’esame del laboratorio, ma nessuna analisi batte il suo occhio. Cercavamo un formaggio con un metodo di lavorazione simile a quello del Parmigiano, ma con un richiamo di dolcezza che potesse piacere di più alle giovani generazioni, pulito e di alta qualità”. 

Poi la partecipazione ai “Cheese Award” (“non è stata la prima”) e la vittoria assoluta nella categoria dei formaggi non ancora messi in commercio. “Ci piace pensarlo come un cugino di campagna del Grana.  Un successo che vale doppio anche per le difficoltà logistiche che affrontiamo ogni giorno, anche in termini di trasporti. Raccogliamo il latte di tutta la Calabria – dice Federica Basile – ma l’alto Jonio Cosentino è a tre ore da qui”. E poi la Piana: “Scene così in Inghilterra non le ho mai viste: migranti che aspettano all’angolo di essere ingaggiati per il lavoro a giornata. Altri in bicicletta che vagano da un paese all’altro”.

In Fattoria una coppia di lavoratori senegalesi ha già avuto due figli, il primo naturalmente si chiama Carmelo. Poi è arrivato un fratellino. Molti italiani sono già alla terza generazione in azienda. “E siamo giovani, la generazione delle sfide: io che ho 29 anni sono la seconda per anzianità. Nella mia esperienza, funziona molto bene l’alternanza scuola-lavoro: ragionieri, periti chimici hanno ottenuto un contratto dopo averla praticata”.

La Fattoria ha un impianto di fitodepurazione, i pannelli fotovoltaici e una data segnata in rosso per il mese di giugno: Federica e Zeeshan hanno invitato gli amici di scuola e quelli di Amazon per la festa di nozze. “All’ombra dei maestosi ulivi della Piana, arriveranno da tutto il mondo. Speriamo solo che non piova”. Anche se la pioggia fa bene ai pascoli.

La mozzarella di bufala campana e quella firma che è sigla di tradizione. Angela Leucci il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

La mozzarella di bufala campana presenta una "firma" molto speciale: è garanzia di una tradizione, della passione del casaro e il rimando a un'antica leggenda.

La mozzarella di bufala campana è una tipicità che riguarda tutto il territorio della Regione e, di frequente, anche delle aree limitrofe. Gli allevamenti di bufale sono infatti molto diffusi anche nel basso Lazio e nell’alta Puglia, oltre che in parte del Molise e della Basilicata.

Nonostante oggi le mozzarelle di bufala vengano prodotte e confezionate secondo standard a rigor di legge e con l’ausilio di tecnologie moderne, il rimando alla tradizione è molto forte.

Che cos’è la firma della mozzarella di bufala

Le bufale vengono allevate in Campania fin dal Medioevo. Ma i primi testi scritti ad attestare la produzione di mozzarella risalgono all’inizio del XIV secolo. Lo stesso nome viene da mozza, un tipo di formaggio che i frati offrivano ai visitatori: l’impasto di questo latticino si “mozza” infatti tra pollice e indice.

Una delle tradizioni più note è la “firma”. Prendendo in mano una mozzarella di forma rotondeggiante non si può non notare una sorta di cicatrice, una cucitura che cambia da caseificio a caseificio. Si tratta della firma del casaro, cioè della persona che ha realizzato il prodotto: per questo cambia lievemente da persona a persona. L’immagine che ne emerge è suggestiva: il casaro che immerge le mani nel siero caldo, estraendo l’impasto e lavorandolo, per poi chiuderlo con questa sigla, quasi a lasciare un messaggio affettuoso alla persona che consumerà la mozzarella.

Mozzarella di bufala, geografia della bontà 

La mozzarella di bufala può giungere sulla tavola in diverse forme, dai bocconcini alle “ciliegine”, fino alle trecce e i nodini. Di solito, una volta a casa, la si mette in un piatto insieme al liquido e si conserva a temperatura ambiente, anche per un giorno o due. Questo tipo di mozzarella ha una caratteristica: la goccia di latte che fuoriesce quando si stringe tra le dita.

Ma ciò che crea una differenza profonda tra una mozzarella e l'altra è l’origine della produzione. La ragione è semplice: in luoghi diversi, le bufale si nutrono di erbe o mangimi altrettanto diversi, pascolando su terreni che hanno una composizione unica. E quindi il latte da cui si ricava la mozzarella cambia in base non solo all’allevamento di provenienza ma anche in base alla conformazione del territorio in cui l’allevamento sorge. È per questo che una mozzarella dell’agro aversano può risultare ad alcuni palati più dolce e leggera rispetto a un’altra prodotta a Paestum, più sostanziosa e saporita. Per non parlare della scenografica Zizzona di Battipaglia, ma questa è - letteralmente - un’altra storia.

La leggenda della Zizzona

La città di Battipaglia è famosa per la sua Zizzona, una mozzarella che può arrivare a pesare 5 chilogrammi e che, nell'immaginario popolare, è collegata al seno femminile.

Secondo il mito, una ninfa di nome Bapti-Palia preparava le mozzarelle per gli dei, badando di mantenere il segreto su questa particolare produzione. Tuttavia, un bel giorno Bapti-Palia si innamorò di un pastore addormentato in riva al fiume, di nome Tusciano, donandosi a lui fisicamente e spiritualmente. Presa dall'amore, la ninfa rivelò al giovane il segreto della mozzarella: il pastore non lo tenne per sé, raccontandolo ai suoi concittadini. La punizione fu atroce: i due furono condannati in eterno a vagare per le paludi senza mai incontrarsi. In compenso, Bapti-Palia donò al genere umano la mozzarella di bufala campana.

Il Gorgonzola. Gemma Gaetani per “La Verità” il 12 marzo 2022.

Secondo il XIX Rapporto Ismea-Qualivita di pochi giorni fa, con oltre 5.250.000 forme prodotte e un volume d'affari al consumo di circa 800 milioni di euro, il gorgonzola è al quinto posto dei prodotti certificati Dop dell'agroalimentare italiano grazie a un aumento del 6,9% del valore economico nel 2020 rispetto al 2019 ed è il terzo formaggio di latte vaccino tra le 56 Dop casearie italiane.

La produzione italiana di gorgonzola si concentra in Piemonte con 3.700.000 forme circa prodotte nel 2021; segue la Lombardia con 1.530.000 forme. Ma come, si dirà? Il gorgonzola è lombardo, porta anche il nome della cittadina! Procediamo per gradi. Il gorgonzola (gorgonzoeula in lingua lombarda) è un rinomato formaggio erborinato a pasta cruda, da latte intero di vacca pastorizzato e crosta non edibile. Formaggio grasso, di un bel colore bianco, l'interno del gorgonzola è intarsiato dalla sua erborinatura. Con erborinatura si intende l'ammuffimento della pasta del formaggio che dà luogo a striature di colore blu e verde.

I formaggi sottoposti a maturazione di questo tipo si chiamano formaggi erborinati o a pasta erborinata, ma anche formaggi verdi o formaggi blu (in francese fromage bleu, in inglese blue cheese). Il nome deriva da erborin, prezzemolo in dialetto milanese. Guardando una fetta di gorgonzola, infatti, sembra di vederci inserite foglioline di prezzemolo: da ciò deriva il nome erborinatura, anche se l'erba non è causa dell'ammuffimento ma solo similitudine per la sua descrizione, essendo responsabile il fungo del genere Penicillium che si sviluppa durante la maturazione formando miceli colorati.

In passato, l'erborinatura che nel gorgonzola è determinata dal Penicillium era spontanea, ora si ottiene addizionando il latte di colture pure del fungo in questione prima della cagliata. 

Com' è accaduto a tanti cibi nel corso della storia, il procedimento di erborinatura sembra essere stato scoperto in modo completamente accidentale: una particolare umidità e temperatura delle grotte favorì la proliferazione di muffe. Non si sa esattamente quando: il gorgonzola viene datato all'anno 879, ma pare che non contenesse venature colorate prima dell'undicesimo secolo. Il roquefort venne inventato nel 1070, mentre lo stilton comparve la prima volta nel diciottesimo secolo: molti erborinati nacquero come alternativa al roquefort, tanto richiesto quanto costoso.

Le prime tracce del gorgonzola nella città di Gorgonzola da cui il nostro prende il nome risalgono al quindicesimo secolo. Leggenda narra che un mandriano, arrivato a Gorgonzola, mise in un recipiente del latte cagliato e, non avendo con sé l'attrezzatura per lavorare il formaggio, il mattino successivo vi aggiunse un'altra cagliata, poi si accorse di aver ottenuto un formaggio a cui quelle venature verdi davano molto sapore.

Nell'Ottocento la produzione del gorgonzola crebbe, iniziò a essere esportato in altri territori italiani e anche in Inghilterra: da Gorgonzola, provincia di Milano, le zone di produzione storica si espansero al resto della provincia milanese e poi a quelle di Como, Pavia e Novara. Infine, ecco la risposta al dilemma lombardo-piemontese di cui sopra, quest' ultima nel ventesimo secolo ne è diventata la massima produttrice italiana. Nel 1996, lo zola è stato riconosciuto dalla Comunità europea e registrato nella lista dei prodotti a denominazione di origine protetta Dop, con regolamento Cee 1107/96.

Ogni forma pesa 12 chili, deve riportare su entrambe le facce il marchio di origine ed essere avvolta in fogli di alluminio con il contrassegno caratteristico della denominazione protetta «gorgonzola». Può essere prodotto solo in Italia, nello specifico nelle regioni Lombardia e Piemonte, nelle province di Bergamo, Brescia, Biella, Como, Cremona, Cuneo, Lecco, Lodi, Milano, Monza-Brianza, Novara, Pavia, Varese, Verbania-Cusio-Ossola, Vercelli e alcuni comuni dell'Alessandrino.

Il gusto del formaggio erborinato è dolce e pungente insieme. Il gorgonzola esiste dolce e più piccante, il primo ha pasta più molle e cremosa rispetto alla semidura del secondo. Anche il suo odore è ambivalente e deriva sia dalla pasta, sia dai batteri come il Brevibacterium linens, che si trova anche sulla pelle umana ed è in parte responsabile del suo odore, in particolare dei piedi.

Quando si dice che i formaggi erborinati ricordano l'odore dei piedi o di altre parti del corpo, beh, è vero. E scientificamente spiegabile. In un articolo sul British medical journal del 1996 dedicato agli entomologi Bart Knols e Ruurd De Jong e alle loro ricerche sulle zanzare, Bernard Dixon ha scritto: «Un soffio di vento sul treno della sera ti dice che la persona seduta di fronte a te ha i piedi sudati. In una salumeria, lo stesso odore può essere un gradito benvenuto, l'indicazione che si sta arrivando al banco dei formaggi. Knols e De Jong pensano a un altro uso per l'odore che emana allo stesso modo dai piedi non lavati e dal delizioso formaggio. Gli entomologi olandesi pensano di sfruttarlo per intrappolare le zanzare e aiutare a combattere la malaria».

Il formaggio gorgonzola Dop per essere definito tale deve rispettare il disciplinare di produzione che, tra altro, prevede che si possa usare esclusivamente latte vaccino pastorizzato. Nessun altro latte. Il Consorzio per la tutela del formaggio gorgonzola sensibilizza anche su questo: «Il "gorgonzola di bufala" o il "gorgonzola di capra" non possono esistere! Esistono ottimi formaggi erborinati prodotti con altre tipologie di latte, ma gorgonzola non è sinonimo di erborinato», scrive sul suo sito Internet. 

L'unico formaggio la cui denominazione può contenere il nome «gorgonzola» è esclusivamente il gorgonzola Dop, etichettato e certificato tale.

Dal punto di vista nutrizionale e salutistico, 100 grammi di gorgonzola Dop contengono 314 calorie, 27 grammi di grassi di cui 19 saturi, 6,1 monoinsaturi e 0,7 grammi polinsaturi. Poi nessun carboidrato, 18 grammi di proteine, un contenuto di sale nemmeno eccessivo (1,6 grammi) e sono rilevanti il calcio, 530 milligrammi, il 66% della razione giornaliera consigliata, e il fosforo, 280 milligrammi, il 40%.

Il gorgonzola fornisce anche quantitativi rilevanti di vitamine A, B2, B6 e B12, necessarie al funzionamento del sistema nervoso e immunitario e alla formazione dei globuli rossi, ma spicca l'apporto di calcio, che contribuisce alla normale funzione muscolare e al mantenimento in salute di denti e ossa, e di fosforo, fondamentale per il metabolismo energetico. Non molti sanno che il gorgonzola è uno dei formaggi più digeribili che ci siano. 

Il suo Penicillium, infatti, svolge attività proteolitica cioè di degradazione delle proteine, che non già parzialmente degradate sarebbero notoriamente lunghe da digerire (i normali tempi di stazionamento nello stomaco sono 1-2 ore per i carboidrati, 3-4 ore le proteine, 5 e più ore i grassi). Il gorgonzola risulta essere un formaggio leggero, dal punto di vista dell'assimilazione, anche per la presenza pressoché irrilevante di lattosio.

L'organismo digerisce il lattosio, lo zucchero tipico del latte in esso presente nella proporzione del 5%, tramite l'enzima lattasi la cui attività in alcuni può essere diminuita o molto compromessa per predisposizione genetica, problematiche intestinali temporanee oppure a causa dell'età: consumare formaggi che maturando perdono lattosio aiuta a evitare gli spiacevoli effetti della digestione del lattosio in assenza di lattasi performante, come la fermentazione del lattosio da parte della flora batterica con conseguente produzione di gas, gorgoglii e dolori addominali.

Il gorgonzola Dop contiene tracce di lattosio o quantitativi inferiori a 0,1 grammi per 100 grammi di prodotto, conseguenza naturale del tipico processo di produzione, perché durante la stagionatura il lattosio è consumato dai batteri lattici. Il gorgonzola è poi prodotto senza alcun additivo o conservante e parrebbe essere efficace anche contro l'ipertensione: durante la caseificazione e la stagionatura la degradazione delle proteine del latte forma i cosiddetti «peptidi bioattivi» che hanno attività oppioide-simile, svolgono un effetto regolatore delle funzioni gastrointestinali e presentano attività anti ipertensiva e anti trombotica perché sono in grado di inibire alcuni enzimi coinvolti nella regolazione della pressione arteriosa. 

La ricotta. Gemma Gaetani per "la Verità" il 5 Febbraio 2022.

Si è abituati a guardarla come formaggio dietetico o ripieno per ravioli, cannelloni e tanta altra pasta. Va detto invece che la ricotta secondo la normativa italiana non è un formaggio, bensì un latticino, perché non si ottiene dalla coagulazione della caseina, come è per i formaggi, ma dalla coagulazione delle proteine del siero di latte, cioè la parte liquida che si separa dalla cagliata durante la caseificazione (la ricotta è a tutti gli effetti un antichissimo prodotto di recupero). 

Quanto alla ricotta utilizzata come ingrediente da ripieno, la bella tela del grande pittore cinquecentesco Vincenzo Campi I mangiatori di ricotta, conservata nel Musée des beaux-arts di Lione, mostra come essa non serva solo a farcire, ma si mangi anche in purezza, a cucchiaiate (il mangiatore con la bocca piena somiglia incredibilmente al cantante Fedez), e si configuri, quindi, come latticino fondamentale nell'alimentazione in generale umana, certamente italiana.

Si potrebbe a questo punto osservare come i mangiatori dipinti da Campi siano in realtà popolani, rappresentino «i poveri», non la popolazione universale, ma questa concezione classista di formaggi e similari è stata ribaltata da un bel pezzo.

POVERA MICA TANTO

È quanto scrive Massimo Montanari nel libro Il sugo della storia, edito da Laterza: «Anticamente il formaggio era rappresentato come un cibo povero, da pastori e da contadini, escluso (salvo eccezioni) dalla mensa aristocratica. Nel Medioevo le cose un po' alla volta cambiarono, anche perché l'obbligo fatto dalla Chiesa di astenersi dalla carne in certi giorni della settimana e in certi periodi dell'anno accrebbe, di fatto, l'importanza dei cibi sostitutivi come il pesce, le uova o, appunto, il formaggio. 

Soprattutto i monaci benedettini (per i quali l'astinenza dalla carne era una regola di vita) promossero lo sviluppo e la diversificazione delle tecniche di produzione dei latticini. Questo portò non solo a un miglioramento qualitativo dei prodotti, ma anche a un cambiamento della loro immagine: i formaggi cominciarono a essere percepiti come un cibo raffinato, adatto anche alle tavole di prestigio». 

E la ricotta, anche per il basso apporto calorico, oggi è feticcio e alimento dei buongustai e di chiunque tenga alla linea, di classe alta, bassa o media che sia. Dicevamo che per le norme commerciali la ricotta non è un formaggio. Per il gusto comune, però, e per la classificazione non precisamente commerciale, la ricotta è un formaggio di siero di latte. 

Atlante dei formaggi di Tristan Sicard (Guido Tommasi editore) spiega che «essendo molto umidi (82% di umidità) i formaggi di siero di latte brillano alla luce» e che «questi formaggi sono nati in aree montuose o isolate dove era importante (perfino vitale!) non perdere nessuna materia prima che potesse nutrire le famiglie. Il nome varia ma il prodotto rimane lo stesso».

 Le ricotte francesi sono la recuite, il greuilh, il sérac, la corsa il brocciu, la spagnola requesón, la maltese rikotta, la tedesca Ziger, la canadese neige de brebis, la greca manouri, myzíthra, anthótyros, la rumena urd.Quanto alle nostre ricotte col «pedigree», esse sono innanzitutto la ricotta di bufala campana, Dop dal 2010, e la ricotta romana, anch' essa Dop dal 2005:  «Nel II secolo a.C.», si legge ne I formaggi d'Italia, guida pubblicata da L'Espresso, «Catone il Censore regolamentò la pastorizia nella Roma repubblicana: il latte di pecora doveva essere utilizzato per scopi religioso-sacrificali e alimentare la caseificazione, dal cui siero si poteva ricavare la ricotta. Le tecniche casearie di questo latticino furono anticamente descritte anche da Columella e la successiva diffusione si dovrebbe imputare niente di meno che a San Francesco d'Assisi, che, durante i suoi pellegrinaggi, avrebbe insegnato come produrla ad alcuni pastori». 

COME SI PREPARA

Poi ce ne sono tante altre, come la ricotta stagionata nel fieno delle valli valdesi torinesi, detta saras del fen, presidio Slow food, o la puina 'nfumegata bellunese, che vanta il bollino di prodotto agroalimentare tipico. Ingrediente di tanti dolci e piatti tradizionali, la ricotta esiste non solo fresca, ma anche stagionata, infornata, affumicata, salata (quella secca si grattugia sulla pasta come se fosse parmigiano o pecorino, per esempio nella pasta alla norma siciliana oppure negli anellini alla pecorara abruzzesi). 

La ricotta si chiama così perché, dopo aver scaldato una prima volta il latte per ottenere il formaggio, si ricuoce il residuo della cagliata, cioè il siero, a 80-90 °C. La ricotta si può produrre con o senza aggiunta di acidificanti, che aiutano la coagulazione. Anticamente, infatti, si riscaldava solo il siero: le proteine del latte in esso contenute si aggregavano in fiocchi bianchi che, affiorati in superficie, venivano raccolti con una schiumarola e poi posti in cestelli forati di vimini o canne perché sgocciolassero e si compattassero nelle tipiche forme della ricotta. 

Il siero residuo, denominato «scotta», si usava come mangime per gli animali (oggi, per estrarre il lattosio). Si sviluppò poi una tecnica di acidificazione naturale che usava la scotta del giorno prima, lasciata inacidire 24 ore, detta «scotta acidificata» o «agra», come catalizzatore del siero riscaldato per produrre la ricotta. Ancora oggi qualche piccolo produttore artigianale pratica questo metodo. Si sono poi sviluppate tecniche di sfruttamento della reazione di saturazione salina, prima con acque naturalmente saline come quelle marine, oggi coi sali per ricotta.  

Che talvolta sono sostituiti dal sale amaro o da altri catalizzatori acidi come l'acido citrico. In alcune zone della Sicilia, della Toscana e della Calabria, si usano anche la linfa di fico (in passato, molti formaggi si realizzavano con latte di fico estratto dai rametti che ne erano pieni dopo il risveglio primaverile) o il fiore del cardo, sfruttandone le proprietà coagulanti: è il caglio vegetale, che oggi sta tornando in voga.  

I VALORI NUTRIZIONALI

La ricotta più canonica è quella di mucca che con 125 calorie ogni 100 grammi è la più magra: 9 grammi di proteine, 1 di carboidrati, 9 di grassi. Saliamo con la ricotta di pecora: 174 calorie, 11 grammi di proteine, 3 di carboidrati e 13 di grassi, praticamente pari con la ricotta di capra, che ha 175 calorie, 11 grammi di proteine, 3 di carboidrati e 13 di grassi. Saliamo ancora con la ricotta di bufala, fatta col siero residuo della produzione dell'omonima mozzarella: qui le calorie sono 212, le proteine 11 grammi, i carboidrati 3,7 e i grassi 17. 

Secondo il disciplinare di produzione, nella preparazione della ricotta di bufala si può aggiungere al siero latte o panna di bufala rispettivamente in misura massima del 6% e del 5% della massa dal siero (anche la ricotta romana Dop permette l'aggiunta di latte di pecora nella misura massima del 15% sul volume del siero). Il presidente del Consorzio di tutela della ricotta di bufala campana Dop ha appena annunciato la nascita della versione light e di quella senza lattosio «con l'obiettivo di avere un prodotto che sia sempre di più al passo con le esigenze dei consumatori». 

Ma pur consumando ricotta di bufala non light, la media dell'apporto calorico della ricotta è comunque bassa, circa 170 calorie, ragion per cui quella che gli antichi romani chiamavano recocta diventa sempre di più un secondo piatto o una merenda adatta all'alimentazione basata sul «fit food», il cibo molto proteico, poco grasso, poco glucidico (l'indice glicemico della ricotta è basso: 30), amico della linea.

Il Pecorino. Giacomo A. Dente per “il Messaggero” l'1 marzo 2022.  

«Il Pecorino è troppo buono. Talmente buono che noi ad Anzio lo abbiniamo anche a molti piatti di pesce», taglia corto sul tema Walter Regolanti, lo chef di Romolo al Porto, interprete insuperabile del mare in tutte le sue declinazioni. «Solo per citarne alcune», continua Regolanti «il Pecorino è fondamentale negli spaghetti con le alici, nei maltagliati con falsa trippa di gallinella (che noi chiamiamo coccio), nel ripieno delle acciughe fritte e dorate, e persino nella minestra di pesce povero passata».

Anche ad altra latitudine, a Bagno di Romagna, Paolo Teverini, uno dei padri nobili della riscoperta del pecorino di fossa non disegna di proporre in carta uno spaghettone cacio e pepe con ragù di scorfano, e Max Mariola, noto chef tv, adora l'abbinamento di cozze e pecorino con la pasta.

Alberto Marcomini, premiatissimo guru dei formaggi, oltre che autore di moltissimi libri sull'argomento è un amante del pecorino, «di tutti i formaggi di pecora, e non solo italiani - precisa - tra i capolavori degli altri mi vengono in mente l'Esquirrou dei Pirenei francesi, unico per profumi e sapore, o anche, sempre in Francia un top assoluto degli erborinati come il Roquefort, per non parlare del Manchego spagnolo.

L'Italia, nella sua parte appenninica, ma non solo, presenta condizioni perfette per l'allevamento della pecora: razze diverse, alimentazioni diverse, sapori diversi. Non a caso non esiste un altro Paese al mondo con una produzione così vasta e differenziata. Ci si può sbizzarrire con l'elegante Toma di Murazzano piemontese, col Picinisco della Ciociaria dal sapore dolce e dai profumi di pascolo, col delicato Rosso di Pienza trattato in superficie con conserva di pomodoro, o ancora con la Vastedda siciliana, unico pecorino a latte crudo e a pasta filata derivato dalla razza del Belice». 

Inutile dire che il pecorino romano, dop dal 1996, merita un discorso a parte. Non è infatti a tutti noto che è nella Sardegna del mitico Fiore Sardo che risiede, più precisamente a Macomer nel nuorese, il consorzio di tutela.

Le ragioni sono molteplici, una anche storica, secondo la quale nel 1884 Leopoldo Torlonia emanò un decreto col quale proibiva la salagione in città, col risultato che nel tempo si produsse uno spostamento progressivo di produzione verso la Sardegna. Alessandro Roscioli, festeggia quest' anno due anniversari importanti: 50 anni di vita del forno di famiglia e 20 della salumeria bistrot, indirizzo indispensabile per trovare le migliori selezioni di prodotti di nicchia, ma anche per gustare il poker dei classici romani dove il pecorino è legge: gricia, amatriciana, cacio e pepe e carbonara.

«Occhio, però, a non essere dogmatici con questo formaggio: il pecorino non lo è, anzi è talmente amichevole, che si presta alla compagnia col Parmigiano, per ammorbidire i sapori. Sulla amatriciana, ad esempio, il pecorino di Amatrice, meno sapido, ma anche quello di Moliterno, forte e soave, possono regalare sapori più bilanciati. Sulle fave della scampagnata di primavera, invece, Pecorino Romano per sempre». Da non mancare una sosta da Cugusi, produttore eccelso di Pienza, che predispone cesti da picnic e tavolini per gustare i suoi prodotti.

Walter Regolanti col fratello Marco tiene saldo il timone di questo storico indirizzo del portodi Anzio. Difficile trovare in Italia un altro luogo dove l'alta cucina non sia un percorso esoterico per pochi, ma luogo di gioia anche per grandi numeri, con presentazioni accuratissime, cotture cronometriche, invenzioni convocanti, carta dei vini sterminata. Dopodiché sarà viaggio e avventura, dai crudi di pesce marinato in estratti di frutta e verdura aromatizzati ai maltagliati coccio e pecorino.

Facciamo i conti con i buchi del parmigiano. CARLO GUTTADAURO, ALBERTO GRANDI Il Domani il 18 luglio 2022

La storia del Parmigiano sembra molto semplice e lineare dal medioevo ai giorni nostri, ma le apparenze spesso ingannano.

Da Boccaccio a Napoleone tutti sono convinti che il formaggio si faccia a Parma, ma quasi sempre non è così.

Già nel XV secolo la produzione di qualità si sposta a Piacenza e in Lombardia. Dalla fine del XVII secolo alla metà del XIX secolo a Parma la produzione di formaggio sparisce del tutto. Il nome si è conservato grazie al commercio e alla logistica.

I MILLE GIORNI CHE FANNO IL MIRACOLO. La Repubblica il 23 Febbraio 2022.

Dal latte migliore al Parmigiano Reggiano. Un capolavoro che diventa realtà grazie al tempo e alla cura. Una magia frutto degli animali, degli uomini e del territorio

Quanta vita passa in 36 mesi?

"Che cos'è dunque il tempo? - si chiedeva duemila anni fa Agostino da Ippona - se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so più". Da sempre infatti filosofi e scienziati tentano di definire il tempo ma nessuno è ancora riuscito a dare una risposta. Per Platone, il tempo è l’immagine mobile della realtà, per Kant il tempo è una forma a priori della sensibilità umana. Beh, direbbe un gourmet, se il tempo è una forma, è quella del Parmigiano Reggiano. 

Grazie al processo di stagionatura – ossia un’attesa silenziosa e paziente che le stagioni facciano il loro corso – il tempo diventa qualcosa di tangibile, materico e anche saporito. 

Lo scorrere del tempo si osserva, si annusa, si assaggia nelle scaglie del formaggio a seconda delle diverse stagionature. E come un uomo o una donna che esprimono la loro maturità nel viso, nei sentimenti o nelle parole, il Parmigiano Reggiano si esprime con consistenze, aromi e sapori in evoluzione. Tutto sta nel coraggio di saper aspettare: atteggiamento ben noto ai produttori di Parmigiano Reggiano che sanno attendere anche anni prima di assaggiare il loro formaggio. 

La stagionatura minima del Parmigiano Reggiano è di 12 mesi, ma è intorno ai 24 mesi che raggiunge la maturazione adatta a esprimere le sue caratteristiche tipiche e può stagionare anche oltre i 48 mesi. Mentre le forme attendono, una accanto all’altra, grazie all’azione degli enzimi liberati dai batteri lattici, le proteine vengono scomposte in pezzi più piccoli, in peptidi e in amino-acidi liberi, mattoni base della catena proteica. Questa azione di scomposizione proteica (proteolisi) determina le proprietà strutturali e sensoriali del Parmigiano Reggiano e la sua alta digeribilità. 

A 12 mesi il Parmigiano Reggiano è delicato e sa di latte fresco, yogurt, burro, accompagnati da qualche nota vegetale. Attorno ai due anni diventa armonico, con un buon equilibrio tra sapidità e dolcezza, note di burro fuso e di frutta fresca come banana e ananas. La sua consistenza è friabile e granulosa. 

E poi? 36 mesi, 1000 giorni, 3 anni. In tre anni, ci si laurea, si impara bene una nuova lingua, ci si innamora e disinnamora. A tre anni i bimbi e le bimbe iniziano a chiedere "perché?" e vogliono conoscere ed esplorare il mondo. Il Parmigiano Reggiano 36 mesi ha un profumo intenso e spiccano sentori di spezie e di affumicato, il suo colore è giallo ambrato e brilla di cristalli di tirosina. Il tempo è sempre un galantuomo, vale la pena aspettare? Sempre, sì! 

Jessica Rosval e le stagionature del Parmigiano Reggiano

Nel 1967 Anna Gosetti della Salda pubblicava "Le ricette regionali italiane", manuale di cucina di importanza storica per le tradizioni gastronomiche della penisola. Tra le 2174 voci, nella sezione Emilia-Romagna spunta anche un “Gelato di formaggio reggiano”, a dimostrazione sia del forte legame di questo prodotto iconico col territorio, sia della sua versatilità in cucina, ieri come oggi. 

A confermarlo gli chef che quotidianamente ne esaltano le caratteristiche in piatti di alta cucina, come la chef di Casa Maria Luigia Jessica Rosval, allieva di Massimo Bottura, che è arrivata a Modena dal Canada e confessa: “Da giovanissima conoscevo solo il parmesan già grattato nelle buste di plastica. Poi arrivata qui il Parmigiano Reggiano ha cambiato la percezione di tutto, dei sapori, della cultura gastronomica, per questo ne ho massimo rispetto. È un prodotto fondamentale nella mia cucina, che rappresenta il territorio, il rispetto per le tradizioni, il lavoro dei casari”. 

Rosval spiega che la prima regola per l’uso in cucina è assaggiare sempre, e lasciare voce al prodotto, per adattare la ricetta ai suoi sapori, perché ogni forma è diversa, a seconda della varietà di mucche, della loro alimentazione, del periodo dell’anno. Per esempio, in preparazioni in cui il Parmigiano Reggiano va sciolto sono preferibili forme meno stagionate, che hanno ancora sapore molto lattico, di crema, di yogurt e anche come consistenza si scioglie meglio. 

“Di solito più è stagionato meno in cucina va manipolato – racconta – sia per il rispetto del lavoro dei produttori, sia per motivi tecnici di consistenza: più è maturo, più è cristallizzato. Per me manipolarlo, oltre i 36 mesi è un peccato. Il nostro piatto cult, le 5 stagionature del Parmigiano, vuole proprio sottolineare i cambiamenti aromatici dei diversi momenti di maturazione”.

24 mesi, 30, 36, 40 e 50: diventano rispettivamente un demi sufflè, una spuma, una crema, una cialda e un’aria. Per sottolineare le loro caratteristiche organolettiche: nei 24 mesi sono ancora evidenti note di latte, di yogurt, ma anche di frutta fresca e di erbaceo. Poi tra i 24 e i 36 subentrano sentori di frutta secca, di latte caramellato, più in là si percepiscono sensazioni di spezie, di pepe, di piccantezza e la tostatura si fa più pronunciata.

Ma è perfetto anche in purezza, a scaglie. “Da assaporare a poco a poco – spiega – chiudere gli occhi, capire i sapori ma lentamente. Per percepire tutta la complessità il palato ha bisogno del suo tempo. Va gustato come un buon vino”.

LA GENTE DEL PARMIGIANO REGGIANO su La Repubblica il 20 Gennaio 2022.

Gesti antichi, tradizione e innovazione: sono le persone con il loro sapere e la loro passione che contribuiscono ogni giorno a far arrivare il Parmigiano Reggiano nelle case di migliaia di persone

Una comunità sinergica: dall’agricoltore all’allevatore, dal casaro allo stagionatore

Parmigiano Reggiano. Una storia di lavoro e di tradizione in soli tre ingredienti: latte, sale, caglio. Forse, perché per creare il re dei formaggi e farne un mito culturale e sociale, è necessario aggiungere altri due ingredienti fondamentali: il tempo e l’uomo. Senza la magia dei giorni e la passione sconfinata di chi ogni giorno permette il compiersi del miracolo, questa eccellenza non esisterebbe.

Da Mario a Nadine: le facce che fanno la differenza

Il grande pubblico sta imparando a conoscere meglio la filiera produttiva del Parmigiano Reggiano grazie al film Gli Amigos, dove il regista Paolo Genovese ha raccontato le distese di foraggio, la vita dei bovini e il lavoro appassionato dei casari grazie al personaggio di Stefano Fresi, nel ruolo di insegnante di cucina in viaggio con i suoi studenti. Ma al di là degli attori, ci sono centinaia e centinaia di persone che mettono in campo i rispettivi talenti e che, come elementi di un’orchestra, contribuiscono all’armonia di questo formaggio iconico. Il cui successo non è dato solo dalle tecniche produttive e dalla storia millenaria, ma dalla “gente del Parmigiano” che quotidianamente dona energie e competenze, in gesti antichi e pratiche virtuose.

In viaggio con il latte

Un vero viaggio non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi. Il latte con cui si fa il Parmigiano Reggiano compie lo stesso piccolo viaggio da secoli eppure, ogni giorno è sempre diverso. Quel viaggio, all’interno di un territorio limitato ma ricco di diversità, ogni volta è una storia nuova. Cambiano i giorni, le stagioni e gli incontri; cambiano i fiori, i mattini e le sere.

Alessandro, Marco, Anna, Elena e Karima: chi sono "Gli Amigos"

Marco è timido e insicuro e per arginare la sua ansia prende sempre alcune gocce di ansiolitico, ma non sa che i suoi amici, in realtà, hanno riempito la boccetta d’acqua. Il suo coinquilino Alessandro è invece un ragazzo estroverso e affronta la vita d’istinto, eppure non riesce a dichiararsi a Karima, che lavora in un food track ma ha il sogno di creare il primo kebab restaurant stellato d’Italia. E poi ci sono Anna, che vorrebbe salvare la trattoria dei suoi nonni dalla chiusura ed Elena, figlia di importanti ristoratori che la vorrebbero chef. Sono queste le cinque storie che s’intrecciano nel film “Gli Amigos”, mediometraggio diretto da Paolo Genovese con l’attore Stefano Fresi, a cui spetta il compito di guida e mentore in un viaggio dalle molteplici scoperte nelle campagne dell’Emilia-Romagna, dove nasce il Parmigiano Reggiano, per studiare nei minimi particolari il formaggio italiano più celebre (e imitato) al mondo. 

L’avventura comincia dal territorio.

L'AVVENTURA COMINCIA DAL TERRITORIO

Quando un fiume, una pianura e le sue montagne segnano il destino di un prodotto e lo rendono unico e irripetibile. Viaggio alla scoperta delle storie e delle radici del Parmigiano Reggiano 

Montagne, pianura e fiume: solo qui nasce il Parmigiano Reggiano

“A fissare con una fortissima lente d’ingrandimento la grana del parmigiano, essa si rivela non soltanto come un’immutabile folla di granuli associati nell’essere formaggio, ma addirittura come un panorama. È una foto aerea dell’Emilia presa da un’altezza pari a quella del Padreterno”. Proprio come scriveva Giovannino Guareschi, il legame che unisce il Parmigiano Reggiano con la sua zona di origine è imprescindibile: questo formaggio nasce ai piedi dell’Appennino Reggiano e Parmense e il suo gusto rispecchia appieno il territorio in cui viene prodotto. 

La produzione del latte, la trasformazione, la stagionatura minima e il confezionamento sono fatte esclusivamente nelle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna, a sinistra del fiume Reno, e Mantova, a destra del fiume Po. Il latte crudo di qui è molto particolare, caratterizzato da una singolare e intensa attività batterica della flora microbica autoctona, influenzata da fattori ambientali, soprattutto da foraggi, erbe e fieni del territorio. Inoltre, per fare il Parmigiano Reggiano non si usano additivi: questo significa che durante il processo produttivo non vi sono interventi esterni per modificare l’attività dei batteri. Solo il casaro riesce a valorizzare e a far prevalere i batteri lattici che operano per la buona riuscita del formaggio. E i costanti controlli hanno un obiettivo preciso: mantenerne alta la qualità e le particolari caratteristiche che consentono al Parmigiano Reggiano di confermarsi, come è sempre stato, un prodotto del tutto naturale. 

Visitare un caseificio è un vero e proprio viaggio alla scoperta del Parmigiano Reggiano e del territorio in cui da quasi mille anni viene prodotto con solo tre ingredienti: latte, sale e caglio. Si può assistere a tutte le fasi di lavorazione, dalla cottura alla messa in fascera della cagliata, fino alla salatura. Un prodotto senza segreti, che il Consorzio tiene a promuovere anche con visite guidate – su prenotazione qui parmigianoreggiano.com –. Un’esperienza che permette di conoscere in prima persona la storia delle famiglie che ogni giorno producono questo formaggio unico e inimitabile, espressione del territorio al quale è legato, e mettere piede nei magazzini di stagionatura dove le forme riposano e vengono curate quotidianamente in attesa del dodicesimo mese, quando vengono valutate col martelletto dagli esperti per poi essere marchiate a fuoco e raggiungere la giusta maturazione. 

Perché e come i tre amigos fanno il miracolo

Campi di erba medica ed erba di trifoglio; erbai di loietto, segale, avena, orzo, frumento; prati stabili – che si autorigenerano e non vengono arati – dove crescono circa 60 tipologie foraggiere spontanee, dalla festuca alla lupinella, ma anche pisello, veccia dolce e favino. Eccolo il terroir. Condensato in tre articoli del disciplinare di produzione: ecco, erba per erba, ciò che le mucche possono mangiare. Queste essenze danno sapori e aromi diversi al latte, quindi al formaggio. E sono alla base dell’alimentazione delle bovine dell’area del Parmigiano Reggiano. 

Perché, appunto, non basta che le mucche siano nel territorio della Dop. Anche i foraggi che mangiano lo devono essere: per ciascuna stalla, almeno il 50 per cento del foraggio deve arrivare dai terreni aziendali e almeno il 75 per cento dall’interno dell’area delle province di Parma, Reggio Emilia, Modena, Mantova alla destra del Po e Bologna alla sinistra del fiume Reno. Insomma, i terreni del foraggio sono di fatto i confini della denominazione. Ma perché è così importante? Perché in quest’area si trovano i particolari batteri lattici che arricchiscono il foraggio. Batteri benefici che, passando dall’erba alla mangiatoia, quindi dal latte alle forme, finiranno nel Parmigiano Reggiano, conferendogli quel gusto unico e inimitabile. 

In questi batteri (che hanno ispirato il titolo del film I Tre Amigos) sta il segreto di un formaggio figlio delle abbazie del Trecento, dove nacque e iniziò una storia plurisecolare.

Così, insieme a latte crudo, sale e caglio, sono i foraggi l’elemento chiave di un territorio che, come accade per le vigne e il vino, assicura l’unicità del Parmigiano Reggiano, perché peculiari sono i fermenti che guidano e caratterizzano tutto il processo di produzione e stagionatura. E che ne determinano struttura, sapidità, gusto. 

Foraggio, erbe e fieni così rigorosamente indicati e per almeno tre quarti obbligatoriamente locali contribuiscono a fare sviluppare l’attività batterica di una flora microbica "autoctona". Così, il latte ricavato dalle oltre 250mila mucche attraverso i territori della Dop ha una sua autenticità marcata e in fondo – sotto il grande cappello del Consorzio – vivono forme che portano la firma di ciascun caseificio, dei suoi campi, delle sue vacche.

Ma nel disciplinare c’è ancora qualcosa di più: il divieto di integrare la dieta delle bovine con alimenti insilati e il divieto di usare additivi durante la lavorazione in caseificio. 

Se la naturalità è l’obiettivo, ecco dunque, insieme al divieto di insilati, anche l’obbligo di usare solo un siero innesto naturale autoctono come starter per indirizzare il processo microbiologico della cagliata.

Ma la vita dei batteri lattici segna un po’ tutta la storia della forma, dalla cagliata alla stagionatura. Ed è nella lunga vita del Parmigiano Reggiano, più ancora che nel determinare l’acidificazione e la cagliata, che giocano un ruolo straordinario, oggetto di tanti studi universitari. E poi ancora: temperatura di cottura, dimensioni della forma, intensità della salatura determinano la predominanza delle varie famiglie. Ma il risultato, al di là dei tecnicismi, è come tutto questo produce l’alta digeribilità del Parmigiano Reggiano dove il lattosio scompare nella prima fase di produzione e la caseina viene via via digerita durante la stagionatura.

Grazie all’azione degli enzimi liberati dai batteri lattici, le proteine come la caseina vengono scomposte in peptidi e in amino-acidi liberi, ovvero pezzi più piccoli, i mattoni base della catena proteica. Risultato? La struttura e il gusto nonché la sua alta digeribilità. Come dire che se latte, sale e caglio compaiono nelle etichette del 99% dei formaggi, a fare la differenza sono il territorio, l’alimentazione degli animali e la magia di quei batteri buoni che lo tengono vivo nel tempo. 

Una storia non iniziata per caso: alle radici del Parmigiano Reggiano

La cagliata che un casaro innamorato aveva lasciato a metà lavoro per correre dalla sua bella sarebbe all’origine del Gorgonzola, la Vastedda del Belice nata per salvare le forme di pecorino mal riuscite: dietro la storia di molti formaggi, c’è spesso un racconto fatto di casualità, c’è l’errore o la distrazione che la chimica però trasforma in qualcos’altro, dando vita a nuove consistenze e nuovi sapori. È la narrazione un po’ reale, tramandata nei secoli, un po’ rielaborata dal marketing contemporaneo, che racconta le radici della nostra enogastronomia. 

In realtà, dietro la storia dell’alimentazione ci sono soprattutto le tracce di un’umanità che diventa sedentaria, con l’urbanizzazione, lo sviluppo dei commerci e dunque il bisogno di conservare i cibi, l’ingegno che fa ottimizzare ciò che si ha e si produce. È questo che consente l’espansione della società, che timbra l’identità vera di prodotti come insaccati, pesci conservati e, appunto, formaggi, e che costruisce una catena alimentare fatta di gusto e conservabilità. È una cultura che affonda le radici già nel Medioevo e che oggi si evolve grazie alle moderne conoscenze scientifiche. 

Proprio questo è il cammino del formaggio tricolore più iconico, il Parmigiano Reggiano: la sua è la storia perfetta dell’incrocio tra le aziende ecclesiastiche legate ai monasteri che possiedono in quella regione grandi quantità di terre, la destinazione delle mandrie bovine al pascolo nei prati per la necessità di sfruttarne anche il letame e la disponibilità di sale che arriva dalle saline di Salsomaggiore. 

Sono le tre condizioni magiche che nel Duecento, tra Parma e Reggio Emilia, fanno nascere il re dei formaggi, prodotto simbolo che diventa orgoglio dell’agroalimentare nazionale e che nel 1612 conquista già una denominazione d’origine, per volontà del Duca di Parma: primo atto di quella certificazione, oggi così inseguita, strutturata e agognata in tutto il mondo. 

Siamo nel XII secolo e già esistono documenti di alcuni monasteri che attestano la produzione e il commercio di un apprezzatissimo cacio. A inizio Trecento ecco invece le tracce sicure che avvicinano quel pregiato formaggio a quello che conosciamo oggi: riguardano le caratteristiche della forma, la dimensione della mandria e le competenze tecniche, per esempio come effettuare la scrematura del latte. Proprio queste conoscenze sono appannaggio delle grandi aziende abbaziali. Così, gli storici, frugando nei documenti - come una famosa pergamena del 1349 - trovano l’impronta tanto dei cistercensi parmigiani del monastero di San Martino che dei benedettini di San Prospero di Reggio. 

Sono gli stessi anni in cui Boccaccio lo decanta nel Decamerone: “Et eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e ravioli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n'aveva”. 

Eccolo il cuore di quelle antiche forme di formaggio – dalla consistenza compatta e asciutta del peso di circa 13 chili – che ben si conservavano grazie all’uso sapiente del sale. 

Proprio per la sua conservabilità e propensione all’invecchiamento, il Parmigiano Reggiano fu da subito indirizzato ai commerci fuori dai confini locali, tanto da trovare posto – come scopriamo dai registri delle esportazioni del 1389 – sulle navi della Repubblica marinara di Pisa con destinazione Spagna, Francia e Africa del nord. 

Se tra la fine del Duecento e la prima metà del Trecento troviamo le radici di questo formaggio, attraverso i secoli la sua produzione si specializzerà sempre di più, tra feudatari e abbazie: cresceranno le dimensioni delle forme e nasceranno le vaccherie con il caseificio collegato, centro pulsante di questo mondo. Ed ecco l’evoluzione di una storia materiale che segna profondamente la geografia, l’organizzazione sociale e l’economia di un territorio ed è il fondamento reale di qualunque storytelling contemporaneo.

Perché le stalle sono un luogo chiave.

Il consorzio Parmigiano Reggiano sta investendo oltre 11 milioni di euro per innalzare gli standard di benessere delle bovine. I primi 8 milioni saranno destinati a circa 1400 stalle della filiera, mentre gli ultimi saranno stanziati entro il 2023. È in corso una vera e propria transizione che vuole fare bene agli animali e anche al formaggio, perché la salute delle bovine si ripercuote sul latte con cui viene prodotto. 

"Abbiamo sempre contato sulla qualità dei nostri foraggi"

"Parte tutto da qui, da quello che mangiano. Alle nostre vacche diamo foraggi coltivati da noi, nei nostri campi. Mio padre ha iniziato negli anni '50 con 4 mucche e già allora ci diceva di puntare alla qualità". Franca Carburi Folezzani, insieme ai figli Carlo e Roberto, porta avanti l'azienda agricola La Villa di Urzano (Parma) dove ogni giorno, alle 4,45 del mattino, si inzia a produrre Parmigiano Reggiano. "Sono più di 20 anni, da quando siamo diventati biologici, che non diamo antibiotici agli animali. E le nostre mucche diventano mamme senza ricorrere alla fecondazione artificiale".

Stefano Fresi e l'avventura del Parmigiano

"Per uno come me che è eternamente a dieta, il Parmigiano è la salvezza: è così magro e dietetico che ne posso mangiare 80 grammi a pasto. Che sono un bel tocco di formaggio".

Di quello che definisce "il miglior formaggio al mondo", Stefano Fresi, protagonista di "Gli Amigos" il mediometraggio prodotto dal Consorzio Parmigiano Reggiano e diretto da Paolo Genovese, è sempre stato un fan. Ma come tutti, ammette, "allungavo la mano nello scaffale dei formaggi del supermercato o lo comperavo in salumeria, senza sapere cosa ci fosse dietro come preparazione, varietà o invecchiamento". 

Il film on the road per le terre dove viene prodotto, dalla Pianura all'Appennino, gli ha dato l'occasione di saperne i più. E ancora di più apprezzarlo. "Il Parmigiano non è un semplice prodotto, un brand, è una eccellenza riconosciuta in tutto il mondo. Se a una cena - chessò - a Londra ti presenti non un cuneo di Parmigiano, vieni accolto come se portassi due bottiglie di Dom Perignon: un'ovazione". 

Cosa ha scoperto nei giorni delle riprese?

"Che dietro la sua preparazione c'è un mondo e c'è la Storia, il ritmo della vita, la passione dei casari, la cura che mettono nel prepararlo, dalla scelta dei foraggi a come vengono tenute le mucche. Assistere alla preparazione di una forma di Parmigiano è come vedere Enzo Ferrari in persona che monta, un pezzo dopo l'altro, una delle sue monoposto. Ho scoperto che, come per un buon vino, conta il luogo di provenienza, la terra, l'invecchiamento, la cantina. C'è della poesia dietro...". 

La sorpresa maggiore?

"Che una forma può avere anche 180 mesi di invecchiamento. E che più invecchia più gli enzimi dei batteri lattici si ‘mangiano’ la caseina e ne facilitano la digestione. È un fatto unico. Per uno che è sempre a dieta come me (e che fa un mestiere dove mangiare fuori è quindi una tortura), il Parmigiano è stato una svolta: posso mangiarne fino a 80 grammi a pasto. 80 grammi di delizia e di energia, che posso portarmi da casa senza ricorrere alla triste schiscetta di un riso in bianco o di una porzione di verdura. Il parmigiano la rallegra, l'insalata. E anche l'umore". 

Chissà come la invidiano?

"No, perché sono un generoso e mi porto sempre una dose maggiorata da offrire... Dopo il film il Consorzio mi ha dotato di una bella "dote" di Parmigiani gourmet di varie stagionature e provenienze: ho fatto alcune cene di degustazione, a casa e anche sul set dei "Delitti del BarLume" all'Elba". 

Il film si avvale della partecipazione straordinaria di Massimo Bottura. Vi ha svelato qualche ricetta speciale per gustare il Parmigiano?

"Semplicissima, quella che nel film vince il contest per giovani chef: un pezzo di Parmigiano con la crosta cotto nel brodo. È arrivato e ha detto "però lo preparo io". A fine cottura lo ha diviso in tocchetti. Squisiti, morbidi, saporiti". E mentre lo dice si sente che gli viene (ancora) l'acquolina in bocca.

La mozzarella maestà italiana. La «bufala» come imbroglio deriva dalla pratica sleale di servire bistecche di bufalo e non di manzo, più prelibate. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 26 Giugno 2022

Il Foscolo sosteneva che gl’Italiani andassero esortati alle storie, altri hanno ritenuto che, piuttosto, andassero invitati ai lavacri e Garibaldi, nel suo discorso per commentare il laticlavio, disse solo questo: «Italiani, siate seri!». Applausi.

Grazie alla collaborazione con la «Gazzetta», mi accodo agli istigatori e incoraggio gl’Italiani alle etimologie. Esercizio che può sembrare umile, ma che considero utilissimo. Può attivare lodevoli riappropriazioni e restaurazioni di fiori d’orgoglio nazionale. Ho l’ottimo Dizionario etimologico della Lingua italiana della Zanichelli, squadernato alla pagina che reca la parola mozzarella.

Ho fatto la ricerca per sgominare il minimalismo di chi proclama la sua frugalità per aver cenato con una mozzarella. Cena regale, al contrario. Meglio da sola, o cotta al forno sulla e nella pizza Margherita, naturalmente. Sì, altri usi sono numerosi e consentiti, ma qualcuno si rende colpevole di lesa mozzarella. E questa va difesa, proprio mentre si registra che il formaggio più consumato, in Francia, è proprio la mozzarella. Sgominato il Camembert e altri aristocratici formaggi francesi, sua maestà, la mozzarella, se autentica, genuina, con la goccia, vince: è il fiore della produzione casearia pugliese con il sontuoso seguito delle buone trecce e delle burrate.

Da anni siamo stati rassicurati della sopravvivenza della mozzarella genuina fatta all’antica italiana che, sola, merita il marchio d’autenticità sia che germogli sul fiore del latte di vaccina (Puglia mia, soprattutto), sia che faccia fiorire in forma di formaggio sublime il latte di bufala (Campania e Lazio). Fu una buona notizia, ma risale al 2000 e spero che la regolamentazione non sia stata abolita o sostituita da blandi accomodamenti. Questo spiegherebbe certa «bufala» di forestieri imitatori globali. Bufala nel senso di «patacca», di imbroglio. A proposito di etimologie, è giusto sapere, perché dicesi bufala di fregatura: derivava dalla pratica sleale e sorniona di servire, nelle osterie romane di altri tempi, al convitato scimunito dalle libazioni, bistecche di bufalo e non di manzo, più prelibate e costose. La bufala intesa come mozzarella era estranea ai fatti.

La mozzarella è innocente. Buona. Si può chiamare così solo quella fatta con l’antica ricetta. S’ingegnino i casari sprovvisti del miracoloso savoir faire e che si vogliono ostinare ad usare siero o succedanei del latte a trovare altri nomi per le imitazioni, ma giù le mani da «mozzarella».

Ero a questo punto con la riflessione, quando ho deciso di dar di piglio alla preparazione della mia merenda del sabato che sostituisce l’insopportabile (con questo caldo) pranzo delle quattordici. Anche l’ora del desinare la dice lunga sulle mie origini. Dunque vediamo: pomodoretto, sale, perfetto olio di Bitonto, mozzarella tagliata a fette e profumatissimo basilico a foglia piccola, quello del pesto, per intenderci. Golosità impeccabile, anche se istigatrice di asprezze gastriche. Mentre osservo lacrimare il candido formaggio m’interrogo sulle sue origini per dedicare al suo inventore un pensiero grato e reverente. Decido che per tanto portento non deve essere stato sufficiente un solo casaro geniale. Deve esserci stata l’opera di un popolo intero lungimirante. Come taluni sostengono per Iliade e Odissea: non un solo Omero, ma un’intera nazione di poeti, più generazioni di aedi, folle di cantori. Insomma, dopo la «questione omerica» non è trascurabile una «questione della mozzarella». Meglio prepararsi. Leggo e prelevo dall’amico vocabolario.

Dopo la definizione del significato apprendo che la parola compare per la prima volta in un testo scritto nel 1570 in Opera di B. Scappi: «Capi di latte, butiro fresco, ricotte fiorite, mozzarelle fresche e neve di latte». Che meraviglia! Ma andiamo all’etimologia.

Due le congetture: da mozzare «perché cacioline fatte con smozzature di cacio». Altri sostiene «Dall’esser, appunto, legato a mezzo (il formaggio) e quasi mozzato». Decido di optare per la seconda ipotesi a causa di certe infantili memorie presepiali in cui compaiono compunte pastorelle recanti alla Grotta santa buffe palle incordate da legacci che mi erano indicate come le mozzarelle di allora. L’allora di Gesù. Pensavo, bambino, che se Lui, il Salvatore, aveva anche i gusti a nostra somiglianza, avrebbe gradito avere anche i pomodoretti. Forse se li aspettava dai Re Magi che venivano dall’Oriente ricco di novità e primizie storiche, ma dovrà aspettare, salvo miracoli, una caravella di ritorno da quel continente che prenderà il nome di America. Quanto al basilico, la foglia dei re, non ne sarà certo mancato tra gli omaggi delle genti a Lui, Re dei Re, per fare la cialda o frisa o panzanella, fate voi. E qui, ecco arrivare trionfalmente il Pane, il maiuscolo pane di Altamura. E, per chiudere, i fioroni turgidi e dolcissimi.

Italiani v’invito a tavola in Puglia.

Attenti alla bufala. Report Rai. PUNTATA DEL 10/01/2022 di Rosamaria Aquino. Collaborazione di Marzia Amico e Alessia Marzi 

Mozzarella di bufala: l'eterno dilemma tra latte fresco e congelato e cagliate estere.

Giro d'affari a cinque zeri per una prelibatezza che può essere prodotta solo in alcune zone tra Lazio, Campania, Molise e Puglia: è la mozzarella di bufala DOP. Ma è a Caserta che insiste la maggioranza dei caseifici ed è proprio in quella terra che in questo momento si sta combattendo la battaglia più difficile per le bufale: secondo una recente inchiesta della Procura di Santa Maria Capua Vetere, ne sarebbero state abbattute in dieci anni decine di migliaia per sospette brucellosi e tubercolosi. Ma a un esame al macello, molti di quegli animali sarebbero poi risultati sani. Report ripercorre tutta la filiera, dagli allevamenti ai trasformatori, alle prese con l'eterno dilemma tra latte fresco e congelato e cagliate che arrivano dall'estero.

ATTENTI ALLA BUFALA Di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico – Alessia Marzi Immagini di Matteo Delbò, Dario D’India, Tommaso Javidi

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La più grande concentrazione di allevamenti di bufale da latte si trova in provincia di Caserta, tra Castelvolturno, Casal di Principe, Grazzanise. Si arrivano a contare 40 allevamenti nel raggio di due km. Il latte per la produzione della mozzarella proviene soprattutto da qui. Ma come stanno gli allevatori?

MARCO AUTIERI – ALLEVATORE Avevamo circa sui 550 capi. Nel 2017 ci siamo accorti che ci eravamo infetti di brucellosi. Nell'agosto del 2018 in quest'azienda non c'era più nessun capo.

ROSAMARIA AQUINO Economicamente che danno è stato tutto questo abbattimento di tutte le sue bufale?

MARCO AUTIERI – ALLEVATORE Su 500 capi un milione e mezzo di euro.

ROSAMARIA AQUINO Che cosa è successo?

PASQUALE CANTILE - ALLEVATORE Abbattimento infetta di TBC. Anche se poi molte bufale che risultano infette poi dopo al macello sono negative.

ROSAMARIA AQUINO Quanto ci ha perso economicamente?

PASQUALE CANTILE - ALLEVATORE Eh, non lo so, penso che stiamo sul milione e mezzo di euro in tre anni.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Regione Campania ha ordinato di abbattere gli animali malati. Ma alcune bufale risultano poi negative all'esame al macello, in un'azienda addirittura nove capi su 11 erano falsi positivi.

 ANTONIO SASSO - AVVOCATO La logica vorrebbe che essendo positivi dovrebbero essere, diciamo, le carcasse dovrebbero essere distrutte, mentre invece gli animali macellati, essendo negativi all'esame post mortem, vengono macellati e il macello ne....

ROSAMARIA AQUINO Ne trae un guadagno.

ANTONIO SASSO - AVVOCATO Ne trae un guadagno perché produce carne ovviamente e la mette tranquillamente sul mercato.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Si poteva evitare di abbattere le bufale. Proprio in questi giorni la procura di Santa Maria Capua Vetere ha acquisito i dati delle Asl, fino a oggi tenuti nascosti, e finalmente si è scoperto che negli ultimi dieci anni ben un 100mila bufale sono state abbattute per sospetta brucellosi o per sospetta tubercolosi, provocando la chiusura di quasi 300 aziende, ma c’erano alternative?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora ci sono da dipanare due gialli, buona sera. Intanto, sono state abbattute negli ultimi 10 anni circa 100mila bufale da latte per sospetta brucellosi o tubercolosi. Ecco questo ha alimentato intanto un sospetto perché nonostante gli abbattimenti i soci del consorzio che produce mozzarella Dop hanno dichiarato dei quantitativi di latte che non sarebbero poi compatibili con quelli reali prodotti nelle stalle. Perché la domanda insomma viene spontanea: se da una parte abbattono le bufale come fanno ad aumentare i quantitativi di latte? Da dove lo prendono il latte per fare le mozzarelle Dop? La questione è importante perché parliamo del terzo Dop più venduto al mondo. E questo è un giallo e se ne occuperà la nostra Rosa Maria Aquino. Su quell’altro, invece, sta indagando la Procura di Santa Maria Capua Vetere che ha raccolto dalle Asl dei dati che fino ad oggi erano rimasti segreti e riguardano le analisi effettuate nel momento della macellazione dei capi abbattuti. Ecco ed è emerso che le bufale da latte nel 95 percento dei casi negli ultimi tre anni erano sane, non erano positive alla malattia. E questo ovviamente, vi potete immaginare, ha favorito da una parte le multinazionali della carne che hanno potuto acquistare le carni pregiate a prezzi più bassi. Dall’altra ha fatto imbufalire letteralmente gli allevatori che dicono: ma perché non ci consentite di vaccinare i nostri animali. Ma su questo la Regione nicchia. La nostra Rosa Maria Aquino.

RENATO FRANCO NATALE - SINDACO DI CASAL DI PRINCIPE (CE) L'alternativa che ci viene suggerita è quella della vaccinazione. Noi abbiamo proposto di utilizzare questo strumento, del resto già usato in passato. Su questo non riusciamo ad avere una risposta precisa: perché no?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO I dati sui falsi positivi la Regione non ce li ha forniti e la politica dell’abbattimento degli animali non sembra aver favorito l’eradicazione completa secondo i risultati sperati, visto che negli ultimi tre anni delle 40mila bufale abbattute per sospetta brucellosi oltre il 95 percento è risultato sano ai controlli post-mortem. Tra chi fa la Dop c’è chi dice: le stalle sono già ripopolate e chi invece denuncia che i conti non tornano. I soci del consorzio dichiarerebbero quintali di latte in più rispetto alla media di quello prodotto nelle stalle per far quadrare i conti della produzione di mozzarelle.

EX MEMBRO CDA CONSORZIO Rispetto alla media io penso che siamo almeno 8-9 quintali pro capite. Cioè ci rendiamo conto di quanti quintali sono di latte in più o no? Cioè se diminuiscono il numero di bestie come fa ad aumentare il latte?

ROSAMARIA AQUINO Ma l'esigenza di gonfiare questi dati qual è?

EX MEMBRO CDA CONSORZIO Quella di dover inserire nel buco nero che si crea tra il dato reale e il dato scritto qualsiasi cosa. Mo che sia latte, sia cagliata, sia latte in polvere, sia latte ricostituito, sia latte di struzzo, non lo so.

ROSAMARIA AQUINO Nella Dop?

EX MEMBRO CDA CONSORZIO Eh, la Dop, dottoré!

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La mozzarella di bufala è la terza Dop italiana dopo Grana Padano e Parmigiano. In 10 anni ha avuto un picco del 31 percento di produzione e ha aumentato le esportazioni del 100 percento. Un giro d'affari da 1,2 miliardi. Ma con la crisi del Covid si è venduta meno mozzarella. Agli allevatori è stato chiesto un prezzo più basso e di mungere meno, scaricando di fatto su di loro il costo della crisi. Inoltre, il governo ha applicato un cambio temporaneo di disciplinare: fino a giugno scorso si è potuto usare latte congelato.

ENRICO MIGLIACCIO – CONFAGRICOLTURA – RAPPRESENTANTI ALLEVAMENTI BUFALINI Ci chiediamo anche, cosa che abbiamo fatto sin dal primo momento, una ricognizione di quello che è questo latte stoccato, per vedere cosa realmente c'è nelle celle frigorifere, se è veramente latte Dop tracciato o no.

ROSAMARIA AQUINO Qualcuno ha sollevato dubbi sulla produzione di latte dichiarata pro capite, una produzione che si dovrebbe attestare intorno 27 quintali.

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA Noi abbiamo uno studio che ci ha dato dei riscontri che sono assolutamente in linea con quello che sono i dati che noi abbiamo.

ENRICO MIGLIACCIO – CONFAGRICOLTURA – RAPPRESENTANTI ALLEVAMENTI BUFALINI Ventisette quintali è una media di stalla di un’azienda che fa una buona selezione genetica.

ROSAMARIA AQUINO Quindi può essere la media complessiva di tutti?

ENRICO MIGLIACCIO – CONFAGRICOLTURA – RAPPRESENTANTI ALLEVAMENTI BUFALINI No. La media dovrebbe fare tra i 22-23.

ROSAMARIA AQUINO Le sembra un dato sproporzionato?

ENRICO MIGLIACCIO – CONFAGRICOLTURA – RAPPRESENTANTI ALLEVAMENTI BUFALINI Sì, sicuramente lo è, senza tema di smentita.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Perché dichiarerebbero una media più alta di produzione di una bufala in lattazione? Perché tutti vogliono la mozzarella ma il latte può arrivare da una zona molto piccola: Campania, una piccola porzione di Puglia, del Molise e del Lazio.

EX MEMBRO CDA CONSORZIO Questi qua, quando si fanno determinate operazioni, in questo settore, con la mozzarella di bufala, si fanno i denari assai, assai. Cioè, la droga non è niente. Il lestofante si prende la cagliata, il latte ricostituito, l'Olanda, la Germania la Francia, la Romania che cazzo fa non lo so... paga il latte quattro centesimi, va a farmi la concorrenza a me e mi fotte sul prezzo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Latte vaccino e, forse, persino latte estero e congelato per fare la mozzarella. Così si abbatterebbero i costi di produzione, tanto l'appeal lo garantisce il bollino. E i caseifici che ne pensano? Siamo andati a comprare la loro mozzarella e glielo abbiamo chiesto.

CASEIFICIO 1 Quelli che fanno parte del consorzio è difficile, chi ha un'aziendina piccola...

ROSAMARIA AQUINO Ah, sono quelle che ogni tanto fanno....

CASEIFICIO 1 Soprattutto quelle.

ROSAMARIA AQUINO E di latte ce n'è abbastanza per fare tutta la mozzarella che si fa? Dico queste bufale, siccome sono solo di questo territorio... ce n'è abbastanza?

CASEIFICIO 2 Sì, sì. Comunque noi siamo certificati, questo è sicuro.

CASEIFICIO 3 Solo latte di bufala sì.

CASEIFICIO 4 L'acquisto all'estero è sempre maggiore.

ROSAMARIA AQUINO È sempre maggiore eh? Ma perché, perché costa meno?

CASEIFICIO 4 Di preciso non lo so, però so che si risparmia.

CASEIFICIO 5 Loro possono fare quello che vogliono, dovete essere voi quando la mangiate, ché se voi avete palato, ve la gustate. Ve ne accorgete stesso voi.

ROSAMARIA AQUINO Le cronache ci dicono di un po' di truffette fatte pure nella dop, eh.

CASEIFICIO 6 Ma noi? Ma lì si parlava più di formaggi, di altre cose... Poi c'era la camorra....

ROSAMARIA AQUINO Mo' non c'è più?

CASEIFICIO 6 Sono venuti qua, ma saranno stati cento, duecento di loro tra aerei, cose. Sono entrati qua dentro: Nas, Asl, non si capiva niente. Dopo venti giorni, che lo Stato ha messo mano su tutto se ne sono riandati, non hanno trovato nulla.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A questo che è uno dei caseifici più antichi del casertano, il cui presidente è stato anche membro del cda del Consorzio, hanno sequestrato a marzo 2020, 1500 kg di cagliate bulgare e latte olandese.

ROSAMARIA AQUINO Siccome poi noi nel sito leggiamo: solo latte bufalino…

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP Certo, assolutamente, assolutamente.

ROSAMARIA AQUINO …l'azienda, la tradizione legata al territorio, e sappiamo che le fanno un sequestro di 1500 cagliate bulgare, ma poi perché bulgare?

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP E perché lì le producono e quindi... ce le hanno proposte da lì. Ma devo dire che il prodotto è salubre, ed è ottimo!

ROSAMARIA AQUINO È ottimo, ah!

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP Assolutamente.

ROSAMARIA AQUINO Ma lei dopo quello che le è successo se la compra ancora la cagliata bulgara?

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP No, per carità!

ROSAMARIA AQUINO Perché lei vuole commercializzare queste cagliate, lei che fa tutto un altro lavoro?

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP Noi volevamo, ma non l'abbiamo mai fatto, abbiamo fatto quest'ordine e poi ci siamo fermati.

ROSAMARIA AQUINO Come si fa a capire che questo latte e queste cagliate non vanno poi a finire nella vostra produzione di mozzarella?

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP Allora per quanto ci riguarda, abbiamo fatto un acquisto e ci siamo fermati lì.

ROSAMARIA AQUINO E quello vi hanno sequestrato!

ANGELO PICCIRILLO – PRODUTTORE MOZZARELLA DOP E quello hanno sequestrato perché è stata la prima volta nella nostra vita e non conoscevamo la prassi da seguire.

ROSAMARIA AQUINO Lei sapeva che molti dei caseifici che fanno parte del consorzio acquistano latte e cagliate straniere?

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA È libero l'imprenditore di fare scelte al di fuori della Dop su linee separate di acquistare e di fare quello che vuole fare.

ROSAMARIA AQUINO C'è uno dei caseifici che fan parte del consorzio che in tre mesi ha acquistato 7.400 quintali di cagliate polacche. Come si fa, a sapere con precisione che non vengano utilizzate anche nella Dop? Come la tracci una cagliata?

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA No, ma io non devo tracciare quella cagliata: io traccio il latte di bufala, noi tracciamo il latte di bufala che proviene dalla zona. Per cui, se entra un tot di latte deve uscire un certo quantitativo di mozzarella. Non può variare.

ROSAMARIA AQUINO Lei sa meglio di me, che si può giocare sulla resa di quel latte, no? Oggi mi ha fatto più mozzarella, domani me ne fa di meno...

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA No, non tanto, nel senso che andrebbe messa d'accordo un'intera filiera è molto difficile.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma come funziona questa tracciabilità? Nella mozzarella non Dop i dati di allevatori e caseifici finiscono tutti nello stesso cervellone e si possono incrociare. Nella Dop invece no perché gli allevatori comunicano quanto hanno prodotto all'istituto zooprofilattico, invece i trasformatori a un ente terzo che fa i controlli: il DQA. Solo dopo tutto confluisce in un’unica piattaforma.

ENRICO MIGLIACCIO – CONFAGRICOLTURA – RAPPRESENTANTI ALLEVAMENTI BUFALINI A distanza di parecchi anni dalla sua entrata in vigore ancora non si hanno notizie di controlli o eventuali sanzioni su qualcuno che ha sbagliato a fare la tracciabilità.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Eppure da Parlamento, Regione Campania e sindacati, fioccano le denunce sull’utilizzo di latte straniero nella Dop.

ROSAMARIA AQUINO “Da anni tutti gli addetti ai lavori, Asl, Icqrf, Consorzio, ministero della Salute sono a conoscenza dell'uso fraudolento di latte e cagliate di bufala di provenienza estera nella Dop”.

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA Mah siamo in buona compagnia allora... ma non capisco dove si voglia andare...

ROSAMARIA AQUINO Non la preoccupa una dichiarazione del genere? Non la indigna una roba del genere?

PIER MARIA SACCANI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA MOZZARELLA DI BUFALA CAMPANA Guardi, io - si nota un po' dall'accento, che non sono proprio di qua - e se io mi dovessi trovare o mi fossi mai trovato in una situazione ambigua lei oggi non mi avrebbe trovato qua.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E gliene diamo merito. Anche perché c’è da tutelare una eccellenza che tutto il mondo ci invidia e che sviluppa un giro d’affari di circa un miliardo e 218 milioni di euro ogni anno. Rimane il mistero dei quantitativi di latte. Ora secondo i soci del consorzio negli ultimi anni sono stati prodotti in media 27 quintali di latte per stalla. Invece, secondo altri che abbiamo intervistato sarebbero 22, al massimo 23. Ecco qual è la verità? Nel mezzo, in quel buco nero che c’è fra la quantità dichiarata e quella presunta reale può finirci il latte di qualsiasi tipo. Per esempio, nell’emergenza Covid hanno autorizzato il latte congelato. Qualcuno è andato a vedere cosa c’è conservato nelle celle? Secondo il direttore del consorzio è tutto a posto anche in merito ai quantitativi. Perché se è vero che da una parte le bufale vengono abbattute, in altri allevamenti invece vengono incrementante, viene incrementato l’allevamento. Poi per quello che riguarda i quantitativi di latte prodotti e quelli trasformati in mozzarelle consiglia di andare a vedere il sito Clal, che è un sito per la trasparenza, dove ci sono appunto i quantitativi di latte prodotto e quelli trasformati in mozzarella. E’ una piattaforma che è gestita dal Ministero delle Politiche Agricole e da quello della Salute. Ora sicuramente insomma è tutto molto bello però ricordiamoci che i produttori acquistano latte estero e cagliate dall’estero. Come la tracci una cagliata? Ma questo vale anche per le mascherine.

Che Grana! Report Rai PUNTATA DEL 03/01/2022 di Rosamaria Aquino

Le telecamere di Report sono entrate nei caseifici del Grana DOP e non solo. Report due anni fa aveva svelato la lista segreta dei produttori di formaggi italiani che acquistavano grandi quantitativi di latte e formaggi dall'estero. Tra queste aziende comparivano anche grossi caseifici produttori di Grana padano DOP, che acquistano latte straniero per la produzione di formaggi cosiddetti “similari”, che alla fine vanno a fare concorrenza alla stessa DOP. Report compie un viaggio nel mondo dei similari, dalle vacche rosse di Reggio Emilia fino in Repubblica Ceca, a caccia di prodotti che spesso vengono confusi con l'originale. Le telecamere di Report sono entrate anche nei caseifici che producono sia DOP che non DOP, raccontando come avvengono i controlli per scongiurare che il latte estero e il latte dop italiano non si confondano.

CHE GRANA! di Rosamaria Aquino collaborazione Marzia Amico Immagini di Matteo Delbò – Davide Fonda Tommaso Javidi – Paolo Palermo

DA REPORT DEL 25/11/2019 ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Vipiteno, ore 9. Due anni fa abbiamo visto entrare il primo dei camion di latte straniero destinato alle aziende italiane.

ROSAMARIA AQUINO Da dove viene questo latte?

AGENTI GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Allora, questo latte viene dalla Germania.

ROSAMARIA AQUINO E dove va?

AGENTI GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Ed è diretto a Verona.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO In poche ore abbiamo visto passare decine di camion. I finanzieri controllano le bolle e consultano i siti delle aziende riceventi per vedere cosa dichiarano sui formaggi che producono.

AGENTI GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Utilizziamo solo latte 100 percento molisano.

ROSAMARIA AQUINO Ah, quindi questi stanno andando in Molise a portare questo latte tedesco...

AGENTI GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE Doveva fare i chilometri...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Altro camion fermato, altra sorpresa.

AGENTI GUARDIA DI FINANZA - BRESSANONE La provenienza è sempre dalla Germania. Destinazione: in provincia di Campobasso.

PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Questi camion normalmente arrivano nelle ore notturne e scaricano la mattina presto. Ad esempio, sappiamo che arrivano delle cagliate oppure del latte.

ROSAMARIA AQUINO Da dove vengono?

PRODUTTORE DI LATTE ANONIMO Soprattutto Romania, Lituania, Estonia...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A raccontarci come funziona il sistema era stato un grosso produttore di latte che preferisce restare anonimo.

ROSAMARIA AQUINO Perché c'è questa corsa al latte straniero?

PRODUTTORE ANONIMO Il latte costa meno, intorno ai 4-5 centesimi in meno del nostro latte.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La lista delle aziende italiane che comprano latte estero c’è, ma il custode che per anni ha impedito l’accesso era un solerte funzionario del ministero della Salute. In questi anni ha detto no ai politici che chiedevano e persino alla magistratura, dopo che una sentenza lo costringeva a renderla accessibile.

SILVIO BORRELLO – DIRETTORE GENERALE SANITÀ ANIMALE MINISTERO DELLA SALUTE FINO AL 09/2020 Io non posso dare dei dati che lei come cittadino mi affida. Sono dei dati anche privati, commerciali. Alcune industrie che hanno detto che non volevano l'ostensione dei dati, mi hanno in qualche modo avvisato che avrebbero fatto una richiesta di risarcimento danni.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma il velo sulla lista delle aziende che importavano latte estero è caduto. Tra chi fa la spesa all’estero però saltano fuori anche grossi caseifici che producono sia DOP che formaggi cosiddetti “similari”, che finiscono per fare concorrenza alla stessa DOP. La nostra inchiesta, che mostrava per la prima volta l’acquisto di latte estero anche da parte delle aziende che producevano il Grana Padano, il direttore generale del Consorzio, Berni non la prende bene.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO TUTELA GRANA PADANO Nei giorni scorsi è emersa una notizia circa il fatto che il Grana Padano possa essere prodotto con latte estero. Si tratta di una sciocchezza colossale. Questo è uno di quei casi dove un giornalista l'ha pestata bella grande, c'è andato dentro fino al ginocchio, speriamo che abbia la lealtà di fare ammenda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si era arrabbiato di brutto il direttore Stefano Berni del Consorzio del Grana Padano. Avevamo pubblicato in esclusiva la lista di chi comprava latte e cagliate straniere, tra queste c’erano appunto i nomi dei produttori del Grana Padano DOP. Stiamo parlando del DOP più consumato al mondo. Ora Berni si era infuriato, aveva minacciato di non fare più pubblicità sulla Rai, poi però abbiamo fatto pace, anche perché ci siamo chiariti, è vero che nella lista ci sono nomi dei produttori del Grana Pandano DOP ma quel latte straniero viene acquistato per produrre dei similari, si tratta di un formaggio che non deve sottostare al disciplinare del Grana Padano e risponde a delle esigenze di mercato e può essere venduto a prezzi più bassi. Ora, siccome questo similare viene prodotto negli stessi stabilimenti dove viene prodotto il DOP bisogna fare attenzione che il latte italiano e quello straniero non entrino in contatto. Questo perché il similare non può godere del marchio DOP, il DOP non può essere contaminato, e Berni proprio in atto di trasparenza ci ha consentito di entrare negli stabilimenti del suo, dei suoi produttori, e ci ha fatto vedere come vigilano sui similari. Si vede è un nervo scoperto, è stato oggetto anche di contenziosi molto muscolari. La nostra Rosamaria Aquino.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Il similare nasce per confondere il consumatore, perché la sua fortuna è essere confuso col Grana Padano. Circa il 50 percento degli acquisti retail, nella grande distribuzione di similare, avviene inconsapevolmente.

ROSAMARIA AQUINO Ora come si può tollerare che i propri produttori facciano un formaggio che fa concorrenza al formaggio principale?

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Si deve tollerare. Quando abbiamo cercato di vietarlo, ci è stato vietato di vietarlo, perché per la cosiddetta libertà d'impresa… l'importante è che tu, se fai il similare, lo faccia in maniera legittima e distinta.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dopo aver minacciato di ritirare la pubblicità dalla Rai, il direttore del Consorzio ci invita a visitare le stesse aziende oggetto della nostra inchiesta. Vuole mostrarci come controllano che il latte straniero non venga mischiato con quello proveniente dalle aree della Dop. Ci accompagnano un ex agente della Guardia di finanza, Carlo Alesci, diventato poi capo delle ispezioni del consorzio Grana Padano e un funzionario del Csqa, l’ente terzo di certificazione. Entriamo nell’azienda Ca.bre che, oltre al Grana, produce il formaggio similare Leonessa, del tutto simile, per peso e forma, al Grana Padano. L’unica differenza: è prodotto con latte estero.

EUGENIO BERSELLI – PROCURATORE CA.BRE Noi da qui riusciamo a risalire al latte che è stato utilizzato per produrre quel formaggio.

ROSAMARIA AQUINO Questo ha la faccia da Ungheria, eh.

EUGENIO BERSELLI – PROCURATORE CA.BRE Non lo sappiamo.

CASARO CA.BRE No, Baviera.

ROSAMARIA AQUINO Baviera!

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Su un monitor vediamo le varie linee di scarico del latte. Ce ne sono sei e sono tutte destinate al similare Leonessa e provolone. Il Grana Dop invece ne ha una dedicata e il funzionario del Csqa si assicura che non ci siano deviazioni.

STEFANO VIVODA – AUDITOR CSQA A me interessa vedere questa separazione iniziale per avere anche un’idea dei quantitativi in ingresso e poi confrontarli con i documenti di registrazione a cui l'azienda è tenuta.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Un controllo incrociato permette di stabilire se qualche goccia non sia caduta nell’altro serbatoio.

EUGENIO BERSELLI – PROCURATORE CA.BRE Adesso noi entriamo nel reparto vero e proprio di cottura. Lì dove c’è il separé in plastica ci sono i doppi-fondi dedicati al Leonessa, in quei doppifondi finisce solo ed esclusivamente latte dedicato al Leonessa. Qui invece latte dedicato a Grana Padano, questo è latte Dop, quindi c'è la distinzione. E la tubazione che porta il latte dedicato al Leonessa è piombata.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Una tenda, quindi, divide la lavorazione di latte estero da quello italiano e questa piombatura assicura che il latte estero non vada a contaminare quello col quale viene prodotto il Grana Padano.

ROSAMARIA AQUINO Ca.bre ha acquistato nel periodo 2017-2018 in tutto 12 milioni 775mila chili di latte crudo da Germania, Austria, Repubblica Ceca e Ungheria. Quante forme ci fate con tutte queste tonnellate?

EUGENIO BERSELLI –PROCURATORE CA.BRE Lo divida per 500 chili…

ROSAMARIA AQUINO Lei ci dovrebbe fare circa 21.500 forme in due anni.

EUGENIO BERSELLI –PROCURATORE CA.BRE Grossomodo sì.

ROSAMARIA AQUINO E quando un consumatore va al bancone, se per esempio i due formaggi sono vicini, secondo lei si confonde o no?

EUGENIO BERSELLI – PROCURATORE CA.BRE Ha di diverso che lui ha impresso sullo scalzo il proprio marchio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E in effetti solo quello, perché a occhio nudo negli scaffali ci è difficile distinguerli per forma, dimensione e colore. Ma le insidie per la tutela del consumatore potrebbero annidarsi in una fase successiva.

CARLO ALESCI – CAPO DELLE ISPEZIONI CONSORZIO GRANA PADANO FINO A MAGGIO 2021 Una volta che è grattugiato ovviamente non vediamo più visivamente se è Grana Padano veramente genuino e autentico oppure se si tratta di prodotto estero o altri tipi di similari. Allora è lì che le maggiori frodi si annidano ovviamente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Anche il vicepresidente del Grana Ambrosi ci apre i suoi laboratori di grattugia, dove vediamo che le forme sono tutte in fila per essere ridotte in polvere. Se ne grattugiano 20 all’ora. A presidiare il luogo dove la forma si trasforma c'è sempre una persona.

CARLO ALESCI – CAPO DELLE ISPEZIONI CONSORZIO GRANA PADANO FINO A MAGGIO 2021 Questo è l'ispettore del Csqa.

ROSAMARIA AQUINO E lei è sempre qui.

CARLO ALESCI – CAPO DELLE ISPEZIONI CONSORZIO GRANA PADANO FINO A MAGGIO 2021 Ha questo compito: deve assistere. Praticamente il nostro grattugiato si può fare, si deve fare, solo alla presenza dell’ispettore del Csqa.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Insomma, una sentinella garantisce procedure regolari. E poi fa parte di un ente terzo e quindi dovrebbe essere al di sopra delle parti, ma quanto è effettivamente terzo? Lo stesso Carlo Alesci, già ispettore del Consorzio Grana, apre qualche crepa nelle certezze che avevamo maturato nel corso della nostra visita.

CARLO ALESCI – CAPO DELLE ISPEZIONI CONSORZIO GRANA PADANO FINO A MAGGIO 2021 Questa storia degli organismi di controllo sarebbe un po' da vedere bene, perché è vero che hanno un mandato del ministero, quindi sono degli enti terzi, cose... però è vero che vengono pagati dai consorzi. Voglio dire il Csqa adesso per carità è un ente terzo, fa le cose, eh... solo che, eh eh eh... è ovvio che i clienti siamo noi! E così per tutti, capito? Però è così per legge. È regolare, è a posto. Tutto qua.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Gli enti che certificano i consorzi sono pagati dai consorzi stessi. È un ente terzo? Secondo la legge, sì. Però va riconosciuto al Consorzio del Grana Padano di investire circa due milioni e mezzo di ogni anno per i controlli. Poi hanno ben 101 vigilatori, gli ultimi 13 li hanno assunti proprio nel mese di dicembre. Ora tutta questa tutela del marchio però stride un pochettino col fatto che venga concesso di produrre o commercializzare dei similari ma secondo Berni è impossibile fermarli: è la legge del libero mercato. Un piccolo paradosso però esiste all’interno del Cda, dei membri del Cda del Consorzio perché non è, è vietato assolutamente produrre dei similari tra i membri del Cda, non è vietato commercializzarli i similari, però in una quota che non ecceda il 20 percento del fatturato complessivo che incassano con la vendita del Grana Padano. Ecco, questa è una norma che, con cui ha fatto subito i conti uno storico produttore di Grana Padano che era anche all’interno del Cda e che ha dovuto lasciare il Consorzio proprio per questo. Si tratta di Roberto Brazzale. Produceva Grana Padano con latte straniero e a un certo punto se ne è andato direttamente nella Repubblica Ceca a produrre il suo Gran Moravia. È un formaggio che produce a costi quasi la metà e che presenta nella sua brochure come un formaggio Grana, fatto che ha fatto imbufalire letteralmente quelli del Consorzio e la questione si dirimerà probabilmente davanti a un magistrato a Venezia, a partire dalla fine della primavera. Ora, la nostra Rosamaria Aquino però è andata a trovare Brazzale nel suo stabilimento e ha trovato, pensate un po’, delle forme senza marchio Gran Moravia, ma a che cosa servono queste forme?

ROSAMARIA AQUINO Come mai quando lei decide di produrre fuori dai confini dell’Italia decidono di farla fuori?

ROBERTO BRAZZALE - IMPRENDITORE Parola grossa. In realtà…

ROSAMARIA AQUINO Hanno cambiato lo statuto per farla fuori! Quindi più di così…

ROBERTO BRAZZALE - IMPRENDITORE Ovviamente…forse perché per la prima volta un’azienda storica italiana diciamo iniziava a produrre un formaggio brandizzato fuori dai confini italiani il che ha messo ovviamente a subbuglio il settore.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Oggi Brazzale è uscito dal cda del Consorzio e non produce più Grana Padano. E non ha neppure bisogno di importare latte straniero perché se lo fa direttamente qui in Moravia, il suo similare. Lo chiama Gran Moravia e il fatto che lo definisca formaggio grana gli è valso una battaglia legale con il Consorzio.

ROSAMARIA AQUINO “Gran” sta per Grana o per grande?

ROBERTO BRAZZALE - IMPRENDITORE Allora, beh… è chiaro che è un gioco di parole, perché intanto suona meglio.

ROSAMARIA AQUINO Se domani dovessero fare un formaggio simile al suo e poi lo chiamassero con un nome simile al suo, lei come reagirebbe?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Nei limiti di quello che può essere difeso il marchio, ovviamente, noi lo difenderemmo.

ROSAMARIA AQUINO Un casaro in Italia quanto le costa?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Come costo per l'azienda, essendo molto alto il cuneo fiscale in Italia, se in Italia costa 100, qui costano attorno a 55-60, costa un dipendente.

ROSAMARIA AQUINO Lei, quindi, ha un risparmio dal venire a produrre qui o no?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Beh, senz’altro.

ROSAMARIA AQUINO Non si stupirebbe quindi se per esempio si producesse Leerdammer in Italia con latte italiano?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Se il Leerdammer è fatto con quel latte ed è un prodotto di grande qualità con quel latte, io trovo che possa essere difficile realizzarlo in Italia dove il latte ha caratteristiche diverse.

ROSAMARIA AQUINO E per il Grana invece? Non è lo stesso discorso?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Beh, per il Grana dipende… allora…

ROSAMARIA AQUINO Perché per vale per il Leerdammer e per il Grana no?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Eh, uhm, guardi... allora... noi siamo venuti qui perché qui, in base all'alimentazione che è quasi identica a quella diciamo della Pianura Padana, delle migliori stalle della Pianura Padana, e in base alle caratteristiche…

 ROSAMARIA AQUINO Beh, però diceva che qui c'è un clima diverso.

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE È diverso nel senso che come clima è migliore per il benessere del bestiame.

 ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Insomma, dipende da come la guardi. E il latte dove lo prende l’imprenditore Brazzale che fa il Gran Moravia? Ci spostiamo in alta collina dove le vacche, d'inverno, hanno a che fare con un clima che non concede sconti.

ROSAMARIA AQUINO Dicono che il latte straniero non è controllato come quello italiano.

ALLEVATORE – REPUBBLICA CECA I controlli sono molto rigidi e severi, quindi gli italiani non devono preoccuparsi che facciamo qualcosa di sbagliato.

ROSAMARIA AQUINO E sul latte invece che tipo di controllo viene fatto?

ALLEVATORE – REPUBBLICA CECA I controlli sul latte sono fatti dall'acquirente.

ROSAMARIA AQUINO Ah, dall'acquirente, non dal sistema sanitario della Repubblica Ceca?

ALLEVATORE – REPUBBLICA CECA C'è un organo che si chiama “Associazione degli allevatori”, ogni mese controlla la qualità del latte.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il suo latte, dunque, finisce anche nel formaggio di Brazzale che, per come viene lavorato e per la forma, sembra una fotocopia del Grana Padano. Può distinguerlo solo il marchio. Ma queste forme che vediamo sono senza marchio e stanno partendo per l’Italia, dove Brazzale le stagiona e dove, ricordiamo, commercia anche il Grana. Le vediamo per caso e il fatto che ce ne accorgiamo allerta i nostri interlocutori.

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE A certi clienti non le diamo marchiate. Oppure le uso io come grattugiato…

ROSAMARIA AQUINO Però sono meno riconoscibili così.

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Ma non sono destinate ad andare in circuito, sono destinate a uso interno.

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE (FUORI CAMPO) Sono marchiate queste? Ho sbagliato prima… a lasciarle…

 ROSAMARIA AQUINO Avere delle forme anonime non favorisce, in un qualsiasi posto dove tu le hai vendute, no? Non favorisce la possibilità di infilarle in altre produzioni?

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE No, è indifferente. Intanto non sono anonime perché sono tutte perfettamente identificabili, sono non brandizzate perché il brand è mio e io voglio gestire la vendita delle forme brandizzate. Solo io.

ROSAMARIA AQUINO Tu le hai vendute a questo qua e quindi l'hai gestita la tua vendita.

ROBERTO BRAZZALE – IMPRENDITORE Chi le riceve le può usare per fare i suoi usi. Allora, normalmente può essere ad esempio fare delle scaglie o fare altre produzioni. Ma se… se chi le usa ha la forma brandizzata potrebbe rimetterle in commercio usando il brand mio, quando lo voglio usare io il brand.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Persino il similare si deve difendere dai suoi simili. Il Grana Padano invece, che investe sui controlli due milioni e mezzo di euro all'anno, come si difende dai formaggi che all'estero sono praticamente uguali all'originale? Il paradosso è che se da una parte la norma vieta ai membri del Cda del consorzio di produrre similari, non vieta però agli stessi imprenditori che siedono in cda di comprare similari all’estero e rivenderli, basta che non superino il 20 per cento del fatturato del Grana. Cioè vieta di produrre, ma non di comprare e rivendere. È il caso di prodotti come questo del vicepresidente del Consorzio Attilio Zanetti che, oltre al suo Grana, commercia similari fatti in Polonia con il nome Emilgrana.

ROSAMARIA AQUINO Volevo mostrarle queste foto. Si chiama Emilgrana, con latte polacco. Ha un nome proprio prettamente italiano, così come lei diceva di Gran Moravia.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Sì, questo è il nome della… società. Non è il nome commerciale del prodotto…

ROSAMARIA AQUINO Che però poi diventa il nome commerciale.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Eh beh, se lo scrivi … se lo scrivi sull'etichetta emerge, questo è chiaro, sì.

ROSAMARIA AQUINO Però dico un investimento che fa il consorzio così grande, no? Proprio per il suo controllo, per la tutela del suo prodotto e poi vanno in giro prodotti così.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Allora guardi Zanetti, non perché è il mio vicepresidente, produce 330mila forme di Grana Padano. Lui produce 350mila forme di Padano e ne commercializza quasi 600mila. Questa sarà qualche decina di migliaia di forme.

ROSAMARIA AQUINO E quindi ci può pure rinunciare! No?

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO No. No perché se no ha la necessità di dare questo formaggio a chi non vuol spendere quanto il Grana Padano. No, dopo sennò mi fa licenziare, capito?

ROSAMARIA AQUINO Noi abbiamo fatto dei vari calcoli di acquisti che fanno tanti dei vostri consorziati e tra questi ci sono pure tanti che stanno ora in Consiglio di amministrazione. Questo si chiama Saviola. Guardi che acquisti che fa. Eh, cioè… come la vede? Sono degli acquisti normali per lei?

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO (Lunga pausa... annuisce) Beh loro, ah… Sì sono abbondanti ma... sono… siccome questa ditta è una grandissima commercializzatrice di Grana Padano, stanno dentro quel 20 più 5 che le ho detto, adesso bisognerebbe che io facessi i conti però…

ROSAMARIA AQUINO Certo, certo. Vabbè poi se li farà, anzi gliela lascio proprio.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Beh, grazie, grazie!

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A chiusura dell'intervista il direttore chiama il capo della vigilanza e insieme controllano i dati che abbiamo raccolto.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Carlo, l'hai vista tu questa qui… questa qui è… un acquisto rilevante mi sembra, due tonnellate… Lo fan tutti.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Eh, lo so. Così fan tutti, no? Voi però, voi fate le battaglie e però poi così fan tutti.

STEFANO BERNI – DIRETTORE GENERALE CONSORZIO GRANA PADANO Così fan tutti.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ha ragione: non solo il Grana Padano, ma anche chi produce Parmigiano. A Reggio Emilia, storica roccaforte della sinistra, persino le vacche sono rosse. Vengono dalla Russia e chi ha preservato la loro specie è questo signore a cui ora il consorzio del Parmigiano sta facendo la guerra, perché produce il similare Vacche Rosse – Razza Reggiana.

ROSAMARIA AQUINO Il Parmigiano qual è?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA È questo.

ROSAMARIA AQUINO Ok, questo è il Parmigiano.

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Questo è il Parmigiano.

ROSAMARIA AQUINO E il Vacche Rosse qual è?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA È questo.

ROSAMARIA AQUINO Ad occhio nudo come vedo io la differenza tra i due?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA È chiaro che voi dovete guardare la scritta che c’è sullo scalzo!

ROSAMARIA AQUINO Sì, ma se io li vedo così sullo scaffale questi sono uguali, parliamoci chiaro!

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Questi sono uguali però ricordatevi il marchio, ricordatevi.

ROSAMARIA AQUINO C’è il marchio che le contraddistingue.

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Esatto.

ROSAMARIA AQUINO Quindi cos’è che dice il Consorzio del Parmigiano Reggiano?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Che questo perché c’è scritto “Razza reggiana” e non va bene perché è un’evocazione del Parmigiano Reggiano. E poi detta una serie di condizioni che sono inaccettabili. Vogliono il marchio Vacche Rosse che glielo ceda in modo gratuito, decidere sui sacchetti come li devo fare, vogliono che non faccia altra commercializzazione se non solo alla mia produzione.

ROSAMARIA AQUINO Però lei dice: questo marchio l’ho inventato io.

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Questo marchio l’ho depositato nel ’91.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il Parmigiano però dice che il marchio Vacche Rosse-Razza Reggiana è troppo simile al suo. E quindi Catellani lo elimina completamente. Il contenzioso, però, continua. Che cosa non si inventa il Consorzio per difendere l’originale! Eppure…

ROSAMARIA AQUINO Tra chi produce il Parmigiano Reggiano c’è anche chi fa dei similari come fa lei?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Sì, ci sono tantissime persone a partire dagli stessi amministratori del consorzio.

ROSAMARIA AQUINO Come gli stessi amministratori del consorzio?

LUCIANO CATELLANI - PRODUTTORE VACCHE ROSSE-RAZZA REGGIANA Beh, anche lo stesso presidente.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Qui siamo a Parma in un negozio che reca il nome del presidente del Consorzio. Ovunque sono sponsorizzate delle offerte convenienti. Ma non per il Parmigiano, bensì per il suo gemello: il formaggio di filiera, prodotto dall'azienda dello stesso presidente.

ROSAMARIA AQUINO Che differenza c'è col Parmigiano Reggiano?

ADDETTA NEGOZIO BERTINELLI Nel Parmigiano va usato il caglio animale, noi invece usiamo il vegetale. Perché il vegetariano non può mangiare Parmigiano.

ROSAMARIA AQUINO Come prezzo invece? Con il Parmigiano, la differenza?

ADDETTA NEGOZIO BERTINELLI Due, tre euro.

ROSAMARIA AQUINO Due, tre euro di differenza. Hanno lo stesso sapore?

ADDETTA NEGOZIO BERTINELLI Sì, se volete assaggiare… lì fuori, quello oltre 24.

ROSAMARIA AQUINO Molto buono. Quindi mi diceva non è così differente con il Parmigiano.

ADDETTA NEGOZIO BERTINELLI No, non c'è differenza.

ROSAMARIA AQUINO Quindi lei mi dice che so' simili, se io li metto in una tavola e non dico… la gente non si accorge, diciamo. Se io dico, per esempio, vi sto offrendo il Parmigiano.

ADDETTA NEGOZIO BERTINELLI È difficile accorgersene al palato.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma il problema è che secondo due articoli dello Statuto del Consorzio, il presidente i similari non dovrebbe proprio produrli, pena la decadenza dalla sua carica.

ROSAMARIA AQUINO Presidente! Buongiorno, Rosamaria Aquino di Report.

NICOLA BERTINELLI - PRESIDENTE PARMIGIANO Ah, salve.

ROSAMARIA AQUINO Come mai lei che è presidente del Parmigiano produce un gemello del Parmigiano? Il formaggio di filiera, che ce lo consigliano pure… dicono che è la stessa cosa!

NICOLA BERTINELLI - PRESIDENTE PARMIGIANO Allora, si chiama in realtà “Senza” ed è un formaggio… Comunque guardi io devo andare a Rimini, se vuole prendiamo un appuntamento.

ROSAMARIA AQUINO Mi faccia capire soltanto questo, non la rende… non la rende incompatibile questo? È proprio lo statuto che lo dice! Presidente!

NICOLA BERTINELLI - PRESIDENTE PARMIGIANO No, no, no…

ROSAMARIA AQUINO Sì, sì… lo dice!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che scatto però la nostra Rosamaria. Potrebbe essere l’energia che ha accumulato mangiando il famoso formaggio. Ora, il presidente del Consorzio del Parmigiano Dop Bertinelli ci ha scritto che le richieste di intervista che noi gli abbiamo mandato lui non le ha mai ricevute, però insomma il fatto che la sua famiglia produca, la sua azienda di famiglia produca un formaggio similare al Parmigiano Dop lo renderebbe incompatibile con la sua carica di consigliere e dunque anche presidente del Consorzio. Bertinelli si è giustificato dicendo innanzitutto che quella sua è una produzione molto marginale e che poi si tratta di un formaggio, il “Senza” come lo chiama lui, perché fatto senza caglio animale, è prodotto con una tecnologia diversa. Lo stesso Ministero delle Politiche Agricole lo ha classificato come un formaggio non comparabile e non concorrente al Parmigiano Dop. Ora, questo anche perché Bertinelli l’ha presentato come un formaggio a pasta molle. Molle, insomma, la nostra Rosamaria Aquino però l’ha assaggiato, l’ha trovato stagionato oltre i 24 mesi, poi era stato esposto anche con un’etichetta dove si indicava una stagionatura superiore ai 30 mesi, le forme di formaggio “Senza” quelli di filiera e quelli del Parmigiano Dop erano messi insieme, insomma se ne consigliava anche di farlo mangiare ai vegetariani, sarebbe una versione del Parmigiano in salsa vegetariana, però, ecco, tutto molto complicato poterlo distinguere, anche al palato, quando l’ha assaggiato insomma non sembrava pasta molle. Ora, chi deve vigilare, Ministero compreso, insomma se vuole, se ha fantasia può farlo, noi ci fermiamo qui, è roba loro, sempre che qualcuno abbia voglia di fare chiarezza.

·        Il grano e i suoi derivati.

Le spighe dorate piegate dal vento. Prima erba, poi spiga, poi farina e poi pane, è la trasformazione in materia che alimenta, nutre e sostiene. Mariateresa Cascino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Giugno 2022.

Antico granaio d’Italia, campi di oro giallo a perdita d’occhio e spighe di grano che gridano l’estate: come si fa a non rimanere incantati di fronte al loro ondeggiare? Prima erba, poi spiga, poi farina e poi pane, è la trasformazione in materia che alimenta, nutre e sostiene. Oggi, guardare fluttuare le spighe di grano nei campi sinuosi della collina materana evoca ricordi, nostalgie e riflessioni: ripensi alla grandezza della via del grano, il regio cammino di Matera, così come alla fiorente arte molitoria dei secoli scorsi, alla capacità di uomini e donne di valore di incidere con buone semine e ottimi raccolti in campi diversi.

Un tempo Matera era la città dove germogliava il futuro e si potevano cogliere le mutazioni in vitro tra passaggi da una ruralità primitiva a sperimentazioni urbanistiche e culturali avveniristiche. Ma, saranno la siccità, i cambiamenti climatici, la crisi del grano, la guerra, le basse quotazioni alla Borsa di Foggia, l’impressione è quella di galleggiare in un mare dorato di spighe vacanti in cui si perdono le occasioni di raccogliere il buono che si è seminato. Allora, alleniamo l’occhio a riconoscere la malerba da quella buona per non infestare il raccolto. Per pubblica utilità, si potrebbe approntare un vademecum per orientarsi a capire la differenza tra spiga vacante e spiga di sostanza.

Come una star dell’apparenza la bellissima spiga vacante si innalza sapiente con la testa dritta e fiera e trova giovamento nel ricomporsi tra le righe. Osservandola con la lente di ingrandimento, ondeggia fascinosa, appare così piena di vita a caccia di like in pose ammiccanti. Deve riempire coi selfie il vuoto della sua inconsistenza con effimere conferme appaganti. Risparmia energia nel non creare sostanza e, senza sforzi intellettuali complessi, mostra arroganza e grande sapienza. Al contrario, la spiga di sostanza, nella sua maturità, non appare sul campo ad ostentare le chiome. Si china ad offrire sostegno e si separa gentilmente dalla paglia diventando frumento di qualità per trasformandosi in nutrimento per l’umanità. Dunque, grano piegato contadino salvato. Fortunatamente, nella sua ruralità primitiva, il cittadino materano conserva nel Dna l’antica saggezza agreste e sgrana preziosi motti e soprannomi per fronteggiare le spighe vacanti appellandole con espressioni come: tutta pogghj oppure pagghiuso. Dimostra già nei secoli la capacità di distinguere l’apparenza dalla sostanza, il vuoto dal pieno, la vanità dall’umiltà, l’erba maligna dal grano pregiato. Ma ora che è giugno c’è siccità umana e pure la guerra, ci tocca imparare a distinguere meglio la paglia dal grano godendoci lo spettacolo delle spighe dorate piegate dal peso e dal vento.

Antiqui frumenti. Lunga vita alla Tumminia. Enrico Saravalle su L'Inkiesta il 12 Settembre 2022.

Dopo anni di oblio, le colture locali tornano sulla ribalta grazie al loro contenuto di fibre, minerali, componenti fenoliche e vitamine. La Sicilia è protagonista di questa rinascita

A volte ritornano. Hanno nomi evocativi, rustici, arcaici: Russello, Perciasacchi, Maiorca, Bidì. E Tumminia, certo, perché è “lei” che ha fatto gridare al miracolo il New York Times.

Un titolo a scatola del quotidiano newyorchese ha celebrato, infatti, la Tumminia Revolution, una rivoluzione green e pacifica che vedeva (e vede) il ritorno, nei campi, nei mulini, nei forni, in tavola delle varietà autoctone di grani, quelle comunemente definite “antiche”.

Se di Tumminia parlava Goethe nel suo Viaggio in Italia (“un bellissimo dono di Cerere”, lo definisce lo scrittore), questo grano era noto già in epoca greca con il nome trimeniaios. Varietà delicate e nobili, quelle di Tumminia&Co, diffuse e allevate fino agli anni ’50 del secolo scorso, prima che la cosiddetta rivoluzione verde orientasse le coltivazioni verso varietà geneticamente modificate, adatte alla coltivazione intensiva e con alte rese per ettaro.

Da qualche tempo, però, queste colture locali ritornano ad essere interpreti, dopo anni di oblio, della Dieta Mediterranea, grazie all’alto contenuto di fibre, minerali, componenti fenoliche e vitamine delle farine ricavate dai grani locali. La rivoluzione incruenta di questi frumenti “antichi” non poteva che partire dalla Sicilia, metafora del Bel Paese anche in campo alimentare (e non ce ne voglia Sciascia!).

Qui esiste, infatti, da quasi un secolo, la Stazione Sperimentale di Granicoltura, una vera e propria banca dei semi unica al mondo dove sono conservate le varietà di cereali autoctoni siciliani, tenuti in vita e seminati solo per scopi

scientifici.

Non solo: tra ventisette qualità di grano duro riconosciute nel Registro Nazionale delle Varietà di Conservazione, sul territorio dell’isola ce ne sono ben ventidue. E sull’isola la palingenesi delle varietà antiche è merito di piccoli produttori che hanno scelto di recuperare una secolare tradizione alimentare e di coltivare, macinare ed usare solo frumenti locali. Così contadini, mugnai, pastai, panificatori si stanno impegnando per riportare in auge la produzione e l’utilizzo dei grani locali.

Una case history tra tutte? Quella di Filippo Drago, particolarmente significativa. Mulinaru, figlio e nipote di mulinari, o “mugnaio contemporaneo” – come lui stesso si definisce – in quel di Castelvetrano (Tp), Filippo è un guru dei grani antichi siciliani e ha puntato tutto sulle farine di qualità, recuperando la tradizione della molitura del grano a pietra naturale e cominciando a produrre farine dai migliori cereali autoctoni dell’isola.

«I miei conferitori – racconta Drago – sono circa un centinaio di coltivatori disseminati tra i territori (circa tremila ettari) più vocati alla coltivazione del grano, ma rigorosamente solo in Sicilia».

Snobbato sull’isola (il nemo propheta in patria vale anche per i mugnai contemporanei), Drago viene scoperto qualche anno fa da Eataly e dai big della panificazione continentale (Longoni, Marinato, Fagnola, Flaborea): le sue farine hanno fragranze straordinarie, sapori antichi, veri, inediti che si pensavano perduti. Sono farine integrali (spremute di grano, le chiama affettuosamente Filippo) dove germe, crusca e cruschello vivono e convivono senza essere separati alla nascita.

E allora vale la pena di visitare l’azienda di Drago, i Molini del Ponte appena fuori dal centro storico di Castelvetrano. Inutile cercare i cliché da spot pubblicitario: il mulino è in una costruzione anonima – per intenderci, niente ruote azionate da ruscelli, niente messi che ondeggiano al vento, niente muri bianchi – ma all’interno si scopre che tecnologia e tradizione qui vanno d’amore e d’accordo.

L’orgoglio del mugnaio è, ovviamente, la molitura a pietra naturale con i mulini a palmenti risalenti alla fine dell’800 a cui, però, si affiancano modernissimi impianti di controllo ottico di selezione e pulitura del grano.

«Con la molitura a pietra – spiega Drago – ogni varietà di grano conserva i suoi profumi e i sapori che lo caratterizzano. E Grani D’autore® è il marchio delle farine e semole prodotte nel mio mulino, di cui indico anche il luogo di provenienza e il nome del produttore, per una scelta di trasparenza e di tracciabilità».

Apripista, nella storia produttiva di Drago, è stata la Tumminia, da cui si ricava una farina dolce, dal profumo di nocciole e mandorle tostate. Che a Castelvetrano è da sempre l’ingrediente principe del Pane Nero (già Presidio Slow Food): pagnotte (le cosiddette “vastedde”) dalla crosta color caffè decorata con semi di sesamo.

Con la Tumminia, ma anche con le altre farine che escono dai Molini del Ponte, abili mastri pastai, poi, preparano varietà di pasta identiche a quelle fatte a mano dalle nonne: busiate, spaccatelle, casarecce, spaghettoni. E coi cereali maltati di Drago, Ivan Borsato, birraio, produce Si’Si’Lì, birra artigianale non filtrata e rifermentata in bottiglia.

Drago non è da solo nella “Operazione Grani Antichi”. Altri, in Sicilia, hanno deciso di cambiare strada, investendo in una nuova concezione, 100% biologica, della produzione agricola, riducendo la quantità ma puntando tutto sulla qualità. Ecco, per esempio, i fratelli Pendolino (Rosario e Maria Luisa) di Aragona (Ag), che si sono dedicati alla coltivazione di grani antichi ma non solo.

«Abbiamo deciso – racconta Rosario – di chiudere la filiera del pane, partendo dal grano fino al panificio, diventando produttori e rivenditori. Siamo convinti che la produzione dei grani antichi in maniera economicamente sostenibile sia possibile solo se si riesce a chiudere la filiera». Ed è quello che i Pendolino hanno fatto, aprendo nel loro paese Terra Dunci panificio, tavola calda, biscottificio, pasticceria dove le farine di grani antichi sono protagoniste (quasi) assolute, in preparazioni tradizionali ma anche innovative.

Ad Aragona, tra l’altro, esiste anche un progetto turistico legato ai grani autoctoni. Per scoprire di cosa si tratta basta sentire Maurizio Tedesco, proprietario di Fontes Episcopi, un tempo buen retiro del vescovo di Aragona e oggi baglio di charme circondato da palmeti e alberi da frutta. «Ai visitatori, stanchi della vita frenetica – spiega Maurizio – interessa di nuovo la bellezza delle cose semplici e genuine, la lentezza di un ritorno al passato e alle origini che è diventato il tema portante della nostra struttura».

E così accanto all’ortoterapia, ai trattamenti nella Spa a base di frutta o di piante officinali coltivate, in biologico, nel giardino di casa, a Fontes Episcopi è possibile seguire cooking class per preparare vari formati di pasta di casa con la farina di grani antichi. Che vengono coltivati all’interno del Parco Archeologico della Valle dei Templi di Agrigento e moliti in un piccolo mulino.

Non è ancora tutto. Basta spostarsi in Val di Noto, per scoprire che la lunga marcia della “Operazione Grani Antichi” prosegue lentamente ma inesorabilmente verso Est.

A Vittoria (Rg) Emanuele Guastella e Oriana Giuffrè hanno inaugurato da poco Grani Panificio Sociale, un concept che ruota intorno all’artigianalità e all’attenta selezione delle materie prime in un percorso fatto di gusto e design, saperi e sapori, dove un decor postindustriale (ferro, legno, ceramiche fatte a mano) accompagnano il profumo del pane e il calore del forno.

Emanuele ha una passione smisurata per l’arte della lievitazione: è cresciuto tra i sacchi di farina del panificio di famiglia (con lui siamo arrivati alla terza generazione) ma con una voglia forte di cambiamento. La sua sfida consiste nello scoprire tutto ciò che distingue il territorio: il lievito madre è l’elemento centrale della sua filosofia ma la selezione delle materie prime si estende anche alle tipologie di farine da utilizzare, come i grani antichi siciliani base indispensabile per pane e pizze, focacce e grissini, torte e biscotti.

Forme e preparazioni tradizionali, certo, ma anche nuove proposte e sperimentazioni che vedono, per esempio, la farina di Tumminia entrare nella composizione di pane e grissini profumati al tartufo oppure di pagnotte e filoncini che nell’impasto prevedono l’uso dell’acqua fermentata di frutta al posto del lievito madre.

Grani, insomma, è la trasposizione materica di una produzione che rispetta i tempi e materie prime locali e ne valorizza la qualità: l’unione di questi elementi dà luce al concept di Panificio Sociale, un luogo non solo di shopping ma anche di convivialità, di confronto in cui ci si ferma per gustare una colazione all’aperto, un light lunch, un aperitivo con gli amici. Per questo Emanuele e Oriana hanno creato degli spazi di aggregazione, degli angoli di relax esterni che insieme ad un piccolo angolo interno fanno casa.

Qui la socialità si lega alla sostenibilità e insieme danno vita ai valori di Emanuele e Oriana: alla base di ogni loro scelta c’è una ricerca costante di qualità e di rispetto per la materia prima, nella produzione, nel packaging, nella selezione delle bevande di accompagnamento.

A Modica (Rg), poi, c’è il Pastificio Minardo, un piccolo laboratorio artigianale diventato la concretizzazione di un progetto di Giorgio Minardo, che utilizza solo le antiche varietà locali di grano (Russello e Tumminia). «Ogni grano ha il suo sapore – dicono al pastificio – Per questo ci piace lavorare i grani in purezza e per preparare la nostra pasta, seguiamo un metodo lento, decisamente artigianale e fedele alla più nobile tradizione pastaia».

Lo stoccaggio e la molitura dei grani, per esempio, vengono effettuati separatamente per singole varietà. La molitura avviene a pietra per la pasta integrale, a cilindri per la pasta di semola di grano duro; in entrambi i casi, il germe del grano non viene mai asportato.

La semola viene impastata, a temperatura ambiente, con acqua minerale che proviene da una fonte situata sui Monti Nebrodi, un’area protetta dell’Appennino siculo. La trafilatura? Al bronzo, naturalmente, con una essiccazione che avviene lentamente e a bassa temperatura. Il risultato finale è una pasta ruvida, particolarmente profumata e gustosa, altamente digeribile.

E’ Rummo la pasta premium più amata dagli italiani, lo rivela un’indagine Doxa Swg. Redazione su Il Riformista il 26 Ottobre 2022 

Rummo è la pasta premium più amata dagli italiani. A rivelarlo è un’indagine Doxa Swg resa nota nel giorno del World Pasta Day. E’ qui che si posiziona prima di De Cecco, La Molisana, Voiello, Garofalo, Granoro, Divella, Agnesi. Nata a Benevento nel 1846 e giunta alla sesta generazione con Antonio, general manager international sales e figlio dell’attuale presidente e amministratore delegato Cosimo Rummo, la pasta “made in Sannio” si contraddistingue infatti per il metodo Lenta Lavorazione che ne fa una pasta “premium”.

Un procedimento in 7 fasi brevettato e approvato da Bureau Veritas (leader a livello mondiale nei servizi di ispezione, verifica di conformità e certificazione), che ha costretto tutti a rallentare, facendosi inseguire sul terreno della qualità. Del resto, il suo slogan è inequivoco: Pe’ fa’ ‘e cose bone ce vo tiemp. Che tradotto dal dialetto napoletano significa “per fare le cose perbene serve tempo”. E di tempo Rummo ne ha avuto per affinarsi e dominare i mercati internazionali della produzione di paste alimentari. Centosettantasei per la precisione gli anni dedicati a selezionare le migliori materie prime; realizzare impasti elastici fatti di semola e acqua; adoperare trafile in bronzo per rendere la sfoglia ruvida e pronta ad accogliere i sughi più delicati; procedere ad un’essiccazione ad hoc per ogni formato; testare la tenacità con il dinamometro (strumento utile ad individuare il punto di frattura della pasta durante la prova di compressione); studiare tra i processi di trasporto e confezionamento quelli più performanti per far arrivare integri i formati nella dispensa di casa degli italiani e non solo.

Sì, perché Pasta Rummo esporta in una sessantina di paesi (Francia, Svizzera, Spagna, Stati Uniti e Canada in primis), dopo aver fatto una scelta di campo netta sulla produzione: non vi sono stabilimenti fuori dall’Italia. Ciò ne fa un vanto per la Campania e per il Paese. Anche per la prova di resilienza che l’azienda è riuscita ad offrire all’indomani della disastrosa alluvione sannita del 2015, che ricoprì di fango e disperazione il pastificio nella zona Asi di Ponte Valentino, travolto da un’onda alta otto metri e mezzo.  Oggi Rummo è una realtà in piena salute, con 157 dipendenti e 160 milioni di euro di fatturato.

 Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 6 ottobre 2022.

Non c'è solo il caffè a stimolare l'italianissima arte della variazione gourmet, con tutto il suo giro di valzer tra lungo, ristretto, al vetro, schiumato. A Genova e in tutta la Liguria il gioco si complica ancora, infatti, ed è intorno a uno dei grandi totem golosi regionali: la focaccia. Chi la vuole dal bordo e chi dal centro, chi la vuole unta e chi più panosa, e ancora, c'è chi chiede quella di Voltri - morbida, sottile, austera, cotta sulla piastra e spruzzata di farina di mais - chi la versione dura e pura con le cipolle, ma anche chi ama la sensualissima Recco, col formaggio.

«La verità è che la focaccia qui da noi a Genova è una religione tollerante», scherza Eugenio Segalerba, vicepresidente del Tunnel, un Club per gentiluomini che è una vera e propria istituzione all'ombra della Lanterna. «Innanzitutto la focaccia nasce come pane ricco, più condito, ma si presta alle fruizioni più diverse. Sublime da sola, certo, vero street food, ma anche perfetta col nostro mitico salame di Sant' Olcese, o anche, sull'estremo opposto, sorprendente accompagnamento, pucciata nel cappuccino. I camalli, l'antica corporazione degli scaricatori del porto, alle 11 facevano uno stop e la focaccia andava giù con (almeno) un bicchiere di bianco».

Genova ci crede ed è davvero tutto un fiorire di iniziative per tenere viva la sua cultura. Barbara Palazzo, anima vulcanica e dirompente di 20 Tre, uno dei locali più cool in città non ha esitazioni: «Noi celebriamo ogni giorno, con una cucina dinamica, ricca di citazioni dal mondo, non meno che dall'archeologia gastronomica cittadina, la nostra Zena. Non è quindi un caso se il cliente trova nel suo cestino del pane una focaccia tutta giocata sulle tinte morbide della seduzione lieve: non unta, ma avvolgente, perché ci sono i fiocchi di patate nell'impasto». 

La focaccia esce insomma dai vicoli per sedersi nei salotti buoni dell'alta gastronomia, come dimostra la sua rallegrante presenza anche nel cestino del pane del Marin, il ristorante gourmet di Eataly con vista spettacolare sul porto antico. Che la focaccia sia cibo antico è ampiamente accertato. Di derivazione romana come offerta agli dei, poi nei banchetti rinascimentali e, prima ancora (nella sua versione al formaggio) offerta nell'Abbazia di San Fruttuoso ai Crociati in partenza per la Terra Santa.

Un cibo molto amato, insomma, tanto da essere consumato anche in chiesa, col risultato che nel 500 il vescovo Matteo Gambaro fu costretto a minacciare la scomunica ai fedeli incapaci a resistere. «Oggi niente scomuniche - ride Lorena Germano, anima di Quintilio, ad Altare - Al più cerchiamo di non fare confusione con la pizza bianca dei romani, buonissima, ma caratterizzata da una elevata idratazione e che cuoce sul refrattario senza teglia intorno ai trecento gradi, mentre la nostra contiene olio e cuoce in teglia intorno ai 240 gradi. 

Ma non è tutto: comprato un pezzo all'Antica Casana tra i carruggi medioevali, o da Fokaccia (untissima) nel quartiere dello shopping, non fate come i foresti che la consumano quasi sempre al rovescio. Il lato giusto da portare alla bocca è solo quello con gli occhi, più sapido e unto». 

LA RICETTA

Ingredienti: 1 kg.di farina 00, 750 g. di farina Manitoba, 150 g. di olio evo, 550 g. di acqua, 35 g. di lievito, 20 g. di estratto di malto. Gianni Ruggiero, genovese doc da anni ristoratore in Roma, nel suo Sogno Autarchico in Prati la focaccia non la fa mancare mai. «Per farla in casa, dovete impastare a lungo - racconta - Poi lasciate riposare mezz' ora l'impasto ripiegato e un'altra mezz' ora in teglia prima di cominciare a spianare con le mani, stirando l'impasto e cospargendo con una salamoia di acqua e olio. A questo punto si sala, si cosparge di altro olio, formando tanti occhi coi polpastrelli. Altro riposo di due ore in ambiente caldo e poi via in forno a 230 gradi per venti minuti». Sogno Autarchico – Roma

Unesco, la baguette francese diventa patrimonio immateriale dell’umanità. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2022.

La baguette, il pane simbolo della Francia, è stato ufficialmente iscritto tra i Patrimoni Immateriali dell’Umanità

La baguette ce l'ha fatta. Il pane tipico francese è entrato a far parte della lista dei Patrimoni Immateriali dell'Unesco. Lo ha appena comunicato il comitato Unesco riunito a Rabat, in Marocco. Il riconoscimento, che era atteso, consacra definitivamente questo simbolo dell'arte bianca ma anche della cultura della Francia. Il pane più consumato in assoluto, il più trasversale, si prepara secondo un processo tradizionale unico al mondo.

La baguette

A differenza di altri pani francesi, infatti, la baguette prevede solo quattro ingredienti (farina, acqua, sale e lievito (di birra o pasta madre) e la produzione segue rigorosamente lo stesso procedimento: va dalla pesatura alla miscelazione per concludersi con marcatura e cottura, che avviene sempre di giorno e in piccoli lotti così che risulti sempre fragrante. È anche questo, come sottolinea l'Unesco, che genera modalità di consumo e pratiche sociali che rendono le baguette uniche: si comprano tutto il giorno, come fosse un rito.

Le motivazioni del riconoscimento

L’Unesco ha infatti sottolineato che il riconoscimento è dovuto a «il savoir-faire artigianale e la cultura del prodotto transalpino che onora soprattutto le tradizioni», che lo rendono un’ «intangibile eredità culturale».

Francesco Seminara per lastampa.it il 30 novembre 2022.

Si fa presto a dire pizza ‘napoletana’, o meglio si faceva, fino a ieri. Da oggi solo il prodotto conforme al disciplinare di produzione registrato con il marchio di Specialità Tradizionale Garantita (STG) potrà chiamarsi Pizza Napoletana. È questa la notizia che emerge dall’analisi del Regolamento UE 2022/2313 pubblicato nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea L 307 di oggi 28 novembre 2022, che riporta l’iscrizione con riserva del nome Pizza Napoletana STG nel registro delle Specialità Tradizionali Garantite.

Una notizia di ampia portata che potrebbe avere un impatto sui ristoranti e le pizzerie di tutta Europa, con eventuale sanzione di tutti locali che dietro al nome Pizza Napoletana non hanno il prodotto certificato assoggettato ai controlli previsti.

La svolta per questa specialità – registrata come Pizza Napoletana STG nel 2010 – è stata la richiesta del cambio del regime di protezione da "senza riserva del nome" a "con riserva del nome" al fine di salvaguardare la registrazione del prodotto in questione dopo che è stata abolita la possibilità di registrare nomi di prodotti agricoli e alimentari come STG senza riserva d’uso del nome. Nessuno in Europa ha fatto opposizione alla richiesta pubblica lasciando via libera all’ iscrizione con riserva del nome Pizza Napoletana STG. Ma come siamo arrivati a questa decisione?

Raggiungiamo telefonicamente Mauro Rosati, Direttore di Fondazione Qualivita, che ci spiega che questo regolamento, pubblicato in data odierna, è arrivato in maniera del tutto casuale e nulla c’entra con il famoso e discusso suffisso "sovranità alimentare" del neonato ministero. La genesi ha origini lontane, dobbiamo andare al 25 novembre del 2015, giorno in cui l’allora Ministero delle Politiche Agricole inserì la tutela del nome in Gazzetta Ufficiale secondo la richiesta dell’Associazione Pizzaioli Napoletani. In data odierna l’iscrizione definitiva che regolamenta la nuova dicitura. E da domani cosa succederà?

Sicuramente una grande confusione, giacché la dicitura "napoletana" è utilizzata dalla maggior parte degli addetti ai lavori, specie quelli fuori dai confini regionali campani, con grande leggerezza. Figuriamoci fuori, nel resto d’Europa. Oggi per convenzione (sbagliata) per pizza "napoletana" s’intende quella col bordo alto, altro non è dato sapere. La legge però non ammette ignoranza e, in teoria, chi è fuori dal disciplinare, quindi senza il rispetto del disciplinare STG, andrebbe multato.

L’organismo preposto al controllo sarebbe l’ICQRF, Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari. Dobbiamo aspettarci una lotta senza quartiere in tutte le pizzerie napoletane da Aosta a Modica? Difficile prevederlo, com’è altrettanto difficile pensare che tutte queste pizzerie applichino il disciplinare, ammesso che ne conoscano l’esistenza.

Margherita non lo sa. Si fa presto a dire “pizza”. Roberto Magro su L'Inkiesta il 26 Settembre 2022.

Da piatto popolare a territorio di sperimentazione per i grandi chef, la pizza entra di diritto nella carta dei ristoranti gourmet 

L’estate 2022 è iniziata movimentata anche sul fronte gastronomico con la “crazy” querelle Briatore-Sorbillo che ha scaldato il dibattito fin da giugno attorno a prezzo, costo e valore della pizza.

La pizza sempre più spesso al centro dell’attenzione, nasce povera e unisce tutte le lingue del mondo attorno a un termine che non conosce traduzioni. Folta è la compagine di pizzaioli campani e non che puntano su un prodotto di qualità e si fanno ambasciatori della pizza nel mondo.

Di pizza si discute molto, si fanno manifestazioni, campionati, classifiche e persino una giornata mondiale della pizza: farine, tempi e modi di lievitazione, scelta e accostamenti degli ingredienti, wine pairing, tutte specializzazioni all’ “università della pizza”.

Non cambia veste solo la pizza ma anche i locali in cui si serve, non a caso i Crazy Pizza di Briatore il loro patron li definisce locali di lusso e non semplici pizzerie, nonostante il piatto forte sia lo stesso.

Nasce popolare la pizza come ci hanno ricordato le voci di controcanto a Briatore ma diventa gourmet (termine ormai inflazionato) oltre che gourmand e anche il prezzo di una margherita spesso non è più quello di una volta.

Diventa anche argomento sempre più tecnico la pizza, il termine è ormai troppo generico e si declina al plurale con risultati differenti.

Teglia, pala, padellino, anche gli strumenti e le tecniche portano a prodotti molto diversi tra di loro.

E allora partono discussioni per addetti ai lavori e appassionati su cornicioni più o meno pronunciati, spessori, idratazioni e croccantezze, su dimensioni del disco fino a virate geometriche verso rettangoli di pizza al taglio o triangolari tranci e infine fette per pizze gourmet o da condividere. Una vera fenomenologia della pizza che non rende più tanto semplice ordinarne una ma forse rispetto al passato rende più facile ordinarne una buona.

Per uscire a mangiare una pizza la prenotazione si fa obbligatoria o è da mettere in conto l’investimento di una buona fetta del proprio tempo in fila in attesa di un tavolo.

Un tipo di offerta gastronomica curata che ormai da qualche tempo si fa strada anche in hotel a cinque stelle, divenendo un valore aggiunto nei servizi, quasi quanto poteva esserlo la Spa fino a poco tempo fa. Accanto a ristoranti stellati e a quel lessico gastronomico da grand hotel come caesar salad o club sandwich, entra e riscuote successo la pizza, non una pizza qualunque però.

È il lusso che prende a mani basse dalla cucina popolare o è piuttosto la pizza che si è talmente nobilitata da poter tranquillamente aspirare al room service di una suite da capogiro? Di sicuro l’evoluzione del mondo della pizza spezza alcuni taboo e anche con le bollicine, francesi e no, la pizza si trova a proprio agio.

Per entrare dalle porte girevoli di una hall da concierge in divisa, la pizza, oltre a godere di un rinnovato successo, ha cambiato abito. Il suo smoking è diventato l’aggettivo gourmet. E su questo occorre intendersi.

Se gourmet vuol dire creatività a ogni costo negli abbinamenti, ci ritroviamo in una bolla di sapone spesso pronta a sgonfiarsi al primo morso. Se invece gourmet vuol dire cura di impasti e selezione degli ingredienti, fosse anche per la realizzazione di una semplice Margherita, allora gourmet inizia a essere un hashtag che si riempie di contenuti (qualità, gusto, digeribilità) oltre che di like.

A consuntivo della stagione estiva appena conclusa potremmo fare un breve elenco, da nord a sud, di pizze a cinque stelle incontrate nello stivale per quella che sembra qualcosa di più di una semplice moda degli ultimi anni.

Partendo da sud ci fermiamo in Puglia, a Torre Canne in provincia di Brindisi sorge Canne Bianche Lifestyle Hotel. Un piccolo gioiello dove il bianco si alterna al tufo, quasi incastonato in un rigoglioso giardino, dolcemente, tra il comfort di una Spa e quello di un’ampia piscina con idromassaggi, facendo solo pochi passi consente di scivolare direttamente in mare. Un boutique hotel che ha saputo realizzare un riuscito mix tra familiarità e professionalità.

L’offerta ristorativa punta sul territorio e da un paio di anni vede l’affermazione anche della pizzeria, en plein air come il forno a legna di fronte al mare dal quale il pizzaiolo lavora davanti ai clienti accomodati sulla veranda del ristorante Aneto.

Occhio attento al territorio con la Fasanese (tonno sott’olio fatto in casa e la cipolla rossa in agro di Aquaviva), oppure ancora con la Aneto (gambero rosso crudo e datterino di Torre Guaceto) tutte a spicchi come si conviene a una pizza gourmet. Possibilità di scegliere il tipo di impasto (classico o ai cereali) e con la Orto Rainbow gli amici vegetariani possono andare oltre la Margherita come scelta.

Spostiamoci in Liguria, riviera di ponente, qui al Grand Hotel Alassio troviamo una pizzeria napoletana interna al bistrot 18.97. Un hotel con una storia di oltre un secolo, dodici anni fa un impegnativo lavoro di restyling che non ha fatto perdere alla struttura il fascino neoclassico che ricorda i Palace dell’hotellerie francese. Non si contano le teste coronate e gli ospiti di sangue blu che vi hanno soggiornato.

L’offerta della pizza si avvale della collaborazione del pluripremiato pizzaiolo veneto Stefano Miozzo di Legnago, dove ha aperto Zio Mo’ Pizza e Bistrot. In carta diverse opzioni da un impasto che lievita 48 ore: la pizza signature Zio Mo’ (Gorgonzola Dop, fiordilatte, pancetta e mostarda di pere e noci) o le più classiche come la Quattro Stagioni che ormai sembra quasi banale o retrò riproporre e invece non lo è affatto quando è ben eseguita. E ancora una pizza Alassio (pesto, olive di Taggia, fagiolini, patate e polpo) vera bandiera gastronomica ligure in forma di pizza.

La pizza napoletana qui anima anche serate che nel corso dell’estate hanno visto ospiti altri maestri pizzaioli con le loro proposte direttamente dal forno dell’hotel.

Puntiamo ancora più a nord, dalla Liguria alla Lombardia, ma conserviamo ancora un orizzonte sull’acqua: nella regione dei laghi una sosta per ammirare il Lago di Annone al Bianca Relais di Oggiono consente una vista unica da un luminoso boutique hotel immerso nel verde. Solo dieci camere per un’idea di relax lontana dalla folla dei centri urbani e una cura del comfort che comprende in camera anche una terrazza con vasca idromassaggio e persino una Spa personale Starpool in alcune tipologie di alloggio.

La ristorazione non è da meno: l’offerta si articola tra il ristorante gastronomico Bianca sul Lago e il Drop Cafè. Deus ex machina delle cucine è il giovane Emanuele Petrosino che si è già distinto in passato e qui assieme alla propria filosofia di cucina ha recentemente portato anche una stella Michelin.

Quest’estate Emanuele ha firmato sei pizze sfornate dal pizzaiolo direttamente dall’Ape Bianca collocata nel giardino dell’hotel, da gustare sulla terrazza panoramica del Drop. Tra le sei proposte di pizza ritroviamo le origini e la cucina dello chef ma anche una pizza Bianca che qui non può mancare (provola affumicata di bufala, pepe, coppa di maialino nero, carciofino arrosto), originale lo è anche una semplice Margherita che diventa Margherita stracciata (pomodoro San Marzano, stracciata di bufala pugliese, salsa di basilico, olio evo), creativa già dal nome lo è anche la Bruschetta contemporanea (salsa di mozzarella, pomodori marinati battuti alici di Cetara, origano siciliano). Per gli indecisi, anche la possibilità di una degustazione di pizze.

Sbarca anche a Milano la pizza a cinque stelle e in uno dei simboli dell’hotellerie legata al mondo della moda, l’internazionale Four Seasons di Via Gesù, in pieno quadrilatero e da sempre scelto da modelle eprofessionisti del fashion system. Qui dopo un grande lavoro di restyling all’insegna del design più iconico e con la firma di Patricia Urquiola nella nuova veste degli ambienti comuni, approda anche un’offerta di pizza, al di là della stagione estiva. L’executive chef Fabrizio Borracino che guida l’offerta gastronomica dell’hotel assieme all’Executive Pastry Chef Daniele Bonzi, ha dato il via alla Pizza Contemporanea. Una scelta quella della pizza che si rivela versatile e che si sposa felicemente alla filosofia dell’all day dining che caratterizza strutture con servizi sartoriali per una clientela esigente.

A pranzo presso lo Stilla bar o in giardino all’ora dell’aperitivo nel suggestivo chiostro dell’ex convento ospitato secoli fa da questa struttura, la pizza al Four Seasons non manca sia per gli ospiti sia per i milanesi. Farine biologiche e lente lievitazioni il minimo comun denominatore di opzioni esclusive nella scelta degli ingredienti che descrivono un grand tour dell’Italia dal pomodoro dell’Azienda Petrilli in Puglia, al basilico di Capri, dal gambero Rosso di Mazara fino alla Robiola di Roccaverano Dop. Non casuale anche l’abbinamento dei vini, da una selezione della cantina Cà del Bosco.

Seguendo la strada delle bollicine italiane facciamo tappa all’Albereta in Franciacorta. Qui, immersi tra i vigneti e il vasto parco non lontano dai laghi, sorge una villa ottocentesca oggi Relais di pregio. Un luogo dell’accoglienza e della convivialità a tavola, dove il bere bene non può che avere un posto primario.

All’Albereta, negli anni, hanno officiato nomi come Gualtiero Marchesi e oggi l’offerta della ristorazione è diversificata: una cucina curata e gourmet in una panoramica terrazza, una scelta per chi ama coniugare buona tavola e benessere nel ristorante legato a L’Espace Chenot Health Wellness Spa e infine non poteva mancare anche uno spazio per la pizza.

Il chiosco La Filiale è il luogo in cui provare le pizze d’autore firmate Franco Pepe che qui ha deciso di far sbarcare al nord le sue creazioni. Pluripremiato ambasciatore della pizza nel mondo, presente anche in libreria, Pepe da anni fa ricerca su farine, impasti e lieviti. La carta delle pizze spazia dalle classiche alle pizze fritte, passando dalle pizze originali e signature di Pepe come la Margherita sbagliata (mozzarella di bufala Dop Il casolare, pomodoro riccio a crudo, riduzione di basilico). Non manca poi una pizza Curtefranca creata appositamente per l’Albereta (fatulì della Val Saviore, pancetta steccata affumicata, fiordilatte Il casolare, battuta di broccoli e pistacchio).

Quelli appena trascorsi sono stati i giorni del Festival Franciacorta, quale occasione migliore per abbinare pizza e bollicine e brindare alla fine dell’estate.

Pizza contemporanea. Report Rai PUNTATA DEL 21/11/2022 di Bernardo Iovene

Nel 2014 una nostra puntata sulla pizza evidenziò come il prodotto simbolo nazionale fosse trascurato negli impasti e negli ingredienti.

Da Venezia dove vengono servite scongelate, a Milano dove vegono preparate con impasti veloci, passando per Roma e fino a Napoli dove spesso sono i pizzaioli poco preparati, le pizze spesso bruciate, i forni a legna non puliti, l’olio non era extravergine, le farine troppo raffinate. Il coro unanime dei consumatori era che per la maggior parte mangiavano una pizza poco digeribile. Siamo tornati nelle pizzerie di Napoli e abbiamo trovato una situazione capovolta rispetto a quella di otto anni fa. Miglioramenti nella scelta delle farine, degli ingredienti e l’introduzione di forni a gas ed elettrici approvati dall’associazione Verace Pizza. Una rivoluzione, iniziata proprio dopo la nostra inchiesta che provocò polemiche e attacchi, ma che oggi è diventata un punto di riferimento. Mentre montava la polemica sul prezzo della pizza innescata dall’apertura delle pizzerie dell’imprenditore Flavio Briatore, Report ha scoperto che le pizzerie storiche del centro di Napoli hanno aperto succursali in tutto il mondo dove i prezzi sono anche dieci volte più cari. Ma la sorpresa è la nascita della Pizza Contemporanea Napoletana che rompe con la tradizione con impasti molto idratati, ingredienti di qualità e addirittura con una forma diversa. Infine, abbiamo affiancato gli ispettori della guida “50 top pizza world” che girano e valutano le pizzerie in incognito e quest’anno tra le new entry c’erano proprio quelle di Briatore.

“PIZZA CONTEMPORANEA” di Bernardo Iovene Immagini di Alfredo Farina, Cristiano Forti e Paco Sannino Grafiche di Federico Ajello

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nel 2014 realizzammo una puntata ormai storica sulla pizza, denunciammo approssimazione sugli impasti, sugli ingredienti, sull’uso disinvolto dei forni a legna che arrivavano a carbonizzare le farine rendendole tossiche.

DA REPORT DEL 5/10/2014 BERNARDO IOVENE Ma il fumo nero non fa male?

PIZZAIOLO No, no.

BERNARDO IOVENE Fa bene?

PIZZAIOLO Sì, Sì. È legno, è faggio.

BERNARDO IOVENE A pulirlo come lo pulisce?

GUGLIELMO VUOLO - MAESTRO PIZZAIOLO ECCELLENZE CAMPANE All'interno? Non si pulisce all’interno.

BERNARDO IOVENE Non si pulisce?

GUGLIELMO VUOLO - MAESTRO PIZZAIOLO ECCELLENZE CAMPANE No.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Venezia, dove c’è il turismo mordi e fuggi, i clienti pensavano di mangiare un doc italiano; invece, gli offrivano pizze con base surgelata e scongelate poi in forni a microonde.

PIZZAIOLO Tipo fresche. Come che finiscono allora noi chiamiamo mezz’ora dopo arrivano già pizze.

BERNARDO IOVENE Già pizze. Poi le mettete in questo forno qua?

PIZZAIOLO Sì, le scaldiamo lì.

RISTORATORE VENEZIA Le pizze non le facciamo noi, ce le portano le basi, punto. Basta.

BERNARDO IOVENE È scritto da qualche parte?

RISTORATORE VENEZIA Voi dovete fare il vostro mestiere, noi facciamo il nostro.

BERNARDO IOVENE Io ho fatto una domanda…

RISTORATORE VENEZIA No! State rompendo le balle. Punto e basta.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Se chiedi a questi turisti ungheresi se è simile a quella che mangiano in Ungheria, ti rispondono così.

TURISTI Sì, generalmente è così.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Firenze invece andavano di corsa persino sui tempi di lievitazione.

GIORNALISTA Quanto lievita l'impasto?

PIZZAIOLO 20 minuti, mezz'ora.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Milano, l’impasto della pizza al trancio dopo tre ore non è più buono.

PIZZAIOLO Questa è una pasta che va usata nel giro di tre ore.

CLIENTE Io di solito prendo la pizza rossa appunto perché la mozzarella è pesante.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In tanti usano inconsapevoli la mozzarella per pizza che arriva direttamente dall’estero, non leggono nemmeno l’etichetta.

PIZZAIOLO Io c’ho i prodotti italiani…

BERNARDO IOVENE Berlino!

PIZZAIOLO Addirittura? Manco lo sapevo io.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E per la cagliata che arriva da altri paesi non c’è l’obbligo di scriverlo.

PIZZAIOLO Non è obbligatorio, noi non lo diciamo, utilizziamo l’etichettatura che utilizzano tutti.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sorprendente fu anche la mancata preparazione dei pizzaioli napoletani.

BERNARDO IOVENE Doppio zero che vuol dire?

PIZZAIOLO Eeeeeeh…

BERNARDO IOVENE Perché deve essere doppio 0 la farina?

PIZZAIOLO … potete staccare per favore?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’olio extravergine non viene usato. Nemmeno da Michele a Forcella.

PIZZAIOLO Olio i semi di soia... è leggerissimo!

PIZZAZIOLO L'olio di semi di girasole è quello che usiamo per la classica margherita. La nostra vecchia margherita.

BERNARDO IOVENE Perché l’olio extravergine è pesante?

PIZZAIOLO È pesante, sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Insomma, ne è uscito un quadro impietoso sullo stato di un prodotto italiano, simbolo nel mondo.

UOMO Mangio di solito il primo spicchio che mi sembra buono, dopo diventa di gomma, la mozzarella non è mozzarella. La pasta diventa dura.

UOMO Lievita nella pancia e la mattina è tragica: sete, gonfiore.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Pizza con prodotti di scarsa qualità, poco curata, a partire dall’ impasto indigeribile, affumicata e persino tossica. Per questo insieme ad esperti consigliammo che per evitare le bruciature sul fondo della pizza, bastava usare una pala bucata. E di non infornare quando c’è il fumo nero nella volta. Suggerimmo anche di utilizzare farine meno raffinate utilizzando ingredienti di qualità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, Bernardo nel 2014 è stato al centro di polemiche, è stato attaccato, accusato di aver attentato a uno dei simboli dell’eccellenza alimentare italiana nel mondo in particolare della “napoletanità”. Insomma, tra i più risentiti c’erano ovviamente i pizzaioli napoletani che si appellavano, quelli più blasonati, quelli che si appellavano alla tradizione. Fomentati, anche appoggiati da una certa stampa locale. Ma Bernardo non aveva fatto altro che documentare impietosamente attraverso immagini e testimonianze l’impreparazione di alcuni di loro. E poi queste pizze documentate con immagini dal fondo bruciacchiato, servite a tavola, cotte in forni a legna, comunque sporchi, e avvolti in nuvole di fumo. Al punto di risultare potenzialmente anche tossiche. Ma i pizzaioli napoletani si sono difesi, hanno negato l’evidenza, hanno detto: ma la pizza a Napoli si è sempre cotta così. Bernardo però aveva anche puntato il dito contro gli ingredienti di scarsa qualità: pomodoro non Dop, olio di semi al posto dell’extravergine d’oliva, mozzarelle tedesche, e poi l’impasto che lievitava poco; ma soprattutto era impastato con farine troppo raffinate, doppio “0”. Al punto da risultare poi alla fine anche indigesto. Ecco, fu un duro colpo, durissimo, otto anni fa, alle certezze dei piazzaioli che si erano sedimentate nel tempo. Ma ebbe il merito quella inchiesta di aprire una riflessione. Otto anni dopo, cosa è cambiato nel mondo della pizza? Il nostro Bernardo Iovene è tornato sul luogo del delitto, consapevole anche di poter risultare poco gradito.

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Qui abbiamo una “marita” che sarebbe metà marinara e metà a margherita.

BERNARDO IOVENE Perché qua è margherita e marinara.

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Margherita e marinara, qui si rispetta la tradizione. Questo è un museo, e come tutti i musei… sì.

BERNARDO IOVENE Qua pizza al prosciutto non ne fate?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD No, tantomeno con il Pata Negra. No, non ne facciamo. Allora Berna’ gli ingredienti che noi usiamo sono quelli molto semplici; abbiamo il pomodoro 100% italiano, il nostro fiordilatte, è un prodotto di assoluta qualità e noi lo paghiamo 7€ al chilo eh… non è che lo paghiamo poco. Ovviamente basilico, olio di semi…

BERNARDO IOVENE Voi usate olio di semi… Diciamo che è un po’ un tasto dolente questo. Perché non usate l'extravergine?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Allora ti spiego: la nostra pizza ha il gusto di pizza; l’olio extravergine copre il sapore del fior di latte piuttosto che del pomodoro.

BERNARDO IOVENE Vabbè questa è la scusa…. (risata) Il costo vivo di una margherita, qual è?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Parliamo solo delle materie prime. Siamo all'euro e 70 ai 2 euro, mettendoci la locazione, la manodopera, eccetera eccetera, arriviamo massimo a 2 e 50, tre euro. Il costo al pubblico della margherita, noi, al momento, ci teniamo ancora a tenerlo a 5 euro. Non sappiamo fino a quando lo potremo tenere ancora, ma massimo che può arrivare è 6.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Michele non è cambiato nulla. Qui si fanno oltre mille pizze al giorno con un forno ad alta temperatura, nella volta del forno spesso permane il fumo, è un dato di fatto dei forni a legna… Il food cost della margherita, compreso tutto, arriva a 2 euro e 50, è chiaro che si punta sulla quantità.

ALESSANDRO CONDURRO- AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD La stessa Margherita, questa qui a Milano all'antica pizzeria Michele di Milano, costa dieci 10 euro con le stesse materie prime. Perché questa cosa? È ovvio: perché a Milano pagano 25.000 euro al mese di fitto, qui è molto più spartano.

BERNARDO IOVENE Quindi siamo in un luogo speciale con un prezzo speciale?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Assolutamente sì. Qui siamo al 1870.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da questo posto dove la pizza costa 5 euro, è partito il brand che oggi conta 31 pizzerie in Italia e nel mondo, dove sui prezzi e sulla varietà delle pizze però si cambia musica. Qui siamo da Michele a Roma.

BERNARDO IOVENE Margherita 9 euro.

GIACINTO BELCUORE - MANAGER ANTICA PIZZERIA DA MICHELE ROMA Sì. BERNARDO IOVENE E vedo che avete un bel menu, no?

GIACINTO BELCUORE - MANAGER ANTICA PIZZERIA DA MICHELE ROMA Sì, Roma è un'altra piazza, ci sono altri tipi di richieste, ma comunque la fornitura viene sempre da Napoli, da Roma prendiamo solo l'acqua.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A Roma come a Milano la margherita, che è esattamente identica a quella di Forcella, arriva a 10 euro. Tutte le altre salgono di prezzo e tutti gli ingredienti sono sempre forniti dalla base di Napoli.

PIZZAIOLO Pecorino Romano, crema di pistacchio di Bronte, mortadella di Bologna.

BERNARDO IOVENE Quanto costa questa pizza?

PIZZAIOLO 13 euro.

BERNARDO IOVENE 13€. A Napoli non hanno proprio idea di questa pizza qua, o no?

PIZZAIOLO È un fuori menù di Napoli, diciamo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma la pizza di Michele è sbarcata anche all’estero.

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD La materia prima campana portarla in Giappone, per esempio, costa tantissimo. Quindi è ovvio che la pizza in Giappone non può costare come costa a Napoli.

BERNARDO IOVENE Quanto costa in Giappone?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD In Giappone la pizza costa 2000 yen, che attualmente è l'equivalente di 18€.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ecco la pizzeria di Tokio, la margherita è sorprendentemente la stessa, così come in questa di Londra: stesso forno, stessi ingredienti, stessa pizza. Qui una margherita costa l’equivalente di 17 euro, ma ci sono pizze speciali che arrivano a oltre i 30 euro… Qui siamo da Michele a Berlino: una bufala costa 16 euro; a Dubai si paga fino a 25 euro. E poi Los Angeles, nel locale c’è anche musica dal vivo e qui una pizza si paga fino a 60 dollari.

BERNARDO IOVENE La più cara del mondo da Michele quanto costa?

ALESSANDRO CONDURRO - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DA MICHELE IN THE WORLD Arabia Saudita? Costa circa 60 euro, senza Pata Negra eh!

BERNARDO IOVENE La margherita, 60 euro? Questa è una notizia: Michele che fa la margherita a 60€.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ed eccola qua la pizzeria di Gedda in Arabia Saudita, la pizza da 60 euro in realtà non è una margherita; ma un ripieno con ricotta mozzarella e salame.

CANTANTE DAL BALCONE Se la vera pizza ti vuoi mangiare, Gino Sorbillo te la deve fare.

BERNARDO IOVENE Ah, ma quello è tuo il cantante…

GINO SORBILLO No, abita accanto non è mio!

BERNARDO IOVENE Abita lì?

GINO SORBILLO Sì, abita lì e canta e abbassa il paniere e le persone danno un’offerta a piacere.

BERNARDO IOVENE E si è inventato ‘sta storia.

GINO SORBILLO Ma si fa la fila, guarda.

BERNANDO IOVENE FUORI CAMPO Sotto il balcone della canzone, sfila via Dei Tribunali, nel centro storico, dove tutti, hanno beneficiato del successo di Gino Sorbillo, che è diventato ormai un divo della TV e dei social. Davanti alla sua pizzeria c’è sempre la fila. E anche qui la margherita costa 5 euro.

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO È un prezzo giusto per la politica popolare che noi applichiamo da sempre con le nostre pizze.

BERNARDO IOVENE A Napoli hai un'altra pizzeria sul lungomare, un po’ diversa, gli stessi prezzi sono?

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO No, sono più alti perché lì le spese di fitto sono più alte.

BERNARDO IOVENE Quindi c’è Sorbillo ai Tribunali e Sorbillo a mare.

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO A mare che è più caro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul lungomare davanti a Castel dell’Ovo, una margherita costa 8 euro, con la bufala 12 euro. Poi ci sono le pizzerie di Tokio, Miami, Milano, Genova, Torino. A Roma è in piazza Augusto Imperatore.

DANIELE BATTIMO - DIRETTORE PIZZERIA SORBILLO ROMA Questa è la famosa zizzona da un chilo che noi serviamo qui, sì.

BERNARDO IOVENE 40 euro.

DANIELE BATTIMO - DIRETTORE PIZZERIA SORBILLO ROMA Ma è da dividere per quattro - sei persone.

BERNARDO IOVENE Ai tribunali ci sono dei prezzi, qua ce ne sono altri.

DANIELE BATTIMO - DIRETTORE PIZZERIA SORBILLO ROMA Va bene, li poi, insomma, è anche uno status symbol. Quello è il cuore di Gino.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ai Tribunali Sorbillo ha coniugato la qualità con il prezzo e in questa maggiore cura della qualità, scopriamo che anche la contestata puntata di Report ha avuto un ruolo.

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO Noi usiamo il pomodoro biologico e il San Marzano.

BERNARDO IOVENE Questo è l'olio vostro. Si usa su tutte le pizze?

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO Sì, sì su tutte le pizze. Abbiamo il fior di latte di Napoli, abbiamo i carciofini del Salento, la bufala.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma la sorpresa è la farina.

BERNARDO IOVENE Non usi più solo doppio 0?

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO Non la uso più. La tipo 1 inserita nell'impasto che fa venire la pizza più saporita. Anche dopo ti dico la verità la trasmissione che… l'ultima che voi faceste appunto sulla pizza napoletana… dopo la vostra trasmissione, si è alzato un polverone. Sono nate polemiche, voglio dire, ognuno diceva la sua; ma ha fatto soltanto bene alla pizza, tanti di noi sono stati più attenti, dal piccolo al grande, per cercare di lavorare meglio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ad esempio, come evitare le bruciature sul fondo delle pizze.

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO Noi lavoriamo con poca farina per cercare di avere meno farina nel forno e di farla bruciare di meno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E di infornare con la pala bucata così come avevamo consigliato otto anni fa.

BERNARDO IOVENE Questa ormai ce l'hanno quasi tutti.

GINO SORBILLO - TITOLARE PIZZERIA SORBILLO Oramai sì e pure questa cosa è servita; attraverso il confronto, si cresce.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sorbillo è un traino anche per gli altri pizzaioli del centro storico, tra Spaccanapoli e i Tribunali, dove scorre il flusso turistico, tutti fanno tappa con pizza al tavolo o, come si usa, al portafoglio. A partire dal mattino.

BERNARDO IOVENE Permesso… Buongiorno…

PIZZAZIOLO 1 Siamo noi.

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO Ci siamo anche noi. Vieni qua, posso?

BERNARDO IOVENE Operazione delicata questa eh? Sono impegnati i signori qua…

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO Va bene così signorina?

SIGNORINA Si, grazie, vi lascio.

BERNARDO IOVENE Posso?

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO Siete il padrone!

BERNARDO IOVENE Chi è il pizzaiolo qua?

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO Noi! Questa è la classica margherita.

BERNARDO IOVENE Che cosa ci metti?

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO Pomodoro San Marzano Dop, fiordilatte di Agerola e olio EVO.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO EVO: Olio Extra Vergine di Oliva; 8 anni fa ci dicevano che era pesante sulla pizza, usavano olio di girasole. Ma c’è un’altra grossa novità, si è infranto il mito del forno a legna e hanno aperto ad altri tipi di forni. Carmine usa il gas.

BERNARDO IOVENE Non vedo fumo, non c'è differenza tra quello a legna?

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO È uguale.

BERNARDO IOVENE Un bel cornicione alto. Quanto costa la margherita da voi?

CARMINE BIANCO - PIZZAIOLO PIZZERIA IL PORTICO A tavola cinque 5 e 50.

BERNARDO IOVENE Un euro addirittura, guarda…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO In questa pizzeria, la “portafoglio”, costa addirittura un euro. Qui invece la pizza a portafoglio costa 2 euro e 50, al tavolo 5 euro. Anche qui usano forno a gas.

SALVATORE SERINO - TITOLARE PIZZERIA POMOD’ORO Prima cosa non si sa più ormai dove la provenienza della legna. Seconda cosa non c'è la fuliggine, non ci sono i pezzetti di legno che schizzano magari sulla pizza.

DOMENICO ROMANO - TITOLARE PIZZERIA D’ANGELI Possiamo dire che oggi è meglio questo a gas che quello a legna, perché il legno porta un po' di cancerogeno… e queste cose qua. Come può vedere è la stessissima cosa.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Lui invece è Davide Civitiello, un monumento tra i pizzaioli. Nel 2013 è stato campione del mondo. Nella pizzeria in questo storico locale dove oggi c’è Rosso Pomodoro utilizza il forno a gas.

DAVIDE CIVITIELLO - MAESTRO PIZZAIOLO ROSSOPOMODORO Abbiamo la temperatura vedi non come i forni napoletani, me lo dice là, a 360 gradi centigradi. All'interno del mio forno non trovi brace. Lo spazzoliamo ogni due infornate, quindi è sempre pulito, una cottura più asciutta che è molto anche più digeribile. È un forno che comunque mantiene la temperatura costante e non ci brucia la nostra pizza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Nessuno potrebbe trovare la differenza con una pizza cotta a legna. Civitiello con i suoi ingredienti top gamma tra pomodoro dop San Marzano, olio extravergine e mozzarella, vende la sua margherita a 8 euro.

DAVIDE CIVITIELLO - MAESTRO PIZZAIOLO ROSSOPOMODORO È bella, asciutta, ritorna. Capito? Non deve essere, deve essere che tu quando la mangi, poi alzi la mano e me ne chiedi un’altra.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non solo a gas, ma sono stati sdoganati anche i forni elettrici. Qui siamo nel cuore di Spaccanapoli nella pizzeria di Palazzo Petrucci che affaccia con una terrazza esclusiva su piazza San Domenico Maggiore. Qui si sfornano pizze fatte con impasti molto idratati e farine tipo 1.

DAVIDE RUOTOLO - PIZZAIOLO PALAZZO PETRUCCI Sono dei fichi che andiamo a condire con colatura di alici. Ti dico che le persone non…

BERNARDO IOVENE Non se ne accorgono?

DAVIDE RUOTOLO - PIZZAIOLO PALAZZO PETRUCCI Non notano la differenza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui chiaramente i prezzi salgono: si va dalle 6 euro e 50 della margherita, a pizze elaborate anche con prodotti freschi fino a 15 euro; il pomodoro è il bio di Corbara, l’olio è extra vergine e la farina di tipo 1.

DAVIDE RUOTOLO - PIZZAIOLO PALAZZO PETRUCCI Mi trovo molto bene, perché comunque lavorando con un’alta idratazione, la tipo 1 mi assorbe maggiormente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le pizze le prepara Davide Ruotolo che da cinque anni utilizza forno elettrico ed è stato premiato come giovane pizzaiolo dell’anno 2022. Ma la ricaduta è la bolletta. Da 1884 euro dell’anno scorso, attualmente, è balzata a 11mila e 114 euro al mese.

EDOARDO TROTTA - TITOLARE PIZZERIA PALAZZO PETRUCCI Comunque, ritengo che sia sempre giustificato rispetto alla gestione della legna: quindi l'acquisto carico, lo scarico, la manutenzione del forno della canna fumaria, di tutto quello che gira intorno... La pulizia dello stesso forno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Un risultato e un cambio di passo impensabile fino a pochi anni fa e ne ha preso atto anche l’Associazione Verace Pizza Napoletana: ha inserito nel disciplinare innanzitutto la farina tipo 1, una scelta storica, e ai corsi per pizzaioli - dove arrivano a imparare l’arte della pizza napoletana da tutto il mondo - adesso insegnano addirittura l’uso di tre forni diversi.

STEFANO AURICCHIO - DIRETTORE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Abbiamo forni a legna, a gas approvato, elettrico approvato.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA C'è stata una grossa polemica quando abbiamo accettato forni elettrici e gas. Noi siamo corretti e diciamo questa è fatta con il forno elettrico.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E infatti lo scrivono sulle insegne del marchio storico.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Vede il segno della spina?

BERNARDO IOVENE Sì sì.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Questo è gas. BERNARDO IOVENE Questo è gas.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La polemica più dura viene dall’altra associazione dei pizzaioli napoletani che ammette solo forni a legna e il presidente afferma che, a questo punto, l’associazione Verace dovrebbe anche cambiare nome.

SERGIO MICCÙ - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PIZZAIUOLI NAPOLETANI Perché l'associazione che divulga il forno a gas, il forno elettrico penso che di verace non si può parlare più di verace a questo punto, perché la pizza napoletana è cotta con il forno a legna. Deve morire col forno a legna, se morirà.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’associazione Verace nell’utilizzo del forno a legna sottolinea anche che le pizze non si devono infornare quando c’è il fumo.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Quando c'è tutto questo fumo, significa che il forno non ha raggiunto la sua temperatura. BERNARDO IOVENE Quindi questo fumo non lo dobbiamo vedere?

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Assolutamente no.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi bisogna aspettare che il fumo si dissolva, misurare la temperatura, la volta deve essere bianca come è a adesso e così il forno è pronto per lavorare.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA In questo momento elementi incombusti che possono finire sulla pizza non ce ne stanno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E per ultimo, l’associazione sfata un altro mito: il cosiddetto “profumo della legna sulla pizza” non esiste.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA Il giorno che si sente il profumo della legna sulla pizza ci arrestano. Perché significa che ci sono tutti gli idrocarburi della combustione sopra e non ci deve essere.

BERNARDO IOVENE Questo lo dovete dire ai pizzaioli napoletani però.

ANTONIO PACE - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE VERACE PIZZA NAPOLETANA I pizzaioli napoletani lo sanno. Lo sanno… e come lo sanno.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Lo sanno, ma continuano a infornare quando la cupola è densa di fumo; si è sempre fatto così e in tanti continuano a fare così.

BERNARDO IOVENE Che temperature ci sta là dentro?

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO Tra i 4 e i 500. Bisogna regolarlo ad occhio, con il legno, un pezzo in più, uno in meno, abbassare… Qua non c'è misuratore di temperatura vedi.

BERNARDO IOVENE Tutto quel fumo, non può far male alla pizza?

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO Adesso va su, va via no? Sta a mezza altezza.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ormai anche noi facciamo finta di niente, è inutile. Anche perché La pizzeria di Matteo è considerata il tempio della pizza a portafoglio. Proprio qui fece tappa nel 1994 il presidente americano Clinton. Ma intorno a questa foto, si è avverato una specie di miracolo di San Gennaro: si è replicata. E dai personaggi immortalati nello scatto è nata un’incredibile dinastia di pizzaioli e pizzerie.

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO Quello è Paolo. Quanti anni fa, trent'anni fa?

BERNARDO IOVENE Paolo sei tu quello?

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO Paolo girati fatti vedere la differenza. E là ci sono tutti i bodyguard, come puoi vedere.

BERNARDO IOVENE Da là poi che è successo? Qua Presidente, Figlio del Presidente…

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO È successo che poi tutti quanti hanno fatto un po’ i furbetti.

BERNARDO IOVENE I furbetti.

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO Sì, perché non esistevano! Poi, ultimamente, adesso abbiamo anche fatto un tabellone per ricordare che è l’unica pizzeria dove ha mangiato il presidente.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO L’unica pizzeria dove ha mangiato il presidente Clinton. E per certificarlo, hanno fatto una carta d’identità della margherita.

BERNARDO IOVENE Poi c’è Clinton che ormai è diventato un'icona proprio dei T ribunali.

EDOARDO AMMENDOLA - AMMINISTRATORE ANTICA PIZZERIA DI MATTEO E poi la frase nostra “Si na pizza vuò magnà Di Matteo te l’adda fa”.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Hanno dovuto certificare l’originalità dello scatto perché uno dei pizzaioli dell’epoca Ernesto Cacialli, che vedete in questa foto, qualche anno dopo aprì una attività che chiamò Pizzeria dal Presidente, evocando la visita di Clinton. Ma Cacialli nel 2009 è deceduto; oggi chi ha comprato l’attività ne rivendica la paternità.

MASSIMILIANO DI CAPRIO - TITOLARE PIZZERIA DAL PRESIDENTE Perché lui è l'artefice: gli ha dato lui la pizza a Clinton. Non è che la pizza l’ha venduta Di Matteo a Clinton, ma l’ha data il signor Ernesto Cacialli.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poco più avanti c’è la pizzeria del Figlio Del Presidente.

BERNARDO IOVENE Il presidente è già il terzo presidente che vedo.

PIZZAIOLO Qui è il figlio del presidente.

BERNARDO IOVENE Questo è il figlio. Quindi tu sei il figlio di Ernesto.

GIGI CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA IL FIGLIO DEL PRESIDENTE Di Ernesto.

BERNARDO IOVENE Che è quello là.

GIGI CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA IL FIGLIO DEL PRESIDENTE Sì.

BERNARDO IOVENE Quindi diciamo che tu sei l’originale.

GIGI CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA IL FIGLIO DEL PRESIDENTE Certo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E ancora prima aveva già aperto la figlia del presidente, Maria.

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENETE Il mio primo figlio.

BERNARDO IOVENE Ah quindi tu sarai il nipote del presidente un domani.

CACIALLI Già sono. MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Già lo è il nipote del presidente.

BERNARDO IOVENE Spieghiamo ‘sta cosa.

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Però Maria è unica, unica sede, unica figlia di madre vedova.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Maria, come gli ha insegnato suo padre, è rimasta attaccata alla tradizione.

BERNARDO IOVENE Voi fate ancora quella a ruota di carro vedo.

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Facciamo ‘a ruota e carrett.

BERNARDO IOVENE ‘A ruota e carett.

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Sempre quella. Sono 50 anni, sempre quella non abbiamo mai cambiato niente, nemmeno l'impasto.

BERNARDO IOVENE Quanto costa ‘sta margherita?

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Da asporto 4 euro.

BERNARDO IOVENE 4 euro…

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE E certo.

BERNARDO IOVENE E al tavolo vostro quanto si paga?

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE 5€. Ci dico caro Briatore se tu mi stai sentendo, te lo dice chi è figlia d’arte, tradizione e passione: a pizza non è cosa tua. Sei un grande imprenditore ma a pizza… parcheggiati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO “Parcheggiati Briatore”, la pizza non è cosa tua, ecco, dice Maria, verace, pizzaiola, figlia di colui che aveva posto la pizza a Clinton. Da quella foto hanno dato il via ad una sorta di franchising alla partenopea. Ecco, però il ritorno fra le pizzerie di Napoli è andata meglio di quelle che erano le aspettative per Bernardo. Ha incassato l’endorsement di Gino Sorbillo, il re della pizzeria napoletana e ha detto che è anche merito di Report, se le cose sono migliorate. Lui, per esempio, ha abbandonato le farine troppo raffinate, usa la tipo 1 che è più saporita e anche più digeribile. Poi usa solo l’olio extra vergine d’oliva e anche la pala con i buchi per evitare quando inforna di bruciare la pizza. Erano tutti consigli che aveva dato Bernardo nell’inchiesta del 2014. Era un risultato impensabile. Come era impensabile il fatto che l’associazione Verace Pizza Napoletana abbia messo nel suo disciplinare la possibilità di utilizzare anche la farina di tipo 1. Non solo, ma ha fatto anche di più: ai pizzaioli che da tutte le parti del mondo vengono per imparare l’arte della pizza napoletana, sta insegnando anche l’utilizzo, oltre che del forno a legna, anche di quello elettrico e a gas. Anzi, il presidente ha detto, ha messo in crisi il mito del profumo della legna sulla pizza. Non si deve sentire perché altrimenti significherebbe che degli idrocarburi sono andati sulla pizza. Ci arresterebbero, direbbe. Però questo ha provocato l’irritazione dell’altra associazione, quella dei piazzaioli napoletani. Il presidente Miccù ha detto: ma la pizza a Napoli si è sempre cotta nel forno a legna e deve morire nel forno a legna. Sono irriducibili. Ecco, questo anche perché il forno a legna ha il suo fascino, bisogna saperlo governare. Ci vogliono intanto tre tipi di legna: quercia, faggio e carpino. Insomma, la quercia serve per la carbonella, per fare cuocere il fondo, il faggio per la fiammella e serve a cuocere il cornicione e il carpino invece per cuocere il centro della pizza con i suoi ingredienti. Ma bisogna aspettare che arrivi a temperatura e anche che svanisca il fumo, ecco. Tutti i pizzaioli lo sanno, ma continuano ad infornare con la volta piena di fumo. Lo fanno anche nella pizzeria di Matteo, quella dove si era fermato Clinton nel 1994. Però Bernardo aveva aperto delle crepe, quelle credenze. Quali? Lo vedremo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora stavamo parlando di quello che è cambiato, della rivoluzione che è avvenuta nel mondo della pizza, grazie anche a un’inchiesta di Report del 2014; che ha toccato non solo l’utilizzo del forno a legna, aprendo anche ad altri tipi di forni, elettrico, a gas, ma anche il mondo delle farine. Accusate di essere troppo raffinate, il mondo dell’impasto. Ecco, se le cose sono cambiate, è anche grazie al ruolo che ha avuto il molino Caputo. Leader mondiale della produzione di farine per pizza, otto anni fa quando eravamo andati a visitarlo, ci aveva mostrato solo grani stranieri, e solo farine 00. Perché devono resistere all’impasto, ci aveva detto. E poi era stato, dopo l’inchiesta, uno dei più feroci critici dell’inchiesta di Report, unito a pizzaioli e giornalisti della stampa locale. Dopo otto anni, si sono cosparsi il capo di cenere e hanno iniziato una rivoluzione rivisitando in maniera virtuosa il passato.

BERNARDO IOVENE Noi ci siamo visti otto anni fa e io dopo quella trasmissione sono stato massacrato a livello mediatico. Insomma, vi siete tutti accodati…

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO Nel post Report io dico Report ha utilizzato un sistema di indagine giornalistico molto, molto aggressivo e ha acceso i riflettori su un prodotto, come la pizza napoletana che secondo me in quel momento non si è saputo difendere diciamo appropriatamente. Però aveva anche dei lati oscuri, cioè aveva anche delle cose da correggere. Si è acceso un riflettore anche nel nostro settore, che è quello delle farine, un settore su cui anche là c'è, c’è una nebulosa che non si capiva bene.

BERNARDO IOVENE Quindi anche nella farina è cambiato qualcosa?

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO Sì, se devo essere onesto, dopo Report, abbiamo ritirato fuori una ricetta di mio nonno Antimo, ovvero quella del tipo 1 con il germe crusca naturalmente presente.

BERNARDO IOVENE Quindi la tradizione?

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO La tradizione siamo tornati indietro nel tempo di tanti anni fa.

BERNARDO IOVENE Quindi noi abbiamo queste novità oggi, questa qua.

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO Questa qua, questa in particolare. Vede che ha delle punte di crusca perché abbiamo tirato fuori una vecchia ricetta.

BERNARDO IOVENE Questa otto anni fa quando ci siamo visti era impensabile.

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO Era impensabile.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Era impensabile e l’altra novità è l’introduzione di grano italiano, oggi oltre a Croazia e Kazakistan, il mulino utilizza grano italiano, dal basso Lazio, Campania e Molise, e ultimamente una farina per pizza solo con grano nostrum.

FRANCESCO D’AMORE - TITOLARE AZIENDA AGRICOLA D’AMORE Ogni anno noi aggiungiamo 2 o 3 varietà nuove per capire poi, tramite il mulino, dove andiamo a parare con discorso di qualità.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Qui ad esempio siamo a Frignano, nel casertano si festeggia il primo giorno di raccolto di una nuova varietà di grano nostrum che hanno chiamato Don Carmine.

CARMINE CAPUTO - PRESIDENTE MOLINO CAPUTO In questa terra c'erano mio nonno e i miei genitori. Il mulino Caputo nasce a pochi chilometri da qua, a Capua.

ANTIMO CAPUTO - AMMINISTRATORE DELEGATO MOLINO CAPUTO Abbiamo la fortuna di avere Ciro Salvo che è l’alfiere un po’ di questo progetto, ci crede fermamente e sta realizzando delle pizze straordinarie nelle sue pizzerie.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Quindi oltre agli studi di laboratorio c’è anche un perfezionamento empirico direttamente nelle pizzerie sia di Civitiello, che di Ciro Salvo, le sue pizzerie, qui siamo a Napoli, sono sempre piene. E anche a Roma dove ha appena aperto c’è sempre la coda, con lui ci eravamo già visti otto anni fa.

CIRO SALVO - TITOLARE PIZZERIA 50 KALÒ Mi ricordo perfettamente, forse magari quello è stato l'anno 0. C'è stata proprio una crescita esponenziale, incredibile. Io innanzitutto uso una farina di solo grano italiano. Diciamo quello con Caputo, è un progetto iniziato da qualche anno. Il grano arriva da dieci aziende agricole del sud Italia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Oltre alla farina tutti gli altri ingredienti sono tracciati. Nell’utilizzo dell’olio, poi, è un vero e proprio maniaco.

CIRO SALVO - TITOLARE PIZZERIA 50 KALÒ Uso olio extravergine e ogni pizza ha una tipologia di olio abbinata, messo sulla pizza calda appena sfornato riesce praticamente a sprigionare tutto il profumo e tutto il gusto, senza praticamente rovinarsi.

BERNARDO IOVENE Ogni pizza va abbinato il suo olio, tu non usi neanche la famosa oliera napoletana.

CIRO SALVO - TITOLARE PIZZERIA 50 KALÒ L'olio deve stare nella bottiglia e finita la bottiglia si butta e si apre un'altra bottiglia.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Delle vecchie oliere ne abbiamo già parlato, con il rabbocco continuo dell’olio senza una pulizia accurata, si rischia di raccogliere quello ormai rancido che si posa su fondo e sulle pareti. Utilizzando bottiglie piccole si possono apprezzare le migliori caratteristiche, esaltando così il sapore della pizza. Vabbè ci sacrifichiamo con un assaggio di questa bufala con crudo di parma e olio in questo caso del Cilento.

CIRO SALVO - TITOLARE PIZZERIA 50 KALÒ Vedi come senti la dolcezza del prosciutto, l'olio.

BERNARDO IOVENE Una pasta morbida, buonissima.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le pizze di Ciro Salvo, così come quelle di un altro guru Enzo Coccia della pizzeria La Notizia sono un’eccellenza.

PIZZAIOLO Guarda che bellezza! Cottura dorata.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E rappresentano un ponte tra la tradizionale e quella che oggi viene chiamata pizza Contemporanea. È l’ultima rivoluzione partita da Napoli, sta letteralmente sbancando tra le nuove generazioni e da qui si è diffusa in tutto il mondo. E anche in questa rivoluzione apprendiamo che c’è stato un contributo di Report.

BERNARDO IOVENE Questa qui?

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Questa è la mia pizza contemporanea. Sì, una pizza di identità napoletana, ma con tecnica di lievitazione un po’ più spinta. Quindi è l'eccesso delle tecniche che faceva prima mio nonno.

BERNARDO IOVENE Quindi quella che noi dieci anni fa, otto anni fa, no? Tu ti ricordi? La nostra trasmissione?

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Sì, quella è stata un punto di svolta per la pizza napoletana.

BERNARDO IOVENE Veniva messo in discussione il fatto che io mettevo in discussione la tradizione della pizza napoletana. Poi alla fine uscito fuori tutt'altro, no?

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO È servito. È stato uno stimolo forse, no? C'era un po’ questo prima di quella puntata di Report, un po’ di trascuratezza. Poi da quel momento in poi siamo volati.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Vincenzo Capuano in pochi anni ha aperto otto pizzerie tra la Campania e la Germania. La pizza ha un cornicione molto pronunciato che viene definito canotto. Qui invece siamo da Diego Vitagliano.

DIEGO VITAGLIANO - TITOLARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO Questa, diciamo, è stata un po’ la rivoluzione della…

BERNARDO IOVENE Questa qua.

DIEGO VITAGLIANO - TITOLARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO Sì, è stata un po’ la scissione dalla classica, tradizionale pizza napoletana. Diciamo che Report all'epoca ha cambiato un po’ le cose nelle pizzerie, ha aiutato tantissimo i pizzaioli e ha aiutato tantissimo a migliorare le pizzerie. Questo gliene do merito. Io l'ho sempre detto da questo punto di vista. Ecco, abbiamo fatto questa scissione, un gruppo di pizzaioli giovani. Abbiamo iniziato a capire le farine, a studiare gli impasti, la digeribilità, è uscito fuori questo prodotto. All’epoca ci definivano moda, trend, tutti quanti ci attaccavano.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La prima differenza che caratterizza i contemporanei sono proprio gli impasti molto idratati, ci vogliono 36 ore, con un pre-impasto di 24. Qui siamo a Succivo alla pizzeria da Lioniello.

SALVATORE LIONIELLO - TITOLARE PIZZERIA DA LIONIELLO Su ogni chilo di farina abbiamo 800 millilitri d'acqua. C'è un rapporto molto elevato di acqua e parliamo di un impasto abbastanza digeribile e ci dobbiamo adeguare sempre con delle temperature. Non lavoriamo con forni a 450-500 gradi, ma siamo sui 380, 400.

BERNARDO IOVENE Per cui non si forma quel fumo nero.

SALVATORE LIONIELLO - TITOLARE PIZZERIA DA LIONIELLO Non si deve formare quel fumo nero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La cottura con una temperatura più bassa dura anche un minuto in più, ma la novità è che nei forni a legna, ad esempio, non vediamo più il fumo, qui siamo da Francesco Martucci a Caserta.

BERNARDO IOVENE Cioè qua io non vedo la nuvola di fumo nero.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI No, perché deve essere docile la fiamma, flebile.

BERNARDO IOVENE Ma mediamente quanto cuoce la tua pizza?

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Due minuti. La capricciosa anche due minuti e venti, due minuti e trenta.

BERNARDO IOVENE Questa è la margherita, la posso alzare sotto?

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Come va Bernà, va bene la cottura?

BERNARDO IOVENE Va bene, va bene, questa è la capricciosa. Non era bruciata sotto.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Menomale, non è cancerogena.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Martucci usa vari tipi di forni.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Forno a legna, forno a gas e forno elettrico.

BERNARDO IOVENE Li usi tutti i forni?

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Si, sì, sì, sì. Li uso tutti.

BERNARDO IOVENE Io che mi siedo al tavolo posso mangiare sia legna che gas e non me ne accorgo.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Molto probabilmente non te ne accorgi. Siamo ancora al legno che dà il sapore alla pizza?

BERNARDO IOVENE Non è vero?

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Assss…

DIEGO VITAGLIANO - TITOILARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO Ecco, anche la stesura è totalmente diversa, quella sì dà lo slap.

BERNARDO IOVENE Qua non facciamo acrobazie.

DIEGO VITAGLIANO - TITOILARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO No.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Non esiste più lo schiaffo classico, la pasta viene allargata delicatamente.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI E sono panetti con una idratazione un po’ più alta. Non ho bisogno di fare acrobatica, vedi si apre da sola.

BERNARDO IOVENE Pochissimi movimenti.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Sì.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Lo schiaffo invece è il simbolo della pizza tradizionale.

BERNARDO IOVENE Qua facciamo ancora lo schiaffo.

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Qua sempre il pacchero.

BERNARDO IOVENE Pacchero, no schiaffo?

MARIA CACIALLI - TITOLARE PIZZERIA LA FIGLIA DEL PRESIDENTE Pacchero.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Per don Antonio Starita i contemporanei nella stesura hanno bisogno di troppa farina. E non va bene.

ANTONIO STARITA - TITOLARE PIZZERIA STARITA Credo che faccia un poco più male la contemporanea, capito?

BERNARDO IOVENE Lo schiaffo esiste ancora qua?

ANTONIO STARITA - TITOLARE PIZZERIA STARITA Certamente, non uno, non uno. Questo significa ammaccare la pizza. Molti l’allargano solo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Altra novità contemporanea è il taglio con le forbici, meglio se fatto dal maestro in persona che mostra e controlla che l’impasto sia ben asciugato e leggero, i pizzaioli come Capuano usano abilmente i social e si sono creati un pubblico che li raggiunge da ogni parte di Italia.

BERNARDO IOVENE Di Torino siete voi?

CLIENTE Torino, Torino.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Questa è la nostra pizza contemporanea, faccio il taglio con le forbici. Lo facciamo per valorizzare la struttura che c’è all’interno dell'impasto.

CLIENTE Grande maestro! (Applausi)

BERNARDO IOVENE Lo conoscete?

CLIENTE Sì, noi lo seguiamo. Da Cosenza siamo venuti apposta.

BERNARDO IOVENE Da Cosenza siete venuti!

CLIENTE Le ragazze vogliono farsi una foto con te se è possibile

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Grazie, grazie. È un onore. Arrivo subito.

BERNARDO IOVENE Un po' bruciacchiata questa Vincenzo.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO No No. Forse è che la patata è viola e dà quel senso di scuro.

BERNARDO IOVENE Fammela vedere sotto vediamo se hai fatto un buon lavoro.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Mica è bruciata?

BERNARDO IOVENE È cotta bene dai… Voi da dove venite?

CLIENTE Da Manfredonia, provincia di Foggia.

BERNARDO IOVENE Siete venuti per vedere Napoli?

CLIENTE Siamo venuti apposta per mangiare la pizza del Maestro Capuano.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Ci sono bambini che ci vedono come idoli. Prima una volta quando andavi a scuola e dicevi mio padre fa il pizzaiolo quasi ti vergognavi. C’è mio figlio che ha tre anni: fa “babbo fa le pizze”, questo è un cambiamento importante.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO La pizza contemporanea con impasto morbido e ingredienti super selezionati, attrae sempre più i giovani. Francesco Martucci, grazie alle sue pizze, è stato premiato più volte Campione d’Italia.

BERNARDO IOVENE Questa che pizza è?

CLIENTE Questa è una doc 3 temperature.

BERNARDO IOVENE Quella?

CLIENTE Una parmigiana di zucchine.

BERNARDO IOVENE La tua?

CLIENTE È una bufala.

BERNARDO IOVENE Questa?

CLIENTE Una Nero di Corbara.

CLIENTE Si chiama Domenica. Questi filetti sono di marbled, questi sono i pomodorini secchi, quella invece e una cinque consistenze di cipolla.

BERNARDO IOVENE Ma voi siete pizzaioli?

CLIENTE No, solo ci piace mangiare.

BERNARDO IOVENE Bene, buon appetito.

CLIENTE Prego. Ne arriveranno altre tre comunque.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Noi per l’assaggio ci siamo fatti accompagnare da Vincenzo Pagano giornalista e direttore di Scatti di Gusto. Martucci ci serve una fiori di zucca molto particolare, una marinara atomica con San Marzano cotto 12 ore e un pomodoro del Vesuvio essiccato e poi una margherita.

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Un impasto che si scioglie in bocca, che è una caratteristica della pizza contemporanea. Questa scioglievolezza, che prima non esisteva praticamente nella pizza napoletana.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E poi abbiamo fatto tappa da Vincenzo Capuano.

BERNARDO IOVENE È questo il futuro di Napoli? Come pizzeria, come pizza diciamo?

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO Probabilmente sì, è una pizza che piace sempre di più ai più giovani consumatori del futuro. La pizza canotto, la sua vera forza è stata quella di irrompere nei social.

BERNARDO IOVENE La mangiamo con le mani.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Eh sì, almeno su questo cerchiamo di essere più tradizionalisti possibile.

VINCENZO PAGANO - DIRETTORE SCATTI DI GUSTO L'asciugatura è corretta, diciamo che la pizza deve essere prima asciugata e poi cotta. Quella sarebbe la teoria.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Diego Vitagliano si è spinto oltre, nella sua pizzeria si può assaggiare anche la scrocchiarella romana, un’eresia.

DIEGO VITAGLIANO - TITOLARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO Prima era impensabile che un prodotto del genere.

BERNARDO IOVENE Questa è la scrocchiarella… Romana a tutti gli effetti fatto da un napoletano doc.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E quella più alta alla pala, cotte entrambe nel forno elettrico.

BERNARDO IOVENE Scrocca pure questa?

DIEGO VITAGLIANO - TITOLARE PIZZERIA 10 DIEGO VITAGLIANO Certo, più si raffredda, più scrocca.

BERNARDO IOVENE A Napoli cioé quando uno pensa alla pizza napoletana, no? Non è che pensa questa pizza che stai mangiando tu.

CLIENTE No, no pensa a tutt’altra cosa.

CLIENTE È anche bello cambiare e provare altre cose.

BERNARDO IOVENE Questo fino a dieci anni fa a Napoli non si poteva fare, lo sai?

CLIENTE No no, però ora so cagnat ‘e leggi.

BERNARDO IOVENE Sono cambiate le leggi?

CLIENTE Sono cambiate le leggi, si può fare tutto.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A spingere la rivoluzione della pizza sono proprio i giovani che coinvolgono i genitori.

SALVATORE LIONIELLO - TITOLARE PIZZERIA DA LIONIELLO Tavolo sessanta, margherita. CLIENTE Perché c’è la Rai stasera qua?

BERNARDO IOVENE Stiamo girando per le pizzerie, voi perché state qua stasera?

CLIENTE Perché mia figlia praticamente ci ha fatto una capa così che questo ragazzo con il cappello… che fa le belle pizze, buone pizze e siamo venuti qua.

BERNARDO IOVENE Ci sei già stata?

CLIENTE No, in realtà no. Io sono rimasta affascinata dal suo modo di comunicare sui social e dal suo modo di proporre la sua idea di pizza. Infatti, lui la chiama diversamente napoletana la sua idea di impasto all'80% di idratazione.

SALVATORE LIONIELLO - TITOLARE PIZZERIA DA LIONIELLO Ti presento la mia parmigiana scomposta, provola affumicata di bufala. All'uscita abbiamo delle chips di melanzane, spuma di parmigiano reggiano, pomodorino semidry e basilico fritto.

BERNARDO IOVENE Quanto costa questa pizza?

SALVATORE LIONIELLO - TITOLARE PIZZERIA DA LIONIELLO 12 euro.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Da Lioniello puoi scegliere tu l’olio tra decine di etichette, è compreso nel prezzo, ha un locale sempre pieno, dove dal tavolo si chiama il conto con un pulsante. Un altro mondo rispetto alle pizzerie tradizionali. Da don Antonio Starita è la pizzeria dove fu girato il film L’oro di Napoli.

ANTONIO STARITA - TITOLARE PIZZERIA STARITA Abbiamo i nostri 120 anni di vita.

BERNARDO IOVENE Questa pizza contemporanea lei la digerisce?

ANTONIO STARITA - TITOLARE PIZZERIA STARITA No, vi devo dire la verità, io non l'ho mai presa in considerazione.

BERNARDO IOVENE Ah, lei non la considera proprio?

ANTONIO STARITA - TITOLARE PIZZERIA STARITA No, no, la considero perché so bene che tutte le variazioni che hanno dato alla pizza poi alla fine è ritornata sempre la pizza napoletana. Quindi non ci perdo tempo, ho capito che quelle bolle a cui fanno crescere quelle cose non sono altro che chimicamente prodotte.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO A frenare sulla rivoluzione della pizza contemporanea c’è anche l’Associazione dei pizzaiuoli napoletani.

SERGIO MICCÙ - PRESIDENTE ASSOCIAZIONE PIZZAIUOLI NAPOLETANI È un impasto talmente idratato che alla fine cuoce, ma non cuoce. Perché è talmente umido all'interno, bisogna farla asciugare al forno, bisogna lentamente e diciamo che per i numeri che si fanno in pizzeria non potrà mai essere una pizza cotta come si deve. La tagliano con le forbici non si è mai una pizza tagliata con le forbici, sembra un sarto, comunque è una moda. È una moda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora, come tutte le rivoluzioni, anche quella sulla pizza divide. C’è chi vuole rimanere aggrappato al passato, semplicemente per nostalgia, magari perché si sente rassicurato dalle cose che conosce o semplicemente perché è incapace di cambiare. Ora però, se questa rivoluzione alla base ha della qualità, non la fermi. La pizza contemporanea si serve di un impasto più digeribile, le farine sono meno raffinate, l’impasto, il panetto viene più idratato. Ci vogliono ore e ore di lievitazione, anche giorni, e alla fine viene un panetto morbido che viene semplicemente steso. Non ha bisogno dello schiaffo, o’paccr, come dicono a Napoli. Neppure di quelle belle acrobazie che doveva fare il pizzaiolo. Ecco, poi quando si serve la pizza ha un cornicione alto, l’impasto che si scioglie in bocca e poi degli ingredienti rigorosamente Dop per venire incontro a un cliente più esigente. Il simbolo della pizza contemporanea è la forbice con quale il maestro pizzaiolo taglia la pizza, anche per far vedere com’è l’impasto del cornicione, alveolare, significa che ha lievitato bene. Ora a questa rivoluzione ha contribuito anche Report con la puntata di otto anni fa ed è bello sentirselo dire proprio da quei maestri pizzaioli che oggi sono al vertice delle classifiche mondiali. A cominciare da Vincenzo Capuano, che ha detto che la puntata di otto anni fa di Report è stato uno stimolo, da quel momento in poi siamo volati, ha detto. Diego Vitagliano ha detto che la puntata di Report ha aiutato tantissimo le pizzerie, è da quel momento un gruppo di pizzaioli giovani ha cominciato a studiare le farine, gli impasti, la digeribilità, e hanno partorito un prodotto che ha un nome: “Pizza Contemporanea Napoletana” che dai vicoli di Napoli, è salita, ha scalato l’Italia e addirittura il mondo. Ora mille ispettori agguerriti hanno mangiato e hanno visitato le pizzerie di tutto il mondo per stillare alla fine una classifica. Chi hanno premiato e poi soprattutto sono entrati nella pizzeria di un noto imprenditore che serve pizza con Pata Negra a 65 euro. Ecco, a quell’ispezione, si è unito anche, si è autoinvitato il nostro Bernardo Iovene. In incognito però…

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le vere rivoluzioni è difficile fermarle. E Napoli anche grazie alla pizza contemporanea e ai nuovi pizzaioli si ritrova a vivere un nuovo rinascimento. I corsi dell’Associazione Verace Pizza Napoletana sono ormai frequentati da giovani provenienti da ogni parte del mondo.

INTERVISTE STUDENTI PIZZAIOLI BERNARDO IOVENE Da dove venite?

RAGAZZO Ungheria.

RAGAZZA Ungheria.

RAGAZZO Italo australiano.

BERNARDO IOVENE Australiano…

RAGAZZO Spagna. IOVENE Spagna…

 RAGAZZA Buongiorno, io vengo dall’Australia.

RAGAZZO California.

RAGAZZO Giappone.

RAGAZZO Io vengo da Londra.

RAGAZZO Lille, Francia.

RAGAZZO Provincia di Cosenza, Calabria.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul lungo mare d’estate c’è il Pizza Village: quest’anno è stato premiato come primo pizzaiolo proprio Vincenzo Capuano per la categoria ormai riconosciuta della pizza contemporanea.

BERNARDO IOVENE Primo classificato Pizza Contemporanea.

VINCENZO CAPUANO - TITOLARE PIZZERIA VINCENZO CAPUANO Io credo che le forbici siano il simbolo della pizza contemporanea.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Ma le due competizioni più attese sono le Top 50 pizza italiana e Top 50 mondiali che si tengono rispettivamente al Teatro Mercadante e a Palazzo reale di Napoli. A organizzarle un trio di esperti giornalisti Barbara Guerra, Albert Sapere e Luciano Pignataro. A valutare le pizze in Italia ci sono circa 200 ispettori che si intrufolano nelle pizzerie in incognito e giudicano.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA È chiaro che oggi la pizza ha tanti stili. Napoletano, romano, italiano, come si suol dire. Ovviamente la qualità del prodotto, la qualità del servizio.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Pignataro è uno dei giornalisti che dopo la nostra puntata nel 2014 più ci aveva attaccato con una serie di articoli velenosi. Accusandoci di aver assediato la pizza, di aver mosso accuse vergognose alla tradizione napoletana. All’epoca aveva contestato tutte le nostre osservazioni. La notizia è che oggi ammette che avevamo ragione.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA La situazione è molto evoluta in questi anni. Veramente tanti, tanti, tanti, tanti miglioramenti ci sono stati anche per merito della vostra famosa… ecco te ne do atto qua.

BERNARDO IOVENE In ginocchio ti dovresti mettere.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA Se mi piego non mi alzo più… e quindi…

BERNARDO IOVENE Dopo tutte le male parole che mi hai detto…

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA Male parole mai, sempre critiche ovviamente.

BERNARDO IOVENE Quindi c’è stato un miglioramento e una nuova visione.

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA Un netto miglioramento.

BERNARDO IOVENE Cioè non c’è più la…

LUCIANO PIGNATARO - GIORNALISTA 50 TOP PIZZA Oggi, se giri e se andrai in giro non troverai più il pizzaiolo che non ti sa dire quello che sta facendo.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Sul podio tra i top 50 tre nostre conoscenze: primo Francesco Martucci dei Masanielli di Caserta, secondo Ciro Salvo pizzeria 50 Kalò e terzo Diego Vitagliano. Tra le prime dieci troviamo I Tigli, in provincia di Verona, pizzerie di Roma, Lombardia, Puglia, ma tanta, tanta Campania. Martucci è il quarto anno consecutivo che vince la classifica nazionale.

FRANCESCO MARTUCCI - TITOLARE PIZZERIA I MASANIELLI Confrontandosi con il 2019, la gente ha voglia di uscire, vuole divertirsi e noi dobbiamo stare lì. Dobbiamo stare al nostro posto, dobbiamo stare al servizio delle persone.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Due mesi dopo, il 7 settembre, al palazzo reale di Napoli, c’è stata anche per la prima volta la premiazione mondiale, sono stati scelti e convocati 100 pizzaioli da tutto il mondo.

BERNARDO IOVENE A Tokyo?

PIZZAIOLO Al 38º piano del Mandarin Oriental di Tokyo.

PIZZAIOLO Da Nuova Zelanda. Siamo da Dante’s Pizzeria napoletana.

BERNARDO IOVENE Che tipo di pizza fate?

PIZZAIOLO Pizza napoletana. Contemporanea.

BERNARDO IOVENE Avete la pizzeria dove voi?

PIZZAIOLA Buenos Aires, Argentina.

BERNARDO IOVENE Come si chiama la pizzeria?

PIZZAIOLA Ti Amo. Un po’ contemporanea e classica.

BERNARDO IOVENE Quindi tu da Bangkok sei venuto apposta per questa finale?

PIZZAIOLO Esatto.

PIZZAIOLO Noi abbiamo le pizzerie a New York, a New York City, Song e Napule.

BERNARDO IOVENE Dove hai la pizzeria?

PIZZAIOLO Copenaghen.

PIZZAIOLO Noi abbiamo la pizzeria a Barcellona.

BERNARDO IOVENE Siete pizzaioli di?

PIZZAIOLO Di Londra, pizzeria napoletana contemporanea.

PIZZAIOLO Pizzeria ad Amsterdam. Comunque, una pizza contemporanea non classica.

PIZZAIOLA Una a Firenze, due a Miami.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi ci sono gli italiani.

PIZZAIOLO A Brescia, provincia di Brescia, a Rezzato, la Cascina dei Sapori.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Le cento pizzerie convocate sono state visitate da oltre mille ispettori in incognito. Dal centesimo posto fino al podio, tutti rientreranno nella guida delle migliori pizzerie nel mondo. Sul podio finale un parigino, un newyorkese e un casertano, sempre lui.

FEDERICO QUARANTA - PRESENTATORE Ex aequo. Primi al mondo I Masanielli di Francesco Martucci a Caserta e Una Pizza napoletana a New York City.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO È un ex equo tra I Masanielli di Martucci e Una pizza Napoletana del newyorkese Antony Mangieri.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Al ritorno negli Stati Uniti è stato festeggiato e intervistato alla NBC con le sue pizze contemporanee. Il terzo posto va alla Peppe Pizza di Parigi.

BERNARDO IOVENE Dove sei nato come pizzaiolo?

PEPPE CUTRARO - TITOLARE PIZZERIA PEPPE PIZZA PARIGI Io sono nato ai Quartieri Spagnoli e ho fatto tutta la gavetta, quella vera.

BERNARDO IOVENE Che tipo di pizza fai?

PEPPE CUTRARO - TITOLARE PIZZERIA PEPPE PIZZA PARIGI Faccio la pizza contemporanea.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA È stata un'emozione molto forte perché delle persone che hanno fatto 18mila, 20mila chilometri per venire a prendere il premio a Napoli, da Auckland, da Sydney, da Buenos Aires, da San Paolo del Brasile.

BERNARDO IOVENE Dalla Nuova Zelanda.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA È stata una cosa… mi vengono i brividi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Una classifica a parte è prevista per le catene di pizzerie. Nel 2020 ha vinto Berberè, nel 2021 primo Michele, secondo Sorbillo, poi la francese Big Mamma, quarta Berberè e poi la londinese Pizza Pilgrims. Quest’anno c’è stata una new entry da valutare, la catena Crazy Pizza di Flavio Briatore. L’ispezione in incognito è toccata proprio ad Albert Sapere e Barbara Guerra, abbiamo chiesto se potevamo assistere.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA Andiamo ad assaggiare. Andiamo a fare un'ispezione di quelle di 50 top pizza, dove ovviamente non ci presenteremo. Pagheremo il conto e poi faremo le nostre valutazioni.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Entriamo, e ordiniamo tre pizze: la margherita da 15 euro, una catalana con i gamberi da 32 euro e la pizza con il famoso Pata Negra di 65 euro. È stata chiesta una degustazione, ma sono arrivate tutte e tre insieme anche se già tagliate a spicchi. Comincia l’assaggio e la valutazione. Si parte da quella con il Pata Negra.

ALBERT SAPERE CURATORE 50 TOP PIZZA Se senti con le mani… così c'è un eccesso di farina.

BERNARDO IOVENE Di farina sotto.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA Si c’è un eccesso di farina sotto.

BARBARA GUERRA - CURATRICE 50 TOP PIZZA Gli ingredienti sopra sono troppo cotti. Cioè perdono tutta la loro parte viva.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA Il grande problema di questo con il Patanegra è il pomodoro che si è completamente seccato.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Poi passiamo alla margherita.

BARBARA GUERRA - CURATRICE 50 TOP PIZZA Io non avverto una spinta aromatica né del pomodoro né della mozzarella.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA I prodotti sono tutti medi.

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO E si assaggia poi quella con i gamberi.

BARBARA GUERRA - CURATRICE 50 TOP PIZZA È proprio l'emblema della mediocrità. È stracotto.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA Oltre che non è un prodotto eccezionale in partenza eh, perché si vede che sono gamberetti piccoli, ma non ha personalità.

BERNARDO IOVENE Cioè neanche la sufficienza gli diamo?

BERNARDO IOVENE FUORI CAMPO Alla fine, il conto. 65 euro la pizza con il Pata Negra. 5 euro la margherita, 32 la catalana, 17 il tiramisù.

BARBARA GUERRA - CURATRICE 50 TOP PIZZA Il problema non è pagare tanto; il problema è pagare tanto per avere l'eccellenza.

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA L'impasto alla fine non è un impasto. I discorsi dei topping e delle farciture gastronomiche fino a un certo punto, ma son banali. Tutto quello che io amo che mi fa rendere questo mondo il mondo che amo, non l'ho trovato.

BERNARDO IOVENE Potrebbe mai entrare in una classifica da qualche parte?

ALBERT SAPERE - CURATORE 50 TOP PIZZA Nella nostra sicuro no. Ti dico una cosa Bernardo. Noi quest'anno abbiamo passato i mille ispettori in giro per il mondo. Io dico sempre una cosa agli ispettori, alla fine per valutare tutto: ci torneresti o non ci torneresti? Io non ci tornerei.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Qual è la morale? Che per fare un prodotto di eccellenza devi avere passione, dedizione, studio, qualità e spirito di servizio pubblico. Sono questi gli ingredienti che ti consentono di scalare il mondo anche se parti dai quartieri spagnoli o dalle strade di Caserta. Non basta essere un imprenditore o un nome blasonato, avere una pizzeria in una via blasonata, avere un prezzo alto perché ci infili sulla pizza un alimento glamour per certificare la qualità. Quella o ce l’hai altrimenti non la puoi comprare. Proprio nello spirito di tutelare la qualità che nel 2014 Report si era occupato di quello che non funzionava nella pizza. Ci sono stati dei pizzaioli tradizionali che hanno avuto l’umiltà di rivedere i loro errori, meditare su quello che avevamo detto. Altri, più giovani invece che hanno avuto la forza, il coraggio di staccarsi, di innovare studiando. Studiando gli alimenti. Sono diventati anche degli influencer sui social e poi hanno conquistato i giovani, i clienti del futuro.

Il «caso pizza», Alberto Rovati e gli altri: «Tutti i rincari». Ma quanto costa una margherita a Milano? Da 5 a 12 euro. Laura Vincenti su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Dopo la provocazione del titolare del «Funky Gallo» parlano i ristoratori. Lino Stoppani, presidente di Epam: «Dieci euro per una margherita mi sembra un prezzo altissimo perché credo di pagare solo la materia prima. Ma non è così». Ora si paga anche la scelta green dei forni elettrici. 

In questi giorni ha fatto notizia la provocazione di Alberto Rovati, titolare della pizzeria Funky Gallo a Casalmaggiore (Cremona), che ha esposto in vetrina la bolletta dell’energia elettrica da 4 mila euro. «Meglio mettere la Margherita a 10 euro e passare da ladro oppure chiudere l’attività?». Una domanda rivolta al pubblico ma anche alle istituzioni e alla quale cerca di dare una risposta anche Lino Stoppani, presidente di Epam: «La pizza è un piatto popolare, 10 euro mi sembra un prezzo altissimo perché credo di pagare solo la materia prima. Ma non è così».

Ci sono anche i costi dell’energia, della manodopera, dell’affitto. Che, per il momento, «gravano sul bilancio dei pubblici esercizi e non incidono in modo influente sul prezzo finale al pubblico» sostiene Stoppani, che riporta i dati recentemente elaborati da Fipe, secondo i quali «nel mese di luglio l’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (Nic) registra un aumento dello 0,4% su base mensile e del 7,9% su base annua (da +8,0% del mese precedente). L’inflazione acquisita per il 2022 è pari a +6,7%. La dinamica dei prezzi nel settore della ristorazione si attesta a luglio al 4,8%, ben al di sotto dell’inflazione generale e di quella dei servizi ricettivi (+12,6%)».

Racconta Paolo Piacentini, fondatore di Cocciuto: «A Milano i fattori che incidono sull’economia di scala sono due, il primo è il rincaro dell’energia. Nel 2018 abbiamo fatto la scelta green di usare i forni elettrici: dall’anno scorso a oggi solo l’energia ha avuto un incremento del 110%». Il secondo fattore che incide sui costi è l’aumento, del 10%, dei canoni di affitto «che stanno diventando quasi inaccessibili». A questi si aggiungono quelli per gli arredi: «Per allestire il primo negozio in via Bergognone abbiamo speso indicativamente 85 mila euro, per l’ultimo, appena inaugurato in via Procaccini, più del doppio (escluse le cucine). Eppure arredi, metrature e fornitore sono gli stessi». Per il momento la pizzeria non ha aumentato i prezzi: «Una Margherita con prodotti di qualità, tutti italiani, costa 8 euro, ma a settembre sarà inevitabile un ritocco, anche solo dell’8%».

In pieno centro, Sophia Loren Restaurant, inaugurato a giugno, propone la Margherita firmata dal maestro pizzaiolo Francesco Martucci a 12 euro, una pizza gourmet a 16 euro. «Sta andando benissimo — racconta il titolare Gianluigi Cimmino — piace molto anche ai turisti». Mentre quella al trancio di Spontini costa 5 euro. «Le imprese registrano aumenti dei prezzi delle materie prime (farine, olio, latte eccetera) anche del 60% rispetto allo scorso anno. Cresce anche il costo di cartone e imballaggi alimentari — spiega Arianna Fontana di Confartigianato —. Diventa quindi difficile mantenere la Margherita a 7 euro». Insomma, i prossimi mesi sembrano complicati. «Sul settore gravano diverse incognite: l’andamento della pandemia, la guerra in Ucraina, l’incertezza dell’esito elettorale — conclude Stoppani, presidente Epam —. Il “sentiment” ha un effetto molto importante sulla gente: se ci sono prospettive negative i soldi non si spendono».

Gaia Rossi per corriere.it il 20 giugno 2022.

«Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono due: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge». 

Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo mettere i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato.

 Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro —costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che Crazy Pizza non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base». 

Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».

Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra. 

«I Crazy Pizza non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia. 

La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza». 

Spighe amare. Non è tutto oro quello che luccica nei campi della Puglia. Stefania Leo su L'Inkiesta l'8 Luglio 2022

Nonostante i rincari dei prezzi al consumo, gli agricoltori denunciano speculazioni per tenere bassi quelli della materia prima alla fonte. Raccogliere un ettaro di grano costa fino al 40% in più rispetto al periodo pre pandemia 

Il nuovo raccolto di grano duro non dà quella boccata d’ossigeno tanto attesa per calmierare i prezzi della pasta e della semola. Dopo i dati in ribasso, secondo i produttori cerealicoli di Bari, della Bat e di Foggia, attraverso Cia Levante e Cia Capitanata, declinazioni provinciali di Cia Agricoltori Italiani Puglia, sarebbero in atto «gravi speculazioni sul prezzo del grano duro».

Le quotazioni della Cun e delle borse merci di Bari e Foggia questa settimana hanno fatto segnare un ribasso: un calo di 10 euro alla tonnellata nel Barese, dai 20 ai 23 euro nel Foggiano rispetto alle quotazioni di partenza che oscillano dai 540 ai 575 euro al quintale. Sembrano cifre risibili, ma non lo sono, specie se rapportate ai pesanti aumenti dei costi di produzione. Dalla prima aratura alla trebbiatura, passando per il decremento quantitativo delle rese per ettaro, a causa della persistente siccità, la più prolungata degli ultimi anni, il grano duro pugliese non ha vita facile.

Negli ultimi anni, complessivamente la Puglia ha prodotto mediamente 9,5 milioni di quintali di grano duro, vale a dire il 35% della produzione nazionale, impiegando una superficie pari a 344.300 ettari. Da sola, la provincia di Foggia riesce in media a produrre 7.125.000 quintali su una superficie di 240 mila ettari.

Si può pensare che, data la situazione di stallo cerealicolo determinato dalla guerra tra Russia e Ucraina, anche le quotazioni del grano duro avrebbero dovuto risalire e dare ossigeno ai produttori. Ma così non è. Anzi, il prezzo per quintale continua a scendere. Ma cosa provoca questo fenomeno?

Secondo Giuseppe Creanza, direttore Cia Levante, «ci sono fenomeni speculativi messi in atto dagli intermediari, commercianti che fanno il bello e il cattivo tempo sulle contrattazioni con gli agricoltori. Tra le strategie messe in atto ci sono le voci su maxi produzioni in arrivo dal Canada, che spingono gli agricoltori a vendere per timore che il prezzo cali troppo. Ma questo raccolto è atteso tra circa quattro mesi: parlarne ora significa avere la sfera di cristallo».

Del resto, fra giugno e luglio 2021, parti del Canada e degli Stati Uniti furono colpite da un’ondata di caldo storica. In alcune zone del Canada, uno dei massimi produttori di grano al mondo, furono raggiunti i 50° C e il fenomeno provocò un crollo produttivo del 27% rispetto all’anno precedente, il più basso degli ultimi otto anni (dati: International Grain Council); questo determinò un aumento del prezzo del grano duro e tenero all’origine e a valle della trasformazione.

Dato che le forme organizzate di commercio legate a cooperative in Puglia scarseggiano, gli intermediari determinano ancora pesantemente gli umori del mercato. «Inoltre – continua Creanza – i contadini sono spinti a vendere anche dal bisogno di realizzare liquidità. Ciò spinge a tenere un prezzo più basso. Fra qualche settimana s’inizierà ad arare e a preparare i terreni. Con l’aumento dei costi registrati, è necessario rientrare delle risorse impegnate durante la precedente campagna».

I costi di produzione per chi coltiva e raccoglie grano sono già aumentati dal 30 al 40%. Coltivare e, soprattutto, raccogliere un ettaro di grano, prima della pandemia aveva un costo che oscillava fra i 700 e i 750 euro, mentre oggi occorrono ben più di 1000 euro. Grossa parte degli aumenti è da riversare sull’aumento del costo del carburante agricolo, schizzato a 1,60 euro al litro.

«Gli imprenditori agricoli reclamano il giusto prezzo, altrimenti per le aziende che non riusciranno a coprire i costi di produzione, sarà davvero difficile seminare nuovamente grano in autunno, col risultato di una maggiore dipendenza di materie prime agricole dall’estero – denuncia Cia Levante – L’andamento del mercato dimostra, per chi ancora avesse dubbi, che l’aumento dei prezzi dei prodotti finali ai consumatori, come pane, pasta, farine, biscotti, non dipende dai prezzi dei prodotti agricoli».

La farinata: altro che Ulisse, la inventarono i genovesi. Beatrice Gigli su Culturaidentita.it il 6 Luglio 2022

Se gli spaghetti al pomodoro e la pizza margherita sono tra i piatti più famosi della cucina italiana nel mondo, un posto speciale è riservato anche a quelli meno conosciuti ma ugualmente squisiti e ricchi di aneddoti e tradizione. Ogni ricetta della nostra bell’Italia è quasi sempre legata ad un personaggio mitico, una storia, una leggenda, e la farinata ne ha una d’eccezione che racconta le sue origini davanti alla mura di Troia. Durante l’assedio degli Achei, Ulisse, l’intelligente re di Itaca, in mancanza di cibo, ebbe l’idea di impastare la farina di ceci nell’olio d’oliva e cuocerla all’interno degli scudi militari messi sul fuoco. Il risultato fu un piatto molto buono, ad alto contenuto proteico e di semplice preparazione, e che poteva essere consumato velocemente tra una battaglia e l’altra.

Un’altra fonte, storica e non leggendaria, è riportata su alcuni testi antichi: una galea genovese, dopo la vittoria sui pisani nella famosa battaglia di Meloria, si trovò nel mezzo di una tempesta; i sacchi di farina e i barili d’olio, conservati nella stiva, si rovesciarono mescolandosi all’acqua di mare che, a causa del mare agitato, entrò nell’imbarcazione; si creò così una poltiglia squisita, che una volta seccata al sole, sfamò l’equipaggio esausto dalla tempesta. I cuochi genovesi ripresero la ricetta con piccoli accorgimenti e, mescolando al meglio tutti gli ingredienti, diedero forma e sostanza alla farinata genovese che tutti conosciamo.

Ma anche questa storia è, ovviamente, un rinomato falso storico. Le origini della farinata sono ancora più antiche e non si conosce molto a riguardo, ma la paternità non si discute: tra XIX e XX secolo, nel periodo delle grandi migrazioni liguri in Sud America, la ricetta trovò infatti spazio anche nella cucina popolare d’Argentina e Uruguay, a conferma del grande impatto che hanno avuto i genovesi su queste culture.

Basta un poco di zucchero. I tanti volti della pasticceria contemporanea. Chiara Di Paola su L'Inkiesta il 23 Luglio 2022.

Il nostro viaggio nel mondo dei dolci parte dal retrobottega e arriva ai dessert interattivi che si muovono, fanno rumore e si possono personalizzare in base ai gusti del cliente

Alzi la mano chi non ha almeno un ricordo felice in cui non fosse presente un dolce: la torta di compleanno, il budino della nonna, i cornetti appena sfornati delle colazioni in vacanza. Il motivo per cui amiamo i dolci sta (quasi) tutto nella capacità di rievocare quei momenti e indurre un abbandono che ci riporti indietro nel tempo (anche quando il loro aspetto e il loro sapore sono completamente diversi da quelli scolpiti nella nostra memoria).

La pasticceria contemporanea ne è consapevole e punta a creare suggestioni lavorando sempre più per sottrazione: pochi ingredienti (ma buoni), meno zucchero, decorazione essenziale, niente funambolismi culinari. Più rigore, più ordine ma anche più leggerezza (soprattutto spirituale), più voglia di far sognare… anche a Milano!

Dolci pretesti per rallentare (con gioia)

Nel capoluogo meneghino si corre. Sempre. Anche quando non si ha fretta di andare in alcun luogo preciso. Spesso si fugge, altre volte ci si dimentica che il “qui e ora” è davvero “solo qui” e “solo ora” e forse meriterebbe un po’ di attenzione in più. I due anni trascorsi ci hanno costretti a un’inerzia coatta, che non ha fatto altro se non indurci a recuperare il tempo perso, spingendo ancor più sull’acceleratore. Per trovare spazio in questa dinamica il dolce si trasforma in un “tentativo”, un invito a fermarsi, salutarsi come si deve, vivere un momento intimo insieme. La pasticceria Pavé (milanese nell’ubicazione ma non nello spirito) ne ha fatto un manifesto, e tramite i suoi post sui social invita i cittadini a ritrovarsi, godersi l’attimo in reciproca compagnia, davanti a un dolce che vuole essere un pretesto, in cui si incontrano l’ispirazione del pasticcere nel creare e quello di chi si siede per celebrare un momento felice.

La riscoperta della semplicità: il ritorno al futuro è hi-tech

Planetarie e temperatrici del cioccolato, termocamere, sonde lambda, atmosfera in sovrapressione, termosaldatrici per il sottovuoto, stampanti 3D e persino macchine che misurano l’acqua libera negli alimenti. Ormai entrando in un laboratorio di pasticceria 4.0 ci si ritrova in un ambiente fantascientifico, a metà tra una sala operatoria all’avanguardia e una navicella spaziale, in cui tecnologia e innovazione si integrano perfettamente con le modalità produttive e l’approccio artigianale, garantendo un maggiore controllo dei processi di lavorazione e una migliore riuscita del risultato finale.

Lo sanno bene i protagonisti dell’attuale panorama della pasticceria milanese e lombarda che, dai panettoni (di Iginio Massari e della pasticceria Martesana) al cioccolato (del maître chocolatier Ernst Knam), fino ai classici rivisitati in versione in chiave nuova ed esteticamente più accattivante (di Alessandro Servida), hanno aggiornato la loro arte rendendola sempre più hi-tech tramite sistemi di controllo informatici e sensoristici e a strumenti che consentono di lavorare con costanza e qualità, compiendo in maniera precisa e continua operazioni che l’uomo non riuscirebbe a svolgere a mano.

Con in più un’attenzione rivolta alla sostenibilità: dal momento che migliorare la strumentazione significa ridurre gli sprechi e sostenere produzioni elevate riducendo i costi economici e ambientali, legati per esempio alle emissioni di Co2 prodotte dal comparto di refrigerazione.

La rivincita del laboratorio: innamorarsi del “dietro le quinte”

Tradizionalmente considerato un “backstage” da tenere segreto per non distogliere l’attenzione dalla vetrina, oggi il laboratorio è uno spazio sempre più i pasticceri vivono ed esibiscono con orgoglio, in quanto cuore di un progetto, riflesso di un modo di intendere la propria arte e  spazio per accogliere e sviluppare nuove idee e nuovi talenti.

Così, sono sempre di più gli interpreti della dolcezza milanesi che scelgono di abbattere i confini tra area produttiva e banco, alcuni (come Iginio Massari) mettendo il laboratorio in mostra e trasformandolo nel palcoscenico di uno showcooking continuo, altri (come Gianluca Fusto) portando il cliente direttamente dietro le quinte, alla scoperta di un luogo in cui nulla è lasciato al caso (dal design, all’arredamento, dall’illuminazione alla disposizione dei macchinari), ma è pensato e studiato per agevolare il lavoro, favorire la creatività, garantire qualità e sicurezza, stupire gli occhi e sedurre il palato con eventi e degustazioni direttamente in loco.

Tra lusso modaiolo e crostata democratica

Attenzione ai particolari, scelta accurata delle materie prime, precisione e ricerca dell’eccellenza. Sono questi gli elementi essenziali che contraddistinguono la pasticceria di lusso contemporanea. E se c’è chi (come Roberto Rinaldini) ha scelto di declinarli in versione più “elitaria”, e per distinguersi ha ceduto al fascino della moda milanese, trasformandosi in uno “stilista del dolce” e cercando di realizzare opere, altri hanno scelto di puntare su un altro stile comunicativo, più democratico ma non meno significativo. Anzi.

Gianluca Fusto rifiuta di definirsi pastry chef (un anglicismo che non ha alcuna corrispondenza in italiano) o artista (troppo aulico e pretenzioso), ritenendosi semplicemente un interprete di tre ingredienti fondamentali della pasticceria: testa, cuore e gesto. Ovvero: emozione, conoscenza e ragionamento e creazione tecnica di qualcosa che non è essenziale (diciamocelo, i dolci sono un extra senza il quale, in teoria, potremmo benissimo sopravvivere), ma che proprio per la sua inutilità, «se deve essere, deve essere commovente».

Ecco allora che la scelta di dedicare un intero libro alle crostate, uno dei dolci più antichi della tradizione italiana diventa una dichiarazione di intenti che ha un che di rassicurante: l’idea che l’alta pasticceria non sia una dimensione autoreferenziale bensì qualcosa di replicabile a casa e capace di riportare davvero alle origini.

Equilibrio e geometrie, ma no agli eccessi

Secondo Fusto, emozione e pensiero, nel dolce, vanno di pari passo. Ciò significa che anche il gusto deve essere studiato, progettato e costruito attraverso una serie di scelte che riguardano gli ingredienti, le tecniche, gli strumenti e la forma finale (che è al tempo stesso estetica e funzionale).

Per realizzare il dolce “perfetto” servono conoscenze che spaziano dall’ambito chimico-fisico a quello anatomico-sensoriale, per poter giocare su consistenze e abbinamenti. E anche l’aspetto esteriore vuole la sua parte, ma senza lasciarsi prendere la mano con il rischio di esagerare e snaturare l’identità di realizzazioni radicate nella cultura dei consumatori.

Secondo Alessandro Servida, che ha fatto della reinterpretazione dei dolci tradizionali uno dei suoi marchi distintivi, esasperare il cambiamento e stravolgere il modello rischia di essere controproducente, poiché rovina il passato senza creare nulla di significativamente nuovo.

Il rischio di eccedere è dietro l’angolo

Per quanto sempre più tecnologica e innovativa, la pasticceria italiana sta tornando alla concretezza dei sapori autentici e degli ingredienti di qualità e di stagione. Eppure deve fare i conti con alcuni fenomeni avanguardistici che si affacciano all’orizzonte come provocazioni fantascientifiche. Un esempio proveniente da Oltralpe è rappresentato dalla robotica commestibile (o a “realtà aumentata”), ovvero dessert interattivi che si muovono, fanno rumore, rifrangono la luce e possono essere personalizzati per soddisfare i gusti di ogni commensale.

Restando in patria, è invece il tiramisù a creare scompiglio, presentandosi alla Tiramisù World Cup 2022 di Treviso in versione stampata in 3D. L’obiettivo dichiarato? Permettere a tutti, anche chi non sa cucinare, di preparare rapidamente piatti buoni con un aspetto originale e accattivante. La realtà? Rischiamo di perderci il piacere di “mettere le mani in pasta”, di assistere al miracolo della panna che monta, e di attendere con trepidazione l’uscita dal forno dei biscotti “fatti in casa”, immancabilmente sbilenchi. Insomma rischiamo di perderci il senso dei dolci: l’emozione e i ricordi.

Il sapore di nostalgia dell’amico panzerotto. La fascinazione di un gusto irresistibile che ci riporta agli aromi di casa: da Bari a New York. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 Luglio 2022.

Ho ritrovato un amico. Un amico umile e affidabile, di quelli che, se lo trovi, è meglio di un tesoro: il panzerotto. Credevo di averlo dimenticato e, invece, in fondo alla mia memoria ma, ancor più, nelle insondabili latebre del gusto, aveva lasciato la testimonianza della sua sapida fascinazione. Il panzerotto. Il computer, con il suo implacabile sistema di correzione, si ostina a chiamarlo «panzarotto» e sottolinea di rosso la dizione a noi famigliare: segno dell’errore d’ortografia.

Ma il suo rosso a zig zag mi ricorda il pomodoro. Metto in atto la procedura e arricchisco il vocabolario della macchina del lemma a lei sconosciuto. D’ora in poi il rosso pomodoro che resta imperterrito annidato nella doratura della pasta potrà contare che, sul bianco della pagina non fiorirà mai più il segnale d’errore. La tecnologia saprà scrivere il gustoso nome. L’etimologia convoca il plebeo «panza» alla germinazione della parola forse per la forma. Resta un soave sospetto: che c’entri la pansé. Troppo poetico? Ma, via! Tutto sommato, perché no? E perché non pensare al passerotto? Al passerotto delizia della puella del poeta Catullo. Un mio compagno di scuola scavezzacollo e goloso si divertì, al Liceo, a tradurre in questo senso gastronomico il tenero epicedio catulliano, come se fosse sparita la delizia dal desco della fanciulla golosa, in luogo del passeraceo, effimero compagno di giochi. Va ricordato che, a proposito di giochi, ben più grassocce ipotesi si formularono circa la metafora pennuta in occasione delle beate traduzioni liceali. Questa storia del povero uccellino morto tra le mani della fidanzata del poeta le sollevò con inerziale umorismo da bottiglieria. Malizie studentesche e basta: il pomodoro non esisteva in Italia ai tempi di Catullo.

Ma torniamo al mio amico panzerotto e graziamolo di esegesi etimologiche che finirebbero per guastare il sapore della riscoperta. Un sapore di nostalgia che finisce per farmi trovare lacunoso e imperfetto il sapore reale e concreto della odierna degustazione. La discussione è ampia: alcuni dicono che, si, effettivamente certi sapori sono cambiati, alcuni scomparsi, per via del cambiamento degli ingredienti estorti a madre natura con le tenaglie della chimica e dell’agricoltura tecnologica; altri sostengono malinconicamente che siamo noi cambiati, noi e il nostro cuore, noi e il nostro palato. Noi invecchiati e incupiti, quello, il cuore, rattrappito sui ricordi e questo, il palato, anestetizzato e incattivito dalle diete sbagliate e dagli orrendi fast-food. Sarà.

Tuttavia riesco a trovare rifugi dove, come in una preziosa clandestinità da congiurati del gusto, si riesce ancora a mangiare il vero panzerotto barese. Segnalo il desco amabile di Gabriele Faccenna che ha battezzato esoticamente Beluga il suo bel ristorante sulla soglia del mare di Santo Spirito, da me amatissima cittadina, dove rendo omaggio al magnifico «Panifico Pace dal 1979» che del panzerotto ha fatto un virtuosismo. Ma pensate: a migliaia di chilometri da casa due giovani pugliesi, Vittoria Lattanzio e Pasquale De Ruvo, hanno aperto un locale, «Panzerotti Bites», dove servono deliziosi panzerotti: a Brooklyn, Carrol Gardens (New York): La stampa americana, ormai anni fa, li premiò con articoli sul New York Post e sul New York Times. Sono stato loro cliente: con gentilezza da musici i nostri sono in grado di offrire delizie: panzerotto nelle varianti che il genio gastronomico dei Pugliesi ha escogitato.

Questo deve rispondere, però, a regole che le donne si tramandano di madre in figlia con gelosa riservatezza: trapela qualche regola, ma solo per incuriosire di più. Alcuni punti fermi: la cottura al forno o nell’olio bollente («d’oliva», è ovvio) deve far si che la pasta sia croccante all’esterno e soavemente soffice all’interno per custodire il tesoro di mozzarella e pomodoro in proporzioni auree. Due le scuole di pensiero sull’opportunità del basilico. Personalmente accetto entrambe i gusti. Con un amico come il panzerotto si può accettare che ci seduca a piacer suo. Amico, certo. Chi non ricorda il conforto e la compagnia che ci ha tenuto anche nei momenti della solitudine: all’uscita della scuola, dopo gli esami all’università, a spasso sotto la casa della morosa. Chi non rimpiange la sua saporita sollecitudine, il suo sapore avvolgente che reclamava il Peroncino, l’insidia del suo ripieno rovente e fumante su cui soffiare sospiri e baci prima di ingollarlo avidamente. Qualcuno non resisteva e leccava l’umile carta che lo avvolgeva e che s’era incrostata di preziosi residui di mozzarella rosata. Gastronomia semplice, nutriente, consolatoria. Nemico delle cene in piedi in cui si è costretti a mangiare risotto, scampi, salmone, arrosto, insalata russa, babà e anguria nello stesso piatto, bere acqua e vino a vanvera, a conversare e fare il baciamano, ritrovo un amico poco esigente, ma fedele, pieno di gusto che accetta d’essere divorato in solitudine, anche se sto seduto sul muretto del lungomare dove, un tempo, non c’erano mangiatoie di hamburger e sushi, ma solo i venditori di «crudo», «pelose» e mandorle fresche.

NON È PIÙ IL PANE DI UNA VOLTA. La rivoluzione illuminata del pane chiamata Tartine. LIVIA MONTAGNOLI su Il Domani il 03 luglio 2022.

Questo è il primo appuntamento della rubrica Non è più il pane di una volta. Di mese in mese racconteremo il pane contemporaneo, la rivoluzione californiana e la scuola danese, l’evoluzione dei paysan boulanger in Francia, l'Australia di Iggy’s Bread, ma anche, ovviamente la new age di Londra, il Canada e i nuovi panettieri italiani. L’India e il Giappone con le loro tradizioni che cambiano.

In California, la lievitazione naturale a pasta acida è consuetudine radicata dagli anni Settanta per la presenza del Lactobacillus sanfranciscensis. Vent’anni fa, a San Francisco, nasceva il progetto Tartine, esperienza che ha influenzato il corso della panificazione moderna su scala globale grazie al metodo perfezionato da Chad Robertson.

Dal 2002 a oggi, Robertson ha dimostrato di saper coniugare la gestione imprenditoriale di un’azienda con constanti margini di crescita con il coinvolgimento di tutti gli attori della filiera, perché il pane sia al centro del rinnovamento del sistema alimentare.

«Il miglior pane che abbia mai assaggiato era una grande forma casereccia attraversata da alveoli delle dimensioni di biglie e palline da golf: di sicuro c’era più aria che pane. La crosta era una scorza dura, quasi bruciata, ma racchiudeva all’interno una mollica così tenera, umida e lucente da far pensare a una crema. C’era qualcosa di sensuale nel forte contrasto fra questi due regni, l’esterno e l’interno, il duro e il morbido». Così si pronuncia Michael Pollan, nel 2013, sulle pagine di un libro cult come Cooked (Cotto nella traduzione italiana, Adelphi, 2014).

Parole felici su una delle esperienze più illuminanti per la disciplina della panificazione moderna, che l’autore americano analizza con approccio scientifico e sentimentale insieme, muovendo dalla consapevolezza che «la panificazione è la prima industria di trasformazione del cibo comparsa nel mondo». Il merito di aver acceso l’interesse di Pollan per il pane, in modo così vivido, si deve a Chad Robertson, panificatore californiano presto assurto a fama planetaria, per la capacità di mettere d’accordo i professionisti del settore e gli amatori col pallino della panificazione casalinga (ben prima della pandemia).

IL PANE SOURDOUGH

Nel 2002, Robertson apre a San Francisco Tartine: quel forno, nato nel quadrante di Mission District con la benedizione della guru della cucina farm to table Alice Waters, in vent’anni ha dato vita a un impero, che oggi conta otto sedi in California e sei a Seoul.

Il segreto? La capacità di gestire la lievitazione naturale a pasta acida (sourdough in inglese) con l’ausilio della tecnologia e tanta osservazione empirica, per sfornare un pane «con un’anima antica», però dotato di un’identità riconoscibile.

Una storia già scritta, penseranno i più avvezzi, considerando che la California è bacino d’origine di uno dei batteri – il Lactobacillus sanfranciscensis – che compongono la coltura di base del sourdough: a San Francisco, il pane a lievitazione naturale era famoso già negli anni Settanta, e del 1971 è l’articolo con cui un gruppo di scienziati identifica i microbi locali che agevolarono questa consuetudine.

Eppure l’acidità gentile e fruttata che caratterizza il country bread di Tartine è soprattutto farina del sacco di un ragazzo che ha mosso i primi passi in cucina, al Culinary Institute of America di New York, ed è rimasto folgorato dalla panificazione a migliaia di chilometri dalla West Coast, in Massachusetts, grazie all’incontro con Richard Bourdon, indomabile panettiere titolare della Berkshire Mountain Bakery: paste super idratate, lunga fermentazione, infornata ad alta temperatura (Robertson saprà stemperare certi eccessi, pur preservando l’approccio passionale del suo primo mentore).

Seguiranno numerosi viaggi in Europa per rubare spunti e suggestioni con gli occhi, incontrare persone, esplorare tradizioni. Poi il primo progetto in solitaria, il Bay Village Bakers a Point Reyes Station, di nuovo in California, fino al debutto di Tartine. Perché tornare così indietro per indagare il presente e il futuro del pane?

LIVIA MONTAGNOLI. Classe 1986, un passato nella storia dell’arte, il giornalismo enogastronomico ha catalizzato l’impegno degli ultimi anni. Scrivere di tutto ciò che ruota intorno al cibo è opportunità per approfondire dinamiche sociali, economiche e culturali che riflettono il mondo di oggi.

La frisella salentina: una storia saporita. Fonti storiche riportano la ricetta ai tempi delle Crociate. Barbara Politi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Giugno 2022

La frisella salentina ha radici antichissime. Secondo la leggenda la ricetta fu portata in Italia da Enea quando sbarcò sulle coste salentine di Porto Badisco; le prime fonti storiche documentate, invece, si registrano ai tempi delle Crociate, quando i cavalieri che salpavano dai porti pugliesi alla volta della Terra Santa si servivano di questo prodotto a basso costo per le faticose traversate. Si scrive “friseddhra” e attenti alla pronuncia: quella corretta, con il cosiddetto suono cacuminale invertito “ddhr”, è solamente salentina, sarda, svedese, hindi, norvegese, giavanese, kannada e nihali (quest’ultimi sono idiomi indiani). «Quindi, per i non appartenenti a queste lingue è senza dubbio consigliabile il termine frisella», spiega Pino De Luca, docente e autorevole gastronomo, nel «Saggio sulla Frisella ad uso di chi la usa senza averne mai avuto istruzioni». Diversamente da quanto fatto per la pizza, la frisella non vanta un disciplinare e per compensare questo vuoto l’autore salentino ha messo nero su bianco le caratteristiche della merenda assoluto marchio di salentinità. Nonostante prodotti similari siano in uso anche in Calabria e Campania - certamente differenti e utilizzati per lo più come street food dai venditori ambulanti - e nel nord barese si registri la presenza della cosiddetta “cialledda”, la friseddhra resta un prodotto tipicamente salentino. La parola frisa deriva dal latino fresa, participio passato del verbo frèndere, cioè digrignare i denti, triturare; eddhra deriva invece dal suffisso diminutivo “ella”; la frisella, quindi, «è un digrignare di denti assai bonario». Con una forma circolare che oscilla fra gli otto e i dodici centimetri, dunque più piccole di un pezzo di pane, le frise hanno un procedimento di preparazione ben preciso: «Si posano a coppia in una grande leccarda e s’infornano subito dopo il pane. Data la piccola dimensione cuociono in poco tempo e vanno sottratte al calore. Durante la prima cottura sviluppano la crosta dura e all’interno restano ancora morbide. Si versano nella caniscia (cesto di vimini) che porta sopra, ben teso, un filo di ferro zincato legato ai due estremi dell’imboccatura, nel quale si fanno passare le frise proprio sulla metà che congiunge i due anelli». Nascono così le friselle salentine nel racconto di De Luca, come tradizione vuole «con la parte liscia (lu te sutta) e quella irregolare e zigrinata (lu te subra)». L’impasto - farina, acqua e sale - è simile a quello del pane ma con il 10% in meno di acqua. Il lievito madre, circa 200 grammi per chilo di farina, è assolutamente obbligatorio. Il panotto viene lavorato a lungo sulla tavola e poi diviso in piccoli pezzi allungati e arrotondati a forma di serpente sottile da cui si traggono le ciambelle. «Con o senza il buco, a seconda dell’utilizzo che se ne intenda fare; col buco se sono da viaggio, perché in antichità si facevano attraversare da una cordicella e si appendevano al carro o alla cambusa in modo da essere arieggiate –; ricorda lo scrittore – quando si devono tenere a casa, invece, meglio senza buco, si risparmia spazio e vanno conservate nella cosiddetta capasa di terracotta». Un mito tutto da sfatare, poi, è la leggenda della frisella inzuppata con l’acqua di mare: «Oltre ad essere molto salata è anche amara, quindi contamina il gusto della frisa. Piuttosto, anche in barca, le frise vanno inzuppate con l’acqua dolce che non si disperde, perché con la frisa si mangia e si beve contemporaneamente». E se il condimento è libero, la bagnatura e la consumazione rientrano invece in un ferreo protocollo: «Bisogna immergerla per tre volte con rapida successione in una ciotola colma d’acqua fresca: dopo la terza immersione, la frisa va sollevata, lasciata scolare e appoggiata in un piatto fondo; si passerà successivamente al condimento con il seme di pomodoro fiaschetto, il sale grosso e una generosa dose di olio extravergine d’oliva». Un suggerimento, non fatevi strane idee su come mangiarla. «Rigorosamente con le mani! Usare la forchetta o, come mi è capitato di vedere, il cucchiaio, è semplicemente un oltraggio alla decenza», ha concluso ironicamente il gastronomo.

La pizza al taglio? "Creata da una donna ad Anzio negli anni Venti". Giulia Mancini su La Repubblica il 13 Settembre 2022. 

Renata Pollastrini, discendente di una famiglia di Torre del Greco, sarebbe l'inventrice del prodotto tipicamente romano. "E grazie a una lettera al Duce, potè venderla in spiaggia"

In teglia a taglio. Sembra uno scioglilingua, ma è ciò che identifica la pizza nella Capitale. “A Roma la pizza è ovunque” dice Gabriele Bonci, riferendosi appunto alla pizza a taglio, nella puntata a lui dedicata di Chef's Table, su Netflix da pochi giorni. Difficile, anzi impossibile, dargli torto. A Roma la pizza è dal fornaio, alla pala, tonda al piatto, sottile e scrocchiarella, stesa al matterello o no, di scuola napoletana o moderna. E poi c’è quella in teglia a taglio che parla romano. 

Usa questa cadenza anche prima del grande risalto televisivo e sventola il vessillo giallo rosso da inizio anni ’90, quando sulla via Nomentana si è compiuta la rivoluzione di Angelo Iezzi. E poco lontano dalla Capitale, sul litorale sud ad Anzio, ha il viso di un’intraprendente donna, Renata Pollastrini, che fece della pizza in teglia sostentamento per la famiglia. “Tutto nasce fra gli anni ’20 e ’30, con mia nonna Renata - racconta Beniamino Colantuono, conosciuto come Nino, della pizzeria Boccione sulla piazza di Lavinio -. Il trisavolo era originario di Torre del Greco, a Napoli, nonna faceva la pizza fritta e la mandava con i ragazzini a vendere sulla spiaggia di Anzio, con o senza lo zucchero”. Per figurarsi la scena basti pensare al film con Sofia Loren, "L’oro di Napoli" ambientandola però, nella mente, a trent’anni prima su un lido ambito per la villeggiatura. Un aneddoto fa sorridere pensando all’intraprendenza della nonna Renata: "Quando andarono i Carabinieri a dirle che non aveva nessuna licenza per questo commercio”, senza perdersi d’animo e nonostante la vocazione di sinistra della famiglia, “pur non avendo alcun titolo di studio e non essendo una donna colta, ha fatto scrivere al Duce. La tradizione familiare vuole che la segreteria del Duce le diede un permesso”. Leggenda o meno, fatto sta che lei continuò a friggere e mandare le sue delizie sulla spiaggia. Sfollati durante la guerra a Mammola, in Calabria, quando tornarono nella appena liberata Anzio insieme al marito Ercole Colantuono aprirono una trattoria sul breve tratto di strada, corso del Popolo, che collega la piazza principale con il Molo Innocenziano. “Lì mia nonna inventa la pizza a taglio. A Roma la vendono a peso, nonna nel ’45 la tagliava sulla teglia e la vendeva a pezzo senza pesarla”. Come usuale ai tempi i forni non erano così diffusi, il pane si portava nel forno del paese segnando le teglie ognuno a modo proprio per riconoscerle dopo la cottura: “Accanto alla chiesa principale, nel vicolo dell’Arte (dove ancora oggi c’è un forno panificio, ndr) c’era l’unico forno del paese: impastava la pizza in trattoria, attraversava la piazza e andava a cuocere le teglie, tornava e la tagliava per venderla comodamente senza doverla pesare”. 

I sapori delle sue origini campane Renata Pollastrini le porta nella pizza con la verdura, sempre a taglio, che strizza l’occhio alla tiella nel ripieno ma che fra Anzio e Lavinio è tipicità radicata. “La verdura, l’indivia riccia, non è ripassata ma ‘cotta col sale’, pressata e scolata dall’acqua amarognola. All’inizio metteva solo le alici salate perché ad Anzio c’erano quelle e le olive sono venute in seguito, dopo la guerra mancavano”. Curioso pensare che le alici usate da Renata fossero le Pollastrini, conserva tipica di Anzio; curiosa l’omonimia per un qualche tortuoso legame familiare come accadeva nei piccoli paesi. Un andirivieni di teglie fumanti e profumate, un mestiere che si inseriva nelle generazioni tanto che nel ’61 il figlio Silvio decide di aprire a Lavinio (poco distante e nello stesso comune), una rosticceria pizzeria. Mestiere proseguito dal figlio Beniamino, affiancato dalla moglie Paola: “Non è cambiata la mia pizza, lavoro senza bilancia e uso una pentola di cinquanta anni fa per regolarmi con l’acqua. Lavoro qui da 46 anni, vado a occhio: un goccino di olio di girasole, lievitazione empirica e non ho un libro di ricette, dipende dal caldo e dall’umidità”. Brevi lievitazioni, bilanciamento delle quantità di lievito in funzione della temperatura esterna. La pizza con la verdura è sempre lì, diffusasi poi con il tempo in tutto il paese, ed è sempre venduta a pezzo, usanza che contraddistingue la pizza a taglio in tutta Anzio. 

Non è mai facile stabilire la nascita di qualcosa che sembra esserci sempre stato, ma per la pizza romana in teglia è ben documentabile la sua evoluzione, quella che ha portato condimenti nuovi, impasti idratati e bolle nelle teglie e passa da Angelo e Simonetta. L’evoluzione che porta a Bonci comincia con Angelo Iezzi: “Ho  iniziato a fare il pizzettaro quando avevo 13 anni, parliamo degli anni ’75/76 e già si faceva diffusamente. Penso che l’inizio della pizza a taglio sia stato negli anni ’60: l’hanno portata i ternani, si dice a Roma. Sono venuti da Terni con il pane sciapo, arrivavano per farlo anche qui. Hanno messo nell’impasto il sale, lo strutto per farla mantenere un po’ e lì è nata la pizza a taglio”. Un grasso meno costoso del burro e dell’olio, sfrido di lavorazione del maiale, che nella pizza “come tutti i grassi fa mantenimento e gli dava sofficità. La pizza se non viene fatta in una certa maniera dopo poche ore diventa secca, fa le orecchie sui bordi - prosegue Iezzi -. Con le tecniche nuove, con l’uso del freddo e del tempo la farina si scompone, c’è molta più umidità e la pizza rimane stesa. “Ho iniziato a Viale Eritrea, poi ho aperto la mia pizzeria nel 1987 - insieme alla moglie Simonetta da cui il nome del locale, oggi nelle mani dei fratelli mentre lui è impegnato nel Parco dei Pini - e lì comincia il percorso della nuova pizza: senza strutto, lunga lievitazione e cambia la pizza a taglio romana nei primi anni. Fino a inizio anni ’90 quando, dopo un po’ di esperimenti, c’è stata l’esplosione”. Pochi gradini separavano la pizzeria dal livello stradale di una delle vie più trafficate della città, nel laboratorio avveniva il cambiamento. 

Arditamente, per i tempi, ragionava al contrario Angelo volendo ribaltare il modo di impastare, se non di ragionare la pizza: acqua fredda con ghiaccio per impastare quando gli altri la usavano calda, tanta in proporzione alla farina quando invece se ne metteva poca, drastica se non totale riduzione del lievito, via lo strutto e largo all’olio di oliva. Ma soprattutto “cambiate le proporzioni di acqua, lievito e farina facevo stare l’impasto 48/72 ore, quando all’epoca veniva considerato vecchio”. Non esistevano ai tempi gli studi che sarebbero poi arrivati, di chimica degli impasti e della pizza non si parlava, “provavo

la lunga lievitazione dentro al frigorifero come esperimento. Poi una notte nel congelatore che era spento ci fu una reazione particolare”. Da lì, grazie anche ai condimenti diversi dagli usuali, non più solo bianca, rossa, patate o funghi, un successo che lo porta nel ’92 per la prima volta sul podio del Campionato del Mondo di Pizza a Taglio, scrivendo poi con le bolle, con gusti arditi per i tempi e la leggerezza dell’impasto il primo e fondamentale capitolo della pizza a taglio romana. Un successo clamoroso per i tempi, lunghe file di golosi sugli scalini e i quotidiani iniziavano a parlare di pizza a taglio. Una lunga carriera, quella di Angelo, che lo ha portato a studiare nuove farine con il Mulino Iaquone “perché la farina del pane non andava bene, serviva che l’impasto fosse stabile più a lungo. E proprio perché la pizza a taglio deve rimanere bene più a lungo, anche avendo meno grassi, ho ideato il forno scandalizza”.

La polemica e la reazione dei Masanielli del giorno dopo. Briatore sulla pizza ha ragione e viene massacrato: mangiare una margherita non è più popolare. Giovanni Pisano su Il Riformista il 21 Giugno 2022. 

Flavio Briatore massacrato per aver detto la verità (“Per vendere la margherita a 4 euro quali ingredienti usate?“). Certo in modo spocchioso, saccente, di chi è abituato a fare business da decenni entrando in fette di mercato che garantiscono proficui guadagni. E il mondo della pizza è diventato uno dei settori più proficui. Ma non da oggi. Sono anni che grazie a quelle paroline magiche come “gourmet“, “ingredienti d’eccellenza” e così via, il famoso piatto popolare napoletano è diventato sempre più caro. Oggi sedersi in pizzeria non è più così conveniente.

Dalla pizza “special” (per i suoi ingredienti di prima qualità) agli antipasti (crocché, frittatine di pasta, arancini), passando per birre sempre più ricercate (o, per meglio dire, artigianali), a fine serata dopo aver pagato il vostro conto una domanda viene quasi in automatico: non era meglio, forse con pochi euro in più, andare a mangiare al ristorante? Briatore non ha detto stupidaggini così come in queste ore l’orgoglio di qualche pizzaiolo o di qualche influencer, o dei Masanielli del giorno dopo, sta provando a cavalcare nel tentativo di avere qualche ritorno d’immagine. Lui la margherita la fa pagare 15 euro nella sua catena di pizzerie di lusso (non dimenticate questo aspetto) aperte a Montecarlo, Roma, Londra, Milano.

Quindici euro una margherita può sembrare eccessivo se non si valutano tanti aspetti: dalla location all’ambiente che si trova all’interno del locale passando per le materie prime. A Napoli la margherita non è ancora arrivata a costare 15 euro ma nelle nuove pizzerie ‘gourmet’, così come in quelle considerate ancora “normali”, i prezzi sono decollati da anni, sfiorando rincari anche del 50%. Pagarla poco può significare scarsa qualità o, come fanno alcuni nomi storici della tradizione napoletana, può significare puntare sulla quantità di pizze sfornate ogni giorno.

Poi ognuno è libero di creare il su menù di pizze, con tanto di tanto di Patanegra, il prosciutto spagnolo pregiato, altri prodotti d’eccellenza e una carta dei vini con pezzi stratosferici. Il mercato è libero, chi va a mangiare la margherita nelle pizzerie di Briatore ne è consapevole (forse i turisti un po’ meno ma si stanno adeguando anche loro…). In sostanza l’imprenditore piemontese non ha detto nulla di nuovo, anzi. Ha sfruttato l’occasione per far parlare della sua nuova attività (“vi adoro perché mi fate una pubblicità della madonna“) e per ricordare, in chiusura di video, che “quando in Italia hai successo trovi questa rabbia contro il successo, il rancore. Perché l’Italia è rancorosa e gelosa”. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

I pizzaioli napoletani replicano a Briatore: “Pochi euro per una pizza di qualità”. Giampiero Casoni il 21/06/2022 su Notizie.it.

I pizzaioli napoletani non ci stanno replicano a Flavio Briatore: “Bastano pochi euro per fare una pizza di qualità, quelle da chef sono un'altra cosa”. 

I pizzaioli napoletani replicano a Flavio Briatore che nei giorni scorsi aveva spiegato che una pizza da meno di 15 euro non poteva essere di buona qualità: “Bastano pochi euro e la qualità c’è e come”. Il proprietario della catena Crazy Pizza aveva detto: “Chi la fa pagare poco chissà cosa ci mette.

“Come fanno a vendere la pizza a 4-5 euro?”. Insomma, Flavio Briatore in un video virale sui social, aveva respinto le critiche di chi ritiene esagerati i costi della pizza nella sua catena ed aveva sollevato la questione della qualità e del lavoro in quel settore. 

I pizzaioli napoletani replicano a Briatore

L’imprenditore ha detto che a suo avviso quei prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che con le tasse e il costo dei dipendenti.

Ma a Napoli non sono affatto dello stesso avviso, lì dove la pizza è nata e dove è una vera religione dicono che una margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. 

Miccù: “Quelle da chef sono un’altra cosa”

Lo precisa Sergio Miccú, presidente dell’Associazione Pizzaioli Napoletani, che ha espresso il suo parere in merito raccolto da Internapoli: “Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu ma a quanto sia giusto vendere una margherita o una marinara con ingredienti di qualità”.

E ancora: “La pizza ha contribuito a sfamare intere generazioni superando le crisi più dure che la città ha vissuto. Dalla guerra al colera”. E ancora: “Ma oggi si tratta di un piatto. Perciò le classiche conservino anche il valore della tradizione . Quelle cosiddette da chef che diventano un’altra cosa si possono anche vendere a prezzi diversi”.

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022. 

Ma alla sua età - con tutto quello che ha, che è e che crede di essere - dove trova ancora la voglia di mettersi in braghette blu davanti a una telecamera per polemizzare con i pizzaioli napoletani che lo hanno criticato? Flavio Briatore è fonte continua di stupefazioni. 

Non è solo l'idea di un cuneese che pretende di insegnare i segreti della pizza a chi l'ha inventata, come se un napoletano spiegasse ai Ferrero in che modo si impasta il cioccolato con le nocciole.

È la sua tigna che spiazza tutti coloro che, come me, aderiscono alla scuola andreottiana della resistenza passiva, secondo cui rispondere a una provocazione significa alimentarla, specie nell'era social dove ogni polemica si scarica con la rapidità di un acquazzone: basta mettersi al riparo e aspettare in silenzio che passi. Briatore non aspetta un bel niente e, se prende l'ombrello, non è per proteggersi, ma per tirartelo addosso.

Essendo un venditore fenomenale di status symbol, con la sua nuova catena di cibo povero & patinato ha reso felice tanta gente che non vedeva l'ora di spendere 65 euro per una pizza al prosciutto Pata Negra. Eppure, non gli basta. Vuole che i pizzaioli napoletani che lo contestano, e intanto (unici al mondo) si ostinano a vendere le loro margherite a 4 euro, ammettano di usare pomodori marci e farina di cemento armato. Ma chi glielo fa fare? Lo dico con tutto il rispetto dovuto a uno dei due imprenditori più famosi d'Italia. L'altro è Vacchi. Almeno Briatore è un Vacchi che lavora.

Da “Posta e Risposta – la Repubblica” il 22 giugno 2022. 

Caro Merlo, ma lei la pizza di Briatore, a 15 euro, l'ha mangiata? Io sì e voglio dirle che è buona, ma che ne ho mangiate di migliori, a prezzi molto più bassi. Tempo fa a Milano avevo anche mangiato la pizza di Carlo Cracco: costava 20 euro. E non mi era tanto piaciuta.  

Briatore dice: "ma vi siete chiesti cosa ci mettono per venderla a 4 o 5 euro?". Ha anche ringraziato chi ha protestato perché gli fanno pubblicità. E ha concluso: "io sono un genio". Dev' esser vero.

Angiolina Locatelli - Milano  

Risposta di Francesco Merlo:

Aborro la pacchianeria delle pizze griffate.

Pasquale Raicaldo per "la Repubblica" il 22 giugno 2022.

La disfida della pizza infiamma Napoli. Sul banco degli imputati Flavio Briatore: qui le icone, anche culinarie, sono intoccabili. Colorata e orgogliosa la risposta partenopea alla provocazione dell'imprenditore, che si è chiesto su Instagram come si possa vendere una pizza a 4-5 euro, giustificando così il listino della sua catena Crazy Pizza, dove la "tonda" va dai 13 ai 60 euro.

La reazione parte dal centro storico: suona la carica Gino Sorbillo, che in via dei Tribunali distribuisce pizze gratis e s'inventa un tutorial per i passanti. C'è folla come sempre, ma stavolta i morsi alla celebre pizza a portafoglio sono sberleffi a Briatore. «Noi siamo per la pizza popolare, che accontenta tutti, dai bambini ai professionisti ai disoccupati», dice Sorbillo, che s'ispira alla Livella di Totò e intanto dispensa tranci a iosa. I turisti in fila apprezzano, e si accodano al j'accuse: «Viva la pizza, abbasso Briatore». «Usiamo i prodotti migliori - aggiunge il maestro - e la pizza resta accessibile».

Rincara la dose Francesco Emilio Borrelli, presidente della commissione Agricoltura della Regione: «Sulla pizza non accettiamo lezioni: è un piatto popolare, non si addice ai cafoni arricchiti né può essere insolentita da un parvenu. Briatore venga a studiare qui». E insomma l'atmosfera è rovente, nella città che ha inventato - era il 1889 - la pietanza ispirata alla regina Margherita e ne ha fatto un vessillo, difendendola dalla globalizzazione grazie all'inserimento nella lista Unesco dell'arte del pizzaiuolo napoletano.

«Briatore si è fatto pubblicità: la pizza tira - spiega Massimo Di Porzio, titolare del ristorante "Umberto" - Ma il food cost non va oltre i 2,5 euro: ricarichi troppo alti sono operazioni d'immagine». «Avrebbe potuto spiegare che la pizza ha regole precise: ingredienti, tempi, dimensioni e procedimento - ammonisce Antonio Pace, presidente dell'Associazione Verace pizza napoletana - Pur nella consapevolezza che elementi a latere, dall'accoglienza alla location al servizio, possano determinare differenze di prezzo rilevanti». 

A difendere Briatore è il Codacons: «Che ipocrisia. - sbotta il presidente Carlo Rienzi - A Napoli i pizzaioli predicano bene, peccato che quando aprono a Roma o a Milano non applichino gli stessi prezzi».

Flavio Briatore contro tutti: «La pizza non è di Napoli e gli altri la fanno meglio». GABRIELE PRINCIPATO su Il Corriere della Sera il 22 Giugno 2022.

Briatore replica alla folla che ieri a Napoli ha manifestato in risposta alle sue affermazioni secondo cui una pizza venduta a 5 euro non sarebbe di qualità. «La pizza non è napoletana - attacca -, è un prodotto mondiale e gli altri la fanno meglio». Intanto, il maestro Gino Sorbillo propone di mettere fine alla polemica e lancia l’idea di una cena a quattro mani tra i suoi pizzaioli e quelli dell’imprenditore di «Crazy Pizza». 

«Non è vero che la pizza è napoletana, la si mangia in tutto il mondo. E anche se è stata inventata a Napoli, gli altri l’hanno migliorata con gusti diversi: uno può inventare una roba e gli altri la possono modificare e farla meglio». Flavio Briatore, in un’intervista rilasciata ieri a La Zanzara su Radio 24, ha replicato alla folla che ieri, al grido «la pizza al popolo» si è radunata a Napoli per manifestare contro di lui. L’iniziativa è partita da alcuni maestri pizzaioli partenopei per rispondere a quella che hanno definito una «provocazione» dell’imprenditore, criticato per aver sostenuto che la sua pizza è cara perché di qualità: la Margherita da «Crazy Pizza» costa 15 euro e la Pata Negra 65. La manifestazione è andata in scena presso la storica pizzeria «Sorbillo ai Tribunali». «Io non lo so perché ce l’hanno con me. Dico solo la verità», ha aggiunto Briatore. «Sfido chiunque a fare profitto vendendo la pizza a 4 o 5 euro: è impossibile. Gli stiamo dando (ai maestri pizzaioli, ndr) una possibilità, un assist per aumentare il prezzo delle pizze e non l’hanno capito. Ne stanno approfittando per farsi pubblicità…». L’imprenditore, poi, non nasconde la sua poca passione per la versione partenopea del celebre piatto. «A me la pizza napoletana non piace perché ha troppo contorno, poi c’ha molto lievito... preferisco la romana che è più sottile. Per esempio a Salerno fanno una pizza diversa, più sottile che a Napoli. Poi, ognuno ha il suo gusto».

E Gino Sorbillo offre una tregua a Flavio Briatore

«Dice che se la pizza costa poco non è buona? Ecco, noi la facciamo così e gli ingredienti sono questi: assaggiatela e ditemi com’è», lancia la sfida Gino Sorbillo, circondato da giornalisti, fotografi e le solite centinaia di persone che ogni giorno fanno la fila davanti al suo locale nel centro storico di Napoli. Per queste oggi c’è stata una sorpresa: pizza gratis e prezzi ulteriormente scontati per chi troverà un tavolo nel locale dopo la manifestazione ispirata dal consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania Francesco Emilio Borrelli. «È una polemica stupida», taglia corto Sorbillo. «La pizza nasce come piatto popolare — aggiunge — e deve restarlo. A noi piace lavorare con il popolo e accontentare tutti, bambini, disoccupati, professionisti e pensionati. Davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere». Ma il maestro pizzaiolo napoletano offre a Briatore anche una tregua sulla polemica. Una serata «a quattro mani» tra la sua squadra di pizzaioli e quella dell’imprenditore «per offrire e far conoscere anche ai clienti di Briatore abituati a pizze gourmet anche la tipica pizza napoletana». Tra i due non c’è stata interlocuzione, però il maestro napoletano ha fatto sapere - dai microfoni di RTL 102.5 - di essersi autoinvitato. «Gli ho detto che questa è la nostra risposta, che si può fare qualità», che «il 99,9% delle pizzerie in Italia ha prezzi medi che vanno dai 5 ai 12 euro, non arrivano a 70 euro a pizza». «Ho cercato di fare pizze sartoriali, - ha raccontato Sorbillo - pizze che non fossero solo dei dischi di pasta serviti per sfamare le persone e basta ma che potessero avere anche un messaggio di generosità, ma anche di territorio, di resistenza, di coraggio, di presenza. Questa cosa mi ha consentito di crescere e poi sono arrivati dei premi e dei riconoscimenti. Il tutto mi ha fatto rimanere sempre lo stesso». Per Gino Sorbillo, che ha anche ricordato gli insegnamento di zia Esterina, l’ingrediente zero di una buona pizza «è il calore: ho fatto e faccio pizze come quando un genitore prepara una cosa ai propri figli. C’è quell’amore particolare che si sente», ha concluso, «questa cosa è riuscita ad arrivare ai miei clienti anche con nuove aperture. Trasmetto l’idea di una spesa quotidiana, per fare pizzeria-impresa mi sono collegato alla casa e alle sensazioni di casa». 

Briatore contro la pizza a 4 euro: «Cosa c’è dentro?»

L’origine della polemica

La polemica sul prezzo della pizza in Italia è ormai consueta e prevedibile. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato nuovamente Briatore: secondo alcuni, i prezzi del suo «Crazy Pizza» sono troppo alti. Ad innescare il dibattito, però, sono state soprattutto alcune affermazioni pronunciate dall’imprenditore nel rispondere alle critiche. Briatore ha puntato il dito contro chi vende pizza — a suo dire — low cost. «Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono dure: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge». Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo usare i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato. Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro — costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che “Crazy Pizza” non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base». Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».

Il format «Crazy Pizza»

Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra. «I Crazy Pizza — puntualizza Briatore continuando la sua battaglia social — non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia. La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».

La Regione Campania convoca i maestri pizzaioli napoletani

«Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», afferma il consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania, Francesco Emilio Borrelli. «Probabilmente Briatore ha innestato questa polemica per farsi pubblicità ma con i suoi modi ha offeso chi questo prodotto l’ha reso grande ed esportato in tutto il mondo e i miliardi di utenti che ogni anno si sfamano a prezzi popolari», spiega il consigliere che ha deciso di convocare «una commissione congiunta con il presidente della commissione attività produttive Giovanni Mensorio per audire i maestri pizzaioli e gli esperti grazie ai quali negli anni — dice — si sono ottenuti importanti riconoscimenti come il marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita) e il riconoscimento Unesco». Per l’occasione il maestro pizzaiolo Gino Sorbillo rilancerà la tradizione della pizza a 8 giorni: «Si tratta di un tipico sistema che si utilizzava a Napoli, soprattutto nei bassi, in momenti di profonda crisi. Il cittadino mangiava la pizza, generalmente quella fritta, con la promessa di ritornare a pagarla 8 giorni dopo. Il debito veniva sempre pagato ed il sistema funzionava alla perfezione. Chi immagina di trasformare questo prodotto in un marchio per ricchi sbaglia di grosso: la pizza deve restare un prodotto “povero” alla portata di tutti». 

Crazy Pizza, voci infamanti su Flavio Briatore: "Perché ha attaccato i pizzaioli napoletani". Tiziana Lapelosa su Libero Quotidiano il 23 giugno 2022

E così è stato ieri a Napoli, dove il "re" Gino Sorbillo dalla storica sede ai Tribunali ha regalato ai passanti il piatto cantato perfino da un milanesissimo Giorgio Gaber (e con lui Renato Carosone, Ariello Fierro e Domenico Modugno) con i versi del capolavoro di Alberto Testa (siamo nel 1966) musicato da Giordano Bruno Martelli per celebrare lei, la regina pizza. Più preziosa perfino del brillante di quindici carati che, nel motivo canticchiato in tutto il mondo, un lui innamorato vuole offrire alla sua lei. Che però preferisce la pizza. Piatto popolare, eccome se lo è, un marchio della cucina italiana nel mondo, anzi della napoletanità nel mondo. Lo stesso mondo che l'ha declinata a modo suo, spesso a tal punto da far venire i brividi ai puristi. Basta pronunciare la parola "ananas" per intendersi, ma anche per capacitarsi che ognuno la mangia come meglio crede. Tornando a Napoli, Sorbillo ha di certo fatto il pienone di assaggiatori di quel che meglio gli riesce per rispondere, nel linguaggio partenopeo, a quel Flavio Briatore che nei giorni scorsi si è chiesto «cosa ci mette dentro chi la fa pagare 4-5 euro?». 

Lui, l'imprenditore cuneese che nella sua catena "Crazy Pizza" vende a 65 euro la pizza col Pata Negra, il prosciutto (top) spagnolo che per comprarne un chilo servono 300 euro, a 49 euro quella con bufala e tartufo, tra i 14 e i 29 euro il resto delle pizze: al pomodoro 14, margherita a 15, al salmone 29... È che le materie prime costano eccome, fa sapere l'ex team manager della Formula 1. Per un chilo di pomodori di quelli che i suoi pizzaioli adagiano sul tondo della pietanza servono 4 euro, per l'italianissmo prosciutto San Daniele tra i 30 e i 35 euro. E la mozzarella di bufala, sedi ottima qualità, di certo non la regalano perché si è famosi. Dice ancora Briatore che la sua (pazza) pizza non lievita - o meglio ha una percentuale irrisoria, lo 0,05 e non fermenta - e quindi non resta sullo stomaco una volta ingerita... E poi ci sono le spese: i dipendenti vanno pagati, l'acqua, la luce e il gas pure, e le tasse... Quelle sì, piene di lievito. Ma quali costi? Sembra aver voluto rispondere ieri Gino Sorbillo, erede dell'omonima famiglia di pizzaioli, nella protesta suggeritagli dal consigliere regionale Francesco Emilio Borrelli, il quale, da presidente della Commissione Agricoltura e in collaborazione col collega delle Attività produttive, vorrebbe audire i maestri pizzaioli che hanno reso la pizza patrimonio Unesco e a marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita). «Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», il sentire del consigliere. 

Come lui, Sorbillo è convinto che quella di Briatore sia stata una provocazione per farsi pubblicità. E ieri, mentre distribuiva la golosa specialità, diceva che la pizza è un «prodotto popolare», che le materie prime non sono poi così costose: per un chilo di farina si oscilla tra i 0,50 e 1,30 euro, il pomodoro San Marzano in fondo non incide più di tanto, il fiordi latte di eccellenza non può far di certo lievitare il costo a 20-30 euro, e l'olio extravergine nemmeno. Uno schiaffo lo tira pure a quei locali sontuosi nell'arredamento, leggesi Briatore. Insomma, «la pizza», dice il re, «è e deve restare un alimento popolare per tutti». E non va offeso come ha fatto l'imprenditore del Nord. E allora, viene da chiedersi, perché negli affollati Sorbillo disseminati tra Roma, Milano, Genova, Torino, New York, Miami e perfino Tokyo la sua pizza non viene venduta a 4-5 o al massimo 7 euro? Ad un prezzo popolare? Certo, non si arriva ai 65 euro per fondere cultura napoletana e iberica, ma sotto i dieci euro si mangia solo sognando. Per una Lazio, una Liguria, una Sardegna e via così (questi i nomi delle pizze nel menu) si sborsa da un minimo di 11 ad un massimo di 13.50 euro. Soldi spesi bene, per carità, ma di popolare c'è ben poco e nessuno a fare polemica. E chissà se per mettere fine alla diatriba, Briatore accetterà l'invito di Antonio Pace, presidente Avpn (Associazione Verace pizza Napoletana) alle Olimpiadi della pizza (quattro giorni, 300 partecipanti da 30 Paesi del mondo) «dedicate a questo prodotto simbolo del Made in Italy, iconico e amatissimo in tutto il mondo». 

... ma tu vulive 'a pizza 'a pizza, 'a pizza... cu 'a pummarola 'ncoppa... cu 'a pummarola 'ncoppa...

Porta a porta, Briatore sbotta in faccia a Sorbillo: "Un mucchio di pizzaioli..." Libero Quotidiano il 23 giugno 2022.

Non c'è niente da fare: Flavio Briatore continua a essere uno degli argomenti preferiti dei social. Dagli hater, ovviamente. Ospite di Bruno Vespa a Porta a porta, il manager si è trovato costretto a difendersi dalla raffica di critiche (e insulti) per il prezzo di una margherita nella sua catena Crazy Pizza. Pizzeria modaiola e glamour, "un'esperienza" come la definisce lui, che non va giù ai puristi e non solo. 

"Non faccio le guerre per una pizza - premette Mister Billionaire -. Qualcuno pensa di fare comunicazione attaccandosi al treno Briatore e al treno Sorbillo, per avere un secondo di notorietà. Non pretendo di essere un pizzaiolo. Abbiamo fatto dei ristoranti, tra questi a Londra, dove dentro c'è la pizza e abbiamo un costo per il personale e affitti molto alti". "In Italia - ha poi sottolineato Briatore - non abbiamo un marchio di pizza, non siamo mai riusciti a creare una catena di pizzerie internazionale, un brand per esportare pizze e talenti".

Particolarmente gustoso e verace il faccia a faccia con uno dei più famosi pizzaioli napoletani, il rinomato Gino Sorbillo. "Anche le pizzerie del popolo sono soddisfacenti - ha spiegato, in antitesi alle "pizzerie per pochi eletti" di Briatore -. Aprire un locale assieme a Briatore? Non si può mai sapere, magari ne parliamo". "C'è stato un mucchio di video di ragazzi pizzaioli che venivano da noi per fare critiche completamente infondate - ha concluso Briatore, polemico -, io ho fatto un post ed è scoppiata la rivoluzione. Non sono contro i napoletani, Napoli una città che adoro e amo, abbiamo molti ragazzi napoletani che lavorano da noi". Chissà se basterà.

Folla a Napoli contro la «pizza d’oro» di Flavio Briatore: e il ‘maestro’ Gino Sorbillo la offre gratis.  GABRIELE PRINCIPATO su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022

Una folla anti-Briatore si è radunata a Napoli davanti allo storico locale di Gino Sorbillo, che ha distribuito pizza gratis. È stata questa la risposta di alcuni pizzaioli partenopei a quella che viene definita una «provocazione» dell’imprenditore di «Crazy Pizza»: l’aver sostenuto che una pizza venduta a 5 euro non può essere di qualità. 

Al grido «la pizza al popolo» una folla anti-Flavio Briatore si è radunata a Napoli. È la risposta di alcuni pizzaioli partenopei a quella che definiscono la «provocazione» dell’imprenditore, criticato per aver sostenuto che la sua pizza è cara perché di qualità: la Margherita da «Crazy Pizza» costa 15 euro e la Pata Negra 65. La manifestazione è andata in scena a mezzogiorno presso la storica pizzeria «Sorbillo ai Tribunali». «Dice che se la pizza costa poco non è buona? Ecco, noi la facciamo così e gli ingredienti sono questi: assaggiatela e ditemi com’è», lancia la sfida Gino Sorbillo, circondato da giornalisti, fotografi e le solite centinaia di persone che ogni giorno fanno la fila davanti al suo locale nel centro storico di Napoli. Per queste oggi c’è stata una sorpresa: pizza gratis e prezzi ulteriormente scontati per chi troverà un tavolo nel locale dopo la manifestazione ispirata dal consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania Francesco Emilio Borrelli. «È una polemica stupida», taglia corto Sorbillo. «La pizza nasce come piatto popolare — aggiunge — e deve restarlo. A noi piace lavorare con il popolo e accontentare tutti, bambini, disoccupati, professionisti e pensionati. Davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere».

L’origine della polemica

La polemica sul prezzo della pizza in Italia è ormai consueta e prevedibile. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato nuovamente Briatore: secondo alcuni, i prezzi del suo «Crazy Pizza» sono troppo alti. Ad innescare il dibattito, però, sono state soprattutto alcune affermazioni pronunciate dall’imprenditore nel rispondere alle critiche. Briatore ha puntato il dito contro chi vende pizza — a suo dire — low cost. «Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono dure: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge». Con un lungo video pubblicato su Instagram, Flavio Briatore rintuzza, ancora una volta, le critiche social, quelle relative ai costi — eccessivi secondo i più — delle pizze nei suoi «Crazy Pizza». Spiegando, poi, che «questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti. Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo usare i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato. Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro — costa 300 euro al chilo; il San Daniele che prendiamo noi costa 35/36 euro al chilo; i pelati Strianese 4 euro al chilo, il Gran Biscotto 30/35 euro al chilo, la mozzarella di bufala 15 euro al chilo, la farina più di un euro e cinquanta al chilo... Aggiungo che Crazy Pizza non ha lievito, per cui non fermenta a differenza di questi miei amici pizzaioli che dicono che è troppo sottile . E ti danno una mattonata di pizza con all’interno un laghetto di pomodoro ed è finita qui (...). Noi vogliamo la qualità, questo è il ragionamento di base». Ma a Napoli non ci stanno e ribattono che una Margherita di qualità può essere venduta a prezzi contenuti. Sergio Miccu, presidente dell’Associazione Pizzaiuoli Napoletani, aggiunge: «Il problema non è a quanto si venda la pizza con l’astice blu, ma a quanto sia giusto vendere una Margherita o una Marinara con ingredienti di qualità».

Il format «Crazy Pizza»

Inaugurato la prima volta nel 2019 a Londra, «Crazy Pizza» è il primo di una serie di locali che Briatore ha poi aperto a Roma, Milano e a Porto Cervo, in Sardegna. Frequentato da una clientela trasversale, si distingue per l’atmosfera modaiola, comunque informale, in cui pizzaioli acrobati si esibiscono tra i tavoli mentre i clienti degustano pizza pescando da un’offerta variegata che spazia dai grandi classici, come la Marinara (a 13 euro) e la Margherita (a 15), alle pizze gourmet come quella al Pata Negra. «I Crazy Pizza — puntualizza Briatore continuando la sua battaglia social — non sono semplici pizzerie, ma locali pieni di energia, che creano atmosfera. Non c’è pizzeria con una proposta di vini come la nostra, fatta di un’ampia scelta tra etichette italiane e internazionali, oltre che Champagne da degustare in alternativa a cocktail in stile Dolce vita. Puoi prendere da quello meno caro a quello più caro, c’è varietà. Ringrazio i clienti, che sono migliaia: basta telefonare per capire che siamo overbooking sempre. La cosa che mi dà fastidio è che quando in Italia hai successo trovi anche tanta rabbia. La gente non pensa che più successo hai, più gente assumi, più tasse e contributi paghi. La gente vede solo rancore. La cosa che veramente mi dà fastidio è che l’Italia è un Paese rancoroso, pieno di invidiosi. Per farvi un po’ di invidia in più, vi dico che una settimana fa abbiamo aperto anche a Riyad, capitale dell’Arabia Saudita: stiamo facendo una media di mille clienti al giorno. E abbiamo 150 richieste per aprire Crazy Pizza nel mondo. Ragazzi, siete degli invidiosi e io vi adoro perché mi faccio pubblicità». Poi la stoccata finale: «La verità — conclude — è che io sono un genio e voi non lo siete. Questa è la differenza».

La Regione Campania convoca i maestri pizzaioli napoletani

«Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», afferma il consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania, Francesco Emilio Borrelli. «Probabilmente Briatore ha innestato questa polemica per farsi pubblicità ma con i suoi modi ha offeso chi questo prodotto l’ha reso grande ed esportato in tutto il mondo e i miliardi di utenti che ogni anno si sfamano a prezzi popolari», spiega il consigliere che ha deciso di convocare «una commissione congiunta con il presidente della commissione attività produttive Giovanni Mensorio per audire i maestri pizzaioli e gli esperti grazie ai quali negli anni — dice — si sono ottenuti importanti riconoscimenti come il marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita) e il riconoscimento Unesco». Per l’occasione il maestro pizzaiolo Gino Sorbillo rilancerà la tradizione della pizza a 8 giorni: «Si tratta di un tipico sistema che si utilizzava a Napoli, soprattutto nei bassi, in momenti di profonda crisi. Il cittadino mangiava la pizza, generalmente quella fritta, con la promessa di ritornare a pagarla 8 giorni dopo. Il debito veniva sempre pagato ed il sistema funzionava alla perfezione. Chi immagina di trasformare questo prodotto in un marchio per ricchi sbaglia di grosso: la pizza deve restare un prodotto “povero” alla portata di tutti».

E sulla pizza il Codacons difende Flavio Briatore

Il Codacons scende in campo per difendere Flavio Briatore contro i pizzaioli di Napoli. «Sul prezzo giusto della pizza assistiamo ad un balletto ridicolo», afferma il presidente Carlo Rienzi. «A Napoli i pizzaioli dicono che “davanti a una pizza sono tutti uguali e tutti devono potersela permettere”. Peccato che questi stessi esercenti, quando aprono una pizzeria a Roma o a Milano, non applichino ai consumatori gli stessi prezzi praticati a Napoli». «E’ il caso di una nota pizzeria napoletana che nella sua sede nel centro di Roma vende alcuni tipi di pizze a prezzi che sfiorano i 14 euro», prosegue Carlo Rienzi. «Un listino non esattamente “popolare” e non alla portata di tutti. Ed è proprio il ricarico dei prezzi applicato dai pizzaioli napoletani ai prodotti venduti in città come Roma o Milano a dare ragione a Briatore, quando afferma che sono anche tasse, affitti, stipendi a incidere sul prezzo di una pizza», conclude il Codacons.

Da lastampa.it il 27 giugno 2022.

Se ha fatto discutere la pizza di Flavio Briatore da 65 euro, figuriamoci quella che costa 12 mila dollari. Accade nel Cilento, dove il pizzaiolo Renato Viola ha dato vita a una pizza salatissima, almeno per il costo. "Per il prezzo di 12mila dollari arriva a casa un disco di pasta di 20 cm ricoperto di caviale di tre varietà diverse, Mozzarella di Bufala Campana bio Dop, gamberoni rossi di Acciaroli, aragoste di Palinuro, cicale del Mediterraneo e sale rosa australiano Murray River", ha detto presentando la sua creazione che non a caso si chiama Luigi XIII in omaggio al re francese.

Ma il Crazy Pizza di Briatore, che in Italia ha fatto parecchio rumore, deve ancora imparare. Prima della sua costosa pizza al Pata Negra, c'è quella che costa 6800 dollari con una guarnizione di diamanti e una da 4200 dollari con salmone affumicato marinato nel cognac e "pioggia d’oro". Ce n'è un'altra sempre gourmet ma più abbordabile che costa 66 dollari e arriva dal Giappone. Una pizza, questa, caratterizzata da pezzetti di manzo Kobe.

Cifre che faranno sicuramente contento l'imprenditore che qualche giorno fa scatenò la polemica con queste parole: "Noi utilizziamo Pata Negra, la migliore mozzarella di bufala, ingredienti di grandissima qualità. Ma quale qualità ci può essere in una pizza" che costa troppo poco? 

Chiara Amati per corriere.it il 27 giugno 2022.

Incontenibile Roberto Parodi. Scrittore, giornalista e conduttore televisivo, il fratello di Cristina e Benedetta-zia Bene, ha affidato al proprio profilo Instagram un video con cui fa a pezzi la pizza al Pata Negra di Flavio Briatore. 

«Mi vedo costretto a esprimere il mio parare su ’sta pizza con il Pata Negra che ha sortito una bufera di commenti: e il costo e il prezzo... Quanto deve costare una pizza…

Non è questo il punto — sottolinea Parodi —. Il punto è che una pizza con il Pata Negra non si fa. Non-si-fa. Non è che se un cibo costa tanto lo posso sbattere dappertutto. Questa pizza è l’apoteosi della burinata. Piuttosto la dice lunga sul pubblico a cui si rivolge Briatore. Degli zanza ossessionati dal far vedere che non sono poveri. Che possono comprare una pizza con 60 euro. Ma cos’è: vuoi fare il ricco con 60 euro? Manco un pieno alla Panda fai oggi con 60 euro! Invece fai la figura del cafone perché se sapessi davvero che cos’è il Pata Negra, l’ultima cosa che fai è metterlo sulla pizza». 

Poi la spiegazione. «Jamón Ibérico Pata Negra Bellota etichetta nera: una storia millenaria che ti impone di gustarlo con rispetto e alla giusta temperatura, apprezzandone il grasso con quel tenue aroma di ghianda. Aromi delicatissimi. E tu me lo butti sulla pizza?! Ho un suggerimento: mettigli un po’ di beluga, 40 euro. Gran figura! Però prima vai su Wikipedia a cercare “beluga” . Così, eh…».

Denis Lovatel: "Quattro euro per una margherita? Spesso è un prezzo civetta, si guadagna con altro". Marco Colognese su La Repubblica il 24 Giugno 2022 

Il pizzaiolo veneto dice la sua sulla polemica: la verità sta nel mezzo. Ma un costo così basso non dà valore all'artigianalità, me lo aspetterei da una catena industriale

Già la storia di Denis Lovatel è emblematica per un professionista che ha fatto della versatilità e dell’adattarsi alle circostanze (con fatica ma con successo) il suo credo. Di Alano di Piave, paesino ai piedi del Grappa in provincia di Belluno che si trova a dieci minuti dalle colline di Valdobbiadene, respira la montagna fin da piccolo. Il padre Ezio avvia un’attività di ristorazione che diventa pizzeria e allo stesso tempo è impegnato in una piccola azienda industriale; Denis se ne va a Milano e da lì gira il mondo con una multinazionale, ma rientra tutti i fine settimana a dare una mano ai genitori “pensavo di scappare ma non potevo lasciarli senza un aiuto”. 

Alla fine torna, si ferma e trasforma Pizzeria da Ezio in un locale che richiama clienti i quali per arrivarci non esitano a fare anche più di un’ora di strada. Il segreto? Una pizza sui generis, con un impasto che riduce di almeno cento grammi il tradizionale panetto, di estrema fragranza e farcita con gli ingredienti giusti. Arrivano i riconoscimenti dalle guide di settore, lui si impegna seriamente in tema di sostenibilità e diventa noto come il pizzaiolo di montagna; da lì la collaborazione con Norbert Niederkofler al Wine Bar & grill del Rosa Alpina di San Cassiano, dove firma un menu di pizze realizzate dal suo giovane collaboratore Lorenzo Cavaletto. Infine a maggio di quest’anno apre il nuovo locale a Milano. 

Abbiamo pensato di chiedere anche a lui un’opinione sulla recente, dibattutissima diatriba in tema di prezzi per le pizze che ha visto protagonisti personaggi della mondanità imprenditoriale come Flavio Briatore e Gino Sorbillo. Lovatel, da professionista pragmatico qual è, ci ha detto: “Credo che la verità stia sempre nel mezzo: è vero che la pizza è un piatto popolare, ma devi rientrare nei costi, quindi se vuoi vendere una margherita a 4 euro ce la puoi fare soltanto in determinate condizioni, magari se sei in una struttura familiare di tua proprietà. Poi, si sa, il prezzo non è soltanto food cost, ma è condizionato da moltissime variabili, dagli affitti al tipo di servizio che vuoi offrire". 

Di base però lui è convinto di un aspetto importante come il valore dell’artigianalità: “Bisogna riconoscerlo, altrimenti non ne usciamo: 4 euro per una pizza me li aspetto da una catena come potrebbe essere Pizza Hut con un sistema di produzione industrializzato, quindi perché denigrare un prodotto che non lo merita? Elementi come l’artigianalità e nel caso di Napoli l’arte del pizzaiolo riconosciuta come patrimonio anche dall’Unesco non possono non essere considerati o peggio ancora sminuiti. Dobbiamo scardinare un limite che non ha senso, perché una margherita può essere popolare anche se venduta a 6 euro, ricordiamo anche che in queste cifre c’è sempre anche la componente dell’IVA. Poi ci sono la ricerca sul prodotto e sulle materie prime. La mozzarella può andare dai 2/3 euro al chilo di quella plastificata tedesca con scadenze lunghissime agli 8/9 euro di una di qualità. Come vengono trattati gli animali che danno il latte? Insomma, si tratta di mondi diversi”. 

Ancora, la costruzione del margine: “Il guadagno si fa sul resto, dalle bevande in poi, quello della margherita spesso è un prezzo civetta, perché i margini sulle altre pizze sono sempre proporzionalmente più alti.” Altro tema è la concatenazione di fattori che crea un effetto domino negativo coinvolgendo le persone: “è sempre necessario aver chiaro cosa succede dietro le quinte: se acquisto da aziende che per mantenere un prezzo basso sfruttano i lavoratori e la loro dignità, allora non va bene. Non occorre uscire con prezzi troppo alti, ma con un valore che premi l’aspetto artigianale, quando c’è". 

Infine, relativamente alla questione che rimbalza da giorni: “Briatore ha le sue attività in centri importanti, vuole offrire un servizio che va oltre quella che si immagina come una pizzeria, ha il doppio del personale. In fondo è coerente con il suo pensiero, ovvero ‘la gente viene per me, non per la pizza’, ma soprattutto non cambia nulla per chi decide di andarci, perché per quel target di consumatore non è il prezzo a fare la differenza.” A proposito, i prezzi della margherita nelle pizzerie di Denis? 7 euro ad Alano di Piave, 8,50 a Milano, 16 al Rosa Alpina. 

DA MOWMAG.COM il 24 giugno 2022.

Se parli di Iginio Massari, parli del re della pasticceria mondiale e uno dei volti televisivi più famosi a livello nazionale. Ma Massari non è il tipico personaggio che si scompone e si presta alle polemiche, ad eccezione di una querelle che lo ha visto protagonista insieme a Knam, altro noto pasticcere (ma questa è un'altra storia. Stavolta. però, per MOW ha fatto un'eccezione e ci ha portato la sua esperienza sulla recente polemica tra Flavio Briatore e Gino Sorbillo (in rappresentanza di Napoli) sulla pizza di lusso (che si mangia da Briatore a 65 euro) o quella tipica partenopea (che si trova anche a 4 euro).  

Massari, lei cosa pensa di questa polemica che si è scatenata per le parole di Briatore sulla pizza napoletana e il legame basso costo, prodotti scarsi?

Ovviamente ognuno ha le spese che gli competono, le vorrei dire che ci sono biciclette che costano 400 euro e quelle che costano 400mila euro, sono sempre biciclette. Come si fa a dire di non sapere le spese di Briatore? Alla fine, penso che il servizio sia a parte più importante del discorso. Non ho mai frequentato questi locali perché non fanno parte del mio mondo. 

Comunque si sarà fatto un’idea sul fatto che una pizza, da Briatore, possa arrivare a costare anche 65 euro.

Credo che criticare il prezzo degli altri in su e in giù è sempre troppo gratuito. Ognuno vede le proprie realtà, giuste o sbagliate che siano. Poi c’è differenza tra caro e costoso. Può essere caro quattro euro e costoso a 30 o 50 euro.

Quindi secondo lei non ha importanza quanto un imprenditore decida di far pagare?

L’importante è che ci siano i clienti che vadano lì a mangiare, sono delle polemiche che non servono a niente. Poi perché criticare un prezzo alto, potrebbe benissimo essere il problema inverso.

Cioè?

Quando un prezzo è troppo basso, potrebbe essere concorrenza sleale. Uno mette un prezzo? Bene, sa quanto costano la gestione, le materie prime che prende, sa a chi rivolgersi. Se tu parli con qualcuno che ha lo stipendio a fine mese contato e che può permettersi una volta ogni quindici giorni la pizza da quattro euro è normale che trovi delle sproporzioni. Mi dispiace perché anche a me piacerebbe che tutti fossero ricchi. 

Quindi in conclusione, la scelta del prezzo deve essere libera per chi vende un prodotto e quest’ultimo si rivolgerà al proprio target di clienti?

Secondo me tutto dipende dalla scelta individuale da azienda ad azienda. Sicuramente ci sono dei prezzi cari che possono essere per pochi e quindi costosi per chi non può permetterselo. Se Briatore è andato a finire in quelle polemiche mi dispiace per lui. Alla fine starà a lui avere dei meriti o dei demeriti. 

Ma a lei nessuno è mai venuto a dire che i suoi dolci o le sue torte costano troppo?

Beh ce ne sono tanti che fanno di queste polemiche, io non rispondo mai. 

Da Briatore a Cracco e Sorbillo: quanto costa una pizza d’autore in Italia? BENNY MIRKO PROCOPIO su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.

Il dibattito sui prezzi delle pizze di Flavio Briatore è tornato alla ribalda. Eppure, la proposta di Crazy Pizza non si allontana molto da quella di alcune delle più famose pizzerie d’Italia

La polemica sul prezzo della pizza di Flavio Briatore

Ma la margherita di Flavio Briatore è davvero così costosa? La polemica sul prezzo della pizza in Italia è ormai consueta e prevedibile. Basta una piccola scintilla (solitamente appiccata sui social) per far scoppiare nuovamente il tormentone. Questa volta a finire nell’occhio del ciclone è stato nuovamente Briatore: secondo alcuni, i prezzi del suo «Crazy Pizza» sono troppo alti. Ad innescare il dibattito, però, sono state soprattutto alcune affermazioni pronunciate dall’imprenditore nel rispondere alle critiche. Briatore ha puntato il dito contro chi vende pizza a 4 euro, chiedendosi quale sia la qualità degli ingredienti che la compongono. La risposta di alcuni pizzaioli napoletani non si è fatta attendere e, anzi, oggi - ha reso noto il consigliere regionale e presidente della commissione Agricoltura della Campania Francesco Emilio Borrelli - presso la storica pizzeria «Sorbillo ai Tribunali», nel centro storico di Napoli la Margherita verrà venduta a quattro euro e quella “a portafoglio” sarà distribuita gratis ai cittadini e si terrà una lezione per spiegare come nasce questo prodotto “super-economico ma sano e genuino” e a quali costi. «Sulla pizza napoletana non accettiamo lezioni da chi non ha nessun titolo per farne», dice Borrelli, il quale ha anche deciso di convocare «una commissione congiunta con il presidente della commissione attività produttive Giovanni Mensorio per audire i maestri pizzaioli e gli esperti grazie ai quali negli anni - dice - si sono ottenuti importanti riconoscimenti come il marchio Stg (Specialità Tradizionale Garantita) e il riconoscimento Unesco». Lasciando stare le polemiche, però, ci siamo ci siamo chiesti quanto costi normalmente una pizza d’autore in Italia. Così, abbiamo raccolto in questo articolo i prezzi di alcune delle migliori pizzerie d’Italia, da Nord a Sud.

Flavio Briatore difende la sua «Crazy Pizza»

«Crazy Pizza» è una catena di pizzerie di proprietà di Flavio Briatore lanciata a Londra nel 2019. Il primo locale in Italia è stato inaugurato nel luglio 2021 a Porto Cervo, mentre pochi mesi fa è stata la volta di Roma e Milano. Il brand propone pizze sottilissime e croccanti, realizzate con un impasto speciale senza lievito e tirato a mano. Il menù prevede sia pizze classiche che gourmand. Per fare qualche esempio, il prezzo di una margherita 15. Se poi ci si sposta verso prodotti più ricercati, una “Crazy pizza” con mozzarella e tartufo nero e bianco arriva a costare 49 euro, mentre quella con il Pata Negra 65 euro. «Questi prezzi si giustificano con i costi delle materie prime di qualità, oltre che per le tasse e il costo dei dipendenti – ha detto Briatore attraverso un video postato sui social - Siamo partiti da un ragionamento molto semplice: dobbiamo usare i migliori ingredienti possibili e immaginabili disponibili sul mercato. Vi faccio degli esempi: il prezzo al pubblico in un supermercato del Pata Negra — che noi vendiamo con la pizza a 65 euro — è 300 euro al chilo». L’imprenditore poi si è chiesto: «Come fanno a vendere una pizza a 4 e 5 euro? Cosa mettono dentro queste pizze? Se devi pagare stipendi, tasse, bollette e affitti i casi sono dure: o vendi 50mila pizze al giorno o è impossibile. C’è qualcosa che mi sfugge».

Gino Sorbillo, l’ambasciatore della pizza napoletana nel mondo

La pizza di Gino Sorbillo non ha bisogno di presentazioni. Il pizzaiolo, classe ’74, ha servito la sua prima pizza a un cliente a nove anni, nello storico locale «Zia Esterina».E ha esportato il suo marchio a Tokyo, Miami, New York e Milano. Ieri, Sorbillo è intervenuto, intervistato dal Corriere del Mezzogiorno, sulla polemica che ha investito Briatore. «In questo settore è l’ultimo arrivato. Sfrutta la notorietà dei pizzaioli napoletani e della pizza per accreditarsi e farsi pubblicità. E considerato il clamore che hanno suscitato le sue affermazioni c’è da dire che è riuscito nel suo intento. La pizza è un alimento popolare e deve essere venduta a prezzi popolari. Questa almeno è la visione mia e della stragrande maggioranza dei colleghi. Nonostante i rincari, i costi delle materie prime si conoscono: la farina costa da 50 centesimi a 1,2 euro al chilo. Personalmente uso i migliori pomodoro San Marzano e un grande olio extravergine. Se volessi aggiungere caviale o Pata negra non avrei problemi. ma non lo faccio per non snaturare l’identità popolare della pizza. Briatore è libero di impostare la propria attività come meglio crede e rivolgersi a un certo tipo di clientela. Ma lo spazio per una pizzeria come la sua è limitatissimo: forse in tutt’Italia si potrebbero contare sulle dita di una mano. Magari con 30 clienti al giorno riesce a far quadrare i conti. Per me ce ne vogliono almeno 300. Da noi deve poter venire anche lo studente, il pensionato, il disoccupato. Non ci basiamo sulle amicizie di persone facoltose come può fare Briatore». Ma quanto costano le pizze di Sorbillo? Nel locale «Lievito Madre al Duomo», nel capoluogo lombardo, una marinara viene 7.40 euro, mentre una margherita 9.40 euro (a Napoli il prezzo è di 5 euro). La più costosa è la Bufala, cotto e Parmigiano: 14.40 euro.

La pizza di Carlo Cracco in Galleria a Milano

Quando si parla di polemiche sul costo della pizza, non si può non pensare allo chef Carlo Cracco. I prezzi del suo ristorante all’interno della Galleria Vittorio Emanuele II di Milano sono spesso bersaglio di critiche. L’ultima, qualche mese fa, quando nel mirino è finito uno scontrino da 29 euro per una margherita e una bottiglia d’acqua, postato sui social da un utente. Più precisamente: 22 euro la margherita, 7 euro l’acqua. Quest’ultima volta, però, il mondo dei social ha preso le difese dell’ex giudice di Masterchef: «La vera domanda è: perché andate da Cracco se poi vi lamentate del prezzo?», si leggeva in una risposta al tweet incriminato.

Simone Padoan, fondatore della pizza gourmand

Simone Padoan è considerato uno dei padri della pizza gourmand. A San Bonifacio (Verona) sforna creazioni con cotture diverse a seconda dell’impasto scelto e degli ingredienti ricercati selezionati. A «I Tigli» una marinara costa 14 euro (10.50 euro la versione più piccola), mentre il prezzo di una margherita è di 26 euro (16.50 euro piccola). La pizza più costosa del menù viene 49 euro (28 euro quella meno grande) ed è condita con sashimi di gambero.

«La Filiale» di Franco Pepe

Franco Pepe con il suo «Pepe in Grani», ha fatto conoscere al mondo il piccolo borgo casertano di Caiazzo. La sua Margherita sbagliata è leggendaria e, le sue pizze, in generale, sono considerate fra le migliori al mondo. Il maestro pizzaiolo da qualche anno ha deciso di portare le sue creazioni anche in provincia di Brescia, nel resort L’Albereta, dove ha aperto «La Filiale». Qui una marinara costa 12 euro, una margherita 14 euro. La più costosa è la Bufala tonnata, composta da fiordilatte, scamorza affumicata, pepe, carpaccio di bufalo marinato, salsa tonnata, sedano, scarola, zeste di limone e capperi. Prezzo: 24 euro. Più contenuti invece i prezzi nel locale storico di Caiazzo: la margherita costa 6,50 euro, mentre la pizza “di punta”, La scarpetta, viene 12 euro.

Pier Daniele Seu, pizza per tutte le tasche

«Seu Pizza Illuminati», locale di proprietà del pizzaiolo Pier Daniele Seu, è un cult tra le pizzerie della Capitale. L’indirizzo di Trastevere è tanto curato quanto frequentato. Questo grazie a un menu pensato per tutte le tasche. La pizza meno costosa, la marinara, viene infatti 6 euro. La margherita 9, mentre il prezzo più alto è di 22 euro: una pizza con crema di noci, fiordilatte, roastbeef, salsa tartara, tartufo e misticanza.

Le pizze originali di Simone Lombardi

Il panificio-pizzeria «Crosta» di Simone Lombardi e Giovanni Mineo è uno dei locali più amati dai milanesi. Le proposte vanno dalle classiche alle più originali: c’è per esempio la pizza con l’hummus di ceci, pinoli tostati e salsa al peperoncino e al limone. La marinara con pomodorini arrosto costa 6,50 euro, la margherita 8,50 euro. La più costosa? Ventricina, ananas, coriandolo e cipollotto: 15 euro.

L’istituzione: «50 Kalò» di Ciro Salvo

La pizzeria «50 Kalò» di piazza Sannazaro a Napoli è un’istituzione. Un brand che Ciro Salvo ha portato anche a Londra e, a giorni, aprirà a Roma. Nella città partenopea, intanto, continua a sfornare le sue pizze leggere, idratate e digeribili, fatte solo con farine del Sud Italia. La sua marinara è la più economica di questa lista: 5 euro. La margherita 6.50 euro. Le più particolari arrivano a costare al massimo 9.50.

Cara pizza, ma quanto mi costi? Facciamo i conti in tasca ai pizzaioli (e a Briatore). Lara De Luna su La Repubblica il 21 Giugno 2022.  

Dopo la polemica che vede di fronte l'imprenditore, accusato di prezzi troppo alti nel suo Crazy Pizza, e la sua infiammata replica ai pizzaioli napoletani, passiamo in rassegna le voci che compongono il prezzo finale di una margherita di qualità.

Qual è il prezzo giusto di una pizza? La domanda può sembrare banale, ma non lo è. Ancor di più in questi giorni, che è tornata decisamente agli onori della cronaca dopo il botta e risposta a distanza tra Flavio Briatore e un ipotetico utente digitale medio, rappresentato principalmente dai pizzaioli napoletani (e dai napoletani in genere, di media). La querelle? Sulla falsa riga di quanto già successo negli anni scorsi con la pizza di Carlo Cracco, l'imprenditore piemontese è stato considerato reo di vendere presso i suoi Crazy Pizza un prodotto eccessivamente caro, difronte a una qualità supposta come minoritaria rispetto a quella di indirizzi meno conosciuti. "A Napoli la pizza margherita costa quattro euro" è stato il grido più o meno unanime rimbalzato sui social network. Urlo di settore a cui lui ha risposto, con il suo più che conosciuto stile polemico, dicendo che "a quattro euro è impossibile proporre un prodotto di reale qualità", e che a differenza di molte pizzerie napoletane lui nei suoi locali non solo propone un'esperienza a 360°, ma che utilizza solo materie prime di altissimo spessore. 

“Siamo quello che mangiamo” professava, e professa, Carlo Petrini, che riguardo la pizza ha sempre parlato di “magia alchemica”. Una magia che sembra talmente facile, e soprattutto risulta a tal punto immediata al palato, da creare l’illusione di una semplicità che non esiste. Nel sapore magari si, meno nella gestione di un’azienda che soprattutto in tempo di crisi non può esimersi da un’analisi reale e concreta del Food Cost. E quindi del prezzo finale al cliente. Partendo da questo abbiamo provato a dirimere la querelle che appassiona da giorni i pizza fan di tutta Italia, e non solo. 

Briatore difende la sua 'pizza da ricchi': "Cosa ci mette chi la vende a 4 euro?". Le reazioni sui social

Il costo del cibo non si limita all’unione del prezzo degli ingredienti, ma come spiega con efficacia Michele Armano, coordinatore della Business School dell’Associazione Verace Pizza Napoletana (AVPN), andrebbe "raccontato e analizzato come Full Cost”. Ovvero l’insieme di tutte le attività della filiera della pizza, dalla farina alla corrente elettrica, arrivando fino al costo del lavoro, sempre più complesso da gestire in una realtà in cui il contratto nazionale per la ristorazione (ovvero quello onnicomprensivo per i pubblici esercizi) risulta - quantomeno - da aggiornare. 

Per poter analizzare la realtà dei fatti con oggettività, l’unica via possibile è appoggiarsi a un metodo scientifico, “l’unico valido”. Come spiega Michele Armano, “va preparata una distinta base, in cui riportare la ricetta del piatto finito”. Documento di partenza imprescindibile per un ragionamento di tipo economico, in cui “vanno specificati rese e costi per unità di misura. Il pomodoro, per esempio, andrà analizzato nel suo prezzo al chilo, rapportato poi alla quantità reale di prodotto utilizzata a seconda del disciplinare o del singolo metodo di produzione”.   

Pizzeria romana di Flavio Briatore, lo show del pizzaiolo prima dell'apertura

Per poter affrontare questo percorso, la ricetta della margherita napoletana Stg, provvista di un disciplinare certificato, è la cartina di tornasole perfetta. “Su ogni disco di pasta vanno messi circa 80 grammi di pomodoro, con un prezzo medio ancora oggi che va dai 50 centesimi (che era l’accordo con l’industria di filiera pre covid) ai 70 centesimi al chilo, con una pomodoro San Marzano di alta qualità che può arrivare fino ai due euro”. Uno degli elementi meno impattanti, insieme all’olio extravergine di oliva che “per quanto riguarda l’utilizzo e le scelte di una pizzeria” spiega Diego Vitagliano dell’omonima e pluripremiata pizzeria napoletana “va da un minimo di 8 euro a un massimo di media di circa 16”.  

Varianti facili da analizzare, molto diversa è la questione per quanto riguarda la farina: “Il prodotto meno impattante in assoluto sul food cost di una pizza, in quanto di media costa circa 30 centesimi, su un totale di 2/2,10 euro di media” continua Vitagliano. Una materia prima poco pesante a livello di prezzo (nonostante i rincari “di oltre il 14% da aprile a oggi” continua il pizzaiolo napoletano) ma anche quella più soggetta a oscillazioni di prezzo: “il range di una farina - spiega Armano - va da un minimo da 15 euro al massimo di 48 euro per ogni sacco di farina - nelle quantità professionali, circa 25 kg a confezione-. A cui va aggiunto non solo il lievito, che per natura della ricetta è difficile da valutare da solo, ma anche le percentuali singole di farina utilizzata da ogni pizzaioli, che cambiano da locale a locale”.   

“Il prodotto che costa di più in assoluto? Il fiordilatte”, dichiara tranchant Alessandro Condurro di Michele in The World, la società che fa capo all’Antica Pizzeria da Michele a Forcella, Napoli, con filiali in tutto il mondo. “Nel mio caso ho un costo vivo di 7 euro, iva esclusa, per ogni chilogrammo. Ma si può scendere fino a un prezzo medio di cinque euro a seconda di quanto ognuno decide di poter o voler spendere”. Il vero problema “dei latticini - spiega Diego Vitagliano - è che non smettono mai di aumentare e di creare quindi volatilità al posizionamento economico della pizza. A fine febbraio con l’aumento dei costi dovuti alla guerra, ho sforato il mio limite di food cost di oltre 6 punti percentuali. Era tutto dovuto principalmente al costo base del latte”.  

A tutto questo vanno aggiunti di media 2 grammi di basilico e 5-7 grammi di formaggio da grattugia. Il risultato è un costo medio che va dai 0,80 centesimi per un prodotto di qualità basica agli “oltre 2 euro di una pizza di qualità. Nel mio caso” conclude Vitagliano “arrivo a pagare anche 4 euro per una margherita che vendo al massimo a 6 euro. Antieconomico? No. Perché non è vero che non si può vendere una pizza di qualità a pochi euro senza truffare i clienti. Purtroppo pochi colleghi trattano la loro pizzeria come una vera e propria azienda" conclude Diego Vitagliano, ma gli fa eco anche Alessandro Condurro. "Molto spesso dietro una pizza da quattro euro non c'è una scelta aziendale o un food cost ragionato, ma imprenditori con debiti importanti nei confronti dei fornitori. Il trucco è riuscire a lavorare sui costi in economia di scala, lavorando correttamente con i produttori e acquistando le materie prime in grandi quantità, accedendo così a scontistiche importanti. Arrivando magari a marginare di più su altri prodotti in vendita, come il beverage, per poter mantenere democratico della margherita”.  

Lara Loreti per La Stampa il 15 giugno 2022.

Se fossi su un'isola deserta e potessi portare con te solo un alimento, che cosa sceglieresti? La pasta! La maggior parte degli italiani non ha dubbi. Non a caso il prossimo numero de I piaceri del Gusto - mensile de ilgusto.it, l'hub del Gruppo Gedi, in edicola domani, allegato a La Stampa, la Repubblica, Gazzetta di Mantova e la Provincia Pavese - è dedicato alla regina della tavola. Pasta declinata in oltre 300 formati diversi, fresca, secca, lunga, corta, ripiena che nelle 56 pagine del mensile si svela al lettore con le sue mille sfumature. 

Tra i numerosi piatti, Il Gusto ne ha selezionato 11, i più iconici, capitanati dagli spaghetti al pomodoro, con l'indicazione di cinque ristoranti dove mangiarli. La pasta non smette di stupirci e si presenta come pasto ideale anche colazione, e persino in 3D. Tra le testimonianze degli appassionati, ne I piaceri del Gusto troviamo Felicetti, pastificio di montagna, e tanti chef che raccontano qual è il loro brand del cuore e spiegano perché spesso quella secca è preferibile alla fresca. 

Un amore viscerale quello degli italiani per la pasta. Ne è un grande sostenitore Gianmarco Tognazzi, tra i testimonial del Gusto che - con lo scrittore Diego De Silva, il produttore vitivinicolo Lamberto Frescobaldi e la chef Marianna Vitale - racconta il suo rapporto speciale con i primi all'italiana. 

Attore, produttore vitivinicolo, Tognazzi - in questi giorni impegnato con Ilenia Pastorelli sul set del film Lo Sposo Indeciso che non poteva (o forse non voleva) più uscire dal bagno di Giorgio Amato - è un grande appassionato di buon cibo, anche in questo figlio d'arte: memorabili le cene, nella casa di famiglia a Velletri, del padre Ugo, con ospiti del mondo del cinema e artisti. «La pasta è per me l'alimento imprescindibile, la mangerei tutti i giorni a pranzo e cena», racconta l'attore. Pasta super amata anche all'estero dove, mentre fino a qualche tempo fa si conoscevano solo pochi formati (spaghetti, fusilli e penne), oggi si spazia dai pici alle busiate, come si legge nel mensile.

«Non ha rivali, si accompagna con pesce, carne, verdure, è un'ottima alternativa al pane con cui ha molto in comune - riflette Tognazzi -. Con il condimento si possono fare composizioni infinite. Ugo nel suo libro Abbuffone scrive: "Sono malato di spaghettite", be' questa "malattia" ce l'ha tramandata. E se si pensa alle variabili, dai timballi alle lasagne, ci si rende conto che è un'invenzione geniale. 

Che poi nasca in Oriente è un'altra storia, ma è qui che con grano e uovo s' è trovata la formula perfetta. E l'Italia è diventato il Paese della pasta per eccellenza. A volte è considerata inflazionata, ma i pastifici artigianali l'hanno rilanciata. E quando non sai che cucinare, un piatto di pasta ti salva sempre». 

Del resto è stato in primis il grande Ugo, fra orgoglio, sperimentazione e goliardia, a farne un simbolo di italianità. «Pensiamo al torneo di tennis che mio padre faceva a Torvaianica: si chiamava "Lo scolapasta d'oro", vi partecipavano attori, registi, giornalisti - dice Gianmarco - . Con la scusa di giocare poi si faceva un banchetto e il vero premio era lo spaghetto a mezzanotte fatto da lui».

Convivialità ma anche senso di assuefazione: la pasta appaga. «Ha un potere magico: dopo averla mangiata mi sento sollevato - rivela l'attore - Io ne mangio 250 grammi! 

Un'abbondanza figlia delle cene di Ugo a Velletri: veri banchetti con due primi, due secondi fino a 6 portate. Tutt' oggi le litigate più grandi con mia sorella Maria Sole avvengono quando si mangia insieme perché lei fa porzioni eque, ma io ne vorrei sempre di più, almeno altre 4 forchettate per un bis!». 

In famiglia Tognazzi tutti l'apprezzano: «Mio fratello Ricky è bravo a cucinare, spesso condivido la tavola con Sergio Cammariere e Fausto Sciarappa, ma il vero dono ai fornelli ce l'ha Marco Minetti, attore e grande chef, il migliore dopo mio padre. I suoi sughi sono speciali». A proposito di ragù, I piaceri del Gusto dedica un focus anche alla carne, da quella cruda a quella alla griglia, indagando fra i vari tagli spingendosi fino al mondo delle frollature, raccontate dal tempio newyorkese, il ristorante Peter Luger.

E per chi ama viaggiare, da non perdere i consigli del Gusto: in bici fra vigne e noccioleti in Alta Langa, a cavallo degustando bollicine lungo tutto lo stivale, al mare a Mikonos o Sorrento, in montagna in Basilicata o in Trentino. Quanto al mondo del vino, la scelta è ampia: bollicine sulle colline del prosecco, champagne o birra? L'importante è godere della ricchezza culturale che solo il cibo sa regalare.

Made in Italy. Demonizzare il grano estero non è la soluzione. Stefania Leo su L'Inkiesta il 24 Marzo 2022.

Il caso Divella ha portato alla luce la nostra ossessione per la materia prima 100% fatta nei nostri campi, ma la verità è che il grano estero ci serve perché non ne coltiviamo abbastanza (anche se una soluzione c’è)

Qualche giorno fa la rassegna stampa dedicata alla guerra in Ucraina si apriva con questa notizia: «Dieci civili sono stato uccisi nella mattinata anche a Chernihiv dagli occupanti russi, che hanno aperto il fuoco su una fila di persone in fila per il pane». Marzo 2022 e ancora si muore per andare a comprare una pagnotta, fatta di quello stesso grano di cui si discute anche a due ore di volo dall’Ucraina, nel cuore dell’Europa. Preoccupandoci di marcare la distinzione tra tenero e duro, pastifici e mulini si lamentano di stock di materie prime bloccati in Russia e di attività presto al collasso, anche quando i claim sui pacchi di pasta dicono “100% grano italiano”. Un equivoco? Una truffa? Non proprio. Forse una distopia, dovuta alla nostra ossessione per le materie prime made in Italy. Figlia di un tempo recente, ha generato la migliore etichetta alimentare d’Europa, che però spesso non vogliamo pagare. Ecco perché non tutto il grano che consumiamo è italiano e forse non è neanche un male.

Il caso Divella

All’inizio di marzo una notizia ha messo al centro della scena Vincenzo Divella, patron dell’omonima industria alimentare di Rutigliano, specializzata nella produzione di pasta di semola di grano duro, biscotti, aceto, olio extra vergine di oliva, riso, sughi pronti e tanto altro ancora. In quei giorni Divella si era detto preoccupato per un carico di 30 mila quintali di grano tenero russo, che rischiava di rimanere fermo al porto di Azov, località al centro del conflitto russo-ucraino. L’intervista in cui era citato il timore dell’imprenditore pugliese ha iniziato a girare sui social e molti privati hanno iniziato a postare screenshot del titolo accanto a foto di un pacco di pasta integrale della linea “100 per 100 grano italiano”. È dovuto intervenire Domenico Divella, componente del gruppo di Rutigliano, con una dichiarazione mirata a dissipare ogni equivoco. «Gira su Facebook da giorni una fake news diffamatoria, facciamo chiarezza. La pasta nel post appartiene alla linea Integrale, che è a tutti gli effetti prodotta nella nostra azienda con semola di grano duro 100% italiano. L’articolo a destra si riferisce invece all’importazione dall’est, oggi martoriato dalla guerra, di grano tenero per la produzione di farine per panificazione e pasticceria, essendo l’Italia per la maggior parte produttrice di grano duro». Quindi il grano proveniente dalla Russia non è duro, ma tenero, impossibile da usare per la pastificazione. Eppure l’evidenza non ha fermato lo sdegno: di questo caso se ne è parlato per giorni.

Quanto importiamo e quanto conta la Russia

Il ruolo del gigante nel mercato del grano lo fa quello tenero, che rappresenta il 95% del mercato mondiale di questa materia prima. La produzione internazionale di quest’ultimo si attesta attorno a 750 milioni di tonnellate (Mt), rispetto a poco più di 30 Mt per il frumento duro. I maggiori produttori di grano tenero in Europa sono Francia e Germania, mentre tra i paesi extraeuropei la Russia guida la classifica produttiva con una media di 75 Mt (dati: Italmopa, Associazione Industriali Mugnai d’Italia). La produzione italiana di frumento duro è di circa 4,2 Mt rispetto a un fabbisogno di circa 5,8 Mt, mentre produciamo circa 3 Mt di tenero rispetto a una necessità interna di 5,5 Mt. Considerando la produzione di grano nel suo complesso, l’Italia produce il 65% del grano necessario per il fabbisogno interno, ma deve importare il 30-35%. Non si tratta di un’alternativa, bensì di una misura necessaria per colmare il divario tra domanda e offerta interna. 

Nonostante questo quadro generale, Beniamino Casillo, co-amministratore delegato di Molino Casillo, ci tiene a fare il punto sull’allarmismo generale che ha spinto gli italiani a depredare gli scaffali di pasta e farina: «Non c’è alcun problema di carenza di materie prime. La situazione è precaria, ma il grano non manca. Le giacenze mondiali di grano tenero per farina e pane sono forse al di sopra delle medie stagionali degli anni precedenti. Il problema oggi è far arrivare il grano ai mulini. I nostri lavorano costantemente e non riusciamo ad avere stock di farina. Che per noi è un brutto segno: non vogliamo speculare sulla paura, ma lavorare serenamente».

Cos’è un claim

Tenendo a mente questo quadro generale, è bene fare il punto anche su cos’è un claim e perché Divella, che importa grano tenero dall’estero come la maggior parte delle aziende italiane, può usare la dicitura “100% grano italiano” per la sua linea di pasta integrale (che, ribadiamo, è fatta con grano duro). Come spiega Michele Torelli, Quality Assurance Manager di Granoro, «i claim in etichetta devono essere veritieri. Si tratta di requisiti di Identity Preserve: quando si ha una caratteristica importante per l’identità del prodotto può giustamente essere esaltata sul packaging. Se leggiamo un claim che ci dice che il grano è 100% italiano, significa che si tratta di un’informazione veritiera. Dove non lo si dichiara con un claim aggiuntivo. probabilmente l’origine del grano è varia, cosidetto any origin, cioè che può provenire da tutto il mondo». In Italia comunque vige l’obbligo di dichiarare il luogo di origine della materia prima agricola oltre a quello in cui viene eseguita la molitura, che ovviamente è per lo più fatta in Italia. Sulla confezione può essere riportata la sigla “Ue” e/o “not Ue”: quando c’è quest’ultima, significa che il grano proviene da paesi extraeuropei, tra cui ci può essere anche la Russia. «Quindi se si dichiara un grano 100% italiano, lo si fa solo perché si può contare su una tracciabilità».

Ma che differenza c’è tra un grano italiano e uno any origin? «Usare un mix di grani – non se ne usa mai un solo tipo – dà la possibilità di garantire una costanza di prodotto. Se il grano italiano è mediamente scarso a livello proteico (il più importante indicatore qualitativo per il grano, ndr.), lo si “corregge” con grani migliori provenienti anche dall’estero. Se l’andamento climatico e colturale non mi permette di avere un grano di buon livello, si rischia di non garantire una costanza qualitativa. Per evitare queste situazioni, una delle soluzioni è la filiera. Ad esempio, Granoro richiede agli agricoltori un grano con un livello proteico pari almeno a 13g/100g. Sotto quella soglia, si rifiuta il prodotto. Questo spinge l’agricoltore a lavorare per fare qualità». Il risultato è un prodotto più costoso, ma che risponde a criteri ben precisi e ostentabili in etichetta. 

Più spazio al made in Italy con le filiere

Tuttavia questa nostra ossessione per il “made in Italy” della materia prima alimentare è storia recente. In passato, il consumatore italiano non era interessato all’origine del grano, condizione che persiste all’estero, dove il concetto di filiera non è percepito né monetizzabile. Certo, poi ci sono le frodi: il grano non ha Dna. In anni passati, le importazioni sono state demonizzate, dando all’esterno l’immagine di materie prime estere di cattiva qualità o, peggio, tossiche. Col tempo, il concetto di filiera  ha preso piede e mostrato il suo valore, proteggendo i consumatori dalle truffe, a patto di accettare di pagare un costo più alto. Il punto è che per fare filiera ci vogliono più coltivazioni italiane. Purtroppo, in Italia ci sono moltissimi terreni incolti, che non invitano nuovi agricoltori all’investimento per la bassa redditività collegata. 

Secondo i dati Istat, la superficie totale nazionale coltivata a frumento tenero è pari a 498.105 ettari per una produzione raccolta di 30.532.650 milioni di quintali. Sul fronte frumento duro, la superficie italiana coltivata passa a 1.228.503 milioni di ettari per una produzione raccolta di 41.373.262 quintali. Secondo l’ultimo report dell’Istat sul settore, nel confronto tra il 2010 e il 2020, la coltivazione del frumento duro ha aumentato la sua incidenza sul complesso delle superfici cerealicole, passando dal 36,9% al 40,3%. Un discreto incremento ha caratterizzato anche le coltivazioni di frumento tenero, passate dal 15,8% del 2010 al 16,7% del 2020. L’Emilia Romagna è la regione che destina la superficie maggiore al grano tenero, con 147.281 ettari coltivati e una produzione raccolta di 11,4 milioni di quintali. La Puglia è la regione che segna la maggior superficie coltivata a grano duro: nel 2020 si segnalano 343.500 ettari, per una produzione raccolta di 9.318.000 quintali.

Proprio al grano duro è riconducibile la previsione più elevata di incremento di superficie coltivata: le aziende agricole prevedono un rialzo significativo, pari al 5,6%. Le superfici destinate a frumento duro aumenteranno nel Nordovest (+15,2%) e nel Nordest (+24,7%,), con l’Emilia Romagna a guidare la crescita. Per il frumento tenero, si prevede invece una contrazione del +10,8: una brutta notizia visto il protrarsi dei venti di guerra (dati: Istat). 

Come incentivare le coltivazioni

«Per incentivare la coltivazione bisogna cambiare la nuova Pac europea – aggiunge Torelli – Attualmente l’agricoltore lascia il campo incolto per ricevere gli incentivi economici previsti dal protocollo europeo. La pratica è menzionata dalla Pac per incentivare la biodiversità. Si favorisce il terreno, è vero, ma dando soldi ai coltivatori senza richiedere alcuna attività, si incentivano pratiche poco virtuose e, di conseguenza, l’abbandono dei terreni». «L’Italia è il paese in cui ci prendiamo il lusso di non coltivare la terra – spiega Casillo – Come per l’energia, si pagano errori commessi su produzioni prive di programmazioni. Poi ci pensa la storia e le sue contingenze a portare a galla problematiche ataviche su cui le organizzazioni, la politica, l’imprenditoria non si è applicata quando avrebbe dovuto». 

Tuttavia ci sono artigiani (per ora solo nel campo della panificazione) che, stanchi di dipendere dai rivenditori di farina, hanno iniziato a fare da sé. È il caso di Davide Longoni, che è arrivato a coltivare 20 ettari tra frumento e segale. Fabio Cappelletti, anima di Nel nome del padre, oggi sa che le riserve messe in piede grazie al grano coltivato in autonomia rispondono esattamente al suo fabbisogno annuale. Marco Lattanzi del Panificio Il Toscano ha iniziato a produrre la sua segale a Monte Milone, in Basilicata. Di fronte all’incertezza del tempo, l’autarchia di qualità sembra una risposta efficace. Ma guardando alle grandi industrie di trasformazione alimentare, ciò che nasce in 20 ettari di terreno non basta. «L’unico modo per convincere le persone a coltivare i terreni, incentivando le colture cerealicole, è stabilire accordi di filiera che garantiscano ai produttori una marginalità, che gli consenta di lavorare in modo vantaggioso – aggiunge Casillo – Ma, per farlo senza danneggiare l’acquirente presente a valle della filiera, è necessario legare il prezzo a un listino a cui aggiungere delle premialità, che spinga in alto la qualità della produzione». Un ruolo chiave possiamo giocarlo anche noi, stimolando la domanda di filiera, anche in un tempo di prezzi in crescita e riduzione del potere d’acquisto. Mangiare meno, ma meglio può far bene a tutti.

Orti di guerra.  Report Rai PUNTATA DEL 06/06/2022 di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico

Siamo il Paese della pasta, della pizza, dei formaggi e della carne DOP.

Il nostro made in Italy vanta imitazioni in tutto il mondo, ma la guerra in Ucraina, tra i più importanti produttori di cereali al mondo, ha messo in evidenza quanto dipendiamo dall’estero per le materie prime: non ne abbiamo abbastanza per produrre le nostre eccellenze. Quali politiche, negli anni, ci hanno resi così fragili? Perché è diventato più conveniente tenere i campi incolti? E chi sta speculando sui prezzi schizzati alle stelle? Report compie un viaggio nella filiera agroalimentare tra chi coltiva, commercia e vende il grano sulle piazze internazionali per capire quanto la politica sia in grado di disciplinare il mercato e quanto l’equilibrio tra grandi multinazionali, allevatori e produttori, incida poi sul reddito di chi produce materie prime e di chi fa la spesa.

Orti di guerra Di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico Immagini Giovanni De Faveri – Carlos Dias – Paolo Palermo Grafica Giorgio Vallati Montaggio Riccardo Zoffoli

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La pizza, un simbolo del made in Italy che ci rende famosi in tutto il mondo. Qui, a Campo de’ fiori, si fa alla romana, ma la materia prima, il grano per produrre la farina, può venire anche da molto, molto lontano.

FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI Praticamente il conflitto russo ha fatto sì che ci sia stata un’escalation di costi tali che la farina è arrivata a circa 75 euro a quintale nel termine di venti giorni, un mese. Arriva ‘na mail al mattino con la quale ti dicono che da domani il prezzo è quello, ma non si discute.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Da quando è in atto il conflitto, i prezzi della farina sono quasi raddoppiati. Ma non è solo colpa della guerra.

FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI Il raccolto del grano è già stato fatto, pertanto questo è il grano dello scorso anno: questo grano già c’era. ROSAMARIA AQUINO E se già c’era come è possibile che aumenti il prezzo?

FABRIZIO ROSCIOLI - FORNO CAMPO DE’ FIORI È perché qualcuno sta speculando. Ora dobbiamo capire chi lo sta stipando, se i mulini italiani o le grandi multinazionali che magari, che ne so, sta arrivando la nave col grano, il grano sta salendo, facciamo rallentare la nave così, nel frattempo, il grano sale.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La sa lunga il signor Roscioli. Insomma, è vero, i prezzi, l’aumento dei prezzi dei cereali non è dovuto solo al conflitto Russia e Ucraina. Ora, l’Ucraina è sicuramente il granaio d’Europa, e con Russia e Kazakistan detengono il 30% degli scambi commerciali mondiali per quello che riguarda i cereali. Secondo il presidente Zelensky, 22 milioni di tonnellate, cioè la metà del grano esportabile, giace nei silos, nelle navi ferme al porto di Odessa: rischia di marcire se non verrà liberato entro una ventina di giorni. La Russia invece ha stoppato le navi nel Mar Nero e nel Mare d'Azov. Ora se questa situazione dovesse continuare che cosa potrebbe accadere? Che nei paesi in via di sviluppo potrebbero scoppiare la fame, le guerre, aumentare il fenomeno dell’emigrazione. Però è vero che i prezzi dei cereali, delle materie prime erano aumentati già nel 2020, l’87% in più. Noi abbiamo un po’ sbagliato la visione, potremmo anche renderci in maniera più autonoma per quello che riguarda la produzione di cereali ma abbiamo seguito l’Europa, abbiamo seguito la logica dei finanziamenti a pioggia e abbiamo fatto passare l’idea che, quasi quasi, rende di più un campo se non lo coltivi. Insomma, abbiamo perso di vista un fatto importante: che l’80% di quello che mangiamo deriva dalla lavorazione dei cereali, mais, soia e grano. Non solo le farine per pane, pasta e pizza, ma anche quelle farine destinate ai mangimi per gli animali che ci danno carne, uova, latte e poi anche per l’alimentazione del pesce. Abbiamo perso di vista, cioè, il fatto che se non hai il controllo della filiera dei cereali, rischi la fame veramente. La nostra Rosamaria Aquino.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Omsky 107 è una nave russa che trasposta grano kazako. Siamo a marzo ed è una delle ultime navi partita da Rostov sul Don prima del blocco, ha attraversato il Mar Nero e, dopo un viaggio di 11 giorni, ha raggiunto la costa pugliese. Ma arrivata a destinazione, è rimasta ferma in rada per oltre trenta ore, bloccata a causa di un problema nei pagamenti in rubli.

MARZIA AMICO Quante tonnellate di grano duro trasportava questa nave?

MARCO CUTAIA – DIRETTORE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI – PUGLIA MOLISE BASILICATA Circa 3000 tonnellate. L’Ucraina aveva un ruolo molto importante. In questo momento i flussi dall’Ucraina si sono fermati e progressivamente si sta provvedendo a cercare altri canali. Il Kazakistan assorbe tra il 50 e il 100 per cento delle importazioni a seconda della tipologia di merce.

MARZIA AMICO Questo rallentamento in qualche modo può essere legato anche alle sanzioni che sono state imposte alla Russia?

MARCO CUTAIA – DIRETTORE AGENZIA DOGANE E MONOPOLI – PUGLIA MOLISE BASILICATA Il rallentamento durante il tragitto può dipendere da tante condizioni.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Sdoganato e caricato, il grano kazako lascia il porto per raggiungere i mulini per la trasformazione in semola, si dirigerà poi verso forni e pastifici. Una buona parte del carico sbarcato a Barletta si dirige verso i mulini di Altamura.

MARZIA AMICO Abbiamo seguito un camion che poi è entrato qui con un carico, insomma, di grano arrivato dal Kazakistan… Quindi volevamo, insomma, approfondire la vicenda

SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA E non le posso dare informazioni.

MARZIA AMICO Mi faccia capire: qui voi producete la semola che poi viene distribuita altrove

SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA Non posso dare informazioni, mi hanno chiesto di non dare informazioni.

MARZIA AMICO Ah, quindi qualcuno con cui parlare c’è.

SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA No, è un mio collega di sopra, non la proprietà

MARZIA AMICO Perché mi sembra di capire che qui fate il grano che poi fa il pane d’Altamura ma è arrivato un carico grano kazako…

SEMOLIFICIO LOIUDICE – ALTAMURA Non posso dire niente, anche perché non sono la persona indicata e le darei informazioni non corrette.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questo mulino lavora e vende farine di grano tenero e duro, vanno ai forni che poi fanno il famoso pane di Altamura, ma anche ai più grandi pastai d’Italia. Ma quanta di questa è prodotta con grani provenienti dall’estero? Scorrendo le etichette delle paste italiane, ci rendiamo conto che molte di queste sono miscelate con farine Ue ed extra Ue, alcune provenienti persino dall’Australia. Le navi cariche di grano sono ferme da mesi nel mar d’Azov e nel mar Nero. Le rotte sono cariche di mine e si pensa a corridoi umanitari per scortarle fuori dall’area di influenza russa. 25 milioni di tonnellate sono ferme nei granai, secondo la Fao. Se questo grano non sarà esportato, c’è il rischio di sicurezza alimentare, ossia fame per milioni di persone, guerra e immigrazione.

MAURIZIO MARTINA - VICEDIRETTORE GENERALE AGGIUNTO FAO Noi abbiamo 50 paesi in via di sviluppo che storicamente ricevevano più del 30% del loro grano da questi due grandi paesi agricoli, che non a caso stanno creando dei problemi significativi di sicurezza alimentare.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Maurizio Martina, ministro dell’Agricoltura dal 2014 al 2018, è oggi ai vertici della Fao. Per i paesi in via di sviluppo il rischio è quello della fame cronica per 13 milioni di persone in più. Per gli altri, invece, si pone il problema dei prezzi, aumentati del 33% rispetto all’anno scorso e schizzati del 13% in un solo mese, quello del conflitto. ROSAMARIA AQUINO Dovremmo trovare dei fornitori alternativi come abbiamo fatto col gas? MAURIZIO MARTINA - VICEDIRETTORE GENERALE AGGIUNTO FAO Dipendere solo da pochi paesi non è mai una cosa buona. Più noi riusciamo a produrre alcuni beni agricoli di primaria importanza per le nostre filiere, meglio è.

GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Questo è un grano qualitativamente molto buono: pesa più di 80, di peso specifico fa 82, e ha 14 e mezzo di proteine. A differenza di tanti che dicono che il grano italiano, il grano non è qualitativamente buono come il canadese è una cosa che…

ROSAMARIA AQUINO Non è vero.

GIACINTO BENINATI – PRODUTTORE GRANO DURO Non…

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Giacinto Beninati è un produttore di grano: ha 500 ettari di terreno, una distesa che si estende a perdita d’occhio nelle Crete senesi. Prima faceva monocoltura di grano duro, come tanti siciliani che qui si sono trasferiti per produrlo. Oggi, però, ha ridotto a 150 ettari.

GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Qui ci sono migliaia d’ettari che non sono più a grano ma questo era il granaio della provincia di Siena.

ROSAMARIA AQUINO Ma non è che noi non riusciamo a produrne quanto invece l’industria richiede?

GIACINTO BENINATI - PRODUTTORE GRANO DURO Questo è vero, ma non ci riusciamo perché non veniamo remunerati nel giusto modo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Migliaia di ettari che non sono più a grano. Ne importiamo quattro milioni e mezzo di tonnellate di tenero e oltre due milioni di duro.

ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Siamo davanti al castello di Gallico. Quell’appezzamento lì che vedete, che pascolano le nostre pecore, era coltivato a grano fino a due, tre anni fa. E poi evidentemente il proprietario ha ritenuto più redditizio tenerlo incolto.

ROSAMARIA AQUINO È più redditizio tenere un terreno incolto, come è possibile?

ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Perché, comunque, i contributi europei della Pac un agricoltore li percepisce lo stesso.

ROSAMARIA AQUINO Quanto si percepisce dall’Europa per un campo incolto?

ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Anche se uno prende 200, 500, 600: cioè so’ puliti, non ci hai fatto niente!

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La famiglia di Alessia è una delle tante di pastori sardi che in Toscana hanno portato le loro pecore. Negli anni le politiche agricole europee e italiane hanno consigliato di produrre prodotti diversi, abbandonando le monocolture di cereali. E i contributi sono andati in questa direzione. Fino a qualche anno fa, tra queste campagne, era facile incontrare sterminati campi di girasole. Ma poi lentamente le coltivazioni sono sparite.

ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA È successo in altri periodi che venissero per esempio ben finanziati i girasoli, e quindi la Toscana era coperta da girasoli che poi dopo, un po’ perché c’erano meno finanziamenti, un po’ perché c’erano troppi cinghiali, è una coltura che è andata molto a scendere. Siamo diventati Gardaland, no? Un posto dove s’arriva, ci si fa il selfie: una cartolina siamo.

ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Questa è una foto dell’agricoltura della Romania, ma è molto simile a quella dell’Ucraina. Io penso che nessun turista verrebbe a passare una vacanza su questo territorio.

ROSAMARIA AQUINO Cioè lei ci sta dicendo che l’agricoltura, diciamo, risente anche della questione turistica, del paesaggio?

ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Certo. Del paesaggio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ismea è l’istituto italiano di servizi al mercato agricolo alimentare controllato dal ministero delle Politiche agricole. Secondo i suoi dati, importiamo il 64% del nostro fabbisogno di grano tenero, il 32% di grano duro e ben il 50% di mais. Ma perché per questi cereali nella Politica Agricola Europea, influenzata anche dal nostro governo, non ci sono fondi per chi li coltiva?

ROSAMARIA AQUINO Da Pac 2023-2027 sono previsti 7 miliardi: perché gli aiuti vanno alla zootecnia, alla produzione di foraggio, agli ulivi, alle patate e per i cereali niente?

ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Noi dobbiamo incentivare soprattutto quelle produzioni che in Italia creano fatturato e occupazione. Per questo è stata fatta una scelta di sostenere la zootecnia.

ROSAMARIA AQUINO Ma se non produciamo mais, per esempio, che mangeranno questi animali delle stalle?

ANGELO FRASCARELLI - PRESIDENTE ISMEA Noi non possiamo produrre a prezzi bassi, perché noi produciamo un mais che va alla nostra zootecnia da latte per produrre formaggi Dop e Igp che sono famosi in tutto il mondo: è lì che noi abbiamo la possibilità di competere.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E però nei supermercati ci siamo ritrovati con i razionamenti di olio di semi di girasole e di mais: fino a pochi mesi fa se ne potevano prendere solo pochi litri. E gli scaffali, spesso, erano lasciati vuoti.

ALESSIA FARINA - AZIENDA AGRICOLA FRATELLI FARINA Questa è la zona pianeggiante di Asciano, è la valle dell’Ombrone, qui sembra che abbiano seminato, probabilmente è una delle poche zone dove in genere vengono coltivati i girasoli. Il cambiamento climatico non le permette più questo tipo di colture. Non nevica, non piove…

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La siccità è un altro nemico degli agricoltori italiani. Per fortuna che ci sono le pecore. Con il loro latte Alessia produce il pecorino toscano, altra eccellenza italiana. Le sue pecore sono al pascolo e mangiano l’erba dei prati, ma oggi, per produrlo, i caseifici ti spingono agli allevamenti intensivi di pecore francesi, le Lacaune, come quelle su cui ha investito questo allevatore, e mangiano solo mangime. Ma da dove viene quel mangime? Proprio da Russia e Ucraina.

FAUSTO LIGAS - ALLEVATORE Si nutrono di miscela che è fatta con cereali e poi orzo, granturco e fieno. Questa è l’alimentazione base… In sei mesi si è stravolto il mondo. Siamo passati da 21 euro del granturco ora credo, franco Bologna, sia sui 44. E l’orzo era intorno ai 40 euro, quindi fate, costava 17 euro l’orzo, la soia costa 68 euro. Se in altri tre mesi mi manca anche da mangiare per le bestie, non vorrei che gli animalisti e gli ambientalisti poi dicessero che Ligas è un delinquente che non dà da mangiare alle pecore, ecco.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ucraina e Ungheria coprono insieme il 45% del mais che importiamo. E se i porti chiudono e le materie prime non arrivano, il vero impatto della guerra sarà proprio sull’industria del latte, dei formaggi e della carne. Coldiretti ha stimato, per esempio, che di questo passo nel Lazio una stalla su quattro chiuderà.

FAUSTO LIGAS - ALLEVATORE Ma lo sapete cosa vuol dire passare da 30mila euro a 75mila euro di spese? Chi vive? Come puoi campare? Ci hanno sempre detto: “Noi siamo pieni, le scorte le abbiamo per cinque anni, il mondo non ha problemi”. Il mondo agricolo da chi è tutelato?

ROSAMARIA AQUINO Come mai sono stati dati nel Piano Strategico Italiano soldi a chi fa patate, colture a perdere e nel paese della pasta e della pizza non ci sono fondi per chi deve fare i cereali…

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI La produzione di grano è una filiera che si sostiene e che ha bisogno ovviamente di…

ROSAMARIA AQUINO Si sostiene da sola?

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Che si sostiene da sola e…

ROSAMARIA AQUINO Perché i coltivatori dicono che non conviene più produrre grano, c’è voluta una guerra.

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Con i prezzi del grano di oggi è la cosa…

ROSAMARIA AQUINO Perché c’è voluta una guerra, però…

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI È la cosa più conveniente che c’è. Posto che la politica agricola comune mette a disposizione ingenti risorse, ma non infinite, bisogna fare delle scelte. La scelta è quella di sostenere le eccellenze agroalimentari italiane. Grazie.

ROSAMARIA AQUINO Cosa mangiano però poi questi animali se il mais non ce lo coltiviamo da soli, dobbiamo aspettare che le grandi produzioni arrivino dall’estero?

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Se guardiamo questo percorso e lo portiamo all’estremo e parliamo di autarchia alimentare di ogni singolo paese, credo che sia un percorso difficile da raggiungere perché allora mi chiedo come facciamo poi a difendere le nostre esportazioni e le nostre eccellenze nel mondo se guardiamo al nostro mercato interno e mettiamo in discussione il mercato unico?

ROSAMARIA AQUINO E come facciamo, come facciamo a difendere il made in Italy se non abbiamo la materia prima per farlo il made in Italy?

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO DELLE POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Ma… eh, le due cose… eh… non sono… cioè quello che sto cercando di far capire è che se… il mio ragionamento è che noi dobbiamo produrre tutto quello che consumiamo, produrre soltanto per il mercato interno, consumiamo anche nel mercato interno e non esiste più l’esportazione?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È una questione sicuramente di equilibri e la pandemia prima e poi la guerra ci hanno sbattuto sul muso il fatto che la globalizzazione, che in parte abbiamo subito e in parte, sulla quale in parte ci siamo appoggiati, costruendo delle certezze effimere, hanno, ha mostrato la globalizzazione tutte le sue criticità. Ora, l’invito ad autoprodurre non è certo l’invito all’autarchia, piuttosto a una semplice difesa. Del resto, il nostro Paese non ha una vocazione nella coltivazione dei cereali perché mancano le grandi distese, quelle che troviamo in Canada, in Sud America, o in Ucraina o in Russia. Ci siamo resi anche conto che noi ci siamo specializzati sulle eccellenze, sul Dop, ma ci siamo resi conto quanto sia importante controllare la filiera dei cereali perché quella che poi produce i mangimi per fabbricare, per curare le nostre Dop. Si è resa conto anche l’Europa che ha svincolato quattro milioni di ettari, destinandoli alla coltivazione dei cereali, 200 mila solo per l’Italia. Ora, dovremmo anche noi cambiare un pochettino magari lo sguardo e ipotizzare di coltivare un minimo indispensabile per tutelare gli agricoltori dalle speculazioni e anche dal punto di vista etico per dare un contributo a combattere la fame nel mondo, e coltivare dei cereali. Del resto negli anni 2000, in accordo con l’Europa, proprio l’Agea, la nostra Agenzia che eroga contributi per l’agricoltura, provvedeva a comprare, stipare e rivendere cereali per evitare le speculazioni e tutelare il reddito dei coltivatori. Oggi invece con la Pac, le Politiche Agricole Comunitarie, si è deciso di finanziare soprattutto gli allevatori e ai coltivatori di cereali vanno sostanzialmente gli spiccioli. E pensare che invece il ministro Patuanelli dice: fate attenzione agli speculatori. Ecco, ma chi è che dovrebbe fare attenzione se non la politica?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Tra Prato, Campi Bisenzio, Osmannoro, si notano dall’alto decine e decine di queste serre. Sono caratteristiche delle coltivazioni della comunità cinese che coltiva a ortaggi quelli che una volta erano campi di grano.

ANDREA LANDINI - VICEPRESIDENTE COLDIRETTI PRATO I cinesi si sono proposti e hanno preso in affitto terreni, magari pagandoli anche molto di più di quanto poteva pagarli un italiano, e hanno cominciato a produrre per la loro filiera. È una filiera parallela, spesso a nero, perché non c’è, non c’è tracciabilità.

ROSAMARIA AQUINO Ma da dove vengono i semi di questi… Dove li vendete, poi, questi cavoli? Nei supermercati? Ci chiami il capo, eh? Siamo dei giornalisti della Rai.

VOCE FEMMINILE Ma non ci interessa di fare nulla, potete andare via

ROSAMARIA AQUINO Volevamo chiedervi dove trovavate i semi, per, da chi vi vendeva i semi per questi bei cavoli e dove vendevate questi cavoli!

VOCE FEMMINILE Potete andare via? Perché non voglio fare nulla.

ANDREA LANDINI - VICEPRESIDENTE COLDIRETTI PRATO Non sappiamo da dove si prendono i semi, se sono Ogm, se non lo sono, non sappiamo i prodotti fitosanitari che usano se hanno, se sono conformi oppure no. Il modello del tessile loro lo riproducono pari pari nel, in agricoltura.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Tessile e agricoltura vanno così di pari passo che una cassetta di frutta puoi trovarla negli stessi magazzini dove i cinesi fanno le borse. A Osmannoro, davanti a un centro di ortofrutta tutto cinese, sosta un camion che viene riempito di pacchi da macchine di grossa cilindrata. Si fermano e scaricano. Decidiamo di seguirne una per vedere da dove arriva e ci porta dritti dritti nel distretto del tessile. Qui notiamo che da un negozio di borse stanno caricando frutta su un camioncino.

ROSAMARIA AQUINO Tu hai messo verdura nel camion, no?

RAGAZZA CINESE No. ROSAMARIA AQUINO No? Ho visto io! Producete voi quella frutta?

RAGAZZA CINESE No.

ROSAMARIA AQUINO Come mai avete quella frutta, voi fate tessile! Strano. Non lo sai?

RAGAZZA CINESE No.

ROSAMARIA AQUINO Ma ce l’hai messa tu lì dentro. Le cassette, no? Eh, e dove vanno tutte queste belle mele, guarda che belle, bellissime. Dove vanno? Ma escono da qua?

RAGAZZA CINESE No, no, no. ROSAMARIA AQUINO Voi non fate le borse?

RAGAZZA CINESE Sì. ROSAMARIA AQUINO Eh, e questi da dove li hai tirati fuori?

RAGAZZA CINESE Uhm…

ROSAMARIA AQUINO Non lo sai. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Quella frutta forse finirà al mercato di Firenze. La regione traccia solo agricoltori cinesi nati in Cina e perciò nel 2021 in tutta la Toscana risultano proprietari di sole sette aziende su 36mila. Non esistono dati sugli affitti. È ovvio che, se non esisti per il fisco, riesci a essere più competitivo di chi invece si barcamena a commerciare con le carte in regola e che è più strangolato dalle speculazioni.

ROSAMARIA AQUINO Lei ha parlato di speculatori per il grano, per i prezzi del grano. Di chi parlava in particolare?

STEFANO PATUANELLI - MINISTRO POLITICHE AGRICOLE ALIMENTARI E FORESTALI Eh, credo che ci sia… Non c’è un riferimento puntuale. È evidente che l’aumento del costo di alcune materie prime agricole è legato in parte all’aumento del costo dell’energia e in parte a chi è in possesso di quantità di materie prime che gestisce nell’immissione sul mercato in modo da farne aumentare il prezzo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Non è quindi tra questi silos che bisogna cercare i potenziali speculatori secondo quanto ci dice il ministro, ma tra chi accumula grosse quantità. Per cui ci spostiamo dove gli affari si fanno più grossi, in provincia di Perugia, in un’azienda commercializzatrice di mangimi. Qui siamo in uno dei suoi otto centri di stoccaggio che conservano un milione di quintali. Luciano Grigi è a capo di un’azienda leader nei mangimi in centro Italia. Vende mais, soia, grano, tutto quello che serve ad alimentare gli animali della filiera della carne e del latte che in questo momento è in estrema difficoltà.

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Noi non vendiamo mangime, noi siamo una banca oggi: banca, adesso fuori ci voglio scrivere banca. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ha l’80% di prodotto nazionale, ma un buon 20% arriva proprio dai territori oggi colpiti dalla guerra.

ROSAMARIA AQUINO Questa quota che lei compra all’estero di che cos’è?

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE È mais. La maggior parte è mais e farina di girasole.

ROSAMARIA AQUINO E da dove li prende?

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE La farina di girasole la maggior parte viene dall’Ucraina, e il mais la stessa cosa.

ROSAMARIA AQUINO Qualcuno che compra da voi ci dice che non sempre le consegne sono…

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE No, no, no. Magari abbiamo detto: te ne do meno perché dobbiamo servire tutti.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Appena inizia la guerra, i clienti cominciano a ordinare per lo stoccaggio: nel giro di tre giorni arrivano 540 ordini da 80mila quintali e 120mila quintali è la cifra che in genere viene ordinata al mese. Gli allevatori erano spaventati e hanno iniziato a comprare.

ROSAMARIA AQUINO Quanto sono aumentati i prezzi di queste materie prime da quando c’è la crisi?

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Dal 2020 ad oggi sono aumentate del 130%

ROSAMARIA AQUINO Quindi lei sta avendo un guadagno considerevole!

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE No… è questo non è che... Non è che c’abbiamo un guadagno. Perché… Allora, anno scorso se noi non ritiravamo le materie prime che ci avevamo i contratti, portavamo a casa senza ritirarle sei milioni di euro.

ROSAMARIA AQUINO Praticamente lei ordina, l’azienda da cui ordina le dice: non la ritirare e ti pago?

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE E ti pago, ti do una differenza. A loro gli conveniva di stornarla e la vendevano a un prezzo maggiore.

ROSAMARIA AQUINO Più avanti.

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Più avanti, e a me, invece, io siccome faccio il mangimista, che gli davo agli agricoltori?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dunque, diversi fornitori che servono questo stabilimento pagano il proprio cliente per non fargli ritirare i cereali. Questo per consentire di accumularli, perché sanno che il prezzo del mais o del grano salirà. Tra questi c’è una multinazionale cinese che fa anche una seconda richiesta al suo cliente: o rivedi i prezzi dei contratti al rialzo o non ti consegno la merce.

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Una multinazionale 100% cinese, non ci metteva a disposizione il mais della seconda quindicina di marzo finché non mettevamo a posto dei contratti che c’ho per giugno, luglio, agosto, settembre fino a gennaio 2023 perché ce li abbiamo a prezzi bassi. Allora, tramite un mediatore, abbiamo mediato, gli abbiamo dato una cifra, per poterci consegnare. Ma come è successo a me, e sono successi agli altri, eh. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO L’imprenditore tira fuori il nome della multinazionale solo una volta finita l’intervista, parlando con un suo consulente.

LUCIANO GRIGI - IMPRENDITORE Andrea, sono qui con Rosamaria di Report. Voleva sapere qualcosa sull’andamento dei prezzi e su chi sta speculando io mi so’ permesso di dire quello che ci ha fatto Cofco, spiegaglielo te che almeno…

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La Cofco è una multinazionale cinese in cui ha una grossa partecipazione anche lo stesso governo. A consigliare a Grigi di evitare lungaggini legali è un mediatore, suo consulente finanziario, un’autorità nel settore dei cereali.

ROSAMARIA AQUINO Può essere speculazione, per esempio, che una multinazionale dica a un compratore italiano: tu hai già firmato con me dei contratti ma se non li rimoduli al prezzo nuovo, più alto che io ti sto imponendo, io questi contratti, io non ti do più la merce

ANDREA CAGNOLATI - GRAIN SERVICES Capisco che dobbiate cercare un colpevole ma non… Questo importatore qui dice: io sono in difficoltà, avevo un impianto a Mariupol e me l’hanno distrutto, avevo i contratti sull’Ucraina e non me li eseguono, speravo di eseguire dalla Serbia e dalla Serbia mi hanno bloccato le esportazioni, avrei bisogno che mi veniate un po’ incontro.

ROSAMARIA AQUINO Ma il suo cliente è la multinazionale o è Grigi?

ANDREA CAGNOLATI - GRAIN SERVICES Guardi, io intermedio e sono in mezzo. Io devo cercare di portare a casa la roba perché da qui a un anno, dove saremo, non lo so.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Qui siamo a Ravenna, uno dei più grandi e trafficati porti commerciali del nostro paese, dove arrivano ogni giorno carichi di cereali che poi vengono stipati in silos come questi. E Ravenna è sede della Cofco International Italy, la controllata italiana della multinazionale cinese, a capo della quale c’è Carlo Licciardi, che è anche presidente della Anacer, l’associazione che rappresenta gli interessi di chi commercia cereali.

ROSAMARIA AQUINO Stavamo cercando il dottor Licciardi: non può metterci in contatto con lui?

DIPENDENTE COFCO INTERNATIONAL ITALY Posso lasciare detto che siete passati, però, più di così se mi vuole lasciare lei un recapito eventualmente.

ROSAMARIA AQUINO Certo. Se glielo vuole anticipare, noi abbiamo avuto una segnalazione da un cliente molto grosso del centro Italia che ci ha detto che lui aveva già dei contratti con Cofco per una fornitura di mais, ok? Dopodiché Cofco dice: se non mi paghi di più questa quota di merce, io non ti consegno il mais. Vogliamo capire se il governo cinese sa che vengono applicate queste politiche sulle aziende italiane ed europee, visto che il mercato europeo…

DIPENDENTE COFCO INTERNATIONAL ITALY Va bene.

ROSAMARIA AQUINO Ok? SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ci mancava il manager che era a capo, che è a capo dell’associazione dei commercianti di cereali e che tutela gli interessi della multinazionale che invece a questi commercianti chiede di alzare il prezzo di chi tutela gli interessi. È esemplare il caso dell’imprenditore Grigi, ai quali la multinazionale cinese ha chiesto di rialzare i prezzi quando a sua volta rivende i cereali. Insomma, la multinazionale cinese ad altri fornitori gli avevano chiesto di non ritirare, come da contratto, la merce piuttosto avrebbero pagato loro. Una cosa simile è successa anche, non solo quando è scoppiata la guerra, ma anche l’anno prima, quando la disponibilità del grano ancora c’era: hanno pagato sei milioni di euro l’imprenditore Grigi per non ritirare i cereali. Ora: fanno beneficenza? No, sanno che potranno lucrare successivamente. È la legge del mercato e poco importa se poi ci sono intere filiere che vanno in crisi, come quelle delle eccellenze perché poi si forma la filiera dei mangimi o se addirittura c’è gente che potrebbe morire di fame. E la Fao ha stimato che proprio grazie a questi fenomeni potrebbero soffrire la fame 220 milioni di persone. Ora, c’è anche il caso delle grandi nazionali, multinazionali, quelle che hanno il monopolio delle materie prime alimentari, e si tratta delle cosiddette ABCD, cioè, praticamente, di Adm, Bunge, Cargill e Dreyfus, che comprano merci all’ingrosso dai grandi coltivatori nel mondo, dal Canada, Stati Uniti, Brasile, Africa, nonché anche in Russia e Ucraina, hanno silos in tutto il mondo, detengono l’80% del mercato di riso, colza, mais, grano, soia. Insomma, ecco: la Fao dovrebbe fare moral suasion sui governi per far sfilare dal concetto della borsa, della speculazione, le materie prime destinate all’alimentazione, alla sopravvivenza. Poi l’anello debole, lo sappiamo, sono quei piccoli coltivatori o chi va a mungere le mucche per darci il latte, strozzato da quelle multinazionali il cui potere è tale che riescono a incassare anche quando un tribunale impone loro di cedere le quote. E qui entriamo in una storia che sarebbe incredibile se non fosse che è vera. Pubblicità

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, bentornati. C’è una storia che sarebbe incredibile se non fosse che è vera. C’è un comune che ha le casse in rosso, potrebbe incassare ottanta milioni di euro ma non lo fa, lascia che incassi una multinazionale francese. Il comune è quello di Roma, la multinazionale francese è la Parmalat, Lactalis. È una storia che attraversa i sindaci degli ultimi 25 anni della Capitale, che aveva la sua Centrale del Latte, era rifornita dagli allevatori della zona. Nel ’96 la giunta Rutelli vuole privatizzarla e allora indice una gara. Il bando prevede dei vincoli: intanto che l’80% del latte della Centrale doveva essere rifornito dagli allevatori della zona, poi che i dipendenti dovevano essere assorbiti e infine che la Centrale, una volta comprata, non poteva essere rivenduta dopo, entro i cinque anni. Insomma, nella fase finale si presentano al tavolo la Cirio di Cragnotti, la Parmalat di Tanzi, Fattorie Latte Sano, poi una cordata di imprenditori e di banche. La gara se l’aggiudica Cragnotti, presentando un’offerta monstre, 80 miliardi di lire. Solo che poi Cragnotti viola uno dei requisiti del bando di gara, rivende la centrale a Parmalat, che diventerà poi Lactalis. Dopo 25 anni di storia, questo fatto, questo particolare, questa violazione renderà di fatto la gara nulla. Dopo 25 anni, 30 sentenze, poi c’è stato il Consiglio di Stato, poi la Corte d’Appello del tribunale civile, insomma, ora i francesi dovrebbero restituire quote e anche utili. Ma il Comune, le quote, le vuole?

MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Se continuiamo in queste condizioni, in un paio di mesi avranno chiuso parecchie stalle, parecchie, chi prima, o chi dopo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Mariarosa è una dei circa 200 allevatori della Finlatte, azionista al 16% della Centrale del Latte di Roma. Ogni giorno producono latte che Parmalat, socio di maggioranza col 75%, paga molto poco al litro, ben al di sotto di quanto a loro costi produrlo.

ROSAMARIA AQUINO Quanti allevatori hanno dovuto chiudere l’azienda da quando si ricorda che la Centrale del Latte è in funzione?

MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Un 30%.

ROSAMARIA AQUINO Ed è legato alla politica dei prezzi del latte applicati da Parmalat?

MARIAROSA VITA - ALLEVATRICE COOPERATIVA LATTEPIU’ Assolutamente. Assolutamente, la motivazione è quella. ROSAMARIA AQUINO Oggi questo latte locale, a km zero, quanto viene pagato?

DAVIDE GRANIERI - RESPONSABILE COLDIRETTI LAZIO 41 centesimi.

ROSAMARIA AQUINO È un prezzo congruo?

DAVIDE GRANIERI - RESPONSABILE COLDIRETTI LAZIO Assolutamente no. Non si riesce a gestire una stalla con soli 41 centesimi. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il latte è pagato poco, ma almeno a fine anno Finlatte partecipa alla spartizione degli utili, che non sono pochi: circa quattro milioni nell’ultimo bilancio. La notizia, però, è che la gran parte di quegli utili, cioè quelli che incassa Parmalat, apparterrebbe a tutti i romani. Tutto parte 25 anni fa, nel 1996, all’epoca della giunta Rutelli, che decise di privatizzare la municipalizzata.

MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO C’era la Parmalat di Callisto Tanzi, c’era la Cirio di Cragnotti, c’era la Fattoria Latte Sano e c’era la Granarolo, che si era associata in questa operazione alla banca Comit.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Marco Lorenzoni con la sua Fattoria Latte Sano partecipò alla gara del Comune di Roma che voleva privatizzare la centrale. Un 75% sarebbe andato a gruppi privati, un 20% sarebbe andato agli allevatori romani e il resto erano quote pubbliche divise tra Regione e Comune. L’intenzione era quella di costituire il terzo polo del latte in Italia dopo Parmalat e Granarolo.

MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO Si aprono le buste e l’offerta della Cirio di Cragnotti è decisamente superiore alla media delle altre offerte: 80 miliardi di lire per il 75 per cento della società, della neo-costituita Spa Centrale del Latte di Roma. Poco tempo dopo Cragnotti, però, sottoscrisse un accordo di cessione con Parmalat, di conseguenza la Centrale del Latte di Roma finisce in proprietà di Parmalat.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Questa cessione avrebbe reso la gara vinta da Cragnotti nulla perché non sarebbero state rispettate le clausole del bando tra cui quella di non cedere entro cinque anni dall’acquisizione.

MARCO LORENZONI - ARIETE FATTORIA LATTE SANO Il Consiglio di Stato ha annullato la gara per cui il Comune di Roma è ritornato il legittimo proprietario della Centrale del Latte di Roma.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Nel frattempo, Parmalat innesta una causa civile, minacciando richieste di risarcimento milionarie. E così, negli anni, nessun sindaco ha riscattato le quote. La giunta Alemanno era stata l’unica a richiederle indietro, poi, però, proprio quando poteva riprendersele per legge, non insistette.

ROSAMARIA AQUINO Nel 2012 il Consiglio di Stato dice una cosa precisa, cioè: le quote devono essere restituite con effetto immediato e la sentenza è esecutiva. Perché il comune non ne rientra in possesso?

GIANNI ALEMANNO - SINDACO DI ROMA 2008-2013 Non c’è stata un’inerzia da parte della amministrazione, c’è stata purtroppo la… Le contorsioni della giustizia italiana, sia quella amministrativa che quella civile, che hanno permesso a Parmalat di arrivare fino a oggi.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Quindi secondo più sentenze il Comune di Roma è proprietario al 75% della Centrale, ma gli utili li incassa da oltre vent’anni la Parmalat. Il Comune di Roma ha rinunciato a incassare 80 milioni di euro. Parmalat, da parte sua, sa bene che quelle quote non sono sue e lascia ai soci dell’associazione di allevatori della Finlatte di stabilire la ripartizione degli utili.

SOCIO FINLATTE SPA La destinazione degli utili per una questione di opportunità la fanno votare a Finlatte. Diciamo gli fanno levare un po’ le castagne dal fuoco.

ROSAMARIA AQUINO Ah. SOCIO FINLATTE SPA Capito? Quest'anno ci sono circa cinque milioni di utili e probabilmente rifaranno la stessa cosa perché Parmalat esce dalla stanza.

ROSAMARIA AQUINO Ma gliel’ha chiesto Parmalat o è una loro proposta?

SOCIO FINLATTE SPA No, è una cosa che gli è stata chiesta di fare.

ROSAMARIA AQUINO E loro perché lo fanno?

SOCIO FINLATTE Perché sennò moriamo. Se nun te prendono il latte che fai, dove lo vai a buttà?

ROSAMARIA AQUINO FUORICAMPO Ma il Comune di Roma le quote della Centrale del Latte, dopo che la magistratura le ha dato ragione, le vorrebbe? Monica Montella, consigliera Cinquestelle durante la sindacatura Raggi, scopre che il Comune di Roma aveva fatto valutare le sue quote della Centrale a un prezzo molto più basso di quello al quale le aveva vendute la Regione. Tuttavia, Parmalat minacciava un risarcimento stratosferico.

MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Era emerso che Parmalat avrebbe chiesto 120 milioni di danni a Roma Capitale. Tra le righe l’ho visto quasi come un ricatto. Perché se fino a quel momento dicevano che Parmalat valeva dai 35 ai 45, però poi dopo se si doveva fare indennizzare voleva 120 milioni, quindi, insomma, veramente i numeri al lotto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ma non era solo Parmalat a spingere per tenersi la Centrale nonostante il primo pronunciamento dei magistrati. Anche al Comune di Roma c’era chi sembrava remasse in suo favore. Lo dimostra un audio inedito di una riunione che si è tenuta prima dell’ultima sentenza, proprio tra la consigliera Montella con Salvatore Romeo, allora capo della segreteria politica di Virginia Raggi.

MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Io voglio portare al tavolo più soldi di quello che loro vogliono dare.

COLLABORATORE Come mai non si possono aspettare i termini poi di giudizio… Come diceva Monica…

SALVATORE ROMEO - EX CAPO DI GABINETTO SINDACA RAGGI Perché non vogliamo vincere. Provo a spiegare.

MONICA MONTELLA - CONSIGLIERA COMUNE DI ROMA 2016-2021 Se vinci c’hai una carta in più, scusa. Qual è il problema?

SALVATORE ROMEO - EX CAPO DI GABINETTO SINDACA RAGGI Se vinci devi andare a mungere le mucche. Secondo me è meglio transare perché se per caso vinciamo, siamo rovinati!

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Chi non vuole andare a mungere le mucche è Salvatore Romeo, ex braccio destro della Raggi. Ma perché sarebbero rovinati?

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 È chiaro che nel momento in cui noi fossimo ridiventati i proprietari delle quote e non eravamo minimamente in grado neanche di mungere una mucca, come facevamo a garantire un servizio che era diramato su tutto il territorio e che negli anni aveva subito anche un incremento in termini di quote di fatturato e di mercato.

ROSAMARIA AQUINO Ci sono un sacco di esempi, eh, di centrali del latte pubbliche, eh.

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Assolutamente ma sono cose degli anni Trenta e che nel tempo si sono sviluppate, non hanno mai raggiunto dei livelli di incancrenimento come la Centrale del Latte di Roma.

ROSAMARIA AQUINO Eh, ma a noi è dal 2006 che ci stanno dicendo che ce le possiamo riprendere ‘ste quote…

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Ce le possiamo riprendere, questo non lo decido io.

ROSAMARIA AQUINO Però con questo atteggiamento praticamente Parmalat io leggo questo: ha fatto i suoi utili, se li tiene, con quote che non sono sue, fa votare i bilanci a questi signori di Finlatte

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Noi possiamo ancora chiedere la sospensione del giudizio, possiamo fare un’offerta, possiamo richiedere le azioni indietro, possiamo…

ROSAMARIA AQUINO Eh, ma quando l’abbiamo potuto fare, che voi decidevate in quel momento, perché non l’abbiamo fatto?

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Però, naturalmente, questo non lo decidevo io, perché io non sono il politico del caso

ROSAMARIA AQUINO Vabbè, però lei era quello che suggeriva

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Quello che?

ROSAMARIA AQUINO Suggeriva

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Io sono il tecnico che spiegava le cose…

ROSAMARIA AQUINO Un poco di più del tecnico.

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 Vabbè, però, insomma, sa perché conosco questo lavoro? Perché io quando sono entrato, nel ’99, al comune di Roma, la prima cosa di cui mi sono occupata è stata questo. Una cosa che le posso escludere categoricamente è che Parmalat si sia comprata tutti perché sono cambiati talmente tanti attori… E i nuovi…

ROSAMARIA AQUINO Però uno è rimasto sempre lo stesso.

SALVATORE ROMEO – CAPO SEGRETERIA SINDACA VIRGINIA RAGGI 2016 E chi?

ROSAMARIA AQUINO Lei.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Dunque, è preferibile che il Comune non torni in possesso delle quote perché per l’ex consulente della Raggi il problema sarebbe mungere le mucche. Ma il Comune di Roma le mucche già le munge! In queste due stalle, la Tenuta del Cavaliere e questa di Castel di Guido, ha circa 466 capi: 170 di questi li ha messi, però, all’asta perché troppo anziani e improduttivi. ROSAMARIA AQUINO Sindaco, buongiorno, Report. Ci dice cosa farà la sua amministrazione con la Centrale del Latte ora che la Corte d’Appello assegna il 75%, ribadendo che la proprietà è di tutti i romani?

ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Siamo molto soddisfatti perché abbiamo vinto, e quindi è una cosa molto positiva

ROSAMARIA AQUINO Quindi cosa farete, una gara o vi metterete d’accordo con Parmalat?

ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Ah, lavoreremo per valorizzare al meglio questo, questo risultato

ROSAMARIA AQUINO In che modo, con una gara pubblica?

ROBERTO GUALTIERI - SINDACO DI ROMA Questo, questo mi deve consentire di dirlo quando potremo, lo comunicheremo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ce lo farà sapere il sindaco Gualtieri, mentre Lactalis con noi ha preferito non parlare in attesa della sentenza della Cassazione che dovrà decidere in merito alla sentenza del tribunale d’appello civile di Roma che imporrebbe a Lactalis di restituire al Comune di Roma i 40 milioni di euro di arretrati fino al 2012. Insomma, il Comune di Roma, è singolare, è scritto a bilancio, il 75% delle quote della Centrale, ma non incassa gli utili. Insomma, eppure farebbero comodo soprattutto per aggiustare le strade, per sistemare anche la macchina dei rifiuti, farla funzionare meglio la raccolta. Mentre i sindaci che si sono alternati fino a oggi, negli ultimi anni, insomma, potevano anche incassare, non hanno incassato e si sono schermati dietro il timore della richiesta di risarcimento danni presentata da Lactalis. Mentre invece rimane un mistero del perché il responsabile politico della segreteria di Virginia Raggi, della sindaca, insomma, faceva il tifo per perdere le quote di un bene comune perché diceva che non sapeva bene come organizzarsi per mungere le mucche.  

E abbiamo scoperto che non siamo più il granaio d’Italia.  Arturo Guastella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Marzo 2022

Il grano in Magna Grecia

La guerra in Ucraina ha destato la terra della Magna Grecia sulla provenienza del frumento

Così noi, qui in Magna Grecia (allargata, per la circostanza e per la koinè, la lingua comune, anche alla Sicilia), che da secoli venivamo considerati come il granaio d’Italia, ci siamo improvvisamente accorti che già da qualche anno, la coltivazione del frumento e dei cereali si era spostata a nord, in quella terra popolata da Cimmeri e Sciti, guardati con sospetto da Omero e da Erodoto, per i loro costumi barbari. Insomma, in quella pianura sarmatica, dove, ora, l’ambizioso voivoda russo, ha portato i suoi cingolati, calpestando diritti e cittadini inermi. E, allora, abbiamo dovuto prendere atto che la farina e i prodotti dei nostri pastifici, parlavano il cirillico, malgrado le diciture italiote e le assicurazioni che trattavasi di spighe coltivate nello Stivale. Certo, avremmo dovuto accorgerci che la coltivazione del grano duro era praticamente scomparsa da almeno un decennio dal nostro Settentrione e che dei tre milioni e passa di ettari coltivati a grano nel Sud, ne resistono appena un milione e 486 ettari.

Eppure è noto che questo cereale, a differenza del grano tenero, fornisce la materia prima più ricercata per quasi tutte le paste alimentari e che la sua coltivazione è possibile anche in territori con pochissime risorse idriche. Abbiamo sentito con le nostre orecchie, rinomati pastai della Magna Grecia, lamentarsi che per la guerra le loro navi onerarie, erano rimaste bloccate nei porti del Mar Nero, ad Odessa, soprattutto, mentre le scritte sul loro àrtos, il pane bianco, riportavano diciture nel nostro alfabeto. E le cose non vanno bene neppure per la coltivazione del grano tenero. La superficie nazionale per la coltura di questo cereale, è significativamente calata negli ultimi anni passando da 1,6 a 0,6 milioni di ettari di coltivazione. Dicono che di questa drastica riduzione, si siano avvantaggiati soprattutto gli Iperborei, gli Illiri, insomma, e, soprattutto quelli che vivono nella Gallia Transalpina, nella Cimbria, in Teutonia e nella Britannia. Di questo passo, qui da noi, ma anche nell’Iberia di Quinto Sertorio (altro granaio per i Quiriti), rimarrà presto disoccupato anche il fiero hidalgo don Quijote de la Mancha, per la totale scomparsa dei mulini a vento. Va bene, avremo poco pane, ma potremo sempre ricorrere al nostro antico alimento base, la màza, cioè, formata dalla farina d’orzo impastata in gallette. Brutte notizie, però, anche per la coltura di orzo. Infatti la superficie nazionale destinata alla sua coltivazione è andata contraendosi nel corso degli anni '90 (da 450 mila ettari a 300 mila ettari) e la produzione è inferiore al fabbisogno nazionale, con gli allevamenti degli animali che, da soli, ne assorbono l’85%.

«E il farro?», mi chiede il generale Sertorio, che, così disinvoltamente avevo chiamato in causa, distogliendolo dalle sue guerre in Lusitania. Il farro? Per fortuna mi viene in soccorso forse il più famoso alimentarista dell’antichità magnogreca, Archestrato di Gela, il quale mi ha spiegato che si tratta di una sorta di grano, dal nome latino di Tritum monococcum, usato come cibo già in tempi remotissimi, addirittura dall’eneolitico. La preoccupante carenza di panem nostrum e i suoi prevedibili aumenti dei costi, potrebbero rivoluzionare non solo i nostri deschi, ma perfino i nostri ritmi di vita. Se è vero che esso, il pane, e, in senso più lato il cibo, assume la «valenza di parametro per la scansione del tempo e delle fasi della giornata (colazione, pranzo, cena), differenziando i momenti quotidiani da quelli solenni delle festività, come anche le fasi importanti di passaggio nella nostra vita, come i banchetti di nascita, di compleanno, di matrimoni e, perfino di morte» ecco che la guerra di Putin non è poi così lontana. Inoltre, l’inciso virgolettato, è una puntualizzazione del filosofo Diogene Laerzio, il quale ricordava come anche in Grecia (e più tardi nella stessa Roma) determinate feste fossero strettamente legate al cibo. Con le Antesterie, per esempio, ad Atene, dove, per la circostanza, si sturavano le botti con il vino nuovo e si preparava una zuppa di verdure per i defunti. O, ancora, sempre in Grecia (e, perciò, probabilmente anche qui da noi), con le Pianepsie, a novembre, in onore di Apollo, con le offerte di focacce.

Tornando, comunque, all’Ucraina e all’aggressione proditoria che la sta martoriando, la sua nobiltà di origini è, per certi versi, più vicina a noi, che agli abitatori della steppa, in quanto quell’Odessa, dove sono alla fonda le triremi dei nostri pastai, sembra abbia origine greca, in quanto, era il luogo di due empori greci, Tyras e Olbia Pontica, mentre l’etimo del suo nome, potrebbe derivare da un’altra colonia greca, Odessus, anche se i geografi antichi, su questo non sono d’accordo. In quanto all’espugnazione di Kiev, da parte dello «zaretto» russo, ci permettiamo di citare, a questo proposito, una gnome di Orazio. Non cuivis homini contingit adire Corinthum, con la quale il poeta di Venosa, voleva significare che è quasi impossibile per certi uomini riuscire a varcare le mura di Corinto.

 Monica Serra per “la Stampa” il 6 marzo 2022.

L'aumento del costo dell'energia elettrica, del gasolio per i trasporti, la scarsa produzione di cereali nel 2021 a causa della siccità, le speculazioni. Mancava solo la guerra in Ucraina, il "granaio d'Europa" che produce oltre il 40 per cento dei cereali usati in Italia. Così «il prezzo della farina è salito alle stelle, con un aumento del 60 per cento rispetto allo scorso agosto e tanti panettieri che lavorano sulla qualità ora rischiano di chiudere». 

Stefano Fugazza, panettiere milanese da tre generazioni, con un negozio aperto dal nonno nel 1921, e presidente dell'Unione artigiani di Milano, la definisce la tempesta perfetta: «Stiamo cercando di trattenere il fiato, di non scaricare l'aumento di tutti i costi sulla clientela, ma la quotazione di borsa del grano e quindi il prezzo della farina sembra impazzito. Vendere un chilo di pane a 5 euro al chilo oggi significa lavorare per un caffè al giorno. Decine di colleghi rischiano di scomparire». 

La speranza di tutti è che «la nuova produzione sia abbondante per non gravare sul consumatore a livelli drammatici, parliamo almeno del 20 per cento in più», prosegue Fugazza. A questo si aggiungerebbero «gli agricoltori che un po' di grano ce l'hanno ancora ma, davanti a questi vertiginosi aumenti delle quotazioni, aspettano il momento giusto per venderlo», e speculare così sul prezzo. «Solo questa settimana il prezzo della farina è aumentato di quasi 10 euro in più al quintale», ragiona Simone Puricelli, che da generazioni fa il rappresentate per conto di quattro mulini lombardi. 

«Ma anche i mugnai stanno cercando di contenere il più possibile i prezzi, almeno in base ai vecchi contratti e nonostante la carenza della materia prima anche a causa delle speculazioni. È chiaro che ci stanno rimettendo». Quel che poi, per Puricelli, pesa sulle produzioni in maniera sproporzionata è «il costo dell'energia che si è quadruplicato: qui è in ballo un intero settore». A risentire della situazione è tutta la filiera.  

Carlo Bava, mugnaio da sette generazioni, che ha un piccolo mulino ad Abbiategrasso, prova a puntare tutto sulla qualità e sul rapporto con i clienti: «Uso soprattutto grano canadese, e quello per fortuna non manca. Ma bisogna vedere quanto costerà all'arrivo della prossima nave». La speranza è «nel prossimo raccolto, che sia buono e non scarso come nel 2021». Per quanto riguarda le produzioni nazionali - spiega Bava - i costi si sono raddoppiati: «Al raccolto dello scorso anno, il grano costava 200 euro a tonnellata. Ora siamo arrivati 400. La verità è che nessuno poteva prevedere una situazione del genere».

Superpotenza agroalimentare. Il grano è un’insospettabile arma di riserva per la Russia. Alessandro Cappelli su Linkiesta il 2 Marzo 2022.

Mosca e Kiev insieme producono quasi un quarto del frumento mondiale e le tensioni nella regione minacciano di rallentare gli approvvigionamenti, facendo volare i prezzi. Il Cremlino può riequilibrare le perdite economiche (grazie alla Cina), a spese dei Paesi importatori. 

L’invasione russa sta avendo conseguenze di ogni tipo, in ogni settore, ora dopo ora. Si sta parlando molto dell’aumento sui mercati del prezzo del grano e dei prodotti derivati, come pane e pasta.

Negli ultimi giorni il prezzo delle materie prime agricole ha subito forti fluttuazioni, come prevedibile: le tensioni tra in Europa orientale minacciano di frenare le spedizioni di grano, mais e olio vegetale in tutto il mondo. A questo si aggiunge l’aumento del costo di carburanti e fertilizzanti, che a loro volta rientrano nelle spese dell’industria agroalimentare e gravano sui prezzi.

Per la Russia tutto questo si sta traducendo in un vantaggio economico. Anzi, forse è l’unica vittoria che emerge da questa prima settimana – o quasi – di conflitto. Il gigante eurasiatico è di gran lunga il più grande esportatore mondiale di grano, ha venduto 35 milioni di tonnellate di grano in tutto il mondo nel 2021.

Discorso simile anche per l’Ucraina, che a sua volta è una delle potenze mondiali in crescita nel settore: i dati dell’International Grain Council rivelano che le esportazioni ucraine di grano, orzo e mais sono quasi triplicate dal 2012. E l’anno scorso, per la prima volta, l’Ucraina ha superato gli Stati Uniti nelle esportazioni di grano, diventando così il terzo fornitore di grano a livello mondiale, dopo Russia e Australia.

Insomma, insieme Mosca e Kiev producono quasi un quarto del grano mondiale. «La produzione agricola, tradizionalmente un settore in cui la Russia non è mai stata fortissima a causa della scarsa qualità dei suoi terreni gelidi e inclini alla siccità, è cresciuta negli ultimi dieci anni», si legge in un articolo pubblicato su Bloomberg.

L’autore dell’articolo, David Fickling, ripercorre l’ultimo secolo di storia della Russia – e insieme dell’Unione Sovietica – per individuare il momento in cui il grano è diventato un elemento centrale nell’economia di Mosca.

«La Russia zarista – si legge nell’articolo – era il più grande esportatore mondiale di grano. Ma l’Urss ebbe grosse difficoltà. Il crollo della produzione durante la Prima Guerra Mondiale, quando più di 10 milioni di contadini vennero trasformati da produttori di cibo in consumatori, portò ad anni di rivolte per il cibo culminate nelle rivoluzioni del 1917. La collettivizzazione e la brutale carestia che uccise circa 4 milioni di ucraini negli anni ’30 portarono la produzione agricola a ristagnare, al punto che, negli anni ’70, l’Unione Sovietica importava una quantità di grano senza precedenti».

Solo negli ultimi anni lo schema si è ribaltato, di nuovo. Dall’invasione della Crimea nel 2014, la Russia è passata dallo status di importatore su larga scala a esportatore intercontinentale. Le spedizioni di grano hanno superato quelle dell’Unione Europea, degli Stati Uniti e del Canada nel 2017, per riportare il Paese al suo status dell’epoca zarista.

Oggi l’influenza della Russia nell’industria del cibo è destinata ad aumentare piuttosto che a diminuire, e sarà così ancora a lungo.

Fa tutto parte dei progetti del Cremlino: negli ultimi anni le importazioni di carne sono quasi del tutto esaurite, assottigliando la quota di deficit commerciale. E anche i prodotti lattiero-caseari – un’area in cui la Russia è ancora in deficit commerciale – sono meno problematici di quanto possa sembrare.

In più, sono aumentate anche le vendite di frutti di mare, grazie al riscaldamento delle acque nel Pacifico settentrionale: questo fattore permette di esportare in mercati sempre più ricchi, come quello della Corea del Sud e della Cina.

Ridurre la dipendenza dalle importazioni era un obiettivo di lungo periodo di Vladimir Putin, un traguardo previsto dalla Dottrina sulla sicurezza alimentare del Paese del 2010 – e poi ripresentato nel 2020.

Negli ultimi anni anche il cambiamento climatico ha giocato un ruolo determinante. L’ultimo rapporto pubblicato lunedì dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, infatti, dipinge un mondo in cui le specie vegetali e animali stanno già fuggendo da latitudini tropicali sempre più torride e turbolente, e si stanno spostando più a nord.

Anche se il riscaldamento globale si dovesse mantenere al di sotto di 1,6 gradi Celsius entro il 2100, l’8% dei terreni agricoli odierni non sarà adatto all’agricoltura entro la fine del secolo. E anche la vita oceanica sta migrando verso i poli, a una velocità di 59 chilometri al decennio, portando una quota sempre più ricca del mercato del Pacifico nelle acque russe.

La Russia, quindi, si trova in una posizione – geografica, ma anche politica – di vantaggio, che le permetterà di sfruttare a suo favore il caos portato dall’emergenza climatica.

«Questa è una ricompensa perversa per un Paese che ha contribuito ampiamente al riscaldamento climatico con il suo export mondiale di combustibili fossili», sottolinea Bloomberg.

Le conseguenze della crisi ucraina sul mercato alimentare si rifletteranno anche sulle nazioni importatrici di grano, come quelle della fascia mediorientale.

In Egitto, il pane è un elemento centrale nella dieta dei cittadini: sulle tavole degli egiziani se ne consumano enormi quantità, il doppio della media mondiale. Soprattutto in quelle forme piccole e rotonde chiamate aish, che è anche sinonimo di vita.

L’Egitto infatti è il più grande importatore al mondo di grano. Ma fa compere soprattutto in Russia e Ucraina, per l’85% delle sue importazioni.

Non a caso alla fine della scorsa settimana il primo ministro egiziano Mostafa Madbouly ha convocato una sessione speciale del suo gabinetto per fare il punto su come l’invasione russa dell’Ucraina potrebbe interrompere le forniture di farina e far salire i prezzi nel Paese più popoloso del mondo arabo (102,2 milioni di abitanti).

Il governo egiziano spende miliardi di dollari ogni anno per sovvenzionare le spese sul pane: qualsiasi shock ai prezzi globali del grano potrebbe essere un duro colpo non solo per lo stomaco degli egiziani, ma anche per il bilancio nazionale del Paese.

Ma l’Egitto non è un caso isolato. L’anno scorso il Medio Oriente ha importato più di 36 milioni di tonnellate di grano, secondo un’analisi del Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. E la maggior parte proveniva, ancora una volta, da Russia e Ucraina.

Dal Cairo a Teheran, il timore è che la guerra portata dalla Russia in Ucraina possa far salire notevolmente i prezzi del grano, portando con sé proteste popolari contro i governi in carica. Anche perché nella maggior parte dei casi si tratta di economie già gravate dalla pandemia, dalla siccità e da altri conflitti.

L’anno scorso l’Iraq ha vissuto una stagione di grandi proteste di piazza legate – anche – all’aumento dei costi del cibo. In Marocco, dove la peggiore siccità degli ultimi tre decenni ha spinto al rialzo i prezzi dei generi alimentari, la crisi ucraina ha fatto aumentare l’inflazione, provocando nuove proteste. La Tunisia aveva grosse difficoltà a pagare le sue importazioni di grano già prima dell’invasione dell’Ucraina, adesso si prospetta uno scenario tetro anche per il piccolo Paese mediterraneo.

Inoltre, i mercati delle materie prime agricole sono globali, e allora qualsiasi riduzione dell’offerta di grano potrebbe far aumentare la domanda e i prezzi del grano coltivato in altre parti del mondo, tra cui Australia, Argentina e nel Midwest americano.

Al momento, il più grande alleato della Russia – anche sul grano – potrebbe essere la Cina. Pechino importa enormi quantità di mais, orzo e sorgo per l’alimentazione animale dai mercati mondiali. Potrebbe scegliere di acquistare quei prodotti dalla Russia invece che da altri Paesi, ad esempio.

Ma non solo. Giovedì scorso la Cina ha approvato quelle importazioni di grano russo che erano bloccate da tempo a causa di preoccupazioni riguardanti funghi e altri potenziali agenti contaminanti. Preoccupazioni che però sono state facilmente accantonate per spalleggiare l’alleato in un momento così delicato.

Sandra Riccio per "la Stampa" il 13 gennaio 2022. 

Balzo in avanti del prezzo del grano che fa rincarare pasta, pane, farina ma anche tanti altri prodotti lavorati. Questo significa che i prezzi di molti alimenti che mettiamo ogni giorno sulle nostre tavole potrebbero presto salire alle stelle. Il rischio è di un 2022 più salato, con la paura che gli aumenti possano diventare strutturali e pesare profondamente sul budget delle famiglie. Gli effetti già si vedono. Un chilo di pasta, che a settembre la grande distribuzione comprava a 1,10 euro, ora ne costa 1,40. E per la fine di gennaio arriverà a 1,52 euro. 

Un aumento del 38%. È la situazione descritta da Vincenzo Divella, amministratore delegato dell'omonimo pastificio, che non esclude altri aumenti. Dopo anni di stallo, il mercato del grano duro sta vivendo una fiammata con i valori cresciuti del 70% da giugno a oggi. L'andamento è da ricondurre al forte sprint delle quotazioni dell'energia sui mercati globali. 

Gli effetti non si sono fatti attendere. In Italia i costi delle semine sono praticamente raddoppiati sull'onda della salita del 50% del prezzo del gasolio necessario alle lavorazioni dei terreni. Non c'è solo questo aspetto. Ad aumentare sono anche i costi dei mezzi agricoli, dei fitosanitari e dei fertilizzanti che arrivano anche a triplicare. L'allarme arriva da Coldiretti che evidenzia che gli effetti del balzo dei costi energetici colpisce l'intera filiera: dai campi, all'industria, fino ad arrivare agli scaffali di pasta e pane. 

«Nonostante questo, il grano duro italiano è pagato agli agricoltori nazionali meno di quello proveniente dall'estero che pesa per il 40% sulla produzione di pasta - dice Coldiretti -. La produzione importata in Italia, soprattutto dal Canada, è ottenuta peraltro con l'uso del diserbante chimico Glifosato in preraccolta, vietato in Italia. Un'anomalia che ha spinto il record degli acquisti di pasta con grano 100% italiano reso riconoscibile dall'obbligo di etichettatura di origine». 

Il fenomeno non riguarda soltanto il nostro Paese ma è un andamento globale. Sul trend pesando diversi fattori. Oltre ai rincari dell'energia c'è anche l'aspetto degli aumenti dei consumi, in particolare in un Paese vasto come la Cina. La maggior domanda ha influenzato le quotazioni soprattutto nella fase di ripresa dei consumi. 

Anche i cambiamenti climatici finiscono sul conto con i raccolti in due dei maggiori Paesi esportatori, Canada e Russia, che l'anno scorso sono stati penalizzati a causa della siccità. Che fare? «Per fermare le speculazioni a livello internazionale e garantire la disponibilità del grano - continua la Coldiretti - occorre lavorare per accordi di filiera tra imprese agricole e industriali con precisi obiettivi qualitativi e quantitativi e prezzi equi che non scendano mai sotto i costi di produzione, come prevede la nuova legge di contrasto alle pratiche sleali». 

Intanto gli italiani hanno già iniziato a tagliare la spesa per il cibo, con le vendite dei beni alimentari che secondo gli ultimi dati dell'Istat hanno visto un calo a novembre (-0,9% in valore e -1,2% in volume).

La Pasta. Daniela Natali per “Salute - Corriere della Sera” il 20 marzo 2022.  

In Italia quando si parla di pasta si pensa subito a quella di grano duro, si sono però diffuse negli anni altre tipologie di origine orientale, ma anche nostrane (come le tagliatelle di grano saraceno) e i derivati nati dal «recupero» di prodotti agricoli ormai quasi dimenticati (come il farro) o, ancora, dovuti al raffinarsi delle tecniche produzione.

L'auspicio di molti è che queste paste «alternative» siano meno caloriche di quella tradizionale, dimenticando, però, che non sono maccheroni e spaghetti a far ingrassare, ma soprattutto il loro condimento, come puntualizza Marina Carcea, dirigente tecnologo del Centro di ricerca Crea Alimenti e Nutrizione: «Il valore di questi prodotti non sta nel loro basso contenuto calorico: le differenze con gli spaghetti tradizionali, infatti, non sono poi molte, ma nel fatto che ci permettono di variare la dieta. Alcuni sono più ricchi di proteine, altri di fibre e di elementi minerali e vitamine. Altri, essendo privi di glutine, non creano problemi a chi soffre di celiachia, altri infine hanno un basso indice glicemico e possono essere più adatti ai diabetici (ricordando che anche la pasta di grano duro ha un indice glicemico piuttosto contenuto)». 

Passiamo in rassegna, insieme a Marina Carcea, le caratteristiche dei diversi tipi di pasta che si trovano in commercio. 

ALLA SOIA

Deriva da un legume, la soia, ricca di proteine e più povera di carboidrati, con un buon contenuto di vitamine, fibre vegetali e sali minerali, soprattutto calcio, ferro e magnesio. Condita con verdure saltate con poco olio è adatta a regimi alimentari a basso contenuto calorico e, naturalmente, ai celiaci dato che non è presente il glutine. 

AL RISO

Dal punto di vista nutrizionale, non equivale esattamente al riso che usiamo per il risotto perché per fare gli spaghetti si passa attraverso una fase di macinazione e impastamento e questo comporta una biodisponibilità diversa delle sostanze nutritive e una diversa digeribilità. La pasta di riso è naturalmente priva di glutine, pertanto consigliata a chi soffre di celiachia. Altamente digeribile è particolarmente indicata anche a chi ha problemi di gonfiore addominale; nella sua versione non integrale, ha un contenuto calorico leggermente inferiore alla pasta di grano duro, ma un indice glicemico più alto.

CON FARRO

Il farro è un cereale ricco di proteine, fibre e vitamine del gruppo B. Tutte le tipologie di farro contengono le proteine del glutine e dunque la pasta non può essere consumata dai celiaci. Ha però un basso indice glicemico perché si utilizza uno sfarinato integrale. Poiché il farro è un cereale molto rustico e resistente, non servono composti fitochimici per la sua coltivazione e questo rende il farro, e la pasta che se ne ricava, particolarmente gradita agli amanti dei prodotti bio.

A BASE DI KONJAK

Conosciuta anche come pasta shirataki in Italia e come «shirataki noodles» all'estero, si ricava dalla radice (o meglio dal bulbo, la parte sotterranea della pianta) di una pianta asiatica chiamata konjak. Si presenta sotto forma di sottili spaghetti, è priva di glutine, ricca di fibre e poco calorica. 

RICAVATA DAL MAIS

Si ricava dalla farina di mais ed è priva di glutine. Oltre al classico mais giallo, ne esiste una varietà bianca, coltivata in Veneto. Entrambe sono utilizzate per preparare la polenta, ma è un prodotto adatto anche alla produzione di pasta (da solo o in miscela con altri cereali). Ha un basso contenuto proteico ed è ricca di carboidrati.

ALLA QUINOA

Si ottiene dalla macinazione e lavorazione della quinoa, uno pseudocereale, ed è priva di glutine. Si ricava dalla parte della pianta destinata a germinare che, come tutti i semi, è ricca di sostanze nutritive: è un'ottima fonte di proteine vegetali, fibre, vitamine e contiene fosforo, potassio, ferro. 

GRANO SARACENO

 È una buona fonte proteica. Il grano saraceno è anche ricco di sali minerali, in particolare potassio, calcio e fosforo, di vitamine e acidi grassi polinsaturi. Si usa per i celebri pizzoccheri, ma anche per altre tipologie di pasta spesso in miscela con altri cereali. 

AI LEGUMI

Tecnicamente non è stato facile ottenerla, perché la pasta di sola farina di legumi tendeva a sfaldarsi in cottura, ma valeva la pena provarci dato l'alto valore nutritivo dei legumi, ricchi di proteine. Per ora la più riuscita è a base di lenticchie, che ha i pregi dei legumi (proteine, fibre, minerali) ma esistono anche paste di ceci, piselli e «multilegumi». Può contenere un po' di farina di grano duro che facilita l'impastamento: quindi i celiaci devono leggere le etichette.

·        Il Mais.

Mais100%: gli scarti per un sistema circolare dell’agricoltura. Redazione L'Identità il 2 Dicembre 2022

Gli scarti agricoli per un sistema circolare della produzione. Il settore alla scoperta di nuovi sistemi in grado di valorizzare la coltura del mais e di fronteggiare efficacemente la crisi del settore per restituire così competitività e sostenibilità a tutta la filiera. Oggi, nel corso dell’appuntamento "I residui di coltivazione del mais da granella: le opportunità di valorizzazione" che si è tenuto all’interno delle Fiere zootecniche di Cremona, sono stati presentati i risultati finali del progetto di ricerca Mais100%, Gruppo Operativo finanziato dalla Regione Lombardia in collaborazione con il CIB – Consorzio Italiano Biogas, Fondazione CRPA Studi e Ricerche di Reggio Emilia, e quattro aziende cerealicolo-zootecniche-energetiche della Pianura Padana.

Il progetto, giunto alla sua conclusione, è nato con l’obiettivo di studiare le diverse soluzioni messe a punto (e già poste sul mercato) per il recupero dei residui del mais, garantendo un elevato standard qualitativo, definendo un sistema di "produzione circolare della granella di mais", comprendente anche il recupero e la successiva valorizzare dei residui colturali.

I risultati dei tre anni di progetto, presentati oggi dal professor Narco Fiala, DiSAA – Università Statale di Milano e responsabile scientifico Mais100%, dimostrano che dalla raccolta dei residui si possano recuperare mediamente dalle 5 alle 7 t/ha di sostanza secca a costi molto interessanti e con un potenziale metanigeno medio di 90-95 normal m3 CH4/t (simile all’insilato di triticale).

Sulla quantità e qualità del residuo, hanno inciso diversi fattori tra cui il tipo di macchine impiegate nella raccolta e relativa affidabilità. Sul costo complessivo di recupero può incidere, anche in maniera molto significativa, la fase di conferimento in trincea.

"I risultati ottenuti dal progetto dimostrano come la raccolta dei residui del mais da granella non solo è fattibile ma è un approccio concreto per la valorizzazione di tutta la filiera", ha spiegato Guido Bezzi del CIB – Consorzio Italiano Biogas a Fiere Zootecniche di Cremona.

La produzione di mais può trovare quindi un’ulteriore valorizzazione per il settore zootecnico lombardo nel momento in cui i residui della produzione di granella vengano utilizzati come foraggio per animali da rimonta o lettiera. Inoltre, un’eccellente opportunità per gli agricoltori è rappresentata dalla possibilità di produzione di biometano attraverso gli scarti.

All’incontro hanno partecipato anche Cesare Soldi, Associazione Maiscoltori Italiani, che ha evidenziato le opportunità e le difficoltà del piano nazionale di rilancio della filiera e Mariangela Soldano, CRPA – Reggio Emilia, che ha presentato i risultati delle analisi sulla qualità dei residui recuperati ai fini nutrizionali ed energetici.

Il convegno si è chiuso con il confronto moderato da Lorella Rossi del CIB tra gli agricoltori e le aziende agricole partner del progetto: Società agricola Agricascinazza, Società agricola La Castellana, Società Agricola Palazzetto, Società cooperativa agricola Pieve Ecoenergia che hanno condiviso l’esperienza delle prove in campo e le proprie impressioni sulle innovazioni introdotte.

·        La Polenta.

Sapore antico. Guida completa all’universo della polenta. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 27 Gennaio 2022.

Fumante e morbida, è perfetta per confortarci e scaldarci in una fredda sera d’inverno: regina delle mense più umili e povere, oggi diventa piatto delle feste, protagonista di cene in famiglia e pranzi con gli amici. Prepararla bene non è un fatto di sola tecnica: bisogna conoscerla e amarla, perché richiede un po’ di pazienza ma anche un pizzico di intuito. 

«La mole della polenta era in ragion dell’annata, e non del numero e della buona voglia de’ commensali: e ognun d’essi, fissando, con uno sguardo bieco d’amor rabbioso, la vivanda comune, pareva pensare alla porzione d’appetito che le doveva sopravvivere. Mentre Renzo barattava i saluti con la famiglia, Tonio scodellò la polenta sulla tafferìa di faggio, che stava apparecchiata a riceverla: e parve una piccola luna, in un gran cerchio di vapori».

Alessandro Manzoni, “I promessi sposi”, capitolo VI

Un monte dorato, caldo e fragrante: la polenta veniva versata direttamente dal paiolo nel mezzo della tavola; al centro, un piccolo cratere veniva riempito di sugo, arricchito con qualche pezzo di carne o di salsiccia. La famiglia si riuniva intorno a questa meraviglia, armata di cucchiai e di una grande fame. La fame, l’”amor rabbioso” di cui parla Manzoni spingeva a gara i commensali, ma la regola vietava di buttarsi a capofitto sul saporito cuore di sugo. Bisognava arrivarci attraversando la distesa bollente, consumando bocconi di polenta scondita per aprire un varco verso il centro e conquistare qualche pezzo di carne. È stata un’immagine frequente per secoli nelle regioni del Nord, dove la polenta è stata a lungo alimento fondamentale nella dieta quotidiana: i “polentoni”, tuttavia, hanno imparato a insaporire l’umile preparazione e a renderla gustosa con quello che c’era a disposizione, ricchi intingoli nei periodi di vacche grasse, un pezzetto di burro e uno spicchio di aglio quando i tempi erano più difficili. Carni, insaccati e verdure, formaggi, panna: persino il latte era ed è compagno della polenta.

Le regole per preparare una buona polenta

La preparazione è semplicissima. Mediamente si calcolano 250 grammi di farina di granturco per litro d’acqua, che possono aumentare o diminuire leggermente a seconda che si voglia una preparazione più densa o più cremosa. Versate l’acqua in un paiolo o in una capace pentola a bordi alti, portatela sul fuoco e salatela al bollore. Generalmente si calcola un cucchiaino di sale per litro di acqua, un po’ meno se la polenta accompagnerà preparazioni molto sapide. Quando l’acqua sta per bollire, versate la farina a pioggia sbattendo energicamente con la frusta per evitare la formazione di grumi. Acqua e farina si amalgameranno in modo uniforme e al bollore la polenta inizierà a rapprendersi. Mescolate allora con il cucchiaio di legno e proseguite la cottura per 40-50 minuti, mescolando ogni tanto: più la grana della farina è grossa, maggiore sarà il tempo necessario a cuocere. Il procedimento è talmente semplice, essenziale, elegante, da essersi meritato un posto in letteratura. Così raccontano la ricetta in poesia i bellissimi versi del Pascoli (Il desinare, da “Primi Poemetti”), che ripercorrono passo passo la preparazione:

Ubbidì Rosa al solito comando.

Sotto il paiolo aggiunse legna, il sale

gettò nell’acqua che fremè ronzando.

Stacciò: lo staccio, come avesse l’ale,

frullò tra le sue mani; e la farina

gialla com’oro nevicava uguale.

Ne sparse un po’ nell’acqua, ove una fina

tela si stese. Il bollor ruppe fioco.

Ella ne sparse un’altra brancatina.

E poi spentala tutta a poco a poco,

mestò. Senza bisogno di garzone,

inginocchiata nel chiaror del fuoco,

mestò, rumò, poi schiaffeggiò il pastone,

fin che fu cotto; e lo staccò bel bello,

l’ammucchiò nel paiolo, col cannone

di pioppo; e lo sbacchiò sopra il tarvello.

In casa Pascoli come nel resto d’Italia, la polenta si cuoceva un tempo sul camino, oggi si cuoce sui fornelli a gas o sul piano a induzione, ma ancora si può acquistare il paiolo di rame. Oltre al paiolo, per preparare la polenta serve il bastone per mescolare. Un tempo era lungo, sottile, tondo, oggi si usa di preferenza la spatola di legno: tuttavia è anche possibile scegliere un paiolo elettrico con una pala che rigira continuamente la polenta, evitando che attacchi. Importantissimo: a mano o a motore, la polenta va mescolata sempre nello stesso verso. È inoltre possibile ricorrere alla pentola a pressione, dimezzando così i tempi di cottura.

Servire e condire: le varianti regionali

La polenta è cotta quando si stacca dalle pareti della pentola: è il momento di versarla sulla tafferia, il classico tagliere rotondo: la si potrà prelevare con un cucchiaio, ma se avete preparato una polenta soda, da servire a fette, per tagliarla usate coltelli di legno, oppure un filo di cotone da cucito, ben resistente, che tenderete stringendolo tra le dita per farlo passare nella polenta. A questo punto potete servire la polenta: semplicemente condita con burro e formaggio, come accompagnamento di piatti di carne o di pesce in umido, insaporita con un ragù o con un sugo di funghi, con una fonduta di formaggio o con quello che vi suggerisce la fantasia.  Ancora, la potete friggere a fette, o usare per realizzare gnocchi.

Tantissime sono le preparazioni di cucina regionale, radicate non solo nel Nord, che tracciano una particolarissima geografia d’Italia. In Veneto si preparano sia la polenta di mais giallo, che si sposa con qualsiasi altra vivanda, sia quella di mais bianco, perfetta in abbinamento con il pesce: un classico il binomio con il baccalà; tipici di Belluno sono gli gnoch de polenta, da condire con burro e salvia. Nel Friuli-Venezia Giulia si prepara la polenta pasticciata, con varie carni (maiale, piccione, castrato), accompagnata con il tipico frico, il formaggio di malga cotto. In Trentino-Alto Adige la polenta carbonera si prepara con tre tipi di formaggi, salame, cipolla, sale, pepe e burro. In Lombardia la polenta si serve con l’ossobuco, con il brasato, con la cassoeula,  si fa vuncia, con burro e formaggio, si serve grigliata con i missoltini, gli agoni del lago di Como, oppure con latte e un cucchiaio di zucchero. In Piemonte la polenta si accompagna con il classico brasato al Barolo, mentre in Valle d’Aosta si abbina alla ricotta, ai funghi o alla selvaggina. E se in Emilia-Romagna la polenta accompagna le anguille di Comacchio o la picula di cavallo piacentina, nelle Marche si sposa con salsicce e costine di maiale. Il “polentone” grigliato abruzzese si condisce con olio, aglio e peperoncino, mentre in Calabria si fa la polenta con i curcuci, sorta di ciccioli di maiale, e con i broccoli. Ancora, a Napoli la polenta si frigge per ottenere i gustosissimi scagliozzi, così come in Puglia, in Sardegna la si abbina con il pecorino, mentre in Basilicata con la farina di mais si prepara la frascatula, arricchita con lo strutto.

Granturco ma non solo

Base per la preparazione della polenta è la farina di mais. Ma quale? Ne esistono infatti diverse tipologie, che si distinguono in base alla grana di macinazione del mais: la farina bramata è quella macinata in modo più grossolano, adatta per polente rustiche e sode; poi si hanno la farina a macinatura media, per preparare polente più morbide, e quella a macinatura fine, il “fioretto”, ideale per una polenta morbidissima e delicata. Un cenno a parte merita la farina di mais bianco, dalla consistenza sottile e dal gusto elegante. Ovviamente la polenta gialla di granoturco, il formentone dei nostri nonni, è sicuramente la più conosciuta e diffusa, ma si possono fare ottime polente anche con altri ingredienti. Primo fra tutti il grano saraceno, base della polenta taragna valtellinese, così chiamata dal “tarello”, il bastone di legno usato per mescolare l’impasto. Per prepararla si usa un mix di farina di grano saraceno e farina di mais da cuocere a lungo in acqua salata, talvolta mista a latte. La polenta, scura e saporita, viene condita con burro fresco e formaggio Bitto a fette. Ancora, si possono preparare polente con la farina di Castagne, tipica ad esempio dell’Appennino Tosco Emiliano, o con quella di farro, ma anche con i legumi, su tutti le fave.

·        Il Pomodoro.

Brindisi, la salsa di pomodoro e il tempo che si ferma nella «notte delle bottiglie». Oggi è diventato un prodotto di lusso, proprio per la sua lunga preparazione che richiede impegno e passione. Roberto Romeo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Agosto 2022

Il rito della salsa. La pratica antica della trasformazione del pomodoro, quella artigianale che segnava un’intera giornata di agosto nelle famiglie del Sud Italia. «La prossima settimana facciamo la salsa», mia nonna Dolores annunciava l’arrivo del rito in campagna, segno che aveva avuto rassicurazioni su una “partita” di pomodori buoni. «I Perini sono più dolci, i San Marzano più carichi d’acqua, buoni per i pomodori pelati», così diceva con il suo piglio dettato dall’esperienza. Era lei la indiscussa maître à penser di quella giornata, un ruolo che era naturale riconoscerle. Come da copione, il commento generale era: «Mai dopo Ferragosto, se si guasta il tempo comincia a piovere e i pomodori si spaccano, si “abboffano” di acqua, si inacidiscono». Trascorrevo il periodo estivo in una campagna alle porte di San Vito dei Normanni, in contrada Mascava, e nell’incedere delle stagioni arrivava quel giorno che coinvolgeva tutta la famiglia, dai nonni ai nipoti, vicinato compreso, ciascuno con un ruolo preciso nel segno dell’organizzazione scientifica del lavoro, come un’orchestra spontanea e perfetta. Un momento di aggregazione per l’intera famiglia, si direbbe oggi. Era un giorno di lavoro che cominciava alle prime luci dell’alba e continuava lungo le calde ore meridiane al frinire inesausto delle cicale, per concludersi all’imbrunire. E in realtà anche oltre. Una comunità familiare indaffarata, proiettata verso una puntuale scansione del lavoro, fasi successive e designate con tempi assegnati, frutto di una pratica consolidata nel tempo. La sveglia suonava prestissimo, qualche ora in più di sonno era concessa a noi bambini, per i quali quel giorno aveva il sapore della festa. La famiglia si trasformava in una unità produttiva intesa a un obiettivo comune: fare la provvista di passata di pomodoro per l’inverno. Come tante formiche solerti e laboriose al lavoro in vista della stagione fredda. I pomodori dovevano essere di prima scelta, selezionati in modo da eliminare eventuali esemplari ammaccati. Erano lavati con cura e “spuragnati” - cioè schiacciati per la rimozione dei semi - e infine messi a cottura in grandi “cazzarole”; quindi, erano raccolti con un grosso mestolo perforato e collocati in una vasca, anch’essa forata, grazie alla quale perdevano l’ulteriore acqua residua. La colatura anticipava l’estrazione della polpa e la separazione della buccia grazie all’utilizzo di una macchinetta a manovella, nella quale i pomodori erano spremuti anche due volte. Mio fratello Lello, ingegnere dalla nascita, avrebbe nel tempo collegato il sistema manuale antidiluviano al trapano, velocizzando la “filiera” e soprattutto risparmiando alla base operaia, noi bambini, la fatica poco invidiabile della manovella. La salsa era poi raccolta in una grande vasca di plastica di colore celeste e successivamente versata a forza di mestolo e imbuto nelle bottiglie, il più delle volte di birra, riciclate e lavate accuratamente, sigillate poi con tappi a corona per farle resistere a quella che era la fase più delicata e rischiosa della preparazione: la cottura a bagnomaria. Le bottiglie erano collocate in un fustone portato a temperatura di ebollizione. Erano disposte in modo da non creare spazi tra di esse, incastrate in più strati sovrapposti e avvolte di stracci - spesso vecchie calze - per evitarne la rottura durante la bollitura. Era mia madre la depositaria di questa abilità, spettava a lei il compito di collocare le bottiglie nel pentolone prima di farle bollire per circa due ore. Così la salsa si sterilizzava e si creava il sottovuoto. Mio padre curava invece l’andamento del fuoco, alimentato da legna d’ulivo e di mandorlo. Alla fine dell’operazione, spento il fuoco, le bottiglie erano lasciate sempre all’interno della grande pentola fino al loro completo raffreddamento. Era la “notte delle bottiglie”, una notte di ansia e di apprensione. Scampato il pericolo che qualche bottiglia esplodesse vanificando parte del lavoro e colorando di rosso tutta l’acqua durante la bollitura, occorreva attendere che le stesse passassero indenni, tutte o in gran parte, l’intera nottata: non era escluso, infatti, che alcune potessero esplodere anche durante la fase di raffreddamento notturno.

Oggi è diventato un prodotto di lusso, proprio per la sua lunga preparazione che richiede impegno e passione. In passato era una sorta di rito che andava in scena nel mese di agosto. Nelle case di una volta c’erano gli stipi a muro che diventavano forzieri di bontà pieni di conserve e di tante, tantissime bottiglie di salsa che servivano per preparare le pietanze per l’inverno e, soprattutto, il ragù domenicale. In passato, nelle case era prodotta anche la conserva di pomodoro, che si otteneva stendendo la salsa su grandi tavolieri in legno per farla essiccare al sole, concentrandola ulteriormente fino a privarla di acqua. Alla salsa si aggiungeva spesso un cucchiaio di conserva che insaporiva in modo mirabile il sugo domenicale. Una volta, il sugo per l’inverno, era solo quello delle “bottiglie” di salsa fatta in casa. Ma in estate il must era il sugo fresco con i pomodori raccolti dalla pianta e anche quello era una delizia, con l’inevitabile capolino del basilico.

Preparare la salsa di pomodoro in casa è una tradizione che, specie in campagna, resiste ancora alla modernità, molte famiglie si riuniscono ancora attorno alla bollitura delle bottiglie ricolme di oro rosso. Nei decenni passati le famiglie avevano un appuntamento fisso con il pomodoro che, a seconda dei soggetti coinvolti, era atteso come giorno di festa o, al contrario, come incombenza gravosa durante le ferie di agosto. Della mia infanzia rimane il ricordo di queste giornate di condivisione, che la famiglia viveva anche come occasioni di racconto. L’adagio del pranzo era un dettaglio, spesso non si andava oltre un piatto - manco a dirlo - di spaghetti al pomodoro col basilico fresco o una frisa preparata di tutto punto col condimento pronto. Molte famiglie hanno perso la pratica del rito, che univa l’utile delle scorte al dilettevole della comunità familiare, il senso dei rapporti che la tradizione alimentava attraverso l’accolta alle più attese occasioni abituali. Ma la salsa della nonna sopravvive ancora al tempo e ai pregiudizi nell’ottica di recuperare quei sapori che conciliano la verità della passata fatta in casa con la potenza e la grammatica degli affetti, con buona pace delle conserve industriali già pronte sugli scaffali del supermercato. E come ogni anno, mentre il sole incendiava il tramonto, il fuoco finiva di ardere sotto il pentolone delle meraviglie, l’acqua si placava e iniziava la lunga “notte delle bottiglie”. Poi, l’oro del mattino portava con sé il prodigio inaspettato per le credenze e per i cuori.

·        Il Lampone.

Il «Muscari comosu» ovvero il lampascione. Michele Mirabella su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Agosto 2022

Il bulbo di tale pianta, ricco di sali minerali e che cresce a 12-20 cm nel sottosuolo, è simile a una piccola cipolla

«Il Muscari comosu è una pianta erbacea della famiglia delle Liliaceae (o Hyacinthaceae, secondo la classificazione), diffusa nelle regioni mediterranee. I fiori della sua pianta sbocciano in primavera e sono persistenti fino all’estate. Il bulbo globuloso di tale pianta, ricco di sali minerali e che cresce a 12-20 cm circa nel sottosuolo, è simile a una piccola cipolla di sapore amarognolo ed è consumato specialmente nell’Italia meridionale; particolarmente in Basilicata e Puglia». Così recita la divulgazione destinata ai forestieri. Il suo nome popolare, appunto in Puglia e Basilicata è «Il lampascione o lampagione».

Non mi riesce di ricordare l’etimologia del nome dialettale o italiano, vai a capire. Tant’è che non conosciamo altra designazione per questo burbero frutto della terra nostra. Il sistema di scrittura del mio computer, infatti, sottolinea la parola col rosso che designa i nomi sconosciuti o gli errori. Aggiungo che trovo che i fiori siano bellissimi nella loro selvaggia sobrietà. Come coniugare questi delicati petali con l’indole, diciamo così, bellicosa del lampascione, in fase di digestione, resta un problema. Perché questa indole causa un fenomeno caratteristico al fisico che è ben noto ai duri di intestino che i duri di cuore usano con rude cinismo per beffarde allusioni conviviali. L’efficacia lassativa pare documentata da una vasta e sciolta aneddotica di cui si pascono i commensali per l’apologia della liliacea nostrana quando tentano di convincere i forestieri a provare l’amarognolo ineffabile di quella che, ai più, sembra una comune cipolla. Nelle allocuzioni apologetiche capita di sentire spesso l’allusione a stuzzicanti malizie del talamo. La parola liberazione riguarda però più corrive funzioni corporee.

Varie sono, comunque, le virtù nutritive del nostro e, da ultimo, non sono mancate loro autenticazioni altolocate e di tutto rispetto. La gastronomia pugliese si illustra, del resto, per scrollarsi di dosso i luoghi comuni sulla rude sobrietà delle scelte e propone, oggi il lampascione in varianti culinarie interessanti. Ma ciò detto, quello che mi interessa è il nome, la parola. Il lubrico suono del termine di cui, ripeto, ignoro l’etimologia mi affascina. Il nesso “sc“, fu prediletto da Totò che, memorabilmente, domandava, in un surreale teatrino dell’assurdo «E se io le dico poscia, lei che mi dice? La cosa mi scompiscia, poscia». E a nessuno sfugge il ricordo di quel «A prescindere» che fu intercalare giocoso di tante gags.

Lampascione attiene alla nomenclatura buffa in sé e per sé e non chiedetemene la ragione. Dunque, è una di quelle parole che, per il suono, diventa maschera, rafforza il lazzo, aumenta lo sberleffo. È la delizia e la forza del comico ruspante, ma, anche giaculatoria colloquiale utilissima a deridere, sfottere, mortificare l’arroganza, delimitare la spocchia. Dare ad uno del lampascione resta, comunque, bonaria raccomandazione a più misurate astuzie, comportamenti corretti, prudenza mentale. Benché altre contumelie con variabili di sbracamenti linguistici sembrano aver preso il sopravvento con corredo turpe di anglicismi, neologismi, barbarismi di vario conio nella nostra parlata e ben lo sappiamo qui da noi, in Puglia, un certo lessico può essere recuperato e riproposto a maggior gloria della tradizione, oltre che della efficacia narrativa. Propongo un primo esempio per cominciare a compilare un manuale per l’uso.

Lo prelevo dall’agenda dei miei ricordi istruttivi di qualche anno fa: un cittadino dette del «lampascione» al dignitario della politica che aveva abbandonato il macchinone in plateale divieto di sosta e lo dette con convinzione dopo aver registrato la scusante: «L’autista incaricato di cercare un parcheggio, forse, per non inquinare girellando tra gli isolati, ha messo la macchina dove è capitato, pur restando in prossimità della stessa». Come? Ti preoccupi di non inquinare e ti compri il suv per girare per Bari. Andiamo! Doppio lampascione. Triplo lampascione, visto che il padrone del suv era un dignitario della politica, in grado di poter assicurare che sarebbe stato l’autista a pagare la multa. Non se la prenda se cito solo il suo caso, peraltro, oggi, attualissimo: coloro che mirano a farsi eleggere rappresentanti del popolo, hanno, comunque, il problema del parcheggio allargato a tutta la sfera esistenziale, visto che non trovano facilmente pace e cercano spazio per parcheggiare sé stessi, transumando da una fazione all’altra, da una corrente di partito ad una fazione limitrofa: «Quadruplo lampascione». Ma nelle nostre città dove il traffico follemente indisciplinato è una piaga vergognosa complicata dai monopattini, un dignitario candidato politico può dare l’esempio, in cambio, se non del voto, di un buon lampascione. Suggerisco la ricetta del croccante bulbo fritto nell’olio, il nostro, naturalmente.

·        Le Fave.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 15 marzo 2022.  

Le fave, felice totem della gastronomia popolare di primavera (ma non solo!) possono vantare quarti di nobiltà molto antichi. Conosciute già nell'Egitto dei faraoni, nel mondo romano divennero protagoniste di numerose ricette, tutte arricchite da complesse miscele di erbe, spezie e condimenti. 

Marco Gavio Apicio, gastronomo e cuoco del tempo di Tiberio, nel suo monumentale De Re Coquinaria (un vero e proprio manuale di cucina del tempo dei Cesari) ne racconta una gustosa preparazione nella quale le fave vengono lessate, profumate con pepe, coriandolo, cumino, finocchietto e quindi stemperate con vino e garum (la salsa per eccellenza, molto vicina alla nostra colatura di alici). Un piatto che avrebbe fatto orrore a Pitagora che, secondo il filosofo Porfirio, evitava anche di attraversare un campo di fave.

Senza dubbio, le fave erano associate al culto dei morti, forse anche per via della macchia nera che tinge i fiori bianchi e che ricorda la lettera theta dell'alfabeto greco, la stessa di thanatos, la morte. «Questa però è la versione colta», scherza Andrea Pedemonte Cabella, produttore a Sant' Olcese in Liguria di un mitico salame e guru di una aristocratica confraternita dedicata alla sua tutela. 

«Intendo dire che magari Pitagora soffriva di favismo, una alterazione del metabolismo che può generare conseguenze gravissime per coloro che dovessero consumarne. Peccato, perché da noi le fave, il nostro salame - ça va sans dire - la focaccia, e un buon vino bianco, sono la più semplice e gioiosa celebrazione dell'arrivo della primavera».

A Roma le fave sono protagoniste di piatti di gagliarda convocazione di sapore per la loro associazione frequente col guanciale (che, per alcuni puristi, le rende più grevi) come contorno, con le fettuccine, o ancora nella loro apoteosi, la vignarola. «Il piatto non ha una codificazione rigorosa - spiega Marcello Romano, chef dell'Hassler Bistrot a Roma - Fave, piselli, porro, carciofi, lattughino sono una costante: al resto ci pensa la primavera o lo chef: nel mio caso la vignarola la associo a una lasagnetta tartufata». 

Il mondo delle zuppe è ricco di ricette a base di fave. In Catalogna le abbinano con cipolla, pancetta e salsiccia, mentre a Huelva si gustano le habas con chocos, i calamari e, ancora, nel Sud della Francia, l'iconico cassoulet (un umido di carni, legumi e verdure) sembra sia nato con le fave, e non con i fagioli, come oggi è uso più frequente.

Per i vegetariani puri, niente di meglio della bobba di Carloforte, a base di fave secche, basilico, aglio, pomodori, carote e zucchine, della ncapriata di fave e foglie pugliese (quasi una vellutata di sapori intensi) o, ancora, del potente macco siciliano, profumato col finocchietto e realizzato con la fava larga di Leonforte, presidio Slow Food.

Poi, per tornare a sapori antichissimi, un assaggio obbligato va al ful mudammas egiziano, a base di fave secche stufate in un pentolone di rame, aggiustate con aglio pestato, prezzemolo, cipolla, cetriolo, cumino, peperone e uovo sodo. E, sempre dall'Egitto arrivano i falafel, diffusi in tutto il Medio Oriente anche nella versione a basi di ceci, squisite frittelle street food, speziate con un trito di cipolla, aglio, cumino e prezzemolo.

·        I Lupini.

Gemma Gaetani per "la Verità" il 5 marzo 2022.

Conoscerete tutti i proverbi, i modi di dire e i luoghi che rendono conto della grande importanza dei lupini: homo homini lupinus, cioè «l'uomo è un lupino per l'altro uomo», lupinus in fabula («lupino nel discorso») quando si parla di qualcuno e quello arriva, e poi c'è il «lupinanare», il luogo dedicato al culto del dio Lupino dove, nell'antica Roma, si svolgeva la prostituzione sacra in nome suo... 

Naturalmente abbiamo giocato sull'apparente parentela tra le parole «lupino» e «lupo». La prima sembra il diminutivo dell'ultimo, ma non lo è. Seppure l'etnia autoctona italiana del cane da pastore detto luvin dell'Appennino Reggiano ora sia stata denominata cane lupino del Gigante (Gigante è il soprannome del Monte Cusna), si tratta di un uso decisamente gergale sconosciuto fuori dallo specifico settore. 

Lupo e lupino non hanno niente in comune nemmeno come divinità: il lupanare romano era dedicato alla dea Lupa, parola che in senso figurato significava prostituta. Tuttavia, come vedremo, si sta sviluppando un «culto» vegano del lupino, per cui se il «lupinanare» è un fake di nostra invenzione, non escludiamo che possa essere prima o poi ideato oggi che tutto, veganesimo compreso, diventa adesione tra il religioso e il delirante... 

Nel ventennio passato, vegetariani e vegani hanno già trasformato in feticci soia e ceci. Soprattutto questi ultimi sono stati eletti a uova vegane. Con la farina di ceci diluita con acqua, connubio con il quale la cucina tradizionale carnivora prepara la farinata di ceci, il vegano cucinava la «farifrittata» fingendo che il liquido giallo fatto di legumi fossero uova.  

E dell'acquafaba, cioè l'acqua di governo o di cottura dei ceci, dotata di leggero potere montante per la presenza di saponine, il vegano aveva fatto il suo finto albume d'uovo. 

Oggi che vegetarianesimo e veganesimo sono diventati anche mode, contagio sociale e succulenti affari, nel paniere di chi rifiuta la carne finiscono tanti altri prodotti fatti con farina di lupini, più à la page di soia e ceci perché prodotto nuovo nel mercato vegetariano, come «carne» e «salumi» di lupini. 

Hanno trovato un testimonial anche nel giornalista Andrea Scanzi, che qualche anno fa sul suo blog, vantandosi di essere un vegetariano che stava diventando vegano, distribuiva consigli sui surrogati vegani e raccomandava «medaglioni di lupini, salame di lupini, arrosto di lupini. Perfino la maionese di lupini. Davvero buonissimi». Insomma, il lupino è diventato la salsiccia dei vegani e ciò dipende dalla sua composizione. 

Ma il lupino non nasce con i vegani, perciò liberiamolo da questa appropriazione. Bisogna scoprirlo, se non lo si conosce, e riscoprirlo, se già lo si conosce, nella sua realtà di legume in una dieta onnivora perché è molto più di un sostituto per mangiatori che escludono la carne. Il lupino era molto apprezzato dai Romani, che ne diffusero la coltivazione in tutto l'impero. Plinio scrisse che era «usato sia dall'uomo che dagli ungulati. 

È necessario pulirlo dopo la pioggia. In questo caso, i suoi chicchi non cadono e non si perdono durante la raccolta. È una pianta così meravigliosamente gradevole con il terreno. All'inizio, durante il giorno ruota insieme al sole e mostra l'ora al contadino anche sotto un cielo nuvoloso. È l'unica pianta seminata senza aratura. 

 Il lupino ama i luoghi sassosi, asciutti e persino sabbiosi. Non richiede alcuna manutenzione. Campi e vigneti sono migliorati da questa coltura. Non richiede letame, essendo di per sé il miglior fertilizzante. È l'unico impianto che non richiede alcuna spesa o manodopera. È il primo a essere seminato e l'ultimo a essere raccolto, indicativamente a settembre». 

Il lupino, infatti, si semina proprio in questo periodo, soprattutto nel Centro Sud Italia: Lazio, Campania, Calabria e Puglia. Si semina a ottobre e novembre, senza bisogno di grande spazio perché si interra in file distanti una trentina di centimetri per un totale di 20-30 piante a metro quadrato, con una resa di circa 3 tonnellate per ettaro. Il lupino maturerà a giugno e luglio, dopodiché si faranno seccare le piante in campo e poi si procederà a trebbiare. 

Il poeta ottocentesco Enrico Pazzanchi, nel bel sonetto a rima incrociata intitolato Trebbiatura (notare anche il bell'incipit cronologico) scrive: «Meriggio. La macchina trebbia / ansando con rombo profondo. / Il grano, rigagnolo biondo, / giù scorre. Nell'aria è una nebbia / sottile. Sogguarda per l'aia / il nonno, con faccia rubizza». La meraviglia per la trebbiatura del grano espressa da Pazzanchi riguarda anche quella del lupino, color giallo, quasi biondo anch' esso.  

Una volta si trebbiava a mano, oggi a mano separiamo giusto il lupino dalla sua buccia, che - è un dubbio di molti - è edibile, sì, ma sinceramente il lupino è più buono e consigliamo di mangiare solo quello. Anche perché la sua buccia è ricca di cellulosa, poco o zero digeribile. 

Il lupino bianco, il cui nome botanico è Lupinus albus, è una pianta della famiglia delle Fabaceae, che raggiunge fino a 1,5 metri di altezza, è poco ramificata e riunisce i bei fiori in infiorescenze a racemo (grappolo) apicali che sembrano quelle del glicine, anch' esso magnifica fabacea, ma rispetto a quelle sono posizionate al contrario e, dopo la fecondazione, prevalentemente autogama, formano i lunghi legumi.  

Il nostro lupino ha bisogno di terreni ben drenati perché teme il ristagno idrico, quindi i terreni subacidi di origine vulcanica sono i più adatti, ma ribaltando la prospettiva scopriamo che esso fa bene ai terreni. È difatti considerato una coltura miglioratrice per l'alto tasso di azoto, che rilascia lentamente nel terreno. spuntino mondiale. Il lupino non è un'esclusiva italica. 

Risulta molto apprezzato anche in Egitto, dove si chiama termes, si mangia come spuntino e durante il festival nazionale Sham el-Nessim che risale ai tempi dell'antico Egitto. Boguslav Stanislavovich Kurlovich, agronomo scientifico russo-finlandese esperto di lupini e autore del libro monografico Lupini: geografia, classificazione, risorse genetiche e allevamento, spiega che le prime attestazioni archeologiche dei lupini si riferiscono alla XII dinastia dei faraoni egizi, oltre 2000 anni a.C. Nelle loro tombe sono stati scoperti semi di Lupinus digitatus Forssk, allora già addomesticato, e anche diverse valve vuote di lupini: è la più antica testimonianza di lupino nel Mediterraneo. 

Si trovano anche in Spagna, Portogallo, Grecia e tutto il Medio Oriente; in Nord Africa è diffuso il Lupinus angustifolius e in America Latina il Lupinus mutabilis. Dicevamo che il lupino fa bene al terreno. Ma fa bene anche a noi, perciò dovremmo riscoprirlo innanzitutto come snack, per una merenda non dolce e altamente proteica che aiuta a restare in forma o a tornarci se abbiamo qualche chilo in più.  

I lupini detti dolci non perché siano zuccherati, ma perché sono quelli mangiabili, essendo quelli amari talmente ricchi di alcaloidi da risultare tossici, si trovano nel reparto frutta secca e olive dei supermercati; sono conservati in salamoia e sono i meno calorici dell'intera gamma di ospiti di quei ripiani. Non a caso in Portogallo, dove si chiamano tremoços, sono molto diffusi come accompagnamento dell'aperitivo: 100 grammi di lupini presentano soltanto 114 calorie contro le 594 di un etto di arachidi.  

Un etto di lupini contiene 9,88 grammi di carboidrati, di cui 2,8 di fibra alimentare, che aiuta l'intestino in caso di stipsi. Abbiamo poi 2,92 grammi di grassi e soprattutto 15,57 grammi di proteine. Per questa ragione, l'industria vegetarian-vegana li sfrutta molto per i fake di carne, pesce e formaggio. Ma, come detto, il valore del lupino va riconosciuto a prescindere dalla sua utilizzabilità vegana. 

Rispetto ad altri legumi, i lupini - sbucciati - sono facilmente digeribili. In confronto a soia & co. i lupini hanno un contenuto assai più basso di antinutrienti, come le lectine e le saponine che possono irritare stomaco e intestino. Mangiando lupini anziché fagioli, per esempio, ci sentiremo meno gonfi e meno pesanti. Ciò non vuol dire che allora possiamo mangiare un chilo di lupini al giorno, perché un consumo eccessivo, seppure proporzionalmente minore rispetto allo stesso peso di altri legumi, potrebbe avere effetto lassativo.  

Le proteine hanno le stesse calorie dei carboidrati, ma impieghiamo di più a digerirle, perciò i lupini saziano più a lungo rispetto a un pezzo di pane. Molto utili a saziare si rivelano anche le fibre dei lupini, che in questo caso solo solubili (la cellulosa della buccia è invece una fibra insolubile) e hanno anche effetto prebiotico (cioè nutrono i batteri «buoni» del nostro microbiota intestinale, così risultando utili per la normalizzazione delle funzioni intestinali e del sistema immunitario). 

Grazie a queste fibre, i lupini migliorano la tolleranza al glucosio dei diabetici. Il contenuto di grassi buoni, cioè gli acidi grassi polinsaturi omega 3 e omega 6, rende i lupini utili a contrastare il colesterolo cosiddetto cattivo, cioè Ldl, e non soltanto. Questo tipo di grassi ha anche effetto emmenagogo (cioè facilita il flusso mestruale) ed è perciò utile alle donne in caso di sindrome premestruale, durante il ciclo e anche in menopausa.  

Poiché naturalmente privi di glutine, i lupini sono adatti anche ai celiaci. Non sono note interazioni con farmaci, però i lupini andrebbero evitati se si è allergici alle arachidi, alle lenticchie e ai fagioli, perché con l'aumento del consumo di prodotti vegani, che impiegano grandissime quantità di farina di lupini, la sensibilità verso alcune frazioni proteiche del lupino è aumentata: tra il 15 e 20% di allergici alle arachidi ha presentato reazioni allergiche ai lupini.

Andrebbero evitati anche se, senza essere allergici a niente, dovessero avere sapore amaro. Esso, infatti, deriva dalla presenza eccessiva di alcaloidi, lupanina, lupinina e sparteina, che producono avvelenamento più o meno pesante, colpendo sistema nervoso, circolatorio e gastrointestinale. 

Per eliminare questi alcaloidi, i lupini vanno ammollati e risciacquati a lungo e più volte e poi bolliti: solo questo articolato trattamento inattiva gli alcaloidi (e il sapore amaro). Per quanto nel tempo siano state messe a punto varietà di lupini con un quantitativo bassissimo di alcaloidi, dette «dolci», conviene consumare i lupini in salamoia che troviamo nel normale supermercato, che sono già precotti e deamarizzati e perciò sicuri.  

Se ci troviamo di fronte a lupini secchi, dobbiamo rigorosamente procedere a questi trattamenti. In caso di incertezza su come procedere, meglio usare solo i lupini in salamoia confezionati. L'amarezza del lupino ha anche una valenza figurata e letteraria.  

Amari furono i lupini nel romanzo di Giovanni Verga I Malavoglia nel quale «Padron 'Ntoni adunque, per menare avanti la barca, aveva combinato con lo zio Crocifisso Campana di legno un negozio di certi lupini da comprare a credenza per venderli a Riposto, dove compare Cinghialenta aveva detto che c'era un bastimento di Trieste a pigliar carico. Veramente i lupini erano un po' avariati; ma non ce n'erano altri a Trezza». 

Ma i lupini non riuscirono a essere strumento di emancipazione per i pescatori che volevano diventare commercianti: Padron 'Ntoni incarica il figlio Bastianazzo di portare i lupini a Riposto, ma durante il viaggio la barca, la Provvidenza, affonda e Bastianazzo muore. I Malavoglia, con il debito dei lupini non ancora pagati e pure perduti, perciò impossibilitati a pagarli, dovranno cedere la casa familiare.  

Verga non ha mai specificato se si trattasse di lupini nel senso dei legumi o in quello dei molluschi, ma si propende più per l'ipotesi dei legumi.

·        La Zucca. 

Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 13 marzo 2022.

«Pe' incenso, vojo odore de soffritti,gni cannela dev' esse un cannellone, li nastri sfoje all'ovo e le corone fatte de fiori de cocuzza fritti», affermava Aldo Fabrizi nella poesia romanesca Er mortorio. E il desiderio, in parte, è stato esaudito: il suo funerale è stato colorato da un cuscino di fiori di zucca, nel rispetto del sorriso celato in quella volontà e, soprattutto, come omaggio alla romanità.  

I fiori di zucca, che crescono sulle piante di zucche e zucchine in primavera e in estate, infatti, traboccanti di alici con mozzarella e fritti, sono ritenuti un simbolo della cucina dell'Urbe e laziale. Non è un caso che Anna Magnani, in Mamma Roma, li abbia cantati negli stornelli a dispetto. 

Golosi al palato, in realtà, sono ampiamente usati in più cucine tipiche regionali e ricette. E, da tradizione, sognarli, secondo gli esperti di oniromanzia, sarebbe addirittura un segno di imminente successo. 

«In questo periodo dell'anno, i fiori di zucca sono fantastici. Vanno colti la mattina, dalle sei alle otto. Con il caldo, iniziano a chiudersi», dice lo chef Michele Emilio Corrado del ristorante Dolia a Gaeta, che si avvale della consulenza dello chef stellato Francesco Apreda. 

«Sono molto versatili in cucina, ideali anche per chi non può dedicarsi lungamente alle preparazioni. Non vanno lavati, non c'è bisogno, non sono a contatto con il terreno e poi, sono come i funghi, più acqua prendono, più appassiscono. Vanno bene in un'insalata in freschezza o nella pasta, pure con il pesce e molto altro. I tempi di cottura sono ridottissimi, meno di due minuti».  

Sono ottimi fritti, appunto, ma anche mantecati per un risotto, impiegati in sformati, frittate o sulla pizza.In Liguria sono tipici quelli cotti al forno, farciti con verdure. In Emilia-Romagna, riempiti con erbazzone. In Campania, con prosciutto e provolone. In Sicilia, in frittelle. In Sardegna, nel sugo per la fregula, pasta di semola della tradizione regionale. 

Domenico Stile, chef stellato dell'Enoteca La Torre a Roma, operativo presso La Dogana a Capalbio, suggerisce la pasta alla Nerano: «È una ricetta classica. I più la fanno solo con le zucchine, ma vanno aggiunti i fiori di zucca». 

Fondamentale è saper scegliere i fiori giusti. «Esistono quelli maschili, con peduncolo lungo e sottile, e quelli femminili, più piccoli, che crescono sulla punta dei frutti», spiegano al Centro Agroalimentare Roma. 

«In termini di gusto - commenta Michele Emilio Corrado - non ci sono grandi differenze, quelli femminili sono un poco più dolci, cambia il calibro, ovviamente se un fiore è più grande è più semplice farcirlo. Se si comprano chiusi, non vanno aperti, meglio passarli in pastella e friggerli. Sono ottimi anche in ricette dolci. Io propongo pere, zafferano e fiori di zucca. Si fanno le pere brulé, preparando il brodo non con vino rosso ma con un bianco aromatizzato. Si aggiunge lo zafferano. Poi, il tocco di fiori di zucca fritti. E crumble salato di mandorle ad accompagnare». 

Buoni, i fiori fanno pure bene. Sono ipocalorici - circa dodici calorie per cento grammi - e, sottolineano al Consorzio Ori di Sardegna, «apportano quantitativi significativi di retinolo, vitamina A, e vitamina C, per questo motivo il loro consumo è utile per rinforzare la pelle, aiutandola a proteggersi dai raggi solari e a rigenerarsi».

·        La Melanzana.

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 26 giugno 2022.

Si narra che Vincenzo Bellini, deluso per la fredda accoglienza alla Scala della sua Norma, avrebbe giustificato maliziosamente i milanesi «perché hanno ancora sullo stomaco il risotto di ieri». Battuta che offrì spunto ai suoi concittadini catanesi per ribattezzare pochi giorni dopo alla Norma la pasta con le melanzane fritte, salsa di pomodoro e ricotta salata. Come a dire: questo piatto del Sud è un capolavoro, altro che indigesto risotto dei polentoni!

Purtroppo, quasi una norma (minuscolo, nel senso di legge) è l'uso limitato che si fa della melanzana. Essenzialmente nella pasta oppure nella parmigiana. Errore. Perché la mela insana portata dagli Arabi in Europa per uccidere i cristiani (così scrisse nel 1523 Gabriel Alonso de Herrera) è un vegetale estremamente versatile, ideale per mille preparazioni.

 Il brillante chef Franco Aliberti (formatosi da Ducasse e Marchesi e poi da Spigaroli e Alajmo), le dedica un capitolo nell'appena pubblicato Uno. In cucina con 1 solo ingrediente (Gribaudo Editore, 200 pagine, 19,90 euro). Nel menu, la melanzana è all'interno dei ravioli come primo, fondente come piatto principale, addirittura in versione dolce nella torta.

La melanzana si presta bene al ragionamento complessivo di Aliberti. «La tesi del libro spiega - è semplice quanto potente: cucinare con un solo ingrediente alla volta, imparando così a conoscerlo a fondo e a usarlo integralmente, riducendo le parti di scarto, che diventano protagoniste e vengono valorizzate al massimo per piatti innovativi, sostenibili e a spreco zero». Padroneggiare l'ingrediente significa anche adottare metodi e stratagemmi che solo un addetto ai lavori può conoscere. Aliberti svela i suoi segreti sulle melanzane. 

«Adesso, da giugno a ottobre, è la stagione giusta, perché sotto i 12 gradi smetterebbe di crescere.

Quelle fresche devono essere sode, con la buccia lucida (non cerata) e ben tesa, senza grinze. Nel caso della viola, la polpa ingiallita indica o che il prodotto è troppo maturo (e quindi pieno di semi) oppure che la pianta ha patito la siccità (e quindi il sapore sarà molto amaro)».

Aliberti ama molto la melanzana anche per la buona presenza di potassio e di altri minerali, il buon contenuto di fibra alimentare e la grande quantità di antiossidanti. Pochissimi sono i grassi e zero il colesterolo. «Ed è totalmente commestibile, sia la polpa sia la buccia», conclude.

La bontà della buccia è stata una sorpresa per lo stellato veronese Francesco Baldissarutti. «In realtà ha confessato - le melanzane le cuocevo intere allo spiedo e poi grigliate, con la buccia. Le facevo quindi scolare e le utilizzavo per tanti altri piatti. Un pomeriggio esplose la buccia di alcune melanzane e non riuscii a farle cuocere ulteriormente. Le misi a riposare in frigo, le dimenticai per tre giorni e non sapevo più che farne. Con il personale le assaggiammo e, con gran sorpresa, erano buonissime». 

Dopo un ulteriore passaggio, sono diventate uno degli amouse-bouche più graditi alla Locanda Le 4 ciacole. Sdoganata perfino nella torta, perché non spingerci oltre? Valerio Braschi, vincitore dell'edizione 2017 di Master Chef nel suo ristorante a Roma (il 1978 in via Zara 27) propone il bitter realizzato con l'estratto di 2 melanzane tonde grandi, 15 ml di succo di lime, 15 ml di salsa di soia e 10 gocce di angostura.

·        I Limoni.

Annamaria Barbato Ricci per “il Messaggero – MoltoDonna” il 24 giugno 2022.

Dietro a ogni limone Sfusato di Amalfi, tipico della Costiera Amalfitana, bitorzoluto, dalle forme eccentriche, c'è la fatica, il sacrificio dei Contadini volanti che coltivano le preziose piante sui terrazzamenti sui monti da Vietri sul Mare a Positano. Si arrampicano anche per centinaia di metri in verticale, nel vuoto, a picco sul mare. Vige una parità tipica del mondo rurale: ci sono infatti anche le Contadine Volanti, che lavorano in prima linea nei limoneti, economia di pura sussistenza. 

Nei decenni passati, avveniva poi una vera divisione dei compiti: la donna a coltivare limoni, e a volare per mantenerli, e l'uomo per mare, a pescare. Mantenendo in vita questa coltura, gli ormai pochi contadini rimasti a presidiare il territorio Patrimonio Unesco sono i numi tutelari di un ecosistema fragile, soggetto a incendi, erosione, dilavamento, perdita di vegetazione, frane.

Flavia Amabile, giornalista e scrittrice, dal 2015 impegnata a valorizzare il lavoro e la funzione di questo segmento di lavoratrici e lavoratori dimenticati, girando l'Italia con libri e mostre con questo titolo, ha raccolto le loro testimonianze.

Pochi, anziani, permettono non solo di mantenere in vita tale eccellenza agricola, ma anche di mantenere immutato il paesaggio. Le donne poi erano bambine e hanno continuato fino ad età matura a portare sulle spalle pesantissimi cesti di limoni raccolti lungo le terrazze e li caricavano sui camion o i carretti 200 metri più giù. Tutte ne parlano con disinvoltura, minimizzando gli sforzi compiuti.

Braccianti tuttofare, evocano un'agricoltura senza chimica, all'antica. Vincenza Ruocco e suo marito, Lucio Pappalardo, detto Guido, di Cetara confessano: «Per concime, tanti anni fa, usavamo il contenuto dei pozzi neri o i liquami del pollaio; e funzionavano meglio». Vincenza ricorda i cesti portati sulle spalle, anche di 70 chili. 

Ogni cesto portato giù le veniva pagato 100 lire. La donna ne parla come una cosa normale: «Il peso delle ceste sulle spalle variava dai 55 ai 70 chili. Poggiavo il cesto sulla nuca, ponendovi sotto un cuscino di erba avvolto in un sacco (per ammortizzare il peso, ndr). Le scarpe erano un lusso, avevamo i piedi avvolti in stracci. Ogni giorno facevamo da 5 a 10 trasporti. Era sul finire degli anni '50, avevo 18 anni e ancora c'era un buon commercio dei limoni, non come oggi». 

Ricorda Vincenza: «Ogni limone veniva pulito, privato delle foglie e avvolto in carta velina. Poi era inserito in ceste: il tutto avveniva in magazzini del paese, oggi diventati case per abitazione o per la villeggiatura». Filomena Crescenzo, dai dodici anni in poi già lavorava, su e giù per le terrazze. «Usavo una cesta piccolina, da una decina di chili - proclama orgogliosa - Diventata grande, trasportavo anche 70 80 chili. Incominciavamo all'alba e arrivavamo fino alle 7 di sera. Ho fatto questa vita fino a 53 anni, nell'84».

La figlia aggiunge: «Mamma non l'abbiamo mai tenuta a casa, ha fatto la ciuccia di fatica da quando è nata». Filomena, classe 1931, ribatte: «Non volevo neanche sposarmi afferma battagliera preferivo lavorare». E, infatti, si sposò tardi. Stakanov le faceva un baffo. Si portava appresso i figli neonati per allattarli; a neanche due settimane dal parto, eccola, su e giù per la montagna, con un clandestino nella cassa, il bebè. Ultranovantenne, si lamenta della vita tappata in casa. 

Contadina volante è anche Reginalda Casaburi, novantenne energica. È perentoria: «Noi donne lavoravamo più degli uomini. Io ho faticato sin da bambina, a 9 anni raccoglievo l'erba, ho zappato, ho raccolto i limoni; ma li ho anche trasportati, come gli uomini. Anzi, mio padre, che era un malamente, aveva tre fucili in casa: noi donne lavoravamo e lui se ne andava a caccia.

Non avrebbe esitato a puntarceli addosso, se disubbidivamo. Lavoravo sodo: ho portato casse fino a un quintale e venti sulla schiena». Reginalda sposò un marinaio, spesso lontano. In pensione, lui l'aiutò a coltivare i limoni. «Ma lui non era bravo come me, non lo sapeva fare. Era navigante»

La vera recordwoman è Fernanda Rispoli, 85 anni e mezzo: a maggio scorso era nei suoi limoneti ad Amalfi, impegnata nel riempimento delle casse e nelle operazioni di peso con un'antica stadera. Nicolina Amato vive nella magica Ravello e coltiva direttamente i suoi limoni. Pure lei è una vera guerriera, ha lavorato dall'età di 10 anni. Dal suo limoneto, Nicolina spiega che, a primavera, toglie le reti di copertura che preservano dal freddo: «Se non li scopri, i limoni, ti rendi conto che ogni pianta non germoglia, non fa la nuata, come diciamo noi, soffre».

Purtroppo, il consumismo e la GDO sono nemici dei preziosi limoni della Costiera Amalfitana. I prezzi offerti sono bassissimi, 80 centesimi il chilo; l'anno scorso, addirittura 50 cent. Invece, si dovrebbe incentivarli, i Contadini Volanti, donne e uomini che siano, riconoscendo loro un reddito di custodia, visto che sono guardiani di un territorio che non ha eguali. 

·        L’Anguria.

Una fetta d'anguria per essere sani e belli. Mariagiulia Porrello il 9 Giugno 2022 su Il Giornale.

Ricca di minerali e vitamine e poco calorica, l'anguria è l'ideale d’estate, per scongiurare i colpi di calore e mantenersi idratati. Il cocomero è anche un alleato di bellezza ed è buono e versatile in cucina.

Fresca, dissetante, deliziosa e ricca di sostanze nutritive: non a caso l'anguria è la regina dell'estate.

Il cocomero, altro nome di questa prelibatezza, è il frutto di una pianta erbacea della famiglia delle cucurbitacee che arriva a maturazione nei mesi di luglio e agosto. Coltivato in tutto il mondo, il vegetale è originario dell'Africa tropicale e si ritiene che fosse conosciuto già nell'Egitto di 5.000 anni fa.

Il nome anguria deriva dal greco tardo angourion, al plurale angouria, termine che però faceva riferimento al cetriolo. In inglese è watermelon, traduzione letterale di melone d'acqua, altra denominazione del medesimo frutto.

Le tante virtù dell'anguria

Mangiare cocomero vuol dire fare il pieno di minerali e vitamine. La sua polpa contiene soprattutto potassio, il principale minerale delle nostre cellule che partecipa alla contrazione muscolare e aiuta a mantenere la pressione nella norma. Non mancano inoltre il magnesio e il fosforo.

Il frutto apporta all'organismo di chi lo consuma la vitamina A, fondamentale per la vista e utile per lo sviluppo di denti e ossa, e la vitamina C, che innalza le difese immunitarie. Entrambe le vitamine sono preziose alleate per prevenire i tumori. Insieme ai pomodori, l'anguria è uno dei frutti a più alto contenuto di licopene, elemento benefico per l'apparato cardiovascolare e le ossa.

I composti fenolici contenuti nell'alimento hanno caratteristiche antinfiammatorie e anti ossidanti, e il betacarotene contrasta l'invecchiamento della pelle. Per gli ipertesi è l'ideale consumare il melone d'acqua perché povero di sodio e ricco di potassio e citrullina, un aminoacido che apporta anche effetti positivi a chi soffre di disfunzione erettile.

Il cocomero è inoltre un cibo idratante, diuretico, dissetante, disintossicante e poco calorico. Proprio la sua composizione, per il 95,3% formato da acqua, lo rende particolarmente adatto a contrastare il senso di spossatezza che spesso assale nella stagione più calda dell'anno. Con una fetta d'anguria, il colpo di calore è scongiurato. E anche il sonno ne trae vantaggio poiché cibarsi della dolce polpa rossastra stimola la produzione di serotonina.

Per quanto concerne la ripartizione energetica, il cocomero è composto per l'86% da carboidrati, per il 10% da proteine e per la restante parte da fibre e lipidi.

Per essere belli ci vuole l'anguria

L'anguria è inoltre un ottimo aiuto in fatto di bellezza. Apporta infatti benefici non solo consumandola a tavola, ma anche usandola come cosmetico naturale: le maschere per il viso e per i capelli sono perfette per rivitalizzare la pelle e la chioma. Grazie all'apporto nutritivo della sua dolce polpa, la pelle diventa più idratata, elastica e luminosa. Con un'applicazione a base di anguria i capelli risulteranno meno secchi e sfribrati. Oltre alle maschere fai da te, sono diversi i prodotti a base del dissetante frutto estivo presenti sul mercato.

Tante ricette per piatti sani e gustosi

In cucina l'anguria è parecchio versatile e ci si può sbizzarrire con la fantasia: può essere trasformata in sorbetti e frullati e aggiunta a cubetti alla macedonia. 

Si possono realizzare dolci appetitosi come il famoso gelo di mellone siciliano o torte fresche se ad esempio viene mischiata allo yogurt. Ma l'anguria non fa rima solo con dessert. La sua polpa conferisce una nota rinfrescante e particolare alle insalate, al riso, alle carni e al pesce. Celebre è poi il connubio tra anguria e feta greca.

Insomma, l'anguria è un alimento versatile e gustoso, alleato di salute e bellezza.

·        Il Tartufo.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 14 Giugno 2022.

Argo è un cane Lagotto vivacissimo e con un istinto infallibile al tartufo. Soprattutto è il protagonista, guidato dai fratelli Andrea e Michele Filosi, di una fantastica esperienza gourmet a tutto tondo. Il luogo è Monteleone di Orvieto, un borgo di bellezza e di paesaggi che evocano le opere del Perugino (nativo della vicina Città della Pieve) e il perno di tutto il gioco è il Seven Café, osteria, pizzeria, vineria, dove un'intera famiglia col babbo Alessandro e con la mamma Paola interpretano la memoria, mentre i figli Andrea - sommelier - e Michele - chef - esprimono il cuore e la passione.

«Andare per tartufi - spiega Andrea - è un modo emozionante di vivere la natura nel rispetto. I clienti che si prenotano imparano con noi molti segreti del mondo del tartufo e delle sue stagioni.

Adesso, ad esempio, è il momento dello scorzone, il nero estivo, che non è affatto di serie B rispetto all'invernale: ha solo sapori più tenui, ma molto interessanti». «E poi - continua il fratello Michele, il cuoco - c'è la fase due, quando i clienti vengono al ristorante e gustano quello che hanno trovato. La tavolozza è infinita, dalla tartare di manzo alle tagliatelle, dalla tagliata al lardo di Colonnata all'uovo all'occhio di bue».

Il tartufo estivo, il tuber aestivum Vittadini allarga l'orizzonte a una più ampia gamma di sapori. Prospera in terreni sabbiosi-argillosi sviluppandosi dove si trovano alberi come il rovere, la roverella, il faggio, il carpino, il leccio, il pino e il nocciolo; si riconosce per la forma della sua parte esterna (il peridio), di colore rossastro-nero, ma ancor di più per la tinta nocciola della gleba, la parte interna.

Per approfondirne sapori e saperi vale la pena un passaggio nello storico borgo di Cascia, in Valnerina, dove ad agosto si svolge Aestivum, una sagra dove il tartufo è protagonista insieme alle rose canine. «Ma è non solo l'Umbria a essere patria di tartufi. C'è anche il Molise dove, tra il Sangro e il Monte Capraro, se ne raccoglie una varietà di grande interesse», spiega Giuseppe Veredice, già top manager e oggi profeta dello Sperone di Gallo, una cultivar di oliva dalle spiccate qualità aromatiche e di bella lunghezza al palato. «Senza contare che l'olio extravergine è un moltiplicatore di sapori e di eleganza a dir poco unico per il tartufo nero», conclude Veredice.

La Tuscia viterbese, tuttavia, non è da meno. Basta una tappa a Tuscania per rendersene conto. La città, per molto tempo arroccata sulla sua bellezza di etruschi e di medioevo, sta ora infatti vivendo un vero e proprio revival di iniziative grazie ai suoi giovani. Così, dal silenzio delle mura di tufo, si passa alle installazioni di Roberta Morzetti, artista di Tuscania che espone nel Giardino Santa Croce per la Biennale di Viterbo. 

E ancora, emozioni forti anche grazie alla cucina intelligente e graffiante di Andrea Astolfi e Marco Marsili, due chef di ritorno che, dopo avere girato il mondo, hanno deciso di misurarsi col loro territorio e raccontare una Tuscia moderna e di emozioni. «Da noi l'orto è protagonista, così come lo sono i fiori, la frutta dimenticata, i nostri piccoli produttori di nicchia», esordiscono a una sola voce.

«In questo periodo da noi lo scorzone è una sinfonia di profumi. Noi lo associamo ai tagliolini, conditi con un burro aromatizzato alle erbe spontanee, che ne esaltano i contrasti. E poi il segreto finale, tanto per restare nel territorio: una spruzzata di olio delle nostre terre, la caninese, una vera frustata di sapori e di eleganza».

·        Lo Zafferano.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 17 maggio 2022.

Nasce con lo zafferano il manifesto della cucina moderna tricolore. Luogo di nascita, Milano. Protagonista, Gualtiero Marchesi, primo chef italiano a guadagnare nel 1985 le tre stelle della Guida Michelin. Anno di nascita del mitico risotto con la foglia d'oro, 1981. Il punto di partenza dello chef fu un piatto totem, il risott giald, il risotto giallo, conosciuto da tutti come risotto alla milanese. Il piatto di Marchesi nacque dalla geniale sovrapposizione di alcune invenzioni sia di presentazione che di tecnica di cucina.

 In un piatto rotondo dal bordo nero, il risotto, tutto vestito del giallo prezioso dello zafferano, presentava così al suo centro una scandalosa foglia d'oro. In aggiunta, lo chef decise di eliminare il midollo di bue, sostituito dall'oro e il brodo, sostituito dall'acqua, ma soprattutto di rinunciare alle tradizionali fasi di preparazione del soffritto e della sfumatura col vino, in favore del burro acidificato nella fase finale di mantecazione. Col risultato che il piatto rappresentò, e ancora rappresenta, un capolavoro visivo e concettuale che colloca al suo centro lo zafferano nella pienezza del suo sapore.

Già noto nell'antichità, lo zafferano fu sempre considerato spezia preziosa, farmaco, tintura per le stoffe, aroma e sapore prezioso in cucina. Coltivato in Asia Minore fin dal secondo millennio prima di Cristo, apprezzato nella cucina dei romani, lo zafferano penetrò in Spagna grazie agli arabi. In Italia arrivò in Sardegna con i Fenici, mentre nel XIII secolo, grazie a un domenicano della famiglia Santucci, i preziosi bulbi di croco sativo, la pianta dello zafferano, furono portati in Abruzzo, diventando nel tempo il simbolo gastronomico del colle di Navelli.

 «Lo zafferano è davvero un oro gastronomico - spiega Maria Elena Roscioli, dell'omonimo bistrot gourmet romano - D'altra parte, basti pensare che le parti che si impiegano del fiore viola del croco sono gli stimmi centrali: ce ne sono solo tre, e occorrono più o meno duecentomila fiori raccolti a mano di primo mattino per avere un chilo di zafferano. Il discorso si fa invece più complesso sui prodotti. Gli stimmi, in genere, sono il massimo, ma anche la polvere è ottima: basta selezionare con cura il produttore, perché le frodi sono sempre in agguato, dato il valore del prodotto».

Intorno allo zafferano si può anche fare un giro del mondo. Si parte dall'India col tipico curry (di cui lo zafferano è uno dei componenti), e si continua in Iran, massimo produttore mondiale e leader di qualità, celebre per piatti come il tahchin (timballo di riso e pollo) e lo sholezard, un colorato budino di riso. Si prosegue in Spagna, altro Paese produttore, per gustare la paella, e quindi a Marsiglia per la bouillabaisse, iconica zuppa di pesce.

E l'ingrediente ritorna anche nel brodetto di Porto Recanati nelle Marche e, nello scapece di Vasto in Abruzzo. E ancora, a Città della Pieve, patria di Piero Perugino, maestro di Raffaello che impiegava lo zafferano per ravvivare gli ori e i gialli dei suoi dipinti, va gustato il tortino di riso pecorino e piselli selvatici, mentre in Sardegna, si può spaziare dalla trippa cagliaritana alle dolci gallettinas. Ma lo zafferano ha anche un valore politico. 

Al tempo della presenza militare di pace italiana in Afghanistan il Provincial Reconstruction Team di Herat attivò un progetto per diffondere la cultura dello zafferano, in alternativa all'oppio: in altre parole, una spezia buona per prosciugare l'acqua dove nuota il pesce dei grandi narcotrafficanti.