Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

 

ANNO 2022

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

  

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per fare un albero ci vuole…

La morte degli Allevamenti.

La morte dell’Agricoltura.

L’Orto.

Il Biologico.

Il Legname.

Il Tovagliolo.

I sensi del buon gusto.

Cibi Biblici.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

L’Acqua.

L’Amido.

La co2 per uso alimentare.

Lo Spreco Alimentare.

La Scadenza.

Il Ricettario di Artusi.

Mangiare italiano.

Sovranità alimentare.

Mangiare non italiano.

L’alimentazione alternativa.

Il Brodo.

I Cuochi.

Lo Zucchero.

Il Sale.

Il Pepe.

Il Peperoncino.

La Cozza.

La Seppia.

La Carne.

Gli Insaccati.

Gli Alcolici.

Il Vino.

La Birra.

Il Caffè.

Il Cacao.

L’Olio d’Oliva.

L’Olio di Palma.

Il Formaggio.

Il grano e i suoi derivati.

Il Mais.

La Polenta.

Il Pomodoro.

Il Lampone.

Le Fave.

I Lupini.

La Zucca. 

La Melanzana.

I Limoni.

L’Anguria.

Il Tartufo.

Lo Zafferano.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La pesca.

Le Migrazioni degli Animali.

La Transumanza.

A tutela degli animali. 

Un Microchip per tutti.

Il Cane.

Il Lupo.

Le Galline.

Il Cavallo.

L’Asino.

Le pecore.

Il Maiale.

I Rettili.

La Tartaruga.

I Coralli.

I Pesci.

I Crostacei.

Api e Vespe.

Gli Uccelli.

I Felini.

La Lontra.

Lo Yeti.

L’Orso. 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Sprechi e Ritardi nella ricostruzione.

Ed Omissioni…

Le Valanghe.

Gli Incendi.

Le Eruzioni.

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A tutela dell’Ambiente.

Economia circolare.

L’Edilizia.

Il Mare.

La Sabbia.

I Parchi.

La Pioggia.

Lo Spreco dell’acqua.

Il Pozzo Artesiano.

Il Caldo.

Il Freddo.

Il Riciclaggio.

Il Vetro.

La Plastica.

La transizione ecologica - energetica.

I Gretini.

Gli antigretini.

Le Fake News.

Negazionismo e Doomismo climatico.

Il Costo della Transizione.

I Consumatori di energia.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Inquinamento Acustico.

L’Inquinamento atmosferico.

Gli Inquinatori.

La sostenibilità di facciata: Il Greenwashing.

La Risorsa dei Rifiuti.

L’Amianto.

Emergenza energetica ed è austerity.

Le Correnti del mare.

L’Eolico.

Il Gas metano.

Il Fotovoltaico.

L’Agrivoltaico.

I Termovalorizzatori.

Quelli che…Il Litio.

Quelli che…il Carbone.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che…Il Nucleare.

Quelli che…sempre no!

La Xylella.

 

 

 

 

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Per fare un albero ci vuole…

Così l'"Albero Madre" ci insegna la saggezza. Suzanne Simard ci porta nel "wood-wide-web", la rete di connessioni (intelligente) delle foreste. Eleonora Barbieri il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.

Ormai parlare di intelligenza delle piante, o del fatto che esse comunichino fra loro, o dell'esistenza di una connessione sotterranea nelle foreste, non sembra una novità. Quando però Suzanne Simard spedì un articolo a Nature in cui raccontava i risultati degli esperimenti condotti sui rapporti e gli scambi (di carbonio fotosintetico) fra betulle e abeti di Douglas era il 1997, e non ne parlava nessuno. E alla rivista non presero le sue ricerche alla leggera, come un revival new age o una moda hollywoodiana: infatti le sue scoperte, scientificamente dimostrate, si guadagnarono la copertina, battendo quella del genoma del moscerino della frutta. Lo chiamarono wood-wide-web: la rete immensa del bosco, che si dirama sotto il terreno, fra le radici, dove pare non accada nulla e, invece, succede di tutto. E questo tutto consente alle piante di cooperare e di sostenersi a vicenda, proprio come le betulle e gli abeti di Douglas che, sotto gli occhi della scienziata, anziché competere fra loro e sottrarsi risorse, se le scambiavano: «Stavano lavorando insieme, come un sistema. Un sistema intelligente, perspicace, reattivo». Così scrive Suzanne Simard in L'Albero Madre (Mondadori, pagg. 448, euro 24), il meraviglioso memoir in cui ripercorre il suo percorso, scientifico e personale insieme, «alla scoperta del respiro e dell'intelligenza della foresta».

Oggi Suzanne Simard è un punto di riferimento per chi studia le piante. Ha decine di pubblicazioni alle spalle, ha condotto documentari e conferenze su come gli alberi parlino fra loro e insegna Ecologia forestale all'Università della British Columbia. Qui dal 2015 è attivo il suo progetto «Albero Madre», che coinvolge nove foreste sperimentali e vuole rendere concreta «la scienza della complessità»: creare una nuova generazione di selvicoltori e «trasformare le pratiche forestali in qualcosa di adattativo e olistico, lontano da ciò che è stato finora eccessivamente autoritario e semplicistico». Ma tutto questo è arrivato col tempo, si è sviluppato e ramificato come un grande albero: «Non so se il mio sangue è negli alberi o se ho gli alberi nel sangue» scrive. Fatto sta che Simard è nata in una famiglia di taglialegna del Canada, è cresciuta tra le foreste pluviali della British Columbia e ha imparato a conoscere gli alberi, ad amarli, e a... tagliarli. «Per generazioni la mia famiglia si è guadagnata da vivere abbattendo foreste. Da questo modesto mestiere è dipesa la nostra sopravvivenza. È il mio retaggio». Logico che anche lei abbia cominciato così: buttando giù e piantando. Però... «Ho osservato la foresta e mi sono messa in ascolto». È stato proprio lavorando sul terreno che ha scoperto che le plantule di pino, quelle piantine nuove, distribuite in file precise e ordinate, senza ostacoli di radici e funghi fastidiosi intorno, anziché prosperare, inspiegabilmente deperivano. Che cosa mancava? La risposta era sottoterra, in quei filamenti fungini ramificati, chiamati ife, i quali, ben lungi dal danneggiare gli alberi, come si credeva, sono il modo in cui le loro radici si connettono, comunicano, si scambiano energia e elementi, si tramandano le lezioni (di adattamento) apprese e si lanciano allarmi... «Le radici non prosperavano quando crescevano da sole. Gli alberi avevano bisogno gli uni degli altri». È «una giungla di fili, sinapsi e nodi» a trasportare i messaggi, una rete che ricorda molto da vicino il cervello umano e il suo intreccio di neuroni, sinapsi e neurotrasmettitori. In questa foresta senziente e intelligente c'è un hub, un centro di connessione: l'Albero Madre. Chi ha visto Avatar ricorderà l'Albero delle anime. Chi ha letto Il sussurro del mondo (La nave di Teseo), con cui Richard Powers ha vinto il Pulitzer nel 2019, ricorderà le scoperte della ribelle Patricia Westerford, male accettate dal mondo scientifico istituzionale. Chi leggerà L'Albero Madre capirà perché tanta parte del nostro immaginario attuale sul mondo vegetale sia stata influenzata da Suzanne Simard. «Gli alberi anziani erano le madri della foresta. Gli hub erano Alberi Madre. Be', alberi madre e padre, dal momento che tutti gli abeti di Douglas hanno pigne maschili con il polline e pigne femminili con i semi. Ma... io li pensavo in termini materni. Con gli anziani che badavano ai giovani. Già, era proprio così. Alberi Madre. Gli Alberi Madre connettono la foresta». Trasmettono il loro sapere ai più giovani, li aiutano a crescere, lasciano in eredità le loro risorse quando muoiono. La loro sapienza secolare tiene in vita il mondo: non soltanto quello della foresta, il nostro. «L'evidenza scientifica non si può ignorare: la foresta è cablata in modo da garantire saggezza, sensibilità e cura».

Questi insegnamenti si ritrovano in molte ricerche e libri attuali. Per esempio, nell'esperienza di Karine Marsilly, «arborista tree-climber», che cura alberi grandiosi arrampicandocisi pericolosamente e che nel suo La mia vita con gli alberi (Einaudi, pagg. 172, euro 18,50) mette in pratica molte delle scoperte di Simard sulle connessioni vegetali. E racconta anche quanto possa essere avventurosa un'esistenza fra rami e chiome. Oppure negli studi di Paco Calvo, professore di Filosofia della scienza all'Università della Murcia: nel suo Minimal Intelligence Lab, Calvo cerca di dimostrare come la Planta Sapiens (ilSaggiatore, pagg. 350, euro 23) sia una realtà. Anche se Simard ci ricorda che i Salish, le antiche popolazioni della costa nord-occidentale del Pacifico, sapevano già tutto, senza ricorrere a isotopi, innesti, analisi e robot: sapevano della natura simbiotica delle foreste, delle reti fungine, della forza che nasce non dalla competizione, bensì dal sostegno reciproco fra le piante. «I Salish della costa pensano che anche gli alberi siano persone. Ci insegnano che la foresta è fatta di tante nazioni diverse che vivono fianco a fianco, in pace, ognuna delle quali dà il suo contributo a questa terra». Gli alberi insegnano la loro saggezza, a chi li sa ascoltare.

Per fare un albero. Perché il girasole è il simbolo della resistenza ucraina e altre storie di semi. Claudia Saracco su L'Inkiesta il 5 Luglio 2022.

Dalla banca del germoplasma, custode della biodiversità del Pianeta alle multinazionali che controllano tutto ciò che arriva sulle nostre tavole, abbiamo percorso la storia affascinante della vita che nasce sotto terra. 

Pace Nel 1932 Nikolaj Ivanovič Vavilov, di ritorno dagli Stati Uniti, portò in Russia dei semi di girasole americani. Ibridandoli con quelli locali, ottenne una nuova varietà che fu riportata in America nel 1972, dove è tuttora molto diffusa. Nel 1996, per celebrare gli accordi sul disarmo, Stati Uniti, Ucraina e Russia piantarono semi di girasole, pianta simbolo di pace nei Paesi dell’ex blocco sovietico

Girasoli In un video diffuso da The Guardian e girato il giorno successivo all’invasione, si vede una donna ucraina che affronta un militare russo invitandolo a mettere dei semi di girasole nelle sue tasche. «Prendi questi semi – dice la donna – così almeno i girasoli cresceranno quando morirai qui» 

Guerra Durante le due guerre mondiali, nella maggior parte dei Paesi coinvolti ogni piccola porzione di terra venne adibita a orto e coltivata: in Europa i cosiddetti orti di guerra furono migliaia, negli Stati Uniti addirittura milioni. La Domenica del Corriere del 22 dicembre 1918 titola in copertina: “A New York sfilano le coltivatrici degli orti di guerra per i festeggiamenti della vittoria”. Durante la seconda guerra mondiale, piazza Duomo a Milano nel 1945 fu convertita in campo di frumento, mentre nel parco del Valentino a Torino, si piantavano patate

500 le varietà di pomodori che esistono in natura. Il collezionista botanico tedesco Michael Schick le ha riunite qui

Cento il numero di cipolle che si ottiene dai semi di un singolo fiore

Banca La prima banca dei semi al mondo ospitava nel 1940 oltre 200 mila campioni (oggi sono 325 mila). La più grande e famosa si trova in Norvegia: lo Svalbard Global Seed Vault è un bunker costruito nel 2008 per resistere a «terremoti, guerre atomiche, sconvolgimenti climatici e forse pure alla collisione di un asteroide». Custodisce 860 mila tipi di colture

Treno Per diffondere i loro semi alcune piante si affidano al vento, in alcuni casi allo spostamento dell’aria creato dal treno che passa, tanto che la geografia della loro diffusione ricalca i collegamenti ferroviari. Due esempi: il Senecio squalidus, che dalla Sicilia ha colonizzato la Gran Bretagna, e il Pennisetum setaceum che invece la Sicilia l’ha conquistata partendo dall’Abissinia

Estinzione A volte sono gli animali a diventare veicolo di diffusione di una pianta decidendo la sua proliferazione o, al contrario, spingendola verso l’estinzione. Il seme gigantesco dell’avocado era adatto all’alimentazione di una serie di animali di grandi dimensioni (mastodonti) che vivevano in America e che si sono estinti. L’avocado per un po’ ha tirato a campare facendosi mangiare dal giaguaro, poi è stato scoperto dall’uomo ed è tornato a diffondersi

1 milione il numero di alberi piantati ogni anno dagli scoiattoli selvatici. Quelli grigi accumulano sotto terra più cibo di quanto occorra loro per sopravvivere, soprattutto ghiande e noci; dimenticandosi di recuperare le scorte, contribuiscono inconsapevolmente all’imboschimento del Pianeta

Arancia «Di solito, gli spicchi, contengono oltre al succo, un piccolo seme della stessa pianta: un piccolo omaggio che la produzione offre al consumatore nel caso che questi volesse avere una produzione personale di questi oggetti. Notare il disinteresse economico di una simile idea e per contro il legame psicologico che ne nasce tra consumatore e produzione: nessuno, o ben pochi, si mettono a seminare aranci, però l’offerta di questa concessione altamente altruista, l’idea di poterlo fare, libera il consumatore dal complesso di castrazione e stabilisce un rapporto di fiducia autonoma reciproca. Gesto cordiale e signorile, non come certi produttori contemporanei che offrono una mucca a chi compra venticinque grammi di formaggio». Bruno Munari, “Good Design” (Corraini Editore)

Ombelico L’arancia navel, così denominata per via di quella sorta di ombelico (navel, in inglese) sul fondo, è l’unica varietà senza semi e il solo modo per coltivarla è attraverso l’innesto della pianta su altri agrumi

Brevetto I semi da cui derivano la frutta e alla verdura che mangiamo sono protetti da brevetto. Si tratta di una questione alquanto controversa: il 63% del mercato delle sementi e il 75% di quello degli agrofarmaci è controllato da tre multinazionali che, nei fatti, decidono quali varietà siano produttive e quali invece vadano abbandonate

Breeder Il responsabile di ricerca e sviluppo delle varietà dei vegetali si chiama breeder. Il suo lavoro consiste nell’individuare le diverse linee parentali dei semi e ibridarle al fine di ottenere varietà prive di difetti da immettere sul mercato

Scambi Negli Stati Uniti gli scambi di semi tra appassionati si chiamano seed swap o seed exchange. Anche in Italia ci sono varie realtà che promuovono il libero scambio come Cercasemi, che funziona come un motore di ricerca, Semi Autonomi, Adipa, legata all’Orto botanico di Lucca e l’associazione Orti di pace

Trasparente Dagli albori della civiltà l’uomo ha selezionato piante con pochi semi o con semi di dimensioni ridotte. Un esempio è il cetriolo, i cui semi sono diventati nel frattempo così discreti che quasi non ci si accorge di averli in bocca

Frutto Regola generale: se contiene semi è un frutto, se deriva dalle foglie, dal fusto o dalla radie di una pianta allora è una verdura. Non sempre i frutti sono dolci, la natura ha più fantasia: sono un frutto l’oliva, il cetriolo, la melanzana, il peperone, la zucca e il pomodoro

XL Il seme più grande del mondo è quello della palma delle Seychelles, conosciuto come Cocco di mare. Il suo diametro misura mezzo metro e può arrivare a pesare 22 chilogrammi

Senape «Il regno dei cieli si può paragonare a un granellino di senapa, che un uomo prende e semina nel suo campo. Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande degli altri legumi e diventa un albero, tanto che vengono gli uccelli del cielo e si annidano fra i suoi rami» (Vangelo secondo Matteo 13,31-32). Per la verità, più piccoli dei semi di senape ci sono quelli del tabacco e della fragola. Ma il primo arriva dalle Americhe e ai tempi dei vangeli non era noto, il secondo non era considerato commestibile, per cui l’indicazione contenuta dei testi sacri è coerente

Zizzania La zizzania (Lolium temulentum), anche detta “loglio cattivo”, è una pianta erbacea simile al frumento. La sua farina però è tossica; da qui l’espressione “seminare zizzania”, detto di qualcuno che crea ostilità

Kenya In Kenya soltanto il 7% del territorio è ricoperto da foreste. Per invertire la rotta è in atto un ingegnoso programma di reimboschimento attraverso le cosiddette “bombe” di semi che vengono lanciate utilizzando i mezzi più diversi: elicotteri, fionde e mongolfiere. Per impedire agli animali di mangiarli, i semi vengono ricoperti da polvere di carbone

2 mila miliardi il numero di alberi tagliati negli ultimi due secoli

0,3% «Noi rappresentiamo soltanto un misero 0,3% della biomassa, mentre le piante l’85%. È ovvio che qualunque storia sul nostro pianeta abbia in un modo o nell’altro le piante come protagoniste. Questo pianeta è un mondo verde; è il pianeta delle piante. (…) Quando si riesce a guardare il mondo senza vederlo semplicemente come il campo da gioco dell’uomo, non ci si può non accorgere della ubiquità delle piante. Sono dappertutto e le loro avventure si intrecciano inevitabilmente alle nostre». Stefano Mancuso, “La pianta del mondo” (editori Laterza)

·        La morte degli Allevamenti.

Carissimi allevamenti. I conti delle stalle non tornano più. Stefania Leo su L'Inkiesta il 10 Febbraio 2022.

Mentre la filiera lattiero-casearia tenta di frenare l’emergenza che ha colpito il settore, i costi di mangime, energia e materie prime fanno tremare i produttori. Un reportage sul settore e sui suoi protagonisti.

Simone Padoan ha rappresentato la forte preoccupazione di pizzaioli e chef con una singola foto: quella dell’importo della sua bolletta della luce. Il rincaro dell’energia fa paura alla ristorazione. Ma se questo settore è un sorvegliato speciale dall’inizio della pandemia, anche altri imprenditori stanno cercando di far quadrare i conti senza successo. Tra questi ci sono gli allevatori e le aziende di zootecnia. 

Il punto sugli allevamenti

«Nel 1980 l’Italia contava 80.000 allevamenti di bovini adulti da latte. Oggi sono circa 26.000». Il raggelante delta tra le due cifre lo riferisce Fortunato Trezzi, titolare dell’Azienda Agricola Fratelli Trezzi di Alzate Brianza. A questi vanno aggiunti i circa 100.000 allevamenti di bovini da carne. Senza prendere in considerazione quelli dedicati a suini, ovini e bufale, si disegna un parco imprese di circa 126.000 unità, per un totale di circa 4 milioni di animali da alimentare, accudire e trasformare in carne o di cui lavorare il latte (dati: Banca dati delle anagrafi zootecniche, 31 dicembre 2019).

La scelta della destinazione d’uso dell’animale è importante nel racconto dei conti delle stalle che non tornano più. Infatti, «allevare bovini da latte è più costoso rispetto al fare lo stesso con quelli da carne perché, oltre al costo alimentare (seppur paragonabile), ci sono costi energetici legati a mungitura, preparazione di foraggi e stoccaggio del latte, che incidono in maniera marcata sui costi. Vanno aggiunti anche quelli legati al personale e alle semine dei terreni, se si ha a disposizione lo spazio per coltivare il cibo da destinare agli animali». Sommati, sono aumenti preoccupanti.

Il peso dei mangimi

Per chi non ha terreni da coltivare e adibire al pascolo, l’unica opzione alimentare disponibile resta il mangime. Anche questo segmento non sembra passarsela bene. «A partire dalla fine del 2020 si è assistito a un progressivo aumento del costo di tutte le principali materie prime, tra le quali anche tutte quelle destinate all’alimentazione degli animali – spiega Lea Pallaroni, Segretario Generale di Assalzoo – Questo fenomeno è proseguito con un andamento crescente per tutto il 2021 con incrementi molto forti che, solo per fare un esempio, per le due materie prime strategiche per la produzione di mangimi come il mais e la soia ha portato a rincari che hanno raggiunto rispettivamente il + 65% e il + 60% per la seconda. Questo forte aumento ha avuto un effetto domino su tutte le altre materie prime impiegate nella produzione di mangimi».

Del grano abbiamo già parlato qui e le cose non sembrano migliorate nemmeno per orzo, grano tenero, sorgo e altri cereali minori. Sono aumentati anche i costi delle fonti proteiche (farina di girasole, favino, pisello proteico, erba medica, farina di pesce), ma anche dei sottoprodotti come la crusca, le polpe di barbabietola: tutti prodotti le cui quotazioni di mercato sono cresciute tra il 60% e il 90%, con picchi anche superiori. Dato che questo è il punto di partenza per l’alimentazione degli animali che a vario titolo concorrono alla nostra alimentazione, non c’è di che stare allegri: se i costi di produzione aumentano, anche il prezzo di carne, latte e derivati aumenta.

I costi che schiacciano la filiera

Che siano industrie mangimistiche o allevamenti o industrie di trasformazione, il leitmotiv sugli aumenti batte sempre sulle stesse note. A pesare sui costi dei mangimi ci sono gli effetti della crisi pandemica; una crescita molto forte della domanda di materie prime alimentari dei mercati asiatici, primo fra tutti quello cinese; un andamento deludente dei raccolti a causa di avverse condizioni meteo climatiche e la concomitante riduzione delle scorte a livello mondiale.

«A ciò deve aggiungersi che la pandemia, tra aperture e chiusure, ha posto le basi per una repentina e forte crescita della domanda di mangime – spiega Pallaroni – che ha creato tensioni a tutti i livelli, non solo sui prezzi delle materie prime ma anche sul costo dei trasporti (i noli sono più che raddoppiati), e sui costi dell’energia, con prezzi ormai fuori controllo per l’elettricità e ancor più per il gas: una voce di costo importante per il nostro settore di industria».

Ecco perché le infrastrutture per ottimizzare il trasporto su gomma e rotaia del mangime sono fondamentali: per un settore capace di movimentare 30 milioni di tonnellate di merce ogni anno, i fondi del Pnrr potrebbero essere cruciali in termini di competitività nazionale.

Per ora le aziende mangimistiche si sono trovate a dover contenere un aumento dei costi, mediando gli aumenti con contratti a lungo termine stipulati prima della crisi, ma che oggi, con il perdurare di questa grave situazione, il settore mangimistico non è più in grado di contrastare. Quindi il prezzo dei mangimi è andato su e le previsioni per tutto il primo semestre dell’anno non sono affatto confortanti.

All’aumento dei prezzi dei mangimi – pari al 70% dei costi di produzione per un allevamento da latte – si devono sommare quelli delle bollette di energia elettrica. A soffrirne maggiormente sono gli allevamenti avicoli e di bovini da latte: lì ci sono mungitrici e impianti di refrigerazione, che fanno girare il contatore per tutto il giorno. C’è chi in tempi non sospetti si è dato da fare con pannelli fotovoltaici e impianti per la produzione di biogas, ma anche queste accortezze oggi mostrano la corda perché ancora insufficienti a coprire il fabbisogno energetico di un’intera azienda.

Inoltre, in Italia il mondo produttivo soffre anche per costi del lavoro e pressione fiscale, più elevati rispetto a quelli di molti dei nostri principali competitors internazionali. Poi c’è la burocrazia, che immobilizza le iniziative imprenditoriali e l’innovazione. A questo si aggiunge lo scarso favore riservato alla ricerca pubblica. «Sono fattori che compromettono tutte le attività produttive – sottolinea Pallaroni – e anche il settore dell’allevamento è costretto a dover far quadrare un bilancio che purtroppo è spesso in rosso e che compromette la possibilità di fare quegli investimenti necessari a fare crescere le aziende, renderle più efficienti e garantire un sistema di produzione in grado di assicurare un reddito sufficiente».

Produrre sottocosto

Ma se l’aumento de prezzo del grano ha determinato una corsa al rialzo per tutto, scaricato in gran parte sui consumatori, il mercato del latte sembra preda di uno stallo alla messicana. Non cresce il prezzo della materia prima, ma nemmeno quello della carne. In compenso si produce sottocosto. «Se il prezzo medio di un litro di latte è di 39 centesimi, per farlo occorrono 50 centesimi», spiega Giorgio Apostoli, Ufficio Zootecnico Coldiretti. Non esiste un prezzo nazionale per il latte. Ogni industria fa il suo in base alla qualità del prodotto, data dalla quantità di grassi e proteine presenti, fondamentali per la caseificazione. Basti pensare che il burro è aumentato del 90% (dati: Coldiretti). Per questo è importante che gli animali siano ben nutriti, con i (più costosi) mangimi giusti, altrimenti si va (ancora di più) in perdita. Ci sono contratti, come quello tra i produttori e il consorzio Parmigiano Reggiano, che assicurano agli allevatori 60 centesimi al litro. Per gli altri le cifre oscillano, mentre le bollette di gas e luce quadruplicano. Molti allevatori sono anche soggetti giuridici legati ad aziende agricole: per questo motivo ricevono delle integrazioni comunitarie solo sul suolo coltivato per l’alimentazione degli animali. Per il bestiame o il latte prodotto non viene dato alcun contributo. «In Italia è prevista solo una piccola integrazione per ogni vacca allevata, soprattutto in montagna», ricorda Apostoli.

L’accordo sul latte

Sul fronte della filiera lattiero-casearia nazionale, che esprime un valore di oltre 16 miliardi di euro e occupa oltre 100.000 persone, qualcosa si sta muovendo. Per fronteggiare l’emergenza latte, è stato messo a punto il “Protocollo per un’intesa di filiera per la salvaguardia degli allevamenti italiane”, sottoscritto a febbraio 2022 tra organizzazioni agricole, l’Alleanza delle cooperative italiane del settore agroalimentare, Assolatte e Grande Distribuzione Organizzata. L’iniziativa ha preso le mosse da una riunione tenutasi il 30 settembre 2021 presso il Ministero delle Politiche Agricole ed è stata sottoscritta da Coldiretti, Confagricoltura, Cia, Copagri, Alleanza delle Cooperative Italiane settore agroalimentare, Assolatte, Federdistribuzione, Ancd Conad, Ancc Coop, Ue Coop, Assalzoo, Agrocepi, Unione Coltivatori Italiani.

L’obiettivo condiviso è quello di riconoscere un premio chiamato “emergenza stalle” così ripartito: la Gdo si impegna a versare alle imprese della trasformazione lattiero-casearia fino a 3 centesimi di euro al litro di latte utilizzato per i prodotti della filiera (yogurt, latte, formaggi freschi e semi stagionati, tutti a latte 100% italiano), fino a una soglia massima di 0,41 centesimi Iva esclusa. Dal canto suo, l’industria si impegna a corrispondere fino a 1 centesimo per coprire il gap fino al raggiungimento della cifra massima.

In pratica, se un’azienda vende alla Gdo 10 chili di stracchino, in base a una tabella viene stabilito il fabbisogno produttivo a monte: 8 litri latte per chilo di stracchino. Quindi verrà applicato un aumento di 4 centesimi per litro, per un totale di 24 centesimi in più, trasferiti all’allevatore dall’industria. Nei contratti che regolano i rapporti commerciali tra industria e GDO, queste cifre aggiuntive devono essere rese evidenti attraverso la dicitura “Premio emergenza stalle”.

Il nodo cruciale dell’accordo è che questi soldi devono arrivare alla stalla. L’accordo dovrebbe avere validità sino al 31 marzo 2022. «Al momento – spiega Trezzi – nessuno ha usufruito di questa misura: le aziende si sono sobbarcate tout court i costi aziendali». 

L’industria “schiacciata”

Ma, nonostante modifiche e nuovi incontri, al momento il protocollo è applicato a senso unico. Come afferma Massimo Forino, Direttore Assolatte, «l’industria ha fatto molto di più di quanto si era impegnata a fare. Gli aumenti riconosciuti dagli industriali ai fornitori agricoli non sono stati ancora corrisposti dalla grande distribuzione».

Nell’addendum tecnico, aggiunto negli ultimi giorni, l’industria si è anche impegnata a raccogliere tutto ciò che la Gdo metterà a disposizione, per distribuirlo senza indugio ai produttori. Ma l’industria preme per riversare il peso degli aumenti a valle, cioè sul consumatore attraverso la Gdo. Dal canto suo, quest’ultima si muove con prudenza, per il timore di incidere sull’inflazione del Paese in un momento molto particolare. «Stiamo tutti cercando di fare la nostra parte col massimo senso di responsabilità nei confronti del consumatore. Ma non si può prevedere una crescita industriale, senza pensare a uno sbocco a valle di questi aumenti. L’industria garantisce un prezzo di mercato, che però, ad oggi, non copre i costi. Per questo l’aggiornamento dei listini è necessario: per pagare le bollette», sostiene Forino.

La Gdo: chi pensa ai consumatori?

«L’accordo sull’emergenza latte è un atto inedito: non ci sono mai stati rapporti tra Gdo e allevatori – puntualizza Carlo Buttarelli, Direttore Relazioni di Filiera di Federdistribuzione – Riteniamo il problema reale, ma il nostro è un ruolo di seconda battuta, prima di noi c’è l’industria di trasformazione. Stiamo ridiscutendo i prezzi di molti listini, considerando aumenti anche significativi. Consideriamo giusto tutelare gli allevatori, ma senza dimenticare i consumatori. Ci vuole una maggiore sensibilità sul tema».

Il passaggio di denaro dalla Gdo agli allevatori non è di facile attuazione. È necessaria la mediazione dell’industria, che «deve certificare alla distribuzione i costi che sostiene pagando le stalle. Ma ciò non è ancora avvenuto».

Il prezzo della carne

«Nel periodo maggio-ottobre 2021, i bovini di Razza Piemontese hanno subito perdite per oltre 500 euro a capo, a causa di aumenti dei costi di produzione, chiusura della ristorazione e concorrenza della carne estera – spiega Fabiano Barbisan, Presidente AOP Italia Zootecnica – Se parliamo delle altre tipologie di bestiame, per capirci i ristallati nati in Francia e allevati in Italia, maschi e femmine, solo i costi di alimentazione giornalieri sono aumentati fino ad incider per 120 euro a capo».

C’è stato un aumento del prezzo dei bovini di circa 0,20-0,30 per chilo di peso vivo, conquistati perché c’era poca offerta e la domanda era in aumento. Ma è alla vendita che si fanno i giochi. Al momento non ci sono risposte convincenti: «I macellatori si adeguano, e la parte più debole – l’allevatore – subisce le decisioni dei primi due».

In Italia le organizzazioni di produttori che dovrebbero concentrare l’offerta e determinare il mercato, stanno muovendo i primi passi all’interno dell’AOP Italia Zootecnica (riconosciuta anche dal Mipaaf). Ma il confronto è ancora appannaggio dei grandi gruppi privati, in grado di determinare i prezzi di mercato e poco disponibili a collaborare per una migliore gestione del mercato.

«Su questo fronte il Ministero delle politiche agricole e le Regioni non stanno aiutando gli allevatori poiché alla nostra richiesta di inserire nella nuova Pac 2023-2027 gli “aiuti accoppiati” con priorità all’appartenenza ad Organizzazioni produttori, hanno scelto un basso profilo quasi a voler rispolverare il metodo degli “aiutini a pioggia”.

Lo stesso vale per quanto riguarda l’OCM Carni Bovine, che anche con importi minimi, avrebbe dato linfa vitale alle Organizzazioni Produttori, ma per lasciare “più denari alla burocrazia” s’è preferito accantonarla. Vedremo cosa ne pensa la Commissione europea».

Considerato che importiamo quasi il 48% di carne estera e fatichiamo a valorizzare quel 52% circa di produzione nazionale, i prezzi devono essere più competitivi. «La “carne è tutta rossa”, il consumatore non la distingue». Bisogna lavorare anche su questo. I consumi domestici, anche nel 2021, hanno in buona parte compensato quelli mancati del “fuori casa”, così anche alla distribuzione si è assistito a una maggior presenza di prodotto italiano, venduto a prezzi in tenuta, con diversi spunti al rialzo. Ma il prezzo della carne non ha avuto grandi oscillazioni, poiché i maggiori costi di produzione sono stati sopportati principalmente dagli allevatori. Nel prossimo futuro potrebbe non essere così.

Sguardo al futuro: le prossime tappe del settore zootecnico

Assalzoo si propone di portare avanti un dialogo continuo anche con le altre rappresentanze dalla filiera, non ultimi anche i consumatori, per cercare di risolvere con un approccio integrato le problematiche comuni. Proprio pensando a chi acquista, la Gdo invita l’industria ad abbracciare il suo ruolo di calmieratore. I trasformatori, invece, chiedono maggiori risposte alla distribuzione.

Sul fronte carne, Italzootecnica sta portando avanti il Piano Carni Bovine Nazionale, tra mille difficoltà interne ed esterne al settore. «Il Piano poggia su tre pilastri: il Sistema di qualità nazionale zootecnia con la certificazione della carne con il marchio ombrello del Consorzio Sigillo Italiano (riconosciuto dal Mipaaf), la produzione di ristalli in Italia, con la collaborazione degli allevatori di vacche da latte (per non dipendere dall’estero) e l’operatività dell’Interprofessione. Se gli attori che operano nella filiera del bovino da carne sono disponibili a collaborare, potremo avere tutti gli strumenti per riposizionare a livello economico i nostri allevamenti e dare un futuro agli imprenditori, oltre a produrre buona carne, di alta qualità certificata con la sostenibilità ambientale, sociale ed economica, destinata ai consumatori che, in questi giorni, hanno superato la soglia degli otto miliardi di abitanti del Pianeta.

Il nostro asso nella manica è il marchio ombrello “Consorzio Sigillo Italiano”, per comunicare le produzioni certificate in base al sistema di qualità nazionale zootecnia riconosciuto dal Mipaaf. Se avremo le risorse necessarie per farlo conoscere ai consumatori, sarà per loro più facile riconoscere le produzioni degli allevatori italiani, preferirle e dare un valore aggiunto alla carne bovina di qualità che andranno ad acquistare».

C’è qualcosa che possiamo fare anche noi: consumare prodotti italiani. Mentre in Francia scatta l’obbligo di indicare la provenienza di tutti i tagli di carne serviti nei locali pubblici, gli allevatori italiani chiedono da anni che la misura sia varata anche in Italia. Lo stesso vale anche per latte e formaggi. Per dirla con Apostoli, «bisogna sempre cercare la qualità, dove c’è ovviamente».

·        La morte dell’Agricoltura.

L’agricoltura biodinamica via dalla legge sul biologico: perché la scienza esulta. LUCA IACCARINO su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.

La legge sul biologico approvata alla Camera con 421 sì. L’equiparazione tra agricoltura biologica e biodinamica bloccata da due emendamenti passati al fotofinish. Nei giorni scorsi la protesta degli scienziati: «Pratiche esoteriche».  

Seppur al fotofinish, scienza batte magia uno a zero. E meno male. Perché ieri l’italica fantasia avrebbe potuto raggiungere un altro, ambizioso traguardo: una legge con pratica esoterica inclusa. Invece, la ragione ha evitato che la Gazzetta Ufficiale diventasse una pubblicazione a tratti fantasy: grazie a due emendamenti di Riccardo Magi, Montecitorio ha finalmente espunto la parola «biodinamica» dal disegno di legge 988 (poi approvato oggi alla Camera con 421 sì, ora tornerà al Senato). La legge 988 sarà fondamentale, perché disciplinerà la produzione biologica e dunque determinerà i fondi europei che le verranno attribuiti. Tema importante. Ma il diavolo sta nei dettagli, e fino a ieri pomeriggio, prima dei provvidenziali correttivi, il testo assimilava – con pari dignità – l’agricoltura biologica e quella «biodinamica». Che era un po’ come dire: astronomia o astrologia? Non stiamo a guardare il capello.

L’agricoltura biodinamica

L’agricoltura biodinamica è stata teorizzata dal teosofo ed esoterista Rudolf Steiner vissuto dal 1861 al 1925, uomo di grande talento – fu il fondatore del celebre metodo pedagogico che porta il suo nome – ma non privo di idee bislacche, come che la razza ariana venisse da Atlantide (ah, i fantastici anni Venti). Per quel che concerne l’ambito agricolo, nel 1924 Steiner tenne un corso intitolato «Impulsi scientifico-spirituali per il progresso dell’agricoltura» in cui da un lato invitava a una produzione che oggi definiremmo biologica ma dall’altro vi includeva pratiche esoteriche, influssi astrali e preparati magici, tra cui il celebre «cornoletame», cioè un corno di una vacca che abbia partorito almeno una volta, riempito di sterco e interrato per propiziare raccolti generosi. Gli epigoni di Steiner, a un secolo dalla sua morte, di fatto operano in modo sostanzialmente biologico – il «cornoletame» si può agevolmente acquistare su internet, male non fa –, ma quella parola «biodinamica» in una legge dello Stato ci sarebbe stata come una ciliegina sui maccheroni (leggi qui la differenza tra agricoltura biologica e biodinamica).

La comunità scientifica

E infatti la comunità scientifica è insorta – fin dalla redazione del testo e poi dalla sua approvazione in Senato – per chiedere al Parlamento d’espungere il termine. «Il Parlamento afferma la validità di metodi previsti da Steiner come l’uso di letame maturato nelle corna di vacca, oppure di fiori di Achillea sepolti per mesi nella vescica di cervo maschio… Mi auguro per il bene del Paese che la Camera rifletta su queste considerazioni, eliminando dalla meritoria legge sull’agricoltura biologica ogni riferimento alla biodinamica», ha scritto il fisico Giorgio Parisi, Nobel nel 2021. «Nonostante il tempo trascorso dall’approvazione in Senato, il testo arriva in Aula senza che sia stata apportata la modifica richiesta alla Commissione Agricoltura da tutte le maggiori società scientifiche italiane di area e da più di 35mila ricercatori e cittadini interessati alla scienza», questa invece è la biologa e senatrice a vita Elena Cattaneo. La comunità scientifica ha combattuto fino alle ultime ore. Forte anche dello scetticismo espresso dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

L’intervento del Cicap

Domenica sera il CICAP – Il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze fondato nel 1989 da Piero Angela – scriveva sui propri social un lungo appello che diceva, tra l’altro: «L’agricoltura biodinamica è una disciplina basata su principi magici ed esoterici e non offre vantaggi scientificamente dimostrati. Appare, quindi, incomprensibile e inopportuno il suo riconoscimento da parte dei decisori politici». Motivo in più per questa battaglia il fatto che «Biodinamica» sia un marchio di proprietà dell’associazione Demeter International, che avrebbe tratto giovamento dal riconoscimento normativo. Ma dunque, perché le Camere hanno tirato dritto fino a ieri? Ammettendo la buona fede, per non rischiare di buttare via il bambino con l’acqua sporca. Fuor di metafora: per non fermare l’avanzare di una legge fondamentale. Va be’, ma allora chi inserì quella parolina all’inizio dell’iter?

Biologico e biodinamico

«Fu l’ICQRF, l’Ispettorato del ministero dell’Agricoltura che si occupa anche dei controlli sulle certificazioni, a chiedere che nella legge fosse inserita l’agricoltura biodinamica» ha spiegato la prima firmataria del testo, la deputata di Italia Viva Maria Chiara Gadda. Che già ebbe occasione di prendersela con i detrattori, scrivendo su Facebook: «Diciamoci la verità, chi alza lo spauracchio dell’esoterismo e dell’anti scienza con la prepotenza del dibattito di queste settimane, che è cosa ben diversa dal confronto scientifico, dica semplicemente che vuole affossare la legge intera con la scusa del biodinamico». Ancora Gadda: «Si prendono finanziamenti perché si è imprenditori agricoli professionali e perché si ha la certificazione biologica, e questo vale anche per chi, con motivazioni che non mi interessano, sceglie di fare agricoltura biodinamica». In sostanza il Gadda-pensiero era: quel che conta è il risultato, e il biodinamico male non fa. Come diceva Woody Allen: basta che funzioni. Quindi: perché no? Perché non accontentare i «biodinamici»? La risposta è arrivata ieri sera, e sintetizzando, è stata: «Perché una legge dello Stato non dovrebbe contemplare pratiche esoteriche». Dunque con ogni probabilità quella sul biologico diventerà legge in giornata, e non conterrà alcun riferimento al biodinamico. A questo giro ha vinto la ragione. La fanta-scienza di stato può aspettare.

Battaglia alla Camera sull'agricoltura biodinamica: lo stop di Mattarella dopo il no degli scienziati. Concetto Vecchio su La Repubblica il 9 Febbraio 2022.  

Oggi al voto la legge che equipara questo tipo di agricoltura a quella biologica. Ma la norma è avversata da molti scienziati. "E' una truffa, come stamina" ha sostenuto la senatrice a vita. Mentre per il premio Nobel si cerca di fare entrare "la magia nell'ordinamento giuridico". Anche il presidente della Repubblica ha fatto intendere che condivide queste preoccupazioni

La Camera dei deputati ieri stava per approvare una proposta di legge che equipara l'agricoltura biodinamica a quella biologica, ma nel tardo pomeriggio è arrivato lo stop. Forti le perplessità del mondo scientifico. Anche il Quirinale ha pubblicamente espresso delle riserve. "Così com'è questa norma non potrà avere il via libera del Presidente della Repubblica", riferivano ieri sera fonti parlamentari. 

Da editorialedomani.it il 9 febbraio 2022.

Dopo le riserve espresse dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e le prese di posizioni critiche della senatrice a vita Elena Cattaneo e del premio Nobel Giorgi Parisi, la Camera ha deciso di eliminare la norma che equiparava l’agricoltura biodinamica al metodo biologico, approvando alcuni emendamenti soppressivi alla legge sull’agricoltura biologica.

Questi sono stati presentati del deputato Riccardo Magi di +Europa e dalla commissione Agricoltura di Montecitorio. Se l’equiparazione tra le due diverse tecniche di coltivazione fosse stata approvata, le aziende dell’agricoltura biodinamica avrebbero potuto attingere ai fondi pubblici della ricerca. 

«C’è stata una vittoria in extremis, il parlamento ha saputo ascoltare i richiami che sono venuti dal mondo della scienza e dal presidente della Repubblica», ha detto Magi. «Abbiamo evitato che il parlamento approvasse un testo che non aveva fondamento scientifico, ma rimane il rammarico di non essere riusciti a modificare gli articoli 5 e 8», ha aggiunto.

Il testo, dopo essere stato approvato in Senato lo scorso 20 maggio, è arrivato l’8 febbraio alla Camera ma la discussione era stata rinviata al giorno seguente. Il punto più critico sul quale alcuni partiti non erano riusciti ancora a trovare ancora l’intesa riguardava proprio l’equiparazione dell’agricoltura di tipo biologico con quella biodinamica. 

Mentre la prima è una tecnica di coltivazione a basso impatto ambientale e che prevede metodi quanto più “naturali” possibili, evitando in particolare l’utilizzo di pesticidi, il biodinamico, invece, oltre a pratiche biologico aggiunge anche una serie di pratiche semi-esoteriche nate alla fine dell’Ottocento dal filosofo austriaco Rudolf Steiner. 

Tra le tecniche più utilizzate dall’agricoltura biodinamica ci sono la sepoltura nei campi del cosiddetto “cornoletame”, un corno di vacca riempito di letame che avrebbe particolari proprietà fertilizzanti, e delle vesciche di cervo maschio riempite di fili di achillea.

In Europa l’agricoltura biodinamica è particolarmente diffusa in Germania dove ha avuto una forte crescita verso la fine degli anni Trenta durante il regime nazista. 

In Italia, secondo l’Osservatorio Sana di Nomisma, l’agricoltura biologica vale 4,6 miliardi di euro, ma non sono chiare le cifre che riguardano invece il biodinamico, il quale invece è praticato da circa 4500 aziende come scrive il Sole 24 ore, ovvero circa il 6 per cento delle 70mila imprese a trazione biologica. Secondo Coldiretti il biodinamico italiano ha un giro di affari che ruota attorno ai 200milioni di euro.

Non tutti però sono d’accordo sull’equiparazione delle due tecniche di agricoltura. Tra questi ci sono scienziati ed esperti come la senatrice a vita Elena Cattaneo e il premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi. Secondo loro il ddl sostiene e incoraggia una vera e propria pseudo scienza senza fondamenti scientifici. 

«Qualcuno deve aver scambiato l’agricoltura biodinamica per un’agricoltura biologica rafforzata e non si è accorto che stava inserendo nella legislazione italiana riferimenti ai preparati biodinamici che si basano su una visione del mondo dominata forze eterico-astrali che si accumulano tramite corna degli animali», ha scritto il premio Nobel per la fisica e il presidente dell’Accademia dei Lincei Giorgio Parisi.  «Il marchio “Biodinamica” è di proprietà di una società multinazionale con fine di lucro, la Demeter Int., che con il riconoscimento legislativo acquisirebbe un vantaggio competitivo rilevante rispetto ai tanti agricoltori che con serietà, onestà e sacrificio si sforzano di rispettare i disciplinari dell’agricoltura biologica».

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a novembre ha risposto a Parisi dicendo: «Non posso pronunciarmi sull’attività del parlamento, ma posso dire che prima che questa diventi legge vi sarebbero alcuni passaggi parlamentari che rendono lontana questa ipotesi».

Niccolò Carratelli per “La Stampa” il 9 febbraio 2022.

Il Quirinale al fianco degli scienziati per impedire l'equiparazione dell'agricoltura biodinamica a quella biologica. Nessun atto formale, ovviamente, da parte del presidente della Repubblica appena rieletto. 

Ma fonti parlamentari bene informate assicurano che ci sia stato un «suggerimento» arrivato dal Colle dietro la decisione, improvvisa, di rinviare l'approvazione della legge che prevede, tra le altre cose, l'istituzione di un marchio del biologico italiano e l'adozione di un piano nazionale per sostenere lo sviluppo del settore. Ma che, al comma 3 dell'articolo 1, precisa che tutte le misure di sostegno introdotte devono valere anche per i metodi di coltivazione equiparati al biologico, citando specificamente il biodinamico. Un marchio commerciale gestito da una multinazionale privata, mentre il biologico è regolamentato da precise norme dell'Unione europea. 

Un punto su cui, già dallo scorso anno, la comunità scientifica italiana ha manifestato una netta opposizione: «Non si può promuovere il pensiero magico in una legge dello Stato», ha detto la senatrice a vita (e scienziata) Elena Cattaneo, che a palazzo Madama ha presentato invano emendamenti soppressivi di quella parte del testo e, alla fine, è stata l'unica a votare contro.

Laddove per «pensiero magico» si intende la visione spirituale del teosofo esoterista Rudolf Steiner, che basa il metodo di coltivazione sull'osservazione delle fasi lunari per la semina o sull'utilizzo di «preparati» speciali per la concimazione. Un esempio per tutti è quello del letame inserito nel corno di una vacca, che abbia partorito almeno una volta, tenuto sottoterra, poi estratto e dinamizzato con acqua. 

A insorgere contro questo «metodo antiscientifico» è stato anche il premio Nobel per la fisica Giorgio Parisi, che a più riprese ha invitato i parlamentari a «votare con conoscenza e competenza», chiedendo la «consulenza del mondo scientifico quando si deve decidere su questioni delicate e tecniche: se lo avessero fatto, le norme sull'agricoltura biodinamica non sarebbero arrivate neppure in discussione».

Parisi aveva anche lanciato un appello a Sergio Mattarella, per chiedergli di interessarsi alla questione. Il capo dello Stato, nel suo intervento dello scorso novembre all'università La Sapienza di Roma, per l'inaugurazione dell'anno accademico, aveva approfittato della presenza di Parisi per rispondere: «È una questione che sta in Parlamento e io, notoriamente, non posso pronunciarmi - aveva detto -. Ma posso ben dire che, perché diventi legge, vi sono alcuni altri passaggi, anche parlamentari anzitutto, che rendono lontana questa ipotesi».

Parole che, lette dopo quanto accaduto ieri a Montecitorio, assumono un'altra rilevanza. La legge, infatti, era pronta per essere messa in votazione, con solo tre emendamenti presentati: due del deputato di +Europa Riccardo Magi, che chiede di eliminare il passaggio sull'equiparazione biologico-biodinamico, e una della Svp, una correzione formale sulla salvaguardia finanziaria.

«Su 630 deputati, dopo la mobilitazione della comunità scientifica e l'interessamento del presidente Mattarella, nessun altro si è sentito in dovere di sollevare la questione e chiedere una modifica», dice Magi, che lo scorso luglio si era visto respingere gli stessi emendamenti in commissione Agricoltura ed era pronto ad assistere alla stessa scena in aula. «In pochi minuti potevano essere bocciati e la legge approvata - spiega -, invece è arrivato un rinvio a domani (oggi, ndr)».

Decisione della conferenza dei capigruppo, senza una motivazione ufficiale, ma da Montecitorio c'è chi racconta di una telefonata arrivata dal Quirinale: un invito a un «supplemento di riflessione» su una legge che «presenta elementi di complessità e suscita dubbi nella comunità scientifica». Insomma, leggendo tra le righe: se la approvate così potrei non firmarla. E allora quei due emendamenti potrebbero rivelarsi a sorpresa la via d'uscita per eliminare la contestata equiparazione (rendendo, però, necessario un ulteriore passaggio al Senato per approvare la legge) ed evitare un clamoroso scontro con colui che, solo pochi giorni fa, in quella stessa aula è stato applaudito più di 50 volte.

L'agricoltura non sarà più come la conosciamo: scatta la rivoluzione. Andrea Muratore il 17 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

L'impatto ambientale del settore agricolo nel quadro della lotta ai cambiamenti climatici è un tema di elevata complessità. Da un lato, è chiaro che il settore primario risulti una filiera estremamente strategica nell'ottica della difesa di quote di produzioni alimentari e eccellenze nazionali da tutelare dai marosi di una competizione globale spesso assai articolata; dall'altro, è chiaro che non risulta efficiente sotto un punto di vista economico prima ancora che ambientale ridurre tale tutela a un semplice consolidamento dello status quo.

Questo è ancora più vero quando si parla dell'Italia, Paese che si trova stretto tra diverse problematiche: da un lato, un contesto europeo che con le Politiche agricole comunitarie (Pac) penalizza direttamente il nostro sistema-Paese, garantendo un sussidio diretto a produzioni concorrenti, dato che i redditi degli agricoltori italiani sono coperti dall'Ue per il 28% a fronte del 40% medio comunitario. Dall'altro, un arroccamento su un sistema complesso di bonus, incentivi e sussidi che frenano lo sviluppo sistemico di nuove produzioni e tecniche.

Secondo una stima di Coldiretti, l’Italia ha perso dal 1990 ad oggi il 28% del suo potenziale agricolo, circa 5 milioni di ettari. E se sul profilo ambientale questo ha contribuito al rimboschimento dell'Italia in graduale sviluppo, ciò ha contribuito a una slavina per la produzione. Si è dimezzato il mais, ridotto di un settimo lo spazio della barbabietola, portando alla scomparsa degli zuccherifici, ridotto al 77% di fine XX secolo lo spazio per i frutteti. Parliamo di un depauperamento produttivo pagato a duro prezzo dall'industria agroalimentare nazionale, cui è andato di pari passo un irrigidimento e un notevole peggioramento della qualità ambientale connesso alla permanenza di sussidi dal valore annuo, secondo stime di Legambiente, per 3,1 miliardi di euro che non vanno nella direzione di una crescente sostenibilità.

Il cibo è vita, l'agricoltura è il settore chiave per procacciarselo. E i Paesi non sono disposti, dopo la lezione della pandemia, a rinunciare alla tematica della sovranità alimentare. E al contempo, un miglioramento dell'efficienza e della produttività dell'agricoltura può contribuire a cogliere due piccioni con una fava: sviluppo economico e transizione green. La produzione alimentare è infatti responsabile del 26% delle emissioni nocive globali, il 27,5% in Italia secondo Ispra, prodotte per la maggior parte dall’agricoltura e in primo luogo dall’allevamento del bestiame, e inoltre impatta notevolmente sul tema del consumo idrico, dell'equilibrio di biodiversità e della gestione del suolo. In Italia Ispra stima che nell'ultimo trentennio gli impatti dell'agricoltura in termini di emissioni siano calati del 13% (da 34,7 a 30,2 milioni di tonnellate annue di anidride carbonica), ma uno sforzo ulteriore è necessario.

Innovazione tecnologica e focus sulla sostenibilità possono in quest'ottica consentire un miglioramento su tutti i fronti. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza del governo italiano nella Missione 2 centrata sul tema "Rivoluzione verde e transizione ecologica" si pone l'obiettivo di creare una filiera agroalimentare sostenibile, migliorando le prestazioni ambientali e la competitività delle aziende agricole. Le risorse destinate in forma diretta avranno un valore di 6,8 miliardi di euro, a cui si devono sommare fondi provenienti da progetti trasversali che incideranno anche sull'agricoltura: dalle nuove infrastrutture logistiche agli interventi per la lotta al dissesto idrogeologico e alla dispersione idrica, passando per le nuove connessioni digitali e l'Internet delle cose applicabile alle aziende agricole di ultima generazione. 2,8 miliardi di euro avranno un chiaro focus sulla sostenibilità, come ricorda Agro Notizie: "fondi destinati strettamente al comparto agricolo riguardano ad esempio chi ha degli impianti di lavorazione e stoccaggio in azienda (essiccatoi, frantoi, silos, …) oppure chi intende investire nell'agricoltura 4.0, quindi agricoltura di precisione, sensoristica, tracciabilità (anche blockchain)", mentre nel quadro dell'utilizzo di risorse per abilitare la transizione e la sostenibilità spicca "l'agrisolare, a cui andranno 1,5 miliardi di euro. Il governo mira a incentivare l'installazione di pannelli solari su capannoni e strutture aziendali (senza nessun consumo di suolo dunque) pari 2,4 milioni di metri quadri".

Nella sostanza la transizione verde passa per l’innovazione tecnologica che rende possibile un uso più efficiente e sostenibile delle risorse, e anche per l'agricoltura questa realtà di fatto non cambia. Lo sviluppo, spesso tutt'altro che ambientalmente proficuo, di nuove, presunte modalità di consumo "ecosostenibili" a livello dei privati cittadini non è che una foglia di fico dietro cui si cela la verà, importante necessità legata al rapporto tra agricoltura e sostenibilità: la necessità di rafforzare strutturalmente la filiera produttiva, facendole fare un salto nel XXI secolo.

Andrea Muratore. Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia ed Intelligence e il centro studi Osservatorio Globalizzazione.

Il concime che cambierà (totalmente) l'agricoltura. Alessandro Ferro il 21 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dai gas di scarico della auto a frutta e verdura genuina: sembra un paradosso ma il modo di sfruttare la CO2 cambierà totalmente nei prossimi anni. Ecco come.

Catturare la CO2 dallo scarico del tubo di scappamento e dagli oli esausti delle nostre automobili per utilizzarla nelle serre per la lavorazione degli alimenti: non è fantascienza ma è quello a cui potremmo assistere nel prossimo futuro in un mondo che cambia trainato dalla transizione energetica.

Come funziona

L'intera operazione richiede ottimizzazione, simulazione al computer e progettazione: è l'obiettivo pubblicato su una rivista specializzata dove i ricercatori spiegano dettagliatamente tutti i processi che porterebbero alla trasformazione della CO2 che da dannosa diventerebbe utile. "CO2e la cattura dell'acqua dallo scarico richiedono un raffreddamento tempestivo e cicli rapidi di assorbimento/desorbimento. Gli ingegneri chimici, meccanici e di scienza dei materiali devono lavorare per sviluppare i pezzi necessari per completare il puzzle". Il meccanismo si sta studiando ma, secondo gli scienziati, "potrebbe essere disponibile realisticamente nel giro di un decennio".

Concimazione dai gas di scarico

Diciamo che sembra impossibile, al solo pensiero, ma dai tubi di scappamento delle auto potrà essere avviato un processo che porta alla "concimazione carbonica", tecnica di arricchimento dell'atmosfera che ha due scopi: "compensare le fluttuazioni di concentrazione della CO2 dovute all'utilizzo da parte delle piante e alla naturale variabilità atmosferica e incrementare la concentrazione della CO2 all'interno della serra al fine di ottimizzare e accelerare la reazione di fotosintesi", come viene ben spiegato su Agronotizie. In pratica, in una classica serra dalle medie dimensioni, dopo alcune ore di esposizione al sole la CO2 si riduce di oltre la metà rispetto a quella presente in atmosfera. Da qui c'è un rallentamento della fotosintesi e una minor resa del raccolto. "Sfruttarla, trasformando i prodotti della combustione dei motori in composti utili all'agricoltura e alla supply chain (catena di approvvigionamento, ndr) del cibo - scrivono gli ingegneri - potrebbe permettere uno sviluppo davvero sostenibile dell'agricoltura urbana intensiva".

Come si fa a prendere CO2 dalle auto

Ma come si fa ad avviare il processo dalle nostre automobili? Il team propone di integrare un sistema di liquefazione e stoccaggio della CO2 così da far raffreddare il gas serra sarebbe con uno strumento chiamato scambiatore di calore per poi passare alla fase due di compressione da gas a liquido così da immagazzinarlo più facilmente. Tutta l'energia che farà funzionare questo ciclo sarà data dal calore del motore che, invece di disperdersi nell'ambiente, sarebbe utilizzato come mai fino ad ora. L'anidride carbonica finirebbe all'interno di un recipiente pronta per essere svuotata nei centri di raccolta specializzati o magari utilizzata in una serra.

"Anni fa non pensavamo di poter avere un condizionatore all'interno dell'auto", afferma un ricercatore a Repubblica. "Il nostro è un device del tutto simile e può fare il suo lavoro anche se alloggiato in spazi molto stretti, implementato nel motore". Se si riuscisse ad eliminare una parte di quelle 3,2 miliardi di tonnellate di CO2 delle auto che ogni anni vengono liberate in atmosfera e utilizzarla per far crescere e sviluppare frutta e verdura, sarebbe uno dei più grandi passi in avanti verso la piena realizzazione della transizione ecologica. Come sottolineano le autrici, l'impatto di una tecnologia del genere su larga scala sarebbe enorme. La domanda è enorme perché per ogni chilo di ortaggi sono necessari 2,81 Kg di CO2 e 22 litri d'acqua ma entrambi i componenti (anidride e vapore acqueo) sono tra i composti principali dei tubi di scappamento. Quale modo migliore, seguendo l'ingegno umano, per utilizzarli al meglio?

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario. 

Le fattorie volanti: cosa sta per cambiare. Alessandro Ferro il 20 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Dirigibili adibiti ad orti o fattorie volanti per portare il cibo in qualsiasi zona del mondo: è questo il progetto di uno studio mondiale di architettura premiato ad un concorso. Ecco di cosa si tratta.

Dirigibili convertiti a fattorie o boschi verticali volanti per distribuire cibo in tutto il mondo: è questa la proposta di Mcheileh Studio, importante studio di architettura e design con sede a New York e Melbourne che si è aggiudicato il secondo posto nel concorso "Redesign the World" della rivista Dezeen promosso da Twinmotion, l'ultimo concorso che ha richiesto nuove idee per ripensare il pianeta Terra.

Ecco le fattorie a "larga scala"

La proposta, denominata "Aeroponic 2100", prevede dirigibili che sorvolano Paesi, città e spazi residenziali distribuendo cibo dove è necessario eliminando la necessità di trasportarlo su lunghe distanze tramite le classiche modalità di trasporto ad alta intensità di carbonio (navi e aerei su tutti) liberando terreni attualmente utilizzati per l'agricoltura. La soluzione eliminerebbe anche l'inquinamento creando una "vera soluzione dalla fattoria alla tavola su larga scala", secondo gli architetti di Mcheileh Studio.

I dirigibili del futuro

Secondo quanto si apprende dal progetto, i dirigibili sarebbero climatizzati, autosufficienti, alimentati da energia solare ed eolica e progettati per viaggiare in qualsiasi parte del mondo, compresi gli ambienti desertici e i siti di disastri naturali o provocati dall'uomo. "Visione avvincente per un futuro più mobile", è il motto dello studio di fama mondiale. "La gente di solito pensa agli edifici come cose molto fisse e permanenti, ma non è necessario che lo siano", hanno detto i giudici che hanno premiato l'idea facendola classificare al secondo posto. "L'architettura dirigibile di Mcheileh Studio presenta una visione avvincente per un futuro più leggero e mobile in cui possiamo spostare i nostri edifici dove devono essere senza dover costantemente costruire, distruggere e ricostruire strutture permanenti", aggiungono.

Ecco come funzionano

Ma come funzionerebbero, esattamente, questi dirigibili? Volerebbero a bassa velocità attraverso città e paesi mentre sono collegati a un hub centrale per poi staccarsi e collegarsi a parchi, aree residenziali e nodi di trasporto di massa. L'interno di questi ecologici "boschi verticali" del cielo offrirebbe anche lo spazio per incontri sociali, eventi comunitari e attività ricreative. "La mobilità è un aspetto chiave di questo concetto. La capacità dei dirigibili di viaggiare facilita la distribuzione del cibo direttamente dove è necessario, eliminando così la necessità di grandi fattorie nelle campagne e il trasporto di cibo su lunghe distanze". I dirigibili sono completamente autosufficienti, alimentati da energia solare e sfruttano l'agricoltura aeroponica e idroponica, metodi di coltivazione che non hanno bisogno del suolo. L'acqua piovana viene raccolta dal telaio esterno della nave, immagazzinato internamente e filtrato per nutrire le piante. "L'acqua viene anche raccolta dai mari e dagli oceani e desalinizzata per l'uso. La propulsione dei dirigibili è alimentata da una combinazione di energia solare ed eolica".

Aeroponic 2100 può essere implementato in qualsiasi parte del mondo: dalle grandi città agli ambienti desertici remoti e inospitali. La loro mobilità offre la flessibilità di portare risorse alimentari in aree colpite da disastri naturali o provocati dall'uomo come regioni dilaniate dalla guerra o colpite dalla siccità terra. "Gli interni climatizzati dei dirigibili sono indipendenti dalle condizioni esterne, il che li rende adatti a qualsiasi luogo e allo stesso tempo proteggono le colture da eventi meteorologici estremi", affermano i responsabili del progetto.

Perché i terreni sono insufficienti

Una delle sfide più significative che la razza umana deve affrontare in questo secolo è la produzione e la distribuzione del cibo per tutti. I metodi attuali producono alti livelli di inquinamento dell'aria e del suolo attraverso la crescita, la raccolta e il trasporto di cibo. "La ricerca ha anche dimostrato che i terreni agricoli diventano degradati e meno efficienti nel tempo a causa dell'uso ripetuto di pesticidi. Inoltre, l'insicurezza alimentare sta raggiungendo livelli di crisi in alcune parti del mondo a causa della guerra, della povertà e dello sfollamento di intere comunità a causa del cambiamento climatico".

Ecco perché il progetto mira ad affrontare i problemi relativi alla produzione alimentare in futuro eliminare l'inquinamento, i trasporti inefficienti e i danni agli ecosistemi terrestri: una vera soluzione "dal campo alla tavola" su larga scala. Il concetto deriva dalla combinazione di tecnologia aerospaziale e metodi di agricoltura aeroponica. "Una flotta di dirigibili contiene spazio agricolo impilato verticalmente per la crescita e la raccolta del cibo. I dirigibili sono mercati alimentari mobili che vendono anche cibo".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

·        L’Orto.

Basilico e altre storie. Sua altezza l’orto. Carla Reschia su L'Inkiesta il 25 Luglio 2022.

Basta un piccolo terrazzo per improvvisarsi coltivatori urbani e creare anche in piena città un angolo verde. L’ossigeno è assicurato e con un minimo sforzo arriveranno anche verdure e aromatiche a chilometro zero. 

Da qualche anno il vertical gardening tiene banco con pubblicazioni, mostre, presenze ai vari saloni e mille declinazioni, dall’Ikea alla creazione firmata e su misura. Almeno dal 10 ottobre 2014 quando il Bosco Verticale di Stefano Boeri ha stupito il mondo e sedotto centinaia di emuli, circola l’idea che in poco spazio e senza rinunciare alla dimensione urbana si possa ricreare l’atmosfera di un paesaggio naturale più coinvolgente della solita pianta in vaso.

Il passo successivo è stato rivolgersi dal decorativo al funzionale, ed ecco apparire gli orti verticali. Sono modulabili, a seconda dello spazio a disposizione e sì, con qualche accorgimento funzionano davvero. Realizzarli e mantenerli, infatti, non è così difficile e complesso come si può credere: basta seguire una semplice serie di regole e consigli.

Si tratta, nella pratica, di un insieme di vasi, fioriere, contenitori (bottiglie o cassette) che vengono disposti in verticale e in cui vengono piantati diversi tipi di ortaggi e piante aromatiche. Ci sono in commercio kit completi con strutture già predisposte, anche per la coltura idroponica, ci si può affidare a un progettista per armonizzare e inserire l’orto nell’arredamento della casa o disporlo al meglio sul terrazzo e, infine, si può anche ricorrere al fai-da-te.

Normalmente, infatti, i diversi vasi in cui sono stati piantati i vari ortaggi, vengono semplicemente disposti sulla superficie del pavimento del cortile, del terrazzo o del balcone, minimizzando il numero dei contenitori che possono essere utilizzati. In un orto verticale, invece, i vasi vengono posizionati su una serie di ripiani, aumentando notevolmente, quindi, il numero delle piante che possono essere coltivate e diminuendo il loro ingombro.

Ci sono alcuni punti fermi. Attenzione ai supporti: siano scaffali di legno, di plastica o di metallo, devono essere assicurati bene e ancorati a un muro, o comunque a una superficie solida, per evitare cedimenti improvvisi. Molti preferiscono, se possibile, fissare i vasi direttamente alle pareti o utilizzare dei sistemi di reti o delle catenelle metalliche su cui vengono aggiunti i contenitori.

L’allestimento lascia spazio alla creatività e al gusto individuali: possono essere riciclate anche cassette della frutta, barattoli, bottiglie, vecchi recipienti inutilizzati o qualsiasi cosa possa contenere una pianta. Tenendo presenti, tuttavia, due fattori. Il primo è l’irrigazione. Non ci dev’essere ristagno e l’acqua non dev’essere né troppa né scarsa, quindi occorre prevedere un drenaggio. Inoltre, deve adattarsi alle quantità richieste dalle diverse varietà coltivate.

In ogni caso è sempre consigliabile utilizzare dei sottovasi per evitare che l’acqua in eccesso finisca sul pavimento o sui mobili ed è meglio proteggere le pareti con dei teli cerati o comunque impermeabilizzarle per evitare possibili rischi di umidità, infiltrazioni e muffe.

Con i sistemi di micro-irrigazione, ormai molto avanzati e disponibili sia per giardini e orti sia per piccoli spazi domestici, tuttavia, molti di questi problemi vengono evitati all’origine e si possono anche programmare in modo ottimale gli orari di annaffiatura e il dosaggio.

Un altro aspetto molto importante da considerare con attenzione quando si decide dove posizionare l’orto verticale, è la luce. Occorre che sia costante almeno per alcune ore al giorno ed è meglio che le piante possano ricevere, almeno in parte, anche luce naturale. Inoltre, dovrebbe essere calibrata sulla sensibilità e le necessità delle diverse coltivazioni. Bisogna quindi sia orientare la struttura, sia scegliere dove piantare cosa perché ogni pianta possa sopravvivere e crescere.

E questo porta a un ulteriore e decisivo momento, quello della scelta degli ortaggi da piantare. Tutte le rampicanti, ad esempio, sono ideali perché possono essere fatte sviluppare facilmente in altezza sui sostegni o sulla superficie delle pareti. Sono quindi perfette le piante di zucchine, zucche e pomodori, soprattutto quelli rampicanti e selezionati appositamente per crescere in spazi ridotti. Il trucco, infatti, non sta tanto nello scegliere la giusta verdura, ma nello sceglierne la giusta qualità e varietà.

In questo passaggio è utile nel caso farsi aiutare da un professionista perché la loro crescita non sia di ostacolo e non crei un’ombreggiatura troppo elevata che può minare la sopravvivenza degli altri ortaggi. La scelta migliore, quindi, si deve basare sulla giusta proporzione tra le piante rampicanti e quelle non rampicanti e sull’idea di distribuzione spaziale.

Gli esperti consigliano anche di evitare le piante perenni, non perché siano inadatte alla coltivazione in vaso, ma perché sono più complesse da gestire nel tempo. Richiedono, infatti, rinvasi periodici e maggiori cure. Inoltre, possono essere, all’inizio, meno produttive. Carciofi ed asparagi, per quanto possa piacere l’idea di averli in casa freschi, sono senz’altro sconsigliabili. Ci sono, tuttavia, delle eccezioni, come il rosmarino che richiede solo una semplice potatura periodica e cresce bene anche in uno spazio ridotto.

In generale si possono coltivare facilmente insalate, biete, rapanelli, fragole, spinaci. Si possono inserire anche varie aromatiche, ad esempio erba cipollina e prezzemolo. Bene anche timo, rosmarino, salvia, basilico, maggiorana, menta, che hanno anche il vantaggio di profumare l’ambiente.

Per tenere in ordine, infine, bastano i consueti strumenti da giardinaggio: innaffiatoio, nebulizzatore, palette, rastrello.

Quando coltivare un orto diventa terapeutico. Gioia Locati l'8 Luglio 2022 su Il Giornale.

"Missione Sogni" inaugura orti negli ospedali pediatrici per facilitare il recupero psico fisico dei ricoverati. Così i bambini imparano a conoscere i ritmi della natura.

Chi affonda le mani nella terra o ne pianta i semi e li osserva trasformarsi e crescere, sviluppa intuito perché apprende i cicli della vita. Per questo, secondo la psicoanalista Clarissa Pinkola Estes, lavorare la terra porta diretti al cuore delle cose, ad esempio, si capisce istintivamente quanto c’è da “coltivare” - dei propri interessi come delle relazioni - e quando invece occorre allontanarsi.

Nei Paesi anglosassoni sono sempre più numerose le associazioni che mettono a disposizione dei malati orti e giardini per favorirne un recupero psico-fisico. “Sulla base di quegli studi, nel 2011, abbiamo dato vita alla nostra Missioni Sogni e realizzato orti negli ospedali milanesi - ha spiegato Antonella Camerana, presidente di Missione Sogni che, poche settimane fa, ha inaugurato un nuovo angolo verde riservato ai bambini ricoverati dell’Ospedale Vittore Buzzi”.

Si tratta del settimo “orto dei sogni” insieme a quelli avviati, negli anni, con il supporto tecnico dell’Associazione Parco Segantini di Milano, all’Ospedale Sacco, alla clinica pediatrica De Marchi, all’Istituto dei Tumori (Spazio Vita), all’Ospedale Niguarda, alla Fondazione Arché e al Fatebenefratelli.

I bambini che sono seguiti nelle diverse fasi di realizzazione dell’orto, imparano anche a mangiare sano e a non sprecare il cibo e le risorse.

“Sono stati coinvolti fino ad oggi più di mille piccoli pazienti - ha aggiunto Camerana - Nell’orto terapeutico, l’esperienza diventa anche formativa: i bambini seminano verdure, frutti e essenze aromatiche, partecipano a laboratori sulle piante e le loro proprietà, imparano a conoscere quali animali e insetti vi abitano, si impegnano in cucina a preparare cibi con i prodotti raccolti. Si divertono, apprezzano la bellezza della natura e capiscono l’importanza di prendersene cura”.

Ha precisato Camerana: “Da subito ci è sembrato importante affiancare all’ortoterapia anche percorsi didattici condotti da esperti educatori e oggi più che mai è fondamentale infondere nei bambini una sensibilità ambientale più attenta e rispettosa degli equilibri indispensabili alla vita, al benessere delle persone e alla scoperta della natura e dei suoi frutti, attraverso il contatto con la terra”.

Una stagione via l’altra. Chi prepara il terreno in primavera, stagione di semina e pacciamatura; chi raccoglie i frutti in estate e predispone l’orto per l’autunno; chi, con le foglie che cadono e le prime nebbie, impara a gestire il compost e chi, d’inverno, apprende le regole della semina in semenzaio. Le stagioni si presentano puntuali, nonostante l'inquinamento umano stia guastando l'ambiente e continuano a sorprenderci con la loro potenza e capacità trasformativa.

“Per un bambino ospedalizzato poter frequentare un contesto diverso dal proprio ambiente di cura, anche a livello tattile e olfattivo, diventa uno stimolo alla guarigione” è convinto Gianvincenzo Zuccotti, direttore del Dipartimento di Pediatria dell’Ospedale “Vittore Buzzi”. “Utilizzare le piante e i giardini per la cura e la riabilitazione della persona porta rilevanti benefici di tipo emotivo, sociale, affettivo e fisico”.

Conclude Camerana: "Il successo che i nostri orti hanno avuto in questi anni ci stimola a proseguire su questa strada, per essere di sostegno a un numero sempre maggiore di bambini e di famiglie”.

·        Il Biologico.

Prevenire è meglio che curare. Il biologico salverà il clima. Chiara Buzzi su L’Inkiesta il 17 Dicembre 2022.

Dalla tradizione agricola austriaca impariamo che lavorare in biologico è una delle tante misure che aiuta a ridurre i gas serra

Quante volte sentiamo parlare di cambiamento climatico? Un po’ come la parola sostenibilità, questo termine è ormai un po’ troppo inflazionato nel linguaggio comune e alcune volte accade che il suo significato e le dinamiche che vi sottendono non siano poi così chiare. Ovviamente si tratta di un fenomeno causato, indotto, attribuito all’uomo e che interessa vari aspetti della nostra vita, delle nostre abitudini, del pianeta in cui viviamo e in cui siamo stati accolti. Pensiamo all’aumento della temperatura, per il quale non ci occorrono particolari strumentazioni o studi per capire che è effettivamente avvenuto, lo sentiamo ogni anni e mediamente è causato dai gas a effetto serra quali l’anidride carbonica (CO2), il metano (CH4) e il protossido d’azoto (N2O). Gli effetti del cambiamento climatico sono vari e già rilevabili e così come sono già moltissime le realtà a livello globale che si stanno impegnando per ridurre queste emissioni e per invertire il corso dei fatti, allo stesso tempo siamo i progressi da fare sono ancora molti. Più o meno a tutti i livelli è possibile mettere in campo delle misure correttive, dei comportamenti preventivi e migliorativi, che possono cambiare chiaramente anche a seconda dei budget a disposizione e delle risorse coinvolte. A livello agricolo, ad esempio, è possibile operare salvaguardando le emissioni di gas serra favorendo la rotazione delle colture, alternando raccolti diversi sullo stesso terreno promuovendo una sempre costante e naturale fertilità, seguendo i principi dell’agricoltura biologica, eliminando pesticidi e concimi chimici in virtù di una maggiore salubrità del suolo.

Quando leggiamo di un innalzamento della temperatura anche solo di un paio di gradi, per quanto in valore assoluto non sembri un cambiamento sensibile, ci sono una serie di animali, piante, microorganismi che ne possono risentire. Ogni elemento è collegato perché tutto ciò che ruota attorno al concetto di bio – sostenibilità, utilizzo non invasivo delle risorse, economia circolare il più possibile autoalimentata – contribuisce fortemente a rafforzare i meccanismi naturali dell’ecosistema. Diventa quindi determinante puntare attivamente sull’agricoltura come misura per la salvaguardia del clima rendendola protagonista di investimenti, studi e ricerche e facendone parte della soluzione anziché del problema.  Un terreno sano e concimato naturalmente a letame risulta più adatto ad immagazzinare una quantità maggiore di anidride carbonica – eliminandola dall’atmosfera. Non possiamo collegarci a questo punto al concetto di “humus”, alla sua continua formazione, inteso proprio come una componente attiva e fondamentale per la composizione organica del terreno, che interagisce con la parte minerale influenzando (positivamente) le proprietà chimiche e fisiche del suolo. Un buon humus garantisce una maggiore capacità di ritenzione idrica del terreno, delle condizioni di sviluppo migliori per piante e microorganismi, così come l’alta concentrazione di elementi nutritivi e il mantenimento di un ph corretto. In buona sostanza,  la presenza di un humus di qualità si traduce in condizioni di nutrizione ottimali anche per le piante, grazie alle elevate dotazioni in elementi nutritivi e alle dinamiche più equilibrate che si instaurano tra fase solida e liquida. Poiché l’humus è costituito da oltre il 50% di carbonio, ogni tonnellata aggiuntiva di humus allevia l’atmosfera di oltre 1,8 tonnellate di CO2. Sono numeri incredibili se pensiamo che potrebbero essere replicati in scala e in maniera più costante e continua in tante zone del mondo.

L’agricoltura biologica dà un importante contributo alla protezione del clima quando si parla di coltivazione delle piante: da un lato, attraverso una gestione attiva, in cui le piante proteggono il suolo tramite l’inerbimento, legano CO2 e, attraverso i legumi, legano l’azoto contenuto nell’aria. Dall’altro perché l’agricoltura biologica fa a meno di fertilizzanti azotati facilmente solubili e pesticidi chimico-sintetici perché estremamente energivori, soprattutto nella produzione. Senza la produzione, il trasporto e l’uso di queste sostanze, l’emissione di gas serra viene sensibilmente ridotta.

Anche per quanto riguarda gli animali e gli allevamenti, vi sono delle connessioni positive con un approccio più consapevole e sano ai terreni. Un allevamento orientato al biologico aiuta a proteggere il clima generando un impatto minore sull’ambiente perché evita gli allevamenti intensivi, i mangimi artificiali, preserva il dispendio di risorse e fa sì che il numero di capi allevati sia adeguato al luogo e al pascolo. La percentuale di erba nei mangimi per mucche e altri ruminanti è particolarmente elevata: sulle linee guida del Logo biologico dell’EU, AMA-Marketing ha elaborato un marchio di qualità per i prodotti Bio austriaci: l’AMA-Biosiegel. Le direttive per l’ottenimento del marchio governativo AMA si rifanno a quelle previste dalla Legislazione europea per il settore biologico. Tali direttive assicurano alta qualità degli alimenti, severi standard ambientali e origine protetta. Il bollino tondo rosso e bianco dell’AMA-Biosiegel garantisce non solo la provenienza nazionale della materia prima, ma anche la sua lavorazione e trasformazione in territorio austriaco. Per quanto riguarda la tracciabilità della carne, poi, l’AMA-Biosiegel garantisce non solo che l’animale è nato in Austria, ma che sempre qui è stato allevato, nutrito, macellato e infine lavorato.

100 per cento di ingredienti biologici – per lo più da sistemi di controllo di qualità dei prodotti agricoli riconosciuti

prodotti naturali ottenuti nel rispetto delle rigide direttive in fatto sia di produzione sia di lavorazione (per es. utilizzo di soli aromi naturali)

rinuncia a olio di palma e olio di palmisto

imballaggi ecologici, per esempio senza PVC

severi criteri microbiologici e chimico-fisici, oltre le prescrizioni di legge

controlli costanti delle aziende, analisi puntuali del prodotto ed esami sensoriali

tracciabilità delle materie prime e delle risorse

rigide norme igieniche nella produzione

Cancellata l'agricoltura biodinamica, via alla legge di riforma del biologico. Dopo le polemiche, alla Camera è stata trovata l’intesa ma senza le tecniche bollate come “stregonerie”. ANNAMARIA CAPPARELLI Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

È bastato cancellare l’equiparazione alle modalità produttive biodinamiche e il disegno di legge che regola l’agricoltura biologica ha ottenuto ieri il lasciapassare alla Camera. Il relatore della proposta di legge, Pasquale Maglione (M5S), era convinto che, spazzato il campo dalla legge di Bilancio e dalla nomina del presidente della Repubblica, il Parlamento avrebbe affrontato in tempi stretti il tema del biologico. E così è stato. Anche se l’iter è partito in salita, e senza il colpo di spugna sulle produzioni biodinamiche il provvedimento si sarebbe arenato.

TUTELA DEL MADE IN ITALY

Tutto questo, nonostante il mantra sia di produrre green. Ora l’ultima “prova” al Senato: lì si capirà se la questione biodinamica, che ha tenuto in scacco la nuova normativa, è di forma o di sostanza. Certo non si potevano ignorare gli interventi di scienziati di primo piano che avevano impallinato il riferimento a tecniche produttive bollate come «stregonerie».

Anche se forse è molto più stregonesco interrare scorie pericolose per la salute che elementi organici che male al terreno non fanno. E non è mancato il “fuoco amico” di una parte del mondo agricolo. Comunque, raggiunto il primo risultato, ora l’appello della politica e del mondo produttivo, con Coldiretti in prima linea, è uno solo: fare presto al Senato.

C’è però da precisare che dei tre riferimenti all’agricoltura biodinamica ne è stato cancellato uno solo. E in ogni caso, se il motivo del contendere era quello di concedere contributi a chi sotterra nei campi “corni di vacche” o segue le fasi della luna, bisogna però, per correttezza, ricordare che i soldi questi imprenditori li incassano comunque come produttori biologici. Si tratta, infatti, di una sparuta pattuglia, non più di 4mila operatori, che destinano una piccola parte dei terreni coltivati a bio per realizzare prodotti che peraltro sono sempre più richiesti dai consumatori.

Al di là delle polemiche, resta l’importanza di una legge finalizzata a qualificare sempre di più le produzioni biologiche rafforzando i controlli e tutelando il vero made in Italy, tenendo conto che oggi l’Italia ricorre a ingenti quantitativi di materie prime importate da Paesi terzi che non offrono le stesse garanzie di salubrità delle coltivazioni nazionali.

LE NOVITÀ

Tra le principali novità, il marchio bio per i prodotti ottenuti da materia prima italiana, un Piano nazionale per agevolare la conversione al biologico, misure per favorire le filiere e i bio distretti, finalizzati anche a sostenere le attività multifunzionali collegate alla produzione biologica, e ancora, incentivi per la ricerca e un piano nazionale delle sementi bio.

La legge, va ricordato, è in linea con le strategie comunitarie del Green Deal e della nuova Pac (Politica agricola comune) e del Piano nazionale di ripresa e resilienza che ha stanziato 300 milioni per sostenere contratti di filiera e distretti bio. Anche perché l’obiettivo indicato da Bruxelles è di raggiungere nel 2030 il 25% dei campi bio. Si tratta, tra l’altro, di una grande opportunità per il Mezzogiorno che oggi detiene la palma del biologico, dimostrando così di aver intrapreso una scelta agricola d’avanguardia improntata alla piena sostenibilità.

IL SUD TIRA LA VOLATA

L’Italia, prima nella Ue con il 16% della Sau, stacca la Spagna (10,1%), la Germania (9,07%) e la Francia (8,06%). Oltre 2 milioni di ettari, quasi 90mila operatori, consumi in crescita come l’export che ha raggiunto 2,6 miliardi. A tirare la volata sono le regioni del Sud, dalla Sicilia (370mila ettari) alla Puglia (266mila ettari), fino alla Calabria, dove è bio un campo su tre. La partita della transizione ecologica, dunque, si gioca soprattutto su biologico e agro energie.

Ma il problema sono le importazioni. Nel confronto con i prodotti bio stranieri, realizzati a basso costo, il made in Italy è poco competitivo se non dispone di armi per comunicare correttamente la sua distintività e qualità. La Coldiretti ha rilevato in uno studio che gli acquisti sui mercati terzi hanno segnato una crescita del 13%, per un totale di 210 milioni di kg di prodotti, di cui quasi un terzo dall’Asia.

Si tratta di cereali, frutta fresca e secca e colture industriali, ma anche olio e agrumi. E in una fase positiva per i consumi gli agricoltori italiani non possono perdere questa occasione.

CONSUMI IN CRESCITA

«Con gli acquisiti di prodotti bio made in Italy che nel 2021 hanno sfiorato il record di 7,5 miliardi di euro di valore, tra consumi interni ed export – dice il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini – mai come in questo momento storico abbiamo bisogno della legge sul biologico e per questo va accelerato l’iter al Senato. Un provvedimento fortemente sostenuto dalla Coldiretti che, con Codacons, Federbio, Legambiente e Slow Food, si è impegnata per rispondere alle attese di produttori e consumatori che si avvicinano sempre più al biologico».

Nell’ultimo decennio – rileva uno studio dell’organizzazione – le vendite bio totali sono più che raddoppiate (+122%) e il successo nel carrello sostiene l’aumento della produzione nazionale, fornendo una spinta al raggiungimento degli obiettivi della strategia Farm to Fork del New Green Deal che punta ad avere almeno 1 campo su 4 dedicato al bio in Italia. D’altra parte già oggi il 64% degli italiani mette prodotti “ecologici” nel carrello, e a questi consumatori bisogna offrire informazioni precise su quello che portano in tavola. E per questo scopo saranno importanti le piattaforme digitali, previste dalla normativa, per garantire una piena informazione circa la provenienza, la qualità e la tracciabilità dei prodotti con una delega al governo per rivedere la normativa sui controlli e garantire l’autonomia degli enti di certificazione.

Agricoltura biologica: inquina meno? Costa di più? Come si certifica? Il vero e il falso.  CHIARA AMATI su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Mai come in questi giorni l’agricoltura biologica è materia di dibattito. Tra sostenitori e detrattori si discute spesso dei reali benefici, per se stessi e per l’ambiente. Le domande più frequenti e tutte le risposte

Il biologico, che cos’è

Grazie a due emendamenti di Riccardo Magi, ieri la Camera dei Deputati ha espunto la parola «biodinamica» dal disegno di legge 988, approvato nella stessa giornata con 421 sì. E, ora, in attesa di andare al Senato. Un passo importante perché, in sostanza, la legge 988 disciplinerà la produzione biologica e dunque determinerà anche i fondi europei che le verranno attribuiti.

Ma che cosa si intende per biologico? «Si tratta di un metodo agricolo volto a produrre alimenti con sostanze e processi naturali. Con un impatto ambientale limitato perché incoraggia a usare l’energia e le risorse naturali in maniera responsabile, rispetta e valorizza la biodiversità, consente di conservare gli equilibri ecologici territoriali, favorisce la fertilità del suolo, rispetta e mantiene la qualità delle acque», spiega Stefano Di Marco, ricercatore presso l’Istituto per la Bioeconomia del CNR, dipartimento di Scienze bioagroalimentari. Che aggiunge: «L’agricoltura biologica favorisce il benessere degli animali e motiva gli agricoltori a soddisfarne le particolari esigenze». E alla domanda se sia aperto alle biotecnologie, l’esperto risponde che il termine biologico è tra i più divisivi di sempre. E una frangia del mondo scientifico lo accusa di eccessiva regolamentazione. «Ci sono microbiologi e genetisti — sottolinea Di Marco — che lamentano un ristretto, al limite dell’esclusivo, perimetro di norme. L’agricoltura biologica, per definizione, è la più naturale possibile. Questo fa sì che l’utilizzo delle biotecnologie venga escluso da ogni pratica. Per molti uomini di scienza una grande opportunità persa che può solo penalizzare l’intera filiera».

Il biologico è totalmente naturale?

L’agricoltura biologica rifiuta ogni sorta di sostanza chimica di sintesi, di quelle impiegate nell’agricoltura tradizionale per intenderci. Tradotto, significa che non ammette l’uso di diserbanti, erbicidi, pesticidi e quant’altro. Tutte sostanze, queste, tossiche e nocive per la salute perché, una volta utilizzate, restano attaccate ai prodotti che, poi, finiscono in tavola. Ed è solto un esempio.

L’agricoltura biologica, poi, rifiuta anche l’utilizzo di OGM (organismi geneticamente modificati), vieta le tecniche di maturazione forzata degli alimenti, rifiuta prodotti che non siano totalmente naturali. Un po’ come facevano i nonni dei nostri nonni.

L’agricoltura biologica fa uso di pesticidi?

Sì e no. L’agricoltura biologica non utilizza pesticidi di sintesi, ma ammette quelli di origine naturale. Esistono sostanze, quali il solfato e l’idrossido di rame, oppure lo zolfo, che sono ammesse, ma che possono comunque avere un impatto ambientale non trascurabile. Il rame, ad esempio, è utile ai contadini per combattere la peronospora, malattia fungina deleteria per alcuni tipi di piante, come i pomodori, ma in quanto a metallo pesante, resta un possibile inquinate del suolo.

Il cibo bio è realmente più naturale?

Sono numerosi, e in crescita, gli studi che dimostrano come su frutta e verdura bio esistano meno residui di pesticidi. «Si tratta comunque di piccole quantità». Sempre secondo la scienza, poi, meno pesticidi non vuol dire nessun pesticida. Esistono anche pesticidi organici che non sono per forza di cose più sicuri di quelli convenzionali. Certo, poi la tossicità dipende dalla concentrazione, da quanto e per quanto ne siamo esposti.

I prodotti biologici hanno migliori proprietà nutrizionali?

Di certo c’è che l’offerta di cibo biologico oggi è molto ampia, e in crescita costante: dai farmers market hipster alle bancarelle del mercato sotto casa fino a super e ipermercati — la grande distribuzione organizzata — la proposta è variegata. Diverse ricerche americane evidenziano quanto, in alcuni casi, gli alimenti biologici contengano una maggiore concentrazione di antiossidanti. Ciò avviene perché «le piante li produrrebbero come una sorta di pesticidi naturali, a differenza delle normali coltivazioni che si servono dell’aiutino chimico per sopravvivere ai parassiti». Altri studi dimostrano che gli alimenti bio possono avere concentrazioni leggermente maggiori di vitamina C e acidi grassi omega-3, mentre altri ancora sono certissimi: «Non esistono differenze significative rispetto al cibo non bio».

L’agricoltura biologica rende tanto quanto quella tradizionale?

Le rese per ettaro dell’agricoltura biologica sono in genere inferiori a quelle dell’agricoltura convenzionale, ma molto dipende dal tipo di coltura e dalle condizioni ambientali. In genere non si riscontrano grandi differenze medie di resa tra i due sistemi agricoli. Talvolta capita che le coltivazioni biologiche arrivino a produrre il 50 per cento in meno.

L’agricoltura biologica rispetta il territorio?

Sì perché vengono utilizzate tecniche di coltivazione antiche: la rotazione delle colture finalizzata a mantenere il suolo in salute; la consociazione per consentire alle piante di respingere una i parassiti dell’altra; il sovescio attraverso cui si interrano alberi atti a fertilizzare il suolo; la piantumazione delle siepi per un habitat capace di accogliere quegli insetti che fungono da antiparassitari.

L’agricoltura biologica promuove la biodiversità?

Vero, e non solo: spesso, infatti, supporta una maggiore biodiversità dell’agricoltura convenzionale. D’altra parte l’agricoltura intensiva, più impattante sulla biodiversità se misurata per unità di area, richiede in media una minore superficie per produrre la stessa quantità di cibo. Motivo per cui permetterebbe di lasciare incolta una maggiore quantità di terra: E di preservarne la biodiversità, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. L’agricoltura biologica inquina? No, l’agricoltura biologica non inquina perché non disperde nell’ambiente sostanze chimiche.

Il biologico costa di più?

Sì. I prodotti biologici, rispetto a quelli tradizionali, hanno un costo maggiore perché è maggiore il costo di produzione. L’assenza di additivi chimici, vietati per legge affinché un prodotto possa essere etichettato come «bio», rende minore la resa dei raccolti e maggiore lo scarto.

Come riconoscere il vero bio al super o al mercato?

Al supermercato possiamo fidarci di un prodotto indicato come bio, soprattutto se è confezionato ed etichettato correttamente. Nel caso specifico, infatti, possiamo agevolmente verificare il percorso del processo di certificazione e controllo. Percorso, questo, che fa da garanzia. In caso di prodotti bio sfusi, invece, è possibile capire se siano certificati rivolgendoci direttamente agli addetti preposti, così da avere le informazioni che ci servono. Gli addetti preposti sono tenuti a conoscere la provenienza delle merci. E al mercato? Qui potremmo anche avere qualche difficoltà in più, soprattutto se chi vende non è un agricoltore. Nel caso, meglio acquistare il prodotto confezionato, etichettato e certificato: quello sfuso potrebbe non avere origine certa.

Se, d’altro canto, fosse un agricoltore, basta chiedergli le certificazioni dell’azienda e consultare l’allegato con l’elenco di prodotti per i quali è certificato bio. I prodotti venduti come biologici devono essere elencati in questo documento. Diversamente c’è qualche inghippo. Il certificato dell’azienda agricola dovrebbe essere sempre visibile ai clienti.

Come si certifica un prodotto bio?

Come riporta il sito feder.bio, «un prodotto biologico, sia che provenga da coltivazioni, allevamento o trasformazione, porta con sé la garanzia del controllo e della certificazione di organismi espressamente autorizzati per l’Italia dal Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali. Come previsto dalla normativa europea (in particolare i regolamenti CE n. 834/2007 e n. 889/2008, che dettagliano gli aspetti tecnici della produzione, dell’etichettatura, del controllo e che valgono anche per i prodotti importati), la certificazione biologica copre tutti i livelli della filiera produttiva. A tutela del consumatore, non solo chi produce, ma anche chiunque venda prodotti marchiati come biologici (freschi o trasformati, in campagna, all’ingrosso o al dettaglio), infatti, deve essere sottoposto al controllo, con ispezioni in loco. Ogni organismo ha un proprio codice che viene riportato sull’etichetta del prodotto insieme al logo biologico dell’Unione europea. Le regole in materia di etichettatura e uso del logo sono rigorose, per difendere i consumatori da confusioni con altro tipo di coltivazioni di denominazione fantasiosa quali “agricoltura ecologica”, “naturale”, “pulita” (per cui mancano sia criteri per la denominazione che il minimo quadro di controllo). L’etichetta biologica non può essere utilizzata per i prodotti che contengono organismi geneticamente modificati (OGM)».

Il consiglio: «Controllate sempre la certificazione quando acquistate un prodotto biologico», si legge ancora sul sito feder.bio.

Chi certifica il biologico? In Europa ogni Stato membro ha incaricato autorità pubbliche e organismi di controllo privati di eseguire rigorose ispezioni, operando sotto la supervisione o in stretta collaborazione con le autorità centrali. Lo Stato membro attribuisce a ogni ente addetto al monitoraggio un codice identificativo diverso, che viene poi riportato sull’etichetta di ciò che compriamo. Il codice indica che il prodotto acquistato proviene da un’azienda ispezionata da un organismo di controllo, che garantisce il rispetto della regolamentazione per i prodotti biologici. Nel nostro Paese gli organi che possono effettuare i controlli e rilasciare la certificazione delle produzioni biologiche sono autorizzati dal ministero delle Politiche agricole e forestali e sono sottoposti, a loro volta, al controllo dello stesso ministero e delle Regioni.

·        Il Legname.

È davvero possibile piantare 6,6 milioni di alberi in Italia entro il 2024? Carlo Canepa (Pagella Politica) su La Repubblica il 10 marzo 2022.  

Sentendo il parere degli esperti le criticità sono molte, alcune quasi insormontabili. Per esempio i fondi stanziati. 

Entro la fine del 2024 l'Italia dovrà piantare almeno 6,6 milioni di alberi in 14 città metropolitane, da Milano a Roma, passando per Torino, Napoli e Genova. Questo è uno degli oltre 500 obiettivi che il nostro Paese ha fissato con l'Unione europea per ricevere nei prossimi cinque anni un totale di 191,5 miliardi di euro del "Piano nazionale di ripresa e resilienza" (Pnrr), finanziato con risorse europee per rilanciare l'economia italiana dopo la crisi causata dalla pandemia. 

Numeri e pareri degli esperti alla mano, però, gli oltre 6 milioni di alberi promessi dal Pnrr sono un traguardo quasi impossibile da raggiungere. Il piano del governo ha infatti una serie di punti deboli e i soldi messi a disposizione sembrano essere insufficienti.

Il piano del Mite

Tra le risorse destinate alla transizione ecologica, il Pnrr ha stanziato 330 milioni di euro per la "tutela del verde urbano ed extraurbano". Il piano varato dal governo Draghi mira a piantare "almeno 6,6 milioni di alberi, per 6.600 ettari di foreste urbane", con diversi obiettivi: mitigare l'impatto dei cambiamenti climatici e i problemi legati all'inquinamento atmosferico, e ridurre la perdita di biodiversità. Con "foresta urbana" si fa generalmente riferimento a gruppi di alberi che sono collocati in aree urbane o limitrofe alla città, lungo le strade o in parchi, giardini e zone attualmente abbandonate. 

Per avere un ordine di grandezza del progetto, stiamo parlando di una superficie pari a oltre 9 mila campi da calcio, con un albero piantato ogni nove cittadini residenti in Italia. Secondo le stime del Ministero della Transizione ecologica (Mite), le 14 città metropolitane che saranno coinvolte raggruppano quasi 1.270 comuni, con una popolazione complessiva di 21 milioni di persone sul 15,5% del territorio nazionale. Oltre al Mite e alle 14 città metropolitane, nell'iniziativa sono coinvolte altre istituzioni, tra cui l'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) e il Comando unità forestali ambientali e agroalimentari dell'Arma dei Carabinieri. 

"Mille alberi per ettaro sono un numero molto ambizioso", ha spiegato a Green&Blue Francesco Ferrini, professore di Arboricoltura all'Università degli studi di Firenze e presidente del distretto vivaistico-ornamentale della provincia di Pistoia. "Basti pensare che per le foreste urbane la densità è in media intorno ai 100-150 alberi a ettaro". 

I 6,6 milioni di alberi sono stati comunque un passo indietro rispetto a quanto promesso dal precedente secondo governo Conte. A novembre 2020 l'allora ministro dell'Ambiente Sergio Costa aveva infatti dichiarato che con il Pnrr, all'epoca in fase di stesura, sarebbe stata finanziata la messa a dimora di addirittura 50 milioni di alberi, cifra poi ridotta di quasi dieci volte. Molto probabilmente, come vedremo meglio tra poco, hanno pesato le difficoltà legate al raggiungimento dell'obiettivo.

Le scadenze in arrivo

Nel cronoprogramma del Pnrr, due traguardi intermedi scandiscono l'obiettivo generale di piantare almeno 6,6 milioni di alberi entro il 2024. Un traguardo è stato fissato per la fine del 2022 e prevede di piantare almeno un milione e 650 mila alberi. Un altro traguardo, fissato per la fine del 2021, è stato raggiunto lo scorso 30 novembre, con l'approvazione del ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani del "Piano di forestazione urbana ed extraurbana". Questo testo è il quadro di riferimento tecnico-scientifico che andrà rispettato a livello nazionale per il raggiungimento del traguardo finale fissato dal Pnrr. Se gli impegni con l'Ue non saranno rispettati, l'Italia correrà il rischio di vedersi bloccare l'erogazione di una parte dei fondi, in particolare la rata prevista per la seconda metà del 2024. 

La promessa del Pnrr non nasce dal nulla. Sul fronte della forestazione urbana, i progetti finanziati dal Pnrr seguiranno infatti la strada già tracciata dal cosiddetto "decreto Clima", approvato nel 2019. In totale quel decreto aveva già stanziato circa 33 milioni di euro, per gli anni 2020 e 2021, finanziando la messa a dimora di oltre 365 mila alberi (il piano è un po' in ritardo: la graduatoria dei progetti vincitori per il 2021 è uscita a metà dicembre scorso). In base al cronoprogramma del Mite, le risorse già stanziate e gli alberi finanziati rientreranno (pag. 69-71) nel computo per il raggiungimento del traguardo finale. Ora il Pnrr promette comunque di fare quasi venti volte tanto - 6,6 milioni di alberi contro 365 mila - di qui al 2024.

L'albero giusto al posto giusto

Come sottolinea in più parti il piano del Mite, ognuna delle 14 città metropolitane ha le sue peculiarità sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista della vegetazione. Per questo motivo, dovrà essere seguito il principio dell'"albero giusto al posto giusto": ogni albero piantato, scrive il piano, dovrà essere "coerente con le caratteristiche biogeografiche ed ecologiche dei luoghi", evitando specie che, tra le altre cose, possono causare allergie nella popolazione. 

Il piano non prevede interventi solo sui territori urbani, ma anche nelle zone limitrofe alla città e nelle zone extraurbane. Tra gli interventi finanziabili, potranno essere incluse aree "recentemente incendiate" e le "aree agricole intensive". Inoltre, tra le mille piante per ettaro da piantare potranno essere considerati non solo gli alberi, ma anche gli "arbusti sempreverdi", perché secondo il piano del ministero "possono concorrere in modo significativo alla rimozione del particolato", ossia le polveri con un diametro inferiore al centesimo di millimetro. 

Per la messa a dimora dei primi 1,6 milioni di alberi, da piantare entro la fine di quest'anno, ogni città metropolitana dovrà presentare almeno cinque proposte progettuali, per la forestazione di almeno 150 ettari. L'avviso pubblico del Mite con i dettagli dei finanziamenti dovrà essere pubblicato (pag. 70) entro la fine di marzo.

Sono soldi ben spesi?

Prima ancora di valutare la fattibilità della promessa contenuta dal Pnrr, vale la pena chiedersi se i 330 milioni di euro destinati dal piano alla forestazione urbana siano soldi ben spesi oppure no. 

"Come in tutti i progetti per la gestione del territorio, la risposta dipende dagli obiettivi che sono stati prefissati con questo intervento", ha spiegato a Green&Blue Giorgio Vacchiano, ricercatore e docente in Gestione e pianificazione forestale all'Università Statale di Milano, e indicato dalla rivista scientifica Nature tra gli undici scienziati emergenti nel mondo nel 2018. "Il motivo principale del piano finanziato dal Pnrr non può essere il sequestro dell'anidride carbonica", ha sottolineato Vacchiano. "In Italia abbiamo circa 20 miliardi di alberi, che assorbono più o meno il 10% delle nostre emissioni. I 6 milioni di alberi promessi in più non spostano praticamente nulla a livello di capacità di mitigazione del cambiamento climatico". 

Nel piano di forestazione approvato dal ministero poco meno di due pagine sono dedicate ai "risultati attesi", dove al primo posto viene messo proprio l'assorbimento di CO2. Letteratura scientifica alla mano, lo stesso piano ricorda però quanto gli alberi in città possano contribuire all'assorbimento delle sostanze inquinanti o al contenimento delle temperature.  

"In questo caso, nelle zone urbane gli alberi possono essere un'utile misura di adattamento, per limitare le ondate di calore, per assorbire le piogge o per contenere l'inquinamento atmosferico", ha sottolineato Vacchiano. "In città anche un piccolo numero di alberi può dare il proprio contributo, ma questi interventi non devono essere una distrazione per fare altro, come la decarbonizzazione dei trasporti o dell'industria". 

Al di là degli obiettivi, lo sforzo promesso dal Pnrr sarà davvero consistente, se confrontato con lo stato della forestazione urbana nel nostro Paese. Secondo i dati Istat più aggiornati, pubblicati a giugno 2021, al 2019 interventi di forestazione urbana erano presenti in 43 capoluoghi di provincia e interessavano 1.100 ettari di terreno, una superficie cresciuta del 30% rispetto ai nove anni precedenti. Stiamo parlando comunque di un'area grande soltanto un sesto rispetto a quella promessa di essere alberata grazie al Pnrr in tre anni.

Soldi e piante non basteranno

Secondo alcuni esperti, nonostante le buone intenzioni dietro alla promessa fatta nel Pnrr, le risorse messe a disposizione - 330 milioni per circa 6,6 milioni di alberi - sono comunque insufficienti.

"Lo stanziamento di 50 euro a pianta dovrà bastare per il suo acquisto, il trasporto, la messa a dimora, la gestione e la cura, dall'irrigazione alla difesa contro le specie invasive", ha sottolineato Ferrini a Green&Blue. "Questa cifra è compatibile con l'impianto di piantine alte al massimo un metro-un metro e mezzo, non di alberi già formati. L'aumento dei costi delle materie prime e dell'energia, in corso da mesi, farà inoltre lievitare i prezzi delle piante probabilmente anche del 30%". 

E non solo i soldi rischiano di essere insufficienti: ad oggi gli alberi prodotti in Italia nei vivai, da dove verranno quelli per le aree urbane, non sono in grado di soddisfare il traguardo degli oltre 6 milioni di alberi piantati nel giro di tre anni.

"Per il verde urbano, al momento la quantità di piante presente nei vivai italiani è intorno ai 6 milioni di alberi, ma circa il 90% va all'estero", ha dichiarato Ferrini. "È stato fatto un grosso progetto senza sentire chi può fornire le piante". Una soluzione temporanea potrebbe essere quella di acquistare gli alberi da altri Paesi, ma questa ipotesi non è esente da critiche. "Da un punto di vista ambientale, non avrebbe alcun senso far arrivare le piantine necessarie dall'estero, per esempio dalla Spagna o dai Paesi Bassi", ha aggiunto Vacchiano. "Dobbiamo produrre le piante il più vicino possibile a dove le dobbiamo piantare". 

Nel piano di forestazione del Mite alla "reperibilità del materiale vivaistico" sono dedicate solo poche righe, per ricordare che nell'acquisto delle piante le città metropolitane dovranno rispettare le normative nazionali ed europee. Ma nella lista degli oltre 500 obiettivi del Pnrr, tra rischi e ipotesi legati al raggiungimento del traguardo sui 6,6 milioni di alberi piantati vengono comunque sottolineati (si vedano gli investimenti M2C4-19 e M2C4-20) in maniera molto generica "possibili ritardi nell'ottenimento di materiale dai vivai per la fase di impianto", oltre che "possibili problemi dovuti a eventi meteorologici estremi". 

Un rapporto sullo stato di attuazione del Pnrr, pubblicato dal Mite a fine dicembre 2021, ha sottolineato (pag. 71) che resta ancora la necessità di "svolgere un approfondimento per confermare la completa disponibilità di piante e sementi rispetto al target di piante da mettere a dimora". 

Secondo il piano, le risorse messe a disposizione dovranno bastare anche per monitorare la gestione e la cura degli alberi piantati, "per almeno sette anni successivi alla realizzazione del rimboschimento". Questo rende ancora più corta la coperta dei finanziamenti. 

"Le foreste urbane presentano problemi relativi alla sicurezza, per esempio quelli relativi alla stabilità delle piante, che vanno continuamente monitorate, o alla sostituzione degli alberi che non hanno attecchito", ha spiegato a Green&Blue Maria Cantiani, professoressa di Ecologia forestale all'Università di Trento. "L'impressione è che le risorse stanziate dal piano si concentrino sull'acquisto e la piantagione, e non sulle fasi successive".

La carenza di spazi

Grande attenzione andrà poi data a dove saranno piantati gli alberi: anche qui non mancano le incognite. 

In primo luogo, bisognerà verificare la reale disponibilità di spazi in città e nelle zone limitrofe. "Gli spazi urbani a disposizione delle città metropolitane per la creazione di foreste urbane non sono molti", ha sottolineato Cantiani a Green&Blue. "E di recente alcune città hanno preferito destinare gli spazi a disposizione per altre finalità, come la creazione di parcheggi".

In secondo luogo, sarà fondamentale nei progetti proposti dalle città metropolitane valorizzare gli spazi che già ci sono e che potranno essere usati per rispettare la promessa del Pnrr. "Il posto preciso dove mettiamo un albero fa una grande differenza: per esempio, l'assorbimento degli inquinanti funziona entro poche decine di metri da dove sono prodotti", ha evidenziato Vacchiano. "I benefici degli alberi devono potere essere accessibili a tutta la cittadinanza, ma nelle nostre città gli alberi non sono distribuiti in maniera uguale. Il piano di ogni città dovrà assolutamente ragionare sui criteri di accessibilità e concentrarsi sulle fasce più vulnerabili della popolazione". 

Secondo Vacchiano, una soluzione per aumentare la disponibilità di spazi urbani potrebbe essere quella di dotare le città metropolitane di risorse ulteriori per permettere loro di recuperare aree inutilizzate, come i parcheggi in aree ex industriali, per dedicarle alla forestazione.

I tempi stretti

Infine, oltre alla reale capacità dei comuni coinvolti di presentare progetti e di concretizzarli, non bisogna sottovalutare i giorni che effettivamente si hanno a disposizione per piantare gli alberi. 

"Di norma passano sei mesi per vedersi approvare i finanziamenti: se quest'anno arrivassimo a luglio o agosto, si partirebbe poi a piantare a ottobre o novembre", ha sottolineato Ferrini. "Il riscaldamento globale sta riducendo sempre di più la stagione per la piantagione: se tutto andrà bene, avremo a disposizione un centinaio di giorni all'anno per piantare le piante, tra metà ottobre e metà aprile, togliendo i festivi e i giorni di eccessivo maltempo". 

Come abbiamo anticipato, entro la fine del 2022 andranno già piantati oltre 1,6 milioni di alberi. Ogni giorno che passa, il tempo a disposizione per raggiungere questo traguardo è sempre meno.

Giganti silenziosi. “Vite di alberi straordinari”, la biografia arborea che ci mancava. Eugenio Giannetta su L'Inkiesta il 4 Febbraio 2022. 

L’architetto Zora del Buono ha scritto un libro che è un piccolo gioiello, frutto del viaggio durato un anno tra Europa e America del Nord, alla ricerca di alberi secolari di fronte alla cui longevità l’uomo scompare. 

«Ero in Georgia, in una ex piantagione di schiavi, ora un bellissimo parco. C’era un palazzo e piccole capanne. E questo albero antico, una quercia americana. Davanti c’era un segno che era già vivo quando Colombo non era ancora al mondo. E ho pensato: sono pazzesche le cose terribili che noi umani facciamo. Uccidiamo, schiavizziamo, opprimiamo persone e animali, e quest’albero se ne stava lì non toccato da niente. Poi ho pensato: i veri vecchi e grandi sono gli alberi. Voglio conoscerli». 

È nata in questo modo l’idea dell’architetto Zora del Buono di scrivere “Vite di alberi straordinari”, viaggio tra le piante più antiche del mondo, pubblicato in Italia da Aboca. Animata da un profondo desiderio di scoperta l’autrice ha viaggiato per un anno tra Europa e America del Nord per visitare gli alberi secolari, di fronte alla cui longevità l’uomo scompare. Li ha immortalati con la sua Rolleiflex analogica e raccolto aneddoti e storie. Quattordici alberi in totale, dal Tasso di Ankerwycke al Tiglio di Schenklengsfeld, che hanno finito per cambiarle la visione di ciò che ci circonda: «C’è un mondo che non ha bisogno di noi» – ha detto del Buono – «ma dobbiamo proteggerlo perché non può difendersi da solo. Così da un lato sono diventata più umile, dall’altro più depressa, perché ho visto quanto può essere distrutto velocemente un albero che ha vissuto migliaia di anni». 

Ed è lì che è scattata una domanda più grande: come sarà il futuro degli alberi? Si parla sempre più di sostenibilità, ma ancora troppo poco si fa per proteggerli: «In Germania – spiega del Buono – è tragico, molti alberi stanno morendo a causa del cambiamento climatico. La maggior parte degli alberi che ho visitato sono in pericolo. Con il riscaldamento globale, la vegetazione cambierà, arriveranno organismi e piccoli animali che danneggeranno molte piante che non sopravvivranno. Un minore consumo aiuterebbe. E poi riforestare. Credo si possa proteggere solo ciò che si ama e si conosce. Perciò dobbiamo iniziare dal nostro piccolo».

Angel Oak

Quercia viva, o Leccio della Virginia, tra i 500 e i 1500 anni, alto più di 20 metri, «magico e intricato». Ha foglie coriacee e oblunghe, «lucide sulla pagina superiore, ricoperte di peluria bianca e feltrosa su quella inferiore». Il finale della storia di questo albero, che ora si può vedere solo fino alle cinque del pomeriggio, prima che il custode ne chiuda attorno i cancelli, del Buono lo racconta con un detto popolare: “Per salvare tutto l’albero devi prenderti cura delle radici” e le radici di questo albero raccontano tanto soprattutto di schiavismo, ma anche di uno dei pochi luoghi dove bianchi e neri potevano riunirsi, stare insieme, ballare il charleston.

Generale Sherman

È l’albero che ha plasmato di più l’autrice: si tratta di una sequoia di 2200 anni alta 83 metri, per una circonferenza di oltre 25 metri, che si trova in California. «Le sue dimensioni sono così imponenti che mi hanno tolto il fiato. L’unica esperienza metafisica mi è capitata li, probabilmente l’unica nella mia vita. C’era un temporale, ero tutta sola lì tra questi alberi millenari e ho sentito una specie di voce dal cielo, non vocale, più olistica, una voce del mio defunto padre, che non conoscevo affatto perché ero piccola quando è morto. C’era improvvisamente una connessione con qualcosa di più grande». Il nome ufficiale di Generale arriva nel 1897, con una targa affissa sul tronco.

Hiroshima Survivor

Su questo albero vige un divieto: non si può toccare, scatenando ovviamente i più profondi istinti di trasgressione. È un pino bianco del Giappone. Un giovincello di appena 390 anni alto 117 centimetri e si trova nell’arboreto di Washington. Un bonsai, il cui termine si compone di «bon, ovvero la scodella piatta, e sai l’albero piantato». Su di lui ha vegliato a lungo una persona dal mattino alla sera: Jack Sustic, il cui interesse per i bonsai inizia a metà anni ’80 durante il servizio nell’esercito in Corea del Sud. Nel 1996 viene selezionato come primo stagista al National Bonsai & Penjing Museum e poi al National Arboretum di Washington, dove diventa curatore dal 2002 al 2016 con l’avallo di Saburo Kato, «il maestro bonsai più autorevole del Giappone», che a sua volta nel 1974 costituì una collezione di 53 piante donate a privati americani. Già solo queste due storie nella storia meriterebbero un libro a parte.

Castagno dei Cento cavalli

Il nome deriva da una leggenda: è una notte di tempesta e cento cavalieri «insieme ai loro cavalli trovarono riparo sotto questo gigantesco albero, che pare sia il più grosso al mondo, o almeno quello che ha il tronco più grosso». L’età si aggira tra i 2000 e i 4000 anni, l’altezza è di 22 metri e la circonferenza di quasi 58 (misurata l’ultima volta nel 1780). La circonferenza dei tre cormi oggi è di 13, 20 e 21 metri e il castagno si trova a Sant’Alfio, Parco dell’Etna, Catania. Menzionato per la prima volta in un documento del 1611, ha una chioma ampia e maestosa, con un fogliame avvolgente, tra i più vecchi alberi da frutto al mondo, ma la cosa che più affascina di questo castagno, secondo del Buono, è «che si compone di tante fratture, è che si tratta di un essere vivente in continuo cambiamento, un work in progress».

Pando

Ultimo di questa piccola selezione è il Pando, un «albero che oltrepassa la nostra dimensione, quella temporale e quella spaziale, e perfino la nostra immaginazione fatica a comprendere la natura di questo organismo». Si tratta di un pioppo tremulo americano di più di 80mila anni. Superficie: 44 ettari. Peso: 6 milioni di chilogrammi. Cormi: 47mila. È l’essere più antico della terra, con una corteccia bianca, un corpo esile, foglie triangolari-ovate, con un picciolo lungo e mobile. L’unico organismo con una superficie più estesa è un’armillaria, un fungo a nordest dell’Oregon. Un intervallo di incendi ne ha favorito nel tempo la longevità, alleggerendolo da conifere infestanti, ma ora le sue condizioni stanno peggiorando a causa del cambiamento climatico. E purtroppo non è il solo, ragione in più per riflettere sul cambiamento climatico e sulle sue conseguenze.

La via del legno. Report Rai PUNTATA DEL 03/01/2022 di Antonella Cignarale. Collaborazione di Marzia Amico. Immagini di Chiara D’Ambros, Davide Fonda, Andrea Lili, Fabio Martinelli. Grafiche di Daniele Bonazza 

Quando acquistiamo un prodotto di legno chi ci assicura che il taglio in foresta sia di origine legale?

In Italia importiamo l‘80% del legno che usiamo, l’importazione da paesi extra europei prevede severi controlli, quella dai paesi dell’Unione Europea, no. Sarebbe responsabilità di ogni paese membro assicurare che il taglio nelle proprie foreste avvenga nel rispetto delle leggi, ma i controlli non sono omogenei tra gli Stati: quando vengono bypassati, il legno illegale può circolare sul mercato comunitario insieme a legno legale senza che ve ne sia traccia. I commercianti che lo acquistano non sono tenuti a controllare né la legalità del taglio in foresta né la filiera di trasformazione da cui deriva il legno. Per i consumatori, l’unica informazione obbligatoria da fornire è il “made in”, l’ultimo anello di una lunga catena di trasformazione. Ci sono aziende che si affidano ai controlli privati della certificazione forestale, ma per i prodotti di arredo composti da molteplici componenti è impossibile controllare ogni singolo momento di produzione, incluso il taglio in foresta.

LA VIA DEL LEGNO Di Antonella Cignarale Collaborazione Marzia Amico

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Nell’ottobre 2018, in una notte, la tempesta Vaia ha falciato le nostre foreste, lasciando a terra 8 milioni di metri cubi di legname. Il 35% è ancora lì, ma ad acquistarlo sono state soprattutto aziende cinesi e austriache.

ANTONIO BRUNORI- SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Loro hanno acquistato il tondo, l’hanno segato, l’hanno assemblato e vendono a noi le travi di lamellari, vendono mobili.

ANTONELLA CIGNARALE Noi possiamo vedere su un prodotto made in Austria e invece è l’albero caduto da noi.

ANTONIO BRUNORI- SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Ma il mercato globale è così, eh.

ANTONELLA CIGNARALE FU0RICAMPO L’Italia importa l’80% del legno che usa. E lungo la filiera gli attori e le fasi di trasformazione per arrivare al prodotto finito sono molteplici e quando compriamo una cassettiera, una sedia o un tagliere ci viene indicata solo l’ultima fase di trasformazione e non l’origine

COMMESSO NEGOZIO DI ARREDAMENTO Questo è rovere naturale

ANTONELLA CIGNARALE Da dove viene? Hai idea della provenienza del legno?

COMMESSO NEGOZIO DI ARREDAMENTO Mi metti in difficoltà perché non lo so

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Se chi vende non ha l’obbligo di tracciare la provenienza del legno, come possiamo essere sicuri di non alimentare il mercato del legno illegale?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Buonasera. Quando andiamo a comprare una scrivania, una scarpiera o un mobile qualsiasi da Ikea, Leroy Merlin, Mondo Convenienza, ma questo è un ragionamento che vale anche se entri in un piccolo negozio, un negozio di lusso, chi ce lo dice da dove viene il legno? La domanda può sembrare banale, non lo è, perché il traffico del legno di origine illegale è uno dei principali business dei criminali nei confronti dell’ambiente. Ecco, si calcola che dal 15% al 30% del legno tagliato nel mondo abbia un’origine illegale. Il Regolamento Europeo sul Legno impone di tracciare tutta la filiera se il legno viene importato da fuori dall’Europa, è più indulgente invece se viene tagliato all’interno delle foreste dei paesi membri. Conta sulla vigilanza degli stati. E quindi basta la fattura del fornitore e la specie botanica. Ma è sempre così tutto legale? La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quando importiamo legno da paesi extra europei c’è l’obbligo di identificare con un codice addirittura l’albero dal quale è stato ricavato un palo, come questo che arriva dalla Guyana.

ANTONELLA CIGNARALE Lei sa questo tronco esattamente da dove viene, cioè non dalla Guyana in generale ma anche dal punto preciso della sub-regione?

ALESSANDRO CALCATERRA PRESID. FEDECOMLEGNO – IMPORTATORE Una regione particolare e la comunità amerindia che lo ha tagliato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Invece i fornitori del legno che proviene dall’Unione europea non sono obbligati a indicare la foresta d’origine né chi l’ha tagliato o trasformato.

ALESSANDRO CALCATERRA PRES. FEDECOMLEGNO- IMPORTATORE L’unica informazione che si può avere è la specie botanica.

ANTONIO MORTALI – DOTTORE FORESTALE Questa pianta qua è completamente secca, quindi questa va sicuramente tagliata. È stata fatta la delimitazione dei confini con questo colore rosso. Oltre qua non si taglia perché non c’è l’autorizzazione al taglio.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Con l’autorizzazione al taglio si stabilisce quanti e quali alberi tagliare e quali invece preservare. Per non commettere errori, un’azienda può farsi seguire da un consulente privato e i controlli spettano alle autorità di ogni paese europeo. In Italia ai carabinieri della forestale.

ANTONIO MORTALI – DOTTORE FORESTALE Uno può anche tagliare un bosco senza aver fatto né comunicazioni né autorizzazione, in questo caso qua va incontro a delle sanzioni logicamente.

ANTONELLA CIGNARALE Oggi noi possiamo dire che tra tutti i paesi dell’Unione Europea ci sia omogeneità nella capacità di controllo della filiera del legno e della sua legalità?

DIEGO FLORIAN- DIRETTORE FSC ITALIA Purtroppo no. I governi non sempre sono attrezzati per aver la capacità di controllare puntualmente le operazioni in foresta.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Tra questi c’è la Romania, dove si trovano 2/3 delle foreste primarie europee e tra le aree disboscate illegalmente ci sono anche foreste protette da leggi comunitarie. Per questo la Romania è stata richiamata dalla Commissione Europea e per contrastare il mercato del legno illegale, il governo rumeno ha creato un’applicazione. Al passaggio di un camion carico di tronchi, inserendo la targa nell’app, si può verificare se quell’operatore ha il permesso al taglio, se trasporta la quantità che ha dichiarato, e la sua destinazione. Monitorando la rotta forestale di Gurghiu, in Transilvania, giornalisti locali hanno filmato camion non autorizzati al trasporto, altri invece trasportavano una quantità di tronchi superiore a quella dichiarata. Con questo sistema, legno legale e legno illegale vengono mischiati sul camion e la tracciabilità si perde. Altro espediente per bypassare i controlli è quello di effettuare più trasporti con una sola autorizzazione. Questo camion verde ha registrato il trasporto alle 13:39 ma lo stesso giorno alle 19:12 è stato filmato mentre trasportava un altro carico di legno, non registrato. Ci sono aziende che per dare la certezza di fornire legno legale certificano una parte della loro produzione pagando loro stessi i controllori.

DIEGO FLORIAN – DIRETTORE FSC ITALIA Un prodotto in possesso di una certificazione forestale ci dà la possibilità di risalire la filiera di trasformazione e avere assicurazione che a monte c’è una foresta gestita in maniera responsabile.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ci sono aziende che certificano solo la foresta da disboscare, altre l’intera filiera dal taglio al prodotto finito. Le certificazioni sono in mano a due Ong, FSC e PEFC, che però delegano a un organismo di accreditamento il controllo di vari enti certificatori privati che effettuano, materialmente, le ispezioni nei boschi e nelle aziende. E solo quando tutta la filiera è certificata il prodotto finale riporta il marchio nell’etichetta.

ANTONIO BRUNORI – SEGRETARIO GENERALE PEFC ITALIA Qui c’è qualcuno che ha controllato, qua non lo so.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Vediamo in quali grandi catene troviamo legno di cui è certificata tutta la filiera. Cominciamo da Mondo Convenienza.

ANTONELLA CIGNARALE Avete la certificazione FSC o PEFC sulla sostenibilità ambientale voi?

COMMESSA MONDO CONVENIENZA Dovrei informarmi perché sinceramente non lo so.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E mostrandoci la scheda dell’azienda che ha prodotto una cassettiera delle due certificazioni non c’è traccia.

ANTONELLA CIGNARALE Voi come Mondo Convenienza che vendete non lo sapete se è riciclato o no questo pannello?

COMMESSO MONDO CONVENIENZA Ma perché ti interessa?

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Perché dare una seconda vita al legno che buttiamo evita di abbattere altri alberi. E l’Italia si distingue per essere il maggiore produttore europeo di pannelli in truciolare riciclato. Anche Mondo Convenienza vende mobili con pannelli riciclati, ma per saperlo abbiamo dovuto chiedere come Report. Ecco qua la nostra cassettiera comprata a marzo: fianco, cappello, frontale cassetto, spondine cassetto, zoccolo sono componenti derivati da legno riciclato mentre i componenti che derivano da legno prelevato in foresta sono il fondo cassetto, la schiena e la maniglia. Chi assembla tutti i componenti è un fornitore italiano che a sua volta compra i componenti semilavorati da altre aziende italiane, che a loro volta comprano la materia prima da fornitori con certificazione forestale localizzati in Germania, Italia, Romania. E anche se la foresta è certificata, non tutta la filiera lo è, e la tracciabilità si perde. Mondo Convenienza non è riuscita a risalire al paese in cui è avvenuto il taglio in foresta per i suoi mobili. Vediamo se a Ikea invece i prodotti con il marchio della certificazione forestale li troviamo.

SERVIZIO CLIENTI IKEA Insomma ve ne accorgete dal bollino.

ANTONELLA CIGNARALE Quindi se c’è un prodotto FSC dentro Ikea…

SERVIZIO CLIENTI IKEA Sappiamo che se è FSC abbiamo una sostenibilità, se non c’è scritto niente non lo sappiamo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ikea ci dice che più del 98% del legno che usa è riciclato e certificato FSC. Allora ci mettiamo a cercare il bollino ma sulle sedie, i divani, anche sotto i tavoli troviamo solo il Made In e un codice accanto. Su alcuni prodotti, come su questo sgabello, troviamo un cartellino verde con su scritto “positivo per le persone e per il pianeta” COMMESSO IKEA Noi amiamo dire adatto per te e per il pianeta, soprattutto per te, perché comunque ti permette di lavorare con la schiena continuamente comoda.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Sicuro, ma quando sul prodotto c’è il marchio della certificazione forestale e il codice di licenza, inserendolo nel database di FSC, si può risalire all’ultimo produttore dell’oggetto e all’ente certificatore che lo ha controllato. Per capire, invece, da che filiera arriva lo sgabello positivo per noi e per il pianeta abbiamo chiesto a Ikea: il legno deriva da foreste certificate ma sulle fasi di lavorazione non ci ha fornito specifiche informazioni. Dei prodotti certificati comprati da Leroy Merlin, invece, ci è stata tracciata tutta la filiera del legno. Mentre è impossibile per un’azienda risalire all’origine di tutti i componenti delle cucine. A cominciare da chi da 50 anni produce quella più amata dagli italiani.

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI È un modello del 1967, all’interno è costruita in tamburato.

ANTONELLA CIGNARALE E questa invece?

GIANMARCO SCAVOLINI – RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Qui siamo su un modello di grande successo, qui siamo sul legno massello.

ANTONELLA CIGNARALE Anche se io adesso apro questo tiretto è proprio tutto legno questo?

GIANMARCO SCAVOLINI – RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Sì.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Certo, oggi i modelli sono cambiati, i pannelli sono soprattutto riciclati e certificati e il rifornimento di legno e la lavorazione dei suoi mobili Scavolini l’affida ad aziende terze che consegnano ante, fondi cassetto, piani di lavoro già rifiniti. Scavolini li fora, incolla le cerniere e assembla i pezzi.

ANTONELLA CIGNARALE Quali sono i paesi da cui proviene il legname

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI La Croazia, la Romania.

ANTONELLA CIGNARALE A chi produce l’anta per voi fatta di legno della Romania gli chiedete qualche garanzia in più?

GIANMARCO SCAVOLINI - RESPONSABILE QUALITÀ E AMBIENTE SCAVOLINI Noi non chiediamo una cosa specifica a questo, noi richiediamo a tutti i fornitori di sottoscrivere che il legno sia legale, poi più di questo non riusciamo a fare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche perché la legge non obbliga alla trasparenza i commercianti in Europa. La certificazione che rilasciano le due ong FSC e PEFC non è che sia una patente di onestà. Certo poi se beccano qualcuno che trasgredisce gli tolgono la certificazione e pubblicano li nome sul sito. Però è noto che ci sono aziende che commerciano legno di provenienza illegale utilizzando la linea convenzionale, quella non certificata. Gli viene anche abbastanza facile perché non c’è l’obbligo da parte dell’azienda di avere tutti prodotti certificati. Lasciano che a controllare quella parte certificata siano quelle due ong mentre sull’altra parte, su quella non certificata sulla linea convenzionale lasciano ai controlli dello Stato dei tagli in foresta. Insomma capite come la filiera è molto fragile.

·        Il Tovagliolo.

Servomuto. Breve storia del tovagliolo. Claudia Saracco su L'Inchiesta il 29 Agosto 2022.

Il pezzo di stoffa che va alla sinistra del piatto e ha dato origine al coperto, ha una storia lunga e appassionante. Come spesso accade c’entra anche il genio di Leonardo da Vinci

Geometria «Mastro Leonardo… da qualche tempo ha abbandonato la scultura e la geometria per risolvere i problemi delle tovaglie del Sire Lodovico, la cui sporcizia – me l’ha confessato – lo assilla. E adesso ha messo in tavola la sua soluzione: una tovaglia individuale posta davanti ad ogni ospite, da insozzare al posto della tovaglia grande». Lettera di Pietro Alemanni, all’epoca ambasciatore di Firenze e Milano, al signore di Firenze. Luglio 1491

Lavatrice Il Codex Atlanticus, la più ampia collezione degli scritti e dei disegni di Leonardo da Vinci, mostra numerosi disegni che schematizzano come piegare i tovaglioli. Il genio di Leonardo arrivò anche a immaginare macchinari ruotanti per asciugarli dopo il lavaggio. Era (quasi) nata la lavatrice

Piegatura Nel 1629 all’Università di Padova si insegna l’arte della piegatura artistica e viene pubblicato un trattato a cura del tedesco Mattia Giegher. La moda torna in voga solo nel corso del Novecento con cigni, ventagli, code di rondine e ninfee di stoffa che rubano a scena ai piatti

Coperto Nel corso del Rinascimento è realizzato in tessuti pregiati, piegato in tre o in quattro e posizionato sopra il piatto insieme con un biscottino, una sorta di stuzzichino che dà l’avvio al pranzo. Da questa antica pratica nasce il termine “coperto” che ancora oggi utilizziamo

Sinistra Il suo posto è a sinistra del piatto dopo le forchette, piegato a libro con l’apertura rivolta verso l’esterno per agevolare la presa con la mano destra, spiega l’esperta di buone maniere Elda Lanza nel libro “Il tovagliolo va a sinistra” (Vallardi editore). Nell’apparecchiatura alla francese, invece, va a destra

Ghigliottina L’era delle pieghe arzigogolate si conclude nel Settecento, spiega Joan Sallas nel libro intitolato “Gefaltete Schönheit” (Bellezza piegata). «I tovaglioli piegati sono iniziati come fenomeno aristocratico e sono finiti sotto la ghigliottina durante la rivoluzione francese» 

Dita Nell’antica Grecia «tovaglie e tovaglioli erano sconosciuti; il posto di quest’ultimo era preso da un impasto morbido, su cui venivano strofinate le dita», spiega l’archeologo Hugo Blümner in “The Home Life of the Ancient Greeks”. Nell’antica Roma si era soliti usare un pezzo di pane, il cosiddetto “pane da bocca” che poi veniva mangiato o destinato ai cani. I romani introdussero anche due tipi di stoffa legati alla tavola: il sudarium, una sorta di salvietta per detergere il viso, e la mappa, una grande tovaglia per mangiare sdraiati

Forchetta Ad attribuirgli il ruolo che noi oggi conosciamo potrebbe essere stata la forchetta. «L’introduzione della forchetta ha fatto sì che il mangiare diventasse un processo così pulito, soprattutto in contrasto con il recente passato, che il tovagliolo non ha più mantenuto la sua posizione come oggetto d’uso, ma è diventato semplicemente un ornamento e un oggetto da cerimonia» scrive Albert Aylmer nel 1887 sulle pagine della rivista americana Good Housekeeping

Arte Negli Anni Cinquanta la trattoria romana dei Fratelli Menghi diventa il ritrovo abituale di intellettuali e artisti che disegnano su ogni cosa capiti loro sotto mano per pagarsi la cena: tra gli habitué del locale ci sono, tra i tanti, Mario Mafai, Federico Fellini, Ennio Flaiano, Mario Monicelli, Alberto Moravia e Sandro Penna

Amarcord «Un giorno, al ristorante, mentre scribacchiavo disegnini sul tovagliolo è venuta fuori la parola Amarcord». Federico Fellini

75 i cicli di lavaggio industriale cui è sottoposto in media un tovagliolo di stoffa. Secondo uno studio dell’Ente Bilaterale Lavanderie Industriali, dopo 57 lavaggi il tessuto ammortizza la sua impronta ambientale

45×45 la dimensione media, ma ne esistono anche di più piccoli per i buffet in piedi

Frangino si chiama così quello usato dal sommelier per pulire la bottiglia da eventuali residui di tappo, asciugare le “lacrime” dopo la stappatura e appoggiare la bottiglia sul braccio passando da un tavolo all’altro

Plin Gli agnolotti di Langa, più piccoli di quelli tradizionali, vengono chiamati plin e serviti al tovagliolo, ovvero cotti, scolati e portati in tavola avvolti in un tovagliolo bianco senza l’aggiunta di alcun condimento

Famosi quello su cui il regista Steven Spielberg siglò un accordo milionario all’ex Amy Irving e quello dell’intesa tra il calciatore Lionel Messi e il Barcellona, siglato in un bar e conservato al museo del Barça

Thatcher Nel 2015, un tovagliolo con l’impronta delle labbra di Margaret Thatcher è stato battuto all’asta per 2 mila sterline

90 Ce ne sono oltre 90 nella collezione del Metropolitan Museum of Art

Islanda A Heimaey, un’isola a sud dell’Islanda, Eygló Ingólfsdottir ha una collezione privata di 14 mila esemplari di stoffa decorata, iniziata perché «da piccola non c’era niente da fare»

·        I sensi del buon gusto.

Olfatto, tatto, vista, gusto e calore: come nasce il buon sapore (o il cattivo). Mangiare è un gesto naturale ma anche quello che coinvolge tutti i nostri sensi. CLETO CORPOSANTO su Il Quotidiano del Sud il 14 agosto 2022

MANGIARE è una delle cose più naturali che facciamo. Mangiamo per ragioni biologiche, perché dagli alimenti traiamo nutrimento indispensabile alla nostra vita. Ma mangiamo anche per altre ragioni, tante, diverse fra loro: quella che ci accomuna tutti è probabilmente l’uso dell’atto di alimentarsi all’interno del nostro intessere relazioni sociali. Lo facciamo tutti, è una caratteristica della specie umana ma anche molte specie animali usano il pasto come elemento di socialità e definizione dei rapporti. Mangiamo anche da soli, certo, ma mangiare in compagnia assume un significato tutto diverso: lo sanno bene, per esempio, coloro i quali a causa di limitazioni dovute per esempio a intolleranze gravi, consumano gran parte dei propri pasti in ambienti sicuri, magari rinunciando a uscire con amici e conoscenti.

Per loro, la percezione del danno percepito dalla propria intolleranza si trasforma in un vero e proprio danno sociale della malattia, che li colpisce limitando la naturale propensione a costruire capitale relazionale, quella sorta di propulsore virtuale del nostro essere donne e uomini sociali: in letteratura, il danno relazionale percepito si chiama Sonetness, ed è un altro tassello dei disturbi legati ad una condizione di non perfetta salute fisica. Mangiare da soli, inoltre, può addirittura dare l’impressione che i gusti che conosciamo cambino: le cose possono apparire diverse al nostro palato a seconda della situazione in cui consumiamo i nostri alimenti. Com’è possibile? Forse dipende anche dal fatto che la percezione non rappresenta una manifestazione oggettiva delle cose, quanto piuttosto una loro interpretazione. Le percezioni sensoriali si intrecciano indissolubilmente con i significati, e così facendo tracciano in maniera più definita i confini sfumati dei nostri ambienti quotidiani, e persino del sapore dei nostri alimenti. Anche perché se è vero che tutti i nostri sensi sono coinvolti in differenti situazioni di vita quotidiana, è altrettanto vero che nel cibo la percezione ne mette in allerta molti: dall’olfatto al tatto, passando per la vista e il gusto, passando anche per il calore. La valutazione di un alimento è insomma un fatto sensoriale totale, una fusione di esperienze che genera, infine, il sapore.

Ma che rapporto abbiamo con il sapore? Che significato ha – se ne ha uno – il “buon sapore” rispetto al “cattivo sapore”, che ruolo sociale possono avere, in definitiva, il gusto e il suo opposto, il disgusto?

Una proposta interessante su questo versante è quella fornita dal sociologo, antropologo e filosofo francese Pierre Bourdieu, che di fatto continua quel percorso di pensiero inaugurato a cavallo tra ‘800 e ‘900 da Durkheim e Mauss: l’obiettivo è quello di ricondurre a variabili sociologiche le categorie kantiane. Il che significa, in sostanza, che al pari delle nostre percezioni dello spazio, del tempo o della autonomia della persona, sono socialmente condizionati anche i nostri giudizi su ciò che è bello o brutto, raffinato o volgare, interessante o banale. Di più: nella sua analisi, tali giudizi sono la materia prima con la quale i gruppi sociali rappresentano e plasmano la loro differenziazione.

Ma il lavoro di ricerca di Boudieu si spinge oltre, è addirittura più complesso: svolge una meticolosa indagine nella Francia degli anni ’60, annotando stili di alimentazione molto diversi tra diverse classi sociali. Gli industriali e i commercianti, per esempio, utilizzano per l’alimentazione una quota percentuale più alta del loro reddito, e privilegiano la quantità e i cibi pesanti e ricchi, sia in senso calorico che economico: in questo – soprattutto sulle quantità – sono simili, con le dovute differenze dovute alla minore capacità economica, agli operai. Il ceto medio ad alto capitale culturale, invece, come ad esempio professionisti e professori, si definisce in contrapposizione strutturale a questo tipo di gusto: come ricorda lo stesso Bourdieu “costituisce in termini negativi il gusto popolare come gusto per le cose pesanti, grasse, grossolane, e si indirizza verso le cose leggere, fini, raffinate”.

Più in dettaglio, la ricerca mostra che le persone più ricche di capitale culturale che economico (e quindi professori ma anche studenti universitari), “si contrappongono in modo quasi consapevole, con una ricerca dell’originalità al minor costo economico, che rende inclini all’esotismo e al populismo gastronomico (piatti contadini), ai ricchi ed ai loro cibi ricchi, propinatori e consumatori di grandi mangiate, corpulenti e grossolani”. Il contributo di Bourdieu è insomma più ampio di quello dei suoi predecessori, e lo portano ad ipotizzare che le preferenze e i gusti non siano scelte consapevolmente mirate a produrre status: sono invece profondamente incorporate nei soggetti sociali, fino a diventare quasi una seconda natura.

Come avviene questo processo di assimilazione? Avviene attraverso un meccanismo culturale definito habitus. Una sorta di imprinting sociale, con schemi che funzionano prima di giungere alla coscienza e all’ordine del discorso e che nascondono, sotto gesti automatici o aspetti apparentemente insignificanti – le abilità pratiche, il modo di incedere, di sedersi, di soffiarsi il naso, la maniera di tenere la bocca quando si mangia o si parla – “quelli che solo impropriamente potremmo chiamare dei valori, mettendo all’opera i principi più di fondo di costruzione e di valutazione del mondo sociale, quelli cioè che esprimono in modo più diretto la divisione del lavoro”.

In definitiva, l’habitus è fatto da schemi incorporati, che si costituiscono nel corso della storia collettiva, per essere poi acquisiti nel corso della storia individuale. Una sedimentazione del collettivo nell’individuale. Non è quindi scelto dal soggetto ma costituisce il soggetto stesso, e per questo è difficile se non impossibile cambiarlo volontariamente. Le scelte di gusto, insomma, non sono mai meramente strumentali, perché il gusto in qualche modo è un prodotto della storia, del modo in cui ciascuno si colloca nella trama simbolica della propria cultura. Non si sceglie di consumare un bene per imitare chi sta più in alto nella gerarchia sociale quanto, piuttosto, per aderire a un sistema di valori che demarca negativamente ciò che sta più in basso; in questo modo si costruisce la distanza da quelli considerati ceti inferiori, come fossero portatori, chissà perché, di cattivo gusto.

Così, la separazione tra i diversi gusti non è una semplice divisione del mondo, ma costituisce un’operazione con cui certe pratiche e certi beni vengono differenziati e distinti o a cui viene dato più valore di altri. Affinché si producano gusti, devono esistere beni e pratiche considerati di buono o cattivo gusto, distinti o volgari. Questi beni e pratiche classificati e gerarchizzati hanno, allo stesso tempo, la funzione di classificare e gerarchizzare gli individui all’interno di una scala che va dagli uomini di buon gusto a quelli di cattivo gusto. Così, nella realtà simbolica e materiale, la differenza, quando viene chiamata “cattivo gusto”, diventa disuguaglianza sociale.

Le persone, insomma, hanno inclinazioni e scelgono pratiche e beni non consapevolmente, ma in armonia con i canoni del legittimo, cioè in accordo con il loro habitus e per il loro habitus. In questo senso, il gusto stigmatizza e stabilisce differenze sociali, cioè è uno strumento che, quando agisce dall’ “esterno” dell’individuo, gli attribuisce un’identità, e quando agisce dall’ “interno” dell’individuo, produce meccanismi di autoidentificazione sociale. Così inteso, il gusto tende a diventare una guida alle posizioni sociali che rafforzano i rapporti di dominio e, in questo senso, esercita la funzione di un vero e proprio strumento di potere.

·        Cibi Biblici.

Caterina Maniaci per “Libero quotidiano” il 29 maggio 2022.

Nel deserto, alle prese con calamità di ogni genere, sperando ogni giorno di arrivare alla Terra Promessa; nei lunghi giorni di guerra e di schiavitù, nell'apocalisse del diluvio universale, messi alla prova da tradimenti, omicidi, adulteri, fame, sconforto, crisi di fede... E poi i tempi della dominazione romana, Gesù che comincia a predicare e a farsi nemici potenti, fino alla condanna alla morte in croce. Seguita da una nuova storia, costellata di persecuzioni e viaggi pericolosi.

Un destino complicato quello tracciato nella Bibbia, dall'Antico al Nuovo Testamento, senza esclusione di colpi. Ma al centro di questi millenni tanto tempestosi ci sono ampie oasi di serenità; perlopiù trascorse a tavola. Un modo per affrontare i mille disagi e per assaporare il bello della vita, per tirarsi su, potremmo prosaicamente dire. 

Ecco dunque un susseguirsi appetitoso di pane del deserto, il pane bianco lievitato, il vino speziato, lo spezzatino di vitello con maggiorana e zucca, lo stufato di manzo con olive, la minestra di lenticchie, il pilaf di lenticchie e orzo, la minestra di fave e miglio, il croccante di Giuda, la composta di uva passa e pistacchi... La tradizione gastronomica dei Patriarchi di Israele, da Abramo a Isacco e Giacobbe, fino ai tempi di Cristo, appare ricca, curiosa e per molti versi anche innovativa.

Negli ultimi tempi si è riscoperto questo patrimonio poco conosciuto e si moltiplicano le iniziative per riportare in tavola i migliori piatti della Bibbia. Libri, siti in Rete, chef che hanno riportato nei ristoranti questi menu che rivelano aspetti particolari e che, ovviamente, raccontano anch' essi, da un altro punto di vista la storia della salvezza. 

Lo fa da anni Moshe Basson, patron di uno dei ristoranti più famosi di Gerusalemme, l'Eucalyptus. Basson è anche un etnobotanico, attivista in difesa dei cibi antichi, uno tra i massimi studiosi di cucina biblica e spesso in visita in Italia.

Nel suo locale cucina utilizzando ingredienti citati nella Bibbia che raccoglie sulle colline che circondano la città israeliana. Basson ha sempre sottolineato che la cucina biblica è principalmente vegetariana-vegana, anche se è ben capace di esaltare i sapori della carne e del pesce. Quindi, anche in questo caso, la moda del momento non è farina del nostro sacco ma viene da molto lontano.

Se poi si naviga in internet si trovano mille suggerimenti. Ad esempio nel sito "un attimo di pace" si trovano gustose ricette che possono del tutto soddisfare i palati più esigenti, modaioli, curiosi o preoccupati dalle calorie e dalla genuinità. Qualche anno fa, a ritrovare un centinaio di ricette sparse nelle Sacre Scritture sono stati un biblista e un teologo, don Andrea Ciucci, sacerdote della Diocesi di Milano, e Paolo Sartor, insegnante presso l'Istituto Superiore di Scienze Religiose di Milano. Hanno ricostruito un centinaio di ricette e le hanno raccolte nel libro A tavola con Abramo, pubblicato dalle Edizioni San Paolo (pagine 174, euro 18), diventato un vero best-seller sul tema. 

Tra i menu proposti quelli che fanno riferimento alle tradizioni di Mosè, al re Davide e al profeta Elia. Gli stessi autori hanno proposto, qualche mese fa, un altro titolo intrigante: Mangiare da Dio. La storia della Chiesa in 50 ricette, sempre pubblicato dalla San Paolo (euro 12,90, pp.144), Altro titolo-chiave è La Bibbia in tavola. 40 ricette dall'Eden a Gerusalemme (Streetlib, euro 19,99) scritto dall'archeologa e storica culinaria tedesca Ursula Janssen.

Questo immenso patrimonio culinario, e non solo, divulgato con scrupolo e fascinazione da libri, chef, siti, si poggia su sette prodotti, alla base appunto della cucina biblica, ossia il grano, l'orzo, l'uva, i fichi, i melograni, le olive e il miele. Le loro combinazioni creano sapori che ci riportano indietro nel tempo non solo nella Terra santa e nel Levante, ma anche in Egitto e Grecia, in Persia e Asia Minore, a Babilonia e Roma. Fino al Medioevo. E ci promettono incontri straordinari: le polpette crude di cui Abramo è ghiotto create, secondo la tradizione, da sua madre un giorno in cui non aveva legna per cuocere la carne.

Per una minestra di lenticchie Esaù vendette a Giacobbe la primogenitura. Il pane azzimo fu preparato dagli ebrei nell'Esodo dall'Egitto, i quali portarono con sé pasta non ancora lievitata. All'ultima cena di Gesù furono serviti probabilmente agnello arrosto e altri piatti tradizionali come il charoset con salsa di mele. Per ricordare, inoltre, che la fede non è solo un'attitudine dello spirito e circoscritta alle pratiche devozionali, ma investe tutta la vita quotidiana, si incarna in gesti concreti, nella convivialità.

Sfogliare la Bibbia a tavola oltre a diventare un viaggio nel tempo e nella storia, scoprendo i gusti che assaporavano patriarchi, profeti e apostoli. Ma può essere anche la strada per rieducare al valore del cibo e all'importanza dello stare tutti insieme a tavola. Come ricorda un volume appena pubblicato dalla San Paolo editore, dal titolo inequivocabile Zitto e mangia. Ricette ed educazione per la buona tavola, di Luca G. e Marco Pappalardo (pp.176, euro 16). Una battuta che oggi appare desueta, se non politically scorrect, invece rappresenta una sfida per grandi e piccoli, a dialogare, ad "assaggiare" prima di opporre i soliti rifiuti

·        I Cibi che fanno bene e fanno male.

Frutti di bosco: tutti i benefici per la salute. I frutti di bosco sono dei veri e propri alleati per la salute, grazie al loro ricco apporto di vitamine e sali minerali: ecco i benefici di mirtilli, ribes e lamponi. Maria Girardi il 12 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Colorati, sani e gustosi: stiamo parlando dei frutti di bosco, ovvero un gruppo di alimenti reperibili nel sottobosco di montagne e di colline. In natura crescono nel periodo estivo, da maggio a ottobre: nella maggior parte dei casi, quelli che portiamo in tavola durante l'inverno vengono coltivati nelle serre. Originari del Nord America e dell'Europa settentrionale, questi frutti sono conosciuti sin dalla preistoria. Un tempo la loro raccolta era affidata alle famiglie appartenenti ai ceti più poveri che, in questo modo, si nutrivano e li vendevano ai signori dell'alta società.

I frutti di bosco hanno sempre goduto di un'ottima fama. Oggi vengono considerati dei veri e propri alleati della salute. Mirtilli, ribes, lamponi sono infatti ricchi di acqua, fibre, vitamine (A, B1, B2 e C), salu minerali (potassio, calcio, fosforo e sodio) e sostanze fenoliche antiossidanti (flavonoidi, antocianine e tannini). Tutti possono consumarli, fatta eccezione per i soggetti allergici, ma serve moderazione per chi soffre di obesità, di diabete di tipo 2, di calcoli renali e di reflusso gastroesofageo.

Mirtilli: i frutti di bosco amici della circolazione

Tra i frutti di bosco più diffusi in assoluto figurano i mirtilli. Appartenenti al genere Vaccinium e alla famiglia delle Ericacee, il loro colore varia dal nero al rosso, per finire al blu. Maturano durante la stagione estiva, in particolare a luglio e ad agosto, e in cucina sono assai versatili. Possono essere utilizzati per preparare marmellate e dolci, ma anche per accompagnare le carni e per insaporire risotti e zuppe. I mirtilli sono un superfood, ovvero vantano proprietà in quantità tali da apportare benefici importanti all'organismo.

Superfood: verità e falsi miti da sfatare sui benefici. 

Sono infatti ricchi di sali minerali (ferro, magnesio, calcio, potassio, sodio, zinco, rame, fosforo, zolfo e manganese), di vitamine liposolubili (vitamina A, vitamina E e vitamina K), di vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6 e vitamina C) e di antiossidanti (polifenoli e antocianine). Numerose sono le virtù di questi frutti di bosco:

Proteggono l'apparato urogenitale: i mirtilli disinfettano le vie urinarie. L'acido ippurico in essi contenuto, impedendo l'attecchimento dei colibacilli nell'intestino e sulle pareti della vescica, previene la cistite. Inoltre contrastano l'insorgenza di problematiche ai reni e alla prostata;

Rallentano l'invecchiamento: merito degli antiossidanti noti come antociani che, combattendo lo stress ossidativo, ritardano la comparsa dei segni della degenerazione senile. Gli stessi antociani, inoltre, hanno un'azione positiva nei confronti della proliferazione delle cellule tumorali di seno, colon, polmoni e prostata;

Supportano la microcircolazione: i tannini rafforzano i capillari e migliorano la tonicità delle pareti dei vasi sanguigni;

Aiutano il sistema cardiocircolatorio: favorendo l'abbassamento dei trigliceridi, i mirtilli preservano l'organismo dalle malattie cardiovascolari;

Proteggono la pelle: i polifenoli contrastano i danni causati dai raggi UVA e UVB.

Il consumo di mirtilli è sicuro. In alcuni soggetti predisposti possono provocare effetti indesiderati transitori come mal di testa, nausea e mal di stomaco. Quantità eccessive hanno effetti diarroici. Sono sconsigliati ai diabetici e a chi è in terapia con anticoagulanti.

Ribes: un alleato contro lo stress ossidativo

Fanno parte dei frutti di bosco anche i ribes, della famiglia delle Grossulariaceae. Esistono differenti varietà: nera, rossa, gialla e verdognola (la cosiddetta uva spina). Di queste quella nera è la più diffusa. Raccolti da maggio a dicembre - la maturazione completa avviene nei mesi di luglio e agosto - dei ribes viene sfruttato ogni costituente. Dalle foglie, ad esempio, si ottiene un olio essenziale particolarmente aromatico. Le gemme, invece, vengono trasformate in gemmoderivato dalle virtù antinfiammatorie e antistaminiche. I semi, infine, contengono acidi grassi essenziali e polinsaturi utili in caso di patologie cardiocircolatorie e di ipertensione.

L'allenamento di resistenza isometrica per battere l'ipertensione

Questi frutti di bosco sono ricchi di fibre, acidi organici (acido tartarico e acido malico), antiossidanti (tannini), sali minerali (ferro, calcio, zinco, fosforo, potassio, sodio, selenio, manganese e rame), vitamine liposolubili (vitamina A, vitamina E e vitamina K) e vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6 e vitamina C). Innumerevoli le loro proprietà:

Contrastano lo stress ossidativo: merito degli antiossidanti che rallentano i processi degenerativi tipici dell'invecchiamento;

Hanno un'azione anticoagulante: la vitamina K, intervenendo in varie reazioni chimiche che trasformano il fibrinogeno in fibrina, agisce come antiemorragico;

Riducono la ritenzione idrica: sono particolarmente indicati per contrastare gli edemi tipici della cellulite. Infatti favoriscono l'eliminazione dei liquidi in eccesso;

Combattono le infiammazioni: sono utili in caso di congiuntiviti, asma allergica, infezioni delle vie respiratorie e di stomaco e intestino.

I ribes sono generalmente privi di controindicazioni. Per via della loro attività diuretica devono essere consumati con moderazione da chi soffre di pressione bassa e da chi è affetto da malattie renali.

Lamponi: dal diabete all'intestino, tante proprietà

I lamponi sono frutti di bosco molto amati. La pianta, nota con il termine botanico Rubus idaeus, era già nota presso gli antichi Romani, che ne diffusero la coltivazione in tutta Europa. Esistono due varietà di lamponi, quelli fiorenti e quelli non fiorenti. I lamponi fiorenti producono i primi frutti all'inizio della primavera, poi in estate e fino al principio dell'autunno. I lamponi non fiorenti, invece, producono i frutti solo a giugno, per 3-4 settimane.

I lamponi sono considerati dei veri e propri alleati della salute, infatti sono ricchi di acqua, fibre, antiossidanti (antocianine ed ellagitannini), vitamine liposolubili (vitamina K), vitamine idrosolubili (vitamina B1, vitamina B2, vitamina B6, vitamina B8 e vitamina C) e sali minerali (ferro, calcio, fosforo, magnesio, sodio, potassio). Davvero numerose le loro virtù:

Hanno un'azione antiossidante: merito delle antocianine e degli ellagitannini, che combattono l'azione dei radicali liberi e le loro conseguenze negative sui processi di invecchiamento;

Contrastano il diabete: l'acido ellagico migliora la produzione di insulina. Le fibre, inoltre, regolarizzano i valori glicemici;

Migliorano i sintomi della sindrome premestruale: in ambito fitoterapico, il gemmoderivato agisce in maniera positiva sull'asse ipotalamo-ipofisi-ovaio riducendo così sintomi quali: tensione mammaria, nervosismo, umore instabile e ritenzione idrica;

Favoriscono il benessere intestinale: considerate le loro proprietà astringenti, i tannini sono utili in caso di diarrea.

Questi frutti di bosco possono essere mangiati con moderazione anche dai pazienti diabetici e, in linea di massima, sono privi di effetti collaterali. Chi soffre di allergie ai salicilati, prima di consumarli, deve consultare il proprio medico.

Jennifer Lopez svela la ricetta del tè che l’aiuta ad essere bella. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 9 Dicembre 2022.

Ne beve uno ogni mattina appena sveglia, ed è il suo «segreto» per avere la pelle perfetta (e non solo). Ecco di cosa si tratta e perché è davvero un rimedio efficace, nell’ambito di uno stile di vita sano come quello della popstar

Il tè

Ora bevono tutti tè allo zenzero appena svegli, e il motivo per cui lo fanno è perché anche Jennifer Lopez ha detto che fa bene. L'attrice e popstar amata e celebrata in tutto il mondo ha infatti raccontato che la prima cosa che fa appena sveglia è berne almeno una tazza, con in più una fetta di limone. Ha condiviso il «segreto» sul suo profilo Instagram (al momento che scriviamo misteriosamente privo di foto e forse per via di una crisi con l'attore Ben Affleck che ha sposato da pochi mesi), con uno dei quei suoi post che in poche ore hanno macinato milioni di like e - supponiamo - fatto impennare le vendite di zenzero.

Effettivamente il tè allo zenzero può essere un valido e ulteriore aiuto nell'ambito di una dieta sana e bilanciata come quella che notoriamente segue Jennifer Lopez e che a 53 anni - insieme allo sport - la mantiene così luminosa e filiforme: una dieta ricca di proteine magre, come quelle del pollo e dei legumi, di verdure, di frutta con cui ogni mattina - dopo il tè evidentemente - prepara anche un'altra bevanda diventata un must per i salutisti e cioè un frullato proteico, depurativo e leggero con frutta, yogurt greco, miele, cannella, ghiaccio e limone fresco.Il tè allo zenzero, dicevamo. Perché fa bene?

L’acqua

Prima ancora dello zenzero, nel tè c’è l'acqua, e trovare un’occasione per berne un po’ di più è sempre un’ottima idea: aiuta a depurare l'organismo, e berne un bicchiere a stomaco vuoto di prima mattina è particolarmente efficace per stimolare la diuresi, oltre che per riempire lo stomaco. JLo ha raccontato di bere 7 bicchieri di acqua al giorno proprio per sentirsi sazia e mantenere un buon livello di idratazione della pelle.

Lo zenzero depura

Lo zenzero di fatto potenzia le proprietà dell'acqua. I principi attivi - gingeroli, anzitutto - che si concentrano nella radice (la parte della pianta che si mangia o si usa in cucina) sono particolarmente efficaci per combattere il gonfiore addominale, per accelerare la digestione, contro la nausea o il vomito e inoltre favoriscono la motilità intestinale.

Lo zenzero (non) fa dimagrire

Lo zenzero li brucia oppure no, i grassi? Purtroppo non ha questo potere miracoloso, come spesso si crede, ma è assolutamente vero che, proprio grazie alle sue capacità depurative - come appena spiegato - è utile a espellere tossine e liquidi. Ovviamente non basta una tisana a rimetterci in equilibrio se conduciamo una dieta sregolata: può però essere un'alleata in più nell'ambito di uno stile di vita sano.

Lo zenzero mantiene giovani

Tra le caratteristiche dello zenzero c'è il fatto che è particolarmente ricco di antiossidanti, molecole che combattono i radicali liberi che determinano l'invecchiamento cellulare e che favorisco anche l'insorgenza di malattie croniche.

Lo zenzero è un antinfiammatorio naturale

Se lo zenzero si usa spesso in caso di raffreddori, mal di testa, ma anche dolori articolari, è perché è un ottimo antinfiammatorio naturale. Nella medicina ayurvedica ha un ampio utilizzo proprio in questo ambito.

Come preparare un tè allo zenzero

Per preparare un tè casalingo sminuzzate una radice di zenzero fresco e mettetene 4/5 pezzettini in acqua bollente. Lasciate bollire ancora per due minuti sul fuoco, quindi filtrate e bevete (senza aggiungere zucchero, se l’intento è dimagrire).

Eliana Liotta per "iodonna.it" l’8 dicembre 2022.

Non ci sono soltanto le arance: è una dieta nel complesso equilibrata a contrastare il disturbo invernale, favorendo la guarigione. Nella gallery, le sostanze che offrono la migliore protezione e dove le si può trovare. 

Grassi insaturi

Benvenuti i grassi buoni, insaturi, dell’olio extravergine d’oliva, della frutta a guscio e del pesce, perché rafforzano la membrana cellulare, che diventa più resistente ai microrganismi. Viva la frutta e la verdura, per il loro contenuto di vitamine, amiche delle nostre difese.

Vitamina C

La vitamina C innalza le barriere del sistema immunitario e, in questo senso, fa sempre bene mangiare alimenti che ne sono ricchi, tutto l’anno. Nei mesi freddi, si assume attraverso alimenti come gli agrumi, i kiwi, la rucola, la lattuga. Ce n’è in abbondanza anche in broccoli e cavoli (ma si deteriora un pochino con la cottura).

Vitamina E ed A

In generale, per difendersi dalle insidie del freddo e sostenere il sistema immunitario sono indicati tutti gli alimenti contenenti la vitamina E, ossia frutta a guscio (regine le mandorle), olio extravergine d’oliva e semi, e quelli con il betacarotene, la sostanza che l’organismo trasforma nella vitamina A, dalle carote alle zucche e agli spinaci.

Vitamina D

Anche la vitamina D sembra giocare un ruolo importante, come conferma una revisione del 2017 di 25 studi. Per l’80 per cento la pelle la sintetizza al sole, quindi bisogna farne il pieno d’estate, ma si trova in alcuni alimenti, specie nel tuorlo d’uovo, nel salmone, nello sgombro, nelle aringhe e nel tonno in scatola.  

Da dailymail.co.uk l’8 dicembre 2022.

“Femail” ha lavorato con la nutrizionista Elouise Bauskis per identificare i 15 alimenti che si dovrebbero assolutamente evitare prima di una serata romantica sotto le coperte.

1. La liquirizia

L’assunzione di liquirizia è stata collegata ad un abbassamento dei livelli di testosterone. Più alto è il testosterone, più forte è il desiderio sessuale, sia per gli uomini e le donne. Concludete voi il sillogismo.

2. I formaggi

O anche chiamati i killer della libido. Molti latticini sono difficili da digerire e aumentano la produzione di muco. Non è il modo ideale di sentirsi prima del sesso! 

3. Fagioli

Secondo la dottoressa Bauskis, tutto dipende per quanto riguarda i fagioli:

“Alcuni si sentiranno pieni di energia, altri gonfi e lenti. Nel peggiore dei casi, possono portare all’aumento della flatulenza. Meglio evitare”, ha spiegato. 

4. Cioccolato

Scegli con attenzione il cioccolato perché non tutto fa male. Anzi, quello fondente (con un minimo di 70 per cento di cacao) è antiossidante, ricco di L-triptofano (che come la serotonina ci fa sentire più felici) e la feniletilammina, che è la stessa sostanza chimica che produce il corpo durante i primi momenti dell’innamoramento. 

5. Hot dog

Possono ostruire le arterie del pene e della vagina, da evitare assolutamente se desideri sentirti sensuale.

6. La menta peperita

È stato dimostrato che la menta riduce i livelli di testosterone: “Una delle erbe migliori per il sistema digestivo, ma ha ripercussioni negative sulla libido.”

7. Acqua tonica

Spesso contiene chinina (come agente aromatizzante) collegata a una diminuzione della funzione sessuale. 

8. Patatine fritte

Questo alimento rilascia la sua energia molto rapidamente nel nostro sistema.

Inizialmente, potrai sentirti bene, ma poco dopo ti potresti sentire fiacco e senza forza. “Inoltre, se sono state cotte in olio di cattiva qualità, possono provocarti sonnolenza e indigestione”. 

9. Carne rossa

Secondo alcuni è un elemento energizzante, grazie al ferro che aumenta l'ossigenazione in tutto il corpo. Secondo altri, può farti sentire più “animale”. Per altri ancora può generare pesantezza e sonno.

10. Tofu

Il tofu e la soia contengono fitoestrogeni e mangiati in eccesso possono diminuire i livelli di testosterone. 

11. Conservanti

Gli alimenti a lunga conservazione hanno un basso valore nutritivo, equivalgono energicamente a un cibo “morto”. Non aumenteranno la vostra vitalità, né renderanno meglio il sesso! 

12. Vino rosso

Con moderazione il vino rosso può aumentare il flusso del sangue, aiutandoti a rilassare e abbassare le inibizioni. Ma, in quantità esagerate, può portare all’impotenza. 

13. Farina d'avena

Presenta un alto contenuto di fibre che possono farti sentire “gassoso”. 

14. Bevande energetiche

Sono piene di zuccheri e coloranti. Possono darti una sensazione di benessere immediato, ma dura poco.

 15. Broccoli

Il pericolo è che può produrre gas nel vostro corpo, ma allo stesso tempo è un ortaggio che aiuta a disintossicarsi.

Dieta e alimentazione. Come riconoscere l'ortoressia, l'ossessione per il cibo sano. L’ortoressia è una forma di comportamento ossessivo nei confronti del cibo sano. Ne parliamo nel dettaglio con la Dott.ssa Chiara Ramponi. Mariangela Cutrone il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Seguire un’alimentazione sana può sfociare in una vera e propria ossessione denominata ortoressia. Il termine ortoressia deriva dal greco “orthos” che sta per “giusto” e “orexis” che fa riferimento all’“appetito”.

Di questa forma di comportamento ossessivo si è parlato per la prima volta nel 1997 quando è stato diagnosticato dall’inglese Steven Bratman. Oggi con l’avvento dei social media e del mondo del web in generale che spesso e volentieri diffonde abitudini alimentari errate o che sfociano nel vero e proprio fanatismo, l’ortoressia si è ampiamente diffusa.

Che cos’è e come riconoscere l’ortoressia

Chi soffre di questa patologia rischia di non apportare all’organismo le sostanze nutritive necessarie per il proprio sostentamento soprattutto in fase di crescita. Rischia di seguire abitudini alimentari rigide e drastiche. Di questo comportamento alimentare non sano ne parliamo con la Dott.ssa Chiara Ramponi, dietista specializzata in problemi alimentari di bambini e adolescenti in questa approfondita intervista.

Quando il “mangiare sano” diventa un’ossessione?

Seguire un’alimentazione sana e bilanciata è (Indubbiamente) uno dei pilastri del benessere e della salute. Numerosi sono infatti gli studi che hanno dimostrato come la Dieta Mediterranea protegga da molte patologie come, ad esempio, diabete, ipertensione, sovrappeso, obesità, alcune forme tumorali e molte altre. In alcuni casi, però, il ‘mangiare sano’ può diventare un’ossessione. Questo avviene quando l’alimentazione diventa molto rigida e quando le linee guida alimentari, che hanno come principale caratteristica la flessibilità, non prevedono ‘variazioni sul tema’ trasformandosi così in rigide regole che non possono essere eluse.

Quali sono le abitudini e i comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia?

Ad oggi, l’ortoressia non è classificata tra i Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione indicati dal DSM-5, il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5). Probabilmente, questo è dovuto a due differenti motivi: non esistono dei criteri per la sua diagnosi e molte sue caratteristiche sono in comune con gli altri disturbi dell’alimentazione, tra cui l’Anoressia Nervosa. I comportamenti alimentari che identificano l’ortoressia o, più in generale, un disturbo dell’alimentazione sono però peculiari.

Eccone alcuni:

Presenza di una dieta rigida: come già detto in precedenza, chi soffre di problematiche alimentari tende a seguire diete rigide ed estreme con l’obiettivo di controllare l’alimentazione, il peso o le forme corporee. Tale controllo viene attuato attraverso l’adozione di comportamenti disfunzionali quali, tra tutti, la restrizione a livello di qualità e/o quantità degli alimenti.

Presenza di alimenti evitati: fin dall’esordio l’alimentazione subisce alcune modifiche; alimenti che un tempo piacevano e che venivano consumati senza preoccupazioni vengono successivamente rifiutati o esclusi. Dunque, la scelta ricade unicamente sugli alimenti percepiti come “sani” e “salutari”.

Presenza di regole dietetiche: numerose sono le regole riguardanti il come, il cosa, il quando e il quanto mangiare. Tra queste, possiamo ritrovare: mangiare solo alimenti che contengono solo determinati nutrienti o meno di un certo numero di calorie, non mangiare dopo un determinato orario, evitare le situazioni sociali e molte altre.

Presenza di perdite di controllo/alimentazione sregolata: ovvero l’assunzione di una quantità di cibo (più o meno abbondante) associata alla sensazione di perdita di controllo con conseguenti preoccupazioni. Non sempre sono presenti ma sono frequenti nei soggetti che restringono di molto la propria alimentazione o che limitano la qualità degli alimenti consumati in quanto spesso derivano dalla rottura di regole dietetiche o dal consumo di alimenti evitati.

Esercizio fisico intenso: non un comportamento alimentare ma molto spesso presente in chi soffre di disturbi dell’alimentazione. L’esercizio è spesso definito ‘eccessivo’ in quanto la durata, la frequenza e l’intensità sono superiori rispetto alle raccomandazioni delle Linee Guida. Inoltre, tale esercizio viene vissuto come obbligatorio e praticato anche in condizioni “avverse” (es. pioggia, slogature…); pertanto viene accompagnato anche dall’aggettivo ‘compulsivo’.

Chi sono i soggetti più a rischio?

Sebbene le cause dei disturbi dell’alimentazione non siano ancora completamente note, la ricerca ha dimostrato che vi è una combinazione tra predisposizione genetica e fattori di rischio legati all’ambiente in cui si vive. Uno tra i vari fattori di rischio è il sesso femminile; le donne sono infatti maggiormente colpite rispetto agli uomini in quanto più socialmente spinte ad avere un corpo magro. Se prendiamo invece in considerazione l’età, le fasce più delicate sono l’adolescenza e la prima età adulta. Durante questi periodi, infatti, frequentemente vengono iniziate diete (spesso “da autodidatta”) con lo scopo di perdere peso a seguito dei fisiologici cambiamenti legati alla pubertà. Infine, altri esempi di fattori di rischio: casi di disturbi dell’alimentazione tra i familiari, basso peso alla nascita, vivere in un paese occidentale, frequentare ambienti che pongono molta attenzione al corpo (moda, danza, ginnastica), l’intraprendere delle diete.

Il ruolo dell’educazione alimentare

Quanto e in che misura il mondo del web con la diffusione di false diete miracolose ha contribuito a incrementare questo problema?

Come accennato in precedenza, le diete sono uno dei fattori di rischio per lo sviluppo dei disturbi dell’alimentazione. Alcuni studi hanno infatti dimostrato che le adolescenti donne di 15 anni che seguono diete corrono un rischio di 8 volte superiore rispetto alle coetanee non a dieta. Le diete sono dunque sempre un rischio, sia quelle lievemente ipocaloriche guidate da un dietista sia quelle ‘false e miracolose’ che circolano nel web. In quest’ultimo caso, vi è un rischio aggiuntivo: l’essere condotte in autonomia senza il supporto di un professionista qualificato a riconoscere in anticipo e per tempo gli eventuali campanelli di allarme.

In Italia manca una corretta educazione alimentare. Secondo lei da quando dovrebbe cominciare e come dovrebbe essere attivata?

La ricerca ha dimostrato che la promozione di un corretto e flessibile stile alimentare, fin dalla più tenera età, sia un fattore protettivo allo sviluppo di un successivo disturbo alimentare. Nonostante ciò, in Italia mancano dei veri e propri programmi di educazione alimentare. Basti pensare che, secondo l’ultimo monitoraggio Istat, solo il 12% dei bambini e degli adolescenti in Italia consuma ogni giorno le porzioni di frutta e verdura raccomandate dalle Linee Guida. Dal mio punto di vista credo che la partenza sia insegnare ai bambini la sana alimentazione e il corretto stile alimentare tramite il ‘buon esempio’; i bimbi imparano infatti imitando il comportamento degli altri. Attraverso la condivisione e la convivialità si possono dunque promuovere corrette abitudini alimentari quali, ad esempio, la giusta composizione dei pasti o la frequenza di consumo dei vari alimenti. È però importante che tutte le figure di riferimento collaborino tra loro trasmettendo le medesime Linee Guida; non solo genitori dunque ma anche nonni, tate, insegnanti, allenatori. Inoltre, penso sia importante inserire l’educazione alimentare all’interno di ogni programma scolastico a partire dalla scuola dell’infanzia coinvolgendo, per i motivi elencati in precedenza, i bimbi e tutte le persone per loro significative.

Qual è il ruolo del dietista quando ci si trova davanti ad un caso di ortoressia?

Innanzitutto, come primo step è essenziale conoscere e riconoscere i campanelli di allarme per indagare e valutare la presenza (talvolta nascosta e non detta) di ortoressia o di un disturbo dell’alimentazione. In presenza di pazienti con problematiche alimentari è successivamente essenziale l’invio ad uno psicoterapeuta specializzato in disturbi alimentari e in grado di lavorare sugli aspetti emotivi e cognitivi. Per una completa remissione del disturbo, infatti, gli studi dimostrano la forza dell’équipe multidisciplinare formata da dietista, psicoterapeuta e medico psichiatra. Così facendo si lavora sulla psicopatologia e sui fattori di mantenimento, sulla normalizzazione eventuale del peso, sugli alimenti evitati e sulle regole dietetiche e si forniscono strategia sia a breve termine sia per la prevenzione di eventuali ricadute. In questo modo il paziente è posto al centro del trattamento e tutti i professionisti (co)operano con e per lui come una grande squadra.

Da blitzquotidiano.it il 25 novembre 2022.

Aumentano del 31% gli allarmi alimentari in Italia, con 389 notifiche inviate dal nostro Paese all’Ue, di cui otto su dieci (80%) hanno riguardato cibi provenienti dall’estero. È quanto emerge dal dossier Coldiretti sulla “Black list dei cibi più pericolosi sugli scaffali” venduti in Italia, diffuso in occasione del Forum Internazionale dell’Agricoltura e dell’Alimentazione della Coldiretti. 

Con l’aumento dei prezzi degli alimentari, fa sapere l’associazione, cresce infatti la presenza di cibi low cost importati, sulla base dell’ultimo Rapporto Annuale della Commissione Europea sul Sistema di allerta rapido europeo pubblicato nel 2022. 

Carne di pollo low cost polacca, agrumi come mandarini e pompelmi dalla Turchia, peperoni sempre turchi, pepe nero brasiliano e semi di sesamo dall’India, di moda per le insalatone salutiste, sono ai primi posti primi della “black list” dei prodotti più pericolosi per la salute rilevati nell’Ue, nella quale entrano per la prima volta anche le arance dall’Egitto.

Da dove provengono

In testa alla classifica dei Paesi dai quali arrivano i prodotti più contaminati, fa sapere la Coldiretti, c’è la Turchia, presente per tre volte nella top-ten dei cibi più pericolosi e responsabile del 13% degli allarmi scattati in Europa. A seguire, l’India e la Polonia, imputabili per l’8% delle notifiche complessive, ma preoccupazioni vengono anche dalla Cina, che rappresenta quasi la metà delle notifiche relative ai materiali a contatto con gli alimenti, per la presenza di sostanze non autorizzate nei prodotti di plastica, come il bambù e la migrazione di ammine aromatiche, melamina e formaldeide.

Estratto dell'articolo di Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 22 novembre 2022.

La frutta secca smart food (cibo che fa bene) per definizione è ormai immancabile in ogni dieta. Le statistiche la più recente è di SG Marketing indicano le noci in Italia (nel mondo, invece, le mandorle) come il prodotto con la più elevata frequenza di acquisto all'interno della categoria […]

La prima motivazioni di acquisto (67%) è il valore salutistico: le noci contengono molte fibre e micronutrienti come il magnesio, il rame e il manganese.

Mangiarle ogni giorno ridurrebbe il colesterolo cattivo e migliorerebbe la pressione sanguigna. E poi c'è il piacere del gusto […] per il forte carattere nonostante il sapore delicato che dopo la tostatura svela un accenno di amaro tipo nicotina. […]

A proposito, i nostri antenati (prima che nel Medioevo alla pianta venissero attribuiti poteri malefici) consideravano le noci portatrici di bene: le ragazze le mettevano nelle tasche dei giovani per catturarne l'amore; erano considerate afrodisiache (anche per il richiamo alla forma degli attributi maschili); erano auspicio di un sereno futuro vista la doppia protezione del guscio e del mallo. «prepara nuove fiaccole, ti si conduce la sposa; spargi, o marito, le noci», scriveva Virgilio.

Ancora oggi in molte zone resistono credenze sulla raccolta nella notte di San Giovanni di noci verdi da mettere in infusione nell'alcol per realizzare l'ottimo (e miracoloso) liquore Nocino. Altre noci italiane sono la Lara (più tonda, ruvida e facile da aprire) e la Feltrina, diffusa in Abruzzo e Piemonte. Ognuna adatta a diverse preparazioni: dalle torte e crostate al pesto, dall'abbinamento coi formaggi (gorgonzola in primis) all'uso del gheriglio croccante in insalate e primi.

Estratto da “il Messaggero” il 2 novembre 2022. 

Una manciata di mandorle al giorno migliora la salute dell'intestino e del colon, rafforzando il microbioma (la micro-popolazione batterica intestinale) e sostiene il sistema immunitario. In particolare, si legge in uno studio pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition, con 56 grammi di mandorle assunte quotidianamente (è la quantità studiata dal King' s College di Londra) ad aumentare sono i cosiddetti grassi a catena corta, metaboliti batterici salutari, come il butirrato […]

Gemma Gaetani per “la Verità” il 27 novembre 2022.

Avete presente l' espressione «Sono cavoli amari...» per intendere qualcosa di non proprio positivo? Bene, lasciate il significato negativo dell' amaro del cavolo al senso metaforico. Perché che in senso letterale il cavolo nero sia un pochino amaro non è una brutta caratteristica, ma un suo segno distintivo. Un recente studio italiano denominato «Marco Polo» ha testato una serie di popolazioni del mondo sulla percezione del gusto opposto al dolce e spiegato come l'amaro dei cavoli - e di altre verdure - si percepisca più o meno intensamente in base a un fattore genetico: noi italiani siamo risultati per il 30% «non taster», cioè non disturbati dall' amaro dei cavoli e per il restante 70% «taster», cioè percipienti come molto amaro il gusto dei cavoli, di conseguenza ritenuti poco amabili. 

Insomma, non meno di Donald Trump, in generale il cavolo e, nello specifico, la varietà Brassica oleracea var. acephala (o B.oleracea var. viridis nonché Brassica oleracea convar. acephala var. viridis), questo il nome botanico del nostro, è un ortaggio decisamente divisivo. Avrete notato l' attributo «acefalo» del nome botanico, parola che vuol dire «senza testa»: nel caso del cavolo si chiama cavolo acefalo quello composto solo da foglie, che si differenzia, per esempio, dal cavolfiore, costituito da una grossa testa anche detta palla, che poi è un' infiorescenza formata da tanti peduncoli fiorali. 

I cavoli appartengono alla grande famiglia delle Crocifere, genere Brassica, che sono diffuse quasi in tutto il mondo e alle quali «dobbiamo», in un certo senso, le farfalle: molte specie del genere Brassica sono infatti piante nutrici dei bruchi di molti tipi di lepidotteri e perciò molte di queste farfalle sono anche chiamate cavolaie. 

Il genere Brassica comprende, per la precisione, circa 40 specie, la più parte coltivate per alimentazione umana che in alcuni casi, come in questo del cavolo nero, consuma le foglie (è anche il caso della verza), in altre le infiorescenze ancora immature (per esempio, il cavolfiore), in altre ancora le cime (è il caso delle cime di rapa che nel Lazio sono anche chiamate broccoletti perché cavoli e broccoli appartengono alla stessa famiglia, difatti il broccolo è anche chiamato cavolo broccolo). Anche alcuni semi sono usati per l' alimentazione, per esempio per la produzione di olio di colza.

La parte edibile del nostro è rappresentata dalle foglie, dalle quali però va scartata la nervatura centrale detta costa, molto coriacea, cucinando solo la parte verde, cioè la lamina (o lembo). A questa famiglia appartiene anche un cavolo che sta spopolando come superfood e che molti confondono col nostro. 

La narrazione del supercibo si applica all' alimento straniero o non consueto perché il pubblico è più disposto ad attribuire lo status epifanico di cibo miracoloso a qualcosa che non è ad esso familiare, che il contrario: è il cavolo riccio anche chiamato kale, che spopola in America presso i guru salutisti. Qualcuno lo confonde col cavolo nero, ma ci sono molte differenze. Il cavolo nero ha le foglie di colore verde scuro scuro, con riflessi bluastri intensi e perciò è detto, per eccesso, «nero», la superficie delle sue foglie è bollosa e non riccia e ha un sapore forte, diversamente dal cavolo riccio che invece ricorda più i sapori di verza e rucola. Appartiene al genere Brassica, ma è un' altra varietà, la Brassica oleracea var. Sabellica.

Tornando al cavolo nero, seppur nero di nome e solo abbastanza scuro di fatto, esso è anche molto tricolore da un punto di vista precisamente gastronomico, perché è ingrediente elettivo di una nota, potremmo dire leggendaria, zuppa toscana, la ribollita. Pellegrino Artusi, descrivendo la preparazione nella ricetta n. 58 della sua Scienza in cucina e l' arte di mangiar bene, Zuppa toscana di magro alla contadina, scrisse: «Questa zuppa che, per modestia, si fa dare l' epiteto di contadina, sono persuaso che sarà gradita da tutti, anche dai signori, se fatta con la dovuta attenzione».

Ma non c' è soltanto la ribollita: c' è la farinata di cavolo nero - anche detta «cavolata» - e poi c' è il risotto al cavolo nero, in Italia. In Portogallo e Galizia c' è il caldo verde e in Spagna il cocido, una minestra di cavolo nero, patate e carne di maiale.

Ortaggio autunnale-invernale, si inizia a raccogliere dopo cento giorni dalla coltivazione. Si dice che il miglior cavolo nero sia quello che ha superato delle gelate, perché il gelo ne ammorbidisce le foglie, ma lo stesso effetto si può raggiungere con una breve permanenza in congelatore o semplicemente con una buona cottura perché, per fortuna, il cavolo nero riempie i banchi ortofrutticoli di supermercati e mercati ben prima di gennaio. Facciamone, quindi, scorpacciate già da ora. Un etto di cavolo nero possiede soltanto 32 calorie e, al contempo, numerose virtù salutari. Innanzitutto, il famoso gusto amarognolo lo rende un grande stimolante della digestione.

La ricchezza di zolfo ne fa poi un toccasana contro ulcere gastriche e duodenali.

Il cavolo nero è poi noto perché contiene moltissima vitamina C: in 100 grammi ne troviamo 35,3 mg e considerato che il fabbisogno quotidiano di vitamina C è di circa 90 mg per gli uomini e di circa 70 mg per le donne si capisce come con una sola porzione di cavolo nero da 2-300 grammi esso sia ampiamente soddisfatto. 

La C è però una vitamina termolabile e l' ideale per non perderne troppa è cuocere il cavolo a bassa temperatura (in questo senso il sobbollire tipico delle zuppe è perfetto) oppure ad alta ma per breve tempo. La vitamina C ha un estremo potere antiossidante: oltre a neutralizzare i radicali liberi, rafforza la barriera del nostro sistema immunitario, quindi è la complice ideale di questo periodo, e altresì aiuta l' organismo a prevenire il rischio di tumori, soprattutto allo stomaco, perché inibisce la sintesi di sostanze cancerogene.

Non bisogna sottovalutare l' importanza della vitamina C: una sua assenza provoca lo scorbuto, che si traduce in apatia, anemia, inappetenza, sanguinamento delle gengive, caduta dei denti, dolori muscolari ed emorragie sottocutanee. La vitamina C, oltre ad aiutare a risolvere più velocemente episodi influenzali, serve anche a migliorare l' assorbimento del ferro. È vero che il cavolo nero ne contiene in quantità non proprio abbondanti (0,5 mg ogni 100 grammi), ma grazie al contenuto di vitamina C si ottimizza l' assorbimento di quel poco che ha. Non è solo la vitamina C che rende il cavolo nero un ortaggio profondamente antiossidante: altamente importante è anche il suo contenuto di vitamina A, ben 5.019 UI (unità internazionali) ogni 100 grammi.

Con la nota porzione da 2-300 grammi incameriamo il doppio della vitamina A di cui abbiamo bisogno perché il fabbisogno quotidiano è circa 3000 UI. Anche detta retinolo, la vitamina A è liposolubile, cioè viene accumulata nel fegato e rilasciata al bisogno, quindi non c' è bisogno di assumerne ogni giorno. 

Oltre ad essere fondamentale per una buona visione, perché fa parte della rodopsina, la sostanza che, nella retina, fornisce all' occhio sensibilità alla luce, la vitamina A partecipa allo sviluppo e al rafforzamento delle ossa e dei denti e rinvigorisce il nostro sistema immunitario, risultando particolarmente protettiva nei confronti dei tumori.

Inoltre, migliora la bellezza dei capelli e contribuisce a ritardare l' invecchiamento anche di questi.

Si ritiene che la presenza di sulforafano, insieme agli isotiocianati, agisca contro i tumori intestinali, e poiché si ritiene che possa aiutare a prevenire anche il cancro al colon, quello alla prostata e quello alla vescica, il cavolo nero è considerato un cibo antitumorale ad ampio spettro. Rilevante è anche il suo contenuto di vitamina K, non idrosolubile e non termolabile, per cui anche dopo prolungata cottura non se ne riduce la quantità presente nel nostro. Chiamata anche donaftochinone, partecipa ai meccanismi di coagulazione del sangue. 

Ancora di rilievo è la presenza di calcio, ben 232 mg per 200 grammi, all' incirca un terzo del nostro fabbisogno giornaliero. Il calcio contribuisce alla crescita e al rafforzamento di ossa e denti, ma serve anche al corretto sviluppo muscolare e previene crampi e contratture: il calcio lavora anche col triptofano per la produzione della melatonina, l' ormone che aiuta a mantenere il giusto equilibrio tra sonno e veglia e che, se scarsa, causa insonnia.

Perciò il calcio ha anche un effetto rilassante e assunto tramite i cibi della cena aiuta a dormire meglio la notte. Il cavolo nero è anche un potente antinfiammatorio grazie al suo contenuto di antocianine. E, ultimo ma non in ordine di importanza, ricordiamo che contiene anche acido folico, la cui assunzione è raccomandata quando si pianifica una gravidanza o quando si sia già in attesa.

Non bisogna eccedere in consumo di cavolo nero e in generale di crocifere se si soffre di ipotiroidismo, perché ostacolano l' assorbimento dello iodio da parte della tiroide con la conseguenza di impedirne il corretto funzionamento. Ricordiamoci, allora, quando lo vedremo al supermercato, che se ne può aggiungere anche solo una foglia, privata della nervatura centrale e tagliata a striscioline sottili, in un' insalata. Ma misuriamoci certamente, almeno una volta se non l' abbiamo mai mangiata, con la preparazione della ribollita Toscana. In Toscana il cavolo riccio nero - si chiama così pur non avendo niente a che fare col kale - è un Prodotto Agroalimentare Tipico delle zone di Lucca e Massa Carrara anche detto braschetta.

Quercetina, quando la salute ci arriva dalle piante. Prodotta dal metabolismo di alcuni alberi, si trova anche nei frutti e nei vegetali: ha proprietà antiossidanti e antivirali. Guido De Duccis il 2 Novembre 2022 su Il Giornale.  

Cos'hanno in comune cipolla rossa, capperi e radicchio? Ciascuno di noi sa che sono vegetali, certamente, ma pochi forse sono al corrente che contengono tutti abbondanti quantità di quercetina.

La quercetina possiede, come vedremo, proprietà anti-ossidanti, anti-infiammatorie e anti-allergiche notevoli ed è praticamente priva di effetti collaterali nocivi per l'uomo.

Può essere modificata con relativa facilità per sviluppare una molecola di sintesi ancora più potente, grazie alle sue dimensioni ridotte e ai particolari gruppi funzionali presenti nella sua struttura chimica.

Presenta un altro vantaggio non trascurabile: poiché non può essere oggetto di brevetto, chiunque può usarla come punto di partenza per nuove ricerche.

Che cos'è?

La quercetina è un flavonoide prodotto dal metabolismo di alcune piante (ippocastano, biancospino, camomilla) ma si trova anche nelle verdure e nella frutta. È impiegata nel trattamento dei disturbi metabolici e infiammatori e la principale attività attribuita è quella antiossidante. Contribuisce a ridurre la formazione di radicali liberi e sostanze pro-infiammatorie. Ad essa vengono attribuite proprietà vasoattive in quanto aumenterebbe la resistenza dei capillari.

Diversi studi dimostrano che la quercetina possiede le seguenti proprietà:

antinfiammatoria

antiestrogenica

di riduzione della formazione del tessuto endometriale

di protezione cardiovascolare

immunomodulatoria

antiaterosclerotica mediante l'inibizione dell'ossidazione delle LDL e il conseguente danno endoteliale arterioso

gastroprotettiva

antivirale (ne parleremo tra poco in relazione al Covid-19).

La quercetina viene assorbita a livello intestinale e i suoi metaboliti sono distribuiti dal fegato ai vari tessuti dell'organismo; nel plasma si trova legata all'albumina. La disponibilità della quercetina assunta per via orale è incerta; sembra che sia meglio assimilata dall'intestino se assunta assieme a grassi quali i trigliceridi a media catena. Per questa ragione è importante che eventuali integratori di quercetina contengano sostanze lipidiche e che vengano assunti a stomaco pieno. Altrettanto importante, oltre che ovvio, il consumo di verdura e frutta. Oltre che nei vegetali citati sopra ricordiamo infine che la quercetina è presente nel cacao, nel tè verde e negli agrumi.

La proprietà antivirale

E veniamo agli incoraggianti studi sul possibile utilizzo della quercetina come coadiuvante nella cura del Covid-19.

Nel settembre 2020, il CNR ha pubblicato un comunicato stampa per divulgare la scoperta di uno studio internazionale cui aveva partecipato L'Istituto di Nanotecnologia dell'ente di ricerca nazionale: “La quercetina, molecola di origine naturale, funge da inibitore specifico per il virus responsabile del Covid-19, mostrando un effetto destabilizzante sulla 3CLpro, una delle proteine fondamentali per la replicazione del virus...”.

Il risultato è l'esito del lavoro di ricerca condotto da Bruno Rizzuti dell'Istituto di nanotecnologia del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr-Nanotec) di Cosenza con un gruppo di ricercatori di Madrid e Saragozza ed è stato pubblicato sulla prestigiosa rivista International Journal of Biological Macromolecules.

Spostiamoci in Spagna e ascoltiamo la dottoressa Olga Abian, dell'Università di Saragozza e prima autrice della pubblicazione: “In una prima fase di lavoro è stata studiata, con varie tecniche sperimentali, la sensibilità di questa proteina a varie condizioni di temperatura e pH: un risultato importante perchè molti gruppi stanno lavorando su 3CLpro come possibile bersaglio farmacologico, in virtù del fatto che è fortemente conservata in tutti i tipi di coronavirus".

Inoltre: “La parte più interessante di questo lavoro è lo screening sperimentale eseguito su 150 composti, grazie a cui la quercetina è stata individuata come molecola attiva su 3 Clpro”, ha concluso Adrian Velazquez-Campoy dell'Università di Saragozza, che ha diretto il gruppo di ricerca e ha già lavorato alla ricerca di farmaci inibitori della proteina per il virus SARS originario che causò l'epidemia del 2003, “La quercetina riduce l'attività enzimatica di 3 Clpro grazie al suo effetto destabilizzante sulla proteina...”.

La notizia fu ripresa da molti giornali tra cui l'agenzia stampa Adnkronos: “Covid, un composto naturale lo uccide: scoperta del CNR”.

Come si dice in questi casi “Se son rose, fioriranno”.

Dagonews il 21 ottobre 2022.

Nel dubbio meglio evitare i crudi a Gubbio. Le voci che non rimangono dentro confermano la storia della dissenteria collettiva nella città umbra dopo un pranzo al ristorante. Agli inizi di ottobre un gruppo di appassionati di pesca sportiva si è ritrovato in un locale nel centro cittadino. In tutto i commensali erano 101. La scarica dei 101, la battuta viene facile. 

Nel menù diverse specialità a base di pesce. Galeotto pare essere stato il crudo di tonno. Arrivati al primo, infatti, alcuni dei commensali hanno iniziato ad accusare malori, nausea e scariche di diarrea. La colpa era del tonno non abbattuto o di un virus, visto che alcuni soci avrebbero presentato disturbi anche prima del pranzo? Su questo regna ancora il mistero. Negli audio circolati sui social (non si sa quanto attendibili) si parlava, con enfasi, di “scene apocalittiche”. Le foto fake hanno contribuito a creare un alone di incertezza. Chi c'era assicura che il “cagotto” di gruppo c’è stato e ha coinvolto più di venti partecipanti al pranzo. 

Una signora pare essere svenuta. Le cronache raccontano di bagni occupati e di qualcuno che in preda a dolori lancinanti è tornato a casa, salvo poi scoprire di non avere le chiavi perché se le era dimenticate al ristorante. Risultato? Si sarebbe cacato addosso davanti all’uscio dell’appartamento (pensa che rosicata!). Al di là di queste amenità, più o meno fantasiose, c'è da registrare come la direzione del ristorante su Facebook abbia spiegato che il giorno del pranzo sono intervenuti medici del 118 per problemi di salute che hanno afflitto due partecipanti al convivio. 

Arrivano conferme anche dalla Asl Umbria 1: sono stati registrati tre accessi al pronto soccorso di persone che erano presenti al pranzo: due commensali hanno accusato un abbassamento di pressione che ha richiesto l’intervento del 118. Una terza ha riportato una ferita dopo un incidente stradale che viene citato anche negli audio con dovizia di particolari.

Va, altresì, ricordato che “nessun caso di intossicazione alimentare è stata segnalata al servizio di igiene e sanità pubblica” della stessa Asl o agli uffici comunali…

Da tgcom24.mediaset.it il 21 ottobre 2022.

A Gubbio una cena a base di pesce finisce male per una comitiva di circa 40 persone che sono rimaste intossicate. La storia è diventata virale con il classico passaparola via social e WhatsApp. "Scene apocalittiche" si sente in alcuni audio che circolano. I poveri malcapitati si sono infatti ritrovati ad affrontare scariche di diarrea e vomito improvvisi. Alcuni di loro hanno dovuto ricorrere alle cure mediche. Questo è quello che gira ma è una storia che fa acqua da tutte le parti con la parola fine messa dal ristoratore chiamato ingiustamente in causa dal solito tam tam social.

E' quindi tutta una fake news? Partiamo da quello che sappiamo: stando ad alcuni giornali locali domenica 2 ottobre (ma anche qui le date che girano sono diverse), i membri di una società di pesca sportiva di Gubbio (Umbria) si sono riuniti per una battuta di pesca al tonno per poi recarsi tutti insieme in un ristorante e consumare quanto pescato. Ma qualcosa è andato storto. 

Pare che diversi commensali abbiano imprudentemente deciso di consumare alcuni pesci crudi e siano stati colti da scariche di diarrea incontrollabili. Addirittura, si sente in alcuni audio, di quelli "inoltrati molte volte" che girano su WhatsApp, qualcuno si è lasciato "andare" negli angoli dei ristoranti. Fino ad arrivare a chi ha preso l'auto cercando di raggiungere casa salvo poi finire in un fossato distruggendo anche altre vettura. Ovviamente con maleodoranti produzioni all'interno del veicolo.

La classica storia verosimile la quale, dato che non ci sono state vittime gravi, alla fine strappa un sorriso. Ma allora perché si pensa ad una fake news? Andiamo con ordine. 

Se da un lato la pesca al tonno con lenza si può fare in autunno, è anche vero che da Gubbio bisogna raggiungere il mare. I luoghi migliori per farla sono quelli sul litorale toscano e laziale. Da qui bisogna prendere una barca e poi andare al largo. Insomma, non una battuta di pesca da fare in giornata. Eppure tutti i giornali che riportano la notizia parlano di una battuta di pesca seguita dalla mangiata al ristorante. 

Veniamo quindi a Gubbio e il ristorante di pesce. I pescatori della comitiva avrebbero quindi portato i frutti della loro uscita in un ristorante a Gubbio e qui si sarebbero fatti servire il pesce crudo. Un fatto da denuncia, visto che i ristoranti devono aver tracciato tutto il cibo che portano a tavola e quindi nessuno, in regola, accetterebbe mai di servire pietanze i cui ingredienti sono portati da casa.

E poi, le cruditè. Per servire il pesce crudo, serve che l'alimento venga prima abbattuto, cioè portato a una temperatura di -20° centigradi per almeno 24 ore. In alternativa si potrebbe tenere il pesce in un comune freezer per almeno 96 ore. Insomma, nessuno ristoratore, accetterebbe di rischiare attentare alla vita dei propri clienti con una simile sciocchezza. E nessun pescatore che si definisca tale mangerebbe crudo il proprio pescato (non siamo Tom Hanks in Cast Away). 

Certo sentire i coloriti (e blasfemi) audio che sono girati sui telefonini che raccontavano di questa "apocalittica" scena può aver attirato l'attenzione. Ma la sequenza di eventi: 40 persone intossicate, gente con diarrea incontrollabile, ambulanze per i casi più gravi, incidenti d'auto con persone alle prese con scariche di dissenteria e infine le foto (la cui fonte resta però impossibile da trovare). 

Troppe notizie per non avere una versione ufficiale da parte di forze dell'ordine o sanitari del 118. Nessuno ha riportato la notizia, che invece è basata solo sulla viralità. Possiamo dunque dire che siamo probabilmente di fronte, visto che il protagonista della vicenda è un tonnetto, a un pesce d'aprile un po' in ritardo. 

A mettere infine un suggello alla vicenda è il post facebook del ristoratore chiamato in causa in questa vicenda che non citeremo, per tutelarlo, dalla grande campagna diffamatoria che lo sta investendo. Scrive il titolare del ristorante su Facebook: "Dopo aver constatato che a distanza di giorni tali supposizioni (perché di questo si tratta, solo di “chiacchiere”) vengono ancora alimentate da mere voci di popolo mi trovo costretto a replicare.

Corrisponde a verità che il giorno del pranzo sia intervenuto, presso il ristorante, personale medico del 118, tuttavia, tale intervento si è reso necessario per problemi personali di salute che hanno afflitto due avventori, ma che nulla hanno a che vedere, in alcun modo, con la qualità e/o tipologia del cibo somministrato presso il ristorante". 

Intervistato da Il Giornale il ristoratore aggiunge: "Avevamo permesso ai componenti della società di pesca di pranzare nel nostro ristorante. Il pesce crudo lo hanno portato loro da fuori e, da quanto ne so, lo hanno fatto sfilettare in un altro locale. Quindi noi abbiamo solo ospitato le oltre cento persone. 

Potrebbe bastare questo per giustificarmi, ma vorrei smentire ciò che sta circolando sui social. Si tratta di chiacchiere che vengono alimentate da voci di popolo". "Si è voluto creare un caso che non esiste pubblicando perfino immagini scabrose false, poiché le persone immortalate non sono nel mio locale", ha poi concluso. 

“LA SCARICA DEI 101” – SUI SOCIAL SI SCATENA IL “CINEMERDA” SUI FATTI DI GUBBIO. LA DAGO-SELEZIONE il 21 ottobre 2022.

- La scarica dei 101

- Non ci resta che stringere

- Attrazione fecale

- Bianco, rosso e merdone

- Un giorno di ordinaria dissenteria

- Qualcuno cacò sul nido dal suo culo

- Smerdo quando voglio

- Caca-land 

- Cagocalisse now

- Cag-otto sotto un tetto

- Le feci ignoranti

- Mangia, prega, caca

- Maledetto il giorno che ti ho pescato

- Il mio grasso, grasso pandemonio dietro

- Cacca a ottobre rosso 

- Cago dalle nubi

- Quattro cacatoni e un orinale

- Io speriamo che la trattengo

- Indovina chi caga a cena?

- Il signore dei Tarz-anelli

GUBBIO MEME

- Tonno scatenato

- Scene da un matr-IModium

- Intestini nella tormenta

- Quo caghis?

Valerio Salviani leggo.it il 21 ottobre 2022.

Vanno a pesca di tonni e si riuniscono per mangiarli, ma il pranzo a Gubbio finisce nel peggiore dei modi. I membri di una società di pesca sportiva, sono rimasti vittime di un attacco di dissenteria acuta. In molti, dopo aver consumato il pesce auto-pescato, probabilmente crudo, hanno dovuto fare i conti con dissenteria e vomito e hanno avuto bisogno dei soccorsi. La vicenda è poi diventata un caso social, con audio e foto che hanno cominciato a circolare su Facebook e su WhatsApp. 

Il pranzo incriminato risalirebbe a domenica scorsa. Alcuni audio, diventati virali sui social, descrivono l'accaduto. «Scene apocalittiche», si sente nella registrazione. Una società di pesca sportiva si sarebbe riunita in un ristorante del centro a Gubbio per mangiare i tonni pescati, ma qualcosa è andato storto.

Quando il pranzo stava per concludersi, molti membri del gruppo, formato da circa 40 persone, hanno accusato nausea e forte mal di stomaco, che poi è sfociato in un attacco di diarrea acuta. Qualcuno è uscito fuori per vomitare, qualcun altro è scappato in bagno. Panico tra i presenti, che hanno chiamato i soccorsi. Sono intervenute due ambulanze e alcuni dei membri del gruppo sono stati ricoverati in ospedale con codice verde.

Dagonews il 25 ottobre 2022.

Il dubbio, anzi il Gubbio, è sorto a molti. Ma l’episodio di dissenteria che “ha fatto perdere la merda come le oche”, tra gli altri anche al signor Biscotto, al secolo Claudio Casagrande, è una fake news montata ad arte o veramente in un ristorante del centro di Gubbio in molti non sono riusciti a tenersela nelle mutande? 

È lui in persona, "Biscotto", a chiarire i fatti a "La Zanzara" : “Era un pranzo di pesce con ricciola e tonno. Io sono scappato subito dopo l’antipasto perché lo stomaco brontolava. Per fortuna abito vicino al ristorante” – dice Biscotto – che conferma “7-8” casi di dissenteria legati al pranzo. Ma lui si è veramente “cagato sotto come le oche?” “È stata un’ombrellonata” (insomma, una cagata a spruzzo). Quindi qualcosa c'è stato. 

L’associazione di pescatori aveva scritto in un comunicato che al pranzo: “non sono state riportate intossicazioni alimentari di nessuna forma" e che  "nessuna delle persone partecipanti al pranzo si è recata presso autorità sanitarie ed ha avuto necessità di alcun intervento sanitario". A sentire la testimonianza del commensale non è andata proprio così. 

L’associazione, prima che arrivasse la testimonianza diretta di Biscotto, si era comunque smentita da sola due righe sotto: “Le due ambulanze accorse sul luogo hanno trasportato per accertamenti due pazienti dimessi nel tardo pomeriggio”. Delle due l’una, o nessuno ha avuto bisogno di cure mediche o qualcuno all’ospedale ci è andato.

La testimonianza a “La Zanzara” conferma anche l’incidente stradale che si è verificato il giorno del pranzo. Il motivo dello schianto? Rimarrà il dubbio. Che sia stata la fretta di tornare a casa per liberarsi? Tutti smentiscono, sarà stata una coincidenza. 

Quello che è certo è che il ristorante coinvolto nella vicenda il prossimo 28 ottobre organizzerà dalle ore 20:15 una cena solidarietà al costo di 25 euro a persona. Quale sarà il menù? Evitiamo il pesce. Forse una tagliata ben cotta è più prudente.

Il servizio de " Le Iene" il 26 ottobre 2022. 

Vomito, diarrea e "scene apocalittiche" dopo un pranzo di pesce a Gubbio: ne abbiamo parlato un po' tutti in questi giorni. Tutto è partito con un tam tam di vocali su WhatsApp. Fake news? Noi con Michele Cordaro siamo andati a indagare sul disastro intestinale di Gubbio! 

Da tgcom24.mediaset.it il 26 ottobre 2022.

La verità è che alcune persone (circa 20/30 commensali) hanno avvertito un malore durante il pranzo dopo aver consumato del pesce crudo, ciò che non sarebbe assolutamente vero sono le "scene apocalittiche" descritte nei messaggi audio di Whatsapp diventati in breve tempo virali.

"Le Iene" provano a fare chiarezza sulla vicenda del ristorante di Gubbio dove un pranzo a base di pesce avrebbe intossicato una comitiva di persone che si sarebbe trovata ad affrontare scariche di diarrea e vomito improvvisi. Ma il ristoratore smentisce alcuni particolari circolati in rete e dichiara: "A infangare il locale non sono state le persone con la dissenteria, ma coloro che hanno diffuso i messaggi fake su WhatsApp".

Il proprietario del ristorante spiega di aver ceduto il locale all'associazione di pescatori, ma di aver cucinato per loro solo alcune pietanze presenti nel menù. "L'inghippo è stato che alcuni cibi sono stati portati da fuori, su 100 persone 20/30 hanno avuto problemi di dissenteria", racconta il ristoratore che smentisce categoricamente le scene descritte negli audio, particolarmente colorite, dove si raccontava di persone in stato critico con diarrea incontrollabile, ma non solo anche di incidenti d'auto e di ambulanze per i casi più gravi. 

Insieme agli audio sono state inoltrare anche diverse foto a sostegno di quando descritto, ma anche quelle sarebbero false. Ad assicurarlo è proprio uno dei protagonisti della vicenda: un uomo chiamato "Biscotto". 

"Ho avuto dei piccolissimi disturbi durante il pranzo, ma nulla di quanto descritto negli audio", spiega l'uomo che racconta di essere tornato a casa durante il pranzo, ma di aver raggiunto nuovamente il ristorante dopo una mezz'ora perchè si sentiva meglio. "Nessuna scena apocalittica, quello che ha mandato l'audio ha ingigantito per risultare più simpatico", rivela l'uomo.

"Biscotto indossava i pantaloni bianchi - spiega un testimone - ma quelli inviati sulla chat non erano i suoi: si trattava di una foto fasulla, foto che tra l'altro girava sul web da anni". 

Infine, però, anche il sindaco di Gubbio intervistato da "Le Iene" ci tiene a fare chiarezza sulla vicenda e riferisce: "Stiamo denunciando tutti, la goliardia ha un limite e faremo tutto il necessario per tutelare l'immagine della città".

La vera storia dell’intossicazione a Gubbio, spiegata dal titolare del ristorante. Enrico Galletti su Il Corriere della Sera il 21 ottobre 2022.

Massimiliano Casoli è il titolare del ristorante «Federico da Montefeltro» di Gubbio protagonista della notizia che ha fatto il giro del web nelle ultime ore. È l’ora di cena, ci risponde al telefono mentre sta scrivendo una comanda. «Le notizie sull’intossicazione? False, tutte false. Nessuna intossicazione, stiamo scherzando?». Squilla il telefono, quello fisso. Trenta secondi di chiamata: «Ennesima telefonata goliardica, da stamattina prenotano e disdicono. Vogliono sapere se serviamo pesce crudo…». Conviene fare un passo indietro e riavvolgere il nastro, partendo dalla «notizia» — che notizia non era — che si è diffusa nelle scorse ore. Secondo questa «non notizia», diversi clienti avrebbero avuto un’intossicazione alimentare da pesce crudo, che avrebbe causato dissenteria acuta. Tutto è nato da alcuni audio WhatsApp, che però sembrerebbero essere falsi. Secondo le testimonianze dei vocali, un gruppo di pesca sportiva si sarebbe recato nel locale con del tonno pescato in giornata, chiedendo di servirlo ai tavoli. Sempre stando alla versione dei messaggi – che però potrebbero essere stati creati ad arte – almeno quaranta persone avrebbero poi accusato una grave intossicazione alimentare. Alcuni sarebbero stati costretti a «defecare nei corridoi e negli angoli del ristorante, altri per strada». Altri ancora, in stato di ebbrezza, avrebbero «causato incidenti» in quei momenti concitati. «Hai visto che c’è l’associazione di Gubbio, quella che va a pesca di tonno? Hanno fatto il pranzo e hanno avuto la dissenteria – recita la voce in un audio -. Poi uno ubriaco ha rovinato tre macchine, i carabinieri sono arrivati e aveva tutte le feci sul sedile. Hanno bevuto ogni cosa, erano tutti ubriachi. Poi hanno chiamato due ambulanze, una donna l’hanno portata via perché le ha fatto male il pesce». E il racconto continua: «Per poter andare in bagno, hanno iniziato a girare tutti i bar e i ristoranti del centro di Gubbio. Non riuscendo a trovare un bagno, uno abitando lì vicino ha detto: “Prendo la macchina e vado a casa”. Solo che era ubriaco e si è ribaltato con l’auto». A margine degli audio anche alcune foto, scatti che non contengono però alcun riferimento al ristorante. A far sorgere il dubbio che si trattasse però di una notizia del tutto infondata è stato il fatto che la stessa non trovasse conferma in nessuna fonte ufficiale. A cominciare dall’azienda sanitaria locale Umbria 1, che dice di non aver ricevuto segnalazioni di gravi intossicazioni alimentari, né di aver ordinato ispezioni nel ristorante. A fare chiarezza, al telefono con il Corriere della Sera, è il titolare del locale, Massimiliano Casoli: «L’episodio risale al 2 ottobre, il fatto che questo caso sia scoppiato dopo venti giorni dovrebbe essere già indicativo del fatto che si tratti di una fake news». Quindi, quella sera, nessuna ambulanza? «No, il 118 purtroppo è intervenuto, ma non per un’intossicazione. Abbiamo chiamato l’ambulanza perché due persone, fratello e sorella, hanno avuto un abbassamento di pressione. A bordo della seconda ambulanza infatti c’era un cardiologo. Insomma, sono stati interventi che nulla hanno a che vedere con la qualità o la tipologia del cibo somministrato nel mio ristorante, con la preparazione dello stesso o con i metodi di cottura utilizzati, come a qualcuno piacerebbe far credere». Casoli è già al lavoro per lasciarsi tutto questo caos alle spalle. «Ci siamo mossi legalmente, ma chi doveva capire la nostra buona fede ha capito».

La storia degli attacchi di dissenteria a Gubbio puzzava fin dall’inizio. Il Domani il 21 ottobre 2022

Sui social si è diffusa la storia di multipli attacchi di dissenteria che avrebbero colpito decine di commensali in un ristorante. Ma quanto viene raccontato nei meme sembra molto diverso dalla realtà

Se è vero che è un peccato rovinare una bella storia con la verità è bene, però, che la verità intervenga quando la storia – bella o meno che sia – finisce per danneggiare qualcuno. È il caso dei presunti attacchi di dissenteria che avrebbero colpito decine di commensali in un locale di Gubbio, in provincia di Perugia. Lo stesso ristoratore, che sta cercando in tutti i modi di mantenere l’anonimato e viva la sua reputazione, ora dice di essere pronto a denunciare.

LA STORIA 

Da giorni rimpalla sui social e sulle chat di whatsApp una storia, o meglio diverse storie, di un’intossicazione alimentare e delle sue nefaste conseguenze. Immagini, meme e messaggi vocali inoltrati migliaia di volte ricostruiscono la disavventura di una trentina di persone che, riunite in un noto ristorante di Gubbio, avrebbero iniziato via via a sentirsi male durante il pranzo.

I malcapitati si sarebbero messi in fila per il gabinetto. Ma qualcuno di loro non avrebbe fatto in tempo ad arrivarci, qualcun altro sarebbe addirittura svenuto. C’è anche chi, in preda a dolori lancinanti, si sarebbe messo alla guida per tornare a casa ma, ubriaco, si sarebbe schiantato contro altre auto parcheggiate. 

Dall’Umbria la notizia si è diffusa anche a centinaia di chilometri di distanza. Le immagini crude e le testimonianze di chi giura di aver assistito a un’apocalisse sono troppo incredibili per non essere condivise con amici e conoscenti. Così incredibili, si è scoperto, da essere state inventate o almeno abbondantemente drammatizzate. «Sono solo voci di popolo», ha detto il proprietario del vero ristorante in cui si ambienta la falsa vicenda.

LA VERSIONE DEL RISTORATORE

Il ristoratore, intervistato dal Giornale, minaccia denunce per diffamazione per chi ha finito per danneggiare l’immagine di un locale che, anche se mai nominato, a Gubbio è conosciuto e riconoscibile. Il locale ha effettivamente ospitato un pranzo a base di pesce il 2 ottobre scorso. Era un evento di tesseramento di una società di pesca sportiva, con quasi un centinaio di persone: in tavola tonno appena pescato per l’occasione. Del pesce crudo è stato servito – secondo la versione del locale – ma a prepararlo e “sfilettarlo” sarebbe stato un altro ristorante, su richiesta dei membri dell’associazione. 

Secondo quanto riferito a Fanpage, quel giorno soltanto due persone si sarebbero sentite male, richiedendo l’intervento del 118. 

«I malori nulla hanno a che vedere, in alcun modo, con la qualità e/o tipologia del cibo somministrato presso il ristorante, con la preparazione dello stesso o con i metodi di cottura utilizzati», sostengono dal locale. 

Un minimo appiglio alla realtà è stato dunque uno spunto sufficiente per la fervida immaginazione di chi, per gioco o per malizia, ha convinto il pubblico della rete di fatti mai accaduti, confondendo meme e realtà.

I 15 alimenti che non fanno bene ai diabetici (e le giuste alternative appetitose e salutari). Il Corriere della Sera il 6 Ottobre 2022. La proponiamo online — senza firma a causa di una agitazione dei giornalisti del Corriere della Sera

Per chi soffre di diabete una dieta salutare che eviti i pericolosi picchi di zucchero nel sangue è possibile, senza neppure troppe rinunce. Gli alimenti tabù sono davvero pochi e tutti sostituibili. «Non è corretto porre divieti - chiarisce il professor Gabriele Riccardi, professore di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Ateneo Federico II di Napoli - ma certi alimenti vanno certamente limitati. Per tutto esiste una valida alternativa»

La scelta degli alimenti

Diete troppo restrittive rischiano di essere abbandonate dopo pochi giorni di estrema frustrazione. Eppure chi ha il diabete deve stare molto attento a quello che mangia per mantenersi in salute. Bevande zuccherate, caramelle o dolci troppo zuccherini sono molto pericolosi perché l’organismo assorbe questi zuccheri semplici in modo quasi istantaneo. Va posta molta attenzione anche a tutti i tipi di carboidrati e agli alimenti con alti contenuti di grassi cattivi perché le persone diabetiche sono ad altissimo rischio di sviluppare malattie cardiache. «Non ci sono divieti - chiarisce il professor Gabriele Riccardi, professore di Endocrinologia e Malattie del Metabolismo all’Ateneo Federico II di Napoli- e una fetta di torta una volta alla settimana anche un diabetico se la può permettere . È molto importante però evitare picchi di zucchero nel sangue e i nostri suggerimenti offrono una alternativa salutare a cibi che farebbero male, con l’obiettivo di spingere chi soffre di diabete a seguire una dieta corretta senza troppe privazioni».

Riso bianco

Il riso bianco rilascia una grande quantità di amido durante la cottura per questo è un alimento poco adatto ai diabetici. Secondo una revisione di studi che ha coinvolto oltre 350 mila persone più riso bianco si mangia, maggiore è il rischio di sviluppare il diabete e il rischio aumentava dell’11% per ogni porzione di riso in più al giorno. Il riso bianco e la pasta possono causare picchi glicemici simili a quelli dello zucchero. Andrebbero limitati il più possibile alimenti processati fatti con farina bianca.

L’alternativa: riso integrale e paraboiled

«I cereali integrali non provocano gli stessi picchi di zucchero nel sangue grazie alla fibra, che aiuta a rallentare la corsa del glucosio nel sangue» spiega il professor Riccardi. Inoltre uno studio della Harvard School of Public Health ha rilevato che il consumo di due o più porzioni di riso integrale a settimana è associato a un rischio di diabete inferiore. «Un’alternativa valida è il riso paraboiled, quello che non scuoce - suggerisce il diabetologo - perché il rilascio dell’amido è più lento come per il riso integrale e non fa salire così velocemente la glicemia». Anche il riso basmati è caratterizzato da un minor indice glicemico rispetto alle altre qualità ed quindi è più adatto per i diabetici.

Aspartame o saccarina, stimola la preferenza per il gusto dolce a cui ci si abitua e di conseguenza si ricorrerà ad altri alimenti dolci, perché è quello il gusto a cui ci si è abituati»

L’alternativa: acqua, té o caffé

«L’acqua, anche gasata, è la bevanda più salutare in assoluto. Non sono la stessa cosa, ma in alternativa si possono scegliere tè e caffè perché sono bevande che si possono assumere anche amare ed essendo ricche di ponifenoli hanno un effetto benefico sulla glicemia». Un nuovo studio presentato al congresso della The European Association for the Study of Diabetes ha concluso che bere 4 tazze di tè verde al giorno può abbattere il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2.

Sushi

Andare al ristorante giapponese non è una scelta particolarmente dietetica e non fa molto bene a chi ha il diabete. Il chiraschi (la ciotola con abbondante riso accompagnata da pesce crudo) è da evitare perché il riso giapponese è addizionato di zuccheri e addensanti, con un indice glicemico molto alto. Anche i nigiri, gli uramaki, gli hosomaki sono sconsigliati: sembrano bocconcini ma contengono molto riso (e dunque amido)

L’alternativa: sashimi e verdure

Meglio optare per il sashimi, le fettine di pesce crudo possibilmente di alta qualità: contiene molte proteine e ha pochi carboidrati. Va scelta una soia a basso contenuto di sodio. Bene anche alimenti a base di alghe marine (wakame, nori) e edadame.

Pizza

La pizza è un piatto ricco di carboidrati e non è certo un alimento da mangiare tutti i giorni. Fa parte della tradizione culinaria italiana e anche i diabetici possono mangiarla, basta non esagerare

L’alternativa: pizza mignon alle verdure

«Chi soffre di diabete può mangiare la pizza una volta alla settimana con un piccolo accorgimento: va scelta la porzione mignon ( o mezza pizza) possibilmente con le verdure o i funghi. Da evitare condimenti come salsiccia, wustel, patatine e salame piccante. Ottimo l’impasto integrale»

Banane mature, uva, fichi

Tutta la frutta fresca contiene fibre e vitamine, caratteristica che la rende salutare per tutti i tipi di dieta. Ad ogni modo ci sono frutti che contengono più zucchero come banane mature, l’uva, i cachi, i fichi e i mandarini che potrebbero causare picchi di glucosio nel sangue. Naturalmente tutto dipende sempre dalle dosi.

L’alternativa: frutti meno zuccherini

La scelta migliore per chi è diabetico sono mele Granny smith, pere, arance, fragole, anguria, mirtilli e frutti di bosco

Fast food

I fast food sono luoghi poco salutari per tutti e per i diabetici ancora di più. Ma ogni tanto, in compagnia di amici, anche chi soffre di diabete può farsi la concessione, anche in questo caso, come per la pizza, piccoli accorgimenti rendono tutto più salutare.

Cornetto a colazione

Per mantenere la glicemia sotto controllo sono da evitare il classico cornetto, le paste dolci, e i toast con abbondante marmellata perché contengono farina bianca trasformata e sono ricchi di grassi, carboidrati e sodio. 

L’alternativa: hamburger semplice

Il professor Riccardi propone hamburger semplici senza formaggio accompagnati da un’abbondante insalata verde o mista

Cornetto a colazione

Per mantenere la glicemia sotto controllo sono da evitare il classico cornetto, le paste dolci, e i toast con abbondante marmellata perché contengono farina bianca trasformata e sono ricchi di grassi, carboidrati e sodio. 

L’alternativa: torte di riso integrali o yogurt senza zucchero.

«Il toast con la marmellata non è un tabù, basta spalmarne un velo con una percentuale del 60% di frutta»

Polenta e pane bianco

Polenta e pane bianco non sono alimenti adatti a chi soffre di diabete perché sono raffinati e ricchi di amido, quindi fanno aumentare la glicemia, proprio come il riso bianco.

L’alternativa: pasta e pane integrale

«La polenta si possiamo sostituirla con la pasta integrale e il pane bianco con quello integrale. Sul mercato ci sono molte qualità molto gustose con una vasta scelta»

Frullati e succhi di frutta

I frullati di frutta sembrano salutari, ma per un diabetico possono trasformarsi in qualcosa di molto pericoloso perché sono pieni di zucchero e possono essere dannosi quanto le lattine di bevande zuccherate. Anche i succhi di frutta sono pieni di calorie e ricchi di zuccheri e andrebbero davvero evitati, compresi la spremuta d’arancia etichettata senza zuccheri aggiunti e la spremuta casalinga.

L’alternativa: il frutto intero

Nel frutto intero lo zucchero è molto meno concentrato rispetto al succo. Il frullato si può bere, ma se composto con frutta a basso contenuto di zuccheri e verdure, come cavoli e spinaci e senza l’aggiunta di zuccheri.

Miscele di frutta secca disidratata

Nei supermercati sono in vendita miscele di frutta secca, con guscio e disidratata: un mix di noci, mandorle, nocciole, ma anche frutta disidratata come albicocca o uva passa. Il problema è che il processo di disidratazione fa diventare molto concentrati anche gli zuccheri ed è facile esagerare con le dosi dal momento che un’albicocca secca, a livello di zuccheri, è come un’albicocca fresca, solo molto più piccola e la stessa cosa con l’uva passa: abusarne è un attimo.

L’alternativa: solo frutta secca

Ci si può creare il proprio mix di semi di girasole, noci, mandorle, piccole quantità di cocco non zuccherato. Per chi ha il diabete una manciata di frutta secca con guscio è salutare. No invece a quella disidratata

Cereali raffinati

Cereali raffinati per colazione possono causare picchi di zucchero nel sangue, anche se le reazioni variano da persona a persona.

L’alternativa: cereali integrali o fiocchi d’avena

Per colazione si possono scegliere fiocchi d’avena senza zucchero o cereali integrali (attenzione che non ci sia aggiunta di zuccheri). Ottimi anche pane e grissini integrali

Formaggi

I formaggi fanno parte della tradizione culinaria italiana, sono ricchi di grassi saturi e non vanno consumati in grandi quantità: non più di due/tre volte alla settimana, ma questa è una regola generale che vale per tutti. Per i diabetici sono da evitare i formaggi più ricchi di grassi che sono mascarpone, gorgonzola, caciotta, formaggi stagionati.

L’alternativa: formaggi freschi

Per chi soffre di diabete sono da preferire la ricotta di vacca, il fioridilatte, primosale, i formaggi freschi un paio di volte alla settimana

Barrette energetiche e sport drink

A prima vista le barrette energetiche possono sembrare una scelta salutare come snack, ma la maggior parte contengono alti livelli di zuccheri e carboidrati. Stessa cosa per gli sport drink, che sono eccessivamente ricchi di zuccheri.

L’alternativa: cioccolato, mandorle, ghiaccioli

Per merenda meglio qualche mandorla, un ghiacciolo (ci sono solo 10 grammi di zucchero), un frutto, uno yogurt o un pacchetto di cracker integrali. «Va bene anche il cioccolato con poco zucchero, 10 grammi al giorno che equivale più o meno a un quadratino»

Patate fritte

Le patatine fritte non sono salutari per nessuno perché sono piene di carboidrati e grassi e una porzione può davvero risultare devastante per un diabetico perché sono ricche di amido.

L’alternativa: verdura fritta (una volta alla settimana)

«Le patatine fritte sono un problema per i diabetici perché contengono molto amido e la frittura non è certo salutare, anche se il metodo di cottura in questo caso è un problema secondario. Sono proprio le patate, pure quelle bollite, che dovrebbero uscire dalla dieta di un diabetico perché l’assunzione provoca un picco di glicemia importante. In alternativa vano benissimo la verdura cotta , magari con aggiunta di qualche spezia per renderla più saporita o legumi Una volta alla settimana va bene anche il carciofo, la zucchina o la melanzana fritta, facendo attenzione ad asciugare l’olio della frittura»

Carni grasse

I diabetici sono ad alto rischio di malattie cardiache. Anche se la carne è ricca di proteine e non contiene carboidrati (che aumentano lo zucchero nel sangue), alcune fonti di proteine sono migliori di altre. Va evitata la carne particolarmente ricca di grassi saturi (come la carne rossa), e la carne impanata.

L’alternativa: carne bianca, pesce e legumi

L’obiettivo è assumere il più possibile proteine di origine vegetale come fagioli, piselli, lenticchie. Meglio pesce, frutti di mare e carne bianca come pollo o tacchino che tendono a contenere meno grassi saturi.

Secondo Natura. Resveratrolo, l'antiossidante che è anche un antivirale. Sempre più studi mostrano che uno dei più potenti antiossidanti conosciuti ha anche proprietà antibatteriche, antivirali e cardio-protettive. Guido De Duccis il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Lo sappiamo da tempo, il resveratrolo è uno dei più potenti antiossidanti conosciuti. È anche uno dei più simpatici perchè ci consente di gustare, senza troppi sensi di colpa, un bel calice di vino rosso.

Che cos'è

È una sostanza di origine vegetale appartenente alla famiglia dei polifenoli. Si trova nell'uva rossa, nei mirtilli e, in generale, nei frutti di bosco. Non tutti però sanno che una pianta erbacea nota come caprifoglio giapponese ne è altrettanto ricca.

Le proprietà

Il resveratrolo, come già accennato, ha un'azione antinfiammatoria, antiossidante, neuro e cardio protettiva. Ma possiede anche specifiche proprietà antibatteriche e antivirali. Proprio su queste ultime vogliamo soffermarci. Studi recenti ne hanno dimostrato l'utilità nei confronti di quasi tutti i virus respiratori, sia a DNA che a RNA, tra cui l'influenza, i rhinovirus, il MERS-CoV e il SARS-CoV-2.

Proprio con riferimento al virus MERS-CoV (“cugino” del SARS-CoV-2), l'assunzione di resveratrolo ha ridotto l'espressione dell'RNA virale e la quantità di virus prodotto dalle cellule infette (ma, si badi, senza determinare l'inattivazione delle particelle virali).

Più in dettaglio si è scoperto che l'effetto antivirale in questo tipo di virus si esercita sull'espressione dei geni virali e sulla fase di maturazione del virus stesso. In particolare, nei casi di gravi infezioni, il trattamento con resveratrolo sembrerebbe produrre anche una riduzione delle specie reattive dell'ossigeno (ROS) prodotte dalle cellule infiammatorie (come i neutrofili) reclutati nel sito dell'infiammazione e che portano ai fin troppo noti danni polmonari.

Ascoltiamo la dottoressa Paola Mastromarino, microbiologa e virologa del Dipartimento sanità pubblica e Malattie infettive dell'Università La Sapienza di Roma: “Il resveratrolo inibisce la replicazione dei rhinovirus, del virus dell'influenza e del virus respiratorio sinciziale (Vrs). Inoltre, riduce drasticamente la sintesi delle molecole proinfiammatorie indotte dall'infezione (interleuchina-6 e 8) che sono le principali responsabili dei sintomi associati alle infezioni virali delle alte vie respiratorie. Il dato è rilevante, dato che un bambino su tre è affetto da malattie respiratorie, e che otto volte su dieci la causa è virale e gli antibiotici sono inefficaci”. Aggiunge, inoltre, che poiché “...il resveratrolo non colpisce il virus ma inibisce le vie cellulari utili al virus, la possibilità che si creino ceppi resistenti è improbabile”.

“Le infezioni respiratorie” ammonisce al riguardo Michele Miraglia Del Giudice, pediatra e allergologo presso la seconda Università di Napoli, “rappresentano in Italia circa l'80% delle visite pediatriche: il 25% dei bambini entro il primo anno di vita e il 18% di quelli in età compresa fra uno e quattro anni sono affetti da infezioni respiratorie ricorrenti”.

Ce ne è abbastanza per sperare che gli studi sul resveratrolo non si fermino qui. Nel frattempo via libera a uva rossa e mirtilli sulle nostre tavole.

Estratto dell'articolo di Mauro Evangelisti per “il Messaggero” il 7 ottobre 2022.

Ieri sera i sindaci di Napoli e di Pozzuoli hanno lanciato un appello: non mangiate spinaci sfusi, c'è il rischio che si tratti di mandragora. L'allarme è stato lanciato dopo che dieci persone sono state ricoverate nell'ospedale di Pozzuoli. Un uomo di 44 anni è molto grave, è in fin di vita, è stato intubato. 

Fanno parte di tre nuclei familiari diversi e dopo una rapida indagine è stato compreso che avevano mangiato delle foglie di mandragora che alcuni rivenditori di frutta e verdura avevano commercializzato per errore, proprio perché erano state scambiate per spinaci.

[…] Dopo le prime verifiche, è stato accertato che i fasci di mandragora sono stati distribuiti nei rivenditori di verdure al dettaglio in quattro province: oltre a Napoli, sono probabilmente arrivati a Caserta, Salerno e L'Aquila. Gran parte di questa verdura velenosa, scambiata per spinaci o comunque finita in mezzo agli spinaci, è stata ritirata dal mercato, sequestrata e sottoposta ad analisi. In particolare, nel mercato di Pozzuoli è stato portato via un quintale di spinaci. 

Ma c'è il timore che non tutta la mandragora sia stata recuperata e che qualcuno, inconsapevolmente, possa mangiarla. Per questo le autorità campane hanno lanciato l'appello sintetizzato dal sindaco di Pozzuoli, Gigi Manzoni: «In attesa di chiarimenti si raccomanda di evitare di acquistare verdure sfuse come spinaci e biete». 

Il Comune di Napoli consiglia, in nome della prudenza, di mangiare solo spinaci congelati. [...] Secondo le prime indagini, la mandragora è stata venduta da società di Forio d'Ischia, Aversa, Volla, San Valentino Toria e Avezzano.

Ma come è possibile scambiare per spinaci questa verdura, […] Marcello Ferruzzi, tossicologo del Centro antiveleni dell'ospedale Niguarda di Milano, spiega: «È diffusa soprattutto nel Sud Italia e con relativa frequenza veniamo consultati per casi di intossicazione, soprattutto in primavera, ma non è l'unica erba spontanea da temere».

Viene confusa con spinaci, biete, insalata o borragine «a causa di errori durante la raccolta da parte di persone non molte esperte. La sintomatologia è abbastanza tipica: dalla visione offuscata all'allargamento delle pupille. Può provocare anche bocca secca, costipazione, arrossamento della cute, febbre, sonnolenza, ma anche vertigini, confusione, convulsioni, costipazione, tachicardia, fino alle allucinazioni». […]

L’allarme per il batterio che contamina alcuni alimenti. Cos’è la listeria, i sintomi e la cura: il caso delle 3 morti sospette e il ritiro dei wrustel contaminati dai supermercati. Elena Del Mastro su Il Riformista il 28 Settembre 2022. 

Nelle ultime settimane sta destando preoccupazione in Italia l’aumento dei casi di listeriosi alimentare. Si tratta di un batterio che colpisce chi mangia alimenti contaminati dal batterio Listeria monocytogenes. Il focolaio sarebbe partito da un’ azienda che produce wurstel di carne avicola commercializzata con differenti marchi. L’attenzione era alta già dal 2020 e il Ministero ha subito posto disposto l’individuazione e il ritiro dal mercato di tette le confezioni contaminate.

Secondo quanto riportato da Repubblica che cita dati del Ministero, negli ultimi mesi ci sarebbero stati “tre decessi di persone in condizioni di fragilità per età e patologie concomitanti”. Due di questi erano già noti all’inizio di luglio e sono avvenuti tra Lombardia ed Emilia-Romagna. I casi invece, in base agli approfondimenti di un gruppo di lavoro creato per fronteggiare l’emergenza, sarebbero stati 66, una parte dei quali sono finiti in ospedale.

Il Ministero della Salute sottolinea che “l’azienda ha avviato tutte le misure a tutela del consumatore con il ritiro dei lotti risultati positivi (1785417 e 01810919) e, in applicazione del principio di massima precauzione, di tutti quelli prodotti prima del 12 settembre 2022. Ha inoltre messo in atto una comunicazione rafforzativa di quanto già indicato sui prodotti direttamente nei punti vendita. Al momento sono in atto ulteriori indagini anche su altre matrici e su altri tipi di prodotti che potrebbero essere correlati ai casi umani di listeriosi”, si legge sul sito.

Che cos’è la listeria responsabile della listeriosi?

“Listeria monocytogenes, responsabile della listeriosi, è un batterio ubiquitario che può essere presente nel suolo, nell’acqua e nella vegetazione e può contaminare diversi alimenti come, latte, verdura, formaggi molli, carni poco cotte, insaccati poco stagionati – si legge sul sito del Ministero della Salute – La principale via di trasmissione per l’uomo è quella alimentare. Bambini e adulti sani possono essere occasionalmente infettati, ma raramente sviluppano una malattia grave a differenza di soggetti debilitati, immunodepressi e nelle donne in gravidanza in cui la malattia è più grave”. L’Istituto superiore di Sanità spiega che “pur essendo meno frequente rispetto ad altre malattie trasmesse dagli alimenti, come la salmonellosi e la campilobatteriosi, ha la più alta percentuale di ospedalizzazione e di mortalità fra tutte le zoonosi”.

Quali sono i sintomi della listeria?

La gravità dei sintomi può essere variabile in base dose infettante e dello stato di salute dell’individuo colpito. Si va da forme simil-influenzali o gastroenteriche, accompagnate a volte da febbre elevata fino, nei soggetti a rischio, a forme setticemiche, meningiti o per le donne in gravidanza anche l’aborto. In generale non è pericoloso, soprattutto se si cuociono bene i cibi, ma nei soggetti a rischio – come gli immunodepressi – può avere esiti mortali.

Quali sono gli alimenti più a rischio listeria?

Listeria monocytogenes resiste molto bene alle basse temperature e all’essiccamento, in alimenti conservati a temperatura di refrigerazione (4°C). È invece molto sensibile alle usuali temperature di cottura domestica degli alimenti. Secondo quanto riportato dall’Iss, questa caratteristica di moltiplicarsi a temperature intorno ai 4°C, rende particolarmente a rischio gli alimenti pronti al consumo, vale a dire quelli che non necessitano di trattamenti di cottura/riscaldamento prima di essere mangiati, poiché il batterio potrebbe moltiplicarsi e raggiungere livelli potenzialmente pericolosi durante la conservazione in frigorifero. “La possibilità che Listeria monocytogenes si moltiplichi negli alimenti è anche legata alle loro caratteristiche fisico-chimiche – si legge sul sito dell’Iss – Alimenti più ‘secchi’ e più acidi (es. formaggi stagionati, salumi stagionati) ostacolano la sua moltiplicazione, rispetto ad alimenti più umidi e meno acidi (es. formaggi freschi, salmone affumicato) che, invece, favoriscono la sua crescita”.

La listeria si può curare?

Sì, con una terapia antibiotica.

Cosa fare per prevenire la listeriosi

Il Ministero della Salute invita i consumatori a prestare massima attenzione alle corrette modalità di conservazione, preparazione e consumo degli alimenti, nel caso specifico dei würstel, indicate in modo preciso nell’etichetta presente sulla confezione, che normalmente comportano la cottura prima del consumo.

L’adozione di semplici regole di igiene nella manipolazione degli alimenti, anche a livello domestico, riduce il rischio di contrarre la malattia. Il Ministero raccomanda di lavarsi spesso le mani, pulire frequentemente tutte le superfici e i materiali che vengono a contatto con gli alimenti (utensili, piccoli elettrodomestici, frigorifero, strofinacci e spugnette).

Inoltre di conservare in frigorifero gli alimenti crudi, cotti e pronti al consumo in modo separato e all’interno di contenitori chiusi, cuocere bene gli alimenti seguendo le indicazioni del produttore riportate in etichetta e inoltre di non preparare con troppo anticipo gli alimenti da consumarsi previa cottura (in caso contrario conservarli in frigo e riscaldarli prima del consumo). Infine, il Ministero raccomanda di non lasciare i cibi deperibili a temperatura ambiente e rispettare la temperatura di conservazione riportata in etichetta.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto del libro “Il cibo buono” di Antonella Viola e Daniele Nucci per “la Stampa” il 19 settembre 2022.

L'ambiente in cui viviamo è ricco di forme di vita che possono mettere in pericolo la nostra salute: virus, batteri, funghi e parassiti sono da sempre una minaccia per il nostro corpo, che si difende grazie a una serie di molecole, cellule e tessuti. Il sistema immunitario ha appunto lo scopo di individuare la presenza di microbi pericolosi e di reagire per eliminarli. In realtà, oltre a riconoscere potenziali nemici, sorveglia il nostro corpo e si attiva anche in risposta a un danno o alla perdita di quell'equilibrio che normalmente gli consente di ignorare ciò che non è pericoloso e di rispondere prontamente a una minaccia. 

Il legame tra immunità e alimentazione è molto complesso. Da molto tempo sappiamo che una carenza di calorie e nutrienti, come accade nelle persone denutrite, causa un forte indebolimento del sistema immunitario, che non riesce quindi a combattere infezioni anche banali. D'altro canto, anche una dieta squilibrata o troppo ricca di calorie altera il sistema immunitario. Nell'obesità, per esempio, le cellule dei depositi adiposi producono molecole, le adipochine, in grado di modificare l'attività del sistema immunitario. Come conseguenza si avrà un calo delle difese contro le infezioni e un aumento dell'infiammazione a carico di tutto il corpo.

Quando si verifica un danno in qualche parte del nostro corpo, si liberano delle molecole che attivano un cambiamento a livello dei vasi sanguigni del microcircolo (i piccoli vasi che uniscono le arterie alle vene, il luogo dove avvengono gli scambi di gas, nutrienti, ormoni e altri soluti). Lo scopo di questo cambiamento è far arrivare nel tessuto danneggiato le molecole e le cellule dell'immunità, per eliminare la causa del danno e iniziare il processo di guarigione. 

L'infiammazione è quindi una normale risposta del nostro corpo e ha una funzione protettiva. Tuttavia, quando è intensa o protratta nel tempo, essa stessa diventa causa di danno ai nostri organi. L'infiammazione acuta ed eccessiva può impedire lo svolgimento delle normali funzioni, come accade per esempio nei polmoni dei pazienti affetti da Covid-19 severo, mentre quella silente e cronica favorisce lo sviluppo di malattie metaboliche o di tumori. 

Il cibo ha un ruolo essenziale nel proteggerci dall'infiammazione o, al contrario, nel favorirla. Mangiare bene è quindi la prima forma di prevenzione: serve a tutelare il buon funzionamento del sistema immunitario. Nel nostro intestino vivono trilioni di microrganismi. In realtà i microbi sono presenti in varie parti del nostro corpo, come sulla pelle o nei polmoni, ma la popolazione microbica dell'intestino, detta anche microbiota intestinale, è non solo la più studiata in relazione al sistema immunitario e al nostro stato di salute, ma anche quella che è direttamente legata alla nostra alimentazione.

Il legame è bidirezionale. I batteri presenti nell'intestino svolgono delle funzioni fondamentali tra cui la produzione di vitamine, la stimolazione della digestione e dell'assorbimento degli alimenti, la regolazione della permeabilità della barriera intestinale (quella barriera costituita da cellule epiteliali che riveste l'intestino e permette di separare l'ambiente esterno, dove transita il cibo, da quello interno, dove viene assorbito ciò che è utile). Inoltre, come vedremo con maggiore dettaglio, i microbi stimolano il sistema immunitario, allenandolo nel modo giusto, inibendolo o, al contrario, eccitandolo eccessivamente.

D'altro canto, però, è anche vero che i microbi si nutrono di ciò che noi mangiamo, in una relazione di dipendenza e utilità reciproca. Sarà il tipo di cibo con cui li (e ci) nutriamo che determinerà il prevalere di un tipo di microrganismi su un altro. Se mangeremo molte fibre, nutriremo e faremo moltiplicare i batteri che si nutrono di fibre. Al contrario, se mangiamo molti zuccheri semplici, selezioneremo un microbiota affamato di zucchero, che ce ne chiederà sempre di più.

Il nostro microbioma è diverso da quello di ogni altra persona. Esso prende forma durante i primi anni della nostra vita e cambia continuamente a seconda del nostro stile di vita, dell'ambiente in cui viviamo, dei farmaci che assumiamo e di ciò che mangiamo.

La maggior parte degli scienziati ritiene che la prima esposizione ai microbi si verifichi durante il parto e subito dopo la nascita, e che sia principalmente plasmata dal microbiota materno. La modalità del parto è il primo evento che plasma la composizione del microbiota del neonato. I bambini nati tramite taglio cesareo sono colonizzati più frequentemente da specie batteriche quali Klebsiella, Enterobacter e Clostridium e meno da Bifidobacterium e Bacteroides rispetto a quelli nati per via vaginale.

Le prime interazioni che si instaurano in questo periodo tra i microbi e le mucose intestinali del bambino sono determinanti per lo sviluppo completo e corretto del suo sistema immunitario e alcuni ricercatori pensano che le differenze nella colonizzazione possano spiegare l'aumento del rischio di asma e malattie allergiche nei bambini nati con il cesareo. Ma la vera colonizzazione arriva con l'ingestione del latte, soprattutto se il neonato è allattato al seno materno.

L'allattamento, insieme ai nutrienti essenziali per la crescita del bambino, fornisce anche microbi e sostanze che stimolano il microbiota del neonato. Ogni millilitro di latte materno contiene migliaia (da 102 a 104) di microbi vivi. Lactobacillus, Staphylococcus, Enterococcus e Bifidobacterium vengono infatti direttamente trasferiti con l'allattamento. Inoltre, gli oligosaccaridi presenti nel latte materno sono dei fenomenali prebiotici che nutrono i microrganismi dell'intestino. I bambini allattati al seno hanno infatti una composizione microbica diversa rispetto a quelli nutriti con latte artificiale. È quindi sin dal primo pasto che iniziamo a plasmare il nostro microbiota e il nostro sistema immunitario.

Camilla Sernagiotto per corriere.it il 14 settembre 2022.  

Vengono definiti cibi a calorie negative: sono gli alimenti caratterizzati da un numero così esiguo di calorie che introdurli e attivare la digestione farebbe bruciare più dell'apporto calorico del cibo ingerito. Quindi, di fatto, parliamo di alimenti che farebbero dimagrire mangiando. Una chimera? Secondo gli esperti non si tratterebbe affatto di utopia. Esiste infatti la cosiddetta termogenesi indotta dalla dieta. 

«In parole semplici significa che il corpo “brucia” una certa quantità di energia (ossia calorie) per la trasformazione del cibo, dalla masticazione alla vera e propria digestione nello stomaco fino all’assorbimento dei nutrienti a livello intestinale» spiega la dietista e nutrizionista Jessica Benacchio sul proprio sito web, sottolineando come «l'atto stesso di mangiare faccia bruciare calorie».

«Esistono alcuni alimenti che ci permettono di consumare più calorie di quelle fornite quando li mangiamo, stimolando opportunamente il nostro metabolismo». Questi cibi sono alimenti a bassa densità calorica, contenenti pochi grassi, pochi carboidrati e poche proteine, ma allo stesso tempo molto ricchi di acqua. 

«Il bilancio tra quanto speso e quanto immesso può diventare negativo» argomenta la dietista. Tra gli alimenti a calorie negative ci sono innanzitutto i vegetali: frutta e verdura, ma anche le spezie. Di solito sono quelli più ricchi di fibre e vitamine (la C soprattutto) a garantire la termogenesi indotta dalla dieta. Come raccomandano gli esperti, è necessario masticare bene e a lungo per aiutare la digestione, per stimolare la produzione di succhi gastrici e per attivare il processo attraverso cui si percepisce il senso di sazietà.

Nel dettaglio quali sono questi vegetali lo spieghiamo qui. Il primo è il sedano: con un apporto di sole 20 calorie ogni 100 grammi è tra i più ipocalorici che esistano. Il processo digestivo per metabolizzare il sedano comporta un dispendio di energia maggiore rispetto alle calorie introdotte a ogni gambo. Parliamo inoltre dell’alimento spezza-fame per eccellenza, ottimo come snack salutare e altamente dietetico.

Anche il cavolfiore è un alimento ipocalorico, con un apporto di 25 calorie ogni 100 grammi. Questo è lo stesso apporto calorico del cavolo. I plus di entrambi? Sono molto ricchi d'acqua, dunque capaci di reidratare l'organismo e combattere così la ritenzione idrica (che è causa della cellulite). Il modo migliore per consumare cavolfiore e cavolo, rimanendo a tema calorie negative? Optare per quelli lessati e cotti a vapore.

Sono soltanto 12 le calorie per ogni 100 g di cetriolo. In più parliamo di un alimento composto per il 95 per cento di acqua, dunque ottimo per combattere la ritenzione idrica, reidratare in profondità l’organismo ed eliminare le tossine. Le sue proprietà detox lo rendono un alleato della salute, mentre il contenuto notevole di sali minerali quali potassio e fosforo — oltre che di vitamine (C e K in primis) — lo incorona re della buona tavola, dove buona non sta solo per il gusto. Il cetriolo si può consumare crudo, tagliato a rondelle sottili e aggiunto a insalate così come sopra ai medaglioni di carne degli hamburger.

Rucola, crescione, lattuga iceberg e lattuga romana sono i vegetali meno calorici tra quelli usati per le insalate. La rucola apporta 28 calorie; il crescione 32; la lattuga iceberg 14 calorie e quella romana 15 calorie (per 100 grammi). Sono tutte verdure ricche di acqua, fibre, vitamine (tra cui A e K), folati e sali minerali quali calcio e potassio.

Fanno parte degli alimenti a calorie negative anche broccoli, spinaci, zucchine e barbabietole. I broccoli apportano 34 calorie per ogni 100 grammi e sono molto ricchi di vitamina C. Gli spinaci si aggirano sulle 23 calorie per etto, offrendo invece parecchia vitamina K e vitamina A, molto acido folico e anche un maggior numero di proteine rispetto ad altre verdure a foglia.  

Le zucchine hanno un apporto medio di 17 calorie e ultimamente sono usate a mo’ di zoodles, ossia noodles composti da zucchine tagliate a spirale (gustosi e ben più povere di carboidrati rispetto ai noodles tradizionali). Infine si aggiungono alla lista di alimenti a calorie negative anche le barbabietole, con 43 calorie per etto e un buon apporto di potassio.

Il brodo è un amico della linea. Ne esistono molte varietà (tra cui di pollo, manzo, pesce o verdure). Viene consumato da solo oppure è impiegato come base per zuppe più elaborate e stufati. Il brodo di carne sgrassato apporta 7 calorie per 100 grammi, quello di pesce 10 calorie e quello vegetale 11. Un altro cibo a calorie negative è l’aglio, che apporta 41 calorie ogni 100 grammi (ma sfidiamo chiunque a ingerire 100 grammi di aglio). Contiene acqua, proteine, lipidi, fibre, vitamina A e C, niacina, potassio, fosforo, calcio, sodio e ferro. 

Benché sia una fonte di antiossidanti e di precursori di una molecola (l’allicina) dotata di attività antibatterica, antivirale e antimicotica, bisogna fare attenzione perché «l’aglio può interferire con l’assunzione degli anticoagulanti» come si legge sul sito web dell’Humanitas. In caso di dubbi è bene chiedere consiglio al proprio medico.  

Dulcis in fundo, nel piatto di chi vuole provare i cibi a calorie negative possono finire, se piacciono, i funghi bianchi (26 calorie per ogni 100 grammi). Sono ottimi da consumare come sostituti della carne, grazie alla loro consistenza spugnosa che li rende un’ottima alternativa vegana e vegetariana.

 Silvia Turin per corriere.it il 26 agosto 2022.

La mania del low-carb (il taglio dei carboidrati) va ancora forte, soprattutto in alcuni tipi di dieta (come la keto). Quando però decidiamo di togliere dal piatto intere categorie di nutrienti (scelta sempre dannosa) dobbiamo sapere a cosa andiamo incontro 

Si perde peso, ma sono liquidi

Dopo i grassi, i «nemici» sono diventati i carboidrati: diverse diete puntano su una loro marcata riduzione, ed è quindi importante capire quale sia l’impatto di questi regimi sulla salute, soprattutto nel lungo periodo.

Quando si riduce l’apporto di carboidrati, la prima cosa che si nota è la rapidità quasi magica di perdita di peso, ma non si tratta di grasso, stiamo perdendo acqua. I carboidrati sono immagazzinati nel corpo sotto forma di glicogeno, ogni grammo accumula da tre a quattro volte il suo peso in acqua. Quindi, non appena si tagliano i carboidrati e si inizia a utilizzare il glicogeno, ogni grammo di carboidrato in meno sono 3 grammi persi di acqua.

Calano le prestazioni

I carboidrati sono energia subito disponibile che brucia i grassi e le proteine. Altre vie metaboliche sono più lunghe e affaticano l’organismo, per questo le nostre prestazioni calano. I carboidrati sono la fonte di energia primaria del corpo. Aiutano e «spingono» tutti i tipi di esercizio, sia di resistenza che di potenza: se tagliate i carboidrati la vostra energia diminuirà. 

Sarete «lunatici»

I carboidrati inducono la sintesi della serotonina, il neurotrasmettitore della serenità e della tranquillità, che fa pure passare la fame. Siano semplici o complessi, quando vengono tolti il nostro benessere mentale potrebbe peggiorare.

È come avere l’influenza

Dato che i carboidrati sono la principale fonte di energia per il cervello, quando una persona li riduce (o elimina) il cervello si «annebbia». I grassi bruciano al fuoco dei carboidrati, se non ci sono carboidrati il metabolismo dei grassi si blocca e si ferma a livello dei corpi chetonici, che entrano in circolo e si accumulano: sono tossici per l’organismo e riducono la massa magra perché bruciano i muscoli. Il cervello li utilizza con fatica, ma li utilizza lo stesso. Il risultato: alito cattivo, stanchezza, debolezza, vertigini, insonnia, nausea. In sostanza, ci si sente come se avessimo l’influenza.

«Dipendenza»

I carboidrati raffinati sono famosi per innalzare i livelli di zucchero nel sangue. Una ricerca pubblicata sull’American Journal of Clinical Nutrition suggerisce che questi sbalzi (di solito repentini) attivano anche i centri di dipendenza del cervello e fanno sì che torni quasi subito la voglia di rimangiare gli alimenti che hanno questo «potere». Anziché rinunciare ai carboidrati in toto, però, basterebbe optare per quelli integrali che hanno un assorbimento più lento ed evitano che i livelli di zucchero nel sangue siano soggetti a questi picchi. 

Combattono insonnia e stress

La pasta la sera? Milioni di italiani non la consumano per paura di ingrassare o di compromettere il sonno. In realtà uno studio pubblicato sulla rivista The Lancet Public Health dimostra che mangiare pasta a cena migliora il riposo notturno e non fa ingrassare. La ricerca spiega che la pastasciutta può essere consumata nelle ultime ore del giorno, soprattutto se siamo stressati e soffriamo d’insonnia, grazie alla presenza in questo alimento di Triptofano e Vitamine del gruppo B. Dormire bene riduce gli ormoni responsabili della fame e non favorisce l’aumento di peso. La pasta favorisce anche il rilassamento muscolare. L’importante è fermarsi agli 80 grammi a testa, cotta al dente e con olio a crudo.

Stitichezza

L’assunzione di cereali integrali è importante per innalzare la quantità di fibra che si assume. Secondo uno studio pubblicato sul Nutrition Research il 92 per cento degli statunitensi adulti non ne mangia abbastanza. La fibra (che naturalmente si trova anche in frutta e verdura) non solo aiuta a stabilizzare i livelli di zucchero nel sangue e a ridurre il rischio di obesità e malattie croniche, ma aiuta anche il transito intestinale.

Rischio di malattie cardiache e diabete

In merito a patologie cardiache e diabete, la scelta di esclusione può fare la differenza: uno studio del 2014 pubblicato su PLoS ONE ha rilevato che i carboidrati raffinati fanno salire i livelli di un acido grasso che aumenta il rischio di malattie cardiache e diabete di tipo 2, però, secondo l’American Heart Association i cereali integrali migliorano i livelli di colesterolo nel sangue e riducono il rischio di malattie cardiache, ictus, obesità e diabete di tipo 2. La scelta è chiara ed è la medesima: anziché rinunciare ai carboidrati, basta optare per quelli integrali.

La giusta regola

Ma allora qual è la giusta regola per l’assunzione dei carboidrati? Lo dicono i LARN, i Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti ed energia per la popolazione italiana. Nel 2014 hanno stabilito che i carboidrati dovrebbero costituire tra il 45 e il 60% delle calorie totali della giornata. Se possiamo, meglio mangiarli integrali ma non solo, perché la fibra in alcuni casi impedisce l’assorbimento dei sali minerali.

Un esempio

In uno studio pubblicato da The Lancet, alcuni esperti del Brigham and Women’s Hospital di Boston e di altri centri di ricerca americani hanno esaminato l’associazione fra consumo di carboidrati e rischio di mortalità in più di 15mila adulti, seguiti in media per 25 anni. I ricercatori hanno concluso che le diete con pochi o con troppi carboidrati, rispettivamente con meno del 40% e più del 70% delle calorie totale, erano associate a un aumento del rischio di mortalità (dovuto alla maggior probabilità di soffrire di malattie metaboliche e cardiovascolari); mentre il rischio diminuiva, quando i carboidrati fornivano dal 50 al 55 per cento delle calorie complessive. Molto importante, però, risultava anche il modo in cui venivano sostituiti i carboidrati. Se, come spesso accade, la loro riduzione si accompagnava a un aumento delle proteine e dei grassi di origine animale, il rischio di mortalità aumentava, mentre accadeva il contrario se la sostituzione avveniva con proteine e grassi di origine vegetale.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 6 Agosto 2022.   

Si dice spesso che per vivere una vita lunga e sana è bene mangiare molta verdura. Ma un importante studio del Regno Unito ha scoperto che non serve per scongiurare le malattie cardiache. 

I ricercatori dell’Università di Oxford hanno esaminato i dati di 400.000 britannici che sono stati monitorati per 12 anni. Durante questo periodo, 18.000 hanno avuto gravi problemi cardiaci come infarto e ictus. 

Ai partecipanti è stata chiesto quante verdure mangiavano ogni giorno e questo dato è stato poi confrontato con i tassi di malattie cardiache. Nel complesso, il gruppo che aveva mangiato più verdure crude aveva il 15% di probabilità in meno di soffrire di malattie cardiache rispetto a quelli che ne avevano mangiate meno. Nessuna differenza è stata riscontrata per le verdure cotte.

Non appena sono stati inseriti altri fattori, come la ricchezza e lo stile di vita, il vantaggio guadagnato dal gruppo che mangiava verdura cruda si è ridotto a zero. 

Qualsiasi legame tra il consumo di verdure e la salute del cuore è dovuto al fatto che coloro che mangiano molto tendono a essere più sani in altri aspetti della loro vita, secondo un rapporto sulla rivista Frontiers of Nutrition.

La ricerca ha esaminato i dati del NHS di 399.586 adulti del Regno Unito con un'età media di 56 anni. L'assunzione giornaliera di verdure totali era di cinque cucchiai colmi a persona. 

Tuttavia, il coautore, il dottor Ben Lacey, ha affermato: «Avere una dieta equilibrata e mantenere un peso sano rimane una parte importante del mantenimento di una buona salute e della riduzione del rischio di malattie importanti, inclusi alcuni tumori».

Carlo Ottaviano per “il Messaggero” l’11 Dicembre 2022.

Vade retro burro. Anzi: ben tornato burro. Dopo averlo eccessivamente criminalizzato e aver santificato (comunque giustamente) l'olio d'oliva e di altri vegetali, il derivato grasso del latte torna prepotentemente in cucina. «È tempo afferma il dietologo Giorgio Calabrese, docente di scienze dell'alimentazione di rivalutare il burro che è un alimento ricco, con pregi non trascurabili ma che richiede un controllo attento dell'uso e del consumo, per poterne cogliere tutti i benefici».Il sociologo Enrico Finzi parla di «revanche del burro, che deriva dalle caratteristiche organolettiche spesso connesse al piacere (di mangiare e più in generale di vivere) e al contributo che dà alla preparazione di cibi e ricette».

 «Da pochi anni aggiunge il burro si è moltiplicato, tanto che si può parlare di progressivo passaggio dal burro ai burri». La tendenza del momento è l'uso del più saporito burro di bufala campana nella preparazione del più milanese dei dolci, il panettone. «Nella nuova leggera Cucina Italiana racconta Davide Oldani, due stelle Michelin è frequente l'utilizzo del burro, magari miscelato con acqua, montato e trasformato per dargli leggerezza ed esaltarne il sapore».

Sui social il trend topic alimentare del momento è il butter board. Rimbalzato da un continente all'altro grazie a TikTok, è il classico tagliere in legno, però spalmato di burro e ricoperto di ogni bendidìo: frutta fresca o secca, salumi, spezie, formaggi (sì: caci su quasi-cacio), fiori eduli. Il butter board accompagnato da un buon flute di bollicine è l'aperitivo-novità delle prossime feste. 

«Essendo il burro un grasso e quindi un veicolo di sapori amplifica ogni sapore, ne esalta le caratteristiche. A partire da quello del pane. Sono ideali, quindi, quelli di gusto deciso, con farina integrale e da grani particolari, con un buon lievito madre», spiega lo stellato Fabio Ingallinera (che firma la ricetta in pagina). Il suo ristorante è appena entrato nell'olimpo della We' re Smart Awards, la guida dei migliori ristoranti vegetariani al mondo.

«Ma una cucina totalmente vegetale o vegana non sarebbe sostenibile spiega assieme a Christian e Andrea Macario, titolari del Nazionale perché questo non permetterebbe al nostro territorio di sopravvivere: le nostre valli vivono di allevamenti animali. Quello che facciamo è quindi sviluppare una cucina in cui la proteina è minoritaria ma di altissima qualità».

 Ingallinera si rifornisce al rifugio Palanfrè nel Parco delle Alpi Marittime, non lontano dal confine con la Francia, patria secondo molti chef e maître pâtissier del miglior burro al mondo. Iginio Massari, il re dei pasticceri italiani, arriva a sostenere che «in Italia, lo fanno quando non sanno più cos' altro fare con il latte rimasto. Prima di tutto fanno i formaggi, poi gli yogurt e solo alla fine pensano al burro».

La differenza è nel metodo di produzione. In Italia il burro è un sottoprodotto della produzione di formaggio, ottenuto separando (in centrifuga o per affioramento) la crema di latte o la panna dal siero. In Francia è prodotto direttamente dal latte ad una temperatura che mantiene le migliori proprietà organolettiche e un gusto intenso. «Anche in Italia ammette però Massari c'è in verità dell'ottimo burro, ma non per i quantitativi che usiamo noi in pasticceria». Carlo Ottaviano

Cos'è l'acido butirrico e perchè fa bene. Guido De Duccis il 6 Luglio 2022 su Il Giornale.

Tutti i benefici dell'acido grasso a catena corta che si forma quando i batteri intestinali scompongono la fibra alimentare

È difficile nominare il burro e pensare a benefici per la nostra salute. Molti di noi lo associano per lo più a colesterolo alto e trigliceridi: insomma, a qualcosa di amico del palato ma che col benessere c'entra davvero poco. La cattiva fama del burro è, in parte, giustificata visto che rappresenta una fonte di grassi saturi animali.

Forse, però, non sapete che il burro è una delle migliori fonti alimentari di acido butirrico (ma non l'unica, lo sono anche il latte di capra, quello di pecora, l'olio extravergine e l'aceto ma ne parleremo più avanti).

E proprio di questo acido e delle sue caratteristiche vogliamo oggi argomentare.

Che cosa è, anzitutto?

L'acido butirrico o butirrato è un acido grasso a catena corta che viene creato quando i batteri buoni dell'intestino scompongono la fibra alimentare. Tutti conoscono l'importanza di un buon funzionamento del colon per il nostro sistema immunitario, per il metabolismo e per tante altre cose. La letteratura medica sul punto è vastissima, perciò possiamo tranquillamente sorvolare.

Ascoltiamo solo il professor Philippe Lagarde, oncologo di fama mondiale: "Dopo cinquant'anni di oncologia sul campo, non posso dire che una persona con problemi intestinali sia automaticamente destinata a sviluppare un tumore, ma posso dire con certezza che in questi cinquant'anni di oncologia non mi è mai capitato di curare un malato di tumore che non fosse affetto anche da un problema intestinale" (da Il cibo che cura, il cibo che ammala di Maria Rosa Di Fazio, editore Mind). Tranchant e più chiaro di mille trattati.

Ci limitiamo a ricordare che le cellule batteriche presenti nell'intestino sono 10 volte superiori al restante numero di cellule presenti nello stesso individuo e sono pari a quasi 2 kg del nostro peso corporeo. I batteri “buoni” dell'intestino producono gli acidi grassi a catena corta (ai lettori bravi in chimica farà piacere sapere che trattasi di acidi contenenti fino a 6 atomi di carbonio). Questi acidi hanno, in generale, un forte potere antiinfiammatorio: in particolare l'acido butirrico si è rivelato utile per il trattamento della celiachia e delle più gravi malattie infiammatorie intestinali come la colite ulcerosa e il morbo di Crohn. Già così non sarebbe male ma sembra persino in grado di aiutare le cellule del colon a rimanere sane, a impedire la crescita delle cellule tumorali e a favorirne la distruzione.

Come assumerlo?

La domanda è d'obbligo: come possiamo ottenere un aumento di questi acidi grassi a catena corta così importanti? Elementare: consumare molti alimenti ricchi di fibra come verdura e frutta. Un recente studio su circa 150 individui ha evidenziato una positiva associazione tra un aumento di questi acidi nelle feci e una maggiore assunzione di alimenti vegetali. Naturalmente quantità e qualità delle fibre ingerite influiscono sulla composizione dei batteri intestinali, che a loro volta influiscono sulla produzione di acidi grassi a corta catena. Per inciso, le fibre convertite in acido butirrico sono quelle solubili, derivati da carboidrati non digeriti nel tenue, come le pectine e l'amido resistente, ad esempio.

Più in dettaglio ecco, senza pretesa di completezza, un utile elenco di sostanze indicate:

Inulina: si assume da carciofi, aloe, aglio, porri, cipolle, farro, segale.

Fruttoligosaccaridi (Fos): li troviamo nelle banane oltre che in aglio e cipolle.

Amidiresistente: come quello da mais.

Pectina: fonti di pectina sono: mele, albicocche, arance, carote.

Grassi: da burro, come si diceva all'inizio, ghee (burro chiarificato, privato di acqua e di componente proteica), olio extravergine di oliva, formaggio crudo da pascolo.

Aceto.

Fermentati: i lattofermentati e i cibi fermentati. Possiamo menzionare, la panna acida, la senape, i sottaceti e i crauti. 

È importante ricordare che il butirrato raggiunge più facilmente il colon quando viene fermentato con il cibo; ecco perchè si raccomanda di “nutrire” l'intestino con fibre, grassi e aceto che aiutano i batteri a produrre acido butirrico. Possiamo invece fare a meno degli integratori, anche perchè, questi, prima di raggiungere il colon, vengono assorbiti nell'intestino tenue. Di conseguenza quasi tutti i benefici per le cellule intestinali decadono “strada facendo”.

Insomma, e per l'ennesima volta: intestino sano, salute (quasi) assicurata.

Luca Zorloni per wired.it il 19 luglio 2022.  

L'Autorità garante per le comunicazioni aveva fondate ragioni per multare l'emittente che mandava in onda i programmi di Life 120, la contestata dieta promossa al giornalista Adriano Panzironi per vivere fino a 120 anni. A dirlo è una sentenza della sezione quarta bis del Tribunale amministrativo regionale (Tar) del Lazio, che lo scorso 15 giugno ha respinto il ricorso della società Gm Comunicazione della famiglia Sciscione (considerati i re delle frequenze del Lazio), all'epoca dei fatti emittente dei programmi tv Life 120.

Nel 2019 l'Autorità garante per le comunicazioni (Agcom) aveva multato la Gm Comunicazione per 264.967,5 euro. Sanzione contro cui l'azienda si era appellata al Tar, che ora rigetta l'impugnazione. Mentre Adriano Panzironi è ancora impegnato nel processo per abuso di professione medica, partito a marzo 2020, il Tar chiude il primo capitolo sulle sanzioni elevate dall'Agcom. 

Le multe dell'Agcom

Quella contro la Gm Comunicazione è solo una delle azioni nella manovra di accerchiamento dell'Agcom contro Panzironi. Negli anni l'Autorità ha preso spesso provvedimenti contro le tesi di Life 120 e le trasmissioni tv. Nel 2020, in piena pandemia da coronavirus, finiscono nel mirino i consigli per affrontare Covid-19. Qualche mese dopo scatta la sospensione per sei mesi delle trasmissioni Il cerca salute, il format per eccellenza di Panzironi, e dello speciale Quello che non vi hanno detto sul coronavirus per sei mesi, che però il Tar del Lazio revoca.

L'Agcom interpella anche Facebook e Youtube a causa di spezzoni di video in cui il giornalista discetta su Sars-Cov-2. E infine multa per 61mila euro la Italian Broadcasting srls, società della galassia dell'ideatore della dieta Life 120, per aver trasmesso i propri format via satellite senza autorizzazione. La delibera faceva riferimento a un monitoraggio avvenuto il 17 e 18 marzo di Life Tv network, in onda sul canale 880 di Sky, che trasmette i contenuti di Panzironi, dal quale era emerso non esistevano autorizzazioni alla trasmissione di canali o programmi con quel nome. 

A questi numeri si si aggiungono i 290mila euro di multa dell'Autorità garante per la concorrenza e il mercato contro Life 120 Italia e Welcome Time Elevator (l'editore dei libri targati Life 120), a cui si aggiunge anche l'emittente televisiva Teleuniverso, che controlla il canale dove vanno in onda gran parte delle trasmissioni in cui il guru della dieta è protagonista.

Il ricorso di Gm Comunicazione contro la sanzione ha coinvolto Agcom e ministero della Salute. Secondo i giudici del Tar, Agcom ha fatto una valutazione generale del palinsesto dei canali Life 120, “prendendo in considerazione gli approfondimenti sulle malattie, commentati da Adriano Panzironi, le testimonianze di coloro che seguono lo stile di vita Life 120 e le televendite dei prodotti", su tutti gli integratori e il libro Come vivere 120 anni. E sulla base di questo monitoraggio ha deciso che la programmazione “sia strumentale a pubblicizzare i prodotti”.

Una tesi che il Tar condivide, così come l'accusa mossa dall'Agcom sul fatto che il palinsesto spinga a credere che Life 120 aiuti a guarire da malattie gravi. Scrive il Tar che il fatto che “in modo continuo ed insistente, nell’arco dell’intera giornata, vengano trasmessi approfondimenti e testimonianze in cui si dà atto dei benefici (miglioramento o addirittura guarigione) ottenuti in diretta conseguenza dell’adozione dello stile di vita “Life 120” (comprensivo anche dell’assunzione degli integratori), è certamente idonea ad ingenerare nei telespettatori una sfiducia, o quanto meno un forte dubbio, sulla efficacia della medicina tradizionale”.

Per il Tar, inoltre, l'Agcom ha avuto ragione a contestare una condotta lesiva della tutela della salute, così come nell'elevare due multe, perché diverse sono le violazioni contestate. Per questi motivi, il ricorso è bocciato. 

Il processo per abuso della professione

È fissata a ottobre invece la nuova udienza del processo per abuso della professione medica contro Adriano Panzironi, accusato con i suoi libri, a cominciare dal manuale Vivere fino a 120 anni, i programmi tv, in primis Il cerca salute, e gli integratori di aver sconfinato nel perimetro della professione medica, che in Italia è soggetta a rigide regole e a specifiche abilitazioni. Titoli che Panzironi non può vantare.

Dopo la denuncia nel 2018 da parte dell’Ordine dei medici di Roma e le indagini dei Nas, a ottobre 2019 arriva il rinvio a giudizio per Panzironi e per il gemello Roberto, che con lui tira le fila della galassia Life 120. Una rete di imprese che muove un giro d’affari di diversi milioni di euro, di recente allargato anche ai negozi di vicinato, aperti ad Aprilia (Latina), Cinisello Balsamo (Milano), Piacenza e Udine. Nessuno dei due è medico o dietologo. 

Quel che il tribunale di Roma dovrà stabilire è se i contenuti dei libri scritti da Panzironi, i programmi tv autoprodotti e diffusi nelle emittenti locali e gli integratori a marchio Life 120 rappresentano un abuso della professione medica, come ritiene la pubblica accusa, sostenuta dal sostituto procuratore Francesco Marinaro. L’esercizio abusivo della professione medica può costare la reclusione da sei mesi a un anno, più una multa che oscilla tra 10mila e 50mila euro.

Contro Panzironi si sono schierati come parti civili gli ordini dei medici di Roma, Napoli, Milano e Venezia. Poi c’è l’ordine dei giornalisti del Lazio, al cui albo il creatore della dieta che promette di vivere fino a 120 anni è iscritto e da cui è stato temporaneamente sospeso. E Assipan, l’associazione dei panificatori di Confcommercio, che si ritiene danneggiata dalla barriera che Life 120 alza verso pane, pasta e altri carboidrati tipici della dieta mediterranea. Panzironi è stato denunciato anche dalla Società italiana di diabetologia (Sid) e dall’Associazione medici diabetologi (Amd).

Erika Chilelli per “il Messaggero” il 25 giugno 2022.

«Sono guarita dai miei continui mal di testa ed è migliorata anche l'endometriosi. Pure il mio cane ha seguito la dieta». I seguaci di Adriano Panzironi, il giornalista scientifico e inventore del regime alimentare (Life 120) che promette di far vivere le persone fino a 120 anni grazie a degli integratori da lui prodotti, si sono presentati ieri nell'aula 15 del tribunale monocratico di Roma per testimoniare in suo favore. 

L'uomo è a processo con l'accusa di aver esercitato la professione medica senza abilitazione. Nel 2018 era già stato denunciato per truffa, insieme al fratello Roberto, dall'Ordine dei medici del Lazio, ma il giudice delle indagini preliminari aveva archiviato il procedimento: «non commercializzando i Panzironi prodotti diversi o con caratteristiche non conformi a quanto indicato».

La ricetta per la longevità? Un regime alimentare che Panzironi aveva inventato con suo fratello senza avere alcuna qualifica medica, basandosi su delle ricerche americane sulle diete chetogeniche. Le regole per una vita centenaria sarebbero queste: niente carboidrati, latticini e frutta, uso assiduo di spezie e integratori di Omega3, amminoacidi e vitamine. Prevista anche una colazione salata in cui è consigliata l'assunzione di carne di maiale. 

Nel suo libro Vivere fino a 120 anni è presente anche una piramide alimentare che indica i cibi da non mangiare. Ma il decalogo di regole da seguire non finisce qui: si parla persino di un digiuno di 5 giorni ogni tre mesi di dieta, in cui si potevano assumere solo tè, acqua ed integratori. I comandamenti dell'improvvisato medico venivano seguiti fedelmente dai suoi clienti, che lo hanno difeso strenuamente anche davanti al giudice.

Una di loro avrebbe persino scritto all'Ordine dei medici e a quello dei giornalisti, che si sono costituiti come parte civile nel processo. «Si è basato su ricerche scientifiche - ha sostenuto la donna in udienza - Volevo difendere il suo lavoro di giornalista scientifico». «Avevo bisogno di stare meglio - ha raccontato al giudice un altro testimone - mia madre pregava San Sebastiano affinché io guarissi. Da quando seguo il metodo tutti i miei problemi di salute, gastrite, ipertensione e disfunzione erettile, sono spariti. Mi ha cambiato la vita».

Dalle testimonianze è stato possibile capire anche come i tre siano entrati in contatto con Panzironi, che li avrebbe persino invitati nella sua trasmissione come testimoni a sostegno del metodo. I seguaci contattavano il programma per farsi recapitare il libro; erano iscritti anche ai canali social. In particolare a un gruppo Facebook dove venivano illustrati i principi cardine della dieta: chi l'aveva seguita raccontava la sua esperienza. 

Proprio in seguito a questi post, due di loro sono state contattate da Adriano Panzironi in persona che, una volta stabilito il contatto, le ha invitate a partecipare alla sua trasmissione: Il cerca salute. L'uomo pagava, persino, il biglietto affinché potessero raggiungere la sede in cui andava in onda. 

Oltre all'Ordine dei giornalisti e all'Ordine dei medici di Roma, Milano, Venezia e Napoli, si sono costituiti parte civile anche l'Ordine dei biologi e l'Assipan (Associazione panificatori di Confcommercio). «Il processo è ormai entrato nel vivo con l'esame dei seguaci del metodo Life 120 - ha sostenuto l'avvocato Valeria Raimondo, per l'Ordine dei medici di Roma - seguiremo con attenzione i successivi sviluppi». Sono ancora molti i testimoni da sentire, tra cui alcuni medici. Nel frattempo Panzironi, nonostante il procedimento penale a suo carico, continua a pubblicizzare il suo metodo: «Con le mie proteine vi cambierò la vita».

Marcello Veneziani per “la Verità” il 13 giugno 2022.

Nessuno di voi avrà mai sentito parlare di Enzo Caldarelli, ed anch' io che sono stato suo amico per diversi anni, non l'ho capito bene e a volte dubito che sia mai esistito. 

Ma per i pochi che l'hanno conosciuto, Enzo era un personaggio leggendario, una via di mezzo tra un elfo, un folletto, un mago caduto da una stella, e rimasto malconcio per la caduta; era uno che abitava in un suo magico mondo a una piazza anche se poi invitava gli amici alle sue giostre conviviali. 

Per cominciare, il mago Enzo aveva un'età indefinita, tra i 30 e i 70 anni, camminava curvo come un vecchio ma guardava e sognava come un adolescente. A volte sembrava mangiafuoco, con lo sguardo torvo, ma poi era dolce e lieve come un babà. 

Se fate un sondaggio tra quelli che l'hanno conosciuto, non riuscite a capire nulla della sua vita privata e soprattutto della sua attività. Ognuno vi darà la sua versione. Nessuno ha mai saputo come vivesse Enzo, considerando che i sogni difficilmente garantiscono il vitto e l'alloggio.

Ma viveva alla grande e non era un malfattore. Anche dove viveva era un problema: nacque a Napoli, respirava in costiera amalfitana, viveva a Barcellona, lavorava in Thailandia e si spostava come un pendolare nel Sudest asiatico di resort in resort; da ragazzo andava negli States. Se vai alle Maldive scopri che lui è nell'isola accanto, la più esclusiva. 

Se vai in un ristorante europeo e lui lo sa, a fine pranzo esce lo chef e ti dice che sei loro ospite perché sei amico di Enzo. Perché Enzo era grande amico dei più grandi chef del mondo e forse l'unico che li metteva insieme e li faceva cucinare uno a fianco dell'altro in memorabili serate. Ma lui mangiava poco e non beveva niente.

Ma soprattutto era un crociato contro la sofisticazione alimentare, contro l'industria del cibo, contro la somministrazione di veleni, sia su larga scala sia nei ristoranti d'élite. Era la bestia nera di molte guide e di molti giornalisti gastronomici. Difendeva la purezza, che non è il bianco ma il vario secondo natura. 

Anzi, a suo parere tutto ciò che è bianco nuoce alla salute: il sale, lo zucchero, la farina bianca, il latte. Ne ha fatte di crociate coi suoi amici chef e da solo, coinvolgendo anche me e altri ignari suoi amici: riusciva a far passare in mezzo mondo inchieste contro i cibi velenosi in molti network, da noi anche su Striscia la notizia. Ma la grande stampa lo ignorava, troppo pazzo, troppo pericoloso.

Il suo allievo perfetto era Rocco Iannone, un formidabile cuoco di Cava de' Tirreni, che combatte, a costo di perdere stelle sul campo, la sua battaglia contro il cibo avvelenato e i giornalisti gastronomici complici, che lui mette alla porta nei suoi ristoranti. 

Solo cibi genuini, a chilometro zero, solo prodotti naturali raccolti da lui, dal suo vecchio padre e da suo figlio bambino, nel loro orto. A Enzo, ora Rocco intitolerà i suoi dieci ettari di verde coltivato, con un ristorante tutto in legno a Penta di Fisciano, vicino la costiera amalfitana. Natura pura e meritato omaggio.

Da Enzo venivano tutti, da Heinz Beck a Gianfranco Vissani, da «don Alfonso» Iaccarino ai maggiori chef d'Europa, alcuni specialisti mondiali di dolci, altri di panetteria, altri di fantastici incroci. Tutto purché naturale, niente cucina molecolare o roba simile. Dall'età di 12 anni, viaggiava da solo nel mondo per vedere all'opera i maggiori chef. A sedici anni era conosciuto da tutti i big. 

Ricordo suoi memorabili eventi in Algarve o a Camp Nou a Barcellona, dove violinisti e scrittori si alternavano a esibirsi con gli chef sugli spalti d'onore o nello stadio riservato solo a pochi. O quando voleva organizzare una corrida su un roof-garden di un noto hotel di Londra. E poi eventi al monastero di Pedralbes e nei luoghi magici della montagna, del mare, a Barcellona, a Ravello, a Capri. 

Mi chiedeva continuamente di registrare interviste su cibo e filosofia, letteratura, di cui non ho mai saputo traccia e mi chiedeva testi che finivano in qualche misteriosa ricetta. I temi preferiti erano Etica ed Estetica, il puro e l'impuro. Da lui ho conosciuto attrici e attori, scrittori e giornalisti, musicisti e critici d'arte, e tanti tanti chef. E tutti ci interrogavamo tra noi: ma Enzo come vive, perché fa queste cose, noi che c'entriamo, che ritorno ha? Mistero.

Don Chisciotte va preso così nella sua follia; però i suoi mulini a vento erano deliziosi. Era un gastro-tradizionalista. Dobbiamo tornare alle origini, diceva, la cucina di oggi ha perso la sua etica. Siamo nell'epoca dei falsi, delle fake news gastronomiche, magari travestite di bio e valli degli orti. Senza etica, gli suggerii e lui lo ripeteva nelle interviste, l'estetica diventa cinismo superficiale, e senza estetica l'etica diventa moralismo compiaciuto. 

In realtà, diceva, gli acquisti si fanno per telefono e non al mercato; i prodotti sono figli dell'industria alimentare cattiva e hanno ben poco a che vedere con la salute e la natura. Ma la più massiccia contraffazione viene dalla cattiva industria alimentare che ha perso il rapporto diretto con la natura e il sapere artigianale. Con lui bevevo vini e intrugli squisiti, e cibi indimenticabili e strani ibridi tra la cucina e il pensiero o l'arte o lo sport o la musica. Mi mandava prodotti unici, persino pastiere senza zucchero.

Negli ultimi tempi mi cercava, voleva vedermi, aveva problemi di salute di cui non avevo capito la natura e la gravità, chiedeva aiuti impossibili per risolvere problemi inspiegabili. Poi l'altro giorno è morto che non aveva 50 anni, almeno credo. È morto in costiera tra le braccia della sua compagna thailandese; è morto d'improvviso, misteriosamente, mentre mangiava in camera da un famoso ristorante. Non ha avuto il tempo nemmeno per rinsavire in extremis, come invece fu per don Chisciotte.

Cancro, il nuovo decalogo: in tavola cambia tutto, ecco i cibi che devi davvero evitare. Libero Quotidiano il 07 giugno 2022

Dopo dieci anni dalla edizione precedente il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro (World Cancer Research Fund) ha aggiornato gli studi scientifici dedicati al rapporto tra alimentazione, stili di vita e tumori e redatto un nuovo vademecum con le raccomandazioni degli esperti per prevenire le malattie oncologiche e vivere a lungo.

Normopeso - Di fondamentale importanza è avere un "normopeso", che significa avere un adeguato indice di massa corporea. L'Imc si ottiene calcolando il rapporto tra il peso dell’individuo, in chilogrammi, e la sua altezza, in metri al quadrato (kg/m2). Quando il risultato è compreso tra 18.5 e 24.9 significa che il peso è nella norma.

Attività fisica - Per ridurre il rischio di ammalarsi bisogna mantenersi fisicamente attivi: basta una camminata veloce per almeno mezz’ora al giorno. Man mano che le prestazioni migliorano bisogna prolungare l’esercizio fisico fino a un’ora a sessione oppure dedicarsi a sport più impegnativi. 

Dieta sana - La dieta deve essere varia e ricca di cereali integrali, verdura, frutta e legumi. In sostanza, è sufficiente seguire la dieta mediterranea. Dal punto di vista nutrizionale, cereali integrali, verdura, frutta e legumi sono ricchi di sostanze, chiamate "fitocomposti", che sono esclusivi del mondo vegetale.  Le fibre dovrebbero essere introdotte quotidianamente (circa 30 g/giorno) poiché hanno un ruolo protettivo contro i tumori dell’ultimo tratto dell’intestino. 

Fast food - Evitare e ridurre “fast food” e merendine, in genere ricchi di grassi, zuccheri e sale. Se una sana alimentazione si basa prevalentemente sul consumo di alimenti di origine vegetale, è chiaro che questi cibi vanno assunti di rado.

Carni rosse - Carne suina, bovina (anche il vitello), capra, pecora, agnello e cavallo andrebbero ridotte. Il Fondo mondiale per la ricerca sul cancro raccomanda di non superare le tre porzioni a settimana, che equivalgono a un totale di circa 350-500 grannu. Meglio la carne bianca.

Bevande zuccherate - Forniscono tante calorie senza aumentare il senso di sazietà e favoriscono direttamente la probabilità di sviluppare sovrappeso e obesità. A tavola si dovrebbe bere solo acqua, queste bevande meglio evitarle.

Alcol - Le bevande alcoliche non dovrebbero essere consumate affatto. Si consiglia di limitarne la quantità consumando a pasto un bicchiere di vino (125 ml) al giorno per le donne e due per gli uomini. La quantità di alcol presente in un bicchiere di vino è circa pari a quella contenuta in una lattina di birra.

Allattamento - Allattare i bambini al seno per almeno sei mesi.  Gli studi sulla popolazione femminile mostrano che le donne che allattano i figli fino ai sei mesi hanno un rischio minore di sviluppare un tumore al seno. 

Benedetta Centin per corriere.it il 17 aprile 2022.

Dodici anni, si sente male dopo aver mangiato un ovetto Kinder e portato in ospedale i medici gli diagnosticano la salmonella. È quanto si è verificato a Ravenna la settimana scorsa. Un episodio allarmante, raccontato con dovizia di particolari per primo sul Corriere della Romagna, che ha fatto scattare subito i protocolli sanitari e fatto intervenire i carabinieri del Nas (nucleo antisofisticazione e sanità) di Bologna, i quali, anche dopo l’esposto presentato dai genitori del piccolo, hanno provveduto a sequestrare la cioccolata incriminata e ad informare la procura che aprirà un’indagine.

Mal di pancia anche per la sorella

L’ovetto che sarebbe stato “contaminato” (non ci sono ancora eventuali conferme) era stato acquistato un paio di settimane prima dai genitori del piccolo in un supermercato della città. Era all’interno di una confezione e dei tre ovetti presenti ne è rimasto solo uno, che è stato appunto sequestrato. Un primo ovetto era stato mangiato dal dodicenne appunto, l’altro dalla sorella minore che ha registrato gli stessi sintomi e cioè forti crampi addominali, diarrea e febbre alta ma nel suo caso non è stata diagnosticata la salmonellosi. A differenza del fratello, sottoposto a cura antibiotica per combattere il batterio e costretto anche ad alcuni giorni di ricovero in ospedale a Ravenna. Succedeva la scorsa settimana, nel frattempo il piccolo è tornato a casa, già dimesso.

In attesa degli esami sul cioccolato

Ora, bisognerà attendere qualche giorno per avere l’esito degli esami disposti dai Nas (dovrebbero essere effettuati martedì, dopo Pasquetta), ma se fosse confermato che il bambino di Ravenna ha contratto la salmonella da quella cioccolata allora si tratterebbe del primo caso in Italia. E’ una risposta che attendono di avere anche i genitori che si sono affidati ad un avvocato e hanno presentato un esposto, decisi ad andare fino in fondo per capire l’eventuale collegamento con l’infezione.

A sentire loro i sintomi si erano registrati dopo che il primogenito aveva mangiato l’ovetto Kinder e niente altro. C’è da dire che Ferrero di recente, dopo alcuni casi di salmonellosi che si erano verificati nel Nord Europa, aveva richiamato e fatto ritirare dagli scaffali dei punti vendita europei (non italiani) alcuni lotti di ovetti Kinder prodotti nello stabilimento di Arlon in Belgio. Ferrero ha però ritirato dal mercato anche italiano dei prodotti: un richiamo volontario di alcuni lotti di Kinder Schoko-Bons provenienti dallo stesso impianto. Sempre per il rischio di possibile presenza di Salmonella nel cioccolato.

La stessa azienda aveva comunque rassicurato i consumatori attraverso un comunicato, dichiarando di “non aver ricevuto negli ultimi 6 mesi in Italia contatti o reclami per indisposizione a seguito di consumo di prodotti Kinder”. Spiegando inoltre: “Ad oggi, nessun prodotto analizzato sui mercati coinvolti dal richiamo è risultato contaminato da salmonella”.

Ovetti Kinder e rischio salmonella nello stabilimento Ferrero: cosa sappiamo al momento. Mariachiara Giacosa su la Repubblica il 13 aprile 2022.

Dal ritrovamento di tracce del batterio in un serbatoio dello stabilimento belga alla campagna di richiamo dopo decine di casi: ora il colosso dolciario pubblica una guida online per individuare i lotti a rischio.

Gli ultimi a essere ritirati dagli scaffali sono stati gli ovetti Kinder da 100 grammi dei Puffi e dell'eroina Miraculous. Da una decina di giorni i prodotti della Ferrero di Alba sono infatti al centro di una campagna di richiamo dopo che le autorità sanitarie del Belgio hanno individuato dei collegamenti tra una serie di casi di salmonellosi, soprattutto tra i bambini, e il consumo di ovetti e altri prodotti di cioccolato prodotti nella fabbrica di Ferrero ad Arlon in Belgio. I casi segnalati finora sono 150 in Europa, n 9 Paesi europei (Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Norvegia, Spagna e Svezia) e nel Regno Unito, dove il primo caso si è verificato già alla fine dello scorso anno. 

I prodotti

Con una serie di provvedimenti successivi Ferrero ha ritirato dal mercato (e invitato i rivenditori a toglierli dallo scaffale) i seguenti prodotti: il cestino di Kinder Sorpresa con sei ovetti a tema “Pulcini”, Kinder Sorpresa Maxi da 100 grammi con i “Puffi” e con l'eroina “Miraculous” e tutti i lotti di Kinder Schoko-Bons, che non sono ovetti ma praline di cacao con un crema all'interno. Questi prodotti sono stati ritirati dal mercato perché prodotti nello stabilmente di Arlon. 

In un primo tempo erano stati segnalati solo alcuni lotti da richiamare – in base alle date di produzione potenzialmente a rischio individuate insieme all'autorità sanitaria – poi quando l'autorità sanitaria belga e Ferrero hanno deciso lo stop alla produzione l'ordine richiamo è arrivato per tutti i dolciumi prodotti ad Arlon. Lo stabilimento per il momento è chiuso, fino a quando le autorità sanitarie autorizzeranno di nuovo la produzione. Contemporaneamente all'azienda anche il ministero della Salute italiano ha pubblicato un avviso sul sito istituzionale nel quale si invita a non comprare questi prodotti e non consumarli nel caso in cui si trovino già nelle case. 

In Italia

In Italia sono stati richiamati solo alcuni prodotti. il cestino di Kinder Sorpresa con sei ovetti a tema “Pulcini”, i Kinder Sorpresa Maxi da 100 grammi con i “Puffi” e con l'eroina “Miraculous” e tutti i lotti di Kinder Schoko-Bons da 46 e da 125 grammi. Gli altri prodotti Ferrero venduti in Italia, gli ovetti Kinder, le barrette e tutte le uova di Pasqua (solo a tutolo di esempio) non sono coinvolti dal richiamo, perché non sono prodotti a Arlon, ma ad Alba. Secondo l'azienda sono quindi sicuri, si possono vendere, comprare e consumare. Sul sito dell'azienda, è disponibile una guida per individuare i lotti di prodotti a rischio contaminazione con salmonella, il batterio che provoca la salmonellosi. 

La scoperta

Efsa, l'autorità europea per la sicurezza alimentare, e Ecdc, il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie hanno ricostruito la vicenda. A dicembre 2021, il ceppo della salmonella è stato individuato in un serbatoio all'interno dello stabilimento Ferrero di Arlon in Belgio. Da quel momento sono scattati i test di controllo e verifica. In seguito a una serie di test negativi, la produzione e la distribuzione dei prodotti è proseguita in tutti i Paesi. 

Nel frattempo però sono stati segnalati da parte delle autorità sanitarie pubbliche una serie di casi di salmonellosi, soprattutto in bambini sotto i dieci anni. I casi collegati al consumo di cioccolato sono al momento 150, nessuno dei quali in Italia. L'8 aprile 2022, dopo alcuni controlli ufficiali, l'autorità per la sicurezza alimentare in Belgio ha ritirato l'autorizzazione alla produzione per lo stabilimento di Arlon e l'azienda ha richiamato tutti i lotti di tutti i prodotti usciti dallo stabilimento belga, indipendentemente dalla data di produzione e di scadenza. 

Pizza Buitoni, "mai provato tanto dolore": malore dopo la "Bella Napoli", cosa conteneva. Libero Quotidiano il 06 maggio 2022.

Il marchio Buitoni ancora nel mirino. Dopo il ritiro della pizza Fraîch’Up causa Escherichia coli nell’impasto, ecco che arrivano nuove segnalazioni. Questa volta le indagini riguardano un'eventuale contaminazione nella Pizza Bella Napoli. A raccontare quanto sta accadendo al prodotto consumato in Italia e del marchio di proprietà del colosso Nestlè, il sito ilfattoalimentare.it riporta.

A innescare le indagini francesi, una donna di 34 anni. La signora, residente a Perpignan nel sud della Francia, lo scorso 27 marzo ha mangiato la pizza e dopo due giorni ha accusato i sintomi tipici di un’infezione gastrointestinale. La 34enne ha avvertito dolore al basso ventre, vomito e febbre tanto da essere ricoverata in ospedale. Nella ricostruzione di quanto accaduto fatta dall’avvocato della famiglia, Pierre Debuisson - che il 4 maggio ha presentato denuncia contro Buitoni e Nestlé per "lesioni colpose" - si spiega che durante il pranzo incriminato, la signora è stata l’unica a mangiare la Bella Napoli. Al momento il prodotto Buitoni Nestlè è ancora in vendita ma gli accertamenti proseguono.  

"Non ho mai conosciuto un dolore del genere", ha detto a sua volta la ragazza, spiegando come a un'indagine approfondita in ospedale le avessero riscontrato la presenza di due batteri diversi: "E.coli e Shigella". Da quel giorno la donna e il suo legale si stanno battendo affinché anche la Bella Napoli venga ritirata dagli scaffali. Intanto anche le indagini sulla Fraîch’Up stanno proseguendo. Secondo le autorità sanitarie francesi si sono verificati due casi gravi di infezione e due bambini sono morti, ma il legame con la pizza non è stato ancora confermato.

In Francia segnalati diversi casi di contaminazione da Escherichia Coli. Mangia pizza surgelata Buitoni, 12enne finisce in stato vegetativo. Nestlé precisa: “Non le vendiamo in Italia”. Roberta Davi su Il Riformista il 15 Aprile 2022.  

“Non reagisce più, non comunica più, non risponde più a stimoli sonori e visivi”. Léna ha 12 anni. Papà Cédric racconta, a Le Figaro, il calvario della figlia, che si trova in stato vegetativo dopo aver mangiato una pizza surgelata della linea Fraîch’Up Buitoni, una tipologia che invece in Italia non viene commercializzata.

“Ha tirato fuori la lingua, ha cominciato a vedere doppio, i suoi occhi hanno iniziato a girare” ha spiegato. In ospedale a Nancy, Léna è stata messa in coma artificiale: e quando si è svegliata, non era più lei. 

La pizza contaminata dai batteri Escherichia Coli

“Oggi è il nulla totale. Léna è rinchiusa in un corpo che non gestisce più. Non sappiamo nemmeno se è consapevole di ciò che sta accadendo” hanno sottolineato i genitori, che hanno sporto denuncia.

Le autorità francesi hanno reso noto che, dall’inizio dell’anno, in Francia si sarebbero verificati decine di casi di sindrome emolitica-uremica legata a una contaminazione da E-Coli in 12 regioni: un numero insolito. Gli episodi confermati sarebbero al momento 50, 48 nella fascia 1- 18 anni d’età; due i decessi. Altri 25 sono in fase di valutazione.

Il collegamento con le pizze surgelate è stato nel frattempo confermato, si legge sull’aggiornamento risalente al 7 aprile della Santé Publique France. Nel corso delle indagini sia epidemiologiche che microbiologiche, era stata infatti rilevata la presenza di Escherichia-Coli O26 nell’impasto di una pizza trovata nel congelatore di una famiglia in cui si era verificato un caso di sindrome emolitico-uremica. Tra gli episodi accertati, 48 sono stati causati proprio da questo particolare ceppo. Dopo il richiamo, in via precauzionale, di tutti i lotti della linea Fraîch’Up acquistate prima del 18 marzo 2022, le segnalazioni hanno iniziato a stabilizzarsi.

Questa linea della Buitoni- brand del gruppo Nestlé- ha un impasto crudo, che lievita e cuoce direttamente in forno. È possibile che i bambini e i ragazzi colpiti dalla sindrome- che provoca insufficienza renale, anemia severa e piastrine basse- abbiano consumato pizze poco cotte. Infatti, se gli impasti risultano crudi oppure non cotti a sufficienza, potrebbero diventare una via di trasmissione dei batteri che causano la patologia.

Nestlé: “I prodotti venduti in Italia sono sicuri”

Tramite una nota, diffusa dopo il richiamo dei prodotti in Francia, il gruppo Nestlé Italia aveva voluto rassicurare i consumatori, dichiarando che i prodotti commercializzati in Italia sono sicuri e adatti al consumo. 

“Il richiamo delle pizze surgelate non riguarda i prodotti a marchio Buitoni venduti in Italia” si legge nel comunicato. “Precisiamo che il richiamo delle pizze surgelate Fraîch’Up in corso riguarda esclusivamente le referenze di questa gamma prodotte e commercializzate in Francia. Le pizze a marchio Buitoni prodotte nello stabilimento di Benevento vendute nel nostro Paese non hanno alcuna attinenza con questo richiamo” hanno poi precisato.

Di recente anche la Ferrero è stata costretta al ritiro dell’intera produzione, realizzata nella fabbrica in Belgio, del famoso marchio Kinder-‘Kinder Surprise’, ‘Kinder Surprise Maxi’, ‘Kinder Mini Eggs’ e ‘Schoko-bons’- a causa di un elevato numero di episodi di salmonella. Roberta Davi 

Giovanni Del Giaccio per "il Messaggero" il 17 aprile 2022.

«Mamma, sto male». Sono le ultime parole pronunciate da Martina Quadrino, la ragazzina di 13 anni di Fondi, morta dopo essere stata a una festa di compleanno e aver mangiato un panino. Era allergica al lattosio, girava sempre con il cortisone in tasca e l'altra sera si è resa conto che qualcosa non andava. È uscita dal locale nel centro storico medievale della città del sud pontino e dopo aver messo in bocca una pastiglia del medicinale da usare in caso di reazione, ha raggiunto la sua abitazione, a poche decine di metri di distanza. 

Lì l'ha accolta Francesca, la mamma, che ha capito la situazione e chiamato i soccorsi. Quando il personale dell'ambulanza è arrivato, però, per la piccola non c'era più nulla da fare. L'episodio è avvenuto nella tarda serata di giovedì, la festa con le amiche era al Red's, locale molto in voga tra i giovani e giovanissimi.

La casa della mamma da venerdì è al centro di un viavai di parenti e conoscenti, la donna gestisce con i familiari uno stand al mercato ortofrutticolo mentre Antonio, papà della ragazzina, lavora nel settore degli impianti elettrici. I genitori sono chiusi nel dolore, non parlano con nessuno, aspettano solo di sapere cosa può essere accaduto realmente. Vale a dire se la ragazzina sia morta per aver mangiato qualcosa che le ha causato lo shock ovvero per un malore. Le amiche hanno riferito che ha iniziato a dare segni di insofferenza dopo aver morso un panino con il salame. Possibile che fosse all'interno dell'affettato il lattosio? Non è da escludere, anzi.

L'AUTOPSIA Il medico legale Maria Cristina Setacci ha eseguito ieri per circa tre ore l'esame disposto dalla Procura di Latina sulla salma.

Una causa precisa per l'arresto cardiocircolatorio che ha portato al decesso della ragazzina non c'è, ma l'ipotesi principale resta quella dello shock anafilattico.

Martina, infatti, presentava secondo il poco che è emerso un ingrossamento della glottide, compatibile con le difficoltà respiratorie causate da una reazione allergica improvvisa. Una diagnosi certa non è stata fornita ai carabinieri che stanno seguendo il caso, ma il medico ha eseguito anche una serie di prelievi di liquidi biologici e tessuti che saranno sottoposti alle analisi che si svolgono in casi del genere.

I militari, nel frattempo, hanno svolto un sopralluogo nel locale e ascoltato i titolari dell'attività, oltre ad alcune amiche della ragazza deceduta. È stata acquisita, fra l'altro, documentazione relativa all'esercizio pubblico e ai cibi somministrati durante la serata di festa che si è trasformata in tragedia. Saranno fondamentali, ai fini della ricostruzione dell'accaduto, i rilievi eseguiti presso l'obitorio del cimitero comunale dove la salma è stata trasferita nella notte tra giovedì e venerdì.

LE TESTIMONIANZE «Siamo in una voragine di dolore - dice Aurora Quadrino, cugina del papà - il nostro piccolo angelo è volato via e non sappiamo cosa possa essere successo. È terribile quanto accaduto. Se fosse vero che a causa la morte sia stato qualcosa che è stato somministrato sarebbe terribile». I familiari hanno incaricato l'avvocato Giovanni Quadrino, zio della bambina, di rapportarsi con gli investigatori. Il Comune di Fondi ha scelto la via del silenzio. Nessun commento dal sindaco, Beniamino Maschietto, che ha comunque fatto avere un messaggio di cordoglio ai familiari.

La città è sotto shock, la Pasqua non sarà una festa perché una giovane vita è stata spezzata e perché praticamente tutti conoscono i genitori della piccola Martina, i nonni e il fratello di poco più grande di lei. Le esequie si svolgeranno molto probabilmente martedì, nella chiesa di San Francesco, sempre nel centro di Fondi. Lì c'era la casa di Martina e la sua vita, spezzata per una terribile reazione allergica.

Ipotesi shock anafilattico: la verità dall'autopsia. Ragazzina di 13 anni muore dopo aver mangiato panino: era in giro con le amiche. Redazione su Il Riformista il 15 Aprile 2022.

Uno shock anafilattico dopo aver mangiato un panino. E’ questa una delle ipotesi dopo la morte di una ragazzina di 13 anni, avvenuta nella serata di giovedì 14 aprile nell’abitazione dove viveva con la famiglia a Fondi, in provincia di Latina. La giovane era in giro con le amiche per trascorrere la serata quando ha iniziato a sentirsi poco bene.

Circostanza che l’ha spinta a tornare a casa dai genitori dove però la situazione è precipitata. Nonostante l’intervento del sanitari del 118 che hanno provato a rianimarla nell’abitazione, non c’è stato nulla da fare. La 13enne è morta poco prima del trasferimento in ospedale. Una tragedia che ha scosso la comunità del piccolo comune laziale.

Le indagini sono affidate ai carabinieri  e coordinate dalla procura di Latina che ha disposto l’autopsia che verrà effettuata nei prossimi giorni e servirà a far luce sulla causa del decesso. Tra le prime ipotesi, quella che il presunto shock anafilattico sia sopraggiunto dopo aver mangiato un panino con le amiche.

Gemma Gaetani per “La Verità” il 13 febbraio 2022.

Si dice spesso che fritto sia tutto buono, anche una ciabatta, ma si tratta di una iperbole, perché l'affermazione giusta sarebbe che molti cibi, fritti, invece che cotti in altri modi, sono più buoni. Per frittura si intende la tecnica della cottura in lipido, che può essere un grasso animale o un olio vegetale.  

Un lipido che naturalmente deve essere caldo al punto giusto e perciò sarà sempre liquido, di suo o perché sciolto dalla temperatura necessaria a friggere. Infatti, se a temperatura ambiente i grassi possono essere solidi, come accade tra i grassi vegetali allo strutto e al burro e, tra quelli vegetali, al burro di cocco, a temperatura di frittura si sciolgono. 

L'uomo frigge da millenni, già gli antichi Egizi nel 2500 a.C. friggevano, e friggevano anche gli antichi Romani. In primo luogo dolcini come le frictilia, considerate le antenate delle chiacchiere carnascialesche, piccole paste fritte nello strutto e cosparse di miele che si preparavano in occasione dei Saturnali dicembrini (smaltivano il grasso derivante dalla macellazione del maiale tipica del periodo invernale).  

I Romani friggevano i dolci, come illustra Catone nelle ricette del De agri cultura dei globulos, i globi, o della frittella, l'encytum, impasto di formaggio fresco e farina di farro cotto a tocchetti nel caso dei primi e a spirale in quello dei secondi (si colavano con un imbuto) e poi aromatizzati con miele e semi di papavero. 

Friggevano, poi, carni e pesci, questi ultimi soprattutto «impanati» non nel senso attuale del passaggio in farina, uovo e pane grattugiato, ma premuti su sfarinati grezzi per assorbire e nascondere i segni della perduta freschezza e poi fritti in strutto o olio di oliva. 

Si friggevano le verdure, poi ammollando il fritto con garum, vino, aceto e miele: i nostri attuali fritti «alla scapece», come per esempio le zucchine, derivano direttamente dalle usanze del popolo di Romolo e Remo, infatti «scapece» è giunzione e adattamento di pronuncia di «ex Apicio», cioè «da Apicio». 

Vi sorprenderà, ma anche il fritto giapponese tempura deriva dagli antichi Romani. Nel XVI secolo i primi missionari gesuiti in Giappone insegnarono ai giapponesi a friggere le verdure in questa pastella di derivazione antico-romana, così leggera da parere un velo, fatta di sola acqua fredda e farina.  

Questo metodo di frittura era già usato nel III secolo dai cristiani nei periodi di penitenza, in particolar modo dopo l'introduzione delle Quattro Tempora di papa Callisto per la santificazione del tempo all'inizio di ogni stagione nei giorni di mercoledì, venerdì e sabato. 

Mercoledì e sabato dovevano essere giorni di digiuno ossia non mangiare al mattino e dopo sesta (mezzogiorno) e il venerdì di astinenza da ogni cibo di derivazione animale cioè carne, compreso il pesce, uova, latte e latticini (oltre che dalle bevande alcoliche e dall'olio d'oliva).  

Fino all'inizio del XX secolo la legge dell'astinenza dalle carni proibiva di consumare uova e latticini, oggi non più, ma nel frattempo il fritto delle Tempora si è cristallizzato nella tempura giapponese. Non sempre gli antichi Romani concepivano la frittura croccante e asciutta come noi, intendendo con friggere un generico cuocere ad alta temperatura. I fritti si trovavano nella taberna e nella caupona oppure per il pranzo o uno snack si prendevano da bancarelle sulla strada, parenti antiche delle odierne friggitorie, citate anche da Marziale. 

Nel Medioevo, prende il sopravvento la frittura intesa come facciamo noi oggi per lo più in grassi solidi animali, come lo strutto, a disposizione dei ceti più ricchi. Al Nord, dove sono più diffusi gli allevamenti bovini e suini, si usa molto anche il burro.  

Oggi, il fritto italiano presenta una grande ricchezza di possibilità: dal pane fritto, ingrediente, tra altri, della seuppetta valdostana, all'arancina siciliana passando per la pizza fritta napoletana, ogni regione possiede un cabaret di pietanze regionali fritte o di fritti declinati a modo proprio. Qualunque sia il grasso che si usa, la frittura prevede una temperatura tra i 160 e i 185 gradi. 

Per imparare a friggere bene, bisogna capire il comportamento degli oli. Più i pezzi che friggiamo sono piccoli, più in fretta friggeranno. La stessa cosa vale per l'olio: più è caldo, più velocemente friggerà, perciò dobbiamo valutare il momento della «calata» nell'olio che frigge in base alle dimensioni e ai tempi di cottura. 

A una temperatura bassa, di 160 gradi, faremo friggere i cavolfiori in pastella o le alici fritte che hanno bisogno di 5-6 minuti per cuocere, le zucchine a julienne possono cuocere in 2 minuti a 180 gradi e non di più altrimenti brucerebbero. La domanda più ricorrente è se il fritto faccia male o bene. La risposta non può essere assoluta, perché l'eventuale negatività o positività del fritto dipende da vari fattori. 

Esaminiamoli. Innanzitutto, il tipo di grasso e la quantità di volte che lo si usa. I grassi con cui friggiamo vanno usati solo una volta e poi smaltiti. Sebbene si tenda a percepire come più leggera la frittura con oli di semi, la leggerezza effettiva risulta essere nel gusto, nel senso che il fritto in olio di semi di arachide, di girasole, perfino di semi vari, non ha il gusto di oliva che si sente quando friggiamo in olio di oliva.  

Allo stesso tempo, però, l'olio extravergine di oliva risulta meno grasso degli oli di semi, quindi, pur connotando il sapore del fritto, aiuta a realizzare un fritto più leggero. Sono diverse anche le reazioni dei due tipi di olio, di oliva o di semi, alla temperatura. L'olio di oliva e quello di arachidi contengono una grande quantità di acidi grassi monoinsaturi, formati in particolare dall'acido oleico, che li rende più resistenti alle alte temperature che si possono raggiungere friggendo (per innescare la reazione di Maillard occorrono almeno 140 gradi). 

Gli acidi grassi polinsaturi, invece, si deteriorano più facilmente riscaldandosi: l'olio di pesce, di girasole, di mais e di vinaccioli sottoposti a un potente riscaldamento e al superamento del punto di fumo possono creare composti dannosi per l'organismo, come acroleina e acrilammide che sono cancerogeni.  

Il punto di fumo è la temperatura massima sostenibile dal grasso in fase di frittura, superata quella l'olio degenera, di conseguenza o si frigge rispettando quelle temperature oppure si usano altri oli con più alto punto di fumo. 

Il punto di fumo dell'olio di girasole e di soia e del burro è 130 gradi, di mais 160, di cocco e di arachide 180, extravergine di oliva di 210, di palma, raffinato, 240 (gli oli raffinati hanno un punto di fumo più alto rispetto a quelli non raffinati), burro chiarificato 250. Il punto di fumo diminuisce anche se l'olio è stato sottoposto a processi degradanti, per esempio lasciato all'aria o alla luce in un contenitore trasparente oppure già scaldato o già usato per friggere.

In una frittura salutare per l'organismo viene utilizzato olio extravergine di oliva, meno grasso degli oli di semi e più ricco di acido oleico e antiossidanti che rimangono stabili anche ad alto punto di fumo. La salubrità del fritto dipende anche da orario, frequenza e quantità del cibo fritto. 

Più prodotti fritti si mangiano e più lo stomaco fa difficoltà a digerirli. Mangiare troppo fritto troppo spesso non fa male soltanto alla linea: aumenta il livello di colesterolemia, con conseguenze sull'apparato cardiocircolatorio, e si sottopone lo stomaco a uno stress eccessivo. Per questa ragione è meglio mangiare i fritti a pranzo, dando così più tempo a fegato e intestino per digerire e smaltire prima di andare a dormire. 

Ed è consigliabile non mangiare solo alimenti fritti, ma calare i fritti nel contesto di un pasto per il resto equilibrato e delicato, per esempio verdure crude e frutta che aiutano fegato e reni. Se non si presentano già condizioni impedenti, per esempio si soffre di fegato oppure si è in sovrappeso, la dose ideale di fritti - pochi - è di due volte a settimana. A queste condizioni, il fritto farebbe addirittura bene. 

Alcune verdure fritte in olio extravergine di oliva anziché lessate o cotte in un mix di acqua e olio hanno dimostrato di presentare maggiori composti fenolici, che aiutano a prevenire le malattie croniche. Lo dice uno studio spagnolo del Dipartimento nutrizionale dell'università di Granada, guidato dalla professoressa Cristina Samaniego Sànchez, la quale ha spiegato: «Nel corso degli anni, la ricerca ha portato a credere che friggere le verdure è un grande divieto e le proprietà antiossidanti non contano di fronte alla paura del grasso. Ora però non è più così». 

Non è l'unica a pensarla in questo modo. Già nel 2015 Sara Farnetti, specialista in medicina interna e nutrizione funzionale del Policlinico Gemelli di Roma e nutrizionista di Miss Italia, ha condotto uno studio sull'effetto di una dieta priva di soffritto e fritto con olio extravergine di oliva e di una includente su donne obese: le donne che hanno mangiato cibi ripassati o fritti nell'olio hanno registrato una produzione minore di insulina e C-peptide, sostanze responsabili dell'accumulo di grasso corporeo soprattutto sull'addome. 

Anche Debora Rasio, autrice di La dieta per la vita, ha spiegato come la dominante frittofobia, inducendo a pensare che il cotto a secco o il lessato siano migliori del soffritto o fritto, abbia reso molti carenti di vitamine liposolubili, assorbibili solo dai grassi. L'olio cucinato incentiva la secrezione di bile che scioglie i grassi alimentari e libera le vitamine che essi contengono, rendendo rapido e agevole il loro assorbimento. 

Il soffritto favorisce il dimagrimento, perché gli acidi biliari entrano abbondanti nel circolo sanguigno e attivano il metabolismo, aumentando il consumo di calorie da parte delle cellule adipose; migliora la forma fisica perché il fegato, attivato, lavora meglio nel trasformare gli ormoni circolanti (questo aiuta anche le donne in menopausa a recuperare la naturale forma); rende la pelle più luminosa, perché l'aumento di bile elimina le molte tossine liposolubili che la pelle trattiene; riduce il gonfiore intestinale, perché il miglioramento della digestione e l'azione disinfettante della bile normalizzano la flora batterica intestinale e riducono la produzione di gas; migliora il livello di energia, perché l'azione combinata tra eliminazione di tossine e stimolo funzionale aumenta la produzione di energia a livello delle cellule epatiche; migliora il gusto del piatto. 

Mantenendo la regola di un soffritto al giorno e due fritti a settimana, noi esercitiamo il fegato con uno stress calcolato che ne migliora la prestazione. Paradossalmente, condire per molto tempo con olio a crudo può condurre a difficoltà digestive (soprattutto di pasta, riso e patate lesse), gastrite, reflusso ed eruttazioni a causa della ridotta produzione di bile per rallentamento epatico da mancata stimolazione. Con piatti che riattivano la produzione di bile e la digestione, la situazione si ribalta e il fegato, riattivato, si depura.

Antonio G. Rebuzzi per “il Messaggero” il 12 febbraio 2022.  

Verrebbe quasi da pensare ad una rivincita dei golosi, leggendo l'articolo di Thomas F. Luscher dell'Imperial College di Londra e pubblicato sull'ultimo numero dell'European Heart Journal. Si parla di vino, cioccolata e caffè, piccole golosità quotidiane ultimamente riesaminate dalla ricerca.  

In particolare quella che si occupa del rischio cardiovascolare. La domanda da porsi quindi è: sono dei piaceri pericolosi per l'organismo? O possono essere anche protettivi, se assunti con moderazione? Analizziamoli singolarmente. 

Tracce di un facsimile di birra, risalenti a circa 13.000 anni fa, sono state trovate in caverne vicino Haifa. All'epoca la fermentazione era l'unica maniera per conservare gli alimenti.  

Ai giorni nostri assumiamo alcolici in forme differenti: vino, birra o liquori. Il vino è ricco di flavonoidi antiossidanti e cardioprotettivi come anche il resveratrolo. La birra viene dai cereali, principalmente orzo, e contiene anch' essa flavonoidi e polifenoli con effetto antiossidante. 

Qual è l'effetto? L'alcol, nelle giuste dosi, esercita una stimolazione del sistema nervoso simpatico che aumenta la pressione arteriosa ed ha un effetto eccitante, almeno inizialmente, sul cervello. Questo incremento della stimolazione simpatica porta ad un aumento del rischio di aritmie. Nel Women's Health Study, pubblicato fin dal 2008, il consumo di oltre due drinks al giorno aumentava di circa il 60% il rischio di sviluppare aritmie. Modeste quantità non avevano alcun effetto deleterio. 

Ed anzi, dai dati dello stesso studio e da quelli del Phisicians' Health Study emerge che piccole o moderate quantità di alcol ridurrebbero la pressione arteriosa, in particolare nelle donne. Protegge l'alcol da infarto o ictus?  

Lo studio Interheart pubblicato su Circulation, ha dimostrato una, pur modesta, protezione cardiovascolare per dosi basse di alcol. Al contrario, dosi elevate sembrano associate a demenza ed a riduzione del volume cerebrale con segni di danno cerebrale alla risonanza magnetica. 

Norman Hollemberg, sulla rivista Circulation, descrisse lo strano caso degli indiani Kuna, abitanti di alcune isole vicino Panama, che, pur consumando ingenti quantità di sale, avevano comunque livelli pressori decisamente bassi.  

L'analisi delle urine rivelò l'escrezione di grandi quantità di derivati dell'ossido nitrico prodotti dall'epicatechina, che è contenuta nei semi di cacao. In realtà il cioccolato puro, non quello al latte, sembrerebbe migliorare la salute dell'endotelio (la parte interna delle arterie, anche coronariche). 

Ed inoltre sembrerebbe avere effetti positivi sulla pressione arteriosa, sull'insulino-resistenza e sulla funzione piastrinica riducendo quindi il rischio cardiovascolare e migliorando, secondo alcuni, le funzioni cerebrali. Effetto negativo è l'alto contenuto calorico del cioccolato che porta, se assunto in grandi quantità, ad aumento di peso e picco di glicemia. 

La leggenda narra che la scoperta degli effetti del caffè fosse dovuta ad un pastore dell'Etiopia che notò l'effetto stimolante dei semi di caffè sulle capre del suo gregge. Ancora oggi è l'effetto stimolante sul sistema nervoso simpatico, una delle caratteristiche di questa bevanda. 

Gli effetti immediati sono un innalzamento della pressione arteriosa ed un aumento della frequenza cardiaca. Neal Freedman e il suo gruppo del National Institute of Health degli Stati Uniti, però, hanno pubblicato un articolo sul New England Journal of Medicine, dimostrando un'associazione inversa tra numero di caffè consumati quotidianamente mortalità per malattie cardiache, respiratorie, ictus ed infezioni (effetto massimo con quattro caffè al giorno).  

In pratica più caffè bevi, meno rischi corri. In sintesi non è detto che tutto ciò che piace fa male. Almeno per vino, caffè e cioccolata questo non sembra sempre valido, sempre che il consumo sia moderato. Come diceva François de La Rochefoucauld: «Mangiare è una necessità. Mangiare in maniera intelligente è un'arte».  

Dagotraduzione dal New York Post il 12 gennaio 2022.

I disturbi del sistema immunitario sono in aumento ovunque grazie alla popolarità globale della cosiddetta dieta occidentale. 

Secondo gli scienziati James Lee e Carola Vineusa del Francis Crick Institute di Londra, le malattie autoimmuni, tra cui il diabete di tipo 1, la sclerosi multipla, l'artrite reumatoide, il morbo di Crohn e la colite ulcerosa sono aumentate negli ultimi decenni. 

Lee e Vineusa hanno dedicato il loro studio a indagare la causa di queste malattie, che ritengono possano essere attribuite alla recente diffusione dei fast food, che «mancano di alcuni ingredienti importanti». 

«Il numero di casi autoimmuni ha cominciato ad aumentare circa 40 anni fa in Occidente», ha detto Lee al Guardian's Observer in una nuova intervista. «Tuttavia, stanno emergendo in paesi che non hanno mai avuto queste malattie prima». Per esempio l’Asia e il Medio Oriente, dove la malattia infiammatoria intestinale ha avuto una crescita incredibile per via del boom dell'industria dei fast food. «Prima di allora avevano appena visto la malattia», ha detto.

Vineusa ha affermato che non si può fermare la «diffusione globale dei franchising di fast food». 

«Stiamo cercando di capire i meccanismi genetici fondamentali che sono alla base delle malattie autoimmuni e rendono alcune persone suscettibili ma altre no». 

Le malattie autoimmuni derivano dall'incapacità del sistema immunitario di differenziare gli organismi invasori dai tessuti locali, spingendo le difese immunitarie ad attaccare anche le cellule sane. L'infiammazione dovuta a una risposta immunitaria ripetuta può causare danni a lungo termine agli organi e ai tessuti colpiti. 

«Qualcosa deve essere cambiato nel mondo esterno in modo da aumentare la nostra predisposizione alle malattie autoimmuni».

Oggi, secondo il National Institutes of Health degli Stati Uniti, circa 24 milioni di americani – quasi il 7% della popolazione – soffrono di uno di questi disturbi. I loro studi hanno mostrato un aumento della prevalenza dei biomarcatori di malattie autoimmuni nelle persone di età pari o superiore a 12 anni, da 22 milioni di americani tra il 1988 e il 1991, a 41 milioni tra il 2011 e il 2012. 

«La genetica umana non è cambiata negli ultimi decenni», ha spiegato Lee. «Quindi qualcosa deve essere cambiato nel mondo esterno in un modo che sta aumentando la nostra predisposizione alle malattie autoimmuni».

Vineusa ha detto: «Le diete da fast food mancano di alcuni ingredienti importanti, come le fibre, e le prove suggeriscono che questa alterazione colpisce il microbioma di una persona, la raccolta di microrganismi che abbiamo nel nostro intestino e che svolgono un ruolo chiave nel controllo di varie funzioni corporee». 

«Questi cambiamenti nei nostri microbiomi stanno quindi innescando malattie autoimmuni, di cui sono stati scoperti più di 100 tipi», ha aggiunto. 

Gli scienziati affermano che il cibo spazzatura dovrebbe ricevere un allarmante avviso in stile sigaretta. Questi alimenti hanno bisogno di spaventose avvertenze per la salute "in stile tabacco", affermano gli esperti.

Vineusa ha assicurato che il consumo di fast food non era una garanzia che qualcuno svilupperà queste malattie. «Se non hai una certa suscettibilità genetica, non avrai necessariamente una malattia autoimmune, non importa quanti Big Mac mangi», ha detto. 

Queste malattie enigmatiche sono dettate da varianti genetiche individuali, che gli scienziati sperano di identificare in modo da poter sviluppare terapie più mirate. Per la sola malattia infiammatoria intestinale ci sono «più di 250» varianti conosciute oggi, rispetto a poco meno di una dozzina contate quando Lee e Vineusa hanno iniziato la loro ricerca anni fa.

«Abbiamo molte nuove terapie potenzialmente utili che vengono sviluppate continuamente, ma non sappiamo a quali pazienti somministrarle, perché ora ci rendiamo conto che non sappiamo esattamente quale versione della malattia hanno», Vineusa spiegato. 

Ci ricordano che attualmente non ci sono cure per queste malattie. «Un numero crescente di persone affronta un intervento chirurgico o dovrà sottoporsi a iniezioni regolari per il resto della vita», ha affermato Lee. «Può essere triste per i pazienti e un enorme sforzo per i servizi sanitari. Da qui l'urgenza di trovare nuove ed efficaci cure».

 Da “il Messaggero” il 12 gennaio 2022.  

Consumare più di 7 grammi (una quantità superiore a mezzo cucchiaio) di olio d'oliva al giorno è associato a un minor rischio di mortalità per malattie cardiovascolari, per cancro, malattie neurodegenerative e respiratorie. Come si legge in uno studio pubblicato sul Journal of the American College of Cardiology. 

Il lavoro ha rilevato che la sostituzione di 10 grammi al giorno di margarina, burro, maionese e grasso di latte con la quantità equivalente di olio d'oliva è associata a un minor rischio di patologie gravi. I ricercatori hanno analizzato 60.582 donne e 31.801 uomini statunitensi privi di malattie cardiovascolari e non colpiti da tumore all'inizio della ricerca nel 1990. Durante i 28 anni di follow-up, è stata valutata la dieta.

Il questionario chiedeva con quale frequenza si consumassero determinati alimenti, grassi e oli. Nonché di quale tipo si utilizzassero per cucinare e aggiungessero a tavola. Quando i ricercatori hanno confrontato coloro che consumavano raramente o mai olio d'oliva con chi si trovava nella categoria di consumo più alto è emerso che questi ultimi avevano il 19% in meno di rischio di mortalità cardiovascolare, il 17% in meno per cancro, il 29% in meno per patologie neurodegenerativa e il 18% in meno per quelle respiratorie.

·        L’Acqua.

Acqua, viaggio nel bene più prezioso. Si parte con …le minerali. Siamo il popolo più "acquofago" del Pianeta: ciascun italiano, nel 2021, ha consumato in media ben 231 litri pro-capite (la media europea è di 118 litri). Come scegliere la minerale più adatta a noi? Cosa dicono le etichette? Guido De Duccis il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Limitandoci a osservare il consumo di acqua in bottiglia si può dire che noi italiani siamo tra i popoli più “acquofagi” del pianeta.

Secondo i dati pubblicati dalla società Beverfood (specializzata in ricerche statistiche nel settore delle bevande), ciascun italiano nel 2021 ha consumato in media ben 231 litri pro capite, contro una media europea di 118 litri. Un’abitudine destinata ancora a crescere, considerato anche che nel 1980 gli italiani bevevano solo 47 litri a testa.

Le acque minerali naturali devono essere imbottigliate come sgorgano dalla sorgente, e quindi devono essere microbiologicamente pure, ovvero non devono contenere sostanze organiche, né riconducibili alla presenza di inquinanti di origine “umana”. Gli unici interventi ammessi riguardano la rimozione dell'arsenico e dei composti instabili di ferro, zolfo e manganese e all'eliminazione dell'anidride carbonica con la possibilità di reintrodurla successivamente per rendere la bevanda gassata.

Per legge le analisi da compiere sui campioni di acqua minerale naturale riguardano la determinazione di ventitrè parametri chimico-fisici (tra cui temperatura, durezza, residuo fisso a 180° C, pH, conducibilità elettrica specifica a 20° C, concentrazione di svariati ioni e così via) e di sedici sostanze indesiderabili o nocive come cianuro, arsenico (dannoso anche per lo sviluppo neurologico dei feti e dei neonati, tanto da essere stato associato con un aumento dell'incidenza di autismo) e metalli pesanti tipo piombo e nichel la cui concentrazione dev'essere inferiore a limiti prestabiliti.

Le etichette

Le etichette odierne, in realtà, non sono uno specchio fedele dell'acqua che beviamo, perchè un'ulteriore normativa lascia ampia libertà circa le indicazioni da dare al consumatore. Dei parametri oggetto delle analisi, in un'etichetta finiscono di solito solo quelli che si reputano caratterizzanti la particolare acqua mentre le altre informazioni riguardanti sostanze tossiche o indesiderabili sono pubblicate a discrezione del produttore.

Come scegliere

Come comportarsi allora? Le acque minerali di per sé sono limpide, inodori e incolori ma è possibile imparare a distinguerle e scegliere quelle più adatte alla nostra salute e alle nostre esigenze? Leggendo correttamente le etichette e affinando il palato, proprio come faremmo per un buon vino, la risposta è affermativa.

Il primo parametro che consente di orientarsi tra le diverse acque è il residuo fisso a 180° C, presente in etichetta: non è altro che il contenuto totale di sali minerali disciolti nell'acqua, attraverso la misura di quanti milligrammi di parte solida sopravvivono facendo evaporare tutta l'acqua e sottoponendola a un processo di essicamento alla temperatura di 180°C .

Un'acqua con residuo fisso inferiore a 50mg/l è minimamente mineralizzata: al sapore appare leggera, proprio per il basso contenuto di sali. Acque con queste caratteristiche (e con poco sodio) sono ottime per trattare infezioni renali e per la preparazione degli alimenti per neonati. Sono considerate oligominerali, ossia con pochi minerali, le acque con residuo fisso compreso tra 50 e 500 mg/l; mediamente mineralizzate quelle con valori compresi tra 500 e 1.500mg/l; mentre quelle con residuo fisso superiore a 1.500mg/l (ma ne esistono persino con residuo fisso vicino a 3.000mg/) sono acque fortemente mineralizzate dal gusto più corposo e strutturato. Queste acque, oltre a facilitare la digestione, possono essere impiegate al posto degli integratori da chi pratica molto sport.

Un altro metodo per ricavare il contenuto salino di un'acqua, da confrontare con il residuo fisso, è la misura della conducibilità elettrica. Maggiore è il contenuto di ioni disciolti, maggiore è la conducibilità dell'acqua, poiché gli ioni, ottenuti dallo scioglimento dei sali minerali, sono dotati di carica elettrica e il loro moto ordinato crea una corrente elettrica all'interno dell'acqua. La conducibilità dipende dalla temperatura e normalmente è misurata a 20°C.

Il pH

Un terzo parametro da considerare è il pH, che fornisce un'indicazione del grado di acidità o basicità dell'acqua derivante dalla maggiore o minore attività dello ione OH 3+, che si forma per dissociazione della molecola d'acqua. Un'acqua è acida se il suo pH è inferiore a 7, basica se supera tale valore.

La maggior parte delle acque minerali in commercio ha un pH compreso fra 6,5 e 8,0. La maggiore acidità, facilmente assimilabile al palato, può essere associata a una maggiore presenza di anidride carbonica disciolta, altro parametro spesso riportato in etichetta, che può conferire all'acqua anche una debole effervescenza naturale. Questo parametro dovrebbe essere considerato con molta attenzione dalle donne in gravidanza e in allattamento. In questa fase, infatti, una donna dovrebbe sempre valutare le necessità del nascituro/neonato e la quantità di urina prodotta, utilissima per eliminare le scorie e le tossine dal proprio corpo e da quello del bambino. Per tali ragioni bisognerebbe scegliere acque con pH il più vicino al 7 (valore neutro), mai troppo inferiore, superiore (ossia tendente all'alcanizzazione) solo in caso si sia in uno stato di acidosi metabolica.

Il quarto parametro dell'acqua da analizzare è la durezza, con cui si misura il carbonato di calcio, che viene misurata in gradi francesi (°f) dove 1°f corrisponde a 10 mg/L. In base alla durezza le acque variano da molto dolci (fino a 4 °f), a dolci (da 4° a 8°f), a mediamente dure (da 8°f a 18°f) fino a molto dure (oltre 30° f).

Ma ciò che dona a un'acqua minerale il vero e proprio carattere che fa la differenzia dalle altre è la composizione del bouquet dei sette ioni presenti in concentrazioni maggiori, che da soli coprono il 90% della totalità di sostanze chimiche dell'acqua. Non ci addentriamo nella natura e nelle particolarità fisico-chimiche di questi ioni, positivi e negativi. Diciamo solo che è proprio il rapporto tra le concentrazioni degli ioni a determinare il tipo di acqua minerale. Al lettore basterà sapere che, se al palato avverte un marcato retrogusto dolciastro, l'acqua è ricca di ioni calcio e bicarbonato; se prevale un sapore salato i responsabili sono gli ioni cloruro e sodio evidentemente prevalenti; una punta di amarognolo è dovuta invece all'abbondanza di magnesio.

Un'indagine condotta dal laboratorio centrale Acam Acque di La Spezia su circa 250 acque minerali italiane, tra le oltre 300 oggi in commercio, ha evidenziato che tre quarti di esse sono dolciastre e poco mineralizzate, ovvero con una prevalenza di bicarbonato e calcio. Per trovare acque fortemente minerali, occorre, tranne qualche eccezione, sondare le sorgenti del Centro-Sud dell'Italia.

Insomma, affermare che “siamo ciò che beviamo” non è più un luogo comune.

·        L’Amido.

Cos’è l’amido modificato sempre più usato dall’industria alimentare. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 6 novembre 2022.

Che cos’è esattamente questa sostanza che si trova in tanti prodotti alimentari di uso quotidiano? E per quale motivo l’industria modifica gli amidi naturali come quello di riso, mais e tapioca? I motivi sono sostanzialmente due: garantire una maggiore conservazione ai prodotti e aumentarne la densità e la cremosità (effetto addensante). Gli amidi semplici, o naturali, come quello di riso o di patate, hanno scarso interesse per i produttori. Al contrario, gli amidi modificati trattengono l’acqua in modo più efficiente, resistono meglio al calore e sono generalmente più adatti alla produzione di alimenti trasformati.

In questo articolo vedremo alcuni prodotti di uso comune a cui viene aggiunto l’amido modificato, vi consiglio di prenderne nota e se possibile cercare di acquistare invece prodotti simili che non contengono questo additivo, ma che hanno una cremosità naturale, derivante dalla materia prima stessa e non dall’aggiunta di addensanti.

L’amido modificato è poco conosciuto dal consumatore, ma non si tratta di una sostanza così innocua come si potrebbe pensare. In realtà con questo termine si identificano ben 12 additivi alimentari addensanti differenti, che spesso si trovano in etichetta elencati anche con una delle seguenti sigle: E1404, E1410, E1412, E1413, E1414, E1420, E1422, E1440, E1442, E1450, E1451, E1452.

Non si tratta di una sostanza del tutto innocua per la salute, infatti ne viene vietato espressamente l’impiego in alcuni tipi di alimenti. Alcuni tipi di amido modificato non sono autorizzati negli alimenti per l’infanzia, perché contengono residui di una sostanza chiamata PCM (propilene cloroidrina) che è mutagena, cioè modifica il DNA causando dei danni. È il caso del E1442 per esempio, che però si trova in alcuni yogurt da supermercato (vedi foto) e probabilmente alcuni bambini assumono ugualmente, in maniera inconsapevole.

Infine, l’aggiunta di amidi modificati eleva inutilmente il contenuto calorico dell’alimento e di fatto ne diminuisce la genuinità ed il valore nutritivo. Questo è dovuto al fatto che essendo un amido, contiene molecole di glucosio al suo interno. Gli amidi infatti non sono altro che agglomerati di molecole di glucosio, cioè zucchero. Questo vale sia per gli amidi naturali che troviamo nel riso, nelle patate o nel grano, sia per quelli modificati chimicamente dall’industria.

[Yogurt di capra con aggiunta di amido modificato E1442; Immagine di Gianpaolo Usai]Come l’amido naturale, infatti, quello modificato contiene molte calorie, ma risulta privo di quei fattori nutrizionali – come vitamine, proteine o minerali – che sarebbero presenti nella materia prima che esso va a sostituire. Ricordiamoci infatti che l’industria usa questi amidi modificati per scopo addensante in prodotti che sono poco densi proprio a causa del fatto che ad essi viene tolta qualche materia prima oppure perché tale materia prima non la si vuole impiegare (burro, panna). Ad esempio, l’aggiunta di amido modificato allo yogurt alla frutta, permette di ridurre i grassi del latte di partenza (che avrà quindi meno vitamine e minerali, presenti nel grasso del latte). Non a caso gli amidi modificati vengono tipicamente aggiunti agli alimenti light per mantenere le qualità organolettiche (sapore e consistenza cremosa) nonostante la riduzione dei nutrienti. Questo crea nel consumatore l’illusione di acquistare un prodotto più leggero, sano e non ingrassante, perché etichettato come light appunto, ma in realtà il prodotto contiene più o meno le stesse calorie dello yogurt da latte intero, con l’aggravante di aver perso tutte le vitamine contenute nel grasso del latte, che sono le vitamina A, D, E, K.[Immagine di Gianpaolo Usai]Un’altra categoria di prodotti in cui viene impiegato l’amido modificato sono i noodles istantanei, molto apprezzati dai giovani per la loro estrema facilità e rapidità di preparazione, anche se non possiamo certo dire che si tratti di un alimento di qualità, a causa della presenza di molti additivi al suo interno, tra cui olio di palma, glutammato, maltodestrine, aromi, zucchero e persino coloranti.

L’amido modificato è utilizzato moltissimo dall’industria anche per la produzione di salse e maionese, come la salsa ketchup e altri tipi di salse industriali da condimento. Questo additivo può essere presente anche nei sughi pronti da supermercato e nei budini. Inoltre lo possiamo ritrovare anche nella pasticceria industriale di bassa qualità nella preparazione di creme varie.

Infine l’amido modificato non è utilizzato di norma nella produzione di alimenti biologici. In questi alimenti si preferisce utilizzare solo l’amido naturale (di riso, mais ecc.) o addensanti naturali come la fecola di patate e simili, ma non gli amidi modificati. Sono espressamente vietati gli amidi modificati ottenuti da mais OGM o altri alimenti OGM. [di Gianpaolo Usai]

·        La co2 per uso alimentare.

Aria Frizzante. Report Rai. PUNTATA DEL 07/11/2022 di Chiara De Luca

Collaborazione di Marzia Amico e Eva Georgaanopoulou

La CO2 alimentare scarseggia sul mercato

La co2 per uso alimentare serve per gassare i prodotti. Negli ultimi mesi però è difficile da trovare. Questo perché la maggior parte di quella che si trova sul mercato viene ottenuta come prodotto di scarto di altre lavorazioni che in questo periodo, con l’aumento dei costi dell’energia, sono ferme. La co2 è anche uno dei gas serra presenti in atmosfera che contribuisce al surriscaldamento globale. E questo è un paradosso: da una parte c’è chi la reclama, dall’altra ne abbiamo troppa in atmosfera. Esistono possibili alternative per rispondere a entrambe le esigenze?

Aria frizzante di Chiara De Luca MAURO VARAGNOLO – BARTENDER CAFFÈ FLORIAN VENEZIA Select, un terzo, prosecco e seltz… A te.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In ogni spritz che si rispetti non può mancare il seltz, le famose bollicine.

MAURO VARAGNOLO – BARTENDER CAFFÈ FLORIAN VENEZIA È il prodotto finale che dà il sapore allo spritz perché la spinta dell’anidride carbonica, data alla fine, fa girare gli ingredienti e quindi si mescola il tutto.

 CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma la Co2 per uso alimentare è difficile da trovare. Alcune aziende, Acqua Sant’Anna, Sanpellegrino, la birra Menabrea, hanno fermato per un periodo la produzione e i fornitori non riescono più a garantire la Co2.

MATILDE ELOISA PITORRI - AMMINISTRATRICE DELEGATA ANTICHE FONTI DI COTTARELLA L’ordine che avevamo effettuato non arrivava, abbiamo sollecitato ed è emerso il fatto che avevano loro a loro volta un problema di approvvigionamento. Il prezzo è esploso. Beh, siamo oltre il cento per cento rispetto a quelli che erano gli acquisti del 20/21, sicuramente.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questo perché la maggior parte di Co2 per uso alimentare che si trova sul mercato viene ottenuta come prodotto di scarto di altre lavorazioni, in particolare quella dei fertilizzanti agricoli.

CHIARA DE LUCA Quanta Co2 c’è lì?

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Ogni serbatoio ha dalle 150 alle 200 tonnellate, ci saranno una decina di serbatoi quindi sono 2000 tonnellate.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo a Ferrara, nello stabilimento del colosso norvegese Yara, che produce fertilizzanti. Da giugno, però, le lavorazioni sono ferme.

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Perché il costo del metano è passato dai 25 euro a megawattora del 2021 ai 120 come media per il 2022

CHIARA DE LUCA Cioè vi conviene più non produrre che produrre

GIUSEPPE PIEMONTESE - DIRETTORE OPERATIVO YARA INTERNATIONAL ITALIA Certo, certo.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Eppure, la Co2 è un gas presente in atmosfera, anzi ce ne è fin troppa. .

DANIELA MAURIZI - CHIMICA E AMMINISTRATRICE DELEGATA GRUPPO MAURIZI È un gas che inquina perché non permette al calore che viene assorbito dai raggi solari di disperdersi, ok, e c’è quindi il riscaldamento e quindi il cambiamento proprio del nostro clima.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È un paradosso. Da una parte manca la Co2 per le bollicine dell’acqua minerale o dello spritz, dall'altra ne mettiamo talmente tanta nell’atmosfera da condizionare il clima. Buonasera. Ora tra le pieghe di questa contraddizione c’è chi ha visto, ha intravisto il business: quello di diventare cacciatore di Co2. Fare lo spazzino sostanzialmente dell’atmosfera, fai bene al clima ma anche all’economia e all’indotto. Perché la Co2 è utilizzata nell’alimentazione, nell’industria, nella medicina. La visione giusta per il futuro è quella di andare a catturarla, però, a basso costo nell’atmosfera. E pensare che una volta tanto eravamo stati tra i primi. Ma come è finita quell’esperienza? E poi, nel frattempo, da dove ricaviamo la Co2 per le bollicine dell’acqua minerale e dello spritz? Già so che qualcuno di voi storcerà il naso. La nostra Chiara De Luca.

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Qua siamo in una stalla sostenibile, dove gli animali producono del latte di altissima qualità ma producono anche il letame e il liquame che noi abbiamo deciso di ottimizzare con la produzione di bio Co2.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il liquame stoccato fermenta con l’aggiunta di scarti di produzioni agricole. Viene prodotto, così, biogas da cui vengono ricavati metano e anidride carbonica, che poi viene venduta all’industria alimentare.

CHIARA DE LUCA L’anidride carbonica che c’è in questo liquame è la stessa che poi troviamo aprendo una bottiglietta di acqua frizzante.

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Si, certo, ovviamente vengono fatti dei processi ma parte tutto dalla stalla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Candiolo, in provincia di Torino, un consorzio di allevatori produce Co2 alimentare dal liquame di 4000 capi bovini.

CHIARA DE LUCA Quanta Co2 producete?

SERENA VANZETTI - SOCIA COOPERATIVA AGRICOLA SPERANZA - CANDIOLO (TO) Noi produciamo più di 400 kg l’ora, si parla di circa dieci tonnellate al giorno.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In questo allevamento la Co2 immessa in atmosfera dai bovini viene assorbita, lavorata e venduta alle aziende di bevande, che la utilizzano per gasare i proprio prodotti. In Italia gli allevamenti producono circa l’otto per cento delle emissioni nazionali di gas serra.

CHIARA DE LUCA Quella Co2 che estrapolano è Co2 che viene sottratta all’ambiente?

RICCARDO DE LAURETIS - ISTITUTO SUPERIORE DI PROTEZIONE E RICERCA AMBIENTALE Quella Co2 proviene da un’attività biogenica quindi da un punto di vista della contabilizzazione è netta, è pari a zero perché il carbonio è stato sottratto all’ambiente quindi non aggiungiamo nulla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Islanda, invece, c’è Climeworks, un’azienda Svizzera di cacciatori di Co2. Hanno brevettato un modo per intrappolare l’anidride carbonica direttamente dall’atmosfera.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Questi contenitori hanno delle ventole che attirano l’aria. All’interno c’è un filtro specializzato che cattura la Co2. Quando il filtro è pieno, lo chiudiamo e riscaldiamo il contenitore a circa cento gradi, in questo modo il filtro rilascia la Co2 e noi possiamo raccoglierla.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Climeworks in Europa ha due impianti operativi, uno in Svizzera e uno in Islanda. Ha trasformato la cattura della Co2 in un vero business. Quella raccolta nell’impianto di Zurigo viene venduta alle aziende che producono bibite, tra cui la Coca-Cola per il mercato svizzero. Ma negli ultimi anni Climeworks ha avuto anche una svolta etica, abbandonando via via la vendita di Co2 alle aziende, per non immetterne altra nell’atmosfera. Così, ha deciso di stoccarla.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Questo è il primo impianto di cattura e stoccaggio diretto di aria al mondo. È in grado di catturare 4000 tonnellate di Co2 direttamente dall’atmosfera.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO 4000 tonnellate di anidride carbonica equivalgono all'incirca alle emissioni che producono mille auto in un anno. Dopo aver catturato la Co2, la palla passa all’azienda pubblica islandese, Carbfix, che la inietta nel sottosuolo insieme a quella prodotta nella propria centrale geotermica.

BERGUR SIGFÚSSON - RESPONSABILE CATTURA E INIEZIONE CO2 - CARBFIX L’acqua miscelata alla Co2 viene immessa in questo pozzo a 2000 metri di profondità, poi entra in questi piccoli buchi delle rocce. Ed è proprio qui che, alla, fine si si formeranno i carbonati. È un processo che già esiste in natura e noi in questo modo lo imitiamo e lo velocizziamo.

CHIARA DE LUCA Questo tipo di mineralizzazione è possibile in Italia?

BERGUR SIGFÚSSON - RESPONSABILE CATTURA E INIEZIONE CO2 - CARBFIX Sì. Ci sono formazioni rocciose simili a queste in Sicilia, in Toscana e in tutte le regioni che hanno un patrimonio di rocce basaltiche.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Climeworks aveva provato anche in Puglia, a Troia, a catturare la Co2 nell’ambito di un progetto iniziato nel 2016 per la produzione di metano che era la prosecuzione di un altro progetto, partito nel 2012. Per entrambi i progetti, che prevedevano sperimentazioni anche in altri paesi, l’Unione Europea aveva stanziato complessivamente a tutti i partner circa trenta milioni di euro.

 LEONARDO CAVALIERI - SINDACO DI TROIA (FG) L’obiettivo era la produzione di metano e quindi la trasformazione dell’idrogeno, ma raggiungendo anche e raccogliendo soprattutto anidride carbonica.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questo è quello che resta dell’impianto.

CHIARA DE LUCA Come mai il progetto non c’è più?

LEONARDO CAVALIERI - SINDACO DI TROIA (FG) Il progetto aveva una durata ben definita e alla scadenza non ci sono stati più fondi per poter continuare questa sperimentazione.

CHIARA DE LUCA È un sistema costoso?

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Sì. Richiede molta energia elettrica ma stiamo lavorando per ridurla. Noi qui utilizziamo solo energia rinnovabile di fonte geotermica.

CHIARA DE LUCA Chi sono i vostri sponsor?

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS Abbiamo clienti come Microsoft e Shopify, che investono in questa tecnologia per ridurre le loro impronte di carbonio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In pratica Microsoft e Shopify finanziano Climeworks per catturare una parte della Co2 che con le loro produzioni immettono nell’atmosfera nel tentativo, così, di alleggerire il proprio impatto sul riscaldamento climatico.

BRYNDIS NIELSEN - PORTAVOCE CLIMEWORKS È utile ma prima di tutto bisogna ridurre le emissioni.

 CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E quale è l’impatto sull’atmosfera della Co2 qui in Islanda lo sanno molto bene. Vatnajökull è il parco nazionale dichiarato nel 2019 patrimonio dell’umanità. Copre il 15% dell'isola e circonda il più grande ghiacciaio d’Europa. All’interno del parco c’è il lago glaciale di Jokulsarlon: fino agli inizi del Novecento non esisteva perché era un ghiacciaio perenne.

HARALDUR THORVALDSSON - RANGER PARCO NAZIONALE VATNAJÖKULL Stiamo vedendo tutti i ghiacciai ritirarsi e diminuire di volume e stiamo iniziando a vedere nuove montagne che non abbiamo mai visto prima.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO In Islanda si stima che negli ultimi 130 anni i ghiacciai abbiano perso circa 2200 chilometri di superficie.

HRAFNHILDUR HANNESDÓTTIR - GLACIOLOGA UFFICIO METEOROLOGICO ISLANDESE Sono preoccupata e triste. Tutti sanno cosa dobbiamo fare, ma non lo stiamo ancora facendo.

CHIARA DE LUCA C'è una previsione dell'effetto del cambiamento climatico in Islanda?

HRAFNHILDUR HANNESDÓTTIR - GLACIOLOGA UFFICIO METEOROLOGICO ISLANDESE Abbiamo calcolato come i ghiacciai risponderanno a diversi scenari: con un grado, uno e mezzo o due in più. E questi indicano che i ghiacciai scompariranno all’incirca tra 150 anni.

STUDIO DUE USCITA ANTEPRIMA È già tardi. Ora, i danni sono irreversibili, noi possiamo solo rallentare l’andazzo. Secondo l’Unesco, un terzo dei ghiacciai considerati patrimonio dell’umanità nel 2050 scomparirà. Gli accordi di Parigi sulla emissione dei gas serra prevedevano la riduzione del 55 per cento entro il 2030 e di arrivare a emissioni zero nel 2050. Secondo uno studio del politecnico di Milano, insomma, il nostro paese, l’Italia, è già in ritardo sugli obiettivi del 2030. Ora, la visione futura, quella più innovativa è quella di andare a catturare la Co2 nell'atmosfera, ma deve diventare un sistema, altrimenti è come tentare di svuotare l’oceano con un cucchiaino. Eravamo stati tra i primi, avevamo pensato di catturare la Co2 per fabbricare metano, è vero, che sarebbe stato utile visti i tempi. Ma abbiamo bruciato milioni di euro della Comunità europea per raccogliere dati, era una semplice sperimentazione ed è finita lì. Allora uno si chiede: ma che sperimenti a fare se poi non dai un seguito? È sempre una questione di visione.

·        Lo Spreco Alimentare.

Lo spreco alimentare costa agli italiani 15,6 miliardi di euro l’anno. Sara Tonini su L'Indipendente il 19 ottobre 2022. 

Rispetto solo a qualche mese fa, lo spreco alimentare in Italia è aumentato, e in particolare quello domestico, che ammonta a 674,2 grammi pro capite. Secondo il nuovo dossier dell’Osservatorio internazionale di Waste Watcher / Spreco Zero, che monitora l’andamento e le abitudini in cucina di vari Paesi, gli scarti alimentari costano annualmente agli italiani 9,2 miliardi. A questi si sommano 6,4 miliardi stimati imputati agli sprechi dell’energia per produrre il cibo, così come dell’acqua e delle altre risorse. Una cifra complessiva di 15,6 miliardi l’anno, circa un punto di Pil.

L’estate è la stagione di maggiori scarti alimentari per il nostro Paese: lo spreco domestico è infatti aumentato in pochi mesi, passando dai 595,3 grammi pro capite di febbraio ai 674,2 grammi dell’ultima rilevazione di Waste Watcher International con dati raccolti ad agosto. Un piccolo miglioramento, comunque, rispetto allo stesso report di un anno fa, realizzato nell’agosto del 2021, quando in Italia era stato attestato uno spreco di 750 grammi a settimana, 75 in più rispetto agli ultimi numeri.

«Il nuovo Report internazionale vale come un “G9” dello spreco – spiega il direttore scientifico di WasteWatcher International Andrea Segrè, fondatore della campagna Spreco Zero – Perché accanto al dato italiano, che dimostra elementi importanti come la ‘stagionalità’ dello spreco alimentare in ragione delle abitudini e delle diete che si adottano col variare dei mesi, i cittadini e gli operatori trovano i dati di altri 8 Paesi di tutto il mondo, dall’Asia all’Africa agli States». Il documento è stato realizzato intervistando complessivamente nove mila cittadini, per un campione statistico di 1000 cittadini a Paese. Dai dati risulta che Sudafrica e Giappone sono i più virtuosi, arrivando a sprecare circa la metà rispetto all’Italia (324 e 362 grammi a settimana), mentre in Europa spicca la Francia, con 634 grammi settimanali. Gli Stati Uniti si confermano i meno attenti alla questione, con 1338 grammi di cibo gettato a settimana, per quanto in lieve discesa rispetto al 2021, con 64 grammi in più buttati ogni sette giorni. Il Brasile, per la prima volta monitorato da WasteWatcher, si posiziona al quarto posto tra i peggiori Paesi nella lotta allo spreco, con 794 grammi di cibo buttato ogni settimana, sempre a persona.

Tra i motivi che toccano specificatamente il nostro Paese, c’è sicuramente il tipo di alimenti che come popolazione prediligiamo. Nel report è stato individuato infatti un incremento generale dello spreco di ortofrutta e di altri cibi freschi, come latte e derivati, molto utilizzati dagli italiani. Un’altra causa, sottolinea Segrè, “è senz’altro il progressivo impoverimento economico della popolazione  (l’inflazione alimentare a due cifre) che acquista prodotti di costo più basso e spesso di minore valore nutrizionale, alimenti che peraltro deperiscono prima. Si ha quindi un doppio impatto negativo: – prosegue in un articolo di approfondimento pubblicato sul Manifesto– sullo spreco alimentare «quantitativo» e sullo spreco «calorico» nel senso di un abbassamento del valore nutrizionale degli alimenti che compongono la dieta”.

Nello specifico, in Italia gettiamo individualmente 30,3 grammi di frutta alla settimana, segue l’insalata con una media di 26,4 grammi pro capite, e il pane fresco con 22,8 grammi. Ci superano gli Usa, con 39,3 grammi a testa, la Germania con 35,3 e il Regno Unito che si attesta su uno spreco settimanale di 33,1 grammi a testa. E ancora, in Italia buttiamo ogni settimana 21 grammi di verdure e ben 22,8 grammi di tuberi, aglio e cipolle.

Per limitare questi numeri, è necessario prendere misure sia dal punto di vista individuale, con una maggiore attenzione al calcolo e all’organizzazione della spesa, sia dal punto di vista collettivo. Non solo programmi di educazione alimentare nelle scuole, per sottolineare i tanti valori (economico, nutrizionale, ambientale) del cibo ma direttive che rendano la lotta allo spreco una priorità. Secondo Il Centro comune di ricerca (JCR) della Commissione europea, in Italia quasi il 68,6% degli scarti alimentari arriva dal consumo, il 6,8% circa dalla distribuzione, il 12% dalla trasformazione, il 12,7% dalla produzione primaria. A giugno del 2014, nel nostro Paese, è stato pubblicato il PINPAS (Piano nazionale di prevenzione degli sprechi alimentari) con una serie di proposte principalmente in ambito educativo e della ricerca. Con la legge n. 166/2016 (“legge Gadda”), è stata prevista una serie di misure per incentivare la redistribuzione delle eccedenze di cibo e farmaci per scopi di solidarietà sociale, come semplificazioni burocratiche, sgravi fiscali e bonus per i donatori. Ma queste direttive non sono sempre facili da mettere in pratica e considerano la lotta allo spreco alimentare più una soluzione temporanea che un problema strutturale della società. 

Tante realtà operano in questa direzione, cercando di semplificare il più possibile l’individuazione e la raccolta di beni alimentari a rischio scarto. La Fondazione Banco Alimentare, ad esempio, ogni giorno recupera le eccedenze alimentari dei supermercati italiani per distribuirle a strutture che offrono pasti a persone che vivono in difficoltà. Nel 2021, Banco Alimentare ha raccolto circa 7.000 tonnellate di cibo che probabilmente sarebbero andate buttate perché vicine ai termini di scadenza. Con la loro iniziativa “Colletta Alimentare”, la fondazione ha raccolto non solo tramite presidi e interventi fisici nei negozi, ma anche tramite donazioni online con i punti aderenti e addirittura con una sezione appositamente dedicata su Amazon. Sara Tonini

(ANSA il 27 settembre 2022) - È la frutta l'alimento più sprecato del pianeta: a rilevarlo sono i dati del 2° Cross Country Report dell'Osservatorio Waste Watcher International, che hanno monitorato 9 Paesi del mondo : Italia, Spagna, Germania, Francia, Regno Unito, Stati Uniti, Sudafrica, Brasile e Giappone. Lo studio è stato realizzato in occasione della 3^ Giornata internazionale di consapevolezza sulle perdite e gli sprechi alimentari del 29 settembre e della Giornata mondiale del cibo, il World Food Day in calendario il prossimo 16 ottobre.

Con la ricerca risulta che gli italiani gettano individualmente 30,3 grammi di frutta alla settimana, segue l'insalata con una media di 26,4 grammi pro capite, e il pane fresco con 22,8 grammi. L'Italia è superata dagli Stati Uniti, con 39,3 grammi di frutta a testa, la Germania con 35,3 e il Regno Unito che si attesta su uno spreco settimanale di 33,1 grammi a testa. Nella classifica degli alimenti più sprecati entrano anche latte e yogurt (38,1 grammi settimanali negli Stati Uniti, 27,1 in Germania), gli affettati e salumi (21,6 grammi in Francia, 14,2 grammi settimanali in Giappone), riso e cereali, che in Brasile si gettano per 27,2 grammi settimanali e i cibi pronti che i giapponesi sprecano in misura media di 11,5 grammi settimanali.

"Lo spreco alimentare- afferma il direttore scientifico Waste Watcher Andrea Segrè - varia con le stagioni. Per questo abbiamo deciso di monitorare due diversi periodi dell'anno, il mese di agosto e quello di gennaio, per i rapporti annuali Waste Watcher.". "In questo periodo- sottolinea inoltre Segrè- preoccupa, rispetto allo spreco alimentare, il costo legato all'energia nascosta per produrre il cibo gettato. Waste Watcher ha calcolato che vale ben 4,02 miliardi euro lo spreco di energia nascosta nel cibo sprecato durante il 2021 solo nelle nostre case.

Un costo che porta a circa 11 miliardi euro complessivi il valore dello spreco alimentare domestico in Italia, sulla base di un costo dell'energia elettrica pari a circa 0,4151 €/kWh. Lo stesso spreco alimentare domestico nel periodo equivalente del 2020 determinava una perdita economica a livello energetico di 1,61 miliardi euro. Ridurre lo spreco alimentare determinerebbe una diminuzione non solo dell'impronta energetica ma anche degli impatti ambientali"

·        La Scadenza.

I cibi che non scadono quasi mai e che buttiamo via (sbagliando). FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.

Buttiamo via troppi alimenti. E questo accade anche perché non sappiamo che, in alcuni casi, si possono mangiare oltre la data di scadenza scritta in etichetta. E ignoriamo altresì che esistono cibi che, invece, non scadono. Ecco quali sono e perché

I cibi che non scadono: l’osservatorio

Ogni settimana in Italia buttiamo via 529 grammi di cibo a testa, che fanno 30 chili l'anno. La ragione principale? Ignoriamola data di scadenza. Sono tra i dati che emergono dall’ultimo rapporto di Waste Watcher, il primo osservatorio nazionale sugli sprechi che, ogni anno, fa il punto e ci ricorda cosa significhi buttare via alimenti: un gesto immorale, visto e considerato che la metà della popolazione mondiale muore di fame; un gesto immorale che ha ricadute ambientali — dato che produrre richiede risorse come acqua, energia e terreni — e economiche. La cifra? Nella sola Italia si stima che lo spreco alimentare costi 7 miliardi l'anno.

Il problema è globale e proprio per quanto riguarda la data di scadenza c’è chi ha pensato a provvedimenti significativi: nel Regno Unito la catena Waitrose, che gestisce oltre 300 supermercati, ha appena annunciato che la toglierà da circa 500 prodotti tra quelli con la scritta «da consumare preferibilmente entro». A differenza di quelli che con la dicitura «da consumarsi entro» dove la data è perentoria, si possono mangiare anche oltre perché, anche se potrebbero cambiare le proprietà organolettiche (cioè il sapore), non rappresentano una minaccia per la salute.

In Italia per ora si è semplicemente aperto il dibattito, ma prima dei provvedimenti «ufficiali» siamo noi che possiamo fare la differenza: innanzitutto acquistando con più consapevolezza. Cioè comprando meno e meglio, poi tenendo a mente una lista di cibi che si possono mangiare anche dopo la scadenza, risparmiando così anche denaro ed energia che in questo momento sono particolarmente preziosi.

La pasta e il riso

La pasta si può mangiare sempre, anche molti mesi dopo la data di scadenza. «La durabilità è una caratteristica tipica del prodotto, perché la pasta ha un umidità bassissima (di appena il 12,5 per cento) e quindi non ha carica microbica o batterica», spiega Cristiano Laurenza, segretario dell’Unione dei Pastai Italiani. «Tendenzialmente la data di scadenza è a 24/36 mesi: vuol dire che, oltre questo tempo, il produttore non assicura integrità dal punto di vista organolettico, ma non c'è alcun pericolo in termini di sicurezza alimentare se viene mangiata oltre. Certo, purché venga ottimamente conservata. E cioè al fresco, all'asciutto, in una dispensa pulita: lo sporco può favorire il proliferare di insetti, tipicamente minuscole farfalline, che possono forare la confezione e riprodursi». Discorso analogo riguarda il riso, se conservato nella sua confezione ermeticamente chiusa.

I legumi secchi

Economici ed ecologici, il vantaggio dei legumi secchi è anche che, praticamente, durano di eterno. Il motivo? Sono privi di acqua, quindi inattaccabili dai batteri. Certo, anche in questo caso a patto che vengano conservati correttamente, e cioè al riparo da umidità, caldo e luce. Se li si consuma dopo la data di scadenza, basta tenerli in ammollo per un'ora o due in più del solito, in modo che riacquistino l'umidità eventualmente perduta.

Il tonno

Il tonno in scatola ha una vita media di almeno 5 anni e dal momento della data di scadenza si possono anche aspettare diversi mesi prima di mangiarlo: basta conservarlo come si deve e cioè al fresco, al buio e chiuso (se aperta la confezione, va mangiata nel giro di un giorno). Al massimo, oltre la data di scadenza, avrà perso un po’ di sapore, ma dal punto di vista della sicurezza alimentare non ci sono problemi: la ragione è che durante l'inscatolamento del tonno — e di altri prodotti che subiscono lo stesso processo di confezionamento come i pomodori, le verdure, i legumi...) — viene eliminato l'ossigeno, perciò non c'è rischio che i batteri prolifichino. L'unico rischio potrebbe essere il botulino, perché questa tossina può moltiplicarsi anche in assenza di ossigeno, ma quando è presente provoca rigonfiamento delle lattine, quindi è molto semplice capire se ha intaccato il prodotto oppure no. Nel caso del minimo dubbio, bisogna buttare via. Stesso discorso vale per i prodotti in vetro — oltre ai legumi anche le marmellate ad esempio — perché analogamente il confezionamento sterilizza il pr

Il miele

Sarebbe proprio un peccato buttar via il frutto del faticoso lavoro delle poche api rimaste e, in effetti, non si deve: il miele infatti si conserva per anni, se chiuso e tenuto in luogo fresco e asciutto. Tutto merito degli zuccheri e degli antibatterici naturali che contiene. Questi lo rendono sicuro anche dopo la scadenza. Forse, solo un po' più duro e di un colore leggermente diverso, ma non meno buono.

Il sale e lo zucchero

Sono già di per sé dei conservanti naturali il sale e lo zucchero per via della loro capacità igroscopica: eliminano l'acqua dagli alimenti e, quindi, inibiscono la proliferazione di muffe e batteri. Per questa ragione, quando sono tenuti in luogo fresco e asciutto, e opportunamente chiusi, non c'è alcun pericolo di proliferazione batterica anche se vengono mangiati oltre la data di scadenza.

Il caffè

La data di scadenza del caffè in media è di due anni, ma si può conservare e consumare anche fino a un anno dopo, a patto che sia tenuto in confezioni integre e cioè ermeticamente chiuse: dato che non passa aria, non può proliferare alcun batterio o tossina.

Il cibo da «consumarsi preferibilmente entro» è ancora buono. Come ci aiutano i nostri sensi. BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022.

L’app anti-spreco Too Good To Go rilancia l’Etichetta Consapevole per sensibilizzare sul termine «da consumarsi preferibilmente entro», oltre il quale in realtà si può consumare ancora l’alimento. Un’errata informazione equivale in Europa a 9milioni di tonnellate di cibo sprecato. E i nostri sensi ci possono aiutare 

Quest’anno saranno 50milioni— 40milioni in più rispetto al 2021 — i prodotti presenti sugli scaffali che riporteranno l’Etichetta Consapevole di Too Good To Go, l’applicazione antispreco che si adopera per sensibilizzare i consumatori sulla differenza tra «consumare entro» e «da consumarsi preferibilmente entro». L’app rinnova l’iniziativa di sensibilizzazione nata nel 2021, diffusa in 12 Paesi Ue e accompagnata da un sito apposito spessobuonooltre.it, con un’indicazione che specifica «Spesso Buono Oltre» e alcuni pittogrammi esplicativi.

La differenza tra «consumare entro» e «da consumarsi preferibilmente entro»

«Da consumarsi preferibilmente entro», forse in molti non sanno, è l’indicazione segnalata come da disposizioni europee che garantisce che le caratteristiche qualitative di alimenti come prodotti secchi confezionati o sott’olio, salse, confetture restino inalterate al 100%. Ovvero che non venga superato il Tmc, il termine minimo di conservazione. Superato il quale — a differenza della data di scadenza — non significa che il prodotto è per forza da gettare perché rappresenta un rischio per la salute, ma che, spiegano dall’azienda nata in Danimarca nel 2015 e presente in 15 Paesi d’Europa, si può comunque consumare in sicurezza, senza rischi per la salute, ovviamente se adeguatamente conservato. È il consumatore stesso che può verificare la qualità degli alimenti tramite i propri sensi: vista, olfatto e gusto. Ovvero guardare, annusare e mangiare. Ciò che andrà a controllare sono le proprietà organolettiche dell’alimento come gusto, fragranza, aroma e consistenza. Too Good To Go ha ideato nel 2021 l’Etichetta Consapevole, applicata sui prodotti di 25 aziende partener (13 hanno aderito nel 2022) che riportano il «preferibilmente entro».

I Partner

Nel 2022 hanno aderito ABBI Group, Biova Project, cameo, Circular Food, Delicatesse, Eridania, Ferrarini, Gruppo Montenegro, Mielizia, Olio Viola, Roncadin, Vallé. Si aggiungono a Bel Group, Fruttagel, Granarolo, Gruppo VéGé, La Marca del Consumatore, NaturaSì, Nestlé, Raineri, Raspini Salumi, Salumi Pasini, Wami. Gli esempi di prodotti? Ad esempio il latte a lunga conservazione o quello vegetale.

L’esperimento

Per capire la differenza effettiva tra un prodotto che ha superato il Tmc e uno che invece non ha oltrepassato la data, il team di Too Good To Go ha invitato ieri a Milano nello spazio SoniaFactory della cuoca e food blogger Sonia Peronaci un parterre di giornalisti e influencer per un test in diretta. Due alimenti sullo stesso piatto: qual è quello «buono» e quale quello «cattivo»? Dopo una breve osservazione del prodotto, la platea si è trovata molto in difficoltà: spesso ciò che sembrava gustoso e buono aveva oltrepassato il Tmc. A riprova che anche l’apparenza del cibo inganna.

La scorretta interpretazione alla base del cibo sprecato

Ma per quale motivo è importante comprendere la differenza tra Tmc e data di scadenza? Perché in Europa sono 9 milioni le tonnellate di cibo sprecate ogni anno a causa della scorretta interpretazione delle diciture. Ovvero il 10% delle 88 milioni di tonnellate totali di cibo gettato. Sono soprattuttobevande e salumi a essere gettati mentre i consumatori tendenzialmente si fidano di più a tenere in dispensa anche oltre il Tmc altri prodotti come sughi e prodotti da forno. Il cibo che viene erroneamente eliminato equivale a più di 22 milioni di tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera: un danno non solo economico, ma in primis ambientale, derivato dall’errata comprensione della differenza tra data di scadenza e Tmc appunto. La Commissione Europea ha riconosciuto che una migliore comprensione della differenza tra data di scadenza e Tmc potrebbe contribuire in modo significativo a ridurre lo spreco alimentare a diversi livelli della filiera, e sta considerando le possibili opzioni per semplificare l’etichettatura, promuovendo una migliore comprensione delle date di scadenza e Tmc da parte di tutti gli attori coinvolti. Un problema, quello dello spreco, di cui i i cittadini itaiani sono consapevoli: da un survey condotto con il centro di ricerca statistico Epinion risulta infatti che l’84% della popolazione intervistata pensa che lo spreco alimentare sia un grosso problema e che il 74% vorrebbe fare di più per limitare lo spreco tra le mura domestiche.

Alimenti scaduti e rischi: lievito, caffè e farina da buttare subito, ecco perché. Martina Barbero su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2021. Li abbiamo in casa tutti e tutti pensiamo che durino a lungo. In realtà questi alimenti, una volta aperti, deteriorano in fretta. Ecco che cosa fare.

Dispense da incubo

Mai come nell’ultimo anno e mezzo la dispensa è stata il fulcro delle nostre cucine. Abbiamo imparato a gestirla al meglio ottimizzando le provviste così da non dovere andare al supermercato tanto spesso, data l’emergenza Covid-19 con la quale stiamo imparando a convivere. Sarà capitato anche a voi di imbattervi in pacchetti e barattoli, pieni, dimenticati da tempo. Che fare? Consumare nonostante la data di scadenza, ormai passata, oppure buttare? Il punto non è tanto la salubrità del contenuto di quei pacchetti: si tratta comunque di alimenti innocui per la salute (leggi anche i cibi da evitare assolutamente secondo Franco Berrino). Il problema sta, casomai, nell'aspetto e nell'efficacia dentro anche le ricette più semplici. E allora, dal lievito al caffè ecco gli 8 prodotti da controllare e, probabilmente, buttare per il bene della vostra dispensa. E del menu. 

Lievito

Il lievito è una cosa viva, sia esso fresco o in polvere. Se è vecchio, non produrrà una pagnotta ben lievitata o una focaccia soffice. I pacchetti chiusi dovrebbero mantenersi per un anno a temperatura ambiente, ma una volta aperti, con l'esposizione all'aria, è bene utilizzarli entro un paio di mesi. Un trucco per controllare se l'agente lievitante funziona ancora è mescolarne un pizzico in acqua dolce calda (non bollente): se produce schiuma allora significa che è ancora attivo. 

Lenticchie

Le lenticchie, quelle secche, contrariamente a quanto si possa pensare, non durano in eterno. Se conservate nel luogo sbagliato, cioè umido e non fresco, tendono a inglobare umidità rischiando di diventare acidule. Il consiglio è di consumarle entro un anno.

Spezie

Le spezie non vanno a male di per sé, ma il loro sapore perde di intensità e si degrada nel tempo, soprattutto quelle macinate e in polvere. L'ideale è consumarle entro 3 mesi dall'acquisto. Il primo segnale che indica perdita di aroma è il colore: se un curry o della curcuma, ad esempio, mancano di brillantezza significa che è giunto il momento di fare un po' di pulizia.

Bicarbonato

Anche questo, come il lievito, perde potenza. Un bicarbonato con qualche mese di troppo non nuoce alla salute, vero. Però può essere un vero danno per torte e dolci, che rimarranno bassi e tutt'altro che soffici. Il consiglio è di buttarlo se sono trascorsi più di sei mesi dall'acquisto. 

Riso

Se chiusa, la confezione dura a lungo, anche ben oltre la data di scadenza. Una volta aperta, però, è meglio consumare i chicchi il più velocemente possibile. Con lo scorrere del tempo, infatti, la superficie del riso cambia e impiega sempre di più a cuocere e ad assorbire acqua, col rischio, poi, di perdere di cremosità nel caso si volesse cucinare, ad esempio, un risotto.

Aceto

Si tratta di un ingrediente vivo e ricco di microrganismi, per cui se da un lato l'aceto non può andare a male, dall'altro rischia di fermentare e sviluppare quella che viene chiamata «madre», cioè un accumulo di lieviti leggermente viscido che però è totalmente innocuo. In alcune occasioni potrebbe scolorire o sviluppare sedimenti e il profilo aromatico cambiare. Per rallentare la fermentazione, il consiglio è di conservare gli aceti in frigorifero fin dall'inizio. 

Caffè

Molti ignorano che il caffè è un alimento facilmente deteriorabile: inizia a perdere nutrienti e intensità di sapore appena dopo la macinazione. Il modo migliore per rallentare il suo invecchiamento (negativo) e conservarlo al meglio a casa è seguire questa guida. 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 ottobre 2021. Siete sicuri di sapere come conservare il formaggio? L’esperta francese Aurore Ghigo ha stilato una guida completa per appassionati, da come creare il perfetto tagliere al modo migliore per conservarli. Secondo Ghigo conservare correttamente il formaggio in frigorifero è essenziale per mantenerlo fresco il più a lungo possibile. «Il modo migliore per conservarlo è nella confezione di carta in cui è avvolto. Ma se lo hai comprato avvolto in pellicola trasparente, il modo migliore è avvolgerlo nella carta da forno e poi metterlo in un contenitore ermetico. La pellicola è da evitare perché fa sudare il formaggio». Per creare un tagliere perfetto l’ideale è posizionare un numero dispari di formaggi diversi disposti dal più dolce al più forte. «La regola “francese” vuole che i formaggi siano sempre dispari, quindi tre o cinque vanno benissimo» ha detto. «Utilizzare una miscela di consistenza è sempre un buon consiglio da tenere a mente: alternare duro, morbibo e friabile». Uno degli errori più frequenti è quello di mettere due formaggi della stessa famiglia nel tagliere, per esempio due formaggi sottoposti a erborinatura, oppure due muffe bianche, come il brie o il camembert. «Certo si tratta di gusto personale, ma per la varietà, è meglio mettere diversi tipi di formaggio sulla tavola». Il tagliere va composto sempre, secondo Ghigo, tagliando piccoli pezzi da un formaggio intero prima di servirlo a tavola. «Permetterà agli ospiti di sentirsi sicuri nel prendere un pezzo» ha detto. Vietato esporre formaggi ancora nella confezione, e lo stesso vale per salse e cracker. Importante inoltre portare un coltello diverso per ogni tipo di formaggio. Il tagliere preferito di Aurore Ghigo è composto da Langres, Brillat Savarin, Comte, French Camembert e Bleu D’Auvergne. «È così difficile scegliere tra i formaggi, adoro il formaggio a pasta molle, ma per compiacere gli ospiti metto sempre almeno due formaggi a pasta dura sui miei taglieri». Inoltre è importante accompagnare il tagliere con pane o cracker. «Aggiungo sempre una marmellata, diversi tipi di cracker, miele (dolce) o olio d’oliva e sale (salato) per aiutare a rendere il gusto delle marmellate più intenso». 

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk l'8 aprile 2021. Cosa si nasconde nel vostro frigorifero o in fondo agli scaffali delle vostre cucine? Una scatola di tonno che di qualche anno fa, un vecchio blocco di formaggio, o altri articoli vari ben oltre le loro date di scadenza? Il vostro istinto è probabilmente quello di buttarli via, contribuendo al problema globale degli sprechi alimentari. Un recente rapporto ha rivelato che i più grandi supermercati del Regno Unito buttano via circa 190 milioni di pasti perfettamente commestibili all’anno, mentre L'ONU afferma che ogni anno un quinto del cibo domestico finisce nella spazzatura. Una delle cause principali di questi sprechi è la tendenza di scartare di cibi che si avvicinano alle date di scadenza, cosa che molti di noi prendono come un segno che stanno andando a male. Ma non è necessariamente così. Mentre le date “da consumarsi entro” (trovate su carne, latticini e altri alimenti freschi) riguardano la sicurezza alimentare, quindi che il cibo non dovrebbe essere mangiato una volta trascorsa questa data, “da consumarsi preferibilmente entro” (che si trovano su barattoli e pacchetti) riguardano la qualità del cibo, ovvero che si possono mangiare ma potrebbero non essere al meglio. Quanto è commestibile il cibo dopo la data di scadenza? Sarah Rainey ha frugato nei suoi armadi alla ricerca di pacchetti, barattoli e scatole scaduti da tempo e li ha inviati al principale centro di microbiologia NationWide Laboratories, nel Lancashire, per scoprirlo…

Zuppa in scatola (Scaduta da sei anni e tre mesi). Una scatola chiusa di zuppa di pollo Heinz del 2014. Anche se un po' polverosa, sembra in condizioni perfettamente buone. La zuppa all'interno sembra identica al contenuto di una lattina appena acquistata.

ASPETTO. Proprio come ti aspetteresti; cremoso, carnoso e un po' aglioso.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Il laboratorio non ha trovato tracce di salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Sì.

Uova (Scadute da 8 giorni). Una scatola di sei uova medie da un alimentari. Le uova sono uno dei pochi prodotti ad avere una data di scadenza; sono generalmente considerate sicure da mangiare fino a tre settimane dopo se conservate in frigorifero, più a lungo si rischia che i batteri della salmonella si moltiplichino all'interno del guscio.

ASPETTO. Una volta aperte le uova hanno un aspetto normale: i bianchi sono limpidi e colanti; i tuorli intatti.

ODORE. Le uova marce hanno un odore solforoso molto caratteristico; queste non odorano di niente.

CONTEGGIO BATTERI. Basso. I test rilevano 20 "unità formanti colonie" (UFC) di batteri per grammo, quindi stanno appena iniziando a esplodere ma sono ancora sicure da mangiare. Nessuna salmonella presente.

COMMESTIBILE? Sì.

Pesto in scatola (Scaduto da due anni e quattro mesi). Un vasetto da 190g di pesto a base di basilico, pinoli, pecorino e olio extravergine di oliva. 

ASPETTO. Un po 'oleoso in alto ma per il resto di consistenza normale. Ancora di un verde vibrante.

ODORE. Essendo rimasto chiuso per così tanto tempo, l'odore di erbe e aglio è abbastanza forte ma non è maleodorante o acido.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. L'olio ha conservato perfettamente il contenuto.

COMMESTIBILE? Sì.

Pane in cassetta (Scaduto da cinque giorni). Una pagnotta di pane bianco in cassetta non aperto tagliato a fette di medio spessore. ASPETTO. All'interno della confezione inizia a formarsi della condensa e il pane è un po' meno morbido di quanto suggerisce lo slogan. Ma è tutt'altro che stantio e non ci sono prove di muffa. 

ODORE. Sgradevolmente dolce. Una volta passati un paio di minuti per "respirare", il pane ha un odore più accettabile.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Nonostante i lievi cambiamenti nell'aspetto e nell'odore, questo pane è ancora buono.

COMMESTIBILE? Sì.

Formaggio (Scaduto da un mese). Un blocco di Cheddar acquistato da un negozio all'angolo. Essendo più stabile del latte o dello yogurt, ha una data “da consumarsi preferibilmente entro”. Solo i formaggi freschi come la ricotta hanno le date “da consumarsi entro”.

ASPETTO. Arancione brillante e privo di muffa, ma inizia a diventare un po' molliccio ai bordi.

ODORE.

Non eccezionale. Ha quell'odore sgradevole da calzino vecchio del formaggio rancido.

CONTEGGIO BATTERI. Estremamente alto. I test rilevano 200.000 UFC per grammo di formaggio, ma gli scienziati dicono che non dovrebbe essere motivo di preoccupazione. Poiché il formaggio viene prodotto inserendo i batteri nel latte pastorizzato, non esiste una conta batterica inaccettabile. Ciò che viene rilevato potrebbero anche essere batteri che formano acido lattico, un sottoprodotto del processo di maturazione, ma non contano come agenti patogeni ("batteri cattivi"). I test non rilevano salmonella, listeria, lievito, muffe o E. coli.

COMMESTIBILE? Tecnicamente, ma a causa dell'odore non lo mangerei personalmente.

Pacchetto di wafer (Scaduti da 5 mesi). Una confezione di wafer da 1 euro, farcite con una crema al cioccolato.

ASPETTO. Completamente normale. Sorprendentemente, sono ancora croccanti e la crema all'interno è appiccicosa.

ODORE. Insipido. Pochissimo odore.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test rivelano 100 UFC per grammo, il terzo più alto del lotto. Non è pericoloso ma mostra che i biscotti possono andare a male, non solo diventare stantii e non dovrebbero essere lasciati chiusi per mesi.

COMMESTIBILE? Sì.

Concentrato di pomodoro (Scaduto da 3 anni e 5 mesi). Concentrato di pomodori secchi a base di pomodori, aglio, zucchero, sale, erbe aromatiche e olio di girasole. Le istruzioni dicono di tenerlo al chiuso in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. Ha una consistenza granulosa e inizia a diventare di un colore marrone opaco. C'è uno strato di olio che copre la parte superiore.

ODORE. Ammuffito e acido, con un aroma pungente e persistente che non ha un buon odore.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non hanno trovato nulla di pericoloso.

COMMESTIBILE? Tecnicamente sì; non si andrebbe incontro a un'intossicazione alimentare. Ma è chiaramente passato in termini di odore e gusto.

Sardine in scatole (Scadute da un anno e 9 mesi). Filetti di sardine sott’olio. Il pesce e la carne freschi hanno date "da consumarsi entro", ma le alternative in scatola sono così ben sigillate che hanno date "da consumarsi preferibilmente entro".

ASPETTO. Ancora intero e con un po 'di colore grigio-blu.

ODORE. Di pesce; non sgradevole.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. I test non rilevano batteri o agenti patogeni.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di sugo (Scaduto da 6 mesi).  Barattolo di sugo a base di pomodori, vino rosso, basilico e origano. Le istruzioni per la conservazione dicono che il barattolo da 350 g deve essere conservato in un luogo fresco e asciutto.

ASPETTO. I contenuti si sono un po' separati ma per il resto è normale.

ODORE. Appetitoso come il giorno in cui è stato acquistato.

CONTEGGIO BATTERI: Basso. Il laboratorio ha rilevato 20 CFU per grammo di salsa, che rientra ampiamente nei limiti di legge; e nessuna traccia di altri agenti patogeni nocivi come l'e-coli.

COMMESTIBILE?  Sì.

Bottiglietta di salsa (scaduta da 3 anni e 5 mesi). Una bottiglia grande, polverosa e non aperta di salsa HP.

ASPETTO. Marrone, liscia.

ODORE. Acetoso, maltato, leggermente dolce e speziato.

CONTEGGIO BATTERI. Zero. Salse come ketchup, salsa marHProne e senape sono ben conservate con abbondante zucchero e sale e sigillate con un foglio sotto il tappo di plastica, quindi ci impiegano molto tempo per andare.

COMMESTIBILE? Sì.

Caffè solubile (Scaduto da 6 anni e 5 mesi). Sei bustine di caffè solubile Nescafé Azera. Creati per essere mischiati con acqua bollente, sono composti da latte scremato in polvere, caffè e zucchero.

ASPETTO. Ogni bustina è riempita con polvere marrone che sembra normale e priva di grumi.

ODORE. Molto blando e dolce. A malapena un sentore di caffè, quindi sarebbe una tazza tutt'altro che profumata e a corto di gusto.

CONTEGGIO BATTERI. Medio. I test hanno scoperto 120 UFC per grammo, rendendolo il secondo più alto del lotto. Ma questo, dicono gli esperti, è ancora abbastanza sicuro e non c'era traccia di listeria, ecc.

COMMESTIBILE? Sì.

Barattolo di marmellata (Scaduto da 6 mesi). Confettura di fragole dal supermercato. È stata conservata in frigorifero, il che potrebbe averne ulteriormente rallentato il declino.

ASPETTO. Fruttato, rosso e confuso.

ODORE. Dolce. Non è molto profumato ma non è destinato a decadere. Mantenerlo freddo potrebbe aver smorzato il suo fascino.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

Olio (Scaduto da 4 anni e 18 giorni) Una bottiglia non aperta di olio di colza aromatizzato al limone, acquistato sei anni fa. Tenere l'olio troppo a lungo (o esporlo a troppa luce o calore) causa la decomposizione delle molecole di grasso, rendendolo rancido.

ASPETTO. Arancione è leggermente torbido, ma non ci sono segni di marciume o muffe.

ODORE. Artificiale; la freschezza sembra essersi attenuata nel tempo.

CONTEGGIO BATTERI. Zero.

COMMESTIBILE? Sì.

Da "tuobenessere.it" il 7 maggio 2020. Una domanda che si pongono in molti a tavola è quella che riguarda i surgelati? Fanno male? Dipende. Se consumati saltuariamente e scelti con attenzione possono risolvere un pasto in modo veloce, sono facili da preparare e dal punto di vista nutrizionale, proprio grazie al congelamento, mantengono intatte le proprietà nutritive, al contrario dei prodotti freschi che si deteriorano in fretta e quindi andrebbero consumati entro breve. Ovvio che se la scelta cade su calzoni e pizze iperfarcite o prodotti conditi con salse al formaggio o intingoli vari, non va bene, soprattutto se state cercando disperatamente di perdere peso o soffrite di ipertensione. Molti surgelati infatti contengono elevati livelli di sodio, di certo non benefici neanche per chi deve depurarsi. Oltre al sodio spesso sono presenti conservanti, un altro buon motivo per consumarli solo di tanto in tanto. Chi è a dieta davanti ad un surgelato farebbe fatica a calcolare la porzione esatta  di cui ha bisogno, i surgelati infatti sono già porzionati e spesso comprendono verdura, cereali e altri alimenti. Per essere sicuri di consumare un pasto bilanciato con tutti i macronutrienti necessari al nostro fabbisogno energetico, spesso occorre aggiungere al surgelato che in media fornisce solo 250 -300 calorie, un contorno di verdura oppure del pesce, carne o un cereale. Consumando il solo surgelato si rischia di andare incontro a carenze nutrizionali e ad un rallentamento del metabolismo dovuto alle poche calorie ingurgitate. Ma perchè non imparare a leggere l’etichetta dei surgelati? In linea di massima perchè un surgelato costuituisca un pasto bilanciato,devono essere indicate le calorie, 250-300, ci devono essere meno di 4 gr di grassi, meno di 800 mg di sodio, una tazza di verdura, 1/2 tazza di cereali, 3/4 di proteine come carne bianca, pesce o carne magra. Vi piacciono i burghy di soia? Controllate che la soia sia indicata come primo o secondo ingrediente.

Tommaso Galli per "corriere.it" il 21 aprile 2020.

Non sempre la data di scadenza determina la fine di un alimento. C'è chi è super organizzato. E divide la dispensa in scompartimenti: le farine tutte insieme e lo scatolame da un'altra parte. E chi invece stipa tutto come se fosse un tetris. In entrambi in casi, però, in questi giorni di quarantena e di grandi spese può scappare una data di scadenza. E così il barattolino di yogurt rimasto nell'angolo, per dimenticanza o noncuranza, finisce per esser buttato via. Ma davvero la data di scadenza determina la fine di un alimento? Nella maggior parte dei casi no. Perché è solo un'indicazione dell'azienda. Ciò significa, anche come riporta il New York Times, che possiamo mangiare i cibi scaduti. Anche a distanza di giorni, a volte di mesi e addirittura di anni. 

In questo modo si diminuisce lo spreco alimentare. Insomma, è sempre bene controllare lo stato di quello che stiamo per buttare. Senza affidarci solamente a quanto riportato in etichetta. Anche perché in questo modo si potrebbe ridurre notevolmente lo spreco alimentare. I supermercati che vendono cibo scaduto esistono già un po' in tutta Europa, ma è quello che possiamo fare giornalmente a incidere di più. Ecco perché è stato portato avanti dalla Tafel Deutschland, organizzazione no-profit tedesca che dal 1993 consegna generi alimentari a chi è più in difficoltà, una ricerca per capire quanto si sbagliano in media, in difetto, le scadenza riportate sulle confezioni degli alimenti.

I risultati. Si scopre così che la pasta e il riso potrebbero essere consumati anche fino a un anno dopo la data di scadenza riportata in etichetta. Come tutto lo scatolame. E addirittura cibi considerati più delicati resisterebbero ancora a lungo. 

Latte. Il latte a lunga conservazione, lo dice già il termine, dura molto di più. Ma anche quello fresco ha un margine di resistenza rispetto alla data di scadenza. Secondo la ricerca, infatti, durerebbe in media sempre un paio di giorni in più. Il consiglio è poi sempre quello di assaggiare. 

Pane. Messo in freezer può durare anche anni. Se lasciato all'aria aperta il rischio, al massimo, è che diventi raffermo. Ma anche se scaduto può resistere, come il latte, qualche giorno in più senza nessun problema.

Uova. Le uova durano a lungo: dalle tre alle quattro settimane. L'importante è saperle conservare.

Formaggi. I formaggi a pasta dura possono tranquillamente essere mangiati oltre la loro data di scadenza. Nel caso in cui si formi la muffa sulla parte esterna, basta tagliarla e consumare il resto.

Riso e pasta. Se conservati in contenitori ermetici o nelle loro confezioni, riso e pasta possono essere consumati anche un anno dopo la data indicata sul retro.

Miele e zucchero. Aceto, miele, vaniglia o altri estratti, zucchero, sale, sciroppo di mais e melassa possono durare praticamente per sempre con pochi cambiamenti di qualità.

Farina. La farina bianca subisce, anche a distanza di mesi, ben poche alterazione. Quella integrale, contenendo il germe di grano, tende però a irrancidire più facilmente.  

Cibo in scatola. I pomodori pelati, il tonno in scatola, i ceci, i fagioli, il mais e tanti altri cibi in scatola possono essere consumati anche dopo un anno dalla loro data di scadenza, ma devono essere conservati in un luogo asciutto. 

·        Il Ricettario di Artusi.

Il testo dell’intervento di Massimo Bottura al Salone del Libro di Torino, pubblicato da “La Stampa – TuttoLibri” il 24 maggio 2022.  

Sono abituato a pensare e studiare le cose in maniera approfondita per poi agire in maniera rapidissima, ad affrettarmi lentamente, festina lente dicevano i romani. Gli ultimi due anni hanno messo tutti a dura prova ma ci hanno anche regalato qualcosa di molto prezioso: il tempo.  

Tempo per pensare, tempo per agire, tempo per creare, tempo per amare. Ma soprattutto tempo per approfondire, leggere, studiare, per andare a fondo. Il mondo va veloce, l'innovazione non si ferma, la tecnologia influenza le nostre vite ogni secondo di più. Il tempo che ci viene regalato è un lusso, e abbiamo la responsabilità di usarlo al meglio per costruire il nostro futuro. 

E per farlo, dobbiamo conoscere il nostro passato, dobbiamo guardarlo in chiave critica, senza perdersi nella nostalgia. Essere contemporanei significa conoscere tutto e dimenticarsi di tutto. Solo a quel punto possiamo guardare avanti, creare qualcosa di nuovo. Solo così possiamo innovare. 

Per questo suggerisco sempre ai giovani che entrano a far parte della Francescana Family di leggere, viaggiare, conoscere il mondo e nel frattempo scavare il più a fondo possibile nella propria cultura per capire chi sono e da dove vengono. È fondamentale riempire la propria valigia di libri, musica, viaggi, arte e poi, solo poi, iniziare a creare. La cultura è l'ingrediente più importante del nostro futuro.

Così il tempo a disposizione l'ho usato per mettere ordine nella cultura. Ho riordinato la mia collezione di vinili, poi sono passato ai libri di cucina. Ho potuto viaggiare nello spazio e nel tempo, dalla cucina nordica contemporanea a quella francese classica di fine diciottesimo secolo. Sono andato in Giappone, poi negli Stati Uniti, sono tornato in Italia per ripartire subito verso il Messico, poi un salto in India.

 Ho girato il mondo, senza mai lasciare Modena. Ho assorbito concetti, rispolverato conoscenze, colto allusioni al volo, piantato semi di nuove idee. Con tutta questa conoscenza a portata di mano, ho coinvolto il mio team in un esercizio culturale. Abbiamo iniziato a scavare a fondo nel nostro passato fino a raggiungere le nostre radici, ricercando e studiando i piatti iconici della storia contemporanea della cucina italiana. 

Abbiamo preso le ricette del nostro passato, i pilastri della nostra storia, e le abbiamo reinterpretate in chiave poetica, filtrandole attraverso un pensiero contemporaneo. Così è nato il menu di Osteria Francescana With a Little Help From My Friends II: pagine e pagine di storia della cucina italiana compresse in bocconi masticabili. Come pagine di un libro, i piatti del menu raccontavano una storia, facendo conoscere gli anni '50, '60, '70, '80, '90 a chi non li ha vissuti, dandogli nuova vita. 

In via Stella non abbiamo né viste sul mare, né su una montagna, tantomeno si intravede la guglia della Ghirlandina. Il nostro paesaggio di riferimento è la cultura, che amplia i nostri orizzonti e apre a infinite possibilità.

Bisogna essere in grado di appoggiarsi al passato, di chiedere aiuto ai propri amici, che possono essere i grandi chef del passato, i membri del proprio team, i libri, i dischi. Di guardare al futuro seduti su secoli di storia, filtrandoli attraverso un pensiero contemporaneo. 

Ho sempre visto Osteria Francescana come una bottega rinascimentale, un laboratorio di idee dove ogni giorno si produce cultura. Penso che ogni ristorante, anzi ogni cucina di ogni casa sia un laboratorio di idee e cultura. Perché ogni piatto nasce da un'idea. Se lasci la porta aperta all'inaspettato, tutto è ispirazione: un colore, una melodia, un'opera d'arte, un viaggio, un ricordo, un'esperienza o la sovrapposizione di una cultura su un'altra. 

È importante saper cogliere il lampo di luce nel buio, la poesia del quotidiano. Ogni piatto prima di arrivare in tavola era semplicemente un pensiero. La scrittura è lo strumento attraverso cui un'idea diventa reale, tangibile e viene fissata nel tempo. Così un libro è capace di rendere visibile l'invisibile.  

Per questo un libro di cucina è una finestra sul passato, una porta su un mondo, piccolo o grande che sia, che aiuta la mente a proiettarsi nel futuro, a immaginare nuove possibilità. Non per le ricette, le ricette, le grammature non sono mai interessanti, ma per l'ispirazione, il sapere che ci possiamo leggere. 

Pensate all'Artusi, pensate alla potenza di un tale scrigno di conoscenza così piccolo, che puoi tenere tra le mani, sfogliare, annotare, rileggere all'infinito. Poche pagine e uno spaccato su un popolo, su un paese e i suoi contrasti. Un libro tanto leggero quanto denso, poche pagine che hanno unito l'Italia, raccontandone l'identità, la storia, la cultura, l'anima attraverso il cibo. Ogni libro di cucina è un filo che unisce il passato al futuro e piega lo spazio nella nostra mente. Ora più che mai è fondamentale che esista questo libro.

·        Mangiare italiano.

16 sughi facili, veloci, buonissimi per condire la pasta. FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 7 Ottobre 2022. Si preparano in 10 minuti o anche meno e sono il condimento perfetto di primi piatti decisamente saporiti. Idee salva-tempo e (salva-cena) molto saporite

Sughi facili e condimenti

La pasta, il piatto dagli italiani, resta il più versatile, e anche per questo è la risposta immediata quando si ha poco tempo e tanta fame e bisogna mettere in tavola qualcosa da mangiare. Ecco perché è sempre utile avere qualche buona idea di sughi facili e veloci per condirla, che non richiedano troppo impegno ma che siano gustosi.

Abbiamo pensato a 16 idee, dai grandi classici come la carbonara alle paste con il tonno, e poi rivisitazioni facilissime della pasta con i legumi, i formaggi, le verdure, per pranzi e cene da preparare anche in meno di 15 minuti. Continuando a leggere trovate le ricette e le idee

Sughetto di pomodoro

Le conserve in cucina sono una grande risorsa, anche quando si tratta di pomodori. Quelli biologici, in particolare, sono privi di acido ascorbico (un conservante) e per questo il sapore è ancora più gradevole: insomma, un’alternativa perfetta al classico sugo fatto in casa. Per un piatto di spaghetti perfetti, per 3 persone, vi bastano un barattolo di pomodorini, del buon extravergine, uno spicchio d’aglio fresco. Fate così: mentre l’acqua della pasta bolle, fate dorare l’aglio nell’olio e quindi versateci i pomodori e salate. Lasciate che il sugo cuocia finché è pronta la pasta, conditela e buon appetito!

Sugo di tonno «dello studente»

Di varianti di pasta al tonno ce ne sono centinaia, ma quella dello studente - con aggiunta di pomodoro - resta una delle più gustose. Si fa così: si fanno dorare l'aglio e il peperoncino in una pentola con dell'olio, si aggiungono i pomodori pelati (o i pomodorini) e quindi il tonno sgocciolato prima di salare. Il sughetto cuoce finché è pronta la pasta. Poi non resta che condirla.

Pasta tonno e olive

Una gustosa variante sul tema è la pasta tonno e olive. Basta far scaldare in una padella con olio per cinque minuti il tonno sgocciolato e le olive denocciolate, e poi usare il sughetto per condire spaghetti o pasta corta. Un tocco in più? Una manciata di capperi dissalati.

Sughetto di acciughe e pangrattato

Dà molta soddisfazione anche il sughetto di acciughe e pangrattato perfetto per condire gli spaghetti. Per 4 persone bastano quattro acciughe, una dose generosa di extravergine, uno spicchio d'aglio e 100 g di pangrattato. Bisogna far dorare aglio e acciughe in una padella, in un'altra dorare il pangrattato con l'olio (basta mescolare finché le briciole diventano dorate), condire la pasta con la base di acciughe, e poi usare il pangrattato per mantecare prima di servire.

Salsa di noci

Un bell'asso nella manica la salsa di noci: si prepara in pochissimo e ha un sapore particolarmente delicato, anche se si fa qualche strappo alla regola rispetto agli ingredienti tradizionali. Per esempio, l’avete mai provata con le bevande vegetali? Per 4 persone, servono 200 g di noci sgusciate, mezzo bicchiere di bevanda alla mandorle, 4 cucchiai di extravergine, un pizzico di sale. Mettete tutto in un frullatore, partendo dalle noci, e frullate fino a raggiungere la consistenza desiderata. Per una salsa più liquida aggiungete al bisogno acqua di cottura.

Pasta gorgonzola e noci

Con le noci si può arricchire anche la salsa al gorgonzola: basta far sciogliere il gorgonzola in una padella e aggiungere le noci a pezzetti, prima di condire la pasta. Per smorzare il sapore del gorgonzola, si può anche aggiungere un po’ di panna.

Pesto alla trapanese

A Trapani si mangia con le «busiate», ma il pesto alla trapanese è perfetto anche con i fusilli o pasta corta rigata. Per 4 persone servono mezzo chilo di pomodorini lavati e tagliati a metà, 200 grammi di mandorle pelate, uno spicchio d'aglio (a piacere), un bel mazzo di basilico lavato e asciugato, olio extravergine abbondante. Basta mettere tutto in frullatore e frullare. Una volta pronto, con il pesto alla trapanese si può condire la pasta o anche delle fette di pane.

Come fare la pasta alla ricotta

Il più semplice dei primi piatti, probabilmente: per preparare una buona pasta alla ricotta serve una cosa sola (a parte la pasta) e cioè la ricotta. A voi la scelta: pecora o latte vaccino? In entrambi i casi, dopo averla messa in una scodella, va mescolata alla pasta appena scolata. Per un sugo meno denso aggiungete un po’ d’acqua di cottura. Per un tocco da chef: un po’ di pepe o zeste di limone.

La salsa al Parmigiano

Molto saporita, e perfetta per i primi freddi, la salsa al Parmigiano è un altro salva-vita in cucina. Per 4 persone servono 300 g di Parmigiano, 500 g di latte, 50 g di farina e 50 di burro. Bisogna scaldare il latte (senza farlo bollire) in una pentola, e in un'altra pentola far sciogliere il burro aggiungendo la farina a pioggia mescolando una frusta perché non si creino grumi. Il latte va poi aggiunto al burro continuando a mescolare e, una volta che la salsa si è addensata, va aggiunto il Parmigiano mescolando ancora. C’è chi rende la salsa ancora più saporita con tocchetti di salumi come prosciutto e pancetta.

Le orecchiette alla crudaiola

È a prova di incapace la pasta alla crudaiola, eppure dà molte soddisfazioni. Per prepararla, per 4 persone servono mezzo chilo di pomodorini lavati e tagliati a pezzetti, foglie di basilico (più ce ne sono più la pasta è saporita) lavate e asciugate, cacioricotta grattugiato, extravergine. Una volta cotta la pasta (preferibilmente orecchiette, la ricetta è barese), bisogna scolare, mettere in una ciotola, aggiungere - nell’ordine - pomodori, basilico, formaggio e olio, mescolare e servire subito.

Come fare gli spaghetti alla puttanesca

Un classico della cucina napoletana, ormai amato ovunque. Per una puttanesca per quattro persone, oltre agli spaghetti (360 g) servono 400 g di pomodori pelati, 4 acciughe, 200 g olive di Gaeta denocciolate, due cucchiaini di capperi dissalati, uno spicchio d'aglio, peperoncino qb e olio extravergine. Mentre l'acqua bolle e si prepara la pasta si fa il sugo: si fanno dorare le acciughe con l'aglio e il peperoncino, si aggiungono i pelati, si schiacciano con la forchetta e cinque minuti prima di scolare la pasta si aggiungono le olive e i capperi.

Come fare la pasta con i cannellini

Piatto unico? La pasta con i legumi è un compromesso perfetto, e si può fare con pochissimo: basta avere in casa legumi già pronti sotto vetro (contengono meno sale di quelli in latta). Provate, per esempio, i fagioli cannellini, per un sughetto delicato. Fate dorare l'aglio nell'extravergine, aggiungete i fagioli dopo averli scolati, togliete l'aglio, fate cuocere 10 minuti e quindi frullate con il mixer. Nel frattempo cuocete la pasta e tenete da parte un po' d'acqua di cottura per rendere la salsa di legumi più densa. Mescolate il sughetto di fagioli con la pasta e servite.

Come fare la carbonara

Nella carrellata di sughi buoni, facili e veloci, non può mancare la Carbonara. Dato che però la ricetta è uno dei dogmi della cucina italiana, vi suggeriamo quella di un romano doc, nonché chef molto amato: Alessandro Borghese.

Come fare la cacio e pepe

Altra istituzione romana la Cacio e Pepe: per farla servono solo pecorino romano e pepe. No a panna e no a extravergine.

Come fare l’aglio, olio e peperoncino

Serve una certa manualità anche per rendere perfetto il piatto - apparentemente - più semplice della cucina italiana e cioè gli spaghetti aglio, olio e peperoncino che in questo carrellata non potevano mancare. Il segreto è essere di manica larga con l'olio: bisogna metterlo in una padella, dove far dorare aglio e peperoncino, e poi aggiungere nella stessa padella gli spaghetti cotti al dente.

Come fare gli spaghetti al limone

Delicato e di grande effetto: il sughetto al limone è l'accompagnamento perfetto per la pasta fresca (tagliolini in primis) e quella lunga (spaghetti e linguine), e si fa in 5 minuti. Per 2 persone servono 50 g di burro, la scorza grattugiata e il succo di un limone non trattato, 3 cucchiai di olio extravergine. Bisogna mettere in una padella larga olio, burro e scorza di limone, far sciogliere a fuoco d0lce, aggiungere il succo filtrato, e quindi usare la salsina per condire la pasta.

Gemma Gaetani per “la Verità” il 3 ottobre 2022.

«Vuoi vedere che il piatto più rappresentativo del nostro paese è la pasta e ceci?». A dirlo è Arcangelo Dandini, chef romano ambasciatore del gusto a capo di locali come Chorus, L'Arcangelo e Supplizio a Roma e che sta per aprire le porte di Garum a Londra (il 20 ottobre). «Altro che spaghetti al pomodoro...», prosegue. «La salsa di pomodoro l'ha sdoganata Francesco Leonardi alla fine del Settecento. La conserva, Cirio nel Novecento e la pasta secca fino al Novecento si mangiava solo in Campania o quasi...». In effetti, sulle prime, potrebbe sembrare un ragionamento singolare. Ma basta approfondire un po' per rendersi conto di quanto sia fondamentale per la nostra tradizione la pasta e ceci.

Che ritroviamo già presso gli antichi romani. La loro «protopasta» si chiamava lagnum, nome di cui oggi troviamo traccia etimologica in alcune paste - asciutte oppure in pasticcio o in minestra, magari coi ceci - che derivano dall'Impero romano il nome, come le lagane. A Nord, erede diretta di quella pasta è la lasagna. Per alcuni «lagana» e «lasagna» hanno la stessa origine, etimologica e antico-romana, derivando «lasagna» dal greco, da cui il latino lagnum. Per altri invece l'etimo di lasagna sarebbe il latino lasania, dal greco, che indica un tipo di recipiente da cucina.

A prescindere da questo dettaglio, come spiega anche il Gambero Rosso, «forse qualche tipo di pasta era già conosciuta al tempo dei Romani. [...] Ciò che sappiamo per certo è che il metodo più antico usato dai Romani per consumare i cereali era la puls, una polenta piuttosto liquida che, a partire dalla fine dell'epoca repubblicana, venne sostituita gradualmente dal pane. Oltre alla cottura in forno, è certo che i romani usassero friggere gli impasti di acqua e farina, mentre non viene mai menzionata la lessatura in acqua» intesa come la intendiamo oggi, cioè una pasta che si lessa da sola e poi si condisce.

Non c'erano nemmeno tutte le forme odierne di pasta, naturalmente. Ma tutto era in nuce. Nelle Satire, Orazio elogia la vita semplice che consiste, per esempio, nel tornare a casa la sera a mangiare porri et ciceris laganique catinum. Ossia, un bel piatto di porri, ceci e lagnum. Apicio parla di lagnum anche nella ricetta della Torta quotidiana, un pasticcio che ricorda le lasagne o il pasticcio di pasta contemporanei e che prevede strati di farcia di carne, pesce, garum eccetera, alternati a strati di lagnum cioè sfoglia. Lagnum era dunque la sfoglia di acqua e farina di cereali (la cui forma non era unica, né certa) che è alla base di molte paste odierne e che pare fosse grigliata o fritta e solo poi posta in minestra.

Nelle Etymologiae di Isidoro da Siviglia (VI-VII secolo), la voce «laganum» è indicata come «una pasta larga e sottile, cotta prima nell'acqua, poi fritta nell'olio». Anche nel saggio I napoletani da «mangiafoglia» a «mangiamaccheroni» pubblicato nel 1958 sulla rivista Cronache Meridionali, Emilio Sereni ipotizza che la lagana greco-romana fosse un disco di pasta prima lessata e poi fritta o grigliata su pietra rovente, talvolta tagliata a strisce e aggiunta alle zuppe. 

Secondo Sereni, i greci introdussero la lagana in Calabria e così la conobbero i romani. Sono ipotesi: non si può affermare con certezza se questa protopasta si lessasse come oggi oppure no, ma è comunque inconfutabile che il lagnum si usasse a sfoglia grande come la lasagna odierna e anche a strisce che si trattavano come oggi facciamo con le lagane o, per usare un altro termine, i maltagliati. Come si passa dal lagnum agli spaghetti in pacchetto di oggi? 

La prima attestazione della pasta essiccata in Italia, secondo alcune fonti riprese anche da Wikipedia, si trova nel Libro di Ruggero pubblicato nel 1154. Nel testo Al-Idrisi, geografo di Ruggero II di Sicilia, descrive Termini Imerese come zona in cui si fabbrica una pasta a fili modellata manualmente. Al-Idrisi indica questa pasta col termine generico di itriyya, traslitterazione araba del greco itrion che significava «impasto di acqua e farina cotto in un liquido» e si tratta senza dubbio di un'evoluzione del lagnum di epoca romana: per ottenere un filo di pasta da una sfoglia basta tagliare la sfoglia in pezzetti e poi arrotolarli espandendoli, poi seccare anziché friggere, grigliare o lessare.

Lo scrivono anche Silvano Serventi e Françoise Sabban in La pasta. Storia e cultura di un cibo universale (Laterza): «La sfoglia non è più matrice unica per la preparazione di molti altri formati di pasta. 

Ora è in concorrenza con un'altra tecnica, quella del filo o filamento, che consiste nel modellare piccoli frammenti di pasta con le dita o con le mani, facendoli rotolare su un tavolo fino a ottenere un formato di pasta che con un termine generico si chiamerà vermicelli». O anche maccheroni, termine con cui, tuttavia, nel Medioevo si indicavano anche quelli che oggi chiamiamo gnocchi. Si chiameranno anche spaghetti, cioè piccoli spaghi, lemma che entrerà in uso nel XIX secolo.

Questa pasta, una volta essiccata, veniva spedita con navi in abbondanti quantità per tutta l'area del Mediterraneo musulmano e cristiano. Col passare dei secoli l'area campana amplificherà la produzione, specie in luoghi come Amalfi e Gragnano, che presentano un microclima perfetto grazie a vento, sole e giusta umidità. L'invenzione del torchio a vite per la trafilatura della pasta (chiamato in napoletano 'ngegno) permetterà una produzione ancora più veloce.

Il resto - cioè il condimento di pomodoro che si diffonde tra la fine del XVII e gli inizi del XVIII secolo creando lo stereotipo degli spaghetti al pomodoro come la pasta italiana - è storia che conosciamo. Ora sappiamo che molto probabilmente le lagane e gli antichi Romani siano i genitori degli spaghetti, lagnum è la sfoglia antenata della pasta contemporanea e della lasagna, come l'itriyya araba che diventa itrium in latino e poi tria in alcuni dialetti lo è della pasta secca. 

Ed eccoci arrivati alla pasta e ceci. In Campania e Basilicata si chiama lagane e ceci, in Puglia si chiama ciceri e tria e in entrambi i casi si prevede una manciata di lagane o tria fritte in cima al piatto: quello che può sembrare un vezzo è invece un residuo della cottura della «protopasta» dei romani.

A testimoniare il passaggio dalla lagana allo spaghetto sempre in Puglia ci sono anche i laganari, sorta di lagane allungate e arrotolate a diventare spaghettoni. E ci sono le sagne, anche dette sagne 'ncannulate o sagne torte. In Abruzzo si preparano sagne e ceci, in Molise ci sono le sagne a pezzate, in Lunigiana le lasagne bastarde (o matte) e in Veneto le tagliatelle si chiamano... lasagne (e le lasagne pasticcio). C'è poi la laina del basso Lazio, anche questa pasta lunga come le precedenti anche indicata al plurale, laine, o con termini come lacne, làccane o làcchene. 

 La lacna stracciata di Norma è prodotto agroalimentare tradizionale laziale e si ottiene impastando farina di grano duro con acqua e sale, poi stendendo una sfoglia col lainaturo (matterello) e tagliandola in strisce irregolari che si condiscono con sughi poveri come, appunto, il sugo ai ceci. In Le ricette dimenticate della cucina regionale italiana (Newton Compton), Samuele Bovini propone una «antica ricetta» delle «vere lagane». 

Dopo aver impastato semola di grano duro, farina 0, acqua tiepida e sale - spiega - bisogna «scottare il rettangolo di pasta da entrambi i lati su una piastra antiaderente. Lasciar diventare croccanti entrambi i lati, quindi porre l'impasto ancora sulla spianatoia e ricavare con il coltello delle grosse tagliatelle lunghe circa 10 cm e larghe circa 3 cm. Questa pasta va poi bollita in maniera tradizionale in acqua e condita con salse dal sapore molto strutturato, come del ragù dalla lunga cottura o simili».

 Curiosità finale: ne Il grande libro della cucina francese, Auguste Escoffier presenta le Tagliatelle Escoffier. «Per le tagliatelle all'alsaziana», scrive, «è consuetudine, una volta disposte in terrina e pronte per essere servite, guarnirle appoggiandovi sopra una piccola quantità di tagliatelle crude fatte saltare nel burro fino a quando diventano croccanti». Anche fuori Italia ritroviamo delle lagane parzialmente fritte: un altro lascito dei romani.

Luca Ferrua, Direttore de ilgusto, per “la Stampa” il 13 luglio 2022.

Era l'estate del 1983. Un'Italia spensierata ballava in spiaggia con Vamos a la playa dei Righeira e sotto l'ombrellone si spalancavano le borse frigo piene di panini con la carne impanata, prosciutto cotto senza polifosfati, mozzarella e per i più moderni anche insalata di pasta. Le famiglie erano partite all'alba e avevano percorso raccordi, autostrade fino all'ultima curva, quella che poi improvvisamente il mare.

Ricordi potenti. Fatti di crema solare, di un bagno che non si poteva fare perché il pasto era sempre troppo vicino e si rischiava la congestione, di profumi intensi come la parmigiana dei vicini di ombrellone. Rigorosamente in spiaggia libera. La birra per gli adulti o i quasi adulti, la spuma per tutti gli altri. Quelle emozioni le abbiamo vissute tutti. Anche i grandi chef che le hanno raccontate alla nostra Eleonora Cozzella.

«Sotto l'ombrellone - racconta Cristina Bowerman, chef stellata e ambasciatore del gusto - oltre ai cibi sani di mamma che ci proponeva sempre angurie e cetrioli c'era sempre la focaccia barese, soffice con i pomodori nell'impasto e ripiena di mozzarella». Per Anthony Genovese, altro stellato nella nuova Roma del gusto: «Tra le mie cose preferite del pranzo in spiaggia c'erano il panino con le polpette e la fritta di patate». 

 Sapori semplici, di festa. Alessandro Pipero, altra stella della ristorazione romana arrivare al mare era una chimera: «Mangiavo sempre. Papà non voleva si facesse il bagno dopo mangiato e così non ho mai fatto il bagno. Eravamo a Sperlonga con quell'irresistibile borsa frigo piena di pomodori ripieni e fettine panate».

Ricordi intensi di sapore che possiamo ritrovare nelle emozioni di intensa semplicità che ci regala la cucina di questi chef. Memorie di gusto. Come quelle delle spiagge del 1983, quando andare al mare la domenica era una necessità. Si faceva senza pensare. 

Quest' estate, anche se un po' meno spensierata, ci ha ricordato quella del 1983. Per la voglia di spiaggia, di mangiarci, di starci. Anche per chi solo un anno fa non si era mosso per la pandemia ancora dietro l'angolo. Adesso è tra noi ma non ci pensiamo. Non è coraggio o incoscienza è semplice rimozione. 

Così «I piaceri del Gusto», la versione cartacea de «Ilgusto.it» in edicola domani con «la Stampa» ha in copertina «Vamos a la playa» e in 48 pagine tutto quello che c'è da sapere per mangiare al mare. 

Spesso si etichetta la cucina da spiaggia come una cucina minore. Invece mangiare in costume, infradito e pareo può essere un piacere davvero intenso. Martina Liverani ha selezionato 11 piatti che racchiudono il gusto del mare, il sapore della spiaggia. Senza pensieri. Vi racconteremo dove mangiare la migliore frittura di calamari e gamberi, l'impepata di cozze, polpo e patate, risotto agli scampi, spaghetti allo scoglio, spada alla griglia, zuppa di pesce, linguine al nero, calamari ripieni, branzino al sale e anche il baccalà alla vicentina che non dappertutto fa estate ma in realtà è perfetto in questi giorni.

Dopo aver mangiato, e i pasti in spiaggia non erano e non sono proprio leggerezza, era l'ora del gelato e anche qui tornano le icone dalla Coppa del Nonno allo scandalo Calippo, roba da Anni '80 ma icona ben più estesa. E per chi non vuole la spiaggia pop, quella di «bira e calippo», Guido Barendso ha selezionato i migliori ristoranti con viste mozzafiato sul mare da Portofino a Panarea. Senza dimenticare i grandi vini da bere in estate scelti ad uno ad uno da Lara Loreti. E poi, accompagnati da un'insegnate di yoga e da una pr andiamo alla scoperta della nuova Ibiza, mentre Martina Carnesciali ci racconta il gusto segreto di Cagliari. Tutto da scoprire.

Abbecedario. Dalla A di albicocca rossa alla Z di zucca cappello del prete. Gastronomika su L'Inkiesta il 6 maggio 2022.

Ripensare il nostro modo di fare la spesa significa anche guardare il cibo da un altro punto di vista, più sostenibile e umano, e riscoprire un mondo in cui relazioni e persone tornano ad avere il giusto peso. 

Almeno una volta nella vita bisognerebbe frequentare un mercato generale. Perché nel turbinio di bancali pieni di frutta e verdura pronti per essere spediti in tutto il mondo, smistati ai negozi di quartiere o finire sugli scaffali della grande distribuzione, si nasconde un universo sconosciuto ai più. Un patrimonio di forme, colori, sapori messo a rischio dalle logiche della grande distribuzione che ci propina un numero ristretto di varietà più appetibili dal punto di vista commerciale ignorando tutto il resto. Quante varietà di mele esistono? La natura ha molta più fantasia del supermercato: Annurca, Ambrosia, Braeburn, Fuji, Delicius, Granny Smith, Royal Gala, Stark Delicious, Stayman Winesap, Mela Crimson Snow… E così per ogni genere di frutta e verdura, dalla A di albicocca alla Z di zucca: Butternut violina, Hokkaido, turbante, Padana tonda, moscata di Provenza, cappello del prete…

Al mercato ortofrutticolo di Vicenza, tra uno stock di pere William e un bancale di catalogna, Luca Zanon, responsabile marketing di Orofruit, ingrosso di ortofrutta che fattura 8 milioni l’anno, regala pillole di biodiversità ai clienti. «C’è un grande bisogno di fare corretta informazione – spiega – perché le persone si sono allontanate dalla campagna, non sanno più cos’è la stagionalità e se non conoscono un prodotto non lo comprano». L’albicocca rossa, ad esempio, è una varietà poco conosciuta: ha la buccia color arancione intenso, polpa gustosissima ma la gente non sa cos’è e non la compra. È anche una questione di poca fantasia e di mode: «Abbiamo 5mila prodotti diversi ma alla fine le persone chiedono solo avocado, pomodori Pachino, patate e zucchine».

I consumi di frutta e verdura, spiega Zanon, sono in calo costante da dieci anni, ma il prezzo della materia si mantiene alto per non andare in perdita. Discorso diverso per la grande distribuzione che ha puntato sulla quantità anziché sulla qualità. «Il risultato? La gente non vuole più le arance perché sono di importazione, senza succo, o compra il prodotto già pulito e tagliato, per far prima, pagando tre volte il suo prezzo. Chi fa più le spremute? Capita la stessa cosa con le angurie, in estate: scomode da tagliare e troppo pesanti da trasportare, restano sui banchi a marcire. In generale tutto quello che è difficile da maneggiare o ha bisogno di cotture lunghe non ha mercato».

E poi c’è il cibo che, a monte, non raggiunge le nostre tavole a causa di qualche piccolo difetto estetico o intoppo normativo. Può capitare che interi stock vengano rifiutati dalla Gdo perché non conformi oppure che merce destinata all’estero resti invenduta perché nel frattempo è entrata in vigore una nuova norma che ne blocca l’esportazione. In questi casi, beffa nella beffa, il grossista deve anche pagare i costi di smaltimento. Zanon si è inventato un’alternativa alla discarica, vantaggiosa per tutti: compra gli eccessi di produzione a un prezzo simbolico e li rimette in vendita attraverso Too Good To Go, l’app che consente di acquistare a un terzo del loro valore commerciale cibi freschi vicini alla scadenza o con pochi giorni di vita. Oltre ovviamente a rivendere le sue eccedenze. Da febbraio dell’anno scorso a oggi Orofruit ha distribuito quasi ventimila box, circa 200 la settimana, concentrate il sabato. All’interno ci sono dai 5 ai 7 chili di merce, prezzo fisso 5 euro. Zanon ne ha fatto un piccolo business nel business oltre che un veicolo per fare informazione, diffondere la cultura del non spreco e avvicinare una clientela decisamente eterogenea: «Una delle nostre prime clienti a usare la app è stata una signora di 82 anni che faceva la spesa online per la prima volta. Dopo qualche minuto la banca ci ha chiamati pensando che le avessero clonato la carta di credito».

Tra i tanti sprechi che caratterizzano la nostra epoca, quello alimentare è il meno accettabile. Buttare cibo vicino alla scadenza ma ancora buono oppure “brutto” ma perfettamente utilizzabile in cucina, non è più sostenibile. Le strade per diventare virtuosi sono tante: frequentare i mercati rionali, aderire a un gruppo di acquisto solidale (ce ne sono moltissimi in ogni città italiana), cucinare anziché acquistare cibi già pronti sono tutti espedienti per utilizzare al meglio la materia prima. Un modo diverso di fare la spesa e di pensare il cibo che non solo ci fa risparmiare ma aiuta anche il pianeta.

Da Tuttifrutti, a Merate, ingrosso con vendita al dettaglio di frutta e verdura, i cartelli sulle cassette suggeriscono come conservare e consumare frutta e verdura, tra fragole e lamponi “maturi da marmellata” e carciofi mammola “per le prime grigliate di primavera”. Le eccedenze finiscono nelle box, a 3,99 o 4,99 euro, a seconda del peso. C’è anche un piccolo angolo dedicato alle specialità dell’est Europa che la proprietaria, la rumena Iasmina Ranisav, ha messo in piedi pensando ai suoi connazionali. Per la Pasqua ortodossa il paniere era particolarmente ricco di salumi affumicati, dolci e formaggi tipici.

Che si tratti di realtà piccole o grandi, prevedere cosa si venderà e cosa invece resterà sugli scaffali, non è affatto facile. Lazzarini è uno dei più grandi distributori di dolciumi e bevande della Lombardia con un proprio punto vendita al dettaglio nel centro di Bergamo e un ingrosso in provincia, ad Azzano San Paolo. Realtà conosciutissima in zona per la produzione delle caramelle, Lazzarini ha un catalogo vastissimo, dodicimila referenze, attraverso il quale rifornisce ogni giorno la grande distribuzione, negozi di prossimità e bar. Nel periodo che segue le feste si accumula qualche eccedenza e così i prodotti vicini alla scadenza, soprattutto bibite e dolciumi, finiscono nelle box a 9,99 euro.

«Anche il nostro è un prodotto stagionale con dei picchi di produzione e vendita in inverno – chiosa Iacopo Florio, social media manager di Agroittica Lombarda, azienda che nel 2017 ha acquisito Fjord, importatore di pesce affumicato dal Nord Europa – anche se per fortuna le persone hanno imparato a consumare pesce tutto l’anno e non soltanto a Natale».

Fjord rifornisce la grande distribuzione con varietà pregiate di salmone affumicato proveniente da allevamenti certificati in Nuova Zelanda, Scozia, Norvegia e Alaska; ci sono poi il tonno e il pesce spada che vengono pescati in mare aperto, mentre storione e caviale provengono dagli allevamenti di Agroittica a Calvisano, in provincia di Brescia. Un prodotto di qualità, mediamente costoso, che si presta agli accostamenti più diversi, dalla semplice fetta di pane imburrato fino a un sofisticato risotto. «La lavorazione della materia prima viene fatta in Italia – sottolinea Florio – e con la massima attenzione alla sostenibilità per non sprecare assolutamente nulla. Per i prodotti confezionati vicini alla scadenza usiamo le box. Ogni giorno ci sono due slot di consegna che quasi sempre finiscono sold out, uno al mattino e uno il pomeriggio, con due fasce di prezzo: 9,99 o 19,99 euro». Ad acquistarle sono sia clienti che già conoscono il brand e frequentano lo spaccio aziendale sia persone che scoprono il prodotto attraverso la app. Un modo diverso e più consapevole di fare la spesa che sempre più persone dovrebbero adottare, puntando sempre con un occhio al risparmio e con l’altro al futuro del nostro pianeta.

Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 26 luglio 2022.

Quando la luce di Ponza si colora di tramonto la spiaggia Santa Maria diventa un'attrazione da non perdere per i gourmet. Siamo nel regno di Oreste e di Valentina Romagnolo che nel loro Orerock raccontano, in una cornice coloratissima, i sapori del Mediterraneo mettendo in ogni piatto una gioiosa marcia in più.

«Il menù gioca su una tavolozza ampia di sapori - esordisce Oreste - ma negli ultimi tempi un vero imperdibile è la pasta fredda, una base che si presta molto bene a stuzzicare il palato con tutta una serie di combinazioni e di contrasti. Qualche esempio? Penso ai rigatoni con limone Parmigiano e menta, molto eleganti e delicati, oppure a un tagliolino con emulsione di ricci di mare accompagnato da una quenelle di scampi crudi marinati, davvero tutti i profumi del mare dentro un solo piatto».

D'altra parte, Gualtiero Marchesi, il padre nobile della cucina italiana moderna, era stato il primo a sdoganare la pasta fredda dal ruolo originario di piatto casalingo portandolo nei salotti buoni della cucina stellata. Correva l'anno 1985 e l'idea fu tutta in un contrasto sapiente di spaghetti scolati e raffreddati sotto l'acqua corrente, un giro di olio, sale, pepe ed erba cipollina tagliata fine, con un cucchiaio di caviale sulla sommità, in un crescendo, anche cromatico, di piacere del gusto.

Lungo questo filone gli chef importanti hanno cominciato a esplorare le potenzialità del piatto. Bruno Barbieri, carismatico giudice di Masterchef, impiega le farfalle con una miscela di erbe aromatiche (finocchietto, salvia, maggiorana, basilico, menta), con l'aggiunta di rucola e lupini sgusciati. A seguire fa scolare la pasta sulle erbe, prima di concludere con una emulsione di sale, olio, Parmigiano e paprika dolce.

Allo stesso modo Andrea Berton, stellato allievo di Marchesi, gioca sulla concentrazione di sapori: spaghetto alla chitarra e crema di pomodoro datterino realizzata con sottovuoto di un giorno.

Salvatore Aprea, nel suo luogo di sogno caprese, qualche volta si diverte a servire un mitico piatto di pasta fredda, che è un vero e proprio omaggio alla sua amata isola: spaghetti, acqua di pomodoro, basilico, battuto di scampi e burrata, felice sintesi di mare e di orti sottolineata dalla presenza legante del formaggio.

Non si può tuttavia parlare di pasta fredda senza andare al piatto madre per eccellenza, ovvero la mitica, romanissima Checca. Sarà anche trendy giocare con altre combinazioni tipo gramigna con mango e bresaola, eliche con prugne e tonno, conchiglie con spada e verdure, ma alla fine il potere convocante di una checca fatta a regola d'arte ha pochi paragoni. 

Piatto per certi versi misterioso - su nome e origini ci sono solo congetture - ma è quasi certo che la Checca abbia cominciato a diffondersi negli anni 60-70, con molte variazioni sul tema: Ugo Tognazzi era celebre per una sua Checca sul rogo per la quantità di peperoncino impiegato.

Paolo Borzatta, manager e guru dell'olio a Canino sorride sul tema: «Tutto sta nel fare marinare a lungo gli ingredienti con un grande extravergine, non esitare con l'aglio e lasciare raffreddare a caldo (cioè senza passare gli spaghetti all'acqua fredda). Il frigorifero va sempre dimenticato. Sul formaggio ci sono varie scuole di pensiero. Io preferisco la versione purista, ma il piatto è buono anche con la mozzarella, meglio ancora la caciotta dolce». 

Luca Cesari per repubblica.it il 20 Novembre 2022. 

Al primo Festival de il Gusto "C'è più Gusto a Bologna", in programma a palazzo Re Enzo il 5 e il 6 novembre, una delle protagoniste assolute sarà la pasta. In vista dell'evento, celebriamo il compleanno di una delle ricette più popolari che compie 70 anni: la carbonara. 

La carbonara oggi è uno dei piatti più amati di tutto il mondo, ma forse non tutti sanno che la prima ricetta è comparsa solo nel 1952. Questa versione non si trova su un libro di cucina italiano, bensì americano e, più precisamente, su una guida illustrata dei ristoranti di un distretto di Chicago, scritta da Patricia Bronté e intitolata: Vittles and vice: An extraordinary guide to what’s cooking on Chicago’s Near North Side. Il libro descrive diversi locali dell’area nord del centro di Chicago, tra i quali figura anche un ristorante, Armando’s, in cui si serve la carbonara.

Fin da questa prima ricetta la struttura del piatto è già ben delineata dai pochi ingredienti descritti e non deve sorprendere la presenza di pancetta e parmigiano, un binomio inossidabile che resisterà fino agli anni ‘60 e in qualche caso anche nei decenni successivi. Questa che vi proponiamo è dunque la ricetta “originale” della carbonara. 

Pasta carbonara

Lessare 1 libbra e mezzo di Tagliarini (tagliatelle larghe e sottili) seguendo le istruzioni della confezione. Nel frattempo tritare e soffriggere mezza libbra di Mezzina (pancetta italiana). Scolare le tagliatelle e la pancetta. Prendere 4 uova e un quarto di libbra di Parmigiano grattugiato e sbatteteli delicatamente insieme. Mescolare tutto insieme facendolo saltare in padella. Porzione per quattro.

Dal corriere.it il 7 aprile 2022.

La spaghettata social che unisce tutta l’Italia e oltre. Il 6 aprile di ogni anno si celebra una delle paste più amate: la carbonara. Nella giornata ideata nel 2017 dai pastai di Unione Italiana Food e supportata IPO (International Pasta Organisation), gli appassionati del piatto sono chiamati a condividere sui social ricette, foto e opinioni sull’intramontabile formula pecorino-guanciale-uova, usando l’hashtag #CarbonaraDay. 

Quali sono le sue origini? È meglio il guanciale o la pancetta? Il pecorino o il parmigiano? Le uova intere o solo i tuorli? Non esiste un vero e proprio disciplinare, ma in questo articolo proviamo a mettere un po’ d’ordine e a svelare aneddoti curiosi sul piatto che, nel tempo, ha saputo ritagliarsi un posto in prima fila nella tradizione culinaria italiana, arrivando a essere una delle tipologie di pasta più consumate in tutta la Penisola.

In particolare, sono Roma, Bologna e Milano le città in cui crescono di più i consumi di carbonara, che superano altre specialità romane come amatriciana e gricia. Ma il gusto carbonara si diffonde anche con rivisitazioni che vanno oltre la tradizione più classica. Quest’anno, ad esempio, c’è chi si è inventato nuovi dessert e abbinamenti. Come la gelateria «Gusto 17» di Milano, che nei suoi bon bon speciali ha unito crema all'uovo, salsa di pecorino, pepe nero e coriandoli croccanti di guanciale.

E le giovani start-up The Gin Way e Carbogang, che hanno lanciato l’aperitivo a domicilio Carboidratami: una mistery box provvista di tutti gli ingredienti per portare in tavola un duo portentoso. Carbonara e gin tonic. Tra i nuovi trend ci sono anche rivisitazioni originali come hamburger, supplì, arancini e pizza. 

Ecco allora la ricetta classica, la ricetta perfetta in 15 minuti di Alessandro Borghese, le varianti d’autore, le varianti creative, i consigli di Massimo Bottura e Cattelan e le versioni sbagliate. 

Bastano 15 minuti e qualche attenzione per preparare una carbonara perfetta. Ecco qui la ricetta spiegata passo per passo dallo chef Alessandro Borghese, per un piatto veloce, facile e senza errori. Un modo (quasi) sicuro per avere successo con questo piatto speciale. Spaghetti alla carbonara, la ricetta di Alessandro Borghese per farli perfetti (in 15 minuti).

Cremosa, al dente e ricca di sapore. Una carbonara che si rispetti deve osservare queste tre caratteriste e la sua preparazione non va sottovalutata. La ricetta è semplice e alla portata di tutti ma esistono alcune regole basilari per evitare gli errori più comuni. Dalla scelta del salume - guanciale o pancetta? - alle uova - solo tuorlo o anche albume? -, in questo articolo sfatiamo ogni dubbio su un piatto a dir poco iconico.  

Carbonare horror a parte, le rivisitazioni del piatto si sono negli anni (felicemente) moltiplicate e sono nati supplì, calzoni, tartare, hamburger. E anche gli chef dell’alta cucina, per omaggiare la ricetta, hanno messo a punto declinazioni speciali. C’è quella primaverile, quindi arricchita con asparagi, fave e piselli, quella pop o riletta in chiave siciliana, con uova di tonno, ricci di mare, bottarga e gamberi rossi frullati.

Le versioni della carbonara classica, vegetariana o di mare. Un esercizio dichiaratamente creativo che celebra uno dei piatti italiani più amati. Da Fulvio Pierangelini a Luciano Monosilio, da Giulio Terrinoni a Vito Mollica e poi Raffaele Lenzi e Roberto Toro, ecco le loro ricette d’autore. 

Ogni volta che uno chef, food writer o cuoco amatoriale versa della panna nella carbonara, un cultore della tradizione rischia la crisi di nervi. Parlare di ricette quando si tratta di piatti regionali italiani è sempre un azzardo e, soprattutto quando a proporre rivisitazioni sono siti istituzionali, star o celebrities del food internazionale, il web non chiude di certo un occhio (l’ultimo scivolone a tema è quello della sezione dedicata al cibo del New York Times, Cooking).

La carbonara in particolare è uno dei piatti più rifatti e travisati all’estero. Nigella Lawson, ad esempio, sembra avere un’autentica fascinazione per questa ricetta tradizionale italiana. Nel 2017, con la sua carbonara cremosissima, riuscì a scatenare una pioggia di insulti social. Il passaggio incriminato? 60 ml di panna di troppo. E lo scorso ottobre Lawson è tornata sul web con una nuova ricetta personale del piatto che, ancora una volta, ammette «piccole» variazioni all’originale. 

Ma ci sono anche lo chef celebrity Gordon Ramsay, Martha Stewart, cuoca e regina americana dell’arte del ricevere, Charles Leclerc e Heston Blumenthal che fa infuriare il web.

«Questo piatto ci ricorda l’infanzia e aumenta la serenità». Ad affermarlo è la biologa nutrizionista Martina Donegani, che nel suo ultimo studio condotto in collaborazione con Ubert Eats spiega perché la carbonara piace così tanto. La prima motivazione riguarda la consistenza cremosa: «Quando veniamo al mondo abbiamo una predisposizione a questa sensazione. Alla nascita non ci piace l’amaro, amiamo invece il gusto dolce e apprezziamo le consistenze vellutate e avvolgenti. Palatabilità che, nella carbonara, è data dal grasso rilasciato dal guanciale e dalla cremina del tuorlo».

Inoltre, esistono cibi capaci di stimolare la sintesi di alcuni neurotrasmettitori, come la seratonina, l’ormone del buonumore, creando senso di contentezza e serenità. «Questo si verifica soprattutto in quegli alimenti ricchi di triptofano - aggiunge Donegani -, un precursore della serotonina e contenuto, ad esempio, in uova e guanciale, ingredienti presenti nella carbonara. L’amido della pasta, poi, ne favorisce l’assimilazione ed è proprio per questo che quando la mangiamo ci sentiamo così appagati».

 Laura Larcan per “il Messaggero” il 6 aprile 2022.

La famo strana? La pasta, ovviamente. Tuorlo d'uovo, guanciale, spaghetti, paccheri o mezze maniche, pepe, pecorino, e la formula orchestra in cucina un capolavoro di gusto. Ne sa qualcosa Carlo Verdone, visto che è stato eletto compagno ideale dei romani e degli italiani per degustare la carbonara, un verdetto segnato dalla ricerca Doxa condotta dai pastai dell'Unione Italiana Food (su un campione di 500 intervistati). 

Et voilà, il popolare attore e regista capitolino (suo il mitico «o famo strano» del film Viaggi di Nozze) diventa il testimonial più buono che c'è per il Carbonara Day, la festa dedicata a uno dei primi piatti tipici della Città eterna che va in scena oggi (da mettere in agenda per l'avvenire, il 6 aprile). «Amo la pasta - dichiara Carlo Verdone - è il mio piatto preferito, semplice, creativo. Un vero antidepressivo, è condivisione, aggregazione e buonumore. Sono fiero di essere il portabandiera di questo piatto. Se organizzate, io vengo di corsa, mangio in silenzio e poi vi faccio ridere. Buon Carbonara Day a tutti». E oggi la festa passa per cucine, ristoranti, tavolate. L'occasione è d'oro. 

IL PROGRAMMA Non c'è ristoranti oggi a Roma (e nella Lazio) che non preveda sul menu una citazione dell'illustre iconica pasta. In più, una selezione di bistrot, osteria e aziende agricole romani la celebrano con una Carbonara Special Edition, tra rivisitazioni creative griffate dagli chef e una mise en place con piatti da portata unici scelti nella nuova collezione della storica Churchill 1795. E allora, la famo strana? C'è da scommetterci. 

C'è chi propone i paccheri alla carbonara con spuma di carciofo e caviale di salmone, e chi gioca con le costolette di agnello avvolte nel guanciale e servite con salsa alla carbonara. Chi sorprende con i bottoni di carbonara in vignarola, e chi rilancia con il raviolone con cuore di carbonara fatto con pasta tirata a mano ripiena di crema di pecorino e tuorlo d'uovo di canapa. E persino chi ne fa una questione di dolce, creando un waffle al guanciale, mousse al pecorino, gelato alla cannella, gel di tuorlo e salsa al cioccolato. Tu chiamale, se vuoi, emozioni alla carbonara. 

E non può che essere così, visto che Tripadvisor, il famoso portale guru di viaggi ha pubblicato la sua classifica dei Travellers' Choice Awards 2022 incoronando Roma al primo posto come «migliore destinazione per i food lovers, ossia gli amanti del cibo». 

IL CIRCOLO Per sapere tutto su ricette e curiosità, dibattiti e storia, ultimi libri e trend gastronomiche, rassegne a livello internazionali e museo virtuali, basta consultare il sito del Carbonara Club nato nel 1998 sotto la guida di Stefano Belli all'insegna del motto «Keep calm and eat Carbonara». E non manca la maratona social con invito a condividere la ricetta con gli hashtag #CarbonaraDay e #CarbonaraSharing. L'appuntamento è sui canali social WeLovePasta con i pastai di Unione Italiana Food e lo chef Luciano Monosilio a partire, oggi, dalle ore 12.

IL MISTERO Pensare che quella della carbonara è una ricetta ancora avvolta dall'aura del mistero, in fondo. Animando fior di dibattiti tra storici della cucina. Persino il New York Times intervenne qualche anno fa allettato dall'idea di rivendicare un Dna americano in un piatto sì romanesco, ma che oltreoceano è richiestissimo, tanto da sfidare il tacchino ripieno nel Giorno del ringraziamento. 

Le origini della pasta alla carbonara potrebbero risiedere addirittura in quella Razione K, che Ancel Benjamin Keys il nutrizionista al servizio dell'esercito americano inventò nel 1942 per garantire la sussistenza alimentare dei soldati. Quello che è sicuro è che prima del 1944 la carbonara non esisteva, nè come nome, nè come tipologia di pasta. Solo dopo l'arrivo degli Alleati è comparsa. Non foss' altro che la bibbia della Cucina romana di Ada Boni nel 1930 della carbonara non fa menzione.

Storia e origini della pasta alla carbonara. Beatrice Gigli il 13 Novembre 2022 su Culturaidentita.it.

La pasta alla carbonara, piatto tradizionale della cucina romanesca, è sicuramente il frutto della capacità, tutta italiana, d’improvvisazione culinaria del primo dopoguerra.

Dagli ingredienti provenienti dalle razioni militari degli alleati Americani, uova in polvere e bacon (pancetta affumicata), alle cucine di qualche genio ignoto che ebbe l’idea di mescolare condendo la pasta.

La combinazione tipica americana di uova & bacon con la pasta e il formaggio ne ha stabilito l’immediata fortuna nella Roma appena liberata.

A conferma di questa ipotesi c’è il racconto di Renato Gualandi, giovane cuoco bolognese che nel 1944, in occasione dell’incontro tra la Quinta Armata americana e l’Ottava Armata inglese a Riccione, afferma di avere creato inconsapevolmente un piatto precursore della carbonara: “Gli americani avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo. Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe nero che sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza “bavosetti” e furono conquistati dalla pasta”.

Gualandi divenne cuoco delle truppe alleate a Roma dal settembre 1944 ad aprile 1945, periodo sufficiente per diffondere questo nuovo piatto nella capitale. 

Secondo un’altra ipotesi il piatto sarebbe stato “inventato” dai carbonari nel territorio dell’Aquilano, i quali lo preparavano usando ingredienti di facile reperibilità e conservazione.

La carbonara in questo caso sarebbe l’evoluzione del piatto detto cacio e ova (Cace e Ove, in dialetto abruzzese) di origini abruzzesi, che i carbonari usavano preparare il giorno prima portandolo nei loro “tascapane” e che consumavano con le mani.

C’è anche un’ipotesi napoletana che individua in alcune ricette presenti nel trattato del 1837 Cucina teorico-pratica di Ippolito Cavalcanti una possibile origine della pietanza: nella cucina popolare napoletana è usanza, nella preparazione di alcuni piatti, usare ingredienti che si trovano nella carbonara come uno sbattuto di uova, formaggio e pepe aggiunto dopo la cottura.

Ingredienti per 4 persone:

320 g di pasta (rigatoni o spaghetti) 4 tuorli di uova

200 g di guanciale

60 g di pecorino

Sale e pepe

Procedimento:

Portare a bollore abbondante acqua in una pentola. Intanto pulire il guanciale eliminando cotenna e parte col pepe e tagliarlo a cubetti. Scaldare una padella antiaderente e rosolare i cubetti di guanciale per circa 15 minuti a fiamma media, facendo attenzione a non bruciarlo. Quando bolle l’acqua, aggiungere il sale e cuocere la pasta. A parte, separare gli albumi dai tuorli e conservare questi ultimi in una ciotola. Sbattere i tuorli con una frusta e aggiungere il pecorino grattugiato. Aggiungere anche il pepe nero macinato e amalgamare fino a creare una salsa liscia. A cottura ultimata, scolare la pasta nella ciotola e mantecarla alla salsa con l’uovo. Aggiungere i cubetti di guanciale e servire con un’ultima spolverata di pepe e pecorino.

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

Aggravante generica: il suo unico fratello, Andrea, è stato chef con Romano Tamani all'Ambasciata di Quistello, due stelle Michelin, e al Divina Commedia di New York, dove pranzava il sindaco Rudolph Giuliani. Aggravante specifica: Alberto Grandi è presidente del corso di laurea in Economia e management all'Università di Parma, capitale universale del cibo made in Italy. È proprio qui che Grandi, docente di storia dell'alimentazione, ha violato, e continua a violare, l'ortodossia.

Il parmigiano? Inventato nel Wisconsin. La pizza Margherita? Non c'entra con la regina Margherita di Savoia. I tortellini bolognesi? Si facevano con carne di pollo. Teorie a dir poco sacrileghe esposte nel saggio Denominazione di origine inventata (Mondadori), dedicato alle «bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», che gli è valso un'entusiastica recensione di Piero Angela a «Quark», ma anche le ire dei consorzi di tutela Doc, Docg, Dop, Igp, Igt, Pat, Stg («delle ultime due sigle ho scordato il significato, credo significhino Prodotti agroalimentari tradizionali e Specialità tradizionale garantita»), per nulla entusiasti di questa sarcastica Doi, acronimo a sua volta inventato di cui non avvertivano il bisogno, ora divenuto un podcast di successo in 12 puntate su Apple e Spotify: 170.000 download in meno di due mesi.

Ha sconsacrato persino la carbonara.

«Fino al 1953 non ne parlava nessun ricettario. Gli ingredienti furono portati nel secondo dopoguerra dalle truppe americane. A bacon e uova, la loro colazione, aggiunsero la pasta. Il gastronomo Luigi Carnacina se ne attribuiva la paternità. Il collega Luigi Veronelli gli chiese: "Ma perché le hai dato questo nome?". La risposta fu: "Non me lo ricordo"». 

Lei sostiene che la cucina tricolore ha 50 anni scarsi di vita. Tesi bizzarra.

«L'Italia da un bel po' non crede più al futuro, così ha inventato un fastoso passato. La verità è che eravamo morti di fame. Mangiavamo poco e male. Poi abbiamo cominciato a mangiare tanto e male. Alla fine ci siamo raccontati di aver sempre mangiato tanto e bene».

Debbo smentirla: la «castradina» che Giorgio Gioco cucinava con l'agnello al 12 Apostoli di Verona veniva dagli schiavi della Serenissima prelevati in Dalmazia.

«Guardi, il tanto celebrato Pellegrino Artusi, che nel 1891 compila La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, raffazzonò ricette. E consigliò di copiare da tedeschi e inglesi, non dai francesi, giudicati troppo raffinati per i nostri palati». 

E il «De re coquinaria», mi scusi?

«La cucina romana raccontata nel I secolo da Marco Gavio Apicio non sarebbe riproducibile ai nostri giorni. Pensi solo al garum, la salsa più diffusa a quell'epoca: scarti di pesce fatti marcire nel sale». 

Quando finì la fame italica?

«All'inizio del XX secolo, con l'avvento della meccanica e della chimica in agricoltura. Dal 1876 al 1915 ben 20 milioni di italiani vanno a cercarsi il cibo all'estero. Un contadino veneto su tre soffriva di pellagra, cioè carenza da vitamina PP, abbreviazione di "Pellagra preventing", scoperta negli Stati Uniti solo nel 1937. I medici americani la paragonavano a una peste portata dai nostri connazionali, abituati a consumare 3 chili di polenta pro capite al giorno. Si toglievano la fame, ma si ammalavano. Cesare Lombroso studiò per primo la patologia. Giunse a una conclusione sballata: ritenne che a causarla fosse la cattiva conservazione del mais, non la dieta monotona. È in tal modo che nacquero i granai pubblici. Un bel caso di eterogenesi dei fini».

Apollinare Veronesi, magnate del pollo Aia, mi disse: «Quando ai miei tempi si tirava il collo a una gallina, o c'era un malato in casa o era malata la gallina».

«Infatti nei tortellini l'Artusi mette carne di pollo. Solo nel 1974 la Camera di commercio registrerà la ricetta del "vero tortellino di Bologna" fatto con lombo di maiale, prosciutto e mortadella». 

Secondo un altro disciplinare camerale, il mitico ragù alla bolognese prevede il latte. Nessuno se n'è mai lamentato.

«Sì, ma risale al 1982, quando era in auge la panna da cucina. Questo per dire l'artificiosità di certe operazioni». 

Mi indichi un piatto di sicuro italiano.

«È dura. Mi hanno crocifisso per aver scritto che le pizzerie nacquero in America, eppure fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada. Bravo il napoletano Raffaele Esposito a inventarsi nel 1889 d'aver ideato la Margherita in onore della regina d'Italia, giunta a Capodimonte con Umberto I. Negli Usa era un cibo per disperati, vivamente sconsigliato dai medici, al pari dei maccheroni».

Ma lei attribuisce agli yankee persino il parmigiano, si rende conto?

«No, io dico che piaceva già a Boccaccio e che Napoleone mandò Gaspard Monge a Parma, affinché indagasse su un formaggio che si conservava bene. Solo che in questa città non c'erano le vacche da latte, per cui fu mandato a Lodi, da dove inviò all'imperatore un rapporto sul "fromage Lodezan dit aussi Parmezan". C'è un buco di 150 anni, dal 1700 al 1850, nella storia di questo eccelso prodotto. Oggi si fa un gran parlare del parmigiano contraffatto, però fu alla fine del XIX secolo che comparve nel Wisconsin il tanto deprecato Parmesan, in forme di circa 20 chili e con la crosta nera. Chi lo produceva? Qualche casaro italiano emigrato là. Ne cito uno solo: Magnani. Un cognome molto diffuso fra Parma e Mantova. Soltanto nel 1938 spunta il primo consorzio di tutela del Parmigiano reggiano». 

E quella degli spaghetti che sarebbero nati in Africa che storia è?

«Oggi la pasta si fa con il frumento Creso, in commercio dal 1974, che ha soppiantato il famoso Senatore Cappelli. C'entra la "battaglia del grano" intrapresa da Benito Mussolini, giacché un terzo della materia prima per il pane dipendeva dalle importazioni, con pesanti ricadute sulla bilancia commerciale. In soccorso del Duce venne il genetista Nazareno Strampelli. Fu lui a inventare il grano duro dedicato al senatore Raffaele Cappelli, che per primo aveva finanziato le sue ricerche. Attraverso pazienti incroci, l'agronomo marchigiano creò una varietà assai produttiva e resistente alle malattie: il grano Ardito. Ma ci arrivò utilizzando una varietà trovata in Tunisia».

Insomma, c'è qualcosa di solo nostro?

«L'aceto balsamico tradizionale di Modena, che nella versione Igp, la meno nobile, è una delle cinque leccornie più esportate insieme con Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosecco e Prosciutto di Parma. Peccato che l'originale costi 10.000 euro al litro e richieda almeno 12 anni d'invecchiamento, che possono arrivare a 30. Il rischio d'impresa è enorme: alla fine una giuria decide a chi concedere il bollino. Il succedaneo si fa con mosto, aceto di vino e caramello. Un'operazione commerciale scaltra».

Che l'avrà fatta inorridire.

«Ma no, sono onnivoro, passo indifferentemente dal McDonald's ai grilli fritti che ho mangiato a Pechino. Oggi solo uno yogurt e una banana. Sono a dieta». 

Ricorda un cibo della sua infanzia?

«Sì, ed è tristissimo rievocarlo, nonostante a Mantova fosse il piatto tipico della domenica: ris e tridura, riso bollito nel brodo, con l'aggiunta di uovo sbattuto e parmigiano a fine cottura». E un sapore perduto per sempre? «Il fiapòn , un dolce. Si friggevano in una padella unta gli avanzi di polenta e si spolveravano con zucchero a velo».  

Ma a chi dovrebbe importare se un cibo è nato davvero in Italia o altrove?

 «Certo non a me. Basta che sia buono e non faccia male. Tuttavia detesto la mistica del made in Italy: puro marketing».  

Il pomodoro ciliegino mi pare buono. 

«Certo. E pensare che i coltivatori di Pachino non lo volevano, preferivano dedicarsi al cuore di bue insalataro. A brevettarlo nel 1989 fu la Hazera genetics di Tel Aviv, alla quale ancor oggi i siciliani pagano le royalty per le sementi».  

Pure il lardo di Colonnata è delizioso. 

«Chi dice di no? Fantastico. Ma è mai stato in quella frazione delle Alpi Apuane? È così minuscola che faticherebbero a starci due maiali. E infatti conosco allevatori mantovani che forniscono il lardo da stagionare nelle conche di marmo. Trattandosi di un'Igp, indicazione geografica protetta, non è obbligatorio il legame fra territorio e materia prima». 

Che cosa insegna ai suoi studenti? 

«Come ha mangiato l'uomo prima della scoperta del fuoco. L'idea che si nutrisse di ciò che cacciava è fasulla».  

Di che si nutriva, allora? 

«Gli ominidi erano divoratori di carogne, al pari degli avvoltoi e delle iene».  

E ti pareva! Che schifezza. 

«Non me lo sono inventato. Basta leggere Storia dell'alimentazione di Jean-Louis Flandrin, un tomo di 750 pagine curato dal medievista Massimo Montanari, studioso supremo della materia. È stato mio professore e in seguito abbiamo insegnato insieme per due anni. L'uomo cacciatore l'ha creato l'antropologia per riabilitare i nostri antenati».

Non crede che la Denominazione di origine inventata danneggi una delle poche industrie nazionali ancora floride? 

«È quello che mi rimproverò il mio concittadino Gianni Fava quand'era assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia: "Se tu togli a un piatto la storia, lo privi di un ingrediente". Aveva ragione. Mi ha messo in crisi. Sono stato invitato a parlare della tavola tricolore ad Ankara. Prima della partenza, mi hanno detto: "Stia attento a come parla..."». 

Viviamo in una civiltà gastrica.

 «Eccome. Sul food si gioca una partita sproporzionata, quasi che l'italianità passasse dalla difesa dell'amatriciana». 

Torneremo a patire la fame? 

«Non credo a una carestia in Italia. Il grano russo e ucraino che sfama l'Africa lo daranno a noi. Lo paghiamo di più».

Falsi amici. L’equivoco della braceria e la scelleratezza onomapoietica dei ristoratori. L'Inkiesta il 28 Febbraio 2022.

Questo neologismo ormai è stato accettato, ma ricondurre la sua origine alla brace sarebbe un classico caso di rietimologizzazione, conseguente all’ingannevole suggestione di un termine straniero quasi omofono: brasserie.

C’è qualcosa di nuovo, da qualche anno, nel panorama della ristorazione, anche se si ammanta d’antico. È la “braceria”. 

Che cos’è una braceria? Il vocabolario Treccani, unico tra i maggiori dizionari ad accogliere la voce – dal 2018, come neologismo – ne dà questa definizione: «Ristorante specializzato nella preparazione di pietanze cotte alla brace». Dunque, braceria da brace, con l’aggiunta del suffisso -eria, come in pizzeria, gelateria, macelleria eccetera.

Tutto chiaro? Fino a un certo punto. Perché se indubbiamente plausibile è il fondamento etimologico, non è detto che sia da premesse etimologiche che la parola nuova abbia preso le mosse. Riesce difficile sfuggire al sospetto che abbia agito l’assonanza con una parola francese, brasserie, che non vuol dire però braceria bensì birreria e non ha niente a che fare con le braci (tutt’al più con il celebre romanzo di Sándor Márai, se il patron ne tiene in sala una copia). 

La brasserie è un popolare ristorante transalpino, semplice ma con qualche pretesa nel décor, insomma un gradino sopra il bistrot, dove è possibile consumare – oltre alla birra originariamente prodotta in loco – frutti di mare, affettati, insalate, crauti (retaggio alsaziano), carne con contorno di pommes frites: preparazioni che o non necessitano di cottura, o si contentano di normali fornelli. Il nome viene dal verbo brasser, fare la birra, che deriva dal latino parlato braciare, a sua volta costruito su un sostantivo latino di origine gallica, braces, ossia malto, che come è noto è l’ingrediente più importante della birra. Un bel ping-pong tra lo Stivale e l’Esagono, in cui però l’ultimo scambio fallisce e manda fuori la pallina.

Se le cose stanno così, possiamo a buon diritto ascrivere brasserie alla dispettosa famiglia linguistica dei “falsi amici”, vocaboli che hanno grafia o suono simili in due lingue diverse, ma significato differente e a volte opposto – come l’inglese brave che non vuol dire bravo ma coraggioso, il francese déjeuner che sta per pranzare e non per digiunare, il tedesco Blatt che non è una blatta ma una foglia, lo spagnolo burro che indica l’asino. Ricondurre “braceria” alla brace sarebbe dunque un classico caso di rietimologizzazione, conseguente all’ingannevole suggestione di un termine straniero quasi omofono. 

Nulla di male, beninteso. Per quanto incidentale, l’etimologia regge e la parola nuova che ne è giustificata denota efficacemente uno specifico esercizio pubblico destinato alla ristorazione. Però, però…

Di norma nella denominazione generica degli esercizi commerciali si fa riferimento a ciò che si serve o si vende, o al limite a chi serve o vende, non a come (con quale strumento) lo si fa: ad esempio, per restare nel campo alimentare, si parla di pizzeria e non di forneria, e analogamente si dice salumeria, macelleria (dal latino macellum, mercato delle carni), gelateria, cioccolateria, caffetteria (dallo spagnolo cafetero, venditore di caffè), vineria, pasticceria, osteria (che spesso si trova antichizzato in hostaria, dal latino hospes, ospite, attraverso il francese oste, ostesse), trattoria (anche qui, dal latino tractare, preparare, mediato dal francese traiter), fino ai più recenti bruschetteria, ravioleria, bisteccheria, hamburgeria, fassoneria (ristorante che serve carni piemontesi di razza fassona) e via neologizzando.

La stessa regola vale al di fuori del campo alimentare (libreria, cartoleria, tabaccheria, gioielleria, fotocopisteria), nonché nei nomi formati con il suffisso -teca (enoteca, paninoteca, biblioteca, emeroteca, da qualche tempo anche vinoteca, che fa più fine di vineria). “Braceria”, con la sua (meno intrigante) gemella “griglieria”, sembrerebbe l’eccezione in cui viene invece messo in primo piano il mezzo, in questo caso il combustibile. 

Perché? Bisognerebbe chiederlo ai diretti interessati, i ristoratori che sono caduti nel trabocchetto dei falsi amici. Parrebbe proprio che siano loro i responsabili del neologismo, o perlomeno della sua diffusione, come si può congetturare dalla lontana attestazione segnalata dalla Treccani. Si trova sulla Stampa dell’8 luglio 1995, siamo andati a cercarla: “il ristorante xy”, si legge, «offre un vantaggiosissimo menù braceria a 30 mila lire con carni per tutti i gusti».

Era una cosiddetta pagina redazionale, ossia con articoli non firmati di carattere pubblicitario, dedicati alla ristorazione nel Savonese e redatti su materiale fornito dai committenti. Negli anni successivi è stato un crescendo, nelle inserzioni sui giornali e negli spot sulle radio locali. C’è nella parola una sorta di magico potere attrattivo, evocativo di sensazioni forti, un senso di antica coinvolgente rusticità, qualche cosa di primitivo e ardente (come la bragia negli occhi di Caron dimonio) che scalda la fantasia.

Potrà non piacere (a me per esempio non piace), ma questo è nulla rispetto alla scelleratezza onomapoietica a cui si lasciano andare osti (della malora!) e affini, quando si tratta di dare un nome al proprio locale. Se è simpatico il ricordo di un ristorante torinese, ora passato di gestione e più volte rinominato, che trovandosi in corso Dante si era ribattezzato RistoDante, o apprezzabile, ai giorni nostri, l’arguzia della catena Poormanger, che gioca espressivamente con l’inglese e il francese (ma anche con il piemontese), che dire del panorama più vasto?

Qui la fantasia (malata) si scatena, tra giochi di parole usurati (chi non si è mai imbattuto in un Bar-lume, anche prima che diventasse il punto di ritrovo dei vecchietti investigatori di Marco Malvaldi?) o temerari (Sans soushì), funambolismi linguistici (Aperificio, Pizzacoteca), calembour allusivi (Zio pane, Zio pagnotta), incontinenze vernacolari (Boia fauss, Cammafà), strizzate d’occhio (Velavevodetto), cervellotiche grafie (Kettepare) e chi più ne ha più ne (o)metta. Se è vero che nomina sunt consequentia rerum, prima di entrare pensateci due volte.

L’affermazione del cibo italiano in Germania è l’ultima conquista del Novecento. VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO su Il Domani il 07 febbraio 2022

Con Dieter Richter, autore di Con gusto, ricostruiamo prima la repulsione dei tedeschi e poi la riscoperta e l'affermazione della cucina italiana.

«Per digerire questa pizza ci vuole lo stomaco di un lazzarone». Non erano teneri i tedeschi e gli altri stranieri in viaggio in Italia verso il cibo italiano. Anzi: erano convinti che il cibo italiano fosse qualcosa di immangiabile. Così, se il Grand Tour in Italia è stato qualcosa che per secoli doveva essere presente nel curriculum di ogni intellettuale europeo che volesse definirsi tale, circostanza che segnava la centralità culturale del nostro paese, lo stesso non può dirsi per il lato gastronomico. Anzi: appena arrivati in Italia la stragrande maggioranza dei visitatori tedeschi cercava la cucina di casa, una osteria tedesca dove liberarsi dal cibo italiano.

È così che comincia la storia di oggi che i Barbari raccontano con il professor Dieter Richter, autore di Con gusto, libro uscito per la casa editrice Wagenbach, un'autentica istituzione per tutti quelli che, tedeschi o italiani, si interessano dei rapporti tra i due paesi. Dieter Richter, inoltre, ha all’attivo molti libri proprio sull’Italia ed è curatore di una mostra che aprirà i battenti a Monaco il prossimo ottobre dedicata al Vesuvio.

Puoi ascoltare il podcast direttamente qui o sui canali social dei Barbari.

STORIA DI UNA DIFFIDENZA

Una storia che comincia, dunque, con una diffidenza verso la cucina italiana. A guidare gli intellettuali tedeschi, e di tutto il Nord Europa, è una sorta di “nazionalismo gastronomico”, come lo chiama Richter: nell’Ottocento la Germania ancora non esiste come realtà politica unitaria e i primi liberali con l’idea di una unificazione nazionale s'incontrano proprio a Roma, nelle osterie dove si mangia tedesco, e forse sono tra i primi a esporre il tricolore tedesco, simbolo di quella unificazione che arriverà solo nel 1871 ma con le guerre di Bismarck ed escludendo l’Austria.

Passa un secolo e nel Novecento le cose cambiano. Richter ci accompagna tra le strade di Brema dove arriva il primo gelataio italiano. Con il suo carretto con i vari gusti era a suo modo un pioniere: convincere i tedeschi che fosse possibile (e non ci fosse nulla di male) mangiare per strada. Era iniziata, anche in Germania, la moda dello street food.

Che sarà inarrestabile con l’arrivo, dopo la Seconda guerra mondiale, dei Gastarbeiter, i lavoratori ospiti. A quel punto l’Italia è sinonimo di buona cucina, di clima mite e di vita tranquilla. Pizza e gelato s’impongono in pochi anni come espressione più tipica del made in Italy. È il fenomeno che Richter chiama la meridionalizzazione del Nord.

Non ne è esente nemmeno il ‘68: presi dal voler contestare le generazioni più anziane, accusate di aver quantomeno taciuto di fronte al Nazionalsocialismo, gli studenti decidono che persino la cucina vada de-nazionalizzata. Mangiare tedesco, in quegli anni, soprattutto a sinistra, è connivenza con il nemico. Sempre la casa editrice Wagenbach, ricorda Richter, pubblica un libro di ricette per le Comuni e le case occupate: gli spaghetti italiani non possono mancare.

Oggi il fenomeno si è in parte interrotto, perché la globalizzazione cambia la prospettiva e ne impone di nuove. Il gelato ad esempio si è internazionalizzato: non è più un fenomeno solo italiano o che deve necessariamente rimandare all’Italia, come aveva pensato l'inventore dello Spaghetti-Eis, che proprio per dare ulteriore italianità al suo gelato, con uno schiacciapatate ricavava da una pallina di vaniglia una sorta di spaghetti su cui versava una salsa di fragole, per dare l’idea di un classico e italianissimo piatto di spaghetti.

Tutto finito? In realtà no: «In Germania l’italiano è una lingua utilizzata moltissimo, il rapporto tra i due paesi è ancora molto, molto forte».

VERONICA CIRILLO E FERNANDO D'ANIELLO.

Veronica Cirillo, classe 1980, giornalista. Ha abitato in molti posti e vissuto in pochi. Ama l'autunno, ma ora vive un'emozionante primavera.

Fernando D'Aniello, nasce a Scafti nel 1982. Da dieci anni vive a Berlino. Annoia i suoi amici straparlando di politica tedesca.

·        Sovranità alimentare.

Marino Niola per “il Venerdì di Repubblica” il 22 novembre 2022.

Oggi l'Italian Food è un mito planetario. Ma non è sempre stato così. A lungo il cibo tricolore è stato considerato un mangiare da poveri, cattivo e insalubre. A dirlo è lo storico Dieter Richter professore all'Università di Brema in Con gusto. 

Il Grand Tour della cucina italiana, un bellissimo libro appena uscito da noi per le Edizioni del Centro di Cultura Amalfitana. Secondo l'autore, fino alla metà del Novecento la nostra è stata considerata una cucina di serie B. E molti piatti che adesso hanno scalato le vette del gusto globale erano ritenuti quasi immangiabili.

A cominciare dai suoi alimenti simbolo. Scrittori del calibro di Alessandro Dumas considerano la pizza una focaccia indigeribile e a rischio di soffocamento. Carlo Collodi la vede come una fonte di infezioni. Non va meglio per gli spaghetti che ai viaggiatori arrivati da tutta Europa e dagli Stati Uniti appaiono un groviglio di "vermi giallo-grigi formato da sabbiosi maccheroni duri come il sasso". Qualcuno arriva a dire che gli italiani riescono a mangiare la pasta grazie a una deformazione della gola, la stessa deformazione che consente loro di cantare così bene. 

Tutti questi stereotipi si rovesciano nel corso del Novecento soprattutto grazie ai nostri migranti che portano negli Usa i loro piatti. E proprio da Oltreoceano parte la riscossa italiana. 

Grazie anche a testimonial eccellenti come Ancel Keys e Margaret Haney, scopritori della dieta mediterranea, che propongono al mondo la nostra gastronomia popolare come garanzia di gusto, di benessere e di sostenibilità. Il resto è storia d'oggi. E a farla sono gli chef, i pizzaioli, i gelatai e i produttori che portano la nostra cucina ai quattro angoli del globo. Facendo del gusto la vera punta di diamante del Made in Italy.

Made in Italy e sovranità alimentare, ma intanto la siccità lascia senz’acqua l’agricoltura. Michelangelo Borrillo e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 21 Novembre 2022.

«C’è bisogno che l’Italia esporti all’estero e per farlo bisogna difendere la qualità dei prodotti italiani dagli altri che cercano di copiarci in malo modo». Con queste parole il ministro Francesco Lollobrigida ha spiegato il motivo per cui il suo dicastero si chiama «dell’Agricoltura e della sovranità alimentare e forestale». I prodotti da esportare però bisogna anche averli.

La siccità riduce il made in Italy

I numeri di alcuni dei principali prodotti del made in Italy – grano, pomodori e olio – dicono il contrario: tutti con il segno meno. Dai dati Istat elaborati dai Consorzi agrari d’Italia, nel 2022, nonostante l’incremento di circa 10 mila ettari coltivati, la produzione di grano duro è diminuita, rispetto all’anno scorso, del 7,4% e quella del grano tenero del 9%. Anche per il pomodoro da industria la Coldiretti stima una produzione di pelati, passate, polpa e concentrato scesa dell’11% rispetto al 2021. E per la campagna olearia, Unaprol stima un calo del 30%. Pure la vendemmia ha avuto un calo di produzione del 10%. Complessivamente le imprese agricole hanno perso 6 miliardi di euro. A causa soprattutto del cambiamento climatico e della siccità, del caro energia e conseguente aumento dei costi dei concimi. Un problema mondiale, quello della carenza di acqua, che per l’Italia ha, però, un peso specifico molto elevato. Nel modello agricolo made in Italy, secondo il Centro studi Divulga, il 42% della produzione ha bisogno di irrigazione perché l’acqua piovana non basta. Un dato che colloca l’Italia nelle prime posizioni in Europa, preceduta solo da Grecia (54%) e Malta (47%).

Il cuneo salino del Po

Il distretto del Po, con i suoi 141 affluenti, genera il 40% del Pil italiano fra produzione agricola, industriale, zootecnica, idroelettrica. Un modello costruito su un’abbondanza d’acqua che da quasi trent’anni non c’è più, però si è continuato a utilizzarne più di quella disponibile. La portata media annua del Po degli ultimi 10 anni è di 1.470 metri cubi al secondo mentre il prelevato, ovvero l’insieme dei diritti di prelievo delle concessioni, è di 1.850, perché quei diritti, che risalgono a decenni fa, non sono mai stati aggiornati. La conseguenza è il cuneo salino: quando la portata del fiume è sotto i 450 metri cubi al secondo, l’acqua del mare risale lungo il corso del fiume, rendendola inutilizzabile per l’irrigazione. A luglio era di 160 e così per la prima volta l’acqua salata è entrata nel Delta per 40 chilometri generando un processo di desertificazione irreversibile su 30.000 ettari di terreno. Compromessi i raccolti di grano, mais, soia, erba medica. A inizio novembre l’ultimo punto di rilevamento a Pontelagoscuro (Ferrara), il livello era di 740 metri cubi al secondo, ben al di sotto delle medie di periodo pari a 1.750.

Gli interventi chiesti dal 2014

Dal 2014 esiste il piano Strategico nazionale per l’adattamento ai mutamenti climatici pubblicato sul sito del ministero dell’Ambiente, con indicate le tappe per mitigare i danni della siccità: 1) costruire invasi per trattenere l’acqua piovana da utilizzare quando serve; 2) riprogettare i canali di irrigazione, che sono ancora quelli scavati nella terra e con enormi dispersioni; 3) investimenti tecnologici in sistemi di irrigazione intelligente; 4) riprogrammare le coltivazioni in base alle risorse idriche disponibili. Partiamo dagli invasi, cruciali per la raccolta dell’acqua piovana: a livello Paese siamo in grado di trattenere solo il 10%; in Spagna, con un clima più arido del nostro, la percentuale sale al 50%. Coldiretti ha stimato che occorrerebbero 10 mila bacini di accumulo: mille laghetti in montagna e alta collina da realizzare con i fondi del Pnrr; 6 mila piccoli invasi aziendali da realizzare con i Fondi dello Sviluppo rurale, e 3000 di dimensioni più grandi con le risorse europee del Fondo di sviluppo e coesione.

Cosa si sta facendo?

Il piano contro la crisi idrica di Roberto Cingolani prevedeva 4,3 miliardi complessivi del Pnrr così distribuiti: 600 milioni in capo al Mite (oggi ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica) per la depurazione delle acque, 880 milioni per il sistema irriguo in capo al Mipaaf (oggi ministero dell’Agricoltura e sovranità alimentare), 900 milioni per ridurre le perdite delle reti più 2 miliardi in infrastrutture idriche in capo al Mims (oggi ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti). I bandi per ridurre le perdite sono già partiti con il vecchio governo: la prima fase si è chiusa con l’assegnazione di risorse per 607 milioni, per la seconda da 293 milioni si attende la graduatoria finale delle proposte di interventi al ministero, ora guidato da Matteo Salvini. Per i 2 miliardi da investire in infrastrutture idriche, solo 350 milioni sono destinati a 20 grandi bacini. Troppo pochi, e comunque non c’è ancora nessun progetto. Eppure quanto sia urgente la neo premier Giorgia Meloni lo sa molto bene: a luglio scorso, con l’agricoltura in ginocchio per mancanza d’acqua e temperature record, ha accusato pesantemente il governo in carica per non aver costruito invasi.

Dighe senza manutenzione

Nulla si muove anche sui vecchi invasi, a partire dalla diga del Pappadai (vicino a Taranto), opera idraulica abbandonata e mai utilizzata. Il presidente della Commissione Bilancio e programmazione della Regione Puglia Fabiano Amati ha fatto il conto di quanti litri d’acqua sono andati persi nell’ultimo triennio dalle dighe nel Mezzogiorno. Si è dovuto aprirle per riportare l’acqua al di sotto del massimo invaso autorizzato. Causa: la mancata manutenzione. Sono usciti 166 miliardi di litri (51 dalla diga di Conza, 48 da quella del Pertusillo, 67 dalla diga di Monte Cutugno) e finiti in mare perché non ci sono impianti di raccolta lungo i fiumi. Il fatto grottesco è che i soldi per la manutenzione ci sono ma non viene fatta per motivi burocratici. Sul territorio nazionale le grandi dighe che hanno bisogno di essere sistemate sono un centinaio, tutte con un’età media di 60 anni.

Irrigazione intelligente

Intanto l’acqua che c’è non va dispersa. Secondo lo studio dei Consorzi agrari d’Italia con l’irrigazione goccia a goccia si possono raggiungere livelli di efficienza del 50%, sia in termini di risparmio idrico che energetico. Le produzioni più idroesigenti sono quelle di frutta e ortaggi. Non lo è il mais, ma se invece di fare un raccolto l’anno per il cibo da dare agli animali se ne fanno tre per fare biomassa (perché è più redditizio), allora il consumo d’acqua diventa enorme. Questo avviene nella Pianura Padana, dove gran parte dell’acqua utilizzata dagli irrigatori a pioggia che scorrono sui campi anche nelle ore più calde del giorno, evapora. In base ai dati delle sperimentazioni di Consorzi Agrari d’Italia e Ibf Servizi emerge che con l’agricoltura di precisione per ogni ettaro di mais è possibile ottenere in media un risparmio idrico annuo del 10% con 360 m3 di acqua in meno. I consumi si riducono del 12% per gli ortaggi, con 600 m3 in meno per ettaro. Si arriva al 15% per i frutteti (risparmio di 630 m3/ettaro) e al 20% per le coltivazioni come la barbabietola (840 m3/ha in meno). Un beneficio per l’ambiente e costi inferiori per le aziende agricole tra acqua risparmiata e quantità ridotte di gasolio utilizzato per il pompaggio.

Adattamento delle colture

Cruciale infine programmare le coltivazioni in base alle risorse idriche disponibili, che significa selezionare le specie vegetali che richiedono poca acqua e promozione di incentivi per l’adozione di pratiche agricole più sostenibili. Ma bisogna pianificare ora, perché in assenza di acqua i nostri paesaggi cambieranno: nelle zone a nord del Po le coltivazioni di mais o soia verranno gradualmente sostituite da girasole e sorgo. Anche al Sud, in assenza di interventi strutturali e migliori tecniche di irrigazione, si rischia di perdere coltivazioni tradizionali orticole a partire da pomodoro, patate e ortaggi che richiedono importanti quantità di acqua. Dopo aver fatto tutto questo, si potrà pensare alla sovranità alimentare. Ma solo dopo.

La giusta Sovranità Alimentare contro i plagi nel mondo. Vincenzo Caccioppoli il 28 Ottobre 2022 su Panorama.

Pemesan, Prosek, il mondo ci invidia e soprattutto ci copia portandoci via enormi fette di mercato che dobbiamo difendere, anche con le parole 

Ha fatto molto discutere la scelta del nuovo governo di rinominare il ministero dell’agricoltura in ministero della sovranità alimentare. Nome molto evocativo e di gran moda per chi da sempre accusa Fratelli d’Italia di sovranismo e populismo. Eppure, al contrario di quello che si pensa, il termine sovranità alimentare ha poco a che fare con autarchia e sovranismo. Nella definizione originaria coniata nel 1996, proprio a Roma da Via Campesina, organismo internazionale che raggruppa 182 entità in 81 paesi, si parla certamente di privilegiare le tradizioni e le economie locali, ma per un migliore e più sostenibile sfruttamento delle risorse a disposizione, e non a caso è proprio lo stesso concetto su cui si basa l’attività di un'organizzazione come Slow Food, certo non tacciabile di sovranismo, nè populismo (e nemmeno di simpatie di destra). Ma, detto ciò, sicuramente il nuovo ministero guidato da Francesco Lollobrigida, cercherà di tutelare il made in Italy nell’agroalimentare, che continua a rimanere un settore vitale della nostra economia e che con i suoi 538 miliardi di euro di fatturato, rappresenta circa il 25 % del nostro Pil.

E soprattutto, ricordando le campali battaglie che il suo partito Fratelli d’Italia insieme alla Lega ha fatto in questi anni in Europa, dovrà tutelare i nostri prodotti di eccellenza dal cosiddetto e sempre più diffuso fenomeno di italian sounding. Prosek, parmesan, zottarella, salsa di Pomarola, non sono refusi, ma nomi alimentari usati all’estero per ingannare il consumatore sui prodotti tipici del made in Italy, conosciuti ed apprezzati in tutto il mondo. Secondo un recente report dello studio Ambrosetti, il fenomeno riguarderebbe il 97% dei sughi per pasta, il 94% delle conserve sott’olio e sotto aceto, il 76% dei pomodori in scatola e il 15% dei formaggi venduti nel mondo come prodotti italiani, soprattutto nel circuito della grande distribuzione, a un prezzo inferiore rispetto al valore medio delle specialità autentiche. Tutto questo, sempre secondo lo studio Ambrosetti comporterebbe un danno per l’export del nostro agroalimentare pari ad una cifra compresa tra gli 80 ai 100 miliardi di euro all’anno. L’Italian Sounding risulta più marcato in Giappone, con una quota di prodotti non autentici italiani pari al 70,9%, in Brasile con una quota pari al 70,5%, e in Germania, con una quota del 67,9%. Guardando al cluster dei prodotti, l’Italian Sounding è più diffuso nel ragù, con una quota di prodotti non provenienti dall’Italia pari al 61,4%, nel parmigiano, con una quota del 61,0%, e nell’aceto balsamico (60,5%). Tutto ciò in un contesto che, guardando gli ultimi dati dell’Ismea, parla comunque di un export agroalimentare in ottima salute, considerando che nel 2021 ha realizzato un record con oltre 52 miliardi di euro di prodotti, e nei primi sette mesi del 2022 ha già realizzato un +17,5%, con Germania, Usa e Francia come principali paesi di destinazione.

Ma questi dati non devono ingannare perché si riferiscono al boom registrato post covid, e che come fa notare il responsabile economico della Coldiretti a Panorama, sono fuorvianti, perché si riferiscono a raccolti dei mesi precedenti, mentre la situazione attuale parla di un settore in grande crisi, non solo per rincari energetici e per i problemi legati alla guerra: “La filiera agroalimentare italiana, dalla produzione agricola all’industria di trasformazione, sino alla distribuzione, si sta fermando a causa dell’aumento dei costi dei prodotti energetici e delle materie prime, con delle ripercussioni economiche e sociali facili da immaginare”. La realtà è quella che parla di un terzo di aziende agroalimentari ( 34%) che lavorano attualmente in perdita e di un 13% a forte rischio chiusura. Ecco allora che un piano di grande attenzione al settore, che magari cerchi anche di arginare gli effetti non certo positivi di alcune decisioni da parte della Ue, che sembrano favorire produttori extraeuropei rispetto a quelli comunitari, come la questione degli accordi con commerciali con alcuni paesi extra ue ( come la Cambogia e il Vietnam per il riso o il Canada per il grano) o la decisione di riduzione drastica dell’utilizzo di fitofarmaci in agricoltura che potrebbe, come denunciato di recente dal presidente Coldiretti Prandini, far crollare la produzione di cibo in Italia al -30%., o ancora la regola che prevede l’obbligo di rotazione dei terreni coltivabili, che priva il nostro paese del 10% dell'intera superficie coltivabile ( che nel nostro paese è di 12.598.161 ha) ogni anno. Senza contare gli effetti del cambiamento climatico, che secondo i dati di Bankitalia, hanno provocato danni in agricoltura che superano già i 6 miliardi di euro dall’inizio dell’anno, pari al 10% della produzione nazionale. E’ quasi naturale che il nuovo ministro espressione di un partito come Fratelli d’Italia, non potrà non occuparsi del famigerato sistema di etichettatura del Nutriscore, che Francia e Germania dovrebbero rendere obbligatorio in tutta Europa, ma che penalizza fortemente i prodotti tipici del made in Italy. In nome della sovranità alimentare il nostro paese può perciò fortemente opporsi a tutto quello che può ledere gli interessi dell’agroalimentare e delle eccellenze italiane: “Non è inedito ce l'hanno anche in Francia e sono quelli che hanno difeso meglio i loro prodotti; quindi, riteniamo sia completamente in linea con la vocazione che avremo anche noi, difendere i nostri prodotti". ha detto Lollobrigida, in una delle sue prime uscite da neoministro. Tre settimane fa, sempre Lollobrigida, in visita al Villaggio Coldiretti a Milano, aveva detto, forse preannunciando la futura nomina: "Il made in Italy è la vetrina dei prodotti migliori che abbiamo nella nostra Nazione e che dobbiamo difendere. In questi anni, purtroppo, non abbiamo avuto condizioni di favore".

La sovranità alimentare è di destra o di sinistra? Ecco come nacque l’idea: era il 1996. Alessandro Trocino su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

La locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il neonato Wto: l’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. 

Chi frequenta Twitter è rimasto sopraffatto in questi giorni dalla consueta ondata di ironia monotematica, questa volta riservata al nuovo ministero della Sovranità alimentare. Tutti a postare carbonare e minestroni e vantarsi della loro propensione alla sovranità. Tutti ad additare il neogoverno Meloni, accusandolo di revanscismo sovranista e destrorso. Poi è arrivato Carlìn Petrini e ha dato il contrordine a nome di Slow Food: compagni, smettetela, la sovranità alimentare è di sinistra. Stupore, sconcerto, diffidenza. Ma come? Ancora ieri Chicco Testa si ritraeva con una manciata di funghi in mano e rivendicava ironicamente la sovranità alimentare. Qualche avvisaglia c’era.

Anche i francesi hanno dato lo stesso nome a un ministero: Souveraineté alimentaire. Certo, dalle parti di Macron non sono estremisti di sinistra, ma neanche post-fascisti, come i francesi amano definire Fratelli d’Italia. E allora? Allora si scopre che questa locuzione è stata usata per la prima volta nel 1996 al summit mondiale per l’alimentazione da Via Campesina, che riunisce 182 organizzazioni di contadini di 81 Paesi, per contestare il Wto, appena nato. L’idea era quella di proporre un’alternativa alla liberalizzazione del commercio agricolo e all’industrializzazione dell’agricoltura e dell’alimentazione. Quello contro cui si combatte è la mondializzazione (o globalizzazione) delle politiche agricole. Il modello contestato è quello degli scambi internazionali che grazie all’economia di scala riducono i costi ma tolgono sovranità e soldi ai contadini e alle organizzazioni locali, per favorire le multinazionali agroalimentari. C’è anche una definizione specifica data da Via Campesina della sovranità alimentare: «Il diritto delle persone a produrre in maniera autonoma alimenti sani, nutrienti, adatti al clima e alla cultura, utilizzando risorse locale e con strumenti ecologici, principalmente per rispondere ai bisogni alimentari locali e delle loro comunità».

Riassumendo. Sovranità non è sovranismo (come spiegava l’altro giorno il professor Roberto Vecchioni da Fabio Fazio: in soldoni, sovranità è avere il controllo di noi stessi, sovranismo è fregarsene degli altri). Sovranità non è autarchia. Non è sì all’amatriciana, no al cous cous. Non è questa la questione che sollecita l’uso di questa locuzione. Dunque, sovranità alimentare non è una nozione di destra. È un termine che si oppone ai monopoli e allo sfruttamento delle multinazionali, alla globalizzazione selvaggia delle filiere e allo sfruttamento intenso dell’ambiente. Perfetto. Ma se è così, che ci fa in un ministero di destra, retto dal fratello d’Italia Francesco Lollobrigida?

Il fatto è che le parole spesso sono ambigue. È «una fregatura lessicale», sintetizza Alice Fanti, della onlus bolognese Cefa. Evidentemente alla destra è piaciuta la parola sovranità, che infatti ha richiamato in molti lettori il sovranismo. Ed evidentemente c’è una quota di battaglie di destra che possono rientrare agevolmente in questo concetto. Quella contro il nutriscore, per esempio, che coincide con la difesa del made in Italy (fa ridere che si debba usare l’inglese per difendere i prodotti italiani ma è il nome ufficiale del ministero di Adolfo Urso). Il sistema di etichettatura a semaforo privilegia i prodotti in base a livelli di zuccheri, grassi, sale e qualità salutari. Ne escono male, per esempio, olio, parmigiano reggiano e vino. Poi c’è la lotta all’«italian sound». Per capirsi, quando vendono un «parmesan» che non ha niente a che fare con il nostro parmigiano dop. È una battaglia di destra? No. Come non lo è quella per il chilometro zero, che in origine sosteneva Petrini (poi si è pentito). Lo diventa se un’idea di buon senso, privilegiare il pomodoro sotto casa rispetto a quello fatto in Cina (peggiore, in termine di qualità e di inquinamento prodotto per farlo arrivare qui) diventa una battaglia autarchica e ariana a favore dei nostri prodotti locali contro il sushi invasore.

Il Messaggero ricordava che sulla nostra tavola, attraverso la grande distribuzione, arrivano solo sei varietà di mela, tutte straniere, e nessuna delle nostre 200 varietà autoctone. Proibire le mele straniere sarebbe di destra. Favorire il commercio locale e la biodiversità, invece, sarebbero battaglie di sinistra. Altra declinazione della sovranità alimentare: gli alimenti sintetici. La bistecca in 3D potrebbe essere utile per arricchire le diete povere, grazie al basso costo. Ma rischia di danneggiare seriamente gli allevamenti locali. La destra, semplificando, si schiera a difesa totale degli allevamenti, a prescindere dall’enorme inquinamento ambientale e dell’attenzione alla sostenibilità. Servirebbe un equilibrio, tra la difesa dell’allevamento tradizionale e l’affiancamento con nuove forme di alimentazione. Lo stesso vale per l’uso alimentare degli insetti. La destra (Matteo Salvini in primis) ne fa una battaglia molto spettacolare, come avevamo raccontato in questo pezzo, dove si lanciava l’allarme sulla «decostruzione della sacralità del cibo». In generale, la destra è per la difesa delle tradizioni, non solo agricole, ma anche e soprattutto alimentari (che poi diventa difesa di categoria e protezionista). Ma attenzione: anche certa sinistra, a partire da Slow Food, lo è.

Il corto circuito dunque c’è: destra e sinistra, su alcuni temi, si sovrappongono. E la sinistra nostalgica rischia di fare il giro e diventare reazionaria. Certi concetti, come la sovranità alimentare, possono essere di sinistra o di destra, a seconda di come vengono declinati. Insomma, cosa si nasconda davvero dietro la scelta lessicale del governo Meloni, se sia una locuzione filologicamente corretta o se sia una «fregatura», lo scopriremo nei prossimi mesi, quando le parole diventeranno fatti. E si capirà se sotto la parola «sovranità» si nascondeva «sovranismo». O, come scrive su Huffington Post Michele Mezza, se dietro c’è la «mucca Carolina», ovvero «l’emblema delle rivolte della lobby degli allevatori che pretendevano di non pagare la multe che l’Unione europea aveva comminato per le truffe perpetrate dopo aver incassato copiosi finanziamenti per limitare la produzione». 

Sovranità alimentare. Storia e geografia di un concetto. Daniela Guaiti su L'Inkiesta il 24 Ottobre 2022.

L’abbiamo letto e ci siamo scandalizzati. Il nuovo Ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare porta nel nome anni di contrasto alla fame e alla globalizzazione e rimanda ai movimenti per il diritto all’autodeterminazione alimentare. Chissà se avevano in mente questo, quando hanno cambiato nome

L’agricoltura è da sempre considerata un settore strategico dell’economia. E per “da sempre” intendiamo dai tempi dell’antica Roma. E nella storia più recente l’intervento degli stati ha sostenuto e incoraggiato la produzione agricola per garantire alla popolazione l’autosufficienza alimentare: qualunque cosa succeda, guerre, catastrofi naturali, epidemie, il cibo non deve mancare.

La crescita della popolazione mondiale, l’acuirsi del problema della fame nel mondo e gli squilibri nella distribuzione delle risorse alimentari hanno generato la necessità di un intervento globale attraverso le organizzazioni internazionali.

Il primo passo: contro la fame a livello globale

La Convenzione Internazionale per i Diritti Economici, Sociali e Culturali riconosce ad ogni individuo il diritto fondamentale di essere libero dalla fame. In occasione della Giornata Mondiale dell’Alimentazione, il 16 ottobre 2003, la Fao ha raccolto nella pubblicazione “Lavorare insieme per un’alleanza contro la fame” una serie di obiettivi e di raccomandazioni alle singole nazioni: gli stati devono rispettare, proteggere e garantire il diritto dei loro cittadini ad alimentarsi a sufficienza e devono intervenire se questi non saranno in grado, per motivi al di fuori del loro controllo, di provvedere a se stessi.

Oggi – scrivevano – il mondo produce cibo a sufficienza per nutrire i suoi abitanti e dispone delle conoscenze tecniche per migliorare l’alimentazione e aumentare l’accesso al cibo e tuttavia troppo pochi Paesi hanno fatto abbastanza per combattere la fame. A distanza di quasi vent’anni la situazione non è cambiata di molto, e gli ideali di cooperazione e di azione sono stati troppo spesso disattesi. Ancora la quantità di cibo in molte regioni del mondo è insufficiente, e spesso la globalizzazione ha portato a un peggioramento delle condizioni nelle aree più povere della terra.

È proprio il mercato globale dei prodotti agricoli a provocare danni pesanti alle coltivazioni di tradizione locale dei territori più poveri, portando a una sistematica sostituzione delle colture più antiche e a un’imposizione di sistemi e politiche agricole estranee al territorio e alle capacità organizzative delle aziende locali. È in questo contesto che fa per la prima volta la sua comparsa il concetto di Sovranità alimentare.

Il passo successivo: la tutela del patrimonio agricolo

«Il diritto dei popoli e degli Stati sovrani a determinare democraticamente le proprie politiche agricole e alimentari». Questa la definizione di sovranità alimentare dettata nel 2008 dall’International Assessment of Agricultural Science and Technology for Development (Iaastd) con il patrocinio delle Nazioni Unite e della Banca Mondiale. Il concetto è stato introdotto in realtà già nel 1996 dal movimento contadino internazionale Via Campesina, e riaffermato nel World Food Summit di Roma.

Ancora, nel 2007 in Mali il Forum Internazionale sulla sovranità alimentare affermò «il diritto dei popoli ad alimenti nutritivi e culturalmente adeguati, accessibili, prodotti in forma sostenibile ed ecologica, ed anche il diritto di poter decidere il proprio sistema alimentare e produttivo». Al diritto ad alimentarsi si affiancano quindi principi come la biodiversità, la qualità, la possibilità di gestire direttamente le risorse del territorio senza interferenze da chi detiene tecnologie e risorse finanziarie superiori. Alla filosofia della sovranità alimentare fanno riferimento elementi culturali e sociali, e la volontà dei diversi popoli di affrancarsi dai condizionamenti dettati dagli interessi delle multinazionali del settore.

Si sceglie così di valorizzare e proteggere le sementi e le varietà locali, tutelando diversità che andrebbero altrimenti perdute. Si sceglie di dare spazio alle conoscenze e alle metodiche di lavorazione consolidate nel tempo e che rischiano di finire dimenticate, soffocate dall’uniformità imposta dalla globalizzazione, senza tenere conto delle necessità delle singole realtà geografiche.

Un concetto quanto mai attuale

La sovranità alimentare è un concetto oggi riscoperto e rivalutato, come dimostra la scelta del governo francese di utilizzare il nome Ministère de l’Agriculture et de la Souveraineté alimentaire. E come dimostra la scelta fatta oggi dal nuovo governo italiano. Del resto già da tempo molte comunità nel mondo seguono questa filosofia, a partire dall’attivismo in questo senso dei nativi americani, per arrivare a quegli stati che, come l’Ecuador, il Mali, la Bolivia, il Venezuela, il Senegal e l’Egitto, hanno inserito il concetto di sovranità alimentare nelle proprie costituzioni e nelle proprie leggi.

E in Italia Slow Food mette in evidenza per bocca della presidente Barbara Nappini come quello di sovranità alimentare non sia un concetto «sinonimo di autarchia: è il diritto dei popoli a determinare le proprie politiche alimentari senza costrizioni esterne legate a interessi privati e specifici. È un concetto ampio e complesso che sancisce l’importanza della connessione tra territori, comunità e cibo, e pone la questione dell’uso delle risorse in un’ottica di bene comune, in antitesi a un utilizzo scellerato per il profitto di alcuni».

 La scienza della nutrizione è in mano alle multinazionali del cibo. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 23 ottobre 2022. 

Ogni volta che accendiamo la TV, sfogliamo una pagina di una rivista o guardiamo un volantino al supermercato, siamo costantemente bombardati da consigli nutrizionali del tipo “I prodotti a base di mandorle possono aumentare la tua memoria”, “Il latte aiuta a costruire le ossa”, “I cereali fanno parte di una colazione equilibrata approvata dal medico per ragazzi in fase di crescita”. Parole come “superfood” e “senza additivi” ci convincono che stiamo facendo la scelta giusta quando prendiamo un articolo dallo scaffale e ci dirigiamo verso la cassa. Ma è davvero così?

Tutti di norma confidiamo sulla scienza della nutrizione per guidarci attraverso le scelte e aiutarci a prendere le decisioni migliori per la nostra salute. Sembra che sia un approccio corretto, eccetto il fatto che spesso non è vero. Molti di questi studi su cui confidiamo per prendere decisioni alimentari non sono indipendenti, bensì finanziati da grosse aziende alimentari che cercano di promuovere i propri prodotti. È quello che ci rivela da molti anni la celebre esperta americana di cibo, la nutrizionista e sociologa Marion Nestle. 

La celebre scrittrice americana ci rivela nel libro come la maggior parte delle società scientifiche, e degli esperti facente parte dei dipartimenti del governo incaricati di redigere le linee guida sulla nutrizione, sono in realtà nei libri paga dell’industria alimentare. Che si tratti di uno studio che afferma che l’esercizio fisico moderato è sufficiente per annullare le calorie nelle bibite zuccherate (sostenuto dalla Coca-Cola) o di uno su come i mirtilli possono ridurre il rischio di disfunzione erettile (sostenuto dall’Highbush Blueberry Council degli Stati Uniti), l’industria alimentare ha imparato come trasformare le indagini scientifiche di parte e molto selettive in un grande profitto. Come Big Pharma ha corrotto la scienza medica, così Big Food ha corrotto la scienza della nutrizione. In una nazione in cui più di due terzi degli adulti e un terzo dei bambini sono considerati in sovrappeso o obesi, non è mai stato così importante mettere la nostra salute pubblica al primo posto. 

Un altro libro della stessa autrice (Soda Politics, 2015), aveva analizzato in dettaglio le politiche adottate dalle multinazionali dei soft drink (in primis Coca-Cola e Pepsi) per promuovere le bevande a base di acqua e zucchero. In Unsavory Truth, Nestle fa un’analisi di come il mondo istituzionale della nutrizione (Università, dipartimenti governativi e la ricerca in genere), sia condizionato non solo da parte di aziende che vendono alimenti spazzatura ricchi di zuccheri aggiunti, grassi e sale, ma anche da produttori di uova, latte, yogurt, noci e altri alimenti più o meno sani.

L’autrice del libro affronta insomma il tema del conflitto di interesse nel mondo della Medicina e della Nutrizione e illustra come da un punto di vista psicologico molti ricercatori e medici non avvertono alcun problema o imbarazzo nel ricevere regali, rimborsi o favori da parte delle aziende produttrici di alimenti o farmaci, in quanto questo modo di agire viene percepito come naturale e non influente sui comportamenti dei ricercatori stessi. Chi riceve un regalo dall’industria, o un “rimborso” in denaro, ritiene che i regali o rimborsi non abbiano influenza sull’esito delle ricerche scientifiche e della elaborazione dei dati. Il libro descrive come importanti riviste scientifiche (dal New England Journal of Medicine al British Medical Journal), le Università e le organizzazioni internazionali (OMS) hanno deciso in realtà di affrontare il problema del conflitto di interessi in quanto fattore determinante per una corretta ricerca medico-scientifica. 

La situazione in Italia 

Nel nostro Paese avvengono le stesse dinamiche di condizionamento e intromissione da parte delle multinazionali alimentari, proprio come negli USA. E il fenomeno dei conflitti d’interesse nell’ambito della ricerca non viene ancora riconosciuto e affrontato come tale, se non nel mero ambito della cosiddetta “ricerca in campo sanitario”. Ciò significa che in Italia gli unici ricercatori o conferenzieri che hanno l’obbligo di dichiarare eventuali conflitti di interesse o finanziamenti da parte dell’industria sono quelli che ricevono soldi dalle aziende farmaceutiche, ma non quelli che li ricevono dalle multinazionali alimentari. 

Ovviamente Heineken, Coca-Cola e Ferrero non hanno “interessi commerciali in campo sanitario” e quindi un relatore a un convegno di medicina (in cui si parla di diabete, obesità, malattie cardiovascolari) può benissimo essere sponsorizzato da queste aziende e dichiarare che “la birra fa bene al cuore e le bevande zuccherate non causano l’obesità” e nel contempo firmare una documento da cui risulta l’assenza di conflitto di interesse. In Italia l’attenzione viene focalizzata ancora solo sui “portatori di interessi commerciali in campo sanitario”.

Prendiamo per esempio le raccomandazioni alla popolazione che vengono date in Italia dai comitati ministeriali di studiosi esperti sulla nutrizione riguardo l’assunzione dello zucchero. I cosiddetti LARN (Livelli di Assunzione di Riferimento di Nutrienti) che vengono emessi periodicamente da questi esperti, fissano una soglia del 15% di zuccheri semplici (aggiunti + naturali) sulle calorie totali, con un invito a non superare il 25% delle calorie totali giornaliere provenienti dagli zuccheri. Si tratta di valori di riferimento molto diversi da quelli raccomandati dall’OMS per esempio, che invita a restare sotto il 10% e idealmente arrivare solo al 5% delle calorie totali da zuccheri. Questa maggiore elasticità autorizza gli italiani a introdurre molto più zucchero nella dieta di quella che probabilmente è la soglia di sicurezza per evitare problemi di salute.

Che ci sia stata l’influenza di qualche industria alimentare? Non ci è dato sapere, poiché non era richiesto agli esperti dei LARN di dichiarare eventuali conflitti di interessi. A livello internazionale sia l’OMS che altri comitati di esperti di nazioni con problemi di obesità e diabete, stanno elaborando delle politiche di tassazione sui cibi e bevande contenenti zucchero aggiunto. Anche in questo caso l’Italia va in controtendenza. Per esempio in Italia la Associazione italiana di Dietetica e Nutrizione clinica organizza ogni anno i convegni chiamati Obesity Day, ma tra gli sponsor compaiono aziende produttrici di zucchero come Eridania e Novo Nordisk, quest’ultima una azienda farmaceutica che produce farmaci e apparecchiature per il monitoraggio del diabete, quindi una azienda che come business ha quello di vendere farmaci per il diabete, non di fare prevenzione sul diabete. 

Appare evidente, in conclusione, come la forte promiscuità tra aziende produttrici e ricerca medico-nutrizionale sia ancora oggi un grande ostacolo verso il cammino di una scienza libera e indipendente e verso una seria politica degli Stati di reale prevenzione e riduzione di molte malattie croniche e di molti problemi di sanità pubblica. Fare informazione a riguardo, è già un primo passo per far maturare una maggiore consapevolezza sulle aree che in futuro occorre bonificare e risanare. [di Gianpaolo Usai]

·        Mangiare non italiano.

Suggestioni nipponiche. Giappone, la complessità dell’essenziale. Chiara Di Paola su L'Inchiesta il 29 Agosto 2022.

Il fascino della cucina giapponese ha conquistato la scena culinaria europea. Merito dell’equilibrio e del rigore in ogni singolo piatto, della cura maniacale per i dettagli, della ricercatezza delle preparazioni

Non è solo una questione di “moda”: se il fascino dell’Oriente è sempre più protagonista della scena culinaria Europea, il merito è del senso di equilibrio e rigore ravvisabile in tutti gli aspetti della ristorazione nipponica, della cura dei dettagli che emerge nonostante il minimalismo zen dei piatti e della complessità delle preparazioni utilizzate per far emergere l’essenziale di gusti, colori e forme.

All’apparenza niente di più distante dall’abbondanza impulsiva e “sentimentale” della cucina mediterranea, che tuttavia ne rimasta conquistata… Scopriamo perché.

Un po’ di storia

La cucina giapponese (washoku) è una tra le più variegate e ricche al mondo, tanto da aver ottenuto dall’Unesco il riconoscimento di patrimonio dell’Umanità nel 2013. Il suo primo incontro con il mondo occidentale risale al 1500, quando una delegazione di feudatari giapponesi convertiti dai Gesuiti fece visita a Papa Gregorio XIII.

Da allora, perché il sushi conquistasse l’Ovest si dovettero aspettare quasi altri 500 anni, secondo gli storici almeno fino a quando il principe Akihito offrì questo tipo di preparazione ad alcuni ufficiali americani durante un ricevimento all’ambasciata giapponese a Washington nel 1953.

In Italia il pioniere del sushi è stato Minoru Hirazawa (detto Shiro), che nel 1972 ha aperto il ristorante Poporoya a Roma (bissando l’esperienza a Milano nel 1977) e che, per avere a portata di mano la migliore materia prima, ha selezionato una coltura di riso nipponico adatta alle risaie di Vercelli, avviandone una coltivazione italiana, insieme a quella di tofu e miso.

Dagli anni Ottanta, infine, c’è stato il vero e proprio boom della cucina nipponica in Europa e negli Stati Uniti, aree geografiche che, per ragioni diverse, hanno una cultura gastronomica apparentemente agli antipodi rispetto a quella del Sol Levante. Eppure la convivenza funziona…

Rituali Zen in cucina, tra gusto e spiritualità

Nelle sue diverse tipologie (che non contemplano solo il sushi), la cucina giapponese è profondamente diversa da quella occidentale (fine dining a parte), non solo per la particolarità di alcuni sapori, ma soprattutto per la concezione stessa del cibo e della sua preparazione.

Se per gli occidentali la cucina è, prima di tutto, piacere sensoriale e, in particolare, appagamento del gusto; per i giapponesi invece ogni gesto, lento e accurato, si trasforma in un rituale che rimanda all’orizzonte spirituale Zen e alla filosofia buddhista shojin ryori, secondo la quale il cibo deve essere un mezzo di crescita, illuminazione interiore e armonizzazione con la natura.

Per questo nulla va sprecato e tutto deve essere in equilibrio, in giusta misura, esaltato nella sua nettezza di sapori, colori e forme, complementari e bilanciati all’interno di ogni piatto.

Che sapore ha la bellezza?

Il valore della perfezione estetica e del rigore formale che permea la cultura nipponica (dalla calligrafia al modo di impacchettare i doni o tsutsumi), è fondamentale anche nella cucina e nello svolgersi del pasto tradizionale (kaiseki): un’esperienza multisensoriale che coinvolge innanzitutto la vista.

La bellezza del piatto è una componente della sua bontà e va costruita attraverso la cura della presentazione e l’osservanza di una sobrietà in cui tutto, persino la distribuzione fra pieni e vuoti, deve essere in perfetta armonia (wa), senza decorazioni bizzarre o accostamenti stravaganti che corrompono la naturalità degli ingredienti e confondono il palato.

Questa ricerca estetica non si limita alle singole portate, ma si compone come un mosaico nel corso del pasto, con il cibo servito in piccole porzioni, all’interno di ciotoline colorate, piccoli piatti di forme diverse e contenitori particolari che, nel loro susseguirsi o accostarsi gli uni agli altri sulla tavola creano un senso di ritmo, movimento e stimolazione sensoriale continua.

La complessità dell’essenziale

Pochi ingredienti, quasi totalmente in purezza, cotture minime o del tutto assenti, impiattamento pulito ed essenziale. Facile no? E invece non c’è nulla di più laborioso. Tutto in una cucina giapponese è preparato meticolosamente e assemblato con una precisione estrema che richiede un’incredibile abilità manuale e un addestramento rigoroso.

Anche dietro al piatto di sushi apparentemente più semplice c’è la storia dell’itamae (“il signore davanti al tagliere”), che prima di diventare “artigiano del sushi” deve seguire un percorso di studi e pratica di minimo due anni, per imparare a tagliare il pesce in maniera chirurgica e apprendere i trucchi del mestiere (come quello di “massaggiare” il polpo prima di servirlo).

Se poi vuole maneggiare il velenosissimo fugu (il pesce palla con cui si prepara un prelibato sashimi, ma è vietato quasi ovunque in Europa) serve anche una speciale licenza.

Con il tempo ogni itamae sviluppa una gestualità specifica e un proprio stile personale, tanto che nei ristoranti del Giappone i veri intenditori di sushi scelgono non solo le portate dal menù, ma anche l’itamae a cui affidarne la preparazione.

Il fascino di mangiare in un’oasi (dentro e fuori dalla città)

Se non ci si accontenta del take away si può godere dell’atmosfera suggestiva che rende davvero unica l’esperienza di un pasto nipponico e consente di immergersi in un angolo di Oriente senza cambiare fuso orario.

Entrare in un ristorante giapponese (indipendentemente dal fatto che la cucina sia più o meno contaminata nelle tecniche e negli ingredienti, e talvolta rivisitata in modo creativo) significa lasciarsi catturare dal fascino di una dimensione fluttuante al di sopra della frenesia cittadina, in cui lo stile moderno e minimalista dell’arredamento si combina con la presenza di elementi che evocano il contatto la natura (pietra, legno, bambù, resine, cristalli, acqua e piante).

Il piacere visivo diventa anche tattile grazie alla possibilità di maneggiare ciotole, bacchette e stoviglie particolari e, talvolta, di sedere sui tradizionali tatami. Talvolta capita persino di ritrovarsi in un giardino zen con ciottoli, piante, stagni e fontane, all’interno di oasi d’Oriente che possono trovarsi ovunque, anche nel cuore di grandi metropoli come la capitale italiana del sushi: Milano.

Qui tra le mete più rinomate tra i “sushi addicted” in cerca di un ambiente affascinante ci sono Aalto, Iyo, Osaka, Ronin, Nishiki, Zen Sushi, Sakura, Wicky’s Innovative Japanese Cuisine. Ma non sono da sottovalutare neppure le location più defilate dell’hinterland, avvantaggiate da spazi più ampi, luminosi e tranquilli, valorizzati da grandi vetrate e affacci sull’esterno.

Per citarne alcune: Kenzu Sushi a Monza, Niwa a Cologno Monzese, Kyubi (a Brugherio), Umami Taste Experience (a Seregno) e Mu Fish (a Nova Milanese), che nel 2018 è stato inserito nel Gatti-Massobrio nella categoria “cucina radiosa” e nel 2019 ha ricevuto per la seconda volta il riconoscimento da Gambero Rosso come uno dei ristoranti fuori Milano con il miglior rapporto qualità-prezzo.

L’Oriente nel bicchiere. Dai fermentati ai distillati

Se da almeno 2000 anni il sake ottenuto dalla fermentazione del riso è la bevanda alcolica più nota del Giappone, negli ultimi 20 anni non è più stata l’unica ad affascinare l’Occidente. Oltre alla produzione di whisky, avviata alla fine dell’Ottocento dalla distilleria Suntory secondo il disciplinare scozzese, oggi il Sol Levante deve la sua affermazione nel mondo degli Spirits soprattutto alla particolarità dei suoi gin.

L’esportazione verso l’Europa è iniziata solo nel 2017, ma da allora il successo è stato inarrestabile grazie alla capacità di questi distillati di raccontare il territorio e rispecchiare la connessione con la natura e il rispetto per la stagionalità degli ingredienti (o meglio, in questo caso, delle botanicals) che sono alla base anche della cucina e di tutti gli aspetti della quotidianità nipponica.

Oltre agli aromi classici del gin come ginepro, mela, cannella, scorze di limone e arancia, zenzero, le distillerie giapponesi utilizzano erbe, frutti, tè, fiori e spezie locali, distillati separatamente e solo in seguito miscelati insieme, in modo da tenere sotto controllo l’equilibrio dei sapori.

Tra gli esempi più interessanti ci sono Ki No Bi, prodotto da The Kyoto Distillery con yuzu, hinoki (cipresso giapponese), bambù, tè verde gyokuro e grani di pepe sansho; il Nikka Coffey Gin di Asahi Breweries, con agrumi autoctoni (yuzu, shikuwasa, kabosu e amanatsu) mela e pepe sansho, su una base di orzo e mais; il Kozue di Nakano BC che usa dei pinoli giapponesi, il Masahiro Okinawa Gin che utilizza il goya, il melone amaro tipico dell’isola di Okinawa e i particolarissimi Sakurao Gin, tra i cui ingredienti spiccano il wasabi e i gusci d’ostrica di Hiroshima.

Talvolta, invece, la particolarità sta tutta nella base, come nel caso di Wa Gin della Mars Shinshu Distillery, prodotto dal sakè di Meiri Shurui, fatto riposare per 10 anni prima di essere imbottigliato, e di Yuzu Gin, prodotto dalla distilleria Kyoya a partire dallo shochu, un liquore di patate.

Infine Roku Gin, nato nel 2017, racchiude l’anima del primo gin giapponese presentato sul mercato (il gin Hermes prodotto da Suntory dal 1936) e riassume nelle sue note ricche ma delicate tutta la disciplina, la pazienza e la ricerca di armonia che stanno alla base della cultura nipponica: “sei” (roku in giapponese) non è solo il nome del prodotto (ripreso dall’ideogramma in etichetta e dalla forma esagonale della bottiglia) ma anche il numero dei botanicals principali utilizzati.

Ognuno di essi, raccolto durante lo shun (il breve momento dell’anno in cui un elemento della natura esprime le sue massime caratteristiche), rappresenta una stagione e, tutti insieme, simboleggiano il legame indissolubile con la natura: i fiori e le foglie del sakura (ciliegio giapponese), raccolte in sole due settimane l’anno, rimandano alla primavera; il tè verde nelle due varietà sencha e gyokuro, che durante la bella stagione regalano il loro miglior raccolto (Summer Flush), evocano l’estate; il pepe sansho rappresenta l’autunno; infine lo yuzu, rimanda alla stagione degli agrumi, cioè l’inverno.

Insomma, i gin giapponesi racchiudono l’aroma delle proprie isole e ne raccontano la cultura: per apprezzarli al meglio non serve esagerare con le miscelazioni, ma basta limitarsi a uno spruzzo di acqua tonica o gustarli in purezza giocando sulla temperatura di servizio.

Molti sushi lovers non sanno che…

1. Il sushi non è giapponese e non è nemmeno un vero piatto

In origine il sushi era un metodo di conservazione (detto narezushi), importato attorno al IV secolo d. C. dalla Cina (o dalla Corea) e basato sulla fermentazione del pesce (crudo e salato) tra strati di riso (cotto e acidulato in aceto di riso) che poi veniva scartato. Nel periodo Muromachi (1336-1573) nasce il namanare, ovvero un piatto in cui il riso inizia a essere consumato insieme al pesce.

Ma solo a partire dall’epoca Edo (1603-1867), inizia a diffondersi il “sushi veloce” (haya-zushi), in cui non si aspetta più l’inacidimento del riso, ma lo si mescola con l’aceto e lo si serve insieme a pesce, verdure e uova. La svolta finale si ha nel dopoguerra, quando per ragioni igieniche il sushi smette di essere venduto per strada e diventa una prelibatezza di lusso servita nei ristoranti, trasformandosi nel kaiten-zushi (“sushi girevole”) che ha conquistato l’Occidente.

2. Salmone e wasabi sono dei “falsi”

Per quanto sia molto amato in Occidente, il sushi con il salmone non si trova negli autentici ristoranti di Tokyo, che preferiscono servire pesce fresco autoctono anziché specie d’importazione dalla Norvegia.

Invece per quanto riguarda la pasta piccante di colore verde servita assieme al sushi, bisogna sapere che spesso si tratta di semplice rafano misto a senape e colorato di verde, non di vero wasabi ( chiamato hon-wasabi) ottenuto dalla rara e costosa radice della Wasabia japonica (ravanello giapponese).

3. Esiste un galateo del sushi

Come ogni cucina che si rispetti, anche quella giapponese prevede delle “regole di buon comportamento” (o “comandamenti” secondo lo chef Susumu Yajima) da rispettare.

Innanzitutto, il sushi andrebbe mangiato a pranzo (e non a cena) e gustato subito dopo la preparazione, quando il riso è ancora caldo.

In secondo luogo non bisogna trascurare di lavarsi le mani prima di ordinare (anche utilizzando gli asciugamani caldi offerti dal cameriere) e di pronunciare la tradizionale formula di ringraziamento (itadakimasu) prima di iniziare a mangiare.

È consentito sorbire zuppe e ramen accostando la ciotola alla bocca, emettere “rumori di risucchio” (in Giappone interpretati come segno di apprezzamento) e persino mangiare il sushi (non il sashimi) con le mani; vietato invece spezzare i singoli bocconi (mai chiedere un coltello per mangiare il sushi!), infilzarli con le bacchette o portarli al di sopra dell’altezza della bocca.

Le bacchette non vanno impugnate bensì tenute con le estremità delle dita, non devono essere usate per indicare né lasciate sul piatto tra un boccone e l’altro (meglio riporle una accanto all’altra sul tavolo o sul porta-bacchette). Inoltre, per attingere da un piatto comune, è opportuno girarle, per utilizzare il lato opposto rispetto a quello con il quale il boccone verrà portato alla bocca.

La salsa di soia non va sprecata né mixata con il wasabi (vero o falso che sia) ma versata poco alla volta in modo da intingere il sushi dalla parte del pesce, senza bagnare il riso.

Le fettine di zenzero (gari) servono per pulire il palato tra un piatto e l’altro, quindi vanno assaggiate con parsimonia, non mangiate come fossero un’insalata né usate per condire il sushi.

Infine considerare che non lasciare nemmeno un chicco di riso nel proprio piatto è segno di grande rispetto per l’ospite e per lo chef, così come concludere il pasto ringraziando con la frase “gochisousama deshita”.

4. Non tutti i sushi-restaurant sono autentici

Tra “made in Japan” e “similgiappo”, nel mondo ci sono ormai centinaia di migliaia di ristoranti con insegna giapponese. In Italia, nel 2018 se ne contavano più di 3mila, di cui almeno 700 solo a Milano.

Per distinguere quelli gli originali dalle contraffazioni, da alcuni anni il Ministero dell’Agricoltura nipponico ha formulato un apposito disciplinare, che riguarda la qualità e la preparazione dei piatti, le modalità di accoglienza dei clienti e di presentazione dei piatti, ma soprattutto certifica con il marchio Japanese Food Supporter il livello di formazione degli chef (distinguendoli in “gold”, “silver” e “bronze”) e la loro adesione all’autentica cucina washoku, assegnando ai ristoranti che lo meritano l’ambito “bollino blu”, rilasciato dalla Japanese External Trade Organization.

5. La cucina giapponese non è solo sushi e sashimi

Oltre al pesce crudo, con o senza riso, nella cucina tipica giapponese ci sono anche molti altri ingredienti e tecniche di preparazione.

Sul menù si possono trovare carne (come il manzo kobe o wagyu), verdure (melanzane tonde kamonasu, funghi matsutake, carote, porri, daikon, germogli di bambù, gobo, aglio nero della regione di Aomori) e alghe (soprattutto nori e wakame), serviti in tempura, sottoforma di zuppa, oppure marinati (con soia e mirin) e cotti alla brace (nell’hibachi, letteralmente “ciotola del fuoco”, è un contenitore rotondo che, grazie alle piccole dimensioni, può essere portato anche al centro della tavola) o alla griglia (con la tecnica del robatayaki, che rappresenta anche una forma di spettacolo tra i fornelli, con movimenti acrobatici e fumate dai profumi invitanti).

6. Il 18 giugno è l’International Sushi Day

Celebrata per la prima volta nel 2009, la Giornata internazionale del sushi testimonia l’ampia diffusione dell’amore per la cucina giapponese, a livello globale, e rappresenta un’occasione in più per approfondirne la conoscenza, magari provando qualche ricetta nuova… al ristorante o anche a casa!

Kebab di lusso a 35 euro: in coda per assaggiarlo. Jeanne Perego su La Repubblica il 29 Agosto 2022.

Solo 15 porzioni al giorno disponibili a Monaco, nel locale di Cihan Anadologlu, imprenditore nato e cresciuto in Germania da genitori ristoratori turchi. Il segreto: la qualità degli ingredienti, a partire dalla carne Wagyu giapponese

A Firenze ha fatto scalpore la schiacciata al Pata Negra a 25 euro dell’Antico Vinaio, a Monaco di Baviera ha sorpreso tutti  il kebab a 35 euro, il più costoso della Germania definito “lussuoso” dalla stampa tedesca, in vendita da Hans Kebab.

Ma cosa rende così speciale il kebab creato da Cihan Anadologlu? La risposta è: gli ingredienti. Per il kebab di lusso "Da Istanbul a Tokyo"-si chiama così-  al posto della tradizionale carne di vitello viene utilizzata la pregiata carne giapponese “ Wagyu Short Rib" di Kagoshima. E l'esclusiva carne grigliata è accompagnata da una vinaigrette al tartufo e  wakame, puré di pastinaca, spezie Shichimi t?garashi (un particolare peperoncino rosso) e salsa di yogurt alle erbe fatto in casa. Il risultato è un kebab straordinario ispirato dall’amore di Cihan Anadologlu per il Giappone.

Nato e cresciuto in Germania da genitori ristoratori turchi, Anadologlu si è fatto un nome a livello internazionale come barman in locali prestigiosi a New York, Hong Kong, Londra e Singapore. Ha scritto libri di successo come “La Bibbia del bar” e ha collezionato riconoscimenti di ogni tipo.  Fu durante uno dei suoi numerosi viaggi in Giappone che assaggiò per la prima volta un hamburger preparato con carne Wagyu, considerata dai giapponesi e da molti chef  la più pregiata al mondo. Fu amore a prima vista, una passione che non l’ha più lasciato.  E mentre lavorava dietro il bancone di bar famosissimi, come il Schuhmann’s a Monaco, e come consulente per molte aziende, sperimentando tecniche da chef stellati che lo hanno portato a profumare  il whisky con note di roastbeef e il gin con avocado, ha continuato a  pensare come utilizzare quella carne in un progetto nuovo.

Post pandemia, ha coronato il suo sogno, aprendo un locale da kebab a Schwabing,  una delle zone più esclusive e vivaci  di Monaco. “Un negozio di kebab davvero cool”, come ha scritto lui stesso su Instagram. E, in effetti, il menu del ristorante Hans Kebab, dove tutto è preparato in casa senza ricorrere a semilavorati, è diverso da tutti quelli della sua categoria. Oltre ai kebab più classici, propone specialità come il “Lüks Döner Kebab" con carne di vitello, fichi freschi e uova  biologiche fritte, e l' "Ottomann Kebab" con riso alla ottomana, spiedino di pollo o di vitello alla griglia, cipolle rosse, rucola, pomodorini, salsa di aglio nero fermentato e yogurt fatto in casa. Ma la star è, appunto il kebab dal nome evoca che l’incontro tra il luogo di origine della specialità e la patria della carne Wagyu. 

 La carne non deve essere troppa cotta 

Ma si vende un kebab che costa  35 euro?  «Assolutamente sì -dice Anadologlu – e la domanda continua a crescere». In effetti fuori dal locale c’è sempre gente in coda, tra loro anche chi si è assicurato di poter mangiare il kebab di lusso avendolo prima prenotato. Ogni giorno ci sono al massimo 15 porzioni disponibili, spiega Anadologlu, riuscire ad averne una senza averla prenotata è come giocare d’azzardo. I clienti sono più che soddisfatti, come testimoniano i commenti sui social, la marezzatura grassa che rende speciale il sapore della carne conferisce al kebab un sapore unico e leggero. «Ma la carne deve essere cotta al sangue -dice il ristoratore- chi la ordina ben cotta perde tutto il sapore e la tenerezza che la carne Wagyu può offrire».

L’uomo dell’Azerbaigian che cucina in silenzio pecore intere. FEDERICA BIGNAMI su Il Domani il 27 giugno 2022

Tavakkul è un uomo dell’Azerbaigian che negli ultimi due anni ha raggiunto una straordinaria popolarità su YouTube raggiungendo i 3,3 milioni di iscritti al suo canale. 

Lo youtuber dedica a ricette difficilmente riproducibili, come capre intere arrostite su spiedi d’acqua, polli fritti sotto a un secchio o pilaf di fagiano. E lo fa sempre in silenzio. Non cucina una pannocchia di mais, ne cucina cento. Da solo riesce a gestire la cottura di verdure, carne, pesce in quantità che andrebbero bene per sfamare una scolaresca di adolescenti affamati.

Il suo stile è decisamente particolare e diverso da tutto quello che si vede online. Ma ha una cosa in comune con altri YouTuber: cerca di vendere la sua linea di prodotti pseudo-salutistici. 

La videocamera scorre lungo una vallata circondata da montagne. Un uomo sta scavando una buca per terra. Prende un’ascia e inizia a tagliare dei ciocchi di legno. Appende una carcassa d’agnello a un albero. Rovescia un sacco pieno di sale in una ciotola. Ci rompe dentro una decina d’uova e le mescola lentamente con un coltello. Riprende la carcassa d’agnello, la manipola con mani esperte e ne spalma l’interno con una miscela di sale, pepe, aglio. Ogni suo gesto è estremamente lento e tranquillo, e allo stesso tempo carico di una determinazione concentrata.

L’uomo nel video si chiama Tavakkul. Le informazioni in nostro possesso su di lui sono pochissime. È originario dell’Azerbaijan, dove tuttora vive in quello che definisce un “villaggio pittoresco”; ha un’età indefinita, probabilmente tra i trenta e i cinquant’anni; ed è una star di YouTube.

Il suo canale, Wilderness Cooking, ha 3,3 milioni di iscritti e, secondo i dati forniti da lui stesso sul suo sito, fa 30 milioni di visite al mese. Sempre sul suo sito sostiene di avere 130mila nuovi iscritti al mese e di pubblicare due nuovi video a settimana. Guardando al canale questi numeri non sembrano realistici ma con migliaia di commenti e centinaia di migliaia, a volte milioni, di “mi piace”, a ogni suo video, la popolarità di Tavakkul è innegabile. 

FENOMENOLOGIA DI UN PRIMITIVO

Tavakkul ha aperto il canale nel 2020 spinto, leggiamo sempre nel suo sito, spinto dalla «passione per cucinare» e dal suo «amore per la natura». Il primo video risale al 27 gennaio 2020 e si intitola Baked corn on the cob, mais cotto alla piastra. Fin dall’inizio la cifra distintiva di Tavakkul è che fa tutto in grande. Non cucina una pannocchia di mais, ne cucina cento. Da solo riesce a gestire la cottura di verdure, carne, pesce in quantità che andrebbero bene per sfamare una scolaresca di adolescenti affamati.

Nei primi video parla: si presenta, spiega cosa fa e guarda in camera, raccontando le ricette in un inglese con un accento molto marcato. All’inizio sembra volerci stupire solo con i grandi numeri, poco importa se cucina Coca Cola chicken drumsticks oppure Fruit in Tandoori with Nutella. 

Ma più passano i mesi più Tavakkul punta meno sull’effetto spettacolarizzazione (anche se tuttora pubblica ricette di pizze gigantesche ai sei gusti) e più su quello che dà il nome al suo canale, la wilderness appunto: il legame primitivo con la natura, con le mani ricoperte di sangue che scavano una buca per il falò.

Molte delle ricette che prepara sono afferibili alla tradizione gastronomica caucasica come i khinkali, ravioli ripieni di carne e brodo tipici della Georgia, oppure a quella mediorientale, come la shawarma di pollo e i dolma, o ancora il kalle pache khash, zuppa di testa di pecora dell’Iran, e così via. Ci sono anche ricette tipiche azere come la chigirtma, un piatto di pollo, melanzane, fagiolini, spinaci e montone. Per cucinare utilizza spesso un forno tandoor o uno spiedo per kebap.

Ma la vera peculiarità dei video di Wilderness Cooking è il silenzio. Ormai Tavakkul non pronuncia nemmeno più le poche parole che diceva all’inizio del suo canale. Si mette a cucinare in silenzio, mentre i sottotitoli elencano gli ingredienti senza dose.

La telecamera indugia sui dettagli e noi sentiamo solo il suono del coltello che taglia la carne o dell’olio che sfrigola. I suoi video potrebbero quasi rientrare nella categoria ASMR: quella categoria di video, ora popolarissima su YouTube, dove alcuni performer producono audio che sollecitano la “risposta sensoriale meridiana autonoma”.

IL SUCCESSO DEL SILENZIO

Il celebre cuoco e conduttore televisivo Jamie Oliver ha 5,68 milioni di iscritti al suo canale YouTube. Le visualizzazioni dei suoi video non sono così lontane da quelle di Tavakkul. Com’è possibile un perfetto sconosciuto dall’Azerbaigian sia diventato così famoso?

Le sue ricette non sono quasi mai riproducibili da un comune utente (a meno di non avere un forno tandoor in giardino o un montone disossato a disposizione). Eppure sotto ogni nuovo video si affastellano commenti in tutte le lingue del mondo. «You always add a pinch of love, a dash of imagination and a sprinkling of magic to your receipes [sic]. That’s why they look so delicious», commenta un uomo. «Chef Tavakkul is a master of good nutrition. [...] Thank you for lighting up our life with your amazing videos. Keep them coming, please». 

La prima impressione è che Tavakul sia arrivato davanti alla telecamera per caso, senza rendersi conto di cosa poteva succedere: un uomo solitario, che ama stare tra le montagne e sventrare capretti, che fa i video per diletto. Questa convinzione svanisce nel momento in cui visitiamo il suo profilo Instagram.

Qui rimanda a un link che scopriamo essere il suo shop dove vende utensili di vario uso culinario. Qui si lancia in affermazioni di dubbia veridicità scientifica: gli oggetti hanno una «composizione ecologica» che li rende completamente riciclabili e soprattutto non contengono «pericolose impurità chimiche che distruggono il corpo durante l’utilizzo» e «l’ambiente durante la decomposizione». Ma gli sconfinamenti in campo olistico non finiscono qui. Gli oggetti Home & Wild, ci racconta, sono impregnati di olio di semi di lino: serve a impedire al legno di assorbire l’acqua, o seccarsi, e soprattutto ha “proprietà curative”. 

FAGIANI E PIETRE

Tavakkul è uno YouTuber a dir poco atipico. In tempi in cui vanno per la maggiore ricette ultra-semplificate, con ingredienti di facile reperibilità, lui disossa fagiani e li cuoce in forni di pietra che costruisce con le proprie mani. Non fa chiacchiere, non scherza, non racconta aneddoti né imbastisce narrazioni.

Fa riscoprire al popolo dei social il fascino del suono del fuoco che scoppietta, la bellezza della pelle del pesce che si arrostisce lentamente sulla griglia, la soddisfazione del pane che lievita. Eppure anche lui non è immune dalla tentazione di guadagnare vendendo coltelli dalle proprietà curative, come una qualsiasi fitness blogger che pubblicizza tisane dimagranti. FEDERICA BIGNAMI

Nel nome del sushi. La verità, vi prego, sulla cucina orientale. Gastronomika su L'Inkiesta il 29 Giugno 2022.

“Il dizionario dei sapori giapponesi. Ingredienti, piatti, cultura” di Richard Hosking, tradotto da Stefania Viti per Gribaudo, si annuncia come un punto di riferimento per i tanti appassionati di cucina orientale, per chi l’ha incontrata recentemente e per chi già la conosce. 

I giapponesi hanno iniziato a usare i tavoli solo nella seconda metà del secolo scorso. Prima di allora i pasti venivano serviti su vassoi a uso personale (oshiki) o vassoi con gambe (zen) posizionati a terra davanti a ogni commensale. Questa tradizione non si è affatto estinta e, al contrario di quanto avvenuto per l’usanza cinese, ha fatto sì che si continuasse a servire il cibo in porzioni individuali.

La principale eccezione a questa regola sono i piatti preparati in una grande pentola, come il sukiyaki, che si cucina al tavolo, e l’o-sechi ryōri, il cibo tipico di Capodanno, che è impacchettato in una grande scatola ed è per tutti i commensali. In famiglia tutti i piatti, a eccezione di quelli che devono essere mangiati caldi (come il riso e le zuppe) sono posizionati davanti al commensale, di solito in porzioni individuali. L’eccezione principale sono forse i sottaceti.

Dal momento che alcuni li amano moltissimo e altri no, è più comodo che vengano serviti su un piatto comune. Non sono molte le casalinghe che trascorrono la giornata a pensare all’estetica della sistemazione di tre sardine nel piatto, come farebbe uno chef professionista. Di conseguenza, il cibo che arriva in tavola è appetitoso, ma non esteticamente suggestivo.

Il menu consiste normalmente nel semplice ichijū sansai (una zuppa e tre piatti), seguito (o accompagnato) da riso, sottaceti e tè. I tre piatti sono di solito namasu (sashimi o pesce fresco con aceto), nimono (un piatto cotto stufato) e yakimono (un piatto grigliato). Questi tre possono essere sostituiti da nabemono (piatto cotto in pentola al centro del tavolo). Alla fine del pasto vengono serviti frutta fresca e tè.

Il pasto al sacco

Il pasto al sacco (bentō) è un’istituzione, versatile ed eccellente. Tutto, dal cibo da portare a scuola, per un picnic o da mangiare in treno, alla haute cuisine della shōkadō bentō o il poco più piccolo makunouchi bentō (che originariamente veniva mangiato negli intervalli delle performance di teatro Kabuki), può essere contenuto in una scatola e trasportato dove ne abbiamo bisogno. Non deve però necessariamente essere portato da qualche parte. Ci sono ristoranti, specialmente a Kyoto, che sono specializzati in pranzi in stile bentō. In questo caso, non tutto il cibo può essere contenuto in una scatola, che è il pezzo centrale di una bellissima natura morta. Solo la fame può indurre qualcuno a distruggere la gustosa disposizione di quei piccoli bocconcini.

Uno dei requisiti di un bentō è la varietà di cibi e di colori, da abbinare in modo che il risultato sia esteticamente piacevole. Dovrebbero esserci almeno dieci tipi diversi di cibo, sebbene il bentō vegetariano shōjin ryōri che si vende sulle banchine dello Shinkansen alla stazione di Kyoto ne contenga più di venti. Il riso può essere servito in una scatola separata che, unita a quella principale, forma una sorta di nido. Tradizionalmente il riso è freddo, ma al giorno d’oggi molti venditori riempiono le scatole di bentō con riso caldo al momento dell’acquisto.

Il pasto formale

I pasti formali sottintendono a un intricato e rigido sistema che regola la presentazione, dato che in questo caso l’estetica è la cosa più importante. Ka’ichi Tsuji, uno dei più grandi maestri dell’alta cucina giapponese scrive: «Nella cucina giapponese non c’è niente di più importante del saper sistemare bene il cibo, ponendo speciale attenzione al colore, su piatti scelti in modo tale da valorizzarlo». L’assenza di qualsiasi riferimento al gusto è significativa. Donald Richie, nel suo famoso libro A Taste of Japan, scrive, «Il cibo deve essere ammirato così come mangiato. L’ammirazione che si vuole suscitare va ben oltre il gusto. L’apparenza riserva le proprie soddisfazioni e si può dire che in Giappone gli occhi sono grandi tanto quanto lo stomaco. Certamente il numero di regole che coinvolgono modelli e metodi di presentazione indicano l’importanza che ha la presentazione visiva».

Ci sono due tipi principali di pasto formale. Il primo è il pasto che si consuma di solito a un matrimonio. In questo caso, la maggior quantità di cibo possibile è disposta in anticipo sul tavolo davanti al commensale. Cibi caldi come zuppe e creme salate vengono serviti durante il pasto. Il sushi o il sekihan (riso bianco al vapore con fagioli azuki, piatto celebrativo e molto delizioso) possono essere serviti a fine pasto, non tanto perché gli invitati li mangino subito, ma piuttosto perché li portino a casa.

Il menu dovrebbe essere composto secondo le seguenti regole di base: zensai (antipasto); suimono (zuppa leggera); sashimi (pesce crudo); yakimono (cibo alla griglia); mushimono (cibo cotto al vapore); nimono (cibo stufato); agemono (cibo fritto); sunomono (cibo sottaceto) o aemono (insalata di ingredienti cotti).

La fine del pasto non è sottoposta a regole troppo rigide, ma, come detto prima, è probabile che venga servito del sekihan. È altrettanto probabile che vengano serviti frutta fresca e tè.

Il secondo tipo di pasto formale è conosciuto come kaiseki ryōri (ryōri significa «cucina», «cibo cucinato«, «piatti»). Esistono due tipi di kaiseki, riconoscibili dal diverso modo nel quale vengono scritte le parole. Il tipo formale viene servito durante un certo tipo di cerimonia del tè piuttosto lungo, e viene dunque chiamato cha kaiseki. L’altro tipo di kaiseki assomiglia più a una festa dove si beve in allegria.

In tutti i pasti formali al commensale non è comunque data la possibilità di scegliere. Lo chef sceglie il menu, che segue rigide e complesse regole, la prima delle quali è che il menu deve valorizzare la stagione. Poi i piatti e recipienti devono essere scelti per valorizzare il cibo. La regola base è che il cibo di for- ma rotonda va servito su piatti quadrati, mentre cibi dalla forma squadrata o allungata su piatti tondi. C’è bisogno di molti piatti, dato che anche il modello e il colore deve accordarsi alla stagione. Il cibo è posizionato sul piatto secondo le regole giapponesi del moritsuke.

Ovviamente esistono molti altri tipi di pasti che si adattano ad altre occasioni. La colazione giapponese tradizionale segue la regola base che prevede riso bianco, zuppa di miso, sottaceti e piatti di contorno. Anche i picnic, durante i quali si mangia un’ampia varietà di cibo, sono molto popolari. 

Richard Hoskings (1933-2019) si è laureato a Cambridge ed è stato professore emerito di sociologia e di inglese all’Università Hiroshima Shudo. Ha vissuto in Giappone per oltre venticinque anni e ha tenuto lezioni sul cibo giapponese all’Oxford Symposium dedicato alla gastronomia e in moltissime altre parti del mondo. È autore di numerosi articoli e testi dedicati alla cultura nipponica. “Il dizionario dei sapori giapponesi”, originariamente pubblicata con il titolo “A dictionary of Japanese Food”, è la sua opera più conosciuta, nonostante non sia mai apparsa in Italia prima d’ora.

·        L’alimentazione alternativa.

Alessio Ribaudo per il “Corriere della Sera” il 27 settembre 2022.

La domanda inconsueta per un social come TikTok arriva dallo Spazio: «Perché non provate anche voi a mangiare gli insetti?». A porla è l'astronauta Samantha Cristoforetti mentre si gusta una barretta ai cerali a base di farine di grillo al mirtillo che fa parte dei cibi «bonus» che ogni componente dell'equipaggio spaziale può portare a bordo. 

Se sarà «la nuova frontiera del food», come la definisce AstroSamantha nel video subito virale, lo stabilirà il tempo ma, adesso, il suo endorsement ha diviso decine di migliaia di follower che la seguono anche su altre piattaforme come Twitter. Poi ha aggiunto sulla barretta: «È buona per te e per il Pianeta». 

La maggior parte dei suoi follower, però, sembra non essere troppo disposta a seguire il consiglio. In tanti replicano con l'ironia. Si va da Roberto che scrive di preferire «polenta e cinghiale» a Domi che si chiede: «Perché dovrei mangiare insetti? Paese che vai cultura che trovi: io sono cresciuto a spaghetti al pomodoro e non intendo rinunciarci. W la pasta!». Simona è possibilista: «Noi italiani potremmo insegnare al mondo a mangiare bene anche usando la farina di insetti!».

Astrosamantha, da domani comandante della Stazione spaziale internazionale (Iss), ha argomentato: «Sapevate che oltre 2 miliardi di persone nel mondo mangiano insetti? In molti Paesi gli insetti sono stati consumati e dati da mangiare agli animali da allevamento per secoli. Alcune specie sono addirittura considerate prelibatezze. Secondo la Fao, oltre 2.000 specie di insetti vengono consumate dagli esseri umani in tutto il Pianeta. E anche nello Spazio! La mia barretta ai cereali ai mirtilli contiene anche farina di grilli come fonte di proteine». 

In Italia alimenti a base di farine di insetti come chips e biscotti sono già sugli scaffali di supermercati, soprattutto in Veneto e Lombardia, da qualche mese e hanno creato polemiche. Presto arriveranno la pasta e ingredienti per preparare pane e pizza.

Cristoforetti ha poi voluto smitizzare alcune false credenze: «Se trattati in modo sicuro e nel rispetto del loro benessere gli insetti possono essere una fonte di cibo ricca di nutrienti ecologicamente sostenibile. In Europa grilli, vermi e cavallette sono considerati nuovi alimenti che si possono mangiare». A favore della scelta di AstroSamantha si schiera il nutrizionista Nicola Sorrentino. 

«Gli insetti che finiscono sulle tavole sono prodotti per questo scopo e sono sicuri - dice il direttore della Food Academy dell'Università Iulm di Milano -. È più una questione culturale perché, nonostante i benefici evidenziati dell'entomofagia, la sua diffusione è limitata in Occidente perché in molti pensano che solo la nostra dieta sia corretta e non modificabile. Alcuni provano disgusto all'idea di cibarsi così ma in Asia, Africa e America Latina gli insetti sono consumati per il loro sapore: alcuni bruchi o uova di formiche, sono considerate leccornie e venduti a prezzi alti».

Ci sono delle specie preferite: «Appartengono alle famiglie di coleotteri, bruchi, api, vespe, formiche e cavallette ma i grilli di cui ha parlato AstroSamantha sono fonte di proteine e, in molti casi, anche superiori a carne, pesce o soia. Forniscono poi energia, proteine e amminoacidi, acidi grassi essenziali e micronutrienti benefici per la salute umana. Alcuni contengono buoni quantitativi anche di minerali e vitamine, in particolar modo sodio, potassio, calcio e zinco». 

Sorrentino è positivo sul futuro dell'entomofagia: «Era impensabile 20 anni ipotizzare che in Italia si sarebbe mangiato tanto pesce crudo o alghe, eppure il successo del sushi è innegabile». Ci sono delle variabili da considerare: «L'industria alimentare ricoprirà un ruolo importante nel proporre gli insetti come cibo ma non stupiamoci se tra ci troveremo a consumare aperitivi a base di spiedini di larve e cavallette fritte». 

Da ilmattino.it il 14 febbraio 2022.

Il grillo domestico, o «del focolare», è il terzo insetto autorizzato come nuovo alimento nell'Ue. Lo ha annunciato la Commissione europea, dopo il parere scientifico positivo dell'Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) e il via libera dei paesi Ue. I grilli potranno essere commercializzati nel mercato unico interi congelati, interi essiccati e in polvere, come snack o come ingrediente nei prodotti alimentari. 

Le due precedenti autorizzazioni riguardavano il tenebrione mugnaio, meglio noto come tarma della farina, e la locusta migratoria. Già parte della dieta quotidiana di centinaia di milioni di persone nel mondo, negli ultimi anni l'interesse negli insetti come alimenti è cresciuto in Europa.

La strategia Ue «dal produttore al consumatore» (Farm to Fork) li identifica come una fonte alternativa di proteine a basso impatto ambientale. Nell'ambito di Orizzonte Europa, il programma Ue per la ricerca e l'innovazione, le proteine da insetti sono considerate una delle aree chiave. 

«L'uso degli insetti come fonte alternativa di proteine non è nuovo - spiegano a Bruxelles - poi spetta ai consumatori decidere se li vogliono mangiare o meno». C'è infatti anche un interesse di mercato, con la corsa delle imprese alimentari più innovative, anche italiane, a proporre prodotti che sostituiscono le fonti tradizionali di proteine.

È di un'azienda nazionale, ad esempio, la domanda di applicazione per la commercializzazione della farina di grilli. Ma le domande presentate all'Efsa per gli insetti sono solo 9 su 190. «Dall'entrata in vigore del nuovo regolamento Ue sui novel food, nel 2018, abbiamo assistito a un forte aumento delle domande per nuovi prodotti alimentari, comprese in particolare nuove fonti proteiche alternative», dice all'ANSA Ermolaos Ververis, del team Efsa sui nuovi alimenti.

Parliamo soprattutto di prodotti di origine vegetale, da alghe o funghi. L'esempio è l'estratto da fagiolo mungo, che ha ricevuto l'ok dall'Autorità in ottobre, per la sostituzione delle uova nell'industria alimentare. E sono in arrivo concentrati ed estratti proteici da lenticchie, riso e piselli. 

L'Ue «mette i grilli nel piatto e toglie il vino dal bicchiere», attacca Coldiretti, in riferimento al voto sul piano anti-cancro della settimana prossima all'Europarlamento, «che rischia di demonizzare il consumo di vino con misure come allarmi salutistici in etichetta già adottati per le sigarette l'aumento della tassazione o l'esclusione dalle politiche promozionali dell'Unione Europea». 

Gabriele Principato per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.  

Grilli, larve e locuste nei menu delle mense nelle scuole primarie.

Avverrà (forse) nel Regno Unito, ma intanto il progetto in fase di studio ha conquistato Beppe Grillo. Tanto che la notizia della ricerca degli scienziati britannici è diventata l'apertura del Blog del Garante del Movimento 5 stelle, come simbolo di un'alimentazione più sostenibile e attenta al pianeta. «I bambini impareranno così i benefici nutrizionali e ambientali del consumo di insetti - si legge nel post -, come grilli, cavallette, bachi da seta, locuste e vermi della farina». Dando seguito così a ciò che auspica da anni l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura (Fao), che spinge verso il consumo di insetti anche in Occidente, forte del fatto che nel mondo facciano già parte della dieta di oltre 2 miliardi di persone.

Test dai 5 agli 11 anni Ma in cosa consiste davvero l'esperimento britannico raccontato dal sito di Grillo? La ricerca mira a studiare gli atteggiamenti dei bambini - tra i 5 e gli 11 anni - nei confronti delle questioni ambientali e come tali cambiamenti influiscano sul cibo che mangiano. Per fare ciò un team di accademici dell'Università di Cardiff e dell'Uwe di Bristol sta studiando dei menu a base di insetti per quattro scuole elementari. Ai giovanissimi studenti verrà offerto un prodotto chiamato VeXo, una combinazione di insetti e proteine vegetali.

Un progetto che ci offre uno sguardo sul paniere del futuro, secondo il blog del co-fondatore del M5s. «Ci sono circa 2.000 specie di insetti commestibili in tutto il mondo», ricorda Beppe Grillo.

Questi insetti «possono offrire un'alternativa sostenibile alle proteine tradizionali presenti nella carne e nella soia. Ciò potrebbe contribuire a ridurre i 64 milioni di tonnellate di anidride carbonica emesse ogni anno dalla produzione e dal consumo di prodotti a base di carne».

Dalla Cina all'Olanda Nulla di strano. In altri continenti mangiare insetti è considerato normale. In Cina i millepiedi croccanti, arrostiti al forno e poi affumicati, sono un popolare snack. Stessa sorte per la hormiga culona colombiana, formica così chiamata a causa del suo addome prominente. Fritta o tostata è considerata una vera delizia. E in Europa? Nei menu di chef in Gran Bretagna, Olanda o Belgio compaiono già piatti a base di formiche, cavallette, scorpioni e altre pietanze del genere, buone per la salute - dicono gli esperti - perché ricche di proteine e prive di grassi.

I dubbi degli italiani Ciò vuole dire che in Italia, nel giro di qualche anno, troveremo gli insetti serviti nei ristoranti sotto casa? Non secondo un recente studio di Coldiretti/Ixe che ha evidenziato come il 54% degli italiani li consideri troppo distanti dalla nostra cultura gastronomica. Alla base di tutto, secondo numerosi studi sociologici, c'è il senso del disgusto, che però potrebbe essere contrastato con una corretta informazione e promozione del prodotto in sé.

Infatti, se fino a qualche anno fa l'uso a fini alimentari degli insetti era vietato, l'Unione europea, dopo la valutazione dell'Autorità per la sicurezza alimentare, ha dato il semaforo verde alla vendita di tre insetti per l'alimentazione umana: la locusta migratoria, la tarma della farina e il grillo domestico, che possono essere consumati interi congelati o essiccati, oppure macinati e uniti ad altri ingredienti per realizzare, ad esempio, prodotti da forno. O, ancora, utilizzati come mangimi per animali d'allevamento. Una scelta, questa di Bruxelles orientata a promuovere in Europa «il passaggio a un'alimentazione più sostenibile» secondo quanto previsto dal Piano d'azione Ue 2020-2030.

E dalla strategia alimentare comunitaria Farm to fork , che contempla gli insetti all'interno della categoria dei « novel food » - ossia i «nuovi alimenti» -, un'importante e innovativa fonte di proteine animali a basso impatto ambientale. Un esempio? Un chilo di grilli ha bisogno di 15 mila litri di acqua in meno rispetto a ogni chilo di carne prodotta e il loro allevamento genera 100 volte meno gas a effetto serra.

·        Il Brodo.

Gallina vecchia. Non è vero che tutto fa brodo. Thea Papa su L’Inkiesta il 29 Novembre 2022.

Il brodo è la spalla fedele di ogni bravo cuoco ma anche l’icona dell’ecosostenibilità in cucina. Ecco i nostri consigli per non farlo diventare un ricettacolo di avanzi da frigo

Vegetale, di carne, di pesce… è l’ingrediente principe di innumerevoli ricette, che ne ricevono in eredità l’armonia di sapori pazientemente conquistata con una lenta cottura. Che siano zuppe, secondi piatti o paste ripiene, saranno ineluttabilmente rovinati se sceglieremo di usare prodotti di scarto per il nostro brodo, perché otterremo un prodotto di scarto, proprio come quando decidiamo di sfumare un risotto con del vino scadente.

Dando per assodato che anche il dado è bandito, mettiamoci all’opera e prepariamo insieme un ottimo brodo di pollo – anzi – di gallina, che potrà tornare utile per le tavolate di amici e parenti che ci aspettano nel prossimo mese (basterà ridurlo di volume e congelarlo nei contenitori per i cubetti di ghiaccio).

Quattro ingredienti in cerca di un cuoco

Il brodo è di fatto un liquido, aromatico e gustoso, quindi il suo ingrediente principale è l’acqua, il solvente destinato ad accogliere e sciogliere tutti gli elementi contenuti negli altri ingredienti; per questo conviene usare l’acqua del rubinetto solo se è buona, applicando lo stesso metro di giudizio riservato alla preparazione della moka mattutina. Il gusto principale dipenderà dall’ingrediente che dà il nome al brodo, nel nostro caso sarà una gallina, o ancor meglio un cappone. In caso di “mancata reperibilità” andrà bene anche un pollo, a discapito di un po’ di sapore.

Cogliamo l’occasione per fare un po’ di chiarezza sul dubbio amletico che ha assalito tutti, almeno una volta, davanti ai banconi della macelleria: che differenza c’è tra pollo, gallina e cappone? Sul pulcino non dovrebbero esserci esitazioni: maschietto o femminuccia, è così chiamato fino ai sette giorni di vita. Il pollo – anche qui il termine è unisex – è un “pulcinotto” che ha superato i quaranta giorni ma non ha ancora raggiunto la maturità sessuale. Diventa gallo o gallina quando entra nell’età riproduttiva; le galline che troviamo in vendita al supermercato sono spesso ovaiole a fine carriera. Il cappone è invece un maschio castrato prima della riproduzione e destinato all’ingrasso, che viene macellato dopo aver raggiunto circa due chili e mezzo di peso.

Come uscire da questa dicotomia generazionale e compiere una scelta consapevole? Le ossa degli animali più giovani rispetto a quelli maturi contengono più collagene, quella proteina che trasformandosi in gelatina darà corpo al brodo. Se desiderate un liquido corposo scegliete dunque un pollo; se invece volete dare priorità al sapore, optate senza indugio per animali vecchi, come la gallina e il cappone: d’altra parte i proverbi popolari hanno sempre un fondo di verità…

Anche se il gusto è dettato dalla carne non bisogna mai dimenticare l’elemento vegetale, solitamente presente nella classica triade cipolle, carote e sedano, in rapporto 2:1:1; ma sentitevi liberi di modificare le proporzioni, magari sostituendo le carote con i porri se preferite un brodo meno dolce. Il quarto e ultimo ingrediente è costituito da erbe aromatiche e spezie: alloro, timo, gambi di prezzemolo, pepe in grani, chiodi di garofano… l’unico limite è la fantasia. Ora che la spesa è fatta possiamo rimboccarci le maniche e metterci ai fornelli.

La pazienza di Giobbe

È proprio questa che dovrete invocare per un risultato soddisfacente: le lunghe cotture sono infatti necessarie sia per estrarre le sostanze gustose dai vegetali e dalla carne, soprattutto se l’animale è vecchio, ma anche per sciogliere il collagene. Inseriamo i pezzi di carne in una pentola alta e stretta e copriamo tutto con acqua fredda in modo da sommergerli per almeno cinque centimetri; solitamente si aggiunge il doppio o il triplo del peso rispetto agli altri ingredienti, ovvero carne e ortaggi. Quanto al sale c’è sempre tempo, e conviene aggiungerlo alla fine quando il liquido si sarà ristretto.

Seguite il “consiglio della nonna” e usate l’acqua fredda, ma non per il motivo che (probabilmente) pensate: l’acqua calda non sigilla la carne, come narrano alcune leggende metropolitane, e i succhi che vogliamo estrarre e convogliare nel brodo uscirebbero comunque. Tuttavia, immergendo le ossa nell’acqua bollente, il collagene in esse contenuto non avrebbe il tempo di idratarsi, liberando quella gelatina che dona corpo al brodo. È un po’ come quando teniamo in ammollo i fogli di gelatina prima di strizzarli e aggiungerli nella panna calda per preparare una cheesecake: questo procedimento dà il tempo all’acqua di penetrare nel foglio in profondità, così da ammorbidirlo dall’interno e scongiurare il rischio di grumi, gli acerrimi nemici del pasticciere.

A questo punto accendiamo il fuoco a fiamma medio-alta e in prossimità dell’ebollizione abbassiamolo, perché l’acqua non deve assolutamente bollire se vogliamo ottenere un brodo bello limpido: le goccioline di grasso che si staccano dalla carne devono rimanere in superficie, così da poter eliminare la schiuma con l’aiuto di un colino (il movimento vigoroso dell’acqua in ebollizione le farebbe disperdere irrimediabilmente). Una temperatura tra 85°C e 95 °C è ottimale affinché l’estrazione dei sapori non risulti troppo lenta e al contempo il brodo non diventi torbido.

Dopo due o tre ore sarà il momento di aggiungere gli ortaggi, tagliati in pezzi di circa 5 centimetri, così che non debbano cuocere per più di un’ora. Non abbiate fretta, approfittatene per leggere un buon libro o per portarvi avanti in un’altra preparazione gastronomica e la pazienza saprà ripagarvi dell’attesa: durante le lunghe cotture alcune proteine si degradano, liberando degli amminoacidi dai sapori caratteristici, come il famoso acido glutammico responsabile di quel gusto umami che ci piace tanto (motivo per cui i dadi sono addizionati con il glutammato di sodio).

Trascorsa un’ora dall’aggiunta dei vegetali sarà il turno degli odori e delle spezie, che dovranno essere aggiunti a circa 30-45 minuti dalla fine della cottura per evitare che le sostanze aromatiche si degradino o si volatilizzino.

In questa fase assaggiate più spesso, per tenere sotto controllo l’intensità di sapori: può essere utile inserire le spezie in un sacchettino di garza e legare gli odori in un bouquet garni, per estrarli al momento giusto senza andare a pesca nel brodo.

Quando sarete soddisfatti, spegnete il fuoco e filtrate il liquido cercando di trattenere anche i più piccoli residui. Se dovete conservarlo attendete che si raffreddi prima di metterlo in frigorifero, ma consumatelo entro un paio di giorni, in caso contrario sarà meglio porzionarlo e congelarlo; quando lo riutilizzate ricordate però di portarlo a ebollizione, per evitare contaminazioni batteriche. E con la carne che si fa? Non vi mentiremo, tanto più saporito sarà il vostro brodo, tanto meno lo sarà il “lesso” che ne risulta, ma questo non vuol dire che sia da buttare via! Preparate un polpettone o usatelo come ripieno per ravioli e tortellini.

Il tempo è denaro

Sapendo che andate sempre di fretta vogliamo svelarvi qualche trucchetto per ridurre i tempi.

Se avete ospiti a cena e vi serve un brodo di carne seduta stante, usate la carne macinata e fatela bollire per 10 minuti in acqua pari al proprio peso, insieme alle verdure tritate a mo’ di soffritto, filtrate il tutto e otterrete un brodo saporito. Così facendo andrete a velocizzare il processo di estrazione dei sapori facendo penetrare l’acqua più velocemente, ma non sarete in grado di ottenere un liquido corposo, dal momento che lo scioglimento del collagene richiede i suoi tempi.

Ma non è questa l’unica via, perché esiste un magico strumento in grado di portare il brodo a temperature ben superiori ai classici 80-90 °C: nella pentola a pressione il vapore che proviene dal brodo in cottura non sfugge e si accumula sopra il liquido, alzando le temperature fino a 120°C e accelerando di conseguenza i processi di estrazione.

Ci sono però delle differenze rispetto al “classico” brodo, dal momento che le reazioni innescate a temperature così alte saranno necessariamente diverse: in alcuni casi si distruggono sostanze aromatiche delicate, in altri possono trasformarsi in molecole che intensificano il gusto finale. Inoltre gli aromi non possono sfuggire nell’aria come nella cottura tradizionale, ma rimangono nella pentola e in parte vengono ridisciolti nel brodo.

Ma quindi quale dei due è più buono? Non esiste una risposta giusta, perché la verità è che ognuno ha i suoi gusti. Non vi resta che provare ed eleggere il vostro vincitore.

·        I Cuochi.

Guida Michelin 2023, a Cannavacciuolo la terza stella: «La aspettavo dal ’99». ALESSANDRA DAL MONTE su Il Corriere della Sera il 9 Novembre 2022.

Lo chef Cannavacciuolo ha conquistato la terza stella Michelin. I nuovi bistellati si sono rivelati quattro, 33 i monostella e 19 le stelle verdi. La cerimonia di presentazione della Guida Michelin Italia 2023 si è svolta in Franciacorta ed è stata ricca di novità

«La verità? Le tre stelle le aspettavo dal primo giorno in cui sono entrato a “Villa Crespi”, nel 1999. È stato subito un obiettivo». Ci hanno messo troppo ad arrivare? «No, è giusto così, oggi con i miei 47 anni mi sento maturo per affrontare questo traguardo, era stato forse troppo veloce all’inizio: la prima nel 2003, la seconda nel 2006. Adesso sono pronto: ho ancora un bel po’ da lavorare, e voglio crescere come gruppo, con i miei ragazzi». I ragazzi erano quelli che ieri, alla presentazione della guida Michelin Italia 2023 in Franciacorta, non lo lasciavano salire sul palco da tanto lo tenevano stretto in un abbraccio. Collettivo e liberatorio.

Cannavacciuolo è il 12esimo tristellato d’Italia

Antonino Cannavacciuolo è diventato il dodicesimo chef tristellato d’Italia, a Orta San Giulio. Un cuoco televisivo — famoso soprattutto per Masterchef — che arriva a queste vette: è stata superata l’opposizione cucina-tv? «Io in realtà sono molto presente in cucina. La tv mi ha dato la possibilità di migliorare le mie aziende e di aprirne di nuove». Sul palco si è emozionato, e come prima cosa ha ringraziato la moglie Cinzia: «Oggi è il nostro anniversario, sarà l’unico anno in cui mi perdona perché non lo festeggiamo». Risate. «Nel 2003, anno della prima stella, ci siamo sposati. Nel 2006 aspettavamo nostra figlia Elisa. Oggi è pure l’anniversario di 50 anni di matrimonio dei miei: per ogni stella una tappa importante della vita», commenta. Poi però parla di quello che più gli sta a cuore, la squadra: «Il progetto di Villa Crespi non si ferma qui. Oggi lo abbiamo rafforzato, ma ci sono nuove aperture in vista, perché ho tanti ragazzi che vogliono iniziare a camminare da soli. Per salire magari, un giorno, su questo palco».

Le novità della Guida Michelin Italia 2023

Di giovani, ieri, se ne sono visti in effetti parecchi: tra le 38 novità della guida 2023, 20 chef avevano 35 anni al massimo, sei meno di 30. Nella galassia Cannavacciuolo è stato premiato Marco Suriano del «Vineyard», in Toscana, che porta a sette le stelle del gruppo. Mentre il mondo di Enrico Bartolini, chef tristellato che ieri ha preso il premio speciale come Mentor, è arrivato a 12 riconoscimenti con «Anima» a Milano e «Fuoco sacro» in Sardegna e le due stelle andate a Gabriele Boffa della «Locanda Sant’Uffizio» di Penango (Asti). Quattro in totale in nuovi bistellati: oltre a Boffa, «Acquolina» ed «Enoteca La Torre» a Roma, «St. George by Heinz Beck» a Taormina. I «monostellati» sono stati 33, tra i quali spicca Davide Guidara, 28 anni: stella rossa più stella verde per la sostenibilità e premio come Miglior giovane chef per la sua proposta vegetale da «Tenerumi», a Vulcano. Da segnalare, tra i doppi premi (stella rossa e verde) anche «Dalla Gioconda» (Gabicce Monte) e «Osteria del Viandante» (Rubiera), locali di proprietà di Marco Bizzarri, Presidente e Ceo di Gucci, che ha commentato: «Questi riconoscimenti aprono una porta verso un mondo di creatività e rispetto per il territorio e le persone».

In Franciacorta, territorio partner della Michelin, l’agriturismo «Il Colmetto» si è aggiudicato la stella verde: «Anche quest’anno abbiamo avuto il piacere di ospitare l’eccellenza della cucina italiana, ambasciatrice del Made in Italy», ha detto il presidente del Consorzio Silvano Brescianini. Spiace sempre vedere pochissime donne su quel palco. Quest’anno solo una, Sara Scarsella di «Sintesi».

Borsino stellato.  Cannavacciuolo conquista la terza stella Michelin. Anna Prandoni su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Due nuovi due stelle a Roma, a Taormina e alla Locanda Sant’Uffizio, che conquistano due macaron. Tantissimi i giovani nelle premiazioni, a dimostrazione che la nuova e giovane cucina italiana sta davvero facendo la differenza

Cannavaciuolo conquista la terza stella, e si aggiunge agli altri 11 ristoranti tristellati del nostro Paese. Due nuovi due stelle a Roma, Acquolina e Enoteca La Torre. Anche Salvatore Iuliano del St George di Taormina e Gabriele Boffa di Locanda Sant’Uffizio di Penango conquistano due macaron. Tantissimi i giovani nelle premiazioni, a dimostrazione che la nuova e giovane cucina italiana sta davvero facendo la differenza.

Tra le 38 novità, sono 20 gli chef con età uguale o inferiore ai 35 anni, 6 dei quali con età uguale o under 30. Un dato da sottolineare: tutti gli chef dei nuovi ristoranti hanno una età inferiore ai 35 anni! In guida quest’anno 150 nuovi ristoranti, di cui dieci ricevono la stella rossa e cinque la stella verde.

Per il secondo anno consecutivo la premiazione della guida Michelin avviene in Franciacorta, luogo partner della rossa per tre anni. La distribuzione delle prestigiose stelle Michelin italiane è stata svelata nel tardo pomeriggio di martedì 8 novembre, durante la premiazione al Relais Franciacorta.

«L’Italia ha particolarmente colpito i nostri ispettori quest’anno, che hanno assegnato 38 nuove stelle, tra le quali spicca un nuovo tre stelle che entra nell’Olimpo della gastronomia italiana: Villa Crespi». ha commentato Gwendal Poullennec, Direttore Internazionale delle Guide Michelin, «Questa Selezione 2023 della Guida racchiude 385 ristoranti stellati guidati da Chef con profili molto diversi tra loro. Un nuovo record per la penisola, che sottolinea quanto la tradizione della cucina italiana e l’innovazione siano un connubio perfetto per esperienze culinarie eccezionali, ricche di emozioni, storia e convivialità».

Enrico Crippa fa più uno conquistando anche la stella verde, che si somma alle tre stelle di Piazza Duomo ad Alba. Due nuove due stelle a Roma, e un nuovo due stelle a Taormina.

Enrico Bartolini vince il premio chef mentore 2023 e si emoziona per la prima volta su questo palco per un premio che si merita e che è il coronamento di una grande carriera personale ma anche di condivisione: nel tempo questo chef ha conquistato infatti dodici stelle complessive in otto ristoranti: «Si dice che Michelin sia avara, ma sono la dimostrazione che non è così».

Gwendal Poullenec, direttore internazionale delle guide Michelin, fa un ritratto della situazione attuale della cucina del nostro Paese: «È sempre un piacere tornare nelle sedi della tradizione della nostra guida, come l’Italia, dove c’è una grande diversità tra le tante regioni. Una cucina fatta di grande qualità, generosità e creatività. Abbiamo premiato i professionisti con percorsi diversi, in grado di offrire esperienze indimenticabili per la loro clientela. In questo Paese c’è una grande pluralità e in tutte le regioni si trovano competenze varie e affascinanti».

Silvano Brescianini, presidente del Consorzio Franciacorta fa gli onori di casa: «È un grandissimo piacere vedere qui riunita la grande ristorazione italiana, importante per la promozione dell’italianità per i tanti turisti che vengono qui a trovarci. E importante anche per quello che rappresenta: la gastronomia porta l’Italia nel mondo e permette di valorizzare la filiera del made in Italy all’estero. La cucina porta nel mondo lo stile, la cultura e promuove città, tradizioni e cultura. È anche l’occasione per i 123 produttori del Consorzio di ringraziare gli artigiani e gli agricoltori che creano nel nostro territorio i tanti prodotti e ingredienti protagonisti di questa cucina».

Da parte nostra non possiamo che essere entusiasti per una stella in particolare, quella conquistata da Davide Marzullo, che ha cucinato alla cena al nostro Festival che ha celebrato la nuova giovane cucina italiana. A lui, e a tutti gli altri premiati vanno i complimenti di Gastronomika e un grande in bocca al lupo per il loro futuro.

I due nuovi due stelle:

Acquolina – Roma – chef Daniele Lippi*

All’interno dell’hotel The First Roma – Il giovane Chef propone una cucina dove tecnica e fantasia esaltano la materia prima in modo mai banale, ma senza inutili virtuosismi. Tre i menu degustazione che presentano varie visioni della cucina dello chef al centro dei quali domina il Mediterraneo, con i suoi prodotti, i profumi e le sue tradizioni.

Enoteca La Torre – Roma – chef Domenico Stile*

I piatti dello chef campano celebrano la creatività con energia, esuberanza e i sapori intensi tipicamente del mediterraneo e della tradizione campana. L’amore per il proprio territorio accoglie tributi alla storia gastronomica della capitale e ai grandi classici della tradizione culinaria italiana per un viaggio goloso e variegato che può portare anche oltre i confini del Bel Paese.

St. George by Heinz Beck – Taormina – chef Salvatore Iuliano**

Che vi lasciate guidare dai due menu degustazioni oppure da un pasto alla carta, in tutte le preparazioni troverete la leggerezza, firma del maestro Heinz Beck e tratto distintivo del talentuoso chef calabrese Salvatore Iuliano. La sua proposta di cucina alterna piatti creativi a richiami della tradizione con tributi alla Trinacria, per chi è alla ricerca di una cucina mediterranea lontana dalle convenzioni.

Locanda Sant’Uffizio Enrico Bartolini – Penango   – chef Gabriele Boffa*

All’interno di un’antica struttura monastica divenuta un raffinato albergo, troviamo ai fornelli uno chef con mestiere e abilità non comuni. Gabriele Boffa, langarolo e profondo conoscitore della cucina piemontese, vanta straordinarie abilità tecniche sviluppate attraverso importanti esperienze maturate nei migliori ristoranti del mondo. La sua cucina spazia dai grandi classici regionali che esegue fedelmente – come gli straordinari agnolotti del plin – a piatti più creativi e innovativi che non tralasciano un legame con il territorio.

Macaron. Tutte le cose da sapere sulla Michelin, che oggi svelerà in Franciacorta le nuove stelle. Anna Prandoni su L’Inkiesta l’8 Novembre 2022

Nonostante le polemiche che la vedono coinvolta ogni anno, per ogni nuovo annuncio, rimane il punto di riferimento indiscusso della ristorazione di livello. Vi spieghiamo perché, in attesa della serata di oggi, che seguiremo dalla Franciacorta

Chi vince la stella, chi perde la stella, chi ci piacerebbe aumentasse da due a tre, chi vorremmo la perdesse: nel piccolo mondo della ristorazione, questi sono giorni di scommesse. C’è un fittissimo scambio di messaggi, previsioni, idee, ma la realtà è che nessuno davvero sa nulla sullo “svelamento” della 68esima edizione della rossa, che avverrà martedì 8 novembre in Franciacorta, territorio partner dell’evento per un triennio.

E forse è proprio questa la vera forza di una guida storica, che fin dagli inizi del ’900 aiuta i gourmand di tutto il mondo a ritrovarsi a tavole gastronomiche, dove essere sedotti da piatti ricercati, preparati e serviti con cura e attenzione in un ambiente elegante. Il segreto mantenuto intorno a questa serata è totale, e neanche gli addetti ai lavori riescono ad avere anticipazioni. Gli chef coinvolti nella premiazione sanno all’ultimo momento se e come verranno premiati. A volte – come è capitato per esempio a Davide Oldani nel 2020, passato da una a due stelle – lo scoprono direttamente sul palco, e l’emozione è infinita e a favore di telecamera.

Potete seguire l’evento in streaming, e noi saremo in Franciacorta a raccontarvelo, sui social e anche qui sul sito, in un pezzo che sarà aggiornato in tempo reale per darvi man mano i risultati di questa guida 2023. Ma per prepararci all’evento, abbiamo provato a spiegare le regole del gioco di quella che rimane la più autorevole e influente guida al buono.

La guida Michelin in pillole

La guida Michelin è un precocissimo esperimento di brand journalism. Tutto iniziò da una piccola azienda di pneumatici, a fine ’800. I fratelli André ed Édouard Michelin la fondarono ma si resero subito conto che le auto in Francia erano poche e viaggiavano ancora meno. Per convincere i loro clienti a consumare più gomme, si inventarono un librino che li aiutasse a scovare officine, ma anche hotel e ristoranti fuori dalle città, per incentivare l’uso dell’auto e la conseguente usura delle ruote.

L’esperimento piacque ma la guida era offerta gratuitamente, il che la sminuiva soprattutto agli occhi dei meccanici. Il cambio di rotta avvenne nel 1920, anno nel quale la Michelin iniziò ad essere venduta a 7 franchi.

Le stelle, anzi, i macaron come più correttamente dovremmo chiamare i simboli che identificano le ottime tavole, vennero introdotti nel 1926, ma è solo nel 1936 che la classificazione con le stelle diventa la norma e assume un senso preciso. In Italia arrivò nel 1957 e da allora è un riferimento anche nel nostro Paese.

Quali sono gli asset della guida?

Essenzialmente, due. Gli ispettori sono dipendenti della guida, il che li rende inattacabii e incorruttibili. Il secondo asset è il linguaggio dei simboli: la guida parla per pittogrammi, il che la rende comprensibili a tutti, quindi perfetta anche per un cliente e lettore internazionale. Il lettore tipo è il Mr. Smith che gira il mondo alla ricerca di luoghi del gusto da scoprire: in ognuno deve trovare la sua identità e il suo equilibrio: un livello medio e costante nel quale riconoscersi. 

Ma che cosa significa ottenere le stelle, per un ristorante?

Innanzitutto è il coronamento di un sogno, perché il premio è prestigioso e universalmente riconosciuto. Ma è anche un grande viatico economico: una stella, e ancora di più due e tre, spostano decisamente verso l’alto il fatturato di un ristorante e permettono di essere visibili e conosciuti da una importante cerchia di clienti ben disposti a viaggiare per mangiare bene, esigenti ma anche alto spendenti. Succede anche con le altre guide? No, ed è questa la vera forza della “rossa”.

Tutti i ristoranti in guida sono “stellati”?

Questa è forse una delle false credenze per eccellenza. Solo il 20% dei ristoranti presenti in guida hanno la stella. La maggior parte, quindi, sono nella selezione ma non hanno macaron da vantare.

Ma premia gli chef o il ristorante?

La guida Michelin premia il ristorante nel suo insieme, quindi è scorretto parlare di “chef stellato” perché ad essere stellati sono i locali, e non i singoli interpreti. Tant’è vero che quando uno chef lascia il ristorante, non è detto che il locale perda le stelle, e di sicuro lo chef non le porta con sé nella nuova insegna. In assoluto, esserci o non esserci non è mai una questione personale, ma di ristorante.

Ma, esattamente, che cosa si intende con la classificazione?

1 Stella – Interessante: è un’indicazione per chi desidera approfondire la conoscenza della destinazione.

2 Stelle – Merita la deviazione: sono i luoghi che meritano una deviazione durante il viaggio.

3 Stelle – Vale il viaggio: sono gli “imperdibili”, luoghi di fama artistica, storica o naturale internazionale. Quelli per cui vale la pena creare un viaggio ad hoc.

E infine, può essere considerata critica?

La Michelin, come ci dice il suo direttore comunicazione e relazioni esterne Marco Do, è una guida che accompagna chi viaggia. Il lettore è una persona che si affida agli ispettori per un consiglio che deve essere soddisfatto. Questa è la grande differenza tra la critica gastronomica e la Michelin.

Tante, nei decenni, le storie e gli scandali, che hanno addirittura portato alcuni chef a suicidarsi per il mancato riconoscimento. Molte le voci sugli ispettori, anche dopo l’uscita del libro “L’inspecteur se met à table” di Pascal Remy, che per primo ha alzato il velo sulle prassi e le abitudini di questi soggetti mitici che girano per il mondo alla scoperta dei luoghi sacri del buon gusto.

Ma la credibilità della guida è sempre stata altissima, e nonostante le critiche che seguono ad ogni uscita, rimane un punto di riferimento assoluto per tutti coloro che vogliono delle certezze per scegliere un ristorante.

Forse troppo filofrancese, forse non abbastanza attenta alla creatività e alla contemporaneità, forse troppo improntata al classico, forse troppo attaccata alle insegne d’antan: sta di fatto che – nonostante tutti i difetti che negli anni le vengono attribuiti, “la rossa”, come viene chiamata dagli addetti ai lavori, ancora oggi a di 120 anni dalla sua fondazione, rimane un vademecum fondamentale per fare una fotografia della ristorazione.

Federica Maccotta per corriere.it il 26 giugno 2022.  

Alan Wong (1,1 miliardi di dollari)

Il Paperon de’ Paperoni degli chef è Alan Wong, con un patrimonio netto di 1,1 miliardi di dollari (per fare un paragone, il patrimonio del rampollo della famiglia Agnelli John Elkann secondo Forbes ammonta a due miliardi di dollari). Lo chef cinese-americano ha contribuito a lanciare la cucina hawaiana con i suoi ristoranti, i suoi libri e le sue partecipazioni a programma televisivi.  

Nel 2009, per dire, ha organizzato un party hawaiano per il presidente degli Usa Barack Obama alla Casa Bianca. A causa del Covid lo chef ha dovuto chiudere il suo ristorante di Honolulu, come si legge sul sito, e al momento sembra non avere altri locali aperti in giro per il mondo. 

Jamie Oliver (310 milioni di dollari)

Divo del mondo del cibo con un patrimonio netto di 310 milioni di dollari, Jamie Oliver non è solo uno chef, ma anche un autore di libri e un personaggio televisivo da anni sotto i riflettori. Reso famoso dal programma tv The Naked Chef, è proprietario di una catena di ristoranti nel Regno Unito, negli Stati Uniti, in Australia e a Dubai.

Gordon Ramsay (220 milioni di dollari)

Oltre a essere lo chef più seguito su Instagram con 13,7 milioni di follower, Gordon Ramsay si piazza al terzo posto dei più ricchi con un patrimonio netto di 220 milioni di dollari. Lo chef scozzese, noto per il suo carattere fumantino e per la presenza nei programmi televisivi, ha ricevuto sette stelle Michelin nell’arco della sua carriera e possiede una dozzina di ristoranti.

Nobu Matsuhisa (200 milioni di dollari)

Nobu Matsuhisa è il signore del sushi a livello mondiale. Nato in Giappone, lo chef (che ha un patrimonio netto di 200 milioni di dollari) è stato anche attore, recitando al fianco di Robert De Niro, con cui ha aperto un ristorante a Los Angeles. Oggi fa capo a un impero con oltre cinquanta ristoranti e hotel in tutto il mondo, Milano compresa (all’interno del quartier generale di Armani).

Paul Bocuse (185 milioni di dollari)

Pioniere della nouvelle cuisine francese, Paul Bocuse è morto nel 2018. Ma la sua ricchezza resta, con un patrimonio netto che Money Inc calcola in 185 milioni di dollari. Anche il suo ristorante di punta, «L'Auberge du Pont de Collonges» a Collonges-au-Mont-d'Or (Francia) è ancora aperto, però nel 2020 è passato da tre a due stelle Michelin.

Gli altri 15 classificati

La classifica di Money Inc continua con lo chef indiano e star della tv Sanjeev Kapoor (140 milioni di dollari), Thomas Keller (150 milioni di dollari) che è uno dei sette chef ad aver ricevuto tre o più stelle Michelin negli Usa e che ha fatto da consulente per la Disney/Pixar nel film d’animazione Ratatouille, la chef star della tv Rachael Ray (100 milioni di dollari). Al nono posto troviamo Wolfgang Puck (90 milioni di dollari), chef austro-americano che non disdegna le apparizioni in televisione, e al decimo Emeril Lagasse (70 milioni di dollari), chef che ha conosciuto l’apice della fama negli anni 90. 

La classifica continua poi con Ina Garten (60 milioni di dollari), regina delle ricette in tv indicata dal Times tra le cento persone più influenti del mondo, David Chang (60 milioni di dollari), lo chef newyorchese dietro l'impero «Momofuku» che ha reso noto di essere bipolare, l’americano Bobby Flay (60 milioni di dollari), Vikram Vij (50 milioni di dollari) che è nato in India ma ha fatto successo in Canada, il californiano Guy Fieri (50 milioni di dollari), lo chef spagnolo José Andrés (50 milioni di dollari) che è anche il fondatore di World Central Kitchen, associazione che fornisce pasti alle persone colpite da disastri naturali o guerre come quella in Ucraina, lo chef-musicista anglo-giamaicano Levi Roots (45 milioni di dollari), Marco Pierre White (40 milioni di dollari) che è considerato un pioniere della nuova cucina britannica, la chef italo-americana Giada De Laurentiis (30 milioni di dollari) nota soprattutto come conduttrice di programmi di cucina su Food Network e Rick Bayless (30 milioni di dollari).

·        Lo Zucchero.

Hashtag. Quello che non tutti sanno dello zucchero. Claudia Saracco su L'Inkiesta l'8 Giugno 2022.

Da Hollywood alla Treccani, passando per le Americhe e Napoleone: il folle viaggio dei granelli che addolciscono la vita ci racconta storie meravigliose di dolcezza e amarezza. 

Raffinato Il primo trattamento chimico risale a circa 2500 anni fa, in India. La prassi di trattare lo zucchero si estese poi anche a Est verso la Cina e a Ovest verso la Persia e il mondo islamico, raggiungendo infine il Mediterraneo nel 1200

Carta Nel 1600, quando il concetto di packaging non esisteva, confezionare i prodotti significava semplicemente avvolgerli in fogli di carta. Questa accortezza era riservata alle merci di valore in quanto anche la carta era considerata preziosa: vi si avvolgeva per esempio il tabacco e lo zucchero, prodotto nelle lontane Americhe e venduto a peso ancora fino a metà Novecento. Per nascondere le imperfezioni cromatiche della carta venivano usati pigmenti naturali come il guado o l’indaco, ottenendo una nuance desaturata, tra l’azzurro e il grigio, conosciuta ancora oggi con il nome di carta da zucchero

Rara Per tutto il Medioevo è considerato una spezia rara e costosa esattamente come il sale e il pepe

Consistenze Secondo la Treccani, ci sono tredici varianti: in polvere, in grani, a quadretti, in pezzi, in zolle, in pani, a velo, vanigliato, pilato, filato, bruciato, d’orzo, liquido

173,7 milioni di tonnellate La produzione mondiale prevista per il biennio 2021/22 (dati Fao). Il Brasile è il primo paese produttore al mondo, l’India il maggiore consumatore

1 euro il costo medio al chilo

Bilancia Una tazza da caffelatte corrisponde a 170 grammi; un bicchiere di vino a 150; un cucchiaio colmo a 25; un cucchiaio raso a 15; un cucchiaino colmo a 8 (se fosse raso sarebbero 5). Una lattina da 33 cl di Coca Cola ne contiene 30, una quantità che corrisponde a circa nove zollette 

25 grammi La dose quotidiana consigliata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, circa 6 cucchiaini di caffè 

Napoleone Nel 1575 l’agronomo francese Olivier de Serres scopre che dalla barbabietola si può estrarre uno sciroppo simile a quello della canna da zucchero. La scoperta non ha grande seguito fino al blocco continentale del 1806 deciso da Napoleone Bonaparte che mette fine alle importazioni dall’Inghilterra. A questo punto la necessità di trovare un’alternativa allo zucchero di canna in arrivo dalle Americhe riporta in auge la scoperta di de Serres

Poesia «Un tempo si credeva che lo zucchero si estraesse solo dalla canna da zucchero, ora se ne estrae quasi da ogni cosa; lo stesso per la poesia, estraiamola da dove vogliamo, perché è dappertutto». Gustave Flaubert

Capitalismo Secondo l’antropologo Sidney W. Mintz, le prime vere fabbriche non sono quelle descritte da Marx in Inghilterra, bensì quelle create nei Caraibi per far fronte alla crescente richiesta di zucchero della classe operaia inglese. Secondo la ricostruzione di Mintz lo zucchero, disponibile via via a un prezzo sempre minore per la working class, è stato il vero motore del capitalismo

Bastoncini Uno dei simboli più iconici del Natale sono i candy cane, bastoncini di zucchero a strisce bianche e rosse popolarissimi negli Stati Uniti. Nel libro “Sweet as Sin: The Unwrapped Story of How Candy Became America’s Pleasu