Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

IL GOVERNO

QUARTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

GLI ANNIVERSARI DEL 2019.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

IL GOVERNO

INDICE PRIMA PARTE

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Storia d’Italia.

LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Per Nome e Cognome.

L’Unione Europea.

Il Piano Marshall.

Bella Ciao al 25 aprile.

Fondi Europei: il tafazzismo italiano.

Gli Arraffoni.

Educazione civica e disservizi.

Quello che siamo per gli stranieri.

SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Italioti antifascisti.

Italioti vacanzieri.

Italioti esploratori.

Italioti misteriosi.

Italioti Ignoranti.

Italioti giocatori d’azzardo.

Italioti truffatori.

Italiani Cafoni.

Italioti corrotti e corruttori.

Italioti ladrosi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Potere dà alla testa.

Democrazia: La Dittatura delle minoranze.

Un popolo di Spie.

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Il Capitalismo.

I Liberali.

Il Realismo.

Il Sovranismo - Nazionalismo.

I Conservatori. Cos’è la Destra?  Cos’è la Sinistra?  

Il Riformismo progressista.

Il Populismo.

Il solito assistenzialismo.

La Globalizzazione.

L’Italia è una Repubblica fondata sul debito pubblico.

Le Politiche Economiche.

Il Finanziamento ai partiti.

Ignoranti.

I voltagabbana.

La chimera della semplificazione nel paese statalista.

Il Voto.

Mafiosi: il voto di scambio.

Il Voto dei Giovani.

Il Voto Ignorante.

Il Tecnicismo.

L’Astensionismo: e la chiamano democrazia…

La Rabbia.

I Brogli.

I Referendum.

Il Draghicidio.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

La Campagna Elettorale.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Elezioni politiche 2022. Ennesima presa per il culo.

Le Votazioni ed il Governo.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quelli che…La Prima Repubblica.

Le Presidenziali.

Storia delle presidenziali.

La Legge.

Il Potere Assoluto della Casta dei Magistrati. 

I Top Manager.

I Politologi.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Traffico d’influenze.

La malapianta della Spazzacorrotti.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Impuniti.

Concorsopoli Vigili del Fuoco e Polizia.

Concorso truccato nella sanità.

Concorso scuola truccato.

Concorsi ed esami truccati all’università.

Ignoranti e Magistrati.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ignoranti ed avvocati.

SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Amministratori pubblici: Troppi sprechi e malagestio.

I Commissari…

Il Cnel ed Aran: Come sprecare un milione all’anno.

Spreco a 5 Stelle.

Le ali italiane.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

Bancopoli.

La Nascita dell’Euro.

Il Costo del Denaro.

Il Debito. Pagherò.

ConTanti Saluti.

Il Leasing.

I Bitcoin.

I Bonus.

Evasori fiscali!

L'Ingiunzione di Pagamento.

Bollette luce e gas, mercato libero o tutelato.

La Telefonia.

Le furbate delle Assicurazioni.

I Ricconi alle nostre spalle.

 

 

 

 

IL GOVERNO

QUARTA PARTE

 

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Una Costituzione fascio-catto-comunista.

Quante contraddizioni: la storia ipocrita scritta dai faziosi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 25 agosto 2022

È significativo che nel Paese in cui il giuramento antifascista costituisce un inevitabile lasciapassare di presentabilità democratica, e molto spesso per nobili consulenze e posti assicurati alla tramoggia repubblicana, nessuno dei dodici professori che rifiutarono il giuramento di fedeltà al regime fascista sia considerato un padre della Patria Bella Ciao. Non uno di quelli (dodici su oltre mille) che rifiutarono di impegnarsi in quella dichiarazione di fedeltà, e dunque di apprestarsi a "formare cittadini operosi, probi e devoti alla Patria ed al Regime Fascista", figura mai negli elenchi della retorica resistenziale dell'Italia incorrotta che si opponeva alla dittatura: e anzi a illustrarne i meriti e le gesta sono tanti che il giuramento invece prestarono, o altri fervorosi del 26 Aprile già fieramente impegnati nei cimenti a difesa della razza.

Questa non casuale contraddizione denuncia meglio di tante altre, che pure contrassegnano l’improbabilità di tanto antifascismo di regime, il carattere sostanzialmente contraffattorio e ipocrita della storia scritta in piega partigiana. E la Repubblica fondata sull’antifascismo prevede la messa in dannazione di quei pochi, la cui sparuta testimonianza è meglio non sia rammentata (figurarsi onorata) perché bestemmia sulla verità falsa di un regime piovuto non si sa come né perché sulla testa di una nazione portata a manganellate a riempire le piazze cui si annunciava l’ora delle decisioni irrevocabili. Domandatea un candidato progressista con mostrina “antifa”, a un libero docente dell’Italia imbarbarita e fascisticizzata per la mancata approvazione del Ddl Zan, a un cronista democratico specializzato nel reportage da Predappio, domandategli i nomi di quei dodici. E buon divertimento. 

Niccolò Zancan per “la Stampa” il 24 Agosto 2022

Adesso è chiaro: non è una mostra che può lasciare indifferenti. «Mi dispiace molto per quello che sta emergendo sull'esposizione dal titolo O Roma o morte. Un secolo dalla marcia», dice il sindaco di Predappio Roberto Canali, eletto 3 anni fa con una lista di centrodestra. 

«Fin dall'inizio, l'impatto della mostra non mi convinceva. Trovo molto brutto quel manifesto e non so valutare nel merito l'allestimento. Mi dispiace per le minacce e mi dispiace anche perché non bisogna venire a Predappio con le intenzioni sbagliate.

Il fatto è che non ho margini di intervento. Quello è un luogo privato, un bar riadattato. Gli organizzatori hanno chiesto al Comune solo un cambio di destinazione d'uso. Così la mostra è qualcosa che sfugge a qualsiasi tipo di giurisdizione».

Forse è per questo che attira vecchi e nuovi fascisti, e che le pagine del registro delle presenze sono piene di parole che inneggiano al Duce. Prende le distanze il sindaco di Predappio. Prende le distanze uno dei nomi più importanti che stanno nel manifesto pubblicitario. «Il simbolo di San Patrignano non doveva essere su quel cartellone, avevamo diffidato gli organizzatori dall'usarlo» spiega Giorgia Gianni, responsabile delle relazioni esterne. Invece il nome è rimasto. All'ingresso della mostra e su tutti i volantini. «Non lo sapevamo. Informeremo il nostro ufficio legale». 

E se gli organizzatori della mostra sul fascismo, il professor Franco D'Emilio e l'avvocato Francesco Minutillo, già fascista dichiarato a sua volta, sostengono di aver ricevuto diversi inviti in giro per l'Italia, ecco una pioggia di smentite. «L'Università la Sapienza di Roma non ha in programma di ospitare la mostra, iniziativa di cui l'Ateneo non è a conoscenza». Così come non ne vuole sapere lo storico direttamente chiamato in causa dagli organizzatori, il professor Giuseppe Parlato: «Smentisco nettamente qualsiasi mio coinvolgimento».

A questo punto resta da domandare ai due organizzatori il perché di questa "appropriazione indebita". Risponde D'Emilio: «Mi stupisce la presa di posizione di San Patrignano, perché ero presente durante i colloqui per il patrocinio. E il fatto che finora non abbiamo mai adito a vie legali è significativo». Ma come avete potuto chiamare in causa addirittura La Sapienza e un professore di Storia? «La proposta ci è stata sottoposta da un commercialista romano di nome Marchetti, in stretto contatto con la fondazione Ugo Spirito, il cui presidente è». Non sarà facile portare in giro per l'Italia la mostra della vergogna. 

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2022.

Con il taglio dei parlamentari il 25 settembre cambierà la storia della politica italiana. Ma quella che rappresenta a tutti gli effetti una svolta epocale non sarebbe che una «riforma per caso». Almeno, stando al racconto di un autorevole ministro, presente anche ai tempi del Conte due e testimone di un episodio che cambia radicalmente la narrazione sull'epopea giallorossa e sul provvedimento bandiera del grillismo. 

Il ministro ricorda come a metà di ottobre del 2019, dopo che il Parlamento aveva definitivamente approvato la riforma, al termine di una riunione di governo si fermò a parlare con l'allora sottosegretario alla presidenza del Consiglio Fraccaro: «Che errore avete fatto», gli disse riferendosi alla riduzione dei parlamentari. E il grillino rispose a bruciapelo: «Ma chi poteva immaginare che il Pd l'avrebbe fatto passare così». 

È vero, in estate il «taglio» era stato il cuore dell'intesa tra il Movimento e i Democratici per formare un governo e sbarrare la strada delle urne a Salvini. Ma tutto lasciava supporre che - prima dell'ultimo passaggio della riforma in Parlamento - i dem avrebbero chiesto il varo dei correttivi necessari a garantire la tenuta del sistema: dalla modifica dei regolamenti per Camera e Senato fino alla legge elettorale proporzionale. 

Insomma, si sarebbe andati per le lunghe. E se non si fosse arrivati alla fine del percorso, i dirigenti di M5S - come riconosce oggi uno di loro - già ipotizzavano di sventolare quella bandiera nella successiva campagna elettorale, «un po' come la sinistra aveva fatto per vent' anni con il conflitto d'interessi contro Berlusconi». 

Invece no. Il Pd, che per tre volte aveva votato contro la riforma, alla quarta cambiò posizione. Non senza mal di pancia interni. In pochi in Parlamento si opposero a quella «mutilazione della Costituzione», come disse al Senato Bonino, allora anche a nome di Azione. Sarà stato per il fatto che all'epoca Conte era considerato il «punto di riferimento» del progressismo, ma nel Pd fu il solo Guerini - durante un dibattito politico in una riunione di governo - ad esprimere il suo dissenso.

Certo in quella sede non si segnalò in suo sostegno il ministro del Sud Provenzano, compagno di partito, che l'altro giorno in un'intervista al Corriere ha di fatto sottolineato gli effetti negativi della riforma. Il titolare della Difesa invece rese pubblica la sua posizione nell'estate del 2020, quando si avvicinava il referendum ma dei «correttivi costituzionali» e della proporzionale non c'era traccia: «Non c'è una nuova legge elettorale, non c'è un nuovo sistema bicamerale. Così com' è questa è solo una concessione alla demagogia».

Il 21 settembre però la «demagogia» stravinse con il 70% di «sì»: all'epoca i tardivi ripensamenti di Berlusconi e Renzi, che condannarono la «riduzione della democrazia in Parlamento», furono sommersi dal coro (quasi) unanime a favore di una riforma che - per dirla con Di Maio - avrebbe fatto «risparmiare soldi» e garantito «leggi scritte meglio». 

Da allora sono passati due anni e due governi, ma le modifiche sono rimaste come le opere pubbliche: incompiute. La riforma dei regolamenti parlamentari è stata varata solo a Palazzo Madama, con rischi elevatissimi nella prossima legislatura per l'iter dei provvedimenti e per la stessa vita del futuro governo.

Non è stata ridotta la quota dei delegati regionali per l'elezione del presidente della Repubblica, indispensabile per compensare il taglio di deputati e senatori. Non è stato modificato il conteggio su base regionale dei voti per l'elezione alla Camera Alta. E non è stata cambiata la legge elettorale, perché quando Letta sostituì Zingaretti al Nazareno accettò l'invito della «orbániana» Meloni ad Atreju e lì affossò il proporzionale per rilanciare il Mattarellum. 

Così la riforma nata per «caso» affida ora al caso la tenuta del sistema, tra il silenzio di chi avrebbe potuto far sentire la propria voce e l'ammissione di colpa di alcuni dirigenti democrat, consapevoli che il «taglio» era stata solo una folgorazione sulla via di Palazzo Chigi: «Siamo un partito di atei praticanti». Ai quali verrà più complicato intestarsi la battaglia per difendere la «Costituzione più bella del mondo» dagli attacchi della destra. «Perché finora è stata la sinistra a cambiare la Carta. E lo ha fatto sempre in peggio», ha detto il costituzionalista Celotto presentando il suo romanzo Fondata sul lavoro: «Prima modificò il Titolo V per inseguire i leghisti.

Ora lo ha fatto con il taglio dei parlamentari per inseguire i grillini». «Lo avete fatto voi», ha detto Letta ai compagni di partito dopo lo scontro sulle liste. Vuol dire che il segretario del Pd è contrario alla riforma?

Com'è cambiato il ruolo del Quirinale. Da Pertini a Mattarella, il presidenzialismo di fatto del Quirinale. David Romoli su Il Riformista il 16 Novembre 2022

Forse non era possibile ricorrere a nessun altro espediente per evitare che la crisi tra Italia e Francia si avvitasse sino a raggiungere il punto di non ritorno ma la formula adottata dai presidenti Mattarella e Macron non è affatto insignificante o effimera. Il capo del governo italiano è stato bypassato dal presidente della Repubblica che ha svolto un vero e proprio ruolo di supplenza arrogando a sé, almeno sul piano della diplomazia, prerogative proprie del governo, del premier e del ministro degli Esteri. È un passo ulteriore su un sentiero imboccato molti decenni fa, prima con passi piccolissimi poi sempre più decisamente, sino a creare una sorta di presidenzialismo non dichiarato ma effettivo.

Quando sono cambiate le cose? Quando è iniziato a mutare strutturalmente pur se mai formalmente il ruolo del Colle? Forse con Sandro Pertini, capo dello Stato dal luglio 1978 al giugno 1985, il presidente socialista ed ex partigiano che non la mandava a dire, esprimeva critiche corrosive nei confronti della politica dei governi, come nel caso del terremoto in Irpinia del 1980. Prima di lui gli inquilini del Quirinale non erano stati, come da leggenda, privi di ogni potere. In compenso avevano fatto il possibile per sembrarlo, mantenendo il profilo basso, sforzandosi di apparire anonimi. Pertini rovesciò quella logica. Fu presenzialista e mattatore sino a incarnare agli occhi degli italiani un “contropotere” che fustigava il malcostume del potere politico. Pertini, il primo presidente protagonista, fu eletto pochi mesi dopo quell’uccisione di Moro che segnò l’inizio della fine per la prima Repubblica ed è difficile pensare che tra l’avvio del declino dei partiti e l’ascesa del Quirinale negli equilibri istituzionali non ci sia una correlazione diretta.

Dopo Pertini, Francesco Cossiga per cinque anni sembrò tornare all’abituale invisibilità propria dei presidenti del passato: grigio e anonimo, quasi burocratico. Poi qualcosa cambiò e Cossiga impugnò il piccone. Se Pertini il socialista aveva sferzato, Cossiga il democristiano demolì e smantellò a colpi di denunce fragorose e gesti spettacolari. Sfruttò da maestro la visibilità che l’alto ruolo gli garantiva per delegittimare dalle fondamenta un sistema che riteneva ormai appassito. I fatti dimostrarono che non era lontano dal vero. Oscar Luigi Scalfaro, democristiano di prima ma non primissima fila, arrivò fortunosamente al Colle nel maggio 1992, imposto quasi dal trauma nazionale della strage di Capaci. Fu eletto in fretta e furia dopo un lungo stallo anche perché la sua intera biografia sembrava garantire che avrebbe rimesso le cose a posto, riportando alla “normalità” il ruolo del capo dello Stato. Probabilmente era quel che davvero intendeva fare. Le circostanze e la forza delle cose decisero diversamente. Tangentopoli, il referendum del ‘93 sulla legge elettorale che diede alla prima Repubblica l’estrema unzione, l’improvvisa e travolgente entrata in scena di Silvio Berlusconi gli assegnarono un protagonismo diretto del quale nessun presidente prima di lui aveva goduto. Pertini e Cossiga avevano rivoluzionato l’immagine del primo cittadino: Scalfaro trasformò la sostanza.

La finanziaria del 1992, forse la più importante nella storia della Repubblica, fu letteralmente scritta da lui e dal premier Giuliano Amato senza neppure consultare gli ormai agonizzanti partiti. La manovra che rovesciò il governo Berlusconi dopo appena 9 mesi dalla folgorante vittoria nelle elezioni del marzo 1994 non sarebbe stata possibile senza l’attiva complicità del presidente che si impegnò con Bossi a non sciogliere le Camere se la Lega avesse tolto la fiducia al governo, lo incontrò, dietro sua richiesta, nelle stesse stanze del Quirinale, convinse e quasi costrinse Berlusconi ad accettare un nuovo premier, Lamberto Dini, dopo la caduta del suo governo in dicembre. Dopo Scalfaro il ruolo del Quirinale non sarebbe comunque potuto tornare quello di prima, salvo che in presenza di un sistema dei partiti forte, solido, basato sulla legittimazione reciproca dei diversi schieramenti. La realtà era opposta e dopo la parentesi Ciampi, l’unico presidente vecchio stile degli ultimi decenni, Giorgio Napolitano portò il processo iniziato da Scalfaro alle estreme conseguenze. Il primo presidente ex comunista aveva già di suo una concezione estremamente interventista del ruolo istituzionale che iniziò a ricoprire nel maggio 2006. Il quadro nazionale e internazionale, la delegittimazione del governo Berlusconi dopo la nuova vittoria del 2008, la grande recessione iniziata nello stesso anno, la crisi del debito del 2011, rafforzarono le sue tendenze. Rispetto a Scalfaro, Napolitano poteva poi contare su un controllo di fatto assoluto sul partito da cui proveniva, i Ds diventati nel 2008 Pd.

Napolitano è stato un monarca costituzionale più che un presidente repubblicano. Ha imposto una guerra, quella contro la Libia, ha cambiato un governo, quello di Berlusconi sostituito con il tecnico Monti nel 2011, ha fatto muro contro ogni ipotesi di scioglimento anticipato delle camere, convincendo nel 2010 Fini a posticipare di un mese il voto sulla sua mozione di sfiducia contro Berlusconi e dando così allo stesso Cavaliere il tempo di acquisire i voti necessari per resistere, ha condizionato a fondo le alleanze del Pd, è stato il primo presidente rieletto nella storia italiana e in cambio della sua disponibilità a non lasciare il Colle al termine del mandato, nel 2013, ha imposto la nascita di un governo sostenuto sia dal Pd che da Forza Italia. Re Giorgio.

Sergio Mattarella, animato da un’idea da un’idea opposta del ruolo istituzionale del Quirinale, avrebbe probabilmente voluto tornare a uno stile più sobrio, molto meno interventista. Non c’è riuscito e non poteva riuscirsi in una democrazia parlamentare che è ormai tale solo di nome, con un sistema dei partiti devastato e in ginocchio, nel cuore di una conclamata crisi di sistema. Napolitano era stato re e presidente volendolo essere, Mattarella lo è senza volerlo ma anche senza poterlo evitare. La rielezione di Napolitano, comunque rimasto in carica solo per due anni nel secondo mandato, poteva ancora essere un’eccezione. Quella di Mattarella nel 2022 ha il sapore di una nuova norma. In un quadro simile non ha molto senso chiedersi se la supplenza esercitata da Mattarella per risolvere una crisi minacciosa con la Francia è stata o no una forzatura. Converrebbe prendere atto di una trasformazione che si è operata nel tempo persino contro le intenzioni di quelli che la hanno veicolata, come nei casi di Scalfaro o dello stesso Mattarella, e decidersi a farne un assetto istituzionale ordinato, invece di restare in quella che è oggi una terra di nessuno. David Romoli

Il confuso dibattito sulle riforme. Presidenzialismo, come funziona il modello francese: la flessibilità e il governo di minoranza. Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Dopo la generica proposta presente nella bozza di programma del centro destra di “Elezione diretta del Presidente della Repubblica”, il che implica una modifica importante della forma di governo parlamentare in vigore in Italia dal 1948, si è aperto sui giornali un utile dibattito a questo proposito. Con il termine presidenzialismo s’intendono in realtà regimi politici molto diversi fra di loro. Non basta, tanto per cominciare, l’elezione diretta del presidente della Repubblica da parte dei cittadini per qualificare una forma di governo come presidenziale e la confusione introdotta nel linguaggio costituzionale dal termine semipresidenzialismo non aiuta a capire con chiarezza di cosa si sta parlando.

Uno sguardo all’esperienza francese può aiutare probabilmente ad arricchire la discussione che si è aperta, accanto alle utili osservazioni che sono state già presentate sul tema in generale da Gustavo Zagrebelsky, Sabino Cassese e Luciano Violante. Le note che seguono non sono di per sé una difesa della importazione di un modello che si è affermato in un paese con una storia politica molto diversa dalla nostra. I trasferimenti di istituzioni non sono facili, ma nemmeno impossibili, per essi vale la precauzione, handle with care! Come conseguenza delle elezioni legislative dello scorso giugno, il sistema politico-costituzionale francese si è trovato in una situazione inabituale. Ensemble, cioè l’insieme delle forze politiche vicine a Emmanuel Macron, rieletto per la seconda volta in aprile alla presidenza della Repubblica, non ha ottenuto, come sperava, la maggioranza assoluta all’Assemblea nazionale, ma solo quella relativa, una condizione che rende difficile l’attività legislativa, in un paese che per la sua struttura per certi versi presidenziale e per la sua legge elettorale non è abituato ai governi di coalizione e ai compromessi fra partiti dopo le elezioni.

Si tratta di un caso con un solo precedente, ovvero il governo del socialista Michel Rocard che nel 1988 non poté appoggiarsi su una maggioranza assoluta, alla quale mancavano 14 voti. Spesso, però, il presidente francese ha potuto godere di una maggioranza piena a suo favore in seno all’Assemblée nationale, il fondamentale organo legislativo, nei confronti del quale il Senato non può esercitare un diritto di veto. In caso di coabitazione, che si è prodotta in tre occasioni in passato (fra il 1986 e il 2002), quando il presidente ed il primo ministro erano espressione di opposte maggioranze, quella dell’Assemblea era diretta dal primo ministro, il che riconduceva fino ad un certo punto la forma di governo a quella di tipo parlamentare. Le tre diverse versioni dell’ordinamento politico e della forma di governo francese appena considerate si spiegano con la natura e la storia della costituzione della 5a Repubblica.

Il testo originario del 1958– nonostante l’ostilità di Charles De Gaulle su questo punto – presentava una struttura parlamentare, razionalizzata rispetto al parlamentarismo debole e instabile della 4a repubblica. Si potrebbe dire che Michel Debré diede realizzazione alle attese dell’ordine del giorno di Perassi del 4 settembre 1946, da noi mai soddisfatte. Struttura parlamentare, dicevamo, poiché il presidente della costituzione francese del 1958 non era eletto dai cittadini, ma, indirettamente, da 82000 grandi elettori (cioè i parlamentari, i consiglieri regionali e quelli municipali: basti pensare del resto che la Francia conta su 36mila comuni). È solo con il referendum popolare, di dubbia legalità costituzionale, voluto da De Gaulle nel 1962 che è nata quella forma di governo nota con l’espressione ambigua di semi-presidenzialismo.

In realtà si trattava di un ordinamento che poteva e ha assunto in diverse occasioni per lo più due forme: quella in cui il capo dello Stato eletto direttamente era di fatto il capo dell’esecutivo, nonostante la presenza di un primo ministro da lui scelto e da lui sostituibile, o, alternativamente, quella – che va, come ricordato, sotto il nome di coabitazione – in cui il primo ministro, espressione di una maggioranza diversa da quella che aveva eletto il presidente della Repubblica, era in realtà il capo del governo, responsabile solo dinanzi alla sua maggioranza, mentre il presidente – in base ad una convenzione costituzionale – aveva una specie di quasi monopolio della politica estera. La cosiddetta coabitazione era resa possibile dalla circostanza che mentre il mandato presidenziale era di sette anni quello dei membri dell’Assemblea era di cinque.

Esisteva, dunque, la possibilità che la maggioranza del corpo elettorale cambiasse opinione nel lasso di tempo che separava le elezioni presidenziali da quelle legislative o dopo uno scioglimento della Assemblea da parte del presidente. Fu proprio per evitare il ripetersi di coabitazioni, che limitavano di fatto decisamente i poteri del presidente, che Chirac promosse nel 2000 la riforma costituzionale che ha ridotto a cinque anni il mandato presidenziale e poi, nel 2002, accorpato le elezioni presidenziali e le legislative, che hanno ormai luogo subito dopo quelle del presidente della Repubblica. Si poteva contare, grazie al nuovo calendario elettorale, su un effetto di trascinamento che doveva garantire alla maggioranza del presidente eletto il controllo dell’assemblea e la nomina di un primo ministro politicamente vicino e in certa misura subordinato al presidente. Così è accaduto infatti in tutte le elezioni dopo il 2002.

Fino al giugno scorso, quando i risultati elettorali hanno prodotto una assemblea divisa per l’essenziale in tre parti: la destra nazionalista di Marine Le Pen, che era stata sconfitta alle presidenziali, ma il cui partito, il Rassemblement national ha conquistato ben 89 seggi, la coalizione delle sinistre radicali (Nupes) fondata da Jean-Luc Mélenchon, 151 seggi e la coalizione macronista 250, lontana dai 289 necessari per ottenere una maggioranza assoluta. Ma la costituzione della 5a repubblica permette oltre alla coabitazione (il governo di una assemblea di un colore diverso da quello del presidente), e al super-presidenzialismo (quando il presidente controlla l’assemblea grazie alla sua maggioranza) anche una terza versione: il governo di minoranza, nella misura in cui il primo ministro è in grado di trovare dei compromessi con i parlamentari al di là della propria maggioranza relativa.

Questa è la situazione in cui si trova ad operare il primo ministro Elisabeth Borne e il suo esecutivo, mostrando per ora una certa capacità di mediazione ed efficacia legislativa. Grazie alla presenza nell’assemblea di 62 deputati del partito post-gollista (Les Républicains), che a differenza delle ali estreme sembrano disposti a fare dei compromessi e contribuire all’attività legislativa. Il ruolo della destra repubblicana è reso più rilevante dal fatto che essa controlla tradizionalmente il Senato, che pur non eletto direttamente dai cittadini e privo di un potere di veto assoluto, ha una influenza nel processo legislativo, in particolare attraverso la proposta di emendamenti. L’assenza di una maggioranza presidenziale assoluta, e dunque un governo di minoranza con l’appoggio esterno della destra non radicale sui singoli provvedimenti di legge, sembra permettere di evitare la paralisi legislativa e il rischioso ricorso a nuove elezioni, che il presidente francese ha sempre la possibilità di indire.

Nei prossimi mesi sarà possibile valutare i progressi del governo di Elisabeth Borne che ha già ottenuto l’approvazione di un pacchetto di misure relative all’aumento del costo della vita provocato dall’inflazione. Questo sembra testimoniare la flessibilità della costituzione francese, che pure era poco abituata in passato ai compromessi fra forze politiche. Flessibilità qui nel senso di capacità di adattarsi senza rompersi a forme diverse che assume l’ordine politico in base ai risultati delle elezioni. In realtà riemerge la versione parlamentare della costituzione del 1958. In conclusione, se, come qualcuno ha proposto, si vuole imitare il modello francese, bisogna prima ben capire il prodotto di importazione.

Renato Mannheimer, Pasquale Pasquino

Elezione diretta del premier? Un pasticcio che fa saltare la Costituzione. "Scegli il sindaco d’Italia": una riforma siffatta manderebbe in malora almeno tre capitoli essenziali dell’attuale modello costituzionale. Giuliano Cazzola su Il Dubbio il 26 agosto 2022.

A me la Costituzione repubblicana va bene come è, anzi come era prima delle modifiche che ha dovuto subire nel corso dei decenni, dalla sciagurata riforma del Titolo V fino alla potatura delle Camere. Sono inoltre convinto che le Carte Costituzionali vivano di vita propria – come tutte le norme – ed evolvano insieme alla storia di un paese. A questo proposito si potrebbero scrivere dei trattati su come le istituzioni del 1948 contenevano in sé ampi margini di interpretazione adeguata al trascorrere dei tempi e dei processi politici, senza per questo venir meno ai dispositivi delle norme. Infine, trovo stupido affidare ad una complessa procedura parlamentare quella maggiore efficienza del sistema che potrebbe essere risolto attraverso i regolamenti delle Camere. En passant, ritengo che la parte maggiormente datata non sia la seconda, ma la prima, in cui si avverte – specie nella Sezione dei Rapporti economici – il peso delle ideologie dei partiti di allora, tanto che nessuno degli attuali, riscriverebbe adesso quelle stesse norme come allora. La questione della riforma costituzionale è entrata nel dibattito elettorale e pertanto merita qualche commento, anche da parte di chi non la ritiene necessaria, se non per correggere, tutt’al più, i vulnus che la Carta ha dovuto subire.

Preliminarmente occorre mettere qualche puntino sulle ‘’ i’’. Innanzi tutto va chiarito che il centrodestra non propone il ‘’presidenzialismo’’, ma l’elezione diretta a suffragio universale del Capo dello Stato. Si tratta di modelli istituzionali radicalmente diversi, almeno sul piano teorico. In un regime presidenzialista, il presidente è eletto ed è contemporaneamente capo dello Stato e dell’ Amministrazione, in una logica accentuata di divisione dei poteri. Nel caso classico degli Usa, si accompagna con il federalismo, come diretta ispirazione dei grandi costituzionalisti del Secolo dei Lumi. Invece, l’elezione diretta del Capo dello Stato è assolutamente compatibile nel contesto di un regime parlamentare. L’elezione popolare diretta del Capo dello Stato è` presente nella grande maggioranza dei Paesi europei: Austria, Irlanda, Islanda, Portogallo, Finlandia, Francia (sia pure con la caratteristica del semi- presidenzialismo), senza contare i nuovi Stati dell’Europa centro- orientale come Polonia, Romania, Bulgaria ed altri. Laddove questo tipo di elezione non è contemplata di solito vige un regime monarchico. Ma c’è di più. Se si aprissero gli armadi di tanti partiti si troverebbero gli scheletri dell’elezione diretta del capo dello Stato, ivi rinchiusi in diverse stagioni politiche. E’ appena il caso di ricordare che nel testo di legge costituzionale presentato il 4 novembre 1997 dalla Commissione bicamerale presieduta da Massimo D’Alema – il punto più alto a cui arrivò l’intesa tra i partiti – era prevista l’elezione popolare diretta a suffragio universale – eventualmente su due turni – del Capo dello Stato. Relatore sul punto fu Cesare Salvi, il quale scrisse: “Si può dunque, affermare che l’elezione diretta del Capo dello Stato è il sistema più diffuso in Europa, e che non ha dato luogo a degenerazioni plebiscitarie o a pericoli per la tenuta democratica del sistema istituzionale. Non si comprende dunque perché solo l’Italia, e con essa il popolo italiano, dovrebbe fuoriuscire dal quadro europeo dominante; né credo si possa dire che l’elettorato italiano, in cinquant’anni di elezioni politiche e di referendum, abbia mai dato prova di comportamenti irrazionali o si sia mostrato facile preda di suggestioni demagogiche”.

Non parliamo poi dell’altro punto che fa parte del compromesso raggiunto all’interno della coalizione di centrodestra: l’autonomia delle Regioni. Il dibattito sul federalismo ha attraversato intere legislature (l’unica riforma in tal senso è attribuibile all’iniziativa solitaria del centrosinistra) con tutti i maggiori partiti tentati da un’operazione che intendeva spartirsi i consensi raccolti dalle Lega nel Nord del Paese. La richiesta dell’autonomia differenziata fu sostenuta anche dall’Emilia Romagna. Trovo invece inaccettabile – nonostante le mie simpatie per il Terzo Polo – la proposta della elezione diretta del premier. E’ il recupero di una vecchia idea di Mario Segni – uno dei più grandi sopravvalutati della storia contemporanea – che si riassumeva nella seguente formula. “Scegli il sindaco d’Italia’”. Una riforma siffatta manderebbe in malora almeno tre capitoli essenziali dell’attuale modello costituzionale: il Parlamento, il governo e il presidente della Repubblica. Infatti nessuno può pensare che l’operazione potrebbe limitarsi ad eleggere un “pinco pallino” che poi deve andare a cercarsi una maggioranza. Il modello del premierato, su cui si basa l’elezione del sindaco e dei presidenti delle Regioni, pone in ruolo secondario l’assemblea elettiva la cui composizione è condizionata dall’esigenza di assicurare una maggioranza all’eletto la cui vitalità è alla mercé (nel senso del classico simul stabunt, simul cadent’) del capo dell’esecutivo il quale peraltro dispone a sua discrezione della nomina dei titolari delle cariche di governo. Non esiste – che io sappia – in nessun angolo del pianeta una Repubblica delle banane che organizzi in questo modo le sue istituzioni, subordinando il potere legislativo al governo. Se questa fosse la soluzione, tanto varrebbe abolire la carica del Capo dello Stato e ripristinare una dinastia regnante.

Reazioni viscerali all'idea del presidenzialismo. Il presidenzialismo e i prigionieri di una Costituzione fatta con le regole del poker. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 21 Agosto 2022 

Perché il presidenzialismo in Italia e soltanto in Italia provoca delle reazioni profonde e con un alito da guerra civile? La ragione è semplice: la nostra Costituzione è stata concepita fondamentalmente per impedire che un nuovo Mussolini, o anche semplicemente un uomo dalla soverchiante personalità e capacità, potesse far ripetere all’Italia qualcosa di simile a ciò che era accaduto fra il 1922, quando Mussolini ricevette l’incarico di formare un governo di coalizione e il gennaio del 1926 con la disfatta dei deputati e senatori che per due amni si erano ritirati per protesta dell’Aventino.

La dittatura fascista in Italia fu una curiosa dittatura costituzionale, dal momento che il re come capo dello Stato fu coautore e complice di tutti gli atti del suo “capo del governo” (questa era la dizione usata) comprese le leggi razziali del 1938 e la partecipazione alla guerra tedesca. Anche l’epilogo della dittatura fu un unico nella storia. Il fascismo cadde formalmente e realmente in seguito ad un voto di sfiducia di un organismo costituzionale quale era il Gran Consiglio del Fascismo già incorporato nello Statuto Albertino. La guerra era stra-persa all’inizio dell’estate del 1943 e Mussolini era andato a incontrare Hitler per dirgli che non aveva più armi né mezzi, e chiedergli pezzi della contraerea perché era imminente il già annunciato (con la lanci di volantini) bombardamento su Roma. Hitler rispose che non poteva certo privare il suo esercito delle armi per difendere Roma e che se l’Italia si fosse arresa lui ne avrebbe compreso le ragioni ma avrebbe proceduto all’occupazione.

Il bombardamento avvenne il 19 luglio con aerei corazzati come navi e ben armati, dunque senza scorta di caccia, ed emerse la totale inabilità dell’aeronautica italiana di avvicinarsi ai bombardieri americani. Quello fu il momento atteso da Vittorio Emanuele e dai gerarchi dissidenti per presentare un ordine del giorno da discutere e votare con cui si sarebbe restituito al re il comando militare delle forze armate, esautorando Mussolini, il quale si presentò al Gran Consiglio depresso, con l’uniforme spiegazzata, con momentanei scatti d’ira, ma rassegnato. L’ordine del giorno passò, a tarda notte il duce tornò a Villa Torlonia rimproverato dalla moglie Rachele che gli dette dell’imbecille per non essersi comportato come avrebbe fatto Hitler, e al risveglio si vestì in abiti civili per andare a Villa Savoia dal re cui intendeva spiegare che non era successo nulla di grave, soltanto un malinteso.

Quando fu al cospetto del re e prima che potesse dire qualsiasi cosa il sovrano gli annunciò di averlo sostituito con il maresciallo Pietro Badoglio. Mussolini cadde di nuovo in una profonda depressione accasciato su un divano di vimini coperto di cuscini estivi. Chiese che ne sarà dei miei cari e il piccolo re gli disse di star tranquille, era già stata salvaguardata l’incolumità di tutti compresa la sua, di Mussolini, per il quale era pronta un’ambulanza piena di carabinieri per portarlo in un luogo sicuro, tacendo sul piccolo dettaglio che Mussolini era agli arresti. Il resto della storia non riguarda il tema del presidenzialismo ma quello che era accaduto all’inizio, durante la fine della dittatura costituzionale (ci fu poi il supplemento di dittatura repubblicana a Salò in cui Mussolini fui una marionetta di Hitler nell’Italia occupata) che era stata reale: nessun colpo di Stato all’inizio – la marcia su Roma del 1922 fu una fragorosa manifestazione di piazza concordata con la Corona – e nessun vero colpo di Stato alla fine – benché si trattasse evidentemente di un complotto – perché il fascismo italiano cadde su un voto di fiducia.

Quando si scrisse la nuova Costituzione l’Italia era sottomessa al potere politico e civile del principe Eugenio Pacelli col nome di Pio XII e poi al potere politico di chi aveva vinto la guerra: gli Stati Uniti rappresentati dalla Democrazia Cristiana e l’Unione Sovietica rappresentata dal Partito Comunista e anche dal Partito Socialista. Il risultato fu una Costituzione costruita in modo tale da scoraggiare o impedire l’avvento di qualsiasi leader dotato di un proprio potere personale. Si potrebbe dire che la nostra Costituzione è costruita con la mentalità delle regole del poker. Un gioco in cui teoricamente non puoi mai essere sicuro di avere in mano il punteggio più alto perché esiste sempre la possibilità di un punteggio maggiore del tuo. La dizione italiana “presidente del Consiglio dei ministri” non esiste in alcun’altra democrazia del mondo. Essa significa che il capo del governo è una specie di presidente dell’assemblea condominio che ha avuto l’incarico di trovare una maggioranza con cui formare un governo.

Un “presidente del Consiglio” (che non è un “capo del governo”, non è un “premier” o primo ministro non ha alcun potere di nominare o revocare ministri. Può proporli: va dal capo dello Stato e gli dice: Signor Presidente, avrei compilato, alla buona una lista di persone che mi sembrerebbero adatte. “Vedere?”, chiede il capo dello Stato non eletto dal popolo ma da un Parlamento che nel frattempo, è forse anche andato a casa. Riflette e poi dice: questo va bene, anche questo ma quest’altro non mi pare all’altezza e lo sostituirei con questo nome fidatissimo. E poi, andando più giù…. Questo accade in modi e tonalità diversi secondo l’umore e la personalità dei capi dello Stato. Nella preistoria della Repubblica erano tutti democristiani, sia il capo dello stato che del governo. I democristiani avevano bisogno di piattezza assoluta perché il loro patto interno prevedeva la rotazione degli scialbi e degli indifferenti.

Gli italiani una mattina accendevano la radio per il radiogiornale e apprendevano che questa mattina l’onorevole Mariano Rumor si è recato al Quirinale per rassegnare le dimissioni da Presidente del Consiglio dei ministri. Era tutto in famiglia. Sotto un altro. All’estero ridevano di noi, sbagliando: era sempre lo stesso governo di un unico organismo multicefalo in cui si praticava il rito voodoo dell’alternanza: un giorno a te, un giorno a me. I guai cominciarono quando politici non democristiani come Giovanni Spadolini o Bettino Craxi imposero che la Dc cambiasse gioco e cedesse occasionalmente la poltrona di Palazzo Chigi.

Ricordiamo benissimo che cosa accadde in Italia quando fu chiamato in servizio il generale Charles de Gaulle che quasi da solo aveva fatto la resistenza ai tedeschi piazzandosi a Londra dove non era simpatico a nessuno. Successe il finimondo in casa democristiana dove capirono che un sistema del genere avrebbe fatto a pezzi il potere della Dc. Una carovana di politici si mise in viaggio verso Colombay-Les-Deux-Eglises per chiedere al generale se avesse potuto scrivere una nuova Costituzione. Fu allora creata la storiella del collaboratore di De Gaulle che disse “Bisognerebbe fucilare tutti gli imbecilli” e De Gaulle sovrappensiero che rispose “Vasto programma”. Cominciò così la Quinta Repubblica che funziona – rispetto alla nostra – in maniera splendida e non troverete un solo francese, non importa quanto di destra o di sinistra, che abbia il minimo rimpianto per la vecchia Repubblica che era più o meno come la nostra attuale.

All’Eliseo si alternano conservatori come Giscard e progressisti come Mitterrand e in più, oltre al Presidente che governa, c’è anche, come ai tempi del re, un suo primo ministro che nessuno si ricorda mai come si chiama. In Italia una tale discussione è scoraggiata a priori. Si considera chi parla bene del presidenzialismo, di una delle tante forme possibili, come di un poco di buono, un mascalzone con probabili ambizioni cesaree, un nuovo duce, o Führer, o conducator, o Volodia (Stalin) o Grande Timoniere (Mao), in ogni caso, uno che evoca la metafora di colui che guida: nei tram tedeschi resiste la scritta “Non parlare al Fuhrer”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Sabino Cassese: "Presidenzialismo? La Carta costituzionale si cambia solo con cautela". Raffaella De Santis su La Repubblica il 7 luglio 2022.

Siamo di fronte a un passaggio epocale? Sabino Cassese, grande giurista, ex giudice della Corte costituzionale e professore emerito alla Scuola Normale Superiore di Pisa, il cui nome era stato fatto anche come possibile presidente della Repubblica, non chiude preventivamente le porte alla possibilità di una riforma della Carta costituzionale in senso presidenzialista, ma naturalmente ricorda ciò che fa di una democrazia una democrazia: "Lo spirito è sempre quello ispirato da Montesquieu nell'Esprit des Lois: poteri che bilanciano altri poteri".

I costituzionalisti sono già divisi "Serve una norma" "No, il presidente può lasciare subito". Le polemiche della sinistra non aiutano il dibattito su questioni così cruciali. Il passaggio di consegne tra sistemi potrebbe avvenire in più modi. Francesco Boezi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il presidenzialismo, per alcune forze politiche, resta un tabù, ma tra i giuristi italiani sembra tirare un'altra aria. In relazione alla polemica costruita ad arte da sinistra sulle parole che il presidente Silvio Berlusconi ha pronunciato sul futuro istituzionale del Belpaese, Michele Ainis si è espresso così, parlandone con l'Agi: «Nei giorni scorsi ho scritto un articolo I partiti e il presidente nel quale credo di essere stato il primo e l'unico a fare presente ciò che, con tutt'altro effetto politico, ha spiegato Berlusconi, ma è una ovvietà: se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l'immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l'ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum». Insomma, la bufera sollevata da sinistra ha poco senso d'esistere.

Per il professor Giovanni Guzzetta, sentito dal Giornale, dipende tutto dal quadro normativo: «Credo che questa campagna elettorale stia purtroppo affrontando temi delicati quali le riforme istituzionali e costituzionali in maniera polemica. Invece bisognerebbe porre queste questioni in modo serio - premette - . Per quanto riguarda il presidenzialismo, il legislatore che dovesse approvare una riforma così delicata, dovrebbe porsi il problema delle norme che accompagnerebbero la riforma». Poi la spiegazione sull'eventuale passaggio da questo sistema a quello presidenziale: «Tra queste, potrebbe essere prevista una disciplina transitoria. Una riforma così può essere fatta in molti modi. Chiaro che sarà la norma a determinare tempi e modi. Poi ovviamente, se così prevederà la legge, quando la riforma entrasse in vigore e venisse eletto un diverso presidente, il precedente, qualora ancora in carica, cesserebbe dal mandato». Ovvio ma a quanto pare non per tutti. Per il professor Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale che si è più volte soffermato sul presidenzialismo, bisognerebbe guardare al pregresso: «Abbiamo due precedenti di modifiche costituzionali - ha dichiarato al Giornale - che toccavano l'una la durata in carica di titolari di funzioni pubbliche, l'altra il numero dei titolari. Mi riferisco alle leggi costituzionali numero 2 del 1963 e numero 1 del 2020. La prima ha ridotto la durata dei membri del Senato da 6 a 5 anni. La seconda ha ridotto il numero dei parlamentari da 945 a 600. L'una e l'altra norma costituzionale hanno disposto espressamente l'applicazione della modifica alla legislatura successiva». Il giudice emerito ha proseguito: «In materia costituzionale i precedenti hanno un'importanza fondamentale. Quindi si può concludere che una norma che modifichi in qualche modo la disciplina della scelta o dei poteri del presidente della Repubblica debba contenere anche una norma che pospone l'applicazione concreta al termine del mandato del titolare in carica». Alfonso Celotto, altro costituzionalista, ha riconosciuto la natura dicotomica del momento: «La riforma migliorerebbe il nostro sistema - ha annotato - , consegnandoci una forma di governo più stabile. Il punto è capire come procedere, perché il legislatore di riforma costituzionale può operare in più modi. Facciamo il caso della riforma del taglio dei parlamentari: abbiamo concluso la legislatura con il vecchio assetto, pur sapendo che a breve sarebbe cambiato molto. Ripeto: dipende dal legislatore. Ma è campagna elettorale, è normale e non vedo problemi: il presidenzialismo è un argomento che divide». L'approvazione del presidenzialismo modificherebbe nel profondo l'assetto istituzionale che conosciamo. La discussione del legislatore potrebbe anche vertere su tempi e modalità, ma non c'è dubbio sulla portata storica di una riforma che accompagna il centrodestra sin dalla sua nascita.

Da corriere.it il 12 agosto 2022.

«Elezione diretta del presidente della Repubblica». Recita così il primo punto del terzo capitolo di proposte del centrodestra in vista delle Politiche del 25 settembre. I tre leader della coalizione Giorgia Meloni, Matteo Salvini e Silvio Berlusconi puntano su una riforma della Costituzione che superi la Repubblica parlamentare — «La sovranità appartiene al popolo», recita l’articolo 1 della Carta, che esprime la sua volontà eleggendo il Parlamento — e preveda invece una Repubblica presidenziale. Una proposta che — complici le parole del leader di Forza Italia (per Berlusconi «con il presidenzialismo Sergio Mattarella dovrebbe dimettersi») — ha già scatenato la polemica politica. Ma che cos’è nello specifico il presidenzialismo e cosa significherebbe per l’Italia? 

La forma di governo

La Repubblica presidenziale, o il presidenzialismo, è una forma di governo in cui il potere esecutivo si concentra nella figura del presidente che è sia il capo dello Stato sia il capo del governo: una figura eletta direttamente dai cittadini che ha il compito di formare il governo. 

Essendo capo di Stato, il presidente non ha bisogno di un voto di fiducia parlamentare perché, avendo già ottenuto il voto della maggioranza dei cittadini non necessita della legittimazione dei loro rappresentanti. 

Tra i Paesi che hanno una Repubblica presidenziale ci sono gli Stati Uniti, l’Argentina, il Cile, il Brasile, il Messico, l’Uruguay, il Costa Rica e la Corea del Sud. La Repubblica italiana, invece, è parlamentare (come ad esempio la Germania, la Grecia, l’Irlanda o la Finlandia): prevede quindi la centralità delle due Camere elette dai cittadini. 

A loro volta, i deputati e i senatori eleggono il presidente della Repubblica che poi attribuisce il compito di formare il governo a un presidente del Consiglio incaricato. Se il premier riesce a formare il governo, deve poi necessariamente ottenere la fiducia dei due rami del Parlamento. Nella Repubblica parlamentare, a differenza di quella presidenziale, il presidente della Repubblica, non eletto dal popolo, è una figura di garanzia. 

Il ruolo del presidente

Nella Repubblica presidenziale il presidente è quindi la massima autorità, perché è contemporaneamente capo di stato e di governo ed è anche legittimato dal voto popolare. A differenza del parlamentarismo, nella Repubblica presidenziale il presidente ha grandi poteri e può agire liberamente: può porre il veto alle decisioni delle Camere e svolgere alcuni compiti legislativi, dirige la politica estera dello Stato, nomina gli alti funzionari. La sua rimozione può essere ottenuta solo con un impeachment attraverso il quale il presidente viene rimosso in caso di reato: alla messa in stato d’accusa deve seguire un processo. Il Parlamento non ha la capacità di rimuovere il presidente ma il presidente non può sciogliere il Parlamento a suo piacimento.

L’esempio francese

Per quanto riguarda l’elezione delle cariche, nella Repubblica presidenziale si tengono due elezioni distinte e a suffragio universale: un voto per eleggere il presidente e un voto per eleggere il Parlamento. Di conseguenza, possono verificarsi casi in cui la maggioranza delle Camere non coincide con il partito del presidente, creando così una maggiore separazione dei poteri. Il presidente sceglie liberamente i ministri, i segretari e la denominazione che hanno i membri del suo gabinetto. 

La Francia, ad esempio, è una Repubblica semi-presidenziale: il potere esecutivo è condiviso dal presidente della Repubblica e dal primo ministro. Il primo viene eletto a doppio turno direttamente dal popolo e nomina il secondo sulla base del risultato delle urne. In Francia, appunto, si tengono elezioni separate per eleggere le due cariche ed è possibile, quindi, una coabitazione tra un presidente di un partito e una maggioranza opposta (l’ultimo caso è avvenuto tra il presidente neogollista Jacques Chirac e il primo ministro socialista Lionel Jospin dal 1997 al 2002).

Vantaggi e svantaggi del sistema presidenziale

Tra i punti di forza della Repubblica presidenziale elencati dai costituzionalisti c’è proprio la «massima legittimità» riconosciuta al presidente grazie all’elezione popolare. Altri vantaggi sono il rafforzamento della separazione dei poteri e l’indipendenza del Parlamento: il presidente e le Camere sono scelti in elezioni diverse e nessuno dei due può interferire con l’altro; il Parlamento, inoltre, non dipende dal partito di maggioranza nella Camera legislativa. 

Tra gli svantaggi elencati spesso dai costituzionalisti, invece, al primo posto è segnalata sempre l’instabilità politica, citando come esempio le situazioni di tensione e i colpi di Stato che si sono verificati nei Paesi dell’America Latina. Altro svantaggio segnalato, la mancanza di pluralismo: nelle Repubbliche presidenziali è molto accentuata la tendenza al bipartitismo. 

Da liberoquotidiano.it il 12 agosto 2022.

Le parole di Berlusconi sul presidenzialismo e sulla possibilità che Mattarella si dimetta hanno scatenato una polemica senza fine, soprattutto a sinistra. Adesso prende la parola il costituzionalista Michele Ainis, che all'Agi ha detto: "L’ipotesi più desiderabile sarebbe quella di stabilire per l’eventuale riforma costituzionale sul presidenzialismo l’entrata in vigore nella prossima legislatura, ma non in quella che si formerà dopo il 25 settembre. In quel caso Mattarella sarebbe a fine mandato e quindi sarebbe il prossimo presidente della Repubblica a essere scelto in maniera diversa".

Ainis, poi, ha spiegato di avere detto le stesse cose di Berlusconi in un articolo di qualche giorno fa, senza però suscitare lo stesso effetto: "Se si passa a un sistema presidenziale il presidente deve andare via, o perché la legge stabilisce l’immediata decadenza, oppure - come dicevamo ed è l’ipotesi più auspicabile - la riforma dovrebbe entrare in vigore nella prossima legislatura, ma anche in quel caso Mattarella non so se accetterebbe di continuare un interregno, tanto più se questo dovesse passare per un referendum".

Un altro costituzionalista intervenuto sul tema è Alfonso Celotto, che sempre all'Agi ha detto: "Mattarella non rischia assolutamente nulla: non è referendum su Monarchia o Repubblica, ma un procedimento complesso: serve un’articolata riforma costituzionale per passare a un presidenzialismo all’americana o a un semipresidenzialismo alla francese. Dunque, eventualmente, ci vorrebbe qualche anno".

Un chiarimento sulla questione, poi, è arrivato anche da Berlusconi in persona: "Ho solo detto una cosa ovvia e scontata, e cioè che, una volta approvata la riforma costituzionale sul Presidenzialismo, prima di procedere all’elezione diretta del nuovo Capo Dello Stato, sarebbero necessarie le dimissioni di Mattarella che potrebbe peraltro essere eletto di nuovo. Tutto qui: una semplice spiegazione di come potrebbe funzionare la riforma sul Presidenzialismo proposta nel programma del centro-destra. Come si possa scambiare tutto questo per un attacco a Mattarella rimane un mistero. O forse si può spiegare con la malafede di chi mi attribuisce un’intenzione che non è mai stata la mia".

La sinistra e l’ossessione per l’inviolabilità della nostra Costituzione.  

IL COMMENTO | “La Costituzione è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto”.

Francesco Damato su Il Dubbio l'11 luglio 2022.

Anche se non lo ha detto, o non ancora in modo esplicito, limitandosi a lamentare “la scelta riformista” abbandonata o tradita da Enrico Letta per accordarsi anche con i rossoverdi nella partita elettorale contro il centrodestra, deve avere contribuito alla rottura, “strappo” e quant’altro di Carlo Calenda la blindatura della Costituzione uscita proprio dall’intesa fra il segretario del Pd, i rossi di Nicola Fratoianni e i verdi di Angelo Bonelli. Una Costituzione – hanno avvertito costoro- minacciata dal progetto del presidenzialismo riproposto da Giorgia Meloni ormai lanciata verso Palazzo Chigi. Alla quale Silvio Berlusconi, una volta tanto deludendo forse quel Matteo Salvini cui aveva concesso troppo secondo i “traditori” appena usciti da Forza Italia, ha riconosciuto – in una intervista alla di avere un “coraggio” pari al suo.

Il presidenzialismo, del resto, è sempre stato nelle corde di Berlusconi, come lo fu in quelle dell’amico Bettino Craxi. Che si procurò per questo negli anni Settanta su Repubblica le vignette in posa mussoliniana di un Giorgio Forattini pur non generoso con i comunisti. Ai quali il leader socialista era tanto indigesto da meritarsi nei menù alle feste dell’Unità l’intestazione della trippa.

All’improvviso, con questa storia del presidenzialismo in salsa meloniana, che un centrodestra vittorioso nelle urne del 25 settembre potrebbe introdurre con una maggioranza tanto larga da non correre neppure il rischio di un referendum confermativo, la Costituzione è tornata ad essere a sinistra la più bella del mondo, come ai tempi di Pier Luigi Bersani e della scuola del Pd affidata all’alta autorità, diciamo così, del presidente emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Che era tornato alla politica militante, dopo i sette anni trascorsi al Quirinale, per condurre e vincere il referendum costituzionale targato Berlusconi e Bossi.

La Costituzione, dicevo, è tornata ad essere la più bella del mondo, quindi intoccabile, anche nel titolo quinto – sui rapporti fra Stato e regioni modificato a stretta maggioranza in tempi d’Ulivo per inseguire inutilmente i leghisti e alla fine riconosciuto dalla stessa sinistra come un maledetto incidente. Al quale non fu possibile rimediare neppure con la riforma costituzionale voluta dall’allora segretario del Pd e insieme presidente del Consiglio Matteo Renzi nel 2016: bocciata, come si ricorderà, a prescindere dal suo contenuto, giusto per colpire e poi affondare la nave renziana. Dalla quale era sceso anche Silvio Berlusconi per la corsa al Quirinale del 2015, fatta vincere a Sergio Mattarella da Renzi, sempre nella doppia veste di capo del suo partito e del governo.

Proprio a proposito di quell’infortunio del titolo quinto, riconosciuto ben prima che l’emergenza pandemica ne rendesse ancora più evidenti i danni, Massimo D’Alema si distinse nell’opposizione alla riforma costituzionale di Renzi dicendo che “in pochi mesi” se ne sarebbe potuta approvare un’altra. Sono passati sei anni e siamo ad un’altra campagna di intangibilità costituzionale per nuovi, sopraggiunti pericoli di una destra ritenuta sostanzialmente eversiva. Che vorrebbe introdurre sistemi istituzionali ai quali l’Italia non sarebbe adatta, matura e quant’altro.

E’ appena intervenuto l’emerito professore e presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky per spiegarci in una intervista alla Repubblica di carta come e perché non ci meritiamo un presidente della Repubblica eletto direttamente dagli “italiani”, peraltro indicati nella riforma Meloni come sostantivo e non aggettivo, senza la qualifica di «cittadini, come sta scritto nella Costituzione del 1948». «E’ una sfumatura, ma significativa», ha avvertito il professore aggiungendo misteriosamente che «anche la scelta delle parole restituisce una diversa idea della democrazia e dell’inclusione». Già, perché fra gli inconvenienti dell’elezione diretta del presidente della Repubblica ci sarebbe quello di avere ogni volta un vincitore e uno o più sconfitti, ossia esclusi, come i «sudditi» – anziché «cittadini» negli «altri regimi».

Noi italiani, anche quelli nati e cresciuti dopo il fascismo, abbiamo secondo Zagrebelsky una specie di gobba, ancora più accentuata del compianto Giulio Andreotti, che non ci permette d’indossare l’abito del presidenzialismo. Scomodando addirittura il Tacito degli Annali Zagrebelsky ci ha accusati di “rudere in servitium”, cioè di “propensione di accorrere al servizio” dell’imperatore di turno. «Esiste – ha insistito il professore- una nostra attitudine a servire il potente che è ampiamente dimostrata dal consenso plebiscitario a Mussolini sotto il fascismo. Un affrettarsi sul carro del vincitore che può rovesciarsi anche nel suo contrario, ossia nell’abbandonarlo precipitosamente ai primi segni di debolezza». Con questi argomenti non politici, non filosofici ma addirittura antropologici, e un po’ anche razzisti, diciamo la verità, dovremmo quindi difendere tutti l’intangibilità della Costituzione, a dispetto dell’articolo 138 che ne disciplina la “revisione”, testuale, fatta eccezione per la “forma repubblicana», precisa l’articolo successivo.

Perché oggi si festeggia la Giornata dell’Unità nazionale. Chiara Barison su Il Corriere della Sera il 17 marzo 2022.

Il 17 marzo di 161 anni fa a Torino nasceva il Regno d’Italia, mentre l’inno di Mameli è stato riconosciuto ufficialmente solo nel 2017. 

Era il 17 marzo 1861 quando a Torino veniva proclamato il Regno d'Italia con l'incoronazione di Vittorio Emanuele II. Oggi sono passati 161 anni e dal 2013 si festeggia la Giornata dell'Unità nazionale, della Costituzione e della bandiera con l'obiettivo di consolidare la consapevolezza della cittadinanza sui valori civici che fondano la nostra Repubblica.

L’inno di Mameli

Il poeta genovese Goffredo Mameli aveva appena vent'anni quando compose l'inno che ancora oggi tutti intoniamo durante le occasioni ufficiali. Si narra che addirittura Giuseppe Garibaldi ne fosse rimasto rapito, tanto da canticchiarlo durante la difesa di Roma. Il Canto degli italiani debuttò nel lontano 1847 a Genova per opera della Filarmonica Sestrese alla cui esibizione accorsero oltre 30.000 patrioti da tutta la penisola. In un primo momento, l'inno era composto da cinque strofe. La sesta venne aggiunta solo in un secondo momento per esprimere la gioia per l'Italia finalmente unita. Anche se mise quasi tutti d'accordo sin dall'inizio, nel corso della storia non sono mancati i detrattori. Uno su tutti fu Giuseppe Mazzini, che riteneva il testo troppo semplice. Piacque invece al musicista Michele Novaro: è merito suo la celebre musica legata all'inno. Dopo essere stato censurato sia dopo l'unità - a favore della Marcia reale - e poi durante gli anni del fascismo, nel 1946 il Consiglio dei ministri lo indicò come inno nazionale "provvisorio". Si è dovuto attendere il 2017 affinché fosse riconosciuto ufficialmente.

La Costituzione italiana

La Costituzione è più recente dell'inno di Mameli. È infatti entrata in vigore nel 1948 grazie al lavoro dell'Assemblea costituente. Al suo interno si trovano i diritti e i doveri dei cittadini, oltre ai principi e alle libertà fondamentali. Si tratta di una costituzione rigida, questo significa che è necessario un procedimento aggravato per la sua modifica. A vigilare sulla conformità delle leggi rispetto a quanto previsto dalla Costituzione è la Corte costituzionale che, nonostante fosse prevista sin dall'inizio, vide regolato il suo funzionamento con legge solo nel 1953.

Costituzione italiana oltre il politically correct, ecco come vorrebbero riscriverla i compagni. Iuri Maria Prado Libero Quotidiano il 17 marzo 2022.

La Costituzione va aggiornata, perché il modello italiano si è sviluppato e bisogna che la Carta vi si uniformi. È un lavoraccio, e va affrontato in diverse puntate. Bisogna cominciare, ovviamente, dall'art. 1, che va emendato così: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro dell'italiano su sei che mantiene tutti gli altri. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita votando a sinistra». L'art. 6, così: «La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche. È fatta deroga per la minoranza di lingua italiana, troppo divisiva».

Poi ovviamente l'art. 11, che va riformato così: «L'Italia ripudia la guerra capitalista come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali. Salva quella del 25 aprile, ripudia inoltre ogni forma di resistenza». La riforma dell'art. 12 sarà: «La bandiera della Repubblica è l'arcobaleno della pace. È facoltativa, ma raccomandata, l'apposizione della dicitura 'Hasta Siempre Ddl Zan'». L'art. 21 va emendato come segue: «Tutti, a patto che esso sia democratico, hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione. In caso di dubbio, decide la magistratura democratica».

Il 24 è da correggere così: «La difesa è diritto subordinato al capriccio del magistrato, che fa ciò che gli pare. La legge non determina i modi per la riparazione degli errori giudiziari, perché il giudice non fa errori e se anche ne fa saranno affaracci di chi li subisce». Idem il 25, da modificare così: «Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso, salvo che si tratti del leader del centrodestra». Il 27 va sostituito da questo: «L'imputato è un colpevole che tenta di farla franca, salvo il caso che sia un magistrato». Vedremo poi le modifiche su famiglia e rapporti economici.

Cosa è stato. Calvosa raccoglie in un romanzo gli intrighi del Novecento italiano. Gianluca Calvosa su L'Inkiesta il 5 Febbraio 2022. 

Papi e comunisti, affari illeciti e poco noti. “Il tesoriere” (Mondadori) racconta i passaggi più delicati e oscuri dell’ultimo secolo e collega storie del passato al loro riaffiorare meno visibile

L’udienza privata dal papa era prevista per le undici e sarebbe stata l’ultima del 1972. Un’ora prima, Paolo si fece riconoscere dalla guardia svizzera che piantonava Porta Sant’Anna e andò a parcheggiare come da indicazioni nello spiazzo di fianco a piazza Pio XI. Andrea e Sandra furono accompagnati all’ingresso della Sala Clementina, lo splendido salone al secondo piano del Palazzo Apostolico accessibile unicamente in circostanze particolari come quella. Lì furono accolti da una delle suore deputate ad assistere il Santo Padre, che li invitò ad accomodarsi visto che ci sarebbe stato da attendere qualche minuto.

Sandra, costretta a indossare uno scomodo tailleur accollato acquistato per l’occasione, rimase senza fiato di fronte alla bellezza del salone, un trionfo abbagliante di affreschi e mosaici geometrici. Andrea, che per l’occasione aveva cercato di dare tono a uno dei due abiti del suo risicato guardaroba arricchendolo con una cravatta troppo costosa per i suoi standard, si era ritrovato inconsapevolmente a stringere la mano della moglie, stupita dal suo inusuale nervosismo.

«In fondo è la prima volta che veniamo ricevuti da un capo di Stato» si ritrovò a giustificarlo lei. Ma quello che la colpì maggiormente fu lo scatto con cui si alzò in piedi mentre si apriva la grande porta decorata. Sulla cui soglia apparve Ottavio, seguito da uno stuolo di suorine dietro le quali spiccava la sagoma bianca del pontefice. Intorno a lui tre cardinali in tunica porpora e un uomo in abiti civili con una grande macchina fotografica a tracolla. 

Andrea si ricordò in extremis del protocollo e lasciò che fosse Sandra a salutare per prima il papa, il quale le prese entrambe le mani nelle sue mentre lei si esibiva controvoglia in un accenno di inchino. Il pontefice le rivolse un sorriso benevolo e le sfiorò il viso con una carezza, poi si voltò verso il tesoriere e gli tese la mano con il palmo rivolto verso il basso. Le spalle leggermente incurvate su cui poggiava la mantella bianca e il viso tondo dall’espressione gioviale e dalla carnagione rosea più accesa sulle guance componevano un ritratto perfetto di pace e accoglienza. Andrea pensò che Dio non avrebbe potuto scegliere candidato più giusto a interpretare il ruolo di suo rappresentante tra gli uomini.

«Andrea, abbiamo sentito belle cose su di te».

Inaspettatamente, sentire il papa pronunciare il suo nome gli fece un certo effetto. Il colloquio durò pochi minuti, il tempo sufficiente a ribadire la posizione antisovietica del Vaticano. «A cosa serve lottare per la libertà degli oppressi se il giorno dopo ci trasformiamo in oppressori?» fu la retorica, quanto attesa, domanda del papa.

Al termine del cerimoniale che si concluse con un paio di fotografie e una benedizione non richiesta, Ottavio e il cardinale Bonidy proposero agli ospiti una visita ai Giardini Vaticani. Il cardinale prese sottobraccio Andrea mentre Ottavio chiacchierava con Sandra, accelerando il passo per lasciare suo fratello solo con il suo superiore. L’udienza con il pontefice aveva avuto come unico scopo quello di mettere in soggezione Andrea. Il vero colloquio si sarebbe tenuto con Bonidy.

«Siete molto diversi, lei e suo fratello». Quelle parole suonarono strane in bocca a un cieco.

«Lui è la parte sana della famiglia». replicò ironicamente Andrea.

«E lei quale parte è?»

«Quando deciderò di confessarmi, glielo farò sapere». «Perché, cos’ha contro la confessione?»

«È una debolezza. Noi comunisti non ci liberiamo mai del peso dei nostri errori confessandoci. Preferiamo il dibattito pubblico. Per questo stampiamo tanti giornali».

«Per stampare tanti giornali occorre un’organizzazione costosa».

«Quello è lo scopo principale del mio incarico».

«Trovare soldi?»

«Organizzare la macchina della propaganda».

«Quindi secondo lei è solo questione di propaganda. Non pensa di sottovalutare la capacità di giudizio delle persone?»

«Vostra Eminenza» il tono di Andrea suonava come un invito alla franchezza «le persone credono a qualunque cosa se ripetuta un numero sufficiente di volte. È per questo che vi siete inventati la messa».

«Facciamo così, sarò io a confessarmi con lei. L’ultima volta che ho incontrato Fragale ho usato parole di cui mi sono pentito. In fondo era una persona perbene».

«In fondo?» Ad Andrea scappò un sorriso. «Mi dica, cardinale, cosa possono mai avere da discutere il presidente dello Ior e il tesoriere del Pci?»

«Di molte cose. Della necessità di essere artefici del proprio destino, ad esempio. Di decidere, quando le circostanze lo richiedono».

«Quelli come me e Fragale sono al servizio di un disegno, si attengono alle regole. Le decisioni le prendono altri».

«Al servizio di un disegno!» A Bonidy scappò una risatina.

«Lei parla proprio come un prete. A noi queste cose insegnano a dirle al seminario». L’alto prelato fece una pausa e tornò serio.

«Io l’ho fatto a New York. Una città bella ma difficile, soprattutto per un cieco, e specialmente se solo.

La capisco, sa, ho imparato presto cosa significa non avere qualcuno con cui condividere il fardello dei propri pensieri».

Quelle parole evocarono nella mente di Andrea gli incubi che riguardavano suo padre. Restò in silenzio lasciando che il cardinale continuasse il suo ragionamento mentre camminavano a passo lento.

«Ritrovarsi soli ci obbliga a prendere delle decisioni. Mi ricordo bene quando non trovai mia madre ad aspettarmi come tutti i pomeriggi all’uscita dal seminario. Avevo sedici anni, mio padre era appena passato a miglior vita e sapevo che lei da quel giorno non sarebbe più venuta a prendermi. Avrei dovuto attraversare da solo tutta Manhattan. Aspettai quasi dieci minuti sulla gradinata della chiesa prima di mettermi in cammino. Poi finalmente mi decisi. Anche se conoscevo bene la strada mi persi quasi subito e restai bloccato a un incrocio affollatissimo. Ero confuso, spaventato dal rumore dei clacson, dalle urla dei venditori di hot dog, dal rombo delle auto. Per la prima volta in vita mia mi sentii veramente solo. Aspettai qualche minuto, in attesa che qualcuno mi notasse e mi aiutasse ad attraversare. Ma niente. Fu proprio quando mi convinsi a chiedere aiuto che sentii toccarmi il braccio con gentilezza. Il sollievo durò pochi secondi. Si trattava di un altro cieco. Un signore anziano che tremava e stava a malapena in piedi».

Il cardinale si fermò. Sembrò rivivere fisicamente quel momento. «Gli dissi di tenersi a me, senza pensarci un instante. Gli presi la mano e attraversammo insieme. Fu il momento più emozionante della mia vita. E anche quello più rivelatore».

da “Il tesoriere”, di Gianluca Calvosa, Mondadori, 2021, pagine 396, euro 19

La Costituzione come non l'avete mai letta. Michele Ainis su La Repubblica il 20 febbraio 2022.

Il presidente della Repubblica Enrico De Nicola firma la Costituzione (1 gennaio 1948) 

Due ricercatori hanno scoperto che il testo della Carta  promulgato dal presidente De Nicola non coincide in 26 articoli con quello approvato dai padri costituenti. Ma il senso è inalterato.

Sorpresa: la Costituzione che tutti conosciamo (o almeno dovremmo), quella che si studia già sui banchi di scuola, che campeggia sulla scrivania del presidente Mattarella e in mille biblioteche, insomma il documento pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e promulgato da Enrico De Nicola il 27 dicembre 1947 - ecco, quel testo non coincide con il testo approvato cinque giorni prima dall'Assemblea costituente.

La nostra democrazia un lungo cammino scritto nella Costituzione. Sergio Mattarella su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.

Il capo dello Stato nella prefazione al saggio di Ruffini: «Queste pagine parlano delle parole da ricordare. Delle parole che costruiscono. Parole che uniscono» 

Pubblichiamo la prefazione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al libro di Ernesto Maria Ruffini «Uguali per Costituzione. Storia di un’utopia incompiuta dal 1848 ad oggi»

Questo libro racconta la nostra storia, le nostre radici e ci invita a fidarci del futuro. Leggerlo fa riflettere sulla radice della parola «Parlamento»: il luogo dove le parole costituiscono, fondano, la nostra identità senza congelarla in un simulacro. Fa pensare allo spreco che spesso si fa delle parole. E al peso che le parole hanno. Fa pensare alle parole che costruiscono e a quelle che possono distruggere. Alle parole vuote, insignificanti, che non impegnano; e a quelle piene, dense di significati.

Parole da ricordare o da dimenticare. Queste pagine parlano delle parole da ricordare. Delle parole che costruiscono. Parole che uniscono.

È il racconto di come noi italiani siamo stati capaci di riempire di contenuto e spessore una parola speciale, impegnativa: uguaglianza. L’uguaglianza scolpita dai Costituenti nell’articolo 3 della Costituzione. Per quanto oggi la stagione costituente possa sembrare lontana — tanto abituati siamo a vivere solo del presente — è proprio in quei giorni che possiamo ritrovare le fondamenta di ciò che siamo, del nostro essere comunità. È su quella straordinaria esperienza che abbiamo costruito la nostra casa comune, la nostra democrazia, il nostro Paese. Consapevoli, come disse Piero Calamandrei, che esse erano solo l’inizio, non la fine della storia: il preludio, l’introduzione, l’annuncio di una rivoluzione, nel senso giuridico e legalitario, ancora da compiere.

La spinta che quella stagione seppe imprimere alla nostra storia democratica e repubblicana fu talmente forte che ancora oggi è chiaramente visibile. I segni e i semi lasciati nella nostra storia dai principi fondamentali della Carta costituzionale rappresentano tuttora il nostro patrimonio più prezioso. Il saggio di Ernesto Maria Ruffini ci accompagna con pazienza lungo il cammino percorso fino ad oggi. Passo dopo passo, ci riporta al momento in cui l’Italia usciva dalla tragedia della dittatura e della guerra e, nella libertà, cominciava a costruire la sua nuova democrazia. Ritroviamo, come in un racconto suggestivo, le immagini di momenti tra i più significativi della nostra storia repubblicana e delle conquiste che abbiamo raggiunto nel campo dell’uguaglianza, anche grazie a dure battaglie.

Non sempre è stato un cammino facile. Semmai, a volte, faticoso. Di certo inarrestabile, anche se per molti aspetti ancora incompleto. Capace di porsi nuovi traguardi, da raggiungere insieme. Questa storia, il racconto di come un’idea diventa concreta nella vita delle persone, ci consente di apprezzare quanta strada abbiamo fatto insieme. Abbiamo raccolto da quella straordinaria stagione un’eredità che dobbiamo a nostra volta consegnare alle nuove generazioni. Ognuno di noi come singolo cittadino e tutti insieme come comunità dobbiamo sentire la responsabilità di continuare a tessere la tela dell’uguaglianza con il filo che ci è stato consegnato dalle generazioni che ci hanno preceduto.

Nel rileggere le parole che hanno segnato i più importanti dibattiti parlamentari, che hanno accompagnato l’approvazione delle leggi con le quali si è cercato di dare attuazione all’uguaglianza, ci rendiamo conto di quanti risultati siano legati all’impegno, al coraggio, alla caparbietà, e molte volte anche al sacrificio, di donne e uomini che hanno tracciato la strada per tutti noi. Vediamo lo straordinario viaggio della nostra democrazia e cogliamo lo sguardo attento dei cittadini che chiedono al Parlamento di dare vita ai principi costituzionali. Comprendiamo il ruolo della Corte costituzionale chiamata a garantire la piena osservanza della nostra Costituzione. E intuiamo anche come sia responsabilità di ognuno proseguire il cammino. Perché le leggi da sole non bastano. Le parole scritte nelle raccolte legislative rischiano di rimanere fissate solo sulla carta se non sono anche accompagnate dalla capacità di ognuno di fare il proprio dovere, di sentirsi parte di una comunità. È un libro che può servire soprattutto ai più giovani perché parla alla loro speranza e, raccontando la fatica, il dolore, l’impegno civile di tanti italiani che hanno scritto con le loro vite la storia della Repubblica, ci dice come sia inestimabile il valore della nostra libertà.

Da Craxi a Renzi, guai a chi prova a toccare la Costituzione più bella… 

Oggi una revisione della Costituzione imporrebbe di ridisegnare i confini delle competenze tra i poteri dello Stato restituendo al Parlamento un ruolo che oggi sfiora l'inesistenza. Paolo Delgado Il Dubbio il 07 febbraio 2022.

È “la Costituzione più bella del mondo”. Ne consegue che ogni tentativo di modificarla equivale a uno sfregio. Qualcosa si può aggiungere, qualche particolare si può ritoccare ma mettere mano all’impianto di fondo significherebbe aggiungere i baffoni a Monna Lisa. Non solo un errore ma una bestemmia: delitto politico sufficiente a stroncare carriere e circondare i proponenti di un’aura losca o peggio. In parte almeno, ma in parte rilevante, l’eterna anomalia italiana, il guado a metà del quale la Repubblica stagna da decenni, senza annegare ma in compenso marcendo progressivamente, è qui.

Questa sacralità era solo in parte voluta e prevista dai famosi “padri costituenti”. Scelsero una Costituzione rigida e difficilmente riformabile, anche perché bruciava ancora come fiamma non del tutto spenta il ricordo del fascismo. Però indicarono anche la strada, stretta ma tutt’altro che impraticabile, per rimettere mano a una Carta la cui “bellezza” non andava scambiata, come è poi invece di fatto avvenuto, per eterna perfezione.

Il primo a bestemmiare, ad affermare cioè che la seconda parte della Costituzione, quella sul funzionamento dello Stato, necessitava di una revisione fu Bettino Craxi, in un editoriale uscito sul quotidiano del Psi Avanti! il 25 settembre 1979. S’intitolava “Ottava legislatura”, denunciava il “logorio del tempo” subìto dalla Carta, proponeva una “Grande Riforma” che avrebbe dovuto toccare “l’ambito istituzionale, amministrativo, economico-sociale e morale” e garantire così “l’efficacia dell’esecutivo”. Tra le battaglie ingaggiate da Bettino Craxi nel decennio del suo fulgore fu una delle più perdenti. Si risolse in un inutile “abbaiare alla luna”, come sentenziò alla fine lo stesso Craxi. La commissione bicamerale per la riforma fu effettivamente istituita nel 1983, guidata dal liberale Bozzi, ma non concluse niente. Craxi, nel frattempo, era diventato agli occhi di una parte vasta della pubblica opinione, in particolare a sinistra, una specie di aspirante dittatore, figura pericolosa, sospetta, in odor di stretta autoritaria.

All’inizio del decennio successivo della necessità di svecchiare il capolavoro del dopoguerra parlò però il guardiano della Costituzione in persona, l’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga, in un lungo e dettagliato messaggio alle Camere del 1991. Era una bomba a potenziale esplosivo talmente alto che il premier Andreotti rifiutò di controfirmarlo e passò la palla avvelenata al Guardasigilli Martelli. Il capo dello Stato aveva in mente una legge elettorale maggioritaria, il potenziamento dell’esecutivo, la fine del bicameralismo perfetto, un intervento drastico sulla magistratura. Nessuno accusò Cossiga di tentazioni golpiste. In compenso lo fecero passare per matto.

Nel 1992, in piena tempesta tangentopoli, il Parlamento ci riprovò, con una commissione bicamerale presieduta prima da De Mita e poi, dopo le sue dimissioni, da Nilde Iotti. Stavolta una proposta arrivò, modellata di fatto sul sistema tedesco. Ma quando fu presentata, l’11 gennaio 1994, il referendum del 1993 aveva già abbattuto la legge elettorale proporzionalista che aveva sino a quel momento retto la Repubblica e tangentopoli aveva falcidiato un’intera classe politica seppellendo la prima Repubblica. La proposta rimase lettera morta.

Il tentativo più serio di riformare la Costituzione è stata la bicamerale presieduta da Massimo D’Alema, allora segretario del Pds, istituita nel gennaio 1997 pochi mesi dopo la vittoria elettorale dell’Ulivo di Romano Prodi: la grande occasione perduta dalla politica italiana è stata quella. Nella situazione di terremoto permanente di quella fase una riforma profonda della Carta sarebbe stata accettabile, anche se su D’Alema si abbatterono gli strali delle tante vestali dell’intoccabilità della Carta. Non furono quelle proteste però ad affossare la riforma ma la richiesta di Berlusconi di modificare anche i capitoli sulla magistratura. Richiesta non solo lecita ma doverosa: il PdS però non se la sentì.

Si potevano mettere le mani nella forma di governo, nella struttura del Parlamento ma non toccare le toghe. Il peso di quel fallimento ha pesato su tutta la politica italiana determinando quella condizione di stagnazione in mezzo al guado dalla quale la politica e le istituzioni non sono più riuscite a trarsi fuori. La maledizione non risparmiò D’Alema: diventò seduta stante l’emblema della “intelligenza col nemico”, delle trame segrete, dei “patti della crostata” stretti in segreto a casa Letta. I panni di ‘uomo dell’inciucio’ non è più riuscito davvero a strapparseli di dosso.

Una riforma costituzionale però fu varata davvero nel corso di quella legislatura: l’ultimo giorno prima dello scioglimento con una strettissima maggioranza. Era la riforma “federalista” decisa dal centrosinistra per rispondere alla spinta federalista della Lega e da allora ha fatto solo danni, al punto che a tutt’oggi non si trova un leader disposto ad assumersi la responsabilità della sua approvazione.

Berlusconi ci provò di nuovo con una revisione totale della seconda parte della Costituzione, stilata da tre “saggi” riuniti in conclave a Lorenzago. Approvata a maggioranza dagli elettori e poi bocciata dagli elettori nel referendum confermativo del 2006. E’ significativo che, all’opposto di 10 anni, del testo e del suo merito quasi non si discusse affatto. Il Paese era ormai diviso in berlusconiani e antiberlusconiani, e il voto si orientò solo su quella scelta.

La riforma di Matteo Renzi, approvata nell’aprile 2016 e poi bocciata nel dicembre dello stesso anno dal referendum popolare, aveva obiettivi meno ambiziosi della bicamerale di vent’anni prima o della riforma di Lorenzago del decennio precedente. Mirava soprattutto a eliminare il bicameralismo perfetto, trasformando la camera alta in Senato delle Regioni e degli enti locali. Non andava dunque in direzione diversa da quella indicata nel 1994 dalla commissione De Mita-Iotti. Tuttavia anche in quel caso Renzi finì nel mirino perché accusato di tentazioni autoritarie e sostanzialmente antidemocratiche.

L’aspetto per molti versi più inquietante di questa visione, per cui solo un rispetto integrale e spesso integralista della seconda parte della Carta è garanzia di rispetto della democrazia, e del conseguente tiro al bersaglio che falcidia chiunque osi proporne una revisione, è il puntuale conseguimento di risultati opposti a quelli sbandierati. Il rifiuto di affrontare, normandolo, il problema di un esecutivo troppo debole ha portato a una brutale “riforma di fatto” che ha finito per consegnare all’esecutivo quasi tutte le prerogative che i costituenti avevano affidato al Parlamento. Al punto che oggi il problema delle istituzioni si presenta rovesciato rispetto a quando Craxi lanciò la sua ipotesi di “Grande Riforma”. E’ infatti il potere legislativo quello che è stato via via svuotato di significato, in un processo coronato dalla demagogica riforma costituzionale voluta dal M5S e approvata in via definitiva dal referendum popolare del 2020.

Oggi una revisione della Costituzione imporrebbe di ridisegnare i confini delle competenze tra i poteri dello Stato restituendo al Parlamento un ruolo che oggi sfiora l’inesistenza, come si verificherebbe persino con una oculata riforma in senso presidenzialista. Certo, per farlo bisognerebbe smettere di considerare una bestemmia qualsiasi ipotesi di profonda riforma costituzionale per lasciare invece campo libero alle torsioni istituzionali realizzate praticando l’obiettivo, senza norma né regola né soprattutto razionalità.

Le radici nascoste della Costituzione. Luigi Iannone il 22 dicembre 2021 su Il Giornale. Da qualche giorno è in libreria il volume di Francesco Carlesi e Gianluca Passera, Le radici nascoste della Costituzione. La terza via, il corporativismo e la carta del 1948 (Eclettica edizioni, p.237, euro 16) con prefazione di Daniele Trabucco, introduzione di Gherardo Marenghi e mia postfazione.  Riporto, di seguito, un brano tratto dal primo capitolo.

La Costituzione italiana è stata spesso al centro di aspri dibattiti, ancor più oggi nell’epoca dell’emergenza pandemica. Molti l’hanno costantemente dipinta come la «più bella del mondo», per l’ampio spazio dato ai diritti politici e civili, altri l’hanno messa sul banco degli imputati considerandola obsoleta e incapace di garantire continuità politica e poteri adeguati ai governi. Eppure la parte più significativa risiede negli articoli che trattano di materie economiche: programmazione, ruolo economico dello Stato, riconoscimento giuridico dei sindacati, collaborazione dei lavoratori alle imprese, disciplina pubblica del credito, il Cnel sono tutti elementi ricchi di spunti chi volesse superare i dogmi del neoliberismo e dell’individualismo. Il libro «Le Radici Nascoste della Costituzione», sesta opera promossa dall’Istituto «Stato e Partecipazione», vuole andare alle radici di quelle impostazioni, che si collegano direttamente alle idee di «terza via» e socializzazione espresse dal fascismo, ripercorrendo minuziosamente tutto il dibattito costituente, la storia e il bagaglio culturale di tanti protagonisti dell’epoca.

Gianluca Passera ha effettuato una lunga e profonda ricerca su tutte le posizioni dei democristiani, dei socialisti, dei comunisti e di tutti gli altri politici, professori e intellettuali che animarono il primissimo dopoguerra, quando cominciava a prendere forma la democrazia italiana dopo il crollo del fascismo. Un viaggio affascinante che apre mille spunti di discussione a proposito della storia italiana, allontanando qualsiasi semplificazione su quella complessa stagione. Tra spaccature evidenti e punti di contatto, proprio nella parte economica del testo costituzionale (artt. 35-47) riaffiorarono tanti spunti sociali emersi nel dibattito economico tra le due guerre. Uomini come Fanfani, Moro, Pergolesi e Mortati, d’altronde, dovevano gran parte della loro formazione al corporativismo, teoria che tra le due guerre ambì a superare il liberismo, recitando un ruolo importante nella discussione globale seguente alla crisi del ’29 e divenendo un modello internazionale per molti paesi.

Proprio queste considerazioni portarono Gaetano Rasi a scrivere: «Non ha alcun fondamento la tesi che all’egemonia della sinistra nella sfera pubblica abbiano contribuito i contenuti della Carta costituzionale entrata in vigore nel 1948 in quanto i suoi principi solidaristici e di tutela collettiva, soprattutto dei più deboli, rientrerebbero nella tradizione marxisteggiante e del cattolicesimo democratico. La realtà evolutiva è storicamente diversa. Quei principi erano già ben presenti prima del periodo di elaborazione dell’attuale Costituzione e riguardavano una maturazione dottrinale e politica risalente ai primi del Novecento e definiti istituzionalmente negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso. La continuità, a prescindere dalle fratture storiche, del pensiero politico che contribuì alla messa a punto della Costituzione, è ampiamente rintracciabile nella produzione scientifica precedente. Già nel 1940 Costantino Mortati aveva avanzato idee rivolte ad una nuova Costituzione che sostituisse lo Statuto Albertino e trasformasse in precettiva e formale la Costituzione materiale che si era andata formando in Italia. Il prof. Mortati fu poi uno dei più attivi costituenti nel corso del 1947.

Ed anche altri costituenti di parte cattolica, come Amintore Fanfani, Aldo Moro, Paolo Emilio Taviani – tutti usciti dai Littoriali della cultura (il primo come giudice, gli altri due come concorrenti) – portarono nel dibattito costituente una sensibilità ancora permeata dalla concezione corporativa. Tale pure un esponente della Dc, come il prof. Alberto Canaletti–Gaudenti (che fu segretario della Dc romana), scriveva allora un libro di prospettive dal titolo “Verso un corporativismo democratico”. Nello stesso periodo anche da sinistra il giovane costituzionalista prof. Vezio Crisafulli – passato ai comunisti dopo essere stato redattore capo della rivista “Lo Stato” di Carlo Costamagna – esercitava la sua influenza nelle elaborazioni impregnate di concetti partecipazionisti (tanto che poi egli rifluì, in un percorso per certi versi simile a quello di Ugo Spirito, su posizioni vicine a quelle missine). E pure non possono essere trascurati i giuristi allievi di Gaspare Ambrosini (che fu poi Presidente della Corte Costituzionale e che era fratello di quel Vittorio Ambrosini famoso per essere stato, prima, capo degli Arditi del Popolo e poi tra i sostenitori del corporativismo); del prof. di Diritto Civile Emilio Betti; del romanista Piero De Francisci; del prof. di Diritto Amministrativo Menotti De Francesco (che fu rettore dell’Università di Milano), del maggiore costituzionalista del secolo, il prof. Santi Romano, che formò intere generazioni sulla base della sua teoria delle istituzioni. E ancora non è possibile trascurare la partecipazione degli economisti alla Costituente. A questo proposito, lo storico dell’economia Piero Barucci ha osservato che: “è chiaro che le nuove generazioni, quelle che si erano formate nella palestra del dibattito del corporativismo, non fecero un grande sforzo ad adattarsi a quel tipo di discussione che si andava formando”. Ed è qui che fu evidente il ruolo di produzione giuridico costituzionale degli economisti i quali, come Amintore Fanfani e subito dopo Francesco Vito e la scuola dell’Università Cattolica con Padre Agostino Gemelli, avevano espresso chiaramente la sua adesione ad una corrente di pensiero politico che aveva superato le grette concezioni di destra e sinistra».

In più, anche istituti come l’Iri e le strutture dello Stato sociale furono usati proficuamente nel dopoguerra dopo il ritorno del pluralismo partitico e sindacale in Italia. Infine, ampi settori dell’Msi e della Cisnal cercarono di elaborare riforme radicali della Costituzione, ma di fronte alla parte economica si affermò l’idea di promuoverne l’attuazione concreta, sulle linee di partecipazione e centralità del «lavoro» che già erano stati i capisaldi delle frange rivoluzionarie e sociali del regime. Su questo si concentra in particolare Francesco Carlesi, che, dopo un inquadramento storiografico del periodo ’45-’48, analizza tanto le posizioni della “destra sociale” quanto di uomini come Mattei (che raccolse e potenziò la struttura dell’Agip nata nel 1926) i quali portarono avanti progetti alternativi di affermazione italiana sulla scena globale. Il tentativo fu quello di andare “oltre” i due blocchi, nel disperato sforzo volto a dare all’Italia un ruolo internazionale e una dignità, ad oggi sempre più lontana.

·        Quelli che…La Prima Repubblica.

Prima Repubblica, atto finale. L’esperienza del governo Amato e il tentativo di far invertire la rotta al Paese nel 1992. Giuliano Cazzola su L’Inkiesta il 22 Novembre 2022. 

Dopo i drammatici mesi di inizio anni Novanta l’esecutivo sperava di avviare una stagione conti pubblici in ordine, privatizzazioni e altre riforme. Lo ha raccontato Giuliano Cazzola nel suo ultimo libro “L’altro 1992. Quando l’Italia scoprì le riforme”, di cui pubblichiamo un estratto

IBL Libri, la casa editrice dell’Istituto Bruno Leoni, ha di recente pubblicato il nuovo libro di Giuliano Cazzola, “L’altro 1992. Quando l’Italia scoprì le riforme”. Il libro racconta l’esperienza del primo Governo Amato, che nei drammatici mesi che videro gli attentati a Falcone e Borsellino e l’avvio di “Mani Pulite”, avviava un percorso di riforme destinato ad aprire una nuova fase nella storia politica dell’Italia.

Pubblichiamo di seguito un brano tratto dall’introduzione del libro, che verrà presentato giovedì 24 novembre a Milano presso la sede dell’Istituto Bruno Leoni. Insieme all’autore interverranno Franco Debenedetti, Alessandra Del Boca e Mario Monti. A Roma, invece, il libro verrà presentato il prossimo 12 dicembre. Con l’autore, parteciperanno Giuliano Amato e Tiziano Treu.

La slavina ebbe inizio il 17 febbraio del 1992 con l’arresto del socialista Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, mentre intascava una “mazzetta”. La più recente saggistica è tornata agli avvenimenti di quel periodo riconoscendo i limiti e gli arbitri dei metodi di “fare giustizia” da parte delle procure a cominciare da quella di Milano, che divenne la procura “più uguale” delle altre, ammettendo – da parte degli stessi protagonisti – la costituzione di un circolo mediatico-giudiziario che concertava le linea di condotta; in questo modo sono emerse le contraddizioni di indagini che si concentrarono con particolare accanimento su alcuni partiti e i loro leader, magari trascurando o sottovalutando altre piste. Si è trattato di un lavoro di ricerca tardivo, ma di revisione importante, non solo perché condotto con maggiore obbiettività e con un minimo di pietas che allora fu negato a quanti furono coinvolti in quell’operazione, ma anche perché in quei mesi la stessa classe politica che veniva messa alla gogna iniziava un percorso di riforme che apriva una nuova fase nella storia politica del Paese.

Protagonisti di tale svolta furono il governo presieduto da Giuliano Amato e il parlamento degli “inquisiti”, che non si sottrassero dall’assumersi pesanti responsabilità nell’interesse del Paese in un momento di gravissima crisi, benché, ogni giorno, calasse su alcuni di loro la scure dell’avviso di garanzia sempre “strillato” sulle prime pagine dei quotidiani e in apertura dei Tg, mentre erano soliti stazionare davanti al Palazzo di Giustizia milanese dei veri e propri presidi permanenti. Da allora iniziò la trasformazione di un atto di garanzia per l’indagato in una condanna già definitiva. Tangentopoli offuscò il lato virtuoso di quegli anni difficili, che fu espunto dalle cronache perché niente doveva essere salvato di una classe politica destinata all’infamia, in quanto corrotta, privilegiata e intrallazzona. Non si poteva riconoscere a essa l’aver fatto anche “cose buone”, tanto più che l’opinione pubblica non era pronta a misure rigorose come quelle che furono adottate in quei mesi.

Per anni, l’Amato del 1992 non ha potuto prender posto nella galleria degli statisti gloriosi. Sulla sua compagine pesavano la condanna che il nuovo regime aveva decretato per il vecchio, la maledizione di Mani pulite, la colpa di un risanamento finanziario condotto con l’accetta e senza guardare in faccia a nessuno. Così si era arrivati a falsificare non solo le pagine, ma persino la cronologia della storia patria. La nuova era (quella del latte e del miele, delle virtù repubblicane, dell’intelligenza applicata alle riforme) prendeva l’avvio, nelle cronache ufficiali, col governo Ciampi, la personalità che era succeduta al Dottor Sottile a Palazzo Chigi e che, per la prima volta, avrebbe avuto fior di ministri ex comunisti se non fosse capitato quel maledetto 29 aprile 1993, un incidente di percorso imprevisto, ovvero il voto della Camera che aveva respinto l’autorizzazione a procedere contro Bettino Craxi e che aveva indotto Achille Occhetto a chiedere le dimissioni di Vincenzo Visco e Augusto Barbera. Ma questa è tutta un’altra storia. Forse di un’occasione sprecata.

La rimozione del ruolo svolto dal governo Amato è arrivata ai nostri giorni. A gennaio di quest’anno, quando si parlava dei possibili candidati al Quirinale, tra i quali anche il Dottor Sottile, dell’azione dell’esecutivo da lui presieduto si ricordava solo la sorpresa del taglio del “6 per mille” sui conti correnti, come se si trattasse di un impeachment preventivo e permanente. Ma segnali di oblio, molto più raffinati e profondi, si sono riscontrati in un’altra circostanza. Chi scrive lo ha notato in una occasione particolare: la formazione della maggioranza di unità nazionale e del recente governo presieduto da Mario Draghi. In quei giorni di giustificata euforia (poi rientrata nel giro di alcuni mesi), le cronache si accanirono nella ricostruzione di una sorta di albero genealogico dei casi di buongoverno. La ricerca non poteva che partire da Palazzo Koch (l’edificio con le palme di via Nazionale) sede della Banca d’Italia. Si sarebbe potuto risalire a Luigi Einaudi, uno dei “padri” della ricostruzione e del boom economico, che divenne il primo presidente della Repubblica, inaugurando un cursus honorum che sembra essere lo sbocco naturale degli ex governatori, chiamati, nelle ore più buie, a salvare il Paese.

Nel passare in rassegna i governi di alto profilo del recente passato, i commentatori hanno avuto una grave e ingiusta dimenticanza. Nessuno ha ricordato l’azione del primo governo di Giuliano Amato. Fu l’ultimo rantolo della Prima Repubblica (ora oggetto di una rivalutazione postuma persino eccessiva) ormai sottoposta allo smantellamento per via giudiziaria. Eppure, quell’esecutivo, operò con coraggio per consegnare ai posteri un’Italia meno sofferente di quella che gli era stata affidata. Chi scrive è convinto che il coraggio prima o poi paghi sempre. E che all’uomo di Stato sia chiesto di avere una visione di prospettiva, di saper guardare più lontano degli altri. Anche per conto di chi insiste a non allontanare gli occhi dalla punta dei piedi. Certo, a volte diventa un’imperdonabile colpa aver compreso prima degli altri la via da seguire. Purtroppo – come Eschilo fa dire al suo Prometeo incatenato – parlare è dolore. Ma anche tacere è dolore.

Le elezioni del 1948, le prime e le più importanti: la campagna infuocata e la sorpresa dei risultati.  

Storia delle elezioni in Italia - Il voto del 1948. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera- CorriereTv il 19 Settembre 2022.

Le elezioni del 1948, le prime e le più importanti: gli aiuti degli Usa e della Chiesa alla DC, gli aiuti della Russia al PCI. La campagna elettorale infuocata negli animi, i risultati sorprendenti, il 20% di scarto. Ecco cosa successe. L’analisi di Paolo Mieli. 

Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1953. La grande tensione DC/PCI. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 Settembre 2022.

Il voto del 1953 fu in qualche modo la rivincita del voto del 1948. La legge ad hoc, detta «legge truffa» dai comunisti, e la frenata inaspettata della Democrazia Cristiana che segnò il declino del suo capo Alcide De Gasperi. La seconda puntata della storia delle elezioni italiane in 100 secondi.

Il voto del 1968 e il centrosinistra che non si riprese mai più 

Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1968 e le ripercussioni sui governi del centrosinistra. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.

Le elezioni del maggio 1968 si svolsero in un clima di sommovimento politico giovanile che aveva sconvolto tutto il mondo. Per l’Italia ebbero un carattere particolare: eravamo nel pieno dell’alleanza tra DC e i partiti di sinistra, escluso il Partito Comunista. I socialisti e i socialdemocratici che si erano scissi nel ‘47, andarono a queste elezioni unificati: ma insieme raccolsero meno voti di quanto non avrebbero fatto da separati. Un fatto che ebbe ripercussione sui governi del centrosinistra che da allora non si riebbero mai più.

Storia delle Elezioni italiane: il voto del 1976 e il sorpasso a sorpresa della Dc sul Pc. Paolo Mieli CorriereTv  su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.

Nelle elezioni del 1976 il Partito Comunista si giocò la carta del sorpasso forte del successo mel 1974 del referendum sul divorzio e dei risultati alle elezioni amministrative del 1975. Ma la Democrazia Cristiana era forte di appoggi esterni, tra tutti quello di Indro Montanelli che in un celebre articolo scrisse: «Turiamoci il naso ma votiamo Dc». E la Democrazia Cristiana, un po’ a sorpresa, prevalse di 4, 5 punti sul PCI senza la maggioranza assoluta: nacque così un governo di unità nazionale per la prima volta dove i comunisti si astenevano. Il governo era presieduto da Giulio Andreotti.

Storia delle elezioni italiane: Il Pci sorpassa la Dc e diventa il primo partito in Italia. di Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.

Le elezioni europee del 1984 furono particolarmente importanti per l’Italia perché il Partito Comunista riuscì, per la prima e unica volta, a scavalcare la Democrazia Cristiana. Un evento che venne ricordato non soltanto per la vittoria del Pci, ma anche per la scomparsa prematura del segretario del partito, Enrico Berlinguer. Colpito da un ictus durante un comizio elettorale a pochi giorni dal voto, Berlinguer morì «sul campo di battaglia» e commosse tutti gli italiani, anche chi non avrebbe mai votato per il Pci.

La quinta puntata della storia delle elezioni italiane in 100 secondi. La rubrica di Paolo Mieli in vista delle elezioni politiche del 25 settembre. 

La storia delle Elezioni in Italia: il voto del 1994. Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 24 settembre 2022.

Il voto del 1994: arriva Silvio Berlusconi con un’alleanza stravagante con la Lega al Nord e Alleanza Nazionale al Sud e il tentativo contro le sinistre con poche speranze. Il confronto televisivo da Enrico Mentana con Achille Occhetto e la vittoria incredibile. L’anno benedetto di Silvio Berlusconi.

La storia delle Elezioni in Italia: il voto del 1996. di Paolo Mieli / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.

Il voto del 1996: dopo solo due anni il governo formato da Silvio Berlusconi cade. La sinistra si riorganizza e sotto la guida di Romano Prodi l’Ulivo vince nettamente. Per l’unica volta nella storia della Seconda Repubblica la Lega si presenta divisa dal centrodestra, dopo un litigio tra Umberto Bossi e Berlusconi tra la fine del 1994 e l’inizio del 1995.

"Una vita al vertice delle istituzioni”. La carriera di Andrea Manzella. Da Aldo Moro a Ciriaco De Mita, Spadolini e Ciampi, quella di Manzella è una vita vissuta al vertice delle istituzioni italiane. Federico Bini il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Andrea Manzella, all’età di quasi 90 anni, splendidamente portati, ricorda con straordinaria lucidità e simpatia gli anni di una carriera che lo ha visto protagonista nel ruolo di “grand commis” di Stato. Dagli esordi come consigliere di prefettura a Benevento a consigliere parlamentare della Camera dei deputati dal 1961 al 1980. Poi consigliere di Stato, segretario della presidenza del Consiglio con Spadolini, De Mita e Ciampi. Dall’83 all’87 è stato consigliere giuridico del ministro del ministro della Difesa, ancora con Spadolini. È stato anche parlamentare dell’Ulivo a Bruxelles e al Senato. Nel suo studio di professore nel centro di Roma, immersi tra libri, giornali e documenti, si possono notare le foto di Spadolini, Cossiga, Napolitano, Ciampi, Pertini e Mattarella con personali dediche. Attualmente è presidente del Centro di studi sul Parlamento della Luiss.

Professor Manzella, la sua vita è stata profondamente legata alle istituzioni di questo paese, di cui è stato costante servitore.

“Sì, ho vissuto le istituzioni in molte articolazioni. Sono stato prima consigliere di prefettura a Benevento (ricordo ancora i bravi sindaci della Val Fortore). Poi superai il concorso in magistratura e sono stato pretore a Pordenone: un’esperienza che mi fece capire l’Italia del miracolo economico. Pordenone era allora una capitale del successo italiano: giorno per giorno nascevano e crescevano imprese. E poi c’era l’ammirevole genio produttivo e creativo dei friulani. Dovevo però trasferirmi a Roma, per ragioni mie, e vinsi un concorso come consigliere alla Camera dei deputati. La lasciai, dopo quasi vent’anni, come direttore del servizio studi. Nominato consigliere di Stato, su proposta di Nino Andreatta, cominciò la mia esperienza a diretto contatto con la politica di vertice”.

Nel suo percorso di studio ha avuto la possibilità di incontrare Aldo Moro.

“Ho fatto il primo anno di università a Bari, dove Moro insegnava Filosofia del diritto, per poi completare il percorso di studi a Napoli. Moro nelle sue lezioni in classe aveva l’abitudine di fare una specie di appello mnemonico, quasi a stabilire un contatto fisico con gli alunni. Poi quando stavo per andarmene da Bari a Napoli, ci incontrammo casualmente e lui mi disse: 'Ho saputo che lei si trasferisce, faccia attenzione a non perdersi in quella bolgia di Napoli'. Aveva ragione: ebbi un periodo di molte difficoltà…”.

Moro diceva sull’Italia: “È un paese dalla passionalità intensa ma dalle strutture fragili”. Condivide questa frase?

“Assolutamente. Lui aveva l’idea precisa di una Italia repubblicana in cui la passionalità politica si è potuta incanalare per molto tempo nella struttura forte delle ideologie politiche: popolar-cattolica, comunista. Queste si traducevano in partiti-apparato con sezioni diffuse in tutto il territorio: erano il sostegno “materiale” della nostra democrazia. Ma ci fu sempre la criticità di una fragile struttura istituzionale, una dannosa eredità che ci portiamo dietro storicamente: forse anche per il modo straordinario con cui si era arrivati allo Stato unitario. Per molto tempo si governò con il meccanismo dei prefetti, senza che si realizzasse l’idea di una dorsale statale solida, comune, condivisa. L’avventura della grande guerra fu determinata anche da questo. Il tentativo di cementare quelle strutture precarie con l’iniezione di una unificante idea nazionale di integrazione territoriale (Trento e Trieste) che accomunava milioni di italiani-soldati, dal sud al nord del paese. Senonché proprio dai reparti di “arditi” che non vedevano realizzata in quel dopoguerra italiano la forte idea di Nazione per cui avevano combattuto, vennero i primi germi della lunga vicenda fascista”.

Dal centro-sinistra al compromesso storico. Aldo Moro è la figura centrale di queste due grandi svolte politiche italiane. Come furono vissute all’interno del palazzo?

“Il compromesso storico fu un nuovo tentativo di realizzare quell’unità nazionale: ed ebbe un luogo privilegiato nelle aule parlamentari. Ma non nell’aula dell’assemblea, bensì in quelle delle commissioni dove si intrecciavano e compensavano le proposte legislative dei grandi partiti. Un momento centrale di questa fase fu nel varo di nuovi regolamenti parlamentari, nel 1971. Ne fu protagonista Sandro Pertini alla Camera (seguì una rincorsa di Amintore Fanfani al Senato). L’indice più chiaro fu l’introduzione del criterio della programmazione parlamentare che poteva attuarsi solo nella necessaria intesa fra i gruppi maggiori. Prima del 1971 ogni sera si decideva l’ordine del giorno della seduta successiva… Lo capirono subito i “gruppuscoli”: prima la frazione del Manifesto che denunciò l’accordo “gruppocratico a scapito della vera opposizione”, poi i radicali di Pannella. Ecco: al centro del compromesso storico non ci furono accordi tra i partiti, ma accordi parlamentari sulla sostanza delle cose”.

Ugo La Malfa, a cui Lei è stato vicino, negli anni ‘70 mancò l’elezione a presidente della Repubblica e a presidente del Consiglio. Nel primo caso venne eletto Pertini e nel secondo Andreotti. Cosa successe?

“L’elezione del presidente della Repubblica italiana è stata sempre 'un mistero avvolto in un enigma' avrebbe detto Churchill. In quella delicatissima vicenda c’è sempre qualcosa che sfugge. Qualcosa che è sempre diverso da elezione ad elezione. Più chiara fu invece la vicenda che vide La Malfa protagonista del famoso “tentativo” di formare un governo. Determinante in quell’insuccesso una certa mancanza di visione dei comunisti. La Malfa aveva proposto un direttorio dei segretari di partito, in cui ci sarebbe stato anche Berlinguer, da affiancare al governo: che però non avrebbe avuto ministri comunisti. In fondo, sarebbe stata l’istituzionalizzazione - però con una estensione, davvero storica, al Pci - della corrente prassi dei “vertici” dei segretari dei partiti della coalizione di governo. Enrico Berlinguer non accettò questa soluzione, fermo sulla pregiudiziale di una effettiva presenza comunista nel governo. La Malfa era già consapevole che i democristiani non l’avrebbero mai accettato, in quel momento. Rinunciò, perciò, per questi veti incrociati. Nacque così il governo Andreotti”.

Roberto Gervaso diceva su Ugo La Malfa: “È perentorio, dogmatico, esclusivo. Le ragioni dell’avversario non sono mai buone… Questa Italia non gli piace e si vede”.

“Sì, lui era molto critico dell’Italia ma anche severo con se stesso. Però era pure quello che aveva il miglior “telefono abilitato”. Poteva parlare, autorevolmente, con tutti: dal prefetto di Forlì, al governatore della Banca d’Italia, ai segretari di tutti i partiti. Alzava il telefono e parlava con l’Italia. Da questo punto di vista, sarà stato critico, però era anche attentissimo ad avere un circuito relazionale completo con tutti, senza nessuna esclusione, per capire le ragioni di tutti. Era insomma un “antiitaliano” inclusivo, cioè sapeva cos’era l’Italia, le profonde connessioni reali e aveva grande capacità nel giudicare l’autenticità del valore degli uomini”.

Spadolini invece com’era?

“Spadolini era molto “spadoliniano”: nel senso che era davvero come la vulgata giornalistica lo raccontava (primo fra tutti il suo grande amico Montanelli). Dal punto di vista umano, accanto alla famosa – e giustificata - consapevolezza di se stesso - aveva il culto delle grandi, perduranti amicizie e una acutissima capacità di introspezione delle persone. Severissimo nella ricerca della perfezione, era spesso irascibile con gli intimi, con scatti di cui si pentiva rapidamente: in contrasto con la sua aria bonaria, da saggio tranquillo… Da grande storico, era straordinario nell’arte di arrivare subito al vero fondo delle cose e di rendere le cose complesse in maniera semplice”.

In che modo la nomina di Spadolini a presidente del Consiglio cambiò la politica dei primi anni ’80?

“Si verificheranno tre fatti di rilievo costituzionale. In primo luogo, con la nomina di un leader di estrema minoranza, venne capovolta la gerarchia dei partiti, fino allora intoccabile. Ci fu, poi, l’istituzionalizzazione, per allora solo in via amministrativa, dell’apparato della presidenza del Consiglio, come primo strumento operativo del premier. E infine cominciò una comunicazione politica diretta fra il “presidente del governo” e i cittadini. Lui fu il primo dei grandi comunicatori da Palazzo Chigi (e ricordo ancora le accuse di “cancellierato”…). Non gli fu dato però il tempo di affrontare radicalmente l’eterna “questione istituzionale”: di cui aveva però individuato alcuni più urgenti elementi in un Decalogo alla base del suo secondo, breve governo”.

I rapporti tra Spadolini e La Malfa?

“Molto buoni nel reciproco riserbo, come li ricordo. Era stato Ugo La Malfa, del resto, che aveva avuto la geniale intuizione di fare entrare Spadolini nella grande politica: offrendogli la candidatura nel prestigioso collegio senatoriale di Milano dopo la brusca estromissione dalla direzione del Corriere della Sera”.

Con l’ascesa di Craxi a Palazzo Chigi, Spadolini venne nominato ministro della Difesa. Tra le varie vicende ci fu il caso di Sigonella. Lei a quel tempo era consigliere giuridico del ministro repubblicano.

“La crisi di Sigonella si articola in due fasi. La prima fu la decisa affermazione della sovranità nazionale - con i carabinieri in armi che circondano nella base i militari americani - nella competenza a processare i terroristi (per crimini compiuti su una nave italiana) richiusi nell’aereo egiziano dirottato dai caccia USA. In questa fase, Spadolini è assolutamente concorde con Craxi. La seconda fase vide invece il ministro repubblicano schierarsi contro il presidente del Consiglio quando venne a conoscenza che si era di fatto permessa, sia pure in confuse e affannose circostanze, la fuga del terrorista Abu Abbas dal territorio e quindi dalla giurisdizione nazionale”.

Dall’88 all’89 Lei affiancò invece un altro presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita.

“A De Mita vanno riconosciuti almeno tre meriti di grande importanza. In politica interna, ponendo una specie di “questione di fiducia implicita” - minacciando dunque una crisi di governo di esiti dirompenti, in perfetta sintonia con il segretario socialista - riuscì a ottenere che le due Camere (a scrutinio segreto!) abolissero il voto segreto (salvo i casi personali). La vergogna dei “franchi tiratori” che rendevano ancora più fragile la endemica precarietà dei nostri governi fu per gran parte eliminata. Con la legge n. 400 del 1988, riuscì (dopo 40 anni) ad attuare l’art.95 della Costituzione che prevedeva una organizzazione specifica della presidenza del Consiglio, completando così il percorso amministrativo spadoliniano. In politica estera dette grande fiducia a Gorbaciov con la famosa riunione di ministri a Mosca: comprendendo così che era quello un momento irripetibile per una vocazione europea della Russia. Ma credo che ci sia un dato interessante su De Mita, poco o mai sottolineato. Lui capì che c’era un’Italia che doveva essere assemblata in maniera diversa: andando oltre la Dc, in un partito liberal-democratico di massa. Una intuizione che anni dopo doveva essere corroborata dai grandi successi elettorali realizzati, in modi certo assai diversi, da Silvio Berlusconi”.

Però De Mita non vi riuscì…

“No, in quanto gli vennero “tagliate le gambe”. Anche se lui fece l’errore, forse inevitabile a quel fine, di tenere insieme la segreteria del partito e la presidenza del Consiglio”.

Era un politico cinico come lo descrivono?

“Quando ricordo la sua commozione alla notizia dell’assassinio di Roberto Ruffilli, il “suo” uomo delle istituzioni, i suoi gesti di affettuosa familiarietà con gente “comune” e anche la sua ansia di “vedere” ogni cosa dal lato umano, “esperienziale” - come diceva - non ritrovo alcun segno di cinismo. Il suo servizio come sindaco di Nusco, sino alla fine, spiega anche il risvolto “buono” di certi tratti duri di una certa tradizione di gestione del potere locale”.

Con quali altri presidenti del Consiglio ha avuto modo di collaborare?

“Carlo Azeglio Ciampi fu l’ultimo: e il suo destino finale come Capo dello Stato era in un certo senso chiaro. Mi colpirono molto, quando lo vidi da vicino al lavoro, la sua grinta decisionista e la sua risolutezza nel richiamo costante ad una sua bussola di patriottismo “euro-nazionale”. Nel lavoro aveva l’abitudine di non finire la giornata se non quando la sua scrivania fosse sgombra da ogni dossier. Quando, poi, anni dopo, si ebbe di nuovo bisogno di lui come ministro per il nostro difficile ingresso nell’euro, Ciampi giocò senza remore il suo prestigio e la sua serietà internazionali. Raccontava che capì che si apriva qualche possibilità nel muro dei “no” all’Italia quando, in un suo colloquio confidenziale con il governatore della Bundesbank Tietmeyer, questi, pur escludendo ogni apertura, gli chiese a bruciapelo: 'Ma nel caso che noi decidessimo di accettare l’Italia nell’euro, tu nel direttorio della Banca centrale europea chi manderesti?'. Ciampi rispose pronto: “Tommaso Padoa Schioppa”, un nome che nessuno in Europa poteva rifiutare…”

Nel corso della sua lunga carriera istituzionale con quali politici ha avuto un rapporto particolarmente stretto?

“Nino Andreatta, Spadolini, De Mita, Ciampi e con il grande intellettuale comunista Alfredo Reichlin”.

Giulio Andreotti?

“Assai meno. Quando lo conobbi da vicino, Andreotti mi apparve come lo si è sempre raffigurato: molto “romano” nella sua abitudine a minimizzare, a sdrammatizzare tutto. Una volta gli chiesi come aveva vissuto i giorni fondativi della comunità europea. Rispose: 'Vedevo De Gasperi, Adenauer e Schuman che si mettevano in un angolo e cominciavano a parlare in tedesco. Sai, io non conosco il tedesco, però capivo tutto'. Un’altra volta raccontò di aver riconosciuto il grande filosofo cattolico francese Jacques Maritain in un passeggero vociante con i camerieri nel vagone-ristorante del treno Genova-Roma per una banale questione di priorità nel servizio… Ecco in questa “maniera” c’era tutto il popolarismo di Andreotti che ho conosciuto. Poi, per altri lati, il personaggio è, come si dice, affidato al giudizio storico”.

A Roma si dice che Lei e Gianni Letta siate uomini “influenti”.

“Io davvero non lo sono mai stato. Gianni Letta è un vecchio e caro amico: mi rivolgerei a lui, nel caso… Nelle mie esperienze istituzionali ho sempre e solo cercato di migliorare, per quel che potevo, il meccanismo che mi era affidato, di guardare un po’ più in là della semplice ripetizione burocratica dei “precedenti”, di rimediare, nel mio assai modesto margine d’azione, a qualcuna di quelle istituzionali “fragilità” di cui, una volta per sempre, aveva parlato Moro”.

 Pavia, morto a 98 anni ex ministro Virginio Rognoni. Esponente della Dc è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022

È morto questa notte, nella sua casa di Pavia, Virginio Rognoni, uno dei politici italiani più conosciuti della seconda metà del Novecento. Rognoni, che aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto, si è spento nel sonno. Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo (dal 1978 al 1983) e, successivamente, di ministro della Giustizia e della Difesa. Dopo la fine dell’esperienza della DC, aveva aderito prima al Partito Popolare e poi al Pd. E’ stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006.

 BIOGRAFIA DI VIRGINIO ROGNONI. Da cinquantamila.it la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

• Corsico (Milano) 5 agosto 1924. Politico. Deputato dal 1968 al 1994 (Dc), fu ministro dell’Interno nell’Andreotti IV e V, Cossiga I e II, Forlani, Spadolini, Fanfani V (1978-1983), ministro di Grazia e giustizia nel Craxi II e Fanfani VI (1986-1987), della Difesa nell’Andreotti VI e VII (1991-1992). Dal luglio 2002 al luglio 2006 fu vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. 

• «Ex allievo del collegio Ghislieri di Pavia, Gingio per gli amici, è un esemplare pregiato di quella scuderia del Biancofiore che vinceva tutto nelle corse elettorali e nei Grand Prix elettrizzanti per Palazzo Chigi. Il 26 aprile 1945, a ventuno anni, teneva a Pavia il suo primo comizio ai giovani cattolici della Fuci. Le sue fortune ministeriali sono dipese in buona parte dalla grande forza contrattuale della sinistra di Base (prima “Cronache sociali” di Dossetti poi Marcora, De Mita, Misasi, Andreatta). Per tanti anni è stata questa la sua corrente di riferimento. Cioè fino all’estate del 1990. Quando Gingio, entrato un po’ nel cono d’ombra della sinistra dc, subentra alla Difesa a Mino Martinazzoli nel sesto governo Andreotti. Il Guardasigilli si dimette insieme ad altri tre ministri dc per protesta contro la legge Mammì sull’emittenza televisiva. Una rottura dolorosa. 

“Mi sono iscritto alla Dc non ad una componente”, dichiarò piccato il ribelle nella quiete del suo buon ritiro di Punta Ala. Fece grande rumore una sua battuta maligna (“Bettino è già cotto!”) sul Craxi presidente del Consiglio, strappatagli “a tradimento” nel Transatlantico dal cronista politico dell’Espresso, il bravo Guido Quaranta. Insomma, per dirla con le parole di sua moglie Giancarla Landriscia, donna che affascinava per intelligenza, delicata bellezza e simpatia Sandro Pertini e gli inquilini dei Palazzi romani, la famiglia Rognoni “ha sempre mantenuto il senso delle proporzioni”. 

Con il marito politico e ministro, Lady Giancarla ha diviso la responsabilità di una famiglia numerosa (quattro figli) e gli studi di Giurisprudenza. Lei a Pavia dedita all’istituto di Medicina legale a studiare i diritti alla salute; lui, professore di Istituzioni di diritto processuale, impegnato a Roma a guidare prima il dicastero dell’Interno negli anni di piombo (affronta e risolve il caso del rapimento del gen. Dozier) poi quello della Giustizia» (Fernando Proietti). 

• Uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico, ultimato nel febbraio 2007. Presidente del Collegio dei garanti del Pd «La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd» [Cds 7/11/2009].

• Visto anche a teatro, a Milano, in uno spettacolo dedicato a Danilo Dolci: il regista Renato Sarti, riproponendo il processo all’intellettuale, gli fece pronunciare l’arringa di Piero Calamandrei sui principi della Costituzione (affidata in altre serate ad altri non-attori).

• Nell’autunno 2007 suscitò polemiche l’assegnazione, senza concorso, di un incarico di professore associato (Storia della lingua neogreca) alla figlia Cristina da parte dell’Università di Palermo. Disse di essere «indignato»: «Si sa bene che ci sono nicchie di privilegi nelle università, ma lei è sempre stata di una moralità radicale».

L'ultimo 'incarico' da vicepresidente del Csm. È morto Virginio Rognoni, storico esponente della DC: fu ministro degli Interni negli anni di piombo. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022 

Si è spento nel sonno all’età di 98 anni Virginio Rognoni. Esponenti di primo piano della Democrazia Cristiana, fu uno dei protagonisti della ‘Prima Repubblica’: aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto ed è morto questa notte nella sua casa di Pavia.

Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo, entrando al Viminale dopo le dimissioni di Francesco Cossiga a seguito dell’assassinio di Aldo Moro, fu nominato al suo posto e restando in carica dal 1978 al 1983. Successivamente fu ministro della Giustizia nel secondo governo Craxi e nel sesto governo Fanfani (dal 17 aprile 1987 al 29 luglio 1987) e ministro della Difesa nel sesto e settimo governo Andreotti (dal 26 luglio 1990 al 28 giugno 1992).

Da ministro dell’Interno è ricordato per aver affidato il coordinamento della lotta al terrorismo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e per esser stato promotore assieme al deputato del Pci Pio La Torre della prima legge desinata a colpire i beni gestiti dalla mafia, la legge Rognoni-La Torre.

Dopo la fine dell’esperienza della Democrazia Cristiana, spazzata via da Tangentopoli, ha aderito al Partito Popolare guidato da Mino Martinazzoli.

È stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006, ultima esperienza istituzionale. Dopo l’incarico a Palazzo dei Marescialli, Rognoni aderirà al Partito Democratico.

“Un grande amico e un punto di riferimento”, lo definisce Enrico Letta, che ha commentato su Twitter la scomparsa dell’ex ministro. Rognoni è stato “protagonista sempre in positivo di tante stagioni importanti della vita istituzionale del nostro Paese”, lo ricorda il segretario del Partito Democratico. Nel 2007 Rognoni è stato scelto come uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico.

M. Antonietta Calabrò per justout.it il 21 settembre 2022.

L’ intramontabile “Gingio”, grande vecchio della politica italiana. Non volle rispondere alla Commissione Moro II, dopo la desecretazione degli archivi. Di lui si può ben dire che è stato grande vecchio della politica italiana. Un potere solido, non ostentato, durevole, attraverso decenni e decenni della storia italiana e dei suoi momenti più drammatici. Morto il 20 settembre 2022 quasi centenario, essendo nato nel 1924. Un gran lombardo. Ancora in forma e attivo, sino alla fine. L’ultima apparizione pubblica, nella primavera del 2021 per la celebrazione dei 660 anni della fondazione della “sua” università, quella di Pavia, dove è stato professore.

Virginio Rognoni era ministro dell’Interno, quando il 9 ottobre 1982 un commando palestinese riferibile ad uno dei terroristi più temibili, fondatore del Consiglio rivoluzionario di al Fatah, Abu Nidal, mette a segno un attentato proprio nel centro di Roma. Davanti alla Sinagoga, a pochi passi dal Tevere. Nell’agguato muore un bambino di due anni, Stefano Gaj Talché, cittadino italiano di religione ebraica e altre 37 persone rimangono gravemente ferite.

Il fatto nuovo (riportato per primo da "Il Riformista” un anno fa) è che in base ai documenti ufficiali del Sisde (il servizio segreto per la sicurezza interna, ora AISI) desecretati in questi ultimi anni, un attentato era stato “segnalato” come altamente probabile in ben sedici “alert”, nei quali se ne riteneva possibile l'esecuzione in occasioni delle feste ebraiche. E il 9 ottobre ricorreva appunto "la festa dei bambini”.

Nonostante questo e nonostante le molte richieste della comunità ebraica di incrementare le misure di sicurezza, proprio quel giorno persino la singola camionetta che usualmente stazionava davanti al Tempio maggiore, quella mattina venne rimossa. Perché? Come mai il Viminale non dette seguito alle informative del Sisde? Cosa avrebbe potuto ancora dire Virginio Rognoni al riguardo? Quarant’anni fa ci furono forti polemiche per quella che apparì subito come una grave inefficienza del Ministero dell’Interno. 

Ma i nuovi documenti e molti altri che sono ormai consultabili in base alla legge “Renzi” del 2014, hanno fatto sorgere nell’ultimo anno nuovi e pesanti interrogativi. Quelli che il fratello sopravvissuto della piccola vittima della Sinagoga ha raccolto in un libro che viene pubblicato a quarant'anni da quell'agguato. (Gadiel Taj Tache' "Il Silenzio che urla", settembre 2022) 

Noi oggi, infatti, sappiamo con certezza che, a partire dal 1973, venne sottoscritto un patto tra i nostri servizi segreti e le fazioni terroristiche palestinesi in modo che l’Italia diventasse per esse un terreno di passaggio per il traffico d’armi. Con una sostanziale "non interferenza" italiana, se gli obbiettivi dei palestinesi in Italia fossero stati israeliani, ebrei o americani. 

Come spiegò nel 2008 in una intervista Francesco Cossiga al quotidiano israeliano Yediot Aharonot: “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi”. E lo stesso capo dell’OLP Yasser Arafat nei suoi Diari (di cui il settimanale L’Espresso ha fatto un’anticipazione nel 2018), ha annotato, perentorio, in relazione a quegli anni: “L’Italia è una sponda palestinese nel Mediterraneo”.

Il mondo allora era diviso in due e Roma assomigliava a Berlino, a metà tra Est ed Ovest. La prova del patto con i palestinesi è in un telex del febbraio 1978, a noi noto solo dal 2015, quando esso è confluito negli atti a disposizione della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. In quel cablogramma da Beirut il colonnello Giovannone (preannunciando il rischio di una grossa azione terroristica in Europa) confermava la volontà del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di tenere indenne l’Italia. 

In realtà le cose andarono molto diversamente. Perché neppure un mese dopo Aldo Moro venne rapito ad opera delle Brigate Rosse, ma operarono sul campo terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion, gestiti dal servizio segreto della Germania orientale (Stasi), in stretto contatto con i gruppi terroristici palestinesi. E a Berlino Est aveva trovato rifugio sicuro lo stesso George Habbash, leader del Fronte per la liberazione della Palestina, proprio il “firmatario” palestinese del “patto” con l’Italia e il terrorista Wadi Haddad, coinvolto dal colonnello Giovannone nelle trattative per liberare Moro durante i 55 giorni.

Un “patto” la cui esistenza è stata confermata personalmente anche da un protagonista dell’epoca ancora in vita, Abu Sharif, soprannominato da Time magazine “il volto del terrore”, braccio destro di Arafat , nella sua audizione a Palazzo San Macuto del giugno 2017. La documentazione completa relativa a quell’accordo impropriamente denominato "Lodo Moro" (visto che in realtà fu voluto dall’allora presidente del Consiglio Andreotti anche se Andreotti ne ha sempre negato pubblicamente l’esistenza) è ancora tutelato dal segreto di Stato, rinnovato nell’estate del 2020 dal Governo Conte II.

Eppure, già quello che oggi sappiamo in base a decine di migliaia di atti desecretati e consegnati alla Commissione Moro che ha chiuso i suoi lavori nel 2018, e all’Archivio di Stato, è sufficiente per “ristrutturare" il campo della conoscenza della storia degli anni di piombo nel nostro Paese . E degli attentati organizzati in Italia dai palestinesi (compreso quello di Fiumicino del 1985 con 13 morti e 76 feriti). Del resto, l’Italia era diventata dall’inizio degli anni Settanta e fino al 1989, uno dei terreni principali su cui venne messa in atto la Guerra Fredda. E i terroristi palestinesi vi giocarono un forte ruolo.

Rognoni, esponente di lungo corso della sinistra Dc, eletto deputato a partire dal 1968 per sette legislature, nel 1976 divenne vicepresidente della Camera, fino a quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, nel 1978, lo chiamò a sostituire come ministro dell’Interno, Francesco Cossiga che si era dimesso subito dopo l’assassinio di Moro. “Gingio", per gli amici, rimase al Viminale per 5 anni, fino all’83, mentre si sono succeduti ben cinque governi (Andreotti, Cossiga, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani).

Nell’82 ai tempi dell’attentato alla Sinagoga era presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, il primo premier filoatlantico e filoisraeliano, salito a Palazzo Chigi dopo l’esplosione dello scandalo P2. Spadolini fu anche l’unico politico presente ai funerali del bambino. I cinque anni di Rognoni al Viminale risultarono cruciali.

Rognoni era al Viminale il 1 ottobre del 1978 quando fu scoperto dagli uomini del generale Dalla Chiesa il covo brigatista di via Montenevoso, dove (sappiamo oggi) venne ritrovata la copia di documento delicatissimo relativo all’organizzazione della NATO, circostanza di cui Dalla Chiesa informò il Ministero dell’Interno, all’inizio del 1979. Rognoni era al Viminale quando, nella primavera del 1979, si concretizzò una veloce e concordata “consegna” alla polizia dei due br “dissociati” Valerio Morucci e Adriana Faranda che erano riparati in casa di Giuliana Conforto (figlia di Giorgio, “Dario", il più importante agente Kgb in Italia nel Dopoguerra, secondo il "dossier Mitrokhin") , appartamento in cui fu sequestrata una delle due armi che uccisero Moro, la mitraglietta Skorpion.

Rognoni era al Viminale quando Dalla Chiesa, capo dell’antiterrorismo, per oltre un anno si era messo alla ricerca dei documenti originali sull’organizzazione Gladio, scomparsi dalla cassaforte del Ministro della Difesa Ruffini, cui alludevano le copie ritrovate a via Montenevoso. Era al Viminale quando il generale, nel marzo 1980, eseguì il blitz di via Fracchia a Genova, dove venne ucciso Riccardo Dura, capo della colonna genovese e soprattutto, sappiamo oggi, venne recuperata una quantità imponente di documentazione. E tra essa quegli “originali”, che così riuscirono tornare al loro posto a palazzo Baracchini, qualche mese più tardi.

Rognoni era al Viminale quando il 4 maggio del 1982 venne stilato un cartellino segnaletico di Alessio Casimirri (l’unico br presente in via Fani e condannato a sei ergastoli, ma che a tutt’oggi non ha fatto un giorno di carcere, ancor oggi riparato nel Nicaragua governato dai sandinisti) dopo un "probabile" arresto di cui si è avuta traccia solo nel 2015. Rognoni era al Viminale, quando succedette a Rinaldo Ossola, nel 1982, come presidente dell’Associazione di amicizia italo- araba (carica che ha mantenuto per oltre un decennio). Incarico che non deve stupire visto che già dagli Anni Settanta, tra tutti gli esponenti della sinistra dc, “Gingio” era considerato il più filoarabo, sulla scia del suo mentore e maestro Luigi Granelli (che lui accompagnò in delegazione ad una Conferenza al Cairo di cui si ricordano interventi di fuoco di Granelli contro Israele).

Per tutti questi motivi, pochi anni fa i commissari della Commissione Moro II avrebbero voluto ascoltare l’ex responsabile del Viminale. Per sentire da lui cosa potesse rendere noto sulle novità emerse dagli archivi. Si sarebbero recati loro a Milano, in modo da evitare all’anziano politico una faticosa trasferta a Roma. Sono state scambiate mail su mail, ma alla fine Rognoni ha fatto in modo di far cadere la cosa. 

Nel 2018, tuttavia, Rognoni ha trovato tempo e voglia per presentare un libro sui lavori della Commissione, scritta da Wladimiro Satta insieme all’unico parlamentare, Fabio Lavagno, che ha votato contro la Relazione finale dell’organismo parlamentare (approvato all’unanimità anche dall’Aula di Camera e Senato).

Evidentemente non si è trovato d’accordo con la ricostruzione del terrorismo italiano ed internazionale fatta dalla Commissione Moro II e con la sua principale conclusione. E cioè che la ricostruzione “ufficiale” della storia degli anni di piombo (quella nota fino alla recente apertura degli archivi) è stata il frutto di un negoziato tra istituzioni e le Br, per “confezionare” - grazie al cosiddetto Memoriale Morucci - “una verità di compromesso” che non alterasse equilibri internazionali troppo delicati, a cominciare da quelli con l’Est europeo e i palestinesi.

Tra l’estate del 1986 e quella successiva, 1987, un anno fondamentale - questo oggi lo sappiamo con certezza - per la stesura del Memoriale che viene attribuito a Valerio Morucci, Rognoni era Guardasigilli, cioè titolare del Ministero della Giustizia, che ha anche il controllo delle carceri.

“Gingio", sarà nuovamente ministro, nel luglio 1990, l’anno dopo della Caduta del Muro di Belino, con Andreotti presidente del Consiglio (per rimanervi fino al 28 giugno 1992). Nuovo ruolo, questa volta: ministro della Difesa.

Per andare al governo, ruppe con tutta la sinistra dc (i cui esponenti, compreso Sergio Mattarella, non erano d'accordo nell’impegnarsi nella formazione del nuovo esecutivo) e ruppe in modo clamoroso con Granelli che lo accusò pubblicamente di “essere un traditore”. Come responsabile della Difesa gestì (a partire da agosto) insieme al presidente Andreotti, il “disvelamento” della struttura della NATO che era stata creata alla fine della Seconda Guerra Mondiale per rendere operativa la resistenza nel caso di una eventuale invasione sovietica, la struttura Gladio-Stay Behind. 

All’inizio di ottobre (1990), una nuova irruzione nel covo br di Via Montenevoso portò alla luce la parte “mancante" del Memoriale di Moro riguardante la Gladio. Ma secondo l’analisi filologica compiuta sulle varie versioni del Memoriale di Moro (se ne contano almeno quattro) e ai loro rimandi interni, da Francesco Maria Biscione (consulente della Commissione stragi e collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana) mancherebbero però ancora all’appello il riferimento ai rapporti tra Andreotti e i servizi segreti e alle operazioni dei nostri servizi segreti in Libia.

Quello di ministro della Difesa è stato l’ultimo incarico governativo di Virginio Rognoni (anche se venne eletto dal 2002 al 2006, vicepresidente del Csm). Dopo che tanto tempo è passato dagli attentati e dalle stragi, oltre al Pnrr e alle riforme, il Paese ha bisogno di verità sulla sua Storia: dall’attentato alla Sinagoga al caso Moro. Perché un filo rosso li unisce: un filo rosso che emerge dai documenti ufficiali, non dalle dietrologie. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ne è consapevole e il 2 agosto 2021 (anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980)  ha firmato una direttiva per un’ulteriore desecretazione di documenti.

Un uomo con un così lungo e prestigioso standing istituzionale, come Virginio Rognoni, non ha però sentito il bisogno di aggiungere nulla a quanto ha aveva detto in passato. Adesso porta vis con se' alcuni segreti della storia italiana.

La strage di via Fracchia e le torture: tante ombre sull’ex dc. Chi era Virginio Rognoni, a 98 anni se ne va il successore (più cattivo) di Cossiga. David Romoli su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

L’incontro con Virginio Rognoni, allora ministro degli Interni, scomparso ieri a 98 anni, lo racconterà anni dopo Marco Pannella. Erano entrambi a Montecitorio, di fronte al tabaccaio, e il leader radicale avvertì il ministro democristiano che la sera stessa, nel corso di una Tribuna autogestita con Emma Bonino, i radicali avrebbero mostrato in gigantografia le foto delle torture alle quali era stato sottoposto il brigatista rosso Cesare Di Lenardo. Pannella chiese anche all’importante esponente democristiano compianto oggi coralmente se fosse al corrente delle torture. Era il 1982. Lo Stato aveva già vinto la sua battaglia contro il terrorismo ma ancora non lo sapeva o non ne era sicuro. La risposta di Rognoni fu dunque gelida: «Questa è una guerra e il nostro dovere per difendere la legge e lo Stato, è coprire i nostri uomini».

La Tribuna andò regolarmente in onda. Tutti fecero finta di niente: erano moltissimi i bravi democratici che la pensavano come Virginio Rognoni, esponente di spicco della sinistra Dc molto vicino all’ex segretario Benigno Zaccagnini, dunque a Moro. Del resto quel “coprire” era probabilmente un eufemismo. Dopo il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, le pressioni di Washington sul ministero erano diventate martellanti. Uno dei principali dirigenti di polizia che lavoravano a tempo pieno sul sequestro racconterà trent’anni dopo, nel 2012, che il prefetto capo dell’intelligence del Viminale, prefetto De Francisci, convocò tutti e fu molto chiaro senza bisogno di fare nomi: «Ci dice che l’indagine è delicata, importante. Dobbiamo fare bella figura. Ci dà il via libera a usare le maniere forti. Indica verso l’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte sarete coperti, faremo quadrato». Le torture non avevano aspettato l’ostaggio americano. La squadretta di torturatori detta “Quelli dell’Ave Maria” e guidata dal professor De Tormentis era attiva già dal 1978. Il sinistro, al funzionario Nicola Ciocia lo aveva dato direttamente il dirigente dell’Ucigos Improta, con in mente la Colonna infame di Manzoni. Che il ministro non fosse al corrente della pratica lo si dovrebbe escludere.

Forse il termine “coprire” è più adatto al comportamento del ministro dopo la strage di via Fracchia, il 28 marzo 1980. Quella notte i carabinieri del generale Dalla Chiesa irruppero nell’appartamento nel quale dormivano 4 brigatisti e li uccisero. Per rispondere al loro fuoco, dissero, ma ai giornalisti che per primi entrarono nell’appartamento fu invece chiaro, come affermerà molti decenni dopo Giorgio Bocca, che erano stati fucilati. I cronisti scelsero di coprire la mattanza e in tutta evidenza lo stesso fece il ministro. Nella leggenda popolare il ministro degli Interni a capo della guerra contro il terrorismo è stato Francesco Cossiga. Non è così. Quando Cossiga si dimise, dopo l’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, il terrorismo era all’offensiva, lo Stato aveva subìto la sua più cocente sconfitta. Il compito di risollevare le sorti della battaglia adoperando il pugno di ferro se lo assunse Rognoni, un uomo discreto, gentile, universalmente lodato per la sua signorilità. Un democristiano diverso dalle star dell’epoca, che non mancavano di istrionismo, erano personaggi celebri, vistosi, conosciuti da tutti.

Rognoni no. Non si metteva in mostra. Era riservato, geloso della vita privata: un matrimonio durato 57 anni, fino alla morte della moglie Giancarla Landriscina conosciuta all’università, quattro figli, sei nipoti. A spingerlo ad accettare un incarico considerato allora ad alto rischio, succedendo a Cossiga, era stata proprio lei: «Hai scelto di fare politica: quel che segue lo devi accettare». Tuttavia fu proprio questo compassato signore a dare il via libera alle torture e a una guerra combattuta senza esclusione di colpi e senza pastoie legali. Nei guai il ministro ci finì una volta sola, nel 1980. Il primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci, aveva parlato di un leader di Prima linea figlio di un ministro, Carlo Donat-Cattin. Cossiga, allora primo ministro, avvertì il padre, ne venne fuori uno scandalo coi fiocchi, Rognoni finì nel tritacarne ma ne uscì indenne. Lo Stato scelse di coprire, in questo caso non per meriti di guerra. La verità, tanto per cambiare, la raccontò Cossiga molti anni dopo. Disse che il primo reato lo aveva commesso il ministro, mettendo a parte dell’increscioso caso il segretario della Dc Piccoli. Decisero di informare insieme Cossiga. Fu proprio Rognoni, “gigante di coraggio”, a chiedere a Cossiga di informare lui Donat-Cattin, con il quale il titolare del Viminale “non andava d’accordo”.

Rognoni vinse la guerra con il terrorismo e perse quella con Cosa nostra. O forse non la combattè oppure non potè combatterla. Gli allarmi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa, l’isolamento denunciato da quest’ultimo spedito a Palermo senza alcuna copertura da parte dello Stato rimasero lettera morta. Lo zu Totò chiuse la partita a colpi di kalashnikov. Nell’82 fu però lui a sostenere, firmare e far approvare la legge La Torre, nel frattempo assassinato, contro Cosa nostra. Dopo gli Interni Rognoni passò alla Giustizia, quindi alla Difesa. La tempesta dei primi anni 90, con la fine della Dc sembrava averlo spedito in pensione per sempre nel 1994, dopo 28 anni passati in Parlamento. Invece nel 2002 fu chiamato alla vicepresidenza del Csm, da dove fece muro contro ogni critica rivolta alla magistratura in perfetta consonanza con quella che era la linea del suo partito, La Margherita, e del partito di cui nel 2007 contribuì, con altri 11 saggi, a scrivere il “manifesto”: il Pd. Antifascista negli anni giovanili a Pavia anche se mai partigiano, giurista raffinato e colto, avvocato e docente, Virginio Rognoni è stato senza dubbio un democratico convinto e vicino all’anima più aperta e di sinistra dello scudocrociato. Ma è stato anche l’ultimo nella tradizione democristiana dei ministri degli Interni col pugno durissimo. David Romoli

Massimiliano Panarari per “Specchio – La Stampa” il 16 agosto 2022.

Cosa resterà degli anni Ottanta? Così cantava Raf al Festival di Sanremo nel 1989. Tanto, decisamente. L'inizio di questo periodo ha conosciuto la tragedia - non solo in Italia, ma specialmente nel nostro Paese - degli anni di piombo, prosecuzione della coda velenosa dei Settanta, una cappa cupa e sanguinosa che ha oscurato le strade e le speranze dei nostri connazionali con gli attentati e gli omicidi del terrorismo nero e del brigatismo rosso.

Gli Eighties furono così, per molti versi, anche una reazione a quanto avvenuto negli anni Settanta sotto il profilo politico-ideologico, nel quadro dell'ascesa del neoliberismo. Ovvero, il paradigma socioeconomico della rivoluzione neocon portata al potere dal thatcherismo e dal reaganismo, che trovò degli autentici manifesti cinematografici nelle saghe di Rambo (dal 1982) e Top Gun (dall'86).

Gli anni Ottanta - quelli che non sono mai finiti, a giudizio di alcuni osservatori - hanno rappresentato il trionfo del ritorno al privato e del «riflusso» di generazioni desiderose di lasciarsi alle spalle l'impegno collettivo (e certi suoi estremismi) per concentrarsi su di sé. 

La nuova era dell'individualismo spinto e dell'edonismo reaganiano (per dirla col tormentone inventato da Roberto D'Agostino a Quelli della notte, poi divenuto una categoria tout court del dibattito culturale). Dal «tutto è politica» si è passati, per tanti versi, al «tutto è comunicazione», grazie al potenziamento anche tecnologico dei media, alla loro moltiplicazione, e ai mutamenti radicali della cultura e dello spirito dei tempi.

È il decennio che ha consacrato la «cultura del narcicismo» (come la denominò Christopher Lasch), in cui il culto del corpo - dal surf al body-building e al fenomeno sociale dell'andare in palestra - è letteralmente esploso, provenendo in primis (al pari di parecchie altre novità) dalla California, frontiera dell'Estremo Occidente. 

Autorappresentazione di sé e autoperformatività che affondavano i loro albori simbolici in una celebre pellicola di John Badham di fine anni Settanta, La febbre del sabato sera con John Travolta. E che avrebbero gettato le basi per la ricerca sempre più frenetica di strumenti e opportunità per comunicare, una dimensione che rimanda anch' essa, in maniera eminente, all'espressione della soggettività (premessa per il successivo dilagare di quell'«autocomunicazione di massa» di cui ha scritto magistralmente Manuel Castells).

Il decennio dell'ascesa, nella triangolazione Parigi-West Coast-New York, della cultura postmoderna. Quella che, in un battibaleno, diventa di massa e pop(olare) con il successo planetario del romanzo Il nome della rosa di Umberto Eco, pubblicato da Bompiani nel 1980. 

E che incontra una macchina comunicativa e scenografica poderosa nelle varie edizioni dell'Estate romana, nata nel 1977 (anno seminale che chiude, di fatto, i «brevi Settanta» e inaugura i «lunghi Ottanta») su iniziativa di Renato Nicolini proprio per rianimare le piazze della capitale atterrita dalla violenza politica (e per animare le periferie), mescolando cultura alta e bassa, giustappunto secondo la visione di fondo del postmodernismo.

La colonna sonora del decennio - ricchissima - in Italia propone alcune hit storiche di ricerca del divertimento e di fuga dai "cattivi pensieri" e dalle preoccupazioni, come quelle dell'album Alè-oò di Claudio Baglioni ('82), Gioca jouer di Claudio Cecchetto ('81), Vacanze romane dei Matia Bazar ('83), Bello e impossibile di Gianna Nannini ('86), Gimme Five di Jovanotti ('88). 

L'età aurea delle discoteche e del clubbing, anche nella versione di quella creatività individuale del look degli avventori che raggiungerà l'apice in locali quali il Tenax di Firenze, tempio della new wave. Soprattutto, gli anni Ottanta furono quelli del «diluvio commerciale» delle televisioni e radio private (come lo definì il sociologo dei media Jay Blumler) e della pubblicità, in grado di stabilire un'inedita egemonia sottoculturale, che in Italia venne sparsa a piene mani dal berlusconismo catodico.

Con le sue punte di diamante in trasmissioni tv come Drive In, un complesso «apparato finzionale», ispirato da alcune intuizioni del situazionismo rovesciate politicamente di segno che, dietro l'atmosfera ridanciana e disimpegnata, veicolava la nuova religione dell'iperconsumo (compreso quello sessuale, svestendo un gruppo di ragazze per la prima volta in prima serata) e un'ideologia de facto di taglio neoconservatrice. 

E proprio allora ebbe inizio anche la marcia trionfale della rivoluzione informatica: Apple metteva sul mercato il suo pc Macintosh, accompagnandolo con lo spot 1984 diretto da Ridley Scott (reduce dal capolavoro Blade Runner); e il 20 novembre dell'85 Microsoft lanciava la versione originaria del sistema operativo Windows.

Dagospia il 16 agosto 2022.  PRECISAZIONE CON RICHIESTA DI PUBBLICAZIONE

In Riferimento all’articolo 

Caro Dago,

la risposta in questione è una garbata precisazione dell’ufficio stampa.

Fosse stato per me, mi sarei limitato a osservare, guardando la foto di Panarari, che purtroppo in alcuni casi Lombroso ha ragione. Antonio Ricci 

Gentilissimo Massimiliano Panarari,

Con la pervicacia di un Goebbels de’ noantri, torna a ripetere falsità su Drive in. Così tocca pure a noi ripeterci e ri-ricordarle che il varietà di Antonio Ricci fu una trasmissione libera e libertaria, un programma comico e satirico che ha irriso e messo alla berlina protagonisti, mode e personaggi degli anni ‘80.

Una parodia dell’Italia di quegli anni esagerati, della Milano da bere, del riflusso, e di quell’edonismo reaganiano anche da lei nominato. Oreste Del Buono, Angelo Guglielmi, Federico Fellini, Umberto Eco e tanti altri intellettuali dell’epoca la definirono “la trasmissione di satira più libera che si sia vista e sentita per ora in tv” o “l’unico programma per cui vale la pena di avere la tv”. 

Ancora le facciamo notare che - come lei le definisce - “le ragazze svestite” erano altrove. Oltre che al cinema e sulle copertine dei settimanali di opinione, erano sui canali Rai. Rosa Fumetto ne Il Cappello sulle 23, Ilona Staller in C’era due volte, Barbara d’Urso in Stryx e quelle che facevano da tormentone in Due di tutto, per fare qualche esempio.

A Drive In, per la primissima volta in un varietà, le ballerine di fila (più vestite delle “donnine di Macario” e delle acrobate di qualsiasi circo) prendevano la parola e facevano battute, tra l’altro interpretando testi scritti da una donna, Ellekappa. All’epoca non si erano mai viste in tv tante comiche donne: da Margherita Fumero a Syusy Blady, da Olga Durano a Johara, da Caterina Sylos Labini a Luciana Turina e Antonia Dell’Atte. Una piccola grande rivoluzione che suscitò l’attenzione anche di Maria Novella Oppo che ne scrisse sull’Unità. 

Vorremmo evitare anche di inviarle nuovamente il documentario di Luca Martera “Drive In: l’origine del male”. Potrebbe farsi un’idea più completa degli anni ‘80 e rivedere certe sue assurde certezze, ma non ci pare abbia troppa voglia di studiare. Visto, però, che l’anno prossimo Drive In compie 40 anni, ci riproviamo ed esprimiamo il desidero soffiando sulle candeline. Con l’augurio che lei non prenda più cantonate come accadde tempo fa con il deepfake di Matteo Renzi, ricorda?

Aveva sostenuto che Striscia la notizia aveva solo in seconda battuta rivelato che il famoso video era un falso. Mentre era stato lo stesso Ricci a darne notizia pochi giorni prima della messa in onda davanti a decine di giornalisti in una affollata conferenza stampa. Il fatto era stato riportato anche da La Stampa, quotidiano sul quale scrive, ma che evidentemente non legge. Per cortesia nella sua risposta non la butti, come sempre, in caciara. Fatti, non mal di pancia.

Cordiali saluti, L’Ufficio stampa di Striscia la notizia (e di quel che resta del Drive In)

DAGONEWS il 16 agosto 2022.

È un tormentone della rete. Un collage di memorabilia politico, datato trentacinque anni fa (sette anni prima della discesa in campo dal Cavaliere) con una catena di spot di famiglie felici che intonano: Forza Italia! E non per la nazionale, ma per la Democrazia Cristiana. Uno spot diventato iconico, creato dalla stessa agenzia che produsse quello de “Il Mulino Bianco” per la Barilla e della “Milano da bere” per l’Amaro Ramazzotti: “Per un sorriso, per la libertà, per un grande sogno, l’amore per l’avvenire, per una vita e la serenità, la tua casa e il lavoro del futuro dei tuoi sogni, forza Italia, forza Italia, Forza Italia. Fai vincere le cose che contano: vota Democrazia Cristiana”. 

Un mondo semplice: con i comunisti, i socialisti e i socialdemocratici, i repubblicani, i liberali e i radicali e il Movimento Sociale Italiano (Destra Nazionale).

Si parte coi trenini di Spadolini. Un plastico che riduce in versione Rivarossi (o Lima) uno scenario da Cassandra Crossing dove sui treni c’è il destino del Paese (alla guida dei locomotori dei due convogli pronti a scontrarsi non si capisce se ci siano De Mita e Craxi. Fischio urlante e: “Diritti per la propria strada, decisi, irriducibili, così alcuni partiti, pretendono di uscire dalla crisi, ma quando nessuno da strada a nessuno, quando tutti vogliono tutto, la corsa al potere diventa la corsa verso il disastro.

Oggi c’è una via di uscita la via della chiarezza e della ragione. Imbocchiamola insieme” e un bel fermo immagine di Giovanni Spadolini - in modalità airbag - con invito a votare per lui (unico che si fa citare: “Vanità della vanità, tutto è vanità” Ecclesiaste). Poi c’è la Destra Nazionale, che gioca con la Nazionale, in azzurro. Siamo al rigore finale (in un montaggio tenerissimo; si passa da un’inquadratura di uno stadio stracolmo a un dettaglio di un calciatore che poggia il pallone sul dischetto in uno stadio vuoto e con anello per l’atletica – assente nell’immagine precedente: “Il momento è arrivato, puoi farcela. Basta un gesto per cambiare il tuo futuro e quello della tua nazione. È il tuo futuro in gioco, non sbagliare! Vota Movimento Sociale Italiano”. Il calciatore tira e fa goal. Dove tira? Al centro! Appunto. A corredo c’è la solita bella fiamma, tricolore, che arde ancora inconsapevole delle future polemiche ideologiche e, presto, energetiche.

Quindi scena bucolica, poi del lavoro, poi ragazzina che guarda in camera e tiene un’inquadratura stretta di 10” che nemmeno Liz Taylor al massimo splendore: “C’è un’altra possibilità eliminare l’inquinamento non l’ambiente. C’è un’altra possibilità far crescere il lavoro non solo i profitti. C’è un’altra possibilità una politica lontana dagli intrighi vicina ai cittadini. Vota Partito Comunista Italiano”. C’erano ancora i comunisti.

Elettore in cabina: “E questi si fanno un governo e non se lo votano (si riferisce al monocolore democristiano per cui ricevette l’incarico Amintore Fanfani con l’obiettivo di portare il Paese alle elezioni). 

 Questi sono contro quelli e poi ci vanno insieme. Questi fanno la terza posizione… E questi stanno alla finestra. Oooo gli unici con un po’ di buon senso mi sembrano i socialdemocratici. Da un anno a questa parte sono cambiati hanno coraggio di scegliere e parlano a viso aperto. Vota social democratico. Vota l’alternativa riformista! Oh – ritorna in camera il protagonista - diffidate delle imitazioni!”. A interpretare il cittadino, socialdemocratico, Gigi Reder, Luigi Schroeder, l’immortale Ragionier Filini. Paolo Villaggio, risponderà, nelle stesse elezioni, con un appello al voto per Democrazia Proletaria.

“Le regole del gioco: barare o cambiare? Hai un voto per dirlo: Partito Liberale Italiano. L’Italia è cambiata! Cambia con noi”. Spot grafico, dove i colori del tricolore si alternano e scambiano come carte da gioco. Segretario Renato Altissimo.

Quindi tocca alla DC seguita dallo spot dei radicali che intonano “Nel blu dipinto di blu” del loro Domenico Modugno - ne fu parlamentare e presidente - su immagini di Marco Pannella: “Se solo c’è in gioco il più piccolo dei tuoi diritti noi radicali siamo capaci di fare di tutto proprio di tutto. Capite perché si può decidere di votare radicale?” con un giovanissimo Giovanni Negri, che guarda in camera. Magrissimo.

Si chiude coi socialisti: “Costruiamo nuovi anni di progresso, di modernità, di eguaglianza. In questi anni l’Italia è cresciuta. Può continuare a farlo”. Si esce dalla lettura dello speaker: “Possibilmente con un fiore” è Bettino Craxi che guarda in camera con in mano un garofano. I socialisti rispondono al Filini socialdemocratico con un Minoli turbo socialista (in versione intervistatore ossessivo che insegue il leader socialista tra università, parchi, fabbriche e supermercati – qui sta alla cassa - per porgli irrimandabili domande).

Se ne viene dai due governi socialisti, in un’Italia che ha visto l’inflazione passare dal 16 al 4% e da una staffetta tradita del PSI con la Democrazia Cristiana.

Siamo in un mondo agli sgoccioli della “Guerra fredda”; in America vanno in onda la prima puntata di Beautiful e dei Simpson; Gary Hart, candidato democratico alla Presidenza, capitola su Donna Rice; l’Italia, a Sanremo, canta con Morandi, Ruggeri e Tozzi: “Si può dare di più”.

Sarebbe arrivato molto di meno.

Da repubblica.it il 16 agosto 2022.

Era il 1996. In Italia, due alleanze concorrevano alle elezioni del 21 aprile. La destra con il partito di Silvio Berlusconi, Forza Italia, Alleanza Nazionale e il CDD. La sinistra con il partito di Romano Prodi, il PDS, il PPI e le varie sinistre (coalizione dell'Ulivo). In un servizio del telegiornale francese Soir 3 Giorgia Meloni, all'epoca 19enne, viene descritta come una militante molto attiva di Alleanza Nazionale che riprende idee neofasciste.

Nell'intervista in francese, la Meloni spiega che Mussolini è stato un buon politico per l'Italia, un'idea (secondo la tv francese) condivisa dal 61% dei militanti di Alleanza Nazionale e da quella di sua madre, Anna Paratore, ex militante del partito fascista MSI e poi di Alleanza Nazionale.

Massimo Caprara amarcord. C’era una volta la passione. WALTER VELTRONI su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

Un testo edito dalla Camera dei Deputati ripropone i discorsi dell’esponente comunista. Il volume sarà presentato giovedì 23 giugno a Roma nell’Aula dei Gruppi parlamentari 

Il nome di Giovanni Battista Giuffrè dice qualcosa? Probabilmente no, son passati tanti anni. Eppure alla fine degli anni Cinquanta era sulla bocca di tutti. Per lui fu inventato il soprannome di «banchiere di Dio» (che tornerà poi appiccicato a spalle ben più importanti, come quelle del cardinale Paul Marcinkus), lui fu il protagonista di uno scandalo che coinvolse i pubblici poteri e quelli ecclesiastici che fece intravvedere il rischio di una finanza sregolata che raccoglieva fondi per «costruire nuove chiese» e che finì per rovinare risparmiatori ingenui (arricchendone pochi ma molto meno ingenui). Sono passati più di sessant’anni eppure nelle pagine di un volume edito dalla Camera dei Deputati emerge una descrizione vivida e acuta. Non è un’inchiesta giornalistica, ma l’intervento di un parlamentare, un parlamentare un po’ speciale che risponde al nome di Massimo Caprara.

Questi scritti — pensati per esser letti in un’aula severa, senza dirette televisive — hanno una nitidezza e una profondità che ancora suscitano ammirazione. Polemiche politiche durissime ma non urlate o condite di insulti ma ricche di dettagli, di studio, in cui i fatti si allineano e le domande incalzano. Che si parli dello scandalo dei «banchieri anonimi» (questo il nome scelto per la commissione parlamentare d’inchiesta non su Giuffrè ma sui mancati controlli che avevano reso possibile quello scandalo), o della speculazione edilizia a Roma, e — con una passione personale ancora maggiore — della drammatica situazione di Napoli nel lungo dopoguerra, Massimo Caprara è sempre lì: documentato, pungente, affronta di petto i problemi, polemizza direttamente con i membri del governo.

Caprara è stato, dal 1953, deputato per quattro legislature, era il secondo eletto della circoscrizione di Napoli (il primo era regolarmente Giorgio Amendola, capolista) era famoso per la sua cultura, per i suoi modi, per il rapporto di confidenza con Palmiro Togliatti di cui per anni era stato segretario. E già qui vediamo come nell’idea di un Pci tutto di ferro c’è qualche cosa che non va. Immaginate un leader politico che arriva in Italia nel 1944, in piena guerra, dopo un lungo esilio, che era stato tra i capi dell’Internazionale comunista, che a Mosca aveva vissuto gli anni di ferro e di fuoco. Ebbene, la prima cosa che fa — appena lanciata la svolta di Salerno — è quella di andare in cerca di giovani di talento: incontra Massimo Caprara, parla con lui di letteratura francese, di poeti ermetici e lo sceglie come redattore di «La Rinascita» e poi come suo segretario personale. Ci voleva del coraggio per scommettere su un giovane, appassionato borghese nato a Portici e approdato al comunismo negli ambienti culturali della Milano dove aveva studiato da liceale e nella Napoli dove aveva animato un circolo di giovani intellettuali raccolti attorno a «Latitudine». Aveva coraggio Togliatti, ma anche occhio, perché Caprara e quel gruppetto di amici «diventarono» il regista Franco Rosi, il romanziere Raffaele La Capria, lo scrittore Luigi Compagnone, il promettente dirigente politico (anche se allora si occupava soprattutto di teatro) Giorgio Napolitano.

Ecco, questi discorsi parlamentari ci raccontano una generazione e una Italia che può apparirci lontana ma nella quale stanno le nostre radici. La passione per il Mezzogiorno (quello orgoglioso, non quello «con la mano tesa del mendicante», come ebbe a dire lui stesso) lo portò a essere sindaco di Portici, a battersi contro Achille Lauro, il sindaco monarchico e il padre di una specie di populismo straccione, persino a fare un cameo nel film di Rosi Le mani sulla città insieme a quel gruppetto di amici che si chiamavano Carlo Fermariello, Andrea Geremicca, Maurizio Valenzi... Ma la biografia di Caprara non si ferma certo qui, perché la sua è la «storia di un italiano che ha attraversato il XX secolo», come si intitola la bella e complessa prefazione firmata da un altro Caprara, Maurizio, che i lettori di questo giornale conoscono bene. E la sua è stata anche una storia di dissensi, di uscite, di ripensamenti, di una ricerca spinta da domande e urgenze. Massimo Caprara fu tra quanti vennero radiati dal Pci per la nascita del «Manifesto». Attraversò l’esperienza di quel giornale (più che del partito che ne era stato il frutto) tenendo insieme il rispetto per il Parlamento e le istituzioni e la passione per i Consigli di fabbrica e le nuove forme di democrazia. Soprattutto scrivendo, con la sua lingua allenata ai poeti simbolisti francesi e alle battaglie politiche.

Rileggere oggi queste carte ci dice molto di noi, della nostra storia, di una generazione di italiani che si era scrollata di dosso quel fascismo nel quale erano nati. Che ha vissuto intrisa di politica e, man mano, scoprendo, anche nel proprio campo ideologico, la bellezza del dubbio, sinonimo di libertà.

Giovedì 23 alle 18 - La presentazione a Roma nell’Aula dei Gruppi

Il volume che raccoglie i Discorsi politici e parlamentari di Massimo Caprara sarà presentato giovedì 23 giugno alle 18 a Roma (Aula dei Gruppi parlamentari, via di Campo Marzio 78, 06.67609307, cerimoniale.adesioni@camera.it). Dopo l’intervento introduttivo di Ettore Rosato, vicepresidente della Camera, sono in programma interventi di Rocco Buttiglione, già vicepresidente della Camera, di Anna Finocchiaro, presidente dell’associazione «Italiadecide», di Filippo Ceccarelli, giornalista. Partecipa Maurizio Caprara, modera la giornalista Giovanna Pancheri. Durante l’incontro l’attore Ignazio Oliva leggerà alcuni brani dal volume. Il libro di Massimo Caprara è reperibile nella libreria online della Camera dei Deputati a link: camera.it/leg18/1163.

Il volume e la vita

Discorsi politici e parlamentari di Massimo Caprara, a cura della Biblioteca della Camera dei deputati, con una introduzione di Maurizio Caprara, sono editi dalla Camera dei Deputati (pp. 244, euro 10). Politico e giornalista, Massimo Caprara (Portici, Napoli, 7 aprile 1922) fu, tra l’altro, segretario particolare di Palmiro Togliatti, sindaco di Portici dal 1952 al 1954, deputato eletto nelle liste del Pci per quattro legislature, membro del comitato centrale del partito e segretario regionale del Pci in Campania. Tra i fondatori del gruppo del «Manifesto», nel 1969 venne radiato dal Pci. È morto a Milano il 16 giugno 2009

Prima repubblica e crisi della politica. La morte della democrazia non fu colpa solo di De Mita. Enzo Carra su Il Riformista il 5 Giugno 2022. 

Caro direttore, nel tuo epicedio per Ciriaco De Mita, così diverso dagli altri da sembrare stonato, ma la politica non obbedisce a un canone melodico, tu concludi, perdona la citazione demitiana, con un ragionamento. Dici che da “quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il demitismo e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica.”

Così, tu attribuisci a De Mita un ruolo imponente nell’ultima fase di quella che con leggerezza chiamiamo Prima Repubblica (è forse stata cambiata la Costituzione?). Certo, dal caso Moro in poi quella parte della nostra storia ha proseguito il suo corso come sospesa, malamente, senza idee e senza progetti. La cosiddetta lotta politica s’era trasformata dalla fine degli Anni settanta in uno scontro tra i detentori del potere e quelli che volevano impossessarsene. Per dire: Andreotti spogliato del governo dopo il caso Moro punta sull’elezione di De Mita alla segreteria della Democrazia Cristiana per poi mollarlo appena ottenuto il ministero degli esteri da Bettino Craxi. Per dire.

Negli Anni ottanta la “grande politica” è assente. Molta tattica, un governo a guida socialista appoggiato da una parte della Democrazia Cristiana e il partito di Scalfari-Repubblica che appoggia De Mita: c’è questo e poco altro in quel fine secolo ed è complicato limitare a uno solo dei protagonisti dell’epoca la responsabilità del crollo. È sicuro invece che questo crollo, tu lo definisci icasticamente la “morte della democrazia”, avviene nel maggio del 1982 quando si vota per il presidente della repubblica. Sarà il successore di Francesco Cossiga, il “picconatore” tanto per restare in tema di crolli. In quei giorni si consuma l’ultimo atto della repubblica dei partiti. Si inizia con un saggio di filodrammatici, li chiamano franchi tiratori, che seminano trappole e si finisce avvolti dalle fiamme in una tragedia che brucia uomini e istituzioni.

Cominciamo dalla fine, una fine vera. Lunedì 25 maggio a metà giornata i grandi elettori applaudono Oscar Luigi Scalfaro nuovo capo dello stato: hanno votato a stragrande maggioranza una persona che prima di quell’infernale week end avevano escluso dalla lista degli eleggibili. Sono le fiamme e la tragedia di Capaci a obbligare quell’esercito allo sbando a votare per Scalfaro, il candidato al di sopra di ogni sospetto. E alla domanda perché Riina e gli altri assassini abbiano scelto quel giorno per la strage la risposta è: Andreotti. Dopo Salvo Lima, Cosa Nostra completa la sua vendetta contro chi l’ha scaricata con quell’orrore inimmaginabile che impedirà a Andreotti di chiudere al Quirinale la sua carriera politica.

Per ottenere questo risultato però non c’era bisogno di quintali di tritolo perché già dall’estate del 1990, al rientro a Roma della commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte da una importante e rivelatrice missione a Palermo, i comunisti fanno sapere ad alcuni dirigenti democristiani che il partito non sosterrà più Andreotti. La Democrazia Cristiana tiene conto di questa decisione del partito con il quale ha sempre condiviso la scelta al Colle più alto. Una prassi che ha tollerato un’unica eccezione, il voto per Giovanni Leone che mandò il giurista al Quirinale e su tutte le furie il partito comunista, neutralizzato in quell’occasione, che poi seppe come dilaniare il presidente che non doveva ringraziarlo. Il 1992 è un anno speciale. Mani Pulite è partita da poco ma promette grandi cose e i partiti, tutti i partiti comunisti compresi, non hanno lo smalto di una volta, anzi boccheggiano.

Un’ultima volata, un disperato sforzo di restare in piedi per non mandare all’aria il sistema -la Prima Repubblica– che non ha alternative se non quella dell’avventura come sistema, è questo il tentativo del quadripartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali). Un’operazione che nello scrutinio decisivo potrà raccogliere i cosiddetti voti in libertà da sinistra e forse anche da destra. Una scelta conservativa, sì ma per evitare il peggio. È vero, all’occorrenza ci sarebbe anche Oscar Luigi Scalfaro, il “candidato di Marco Pannella” come scrivono i giornali. Non è per questo che sul quel nome ci sia il “no” della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita, presidente del partito con Forlani segretario, non dimentica la severità curiale, l’enfasi moraleggiante, la demagogia con cui Scalfaro ha condotto, da presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, i fatti della ricostruzione in Irpinia.

Prima Montanelli sul Giornale, con una grande inchiesta giornalistica di Paolo Liguori, ha sommerso di accuse il “clan degli avellinesi”, poi la commissione parlamentare ha messo in bella copia e dettagliato quelle denunce. Raro esempio di un’azione giudiziaria ispirata e sorretta da un’inchiesta giornalistica, da allora in poi infatti avverrà il contrario e i giornali aspetteranno il via, soprattutto le carte dalle procure. De Mita controlla un buon quaranta per cento dei grandi elettori della Democrazia Cristiana e i suoi orientamenti influenzano l’intero arco costituzionale che del resto è una sua invenzione. Arnaldo Forlani è capo della parte moderata che adesso si chiama Azione popolare e comprende la vecchia cara corrente del Golfo che fa capo a Antonio Gava.

Insomma, il candidato Forlani parte bene anche se Mario Segni, ex capo dei superanticomunisti democristiani, i “101” di Massimo De Carolis e Luigi Rossi di Montelera, sta molto simpatico al capo dei democratici di sinistra Achille Occhetto. Segni chiede un completo rinnovamento del suo partito, a cominciare dal candidato alla presidenza, ma i suoi amici di partito non raccolgono l’appello. Non tanto per il rinnovamento in sé quanto per gli uomini che lo reclamano. Superato questo problema resta solo la prova dell’aula. De Mita e Forlani sentono odore di bruciato, è soprattutto De Mita a intuire che qualcuno sta armando una piccola ma efficace forza speciale di franchi tiratori. All’operazione lavora probabilmente Cirino Pomicino e quei pochi che credono nel rientro di Andreotti.

Tra i congiurati non figura Vittorio Sbardella, lo Squalo, come è sobriamente definito il capo andreottiano di Roma e dintorni, odia talmente Pomicino da fare qualunque cosa pur di far fallire i piani del rivale. Il cui piano è però talmente striminzito da sfuggire ai controlli. “Mi dissero che si trattava di bloccare Forlani perché poi sarebbe entrato Andreotti e con lui noi parlavamo meglio” mi racconta anni dopo un ex sottosegretario socialista di Ariano Irpino che un tempo si chiamava Ariano di Puglia ed è distante da Nusco. I franchi tiratori che sfuggono a De Mita e atterrano Forlani sono 39 al quinto scrutinio e 29 al sesto. Voti di andreottiani che sperano, socialisti che odiano Bettino Craxi, qualche socialdemocratico e un paio di liberali del genere hai visto mai.

Ecco fatto, Forlani getta la spugna, sconfitto dai franchi tiratori, dopo aver respinto con sdegno una possibile trattativa con Bossi proposta da Pierferdinando Casini. Chi si sente sconfitto più di lui è De Mita che vede con chiarezza pararsi davanti la fine della democrazia nel senso della Prima Repubblica, come la definisci tu, caro direttore. Stavolta, davvero, non è colpa sua ma dei sogni irrealizzabili di certi avventurieri. Enzo Carra

Arnaldo Forlani e la lezione del Padreterno democristiano. Redazione L'Identità il 9 Dicembre 2022

Arnaldo Forlani compie novantasette anni, e io sono contento due volte: per lui, e per noi. Per lui, si capisce: ha avuto il dono di una lunghissima vita, la prima parte della quale occupata da straordinari onori pubblici, l’ultima segnata dall’umiliazione dell’oblio, ingiusto ma da lui accettato col buon senso marchigiano che mette la bilancia in pari tra glorie e dolori. Sono contento anche per noi, che siamo gli ultimi ragazzi democristiani, ormai sessantenni, giovani solo quando ci troviamo tra di noi, o quando – in giorni come questo – ci rapportiamo ai grandi maestri della nostra giovinezza. E’ un anno triste, perché si è portato via Ciriaco De Mita e Gerardo Bianco. Bianco fu il più grande sostenitore di Forlani, con cui condivideva le idee, la moderazione e soprattutto la straordinaria signorilità. De Mita invece fu gemellato ad Arnaldo nel patto di san Ginesio, dal nome del paesino marchigiano dove i due si allearono conquistando e dividendosi la segreteria della Dc. Pensavano di aver fatto fuori la vecchia guardia del partito, che invece fece fuori loro, alla prima fermata utile, come si usava nella Dc. Altri tempi. Ma ogni anno è bello fare gli auguri ad Arnaldo, ed assaggiare con lui quella quota di eternità democristiana che il Padreterno gli ha permesso di godere già su questa terra. Certo, l’ultimo segretario dc vivente non fa più interviste, non esce, mi dicono che non segue neppure più i telegiornali, ad essi preferendo le partite di calcio, dopo la politica la sua seconda passione (forse quella che gli ha recato meno dolori). Ma Arnaldo c’è ancora, e siamo felici di fargli gli auguri. Forlani non ha più parteggiato per nessuno , dopo la fine della Dc. Penso che abbia preferito il centrodestra al centrosinistra, ma come elettore, senza particolare coinvolgimento. Ha seguito con distacco le vicende della politica, persino quando hanno coinvolto suo figlio, valoroso parlamentare del CCD. Eppure Forlani è stato il solo democristiano consapevole di quanto stava accadendo al partito. Sfogliamo l’album dei ricordi, recuperando alcuni suoi pensieri che scandivano l’inizio della lunghissima e non ancora conclusa transizione postdemocristiana: ‘ se vi riunirete per provare a rifondare la Dc, scoprirete solo il motivo per cui ci siamo divisi’. E ancora: ‘in politica, come nel teatro, a un certo punto cambiano gli scenari, e la cosa più penosa è quando gli attori recitano la parte che sanno a memoria, senza accorgersi che alle loro spalle è stata montata la scena successiva’. E sulla fine dell’unità dei cattolici: ‘ se ci divideremo, nasceranno due partiti che faranno a gara a quale dei due sarà più cattolico, e continueranno a dividersi senza più limite’. Oggi siamo arrivati a contare settantacinque sigle centriste e democristiane. Auguri Arnaldo, lunga e vita e complimenti soprattutto per esserti tenuto a distanza dai paciughi con cui ci siamo baloccati noialtri ragazzi democristiani privi della tua guida sorniona e discreta.

Festa della Repubblica, chi era la ragazza della foto simbolo del Referendum? Un mistero risolto lungo 70 anni. Alessandro Vinci su Il Corriere della Sera il 2 Giugno 2022.

Federico Patellani, il reporter che realizzò lo scatto, non lo volle mai rivelare. La svolta nel 2016 grazie a una segnalazione anonima. 

È il volto simbolo della Repubblica italiana, ma la sua identità è rimasta ignota per 70 anni. Quindici giugno 1946: sulla copertina del settimanale Tempo campeggia una fotografia che sarebbe entrata nell’immaginario collettivo. Una ragazza, la cui testa attraversa la prima pagina del Corriere della Sera del 6 giugno 1946, guarda sognante verso il cielo. «È nata la Repubblica italiana» il titolo a piena larghezza, riferito all’esito dello storico referendum istituzionale di quattro giorni prima. A realizzare lo scatto la Leica di Federico Patellani, caposcuola del fotogiornalismo nel nostro Paese nato a Monza nel 1911. Già documentarista militare durante la campagna di Russia, tra il 1943 e il 1945 aveva trascorso due anni e mezzo di internamento in Svizzera. Poi, una volta tornato in Italia, aveva ripreso a collaborare con la rivista milanese. 

Emblema di speranza e fiducia nel futuro, l’immagine venne intitolata «Rinasce l’Italia» e, grazie alla sua potenza espressiva, non faticò a tramutarsi in un manifesto universale per le celebrazioni del 2 giugno. Parallelamente crebbe la curiosità di saperne di più. Non suscitò particolare sorpresa scoprire che non si trattava di una foto «spontanea», scattata cioè immortalando un genuino momento di gioia della protagonista. L’istantanea è infatti frutto di ben 41 provini a contatto oggi conservati presso il Museo della Fotografia contemporanea di Cinisello Balsamo (Milano). In alcuni la giovane è ritratta davanti a una serie di manifesti, in altri legge il giornale, in altri ancora esulta con il pugno alzato. Infine l’idea vincente: quella dello «sfondamento» della prima pagina (in un primo momento anche con la mano sinistra, come dimostra il buco rimasto sotto il sommario).

Ma chi era quella ragazza? Malgrado le ripetute insistenze dei curiosi, Patellani, scomparso nel 1977, tenne sempre la bocca cucita. Molti pensarono potesse essere identificata con una sua familiare, ipotesi però smentita dal figlio Aldo. Secondo un’altra versione, invece, sarebbe stata un’ex partigiana. Ebbene, dopo decenni all’insegna del mistero, a fare luce sul caso è stata nel 2016 un’inchiesta pubblicata su Medium da Giorgio Lonardi e Mario Tedeschini Lalli. I quali, dopo aver invitato chiunque avesse informazioni utili a farsi avanti, hanno ricevuto una segnalazione anonima: «Finalmente trovo il tempo affinché sia dato giusto onore alla figura sorridente che con il suo volto giovane sbuca dalla pagina del Corriere della Sera dal lontano 1946». Ed ecco poi l’agognato nome, scritto nero su bianco: Anna . Anna Iberti. All’epoca 24enne e futura moglie di Franco Nasi, tra i primi giornalisti del Giorno. Come poi emerso, in quel giugno 1946 lavorava come impiegata nell’amministrazione dell’Avanti! , quotidiano del Partito Socialista per il quale in quei mesi scriveva anche lo stesso Nasi. In precedenza, concluse le scuole magistrali, aveva invece avuto una breve esperienza come insegnante, mentre dopo il matrimonio preferì lasciare il lavoro per dedicarsi interamente alla famiglia.

Non restava a quel punto che mettersi sulle sue tracce. Lonardi e Todeschini Lalli hanno però scoperto che la donna è scomparsa nel 1997. In compenso hanno raggiunto a Milano le figlie Gabriella e Manuela, che ancora conservano alcune stampe del servizio fotografico. «Quasi quasi mi spiace che diventi pubblica questa cosa che per tanti anni è rimasta in famiglia», ha detto la prima. «La mamma era un tipo molto riservato, parlava poco di questa cosa», le ha fatto eco la seconda. Sono state tuttavia proprio loro a rivelare, sulla base degli scarni racconti della madre, che lo scatto venne realizzato sulla terrazza del palazzo di via Senato 38 che ospitava la redazione milanese dell’Avanti!. Resta però un ultimo punto da chiarire: in che modo Patellani conobbe Anna, arrivando poi a chiederle di posare per lui. Di certo i due avevano diverse amicizie in comune nel mondo del giornalismo ma, considerato che il figlio Aldo «non ricorda alcuna particolare frequentazione tra le due famiglie», a ben vedere è proprio questa la vera domanda destinata a restare senza risposta.

I cavalieri del grande centro tra pacifismi e nemici. Paolo Mieli su Il Corriere della Sera il 22 Maggio 2022.

Vi fanno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Li accomuna l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Pnrr) 

Le parole pronunciate da Silvio Berlusconi, tre giorni fa, all’uscita dal ristorante «Cicciotto a Marechiaro» davano un’innegabile sensazione di schiettezza. Maggiore, l’autenticità, di quella rintracciabile nelle declamazioni dello stesso Berlusconi il giorno successivo alla Mostra d’Oltremare. Fuori dal locale napoletano, l’ex presidente del Consiglio aveva detto in modo nitido che — fosse per lui — si dovrebbe smettere di dare armi all’Ucraina; che, qualora si decidesse di continuare a fornire armamenti alla resistenza antirussa, bisognerebbe farlo di nascosto; e che l’Europa dovrebbe impegnarsi a costringere Zelensky a prestare ascolto alle indicazioni che gli vengono da Putin. Una cosa, quest’ultima, che fin qui non aveva proposto neanche Vito Rosario Petrocelli.

L’indomani, alla convention di Forza Italia, Berlusconi è stato meno sorprendente limitandosi a rievocare la propria militanza atlantica risalente al 1948 (stavolta omettendo però ogni menzione di Putin). E a richiamare il rischio che l’Africa venga lasciata in mano ai cinesi. Senza tralasciare l’appello per un coordinamento militare comune della Ue. Evocazione, quella dell’«esercito europeo», alquanto diffusa nel discorso pubblico italiano, ad uso di chi intenda manifestare una qualche presa di distanze dagli Stati Uniti.

Berlusconi ovviamente non si è poi sentito in obbligo di rettificare quel che aveva detto all’uscita dalla trattoria. Parole venute dal cuore, pronunciate nella consapevolezza che avrebbero avuto la dirompenza di un missile piovuto dalla Russia sulla politica italiana. Con conseguenze fin d’ora ben individuabili.

L’allocuzione da «Cicciotto a Marechiaro» ha aperto la via per la nascita — all’insegna del no alle armi all’Ucraina — di un nuovo Grande Centro del quale faranno parte Lega, Forza Italia e Movimento Cinque Stelle. Schieramento al quale Berlusconi porterà in dote l’ancoraggio al Partito popolare europeo. E che costituirà una sorta di approdo naturale per tre partiti anomali che hanno fatto la storia di questi trent’anni (Berlusconi più degli altri, quasi venti). M5S, Lega e Fi hanno all’attivo d’aver ottenuto, in fasi diverse del trentennio, alcuni ragguardevoli record di voti. Favorite (talvolta danneggiate) dalla presenza di leader impegnativi.

Tre formazioni che non hanno un’autentica parentela con la storia della Prima Repubblica. Né — eccezion fatta (forse) per Forza Italia — con i filoni tradizionali della politica europea. Tre partiti che nel corso della loro vita hanno dato prova di non essere refrattari ai cambiamenti di orizzonte, di strategia e di alleanze. Anche repentini. E che, per il motivo di cui si è appena detto, hanno come tallone d’Achille il non potersi fidare l’uno dell’altro. Li accomuna, però, l’esibita devozione (intermittente nel caso di Salvini) nei confronti di Papa Francesco. Oltre a un’autentica passione per lo scostamento di bilancio, al non essere ossessionati dal rispetto delle regole europee (compresi gli impegni assunti con il Piano nazionale di ripresa e resilienza). In politica estera, sono uniti da un’ostinata ricerca di orizzonti sempre nuovi. Ad est, s’intende.

Questo Grande Centro è già oggi largamente maggioritario in Parlamento. E, se rimarrà intatta la legge elettorale, al momento della composizione delle liste sarà determinante per entrambi gli schieramenti, centrodestra e centrosinistra. Ma, anche se si adottasse un sistema proporzionale, questo insieme di partiti, nelle nuove Camere, avrà quasi certamente i numeri per condizionare ogni possibile maggioranza. A meno che, nel Parlamento rinnovato, non si costituisca un asse tra Fratelli d’Italia, il partito di Enrico Letta e quelli di Centro. Un asse — però — assai improbabile.

Quanto a chi fa affidamento sulle potenziali secessioni dei Di Maio, Gelmini o Fedriga, va osservato che nelle retrovie della sinistra e dello stesso Pd si annidano truppe di dubbiosi pronte a rimpiazzare gli eventuali secessionisti ricongiungendosi al M5S nel nome dell’ostilità agli Stati Uniti e alla Nato. Truppe peraltro già ben visibili.

In attesa delle elezioni del 2023, si può notare che il minimo comun denominatore di questo Grande Centro, oltre alla quasi esibita antipatia per la causa di Kiev, è una ben individuabile avversione nei confronti di Mario Draghi nonché dell’attuale governo. Si intravedono dunque per l’esecutivo draghiano settimane, mesi di inferno: il percorso di qui alla fine della legislatura sarà disseminato di trappole e mine.

Unico particolare trascurato dai nuovi «partigiani della pace» è l’impegno atlantista di cui, negli ultimi tre mesi, ha dato prova il Capo dello Stato. Un impegno manifestato senza dubbi, incertezze, esitazioni. E che, proprio per questo, potrebbe riservare qualche sorpresa.

Cossiga, Craxi e Andreotti: quando l'Italia atlantista si faceva rispettare. Luigi Bisignani su Il Tempo il 22 maggio 2022.

Caro direttore, grande fermento in Paradiso: “Bettinoooo, Giulioooo, nemesi! Nemesi storica!”, va urlando Francesco Cossiga, collegato via satellite con i lavori del Senato, dove Stefania Craxi è stata appena eletta Presidente della Commissione Esteri determinando l’ennesima débâcle M5Stelle. 

 “Giuseppi è finito in pellicceria in meno di niente”, commenta Craxi, armeggiando con le sue scarpe di tela, tagliate in punta, per lasciare ai suoi alluci quella libertà smarrita da vivo. 

Andreotti, alle ultime battute del suo nuovo libro “I Santi visti da vicino”, ridacchia ironico: “Fare simultaneamente il compare dei cinesi e degli americani è complicato per tutti, figuriamoci per uno che viene  da Volturara Appula.”

Cossiga: “Eppure ha avuto un grande maestro, il professor Guido Alpa che avrei voluto alla Consulta. Ma era troppo giovane…”.

Andreotti: “Alpa non ha colpe. Del resto anche Gesù tra gli apostoli aveva Giuda”.

Craxi: “Su Conte se ne sta accorgendo pure Grillo, al quale ho perdonato, ma non dimenticato, quella battuta infame su di me”.

Cossiga: “Lascia stare, su quella stagione di manettari tu e Giulio non avevate capito nulla”.

Andreotti: “Riflettendoci, tutto iniziò con l’accordo sulla moneta unica europea. Me lo fece notare Guido Carli tornando in aereo”.

Carli : “La tua memoria è infallibile. Dissi che avevamo creato un vincolo europeo più forte di quello Atlantico e che a Roma non avevano capito nulla”.

Cossiga: “In compenso lo capirono molto bene a Washington scatenando, poco dopo, Mani Pulite per “sfarinarci”, come direbbe Rino Formica. E non solo a Washington, anche a Londra”.

Andreotti: “Addirittura la regina?”.

Cossiga: “Non la regina. Il Britannia, lo yacht reale che approdò a Civitavecchia per dar via alle privatizzazioni”.

Craxi: “In Russia le privatizzazioni le hanno fatte gli oligarchi. Da noi, invece, la finanza anglo giudaico massonica”.

Andreotti: “Sul Britannia Ciampi spedì a fare il discorso inaugurale il mio bravo Mario Draghi. Ed era in buona compagnia, da Barclays a Goldman Sachs. Ma anche Bazoli e Andreatta”.

Cossiga: “Draghi ringraziò “gli invisibili britannici” e se la svignò. Forse si era già pentito”.

Craxi: “Da allora hanno svenduto l’Italia! Mancava solo Alessandra Ricci alla Sace, imposta dal solito duo Giavazzi-Funiciello, in passato nemica numero uno delle aziende pubbliche italiane, da Fincantieri a Finmeccanica.

Andreotti: “Si ha la sensazione di assistere ad una cessione di sovranità. Speriamo che Mattarella li mandi tutti a casa”. 

Serafica, come sempre, sopraggiunge Santa Madre Teresa di Calcutta che, zittendoli, mette tutti in preghiera: “Dovreste essere felici. La Fondazione Craxi è riuscita a organizzare un Convegno sulla vostra meritoria azione in terra, coinvolgendo eminenti storici come Giovanni Orsina, Antonio Varsori, Lucia Coppolaro e Andrea Spiri”.

Andreotti: “Almeno per una giornata non sono Belzebù e il presidente Craxi non è il cinghialone”.

Cossiga: “Brava Stefania per il Convegno e bravo tuo figlio Stefano, insieme al mio amico Sessa, l’ambasciatore, hanno saputo come rendervi omaggio con lavoro di verità e ricordi. Invece i miei figli…di me, laggiù, non parla più nessuno”.

Andreotti: “La mia presentazione come un papalino romano mi è piaciuta”.

Craxi: “Io come garibaldino lombardo un po’ calvinista mi ci vedo proprio”.

Andreotti: “Nonostante ciò molti sono i punti in comune tra noi”.

Madre Teresa: “Penso all’ingiusto calvario che avete subito: un cattolico che crede nella Provvidenza e nel Disegno Divino e un garibaldino con le sue sofferenze, appunto, che si ribella e contrattacca innanzi alle ingiustizie”.

Cossiga: “Pragmatici direi. L’ambito internazionale rappresenta il vostro lascito più significativo. Entrambi atlantisti; di un atlantismo della ragione che rendeva l’Italia un interlocutore credibile”. E malinconicamente aggiunge: “Non come questi pupazzi di oggi”.

Madre Teresa: “C’erano anche punti di dissenso”.

Andreotti: “Certo! Ma eravamo avversari, non nemici. Rammento ancora poco prima del mio sesto governo, nel 1989, che parlammo a quattrocchi in un salottino di Villa Madama dove mi diede il viatico del PSI”.

Craxi ridendo: “Lo ricordo bene. A volte mandavi Peppino Ciarrapico, che ci metteva del suo”.

Andreotti: “In pochi mi mettevano di buonumore come il Ciarra, gli perdonavo tutto”.

Cossiga: “Anche l’assegno a vuoto a Gorbaciov per il Premio Fiuggi?”.

Andreotti: “ Mai avremmo pensato che lo incassasse subito. A coprirlo provvide il caro Geronzi”.

Madre Teresa: “Sempre questi gossip, serietà! Quindi? I punti salienti di maggior dissenso?”.

Cossiga: “Il Primo? Una lettura completamente diversa del compromesso storico. Andreotti veniva ancora percepito come l’uomo del dialogo con i comunisti. Una percezione che gli è costata addirittura la diffidenza iniziale di San Karol Wojtyla. E poi la vicenda Moro”.

Andreotti: “Hai sentito Bettino che hanno fatto un’altra fiction su Aldo Moro? Una serie, come dicono ora! Una nuova mascalzonata dopo quella de ‘Il Divo’ ”.

Craxi: “Sono sempre loro. Stavano coi russi e spiegavano come difendere la democrazia a noi democratici. Mi viene da sorridere a pensare alla fermezza che si evocava per Moro contro la trattativa socialista quando poi si è trattato, giustamente, grazie all’AISE, per ogni nostro singolo ostaggio. E adesso la sinistra illuminata riscopre la trattativa anche per l’Ucraina”.

Cossiga: “A me han dato pure del bipolare e hanno mandato uno psichiatra al Quirinale perché dicesse che ero pazzo”.

Craxi: “Rinnegati! Hanno perso ovunque: nella politica, nell’economia, nella storia, nella società e continuano a raccontare al mondo l’Italia enfatizzando il peggio. E dove non lo trovano lo inventano”.

Andreotti: “Arriverà anche per loro l’onda che li travolgerà. E sarà quella dell’incompetenza, dalla quale è impossibile difendersi”.

Cossiga: “E pensare che un po’ di questo casino l’ha messo su la famiglia del mio caro amico Mieli. Paolo, con la pubblicazione dell’avviso di garanzia a Berlusconi del 1994 - in pieno simposio internazionale sulla criminalità organizzata-, e il figlio producendo le serie su tangentopoli per SKY. E ora, questo indegno “Esterno notte” di Bellocchio.

Craxi, tornando sui suoi passi: “Ricordate la vicenda Sigonella, quando gli americani cercarono di riprendersi l’assassino di Klinghoffer?”

Andreotti: “ E ricordo anche che con gli alleati non si sta mai sugli attenti”.

Craxi: “Altro che alleati. Ce l’hanno fatta pagare cara: a te con accuse infamanti quanto ridicole e a me costringendomi all’esilio”.

Nel frattempo, Cossiga, vestito da Appuntato d’onore dei Carabinieri  dice loro: “Il 12 giugno prossimo si votano i referendum sulla giustizia. Marcello Sorgi bene ha fatto a ricordare che ad un mafioso, condannato all’ergastolo, è  stato concesso di lasciare il carcere per motivi di salute mentre un Presidente del Consiglio, gravemente malato, l’hanno lasciato morire esule in terra tunisina”.

Andreotti: “Provai perfino ad intercedere presso la Procura di Milano, attraverso la Santa Sede, dopo che mi venne a trovare Stefania, pochi mesi prima del tuo lungo viaggio fino a qui. Ma Il procuratore Borrelli non ne volle sapere”.

Irrompe San Pietro: “Il Signor Borrelli non è ancora arrivato quassù. Se e quando arriverà gli farete le vostre rimostranze. Ora basta! Torniamo a pregare, anche per lui. Credo ne abbia bisogno.”

Dopo trent’anni stiamo ancora pagando l’illusione di una democrazia senza partiti. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO su Il Domani il 19 febbraio 2022

Tangentopoli fu la miccia che innescò l’implosione di un sistema politico già in difficoltà da un paio di decenni, costretto ad adattarsi ad un mondo reso differente dalla caduta del Muro di Berlino e dai processi di europeizzazione.

Si pensò di risolvere la crisi passando a un modello di democrazia “maggioritaria”. In realtà, è molto difficile che una democrazia cambi “tipo” in modo radicale. L’unico precedente storico di significativo era la Francia di De Gaulle e il passaggio al semipresidenzialismo. La nostra transizione si è bloccata presto.

 Nel biennio 1992-1994 cambiò la legge elettorale, ma soprattutto cambiò in modo drastico il sistema partitico: nessuna delle famiglie politiche fondatrici della Repubblica rimase in campo con i suoi simboli, il suo nome e la sua classe dirigente. MARCO ALMAGISTI E PAOLO GRAZIANO

Paolo Cirino Pomicino scrive a Dagospia il 7 aprile 2022:

Si scopron le tombe si levano i morti! L’inno di Garibaldi sembra sia aleggiato nell’ultima riunione alla fondazione de Gasperi dove si sono riuniti per commemorare qualcosa di antico Alfano, Casini e Cesa, i veri responsabili dell’ecclissi totale del popolarismo italiano e della gloriosa storia della democrazia cristiana. 

Da 38 anni in parlamento il mio amico Pier ferdinando Casini ha bruciato ogni tentativo di rilanciare una cultura ed una politica che affondassero le radici nella storia centenaria del partito popolare bruciandola, alla fine, nel camino di Mario Monti che con quella cultura non aveva nulla da spartire, mentre il povero Alfano ubbidiente a Berlusconi per oltre 15 anni si mise in proprio e sotto il suo naso da ministro dell’interno i Kazaki rapirono Alma Shalabayeva, moglie del dissidente Kazako Mukhtar Ablyazov.

Scelba e Restivo siciliani come Angelino, si stanno ancora girando nella tomba. Quelli che avrebbero dovuto essere gli eredi di Moro, FORLANI, de Mita Andreotti, Donat-Cattin ma anche dei Bodrato dei Mannino e di tanti altri dirigenti DC dopo aver accumulato macerie politiche per qualche oncia di potere si sono ridotti, come hanno dichiarato alla fondazione de Gasperi, a spiegare ai giovani la storia della DC (già ricordata autorevolmente da Antonio Polito sul Corriere della sera) in una stagione nella quale bisognerebbe riaccendere il fuoco delle idee e delle identità a difesa delle conquiste democratiche messe oggi in discussione nell’indifferenza di tanti e nella profonda crisi del nostro parlamento.

I nostri defunti ci sono cari ma lasciamo che politicamente i morti seppelliscano i loro morti (Matteo 8, 18-22). 

(ITALPRESS il 7 aprile 2022) – Nel 1942 fu fondata la Democrazia Cristiana, quarant’anni fa nasceva la Fondazione De Gasperi. In occasione di queste due ricorrenze si è aperto un percorso per rappresentare e ricordare l’esperienza della DC a 80 anni dalla sua nascita.

“Il nostro impegno è lavorare per custodire la memoria e mantenere vivo un ideale, ma senza la nostalgia del passato perché ogni tempo ha la sua storia”, ha detto Angelino Alfano, Presidente Fondazione De Gasperi, nel corso dell’iniziativa organizzata dalla Fondazione: “1992-2022: 30 anni dall’ultima volta della DC”, che ha aperto l’incontro ricordando Maria Romana De Gasperi, figlia dello statista venuta a mancare lo scorso 30 marzo: “Era una donna straordinaria. Si parla giustamente di padri della patria ma quando si ricorda la sua figura si ricorda anche una figlia della Repubblica, la signora Maria Romana ha incarnato la figlia di Alcide e la figlia del Presidente De Gasperi, e credo che solo il rapporto psicologico tra padre e figlia possa spiegare tutto l’impegno di un’intera vita per divulgare la missione di suo padre”, ha sottolineato Alfano.

“Dal 1942 al 1992, ultimo anno in cui si è candidata, la DC ha fatto la storia d’Italia, l’indirizzo storico della Repubblica è segnato dalle scelte fondamentali della Dc. C’è il suo DNA nella scelta Atlantica, nella scelta europeista, nell’idea di una società che dovesse reggersi su una economia sociale di mercato, nei diritti universali come istruzione e sanità, in scelte di campo permanenti come quella della NATO e in alcuni indirizzi sul Mediterraneo.

Oggi, a 30 anni dall’ultima volta della Prima Repubblica – ha concluso il presidente Alfano – credo sia arrivato il momento per una valutazione e credo si possa fare una analisi che mantenga vivo un ideale”.

Nel corso dell’iniziativa, dove è stato presentato lo studio condotto da IPSOS su chi votano oggi gli ultimi elettori della Democrazia Cristiana, è intervenuto, tra gli altri, anche Pier Ferdinando Casini, senatore e Presidente del Gruppo Italiano dell’Unione Interparlamentare, che ha evidenziato la necessità di “coltivare assolutamente la memoria, un Paese che disperde la memoria di personalità fondamentali per la sua storia, è un Paese che ha radici poco salde.

Bisogna capire e trasmettere alle giovani generazioni quelli che è stata la grande ricostruzione del Paese e il protagonista è stato senza dubbio la Democrazia Cristiana. Coltivare la memoria di queste personalità – ha spiegato – non significa essere intrisi di nostalgia, ma avere ben chiaro cosa è stato fatto per posizionare l’Italia dove è: la scelta Atlantica, la scelta della NATO, la politica mediterranea, l’Europa”.

Entrando nella più stretta attualità Casini ha ricordato come nel 1954 “De Gasperi prima di morire nelle sue lettere scrisse la sua grande delusione: non ci sarebbe stata una politica comune di difesa bocciata dalla Francia. Lui diceva che non poteva resistere la costruzione europea basata solo sul polmone economico e monetario, ma che doveva esserci l’anima politica. Da quell’epoca sono passati 70 anni e siamo a questo, la vicenda Ucraina ci dimostra in modo inequivocabile che c’è bisogno di De Gasperi.

C’è bisogno di tornare a queste grandi personalità che avevano visto tutto 70 anni fa, e i politici grandi, gli statisti, sono quelli che capiscono prima. È importante che si coltivi la memoria ed è importante che sia anche da insegnamento per non ripetere gli errori.

L’occidente ha preso un abbaglio collettivo su Putin, oggi questi errori ci costano molto. Ci siamo andati a mettere in una situazione sotto il profilo energetico drammatica, non abbiamo una autonomia e dipendiamo da Putin.

Se vogliamo vedere la storia con un qualche fatalismo - ha concluso Casini - diciamo che questa vicenda drammatica ci sta insegnando a tornare ai grandi principi di De Gasperi, alla politica di difesa e ad aprire gli occhi. L’Occidente aveva chiuso gli occhi e girato la testa dall’altra parte, oggi siamo tutti costretti a guardare la realtà per quella che è”.

La distanza dal mondo politico post 1994. Viva la Prima Repubblica. Redazione su Il Riformista il 14 Febbraio 2022. 

Con la rielezione del Presidente della Repubblica molte cose sono avvenute in questi giorni nel panorama politico e sociale del nostro Paese. La società civile ha preso atto della crisi profonda nella capacità dei gruppi dirigenti dei partiti (nessuno escluso) di colmare – in via definitiva – la distanza tra la più che contestata e criticata 1° Repubblica e l’intero mondo politico nato dopo il 1994. La rappresentazione plastica del “pellegrinaggio” di tutti i “cosiddetti” grandi elettori verso il Palazzo del Quirinale a chiedere –con costrizione ed umiltà – di ritornare indietro sulle sue affermazioni e di accettare il reincarico, non lascia alcun dubbio.

I “nuovi” politici per continuare a esercitare il mandato parlamentare loro delegato dai cittadini devono rivolgersi a personalità della Prima Repubblica, quali il Presidente Mattarella. E così per Giuliano Amato e così anche per l’attuale Presidente del Consiglio che può esser annoverato sicuramente tra le risorse dello Stato proveniente dal quel periodo. Ciò è quello che emerge dai commenti che ogni cittadino ha pubblicato sui social informatici (tenuto conto che gli organi di stampa sono tabù al di là di alcune brevi lettere che vengono pubblicate) e, da questi commenti, emerge anche il rammarico e la dolorosa certezza di aver perduto oltre 30 anni di democrazia dando fiducia ai politici ed ai partiti del dopo 1994! Si parla di crisi dei partiti, si solleva il fatto che “i peones” del parlamento hanno impedito ai loro leader di individuare un nuovo PdR non all’altezza, ma volutamente si dimentica che i “peones” sono “nominati” e rispondono a coloro che li hanno scelti! Ogni sussulto di dignità e di presa di distanza dagli “input” dei segretari dei partiti è stata motivata, a nostro giudizio, da giochi di “potere” all’interno degli stessi partiti.

Così per il 5Stelle (gruppo “dimaiano” contro gruppo “contiano”), così per la Lega (gruppo “salviniano” contro gruppo “giorgettiano”) e così per il PD tra “lettiani” ed “ex renziani, ex DC, etc.”. Le ultime vicende hanno fatto emergere, a nostro avviso, non solo l’incapacità politico/culturale della nostra classe dirigente, ma la loro continua conflittualità a livello personale; il distacco verso le esigenze reali dei cittadini e l’assenza di visioni di un progetto politico importante! A riprova di ciò vale ricordare l’intervista ed i commenti del segretario del PD rilasciati nell’intervista della Annunziata di domenica scorsa, subito dopo il risultato della elezione del PdR. Ha parlato della situazione di crisi politica da superare con una nuova legge elettorale (maggioritaria sostanzialmente e senza preferenze) e per la crisi sociale ha fatto riferimento al mondo del lavoro citando cifre e percentuali negative sul piano dell’occupazione.

Ma ha dimenticato – e non è la prima volta nella sua carriere politica – il fatto che la disoccupazione e soprattutto la precarietà in Italia è dovuta all’assenza di una politica meridionalista. Politica meridionalista scomparsa dopo Giacomo Mancini anche dalla azione politica socialista! Sino a ieri i giovani meridionali – la più triste gioventù italiana – è riuscita a sopravvivere sostenuta dalle loro famiglie che hanno rappresentato, nei fatti, la “cassa integrazione” della gioventù meridionale la quale già da alcuni decenni ha iniziato ad emigrare verso il Nord e verso l’estero. In un partito come il PD che si dichiara di sinistra “non una parola” e non una iniziativa “sostenibile” verso questo dramma dell’Italia (solo l’ex ministro Provenzano ha assunto una posizione” ma il PD non ha mai mostrato di crederci con convinzione). A fronte di ciò noi crediamo che i socialisti ed il Psi non debbono e non possono restare silenti.

Abbiamo il dovere, come partito storico della sinistra, di continuare e rafforzare le lotte in favore dell’emancipazione sociale, del diritto al lavoro e della sicurezza sul lavoro, al diritto allo studio ed alla salute pubblica e così per la ricerca ed al diritto di pari dignità di genere e di difesa delle professionalità e del merito e, quindi, delle pari condizioni di lavoro e di giudizio in tutti i settori produttivi. La nostra riflessione di fronte a questa “Waterloo” della politica, di questi politici e di questi partiti è quella che “non dobbiamo sentirci vittime” del quadro politico post macerie e considerato che a brevissimo inizierà l’anno della “campagna elettorale”, sin da subito e senza ulteriore ritardo, noi socialisti abbiamo il dovere di proporre ai cittadini linee di profondo cambiamento. Si tratta di fare proposte e di indicare quale strada da seguire e quali iniziative da assumere sia all’interno dell’area socialista che verso quello che rimane del quadro politico e, non meno importante, verso la cosiddetta società civile.

Riteniamo, in primis, che sia giunto il momento di inviare un forte invito ed un altrettanto fortissimo appello rivolto ai nostri dirigenti di ogni ordine e grado, ma soprattutto a tutti gli iscritti al PSI, convinti che mai come adesso abbiamo il dovere di aprire un dibattito aperto e non strumentale con tutto il mondo dei socialisti senza tessera sia come singoli cittadini che alle loro realtà organizzate (associazioni, circoli, movimenti e quant’altro). Non possiamo vivere la nostra azione politica quotidiana nel chiuso del nostro partito, dove la partecipazione dei compagni alle scelte politiche fondamentali spesso non è stimolato come dovrebbe. Nel Paese emerge una richiesta di “socialismo” che va a contrastare l’inefficienza pubblica quale naturale conseguenza della venuta meno dei valori portanti socialisti e della stagnazione degli ideali e assenza di alternativa.

In questi anni (e ci riferiamo non solo agli ultimi anni possiamo andare al 1994) è indubbio che non c’è stata alcuna alternativa in quanto la sinistra – pur dichiarandosi tale – non è stata protagonista di un ricambio credibile nell’esercizio della sua azione politica quotidiano ed a lungo termine. Abbiamo necessità, come socialisti e come Psi, di ricomporre la diaspora nel nostro stesso mondo, nella nostra stessa area culturale. Ciò dovrebbe diventare un traguardo da raggiungere a breve termine quale risultato di un progetto politico che intende misurarsi con tutti i problemi che la gestione di questi partiti hanno lasciato aperti e che continuano a lasciarli aperti.

E’ una scelta di fondo e l’invito ai socialisti senza tessera è quello di “iscriversi” al PSI in quanto non si possono fare battaglie isolate sui temi economici, sociali e sui diritti civili se non siamo uniti.  Dobbiamo e possiamo dare forza ai lavoratori per rinnovare anche il movimento sindacale ed a tutto il mondo civile che si ispira e si identifica con i valori della sinistra. In ultimo solo se uniti e più forti potremo essere incisivi per quanto riguarda le iniziative che si intendono assumere a livello parlamentare sul piano della “nuova legge elettorale”. Se quanto avvenuto fa emergere una considerazione diversa sui politici e sulla Politica della Prima Repubblica non possiamo che chiedere che sia approvata una legge elettorale proporzionale pura, con i voti di preferenze e non più nominati e che sia inserita la “sfiducia costruttiva” e la piena applicazione dell’art.  49 della Costituzione con il riconoscimento dei diritti delle minoranze onde evitare il fenomeno dei cambi di casacca durante le legislature. E’ auspicabile che i nostri dirigenti riflettano su queste nostre considerazioni ed assumano le iniziative? Si è auspicabile e nel nostro piccolo inizieremo a farlo!

F.to – Domenico Carrino, Paolo Di Pace, Paolo Gonzales, Sandro Petrilli; Gianfranco Salvucci e Christian Vannozzi del Direttivo della Federazione Socialista di Roma Capitale

Cosa è restato. La lunga eredità degli anni ’80 che influenza la politica di oggi. Simona Colarizi su L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.

Tutte le condizioni che hanno segnato il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica sono ancora presenti e definiscono il raggio d’azione degli attuali partiti. Il libro di Simona Colarizi analizza gli effetti di questa continuità.

Nelle tre ripartizioni del tempo elaborate da Sant’Agostino – presente del passato, presente del presente, presente del futuro – «il presente del passato è la storia» attraverso la quale si ricostruisce proprio quella serie di eventi sui quali è stato edificato «il presente del presente».

Questa citazione accompagna costantemente gli storici nel loro lavoro di analisi attraverso il quale fissare le partizioni temporali, determinanti per valutare quanto profonde siano le cesure che sanciscono la fine di un’epoca e l’inizio di un’altra, ma anche quanto a lungo restano operanti gli elementi di continuità tra un prima e un dopo.

Malgrado la ricca pubblicistica sulla fine dei partiti che avevano fondato la Repubblica democratica antifascista nel 1945, sono ancora numerosi gli aspetti di questa vicenda storica da approfondire; in particolare quei tanti lasciti del vecchio sistema politico che dopo più di trent’anni, invece di svanire, si sono moltiplicati fino a diventare caratteri dominanti della seconda Repubblica.

Non stupisce dunque la persistenza nel tempo delle polemiche appassionate su questa fase rimasta così viva nella memoria non solo dei protagonisti, ma dei tanti cittadini che nel giro di due soli anni – primavera ’92-primavera ’94 – hanno assistito alla scomparsa di tutte le forze politiche della prima Repubblica.

Per individuare quale sia stata la loro eredità, è necessario risalire alle cause che hanno portato alla caduta del vecchio sistema politico, ma ancora oggi condizionanti l’esistenza tormentata della seconda Repubblica quale si è andata definendo dopo il 1994. Un’esistenza così tormentata da rischiare di travolgere ancora una volta tutti i partiti del nuovo sistema. 

Lo hanno dimostrato le crisi politiche nel 2011 e nel 2021, quando il ricorso a governi “tecnici” ha riportato alla memoria l’esecutivo di transizione guidato da Ciampi nel ’93-’94. In massima sintesi si possono individuare tre elementi di crisi che sono stati determinanti allora e che continuano a prolungare uno stato di instabilità politica paralizzante: l’Europa, scelta tormentata alla scadenza di Maastricht nel ’92 e diventata scelta profondamente divisiva con la nascita dei sovranismi; il problema del gigantesco debito pubblico che affligge l’Italia negli anni Duemila come negli Ottanta e nei Novanta; la sfiducia nella rappresentanza politica all’origine dei movimenti populisti e antipolitici, destinati a irrobustirsi col passare degli anni fino ad arrivare al governo nel 2018.

Nella ricerca del passatopresente sono emersi prepotentemente però anche i tanti legami col passatoremoto, una chiave indispensabile per leggere le tre crisi che sul finire degli Ottanta portano alla caduta finale. In questa luce il decennio degli Ottanta, prolungato fino al ’92, può essere interpretato come una lunga fase di passaggio da un’epoca all’altra, coincidente con l’intero scenario mondiale che fa da cornice alla vicenda italiana. A partire dagli anni Settanta, con la fine dell’era industriale e l’avvento di una nuova epoca postmoderna, tutti i paesi dell’Occidente europeo vivono una lunga fase di trasformazioni profonde da ogni punto di vista, dai rapporti internazionali alla globalizzazione delle economie e delle finanze, alle straordinarie acquisizioni scientifiche e tecnologiche; un insieme di fattori che sconvolgono valori, istituzioni, sistemi di relazioni e di organizzazione, certezze culturali e materiali, insomma la vita di ogni individuo e di intere società.

Una rivoluzione di queste dimensioni mette ovunque a dura prova i governi, tanto più quando nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e poi la dissoluzione dell’impero comunista si conclude la guerra fredda che ha condizionato l’intero continente diviso per quarant’anni in due sfere, l’una sotto l’influenza degli Stati Uniti l’altra dell’Unione Sovietica. In questa cornice l’Italia, come gli altri paesi europei in balia di una progressiva instabilità sistemica, rappresenta però un caso unico rispetto ai suoi partner della Cee, in nessuno dei quali la crisi si manifesta con tale violenza distruttiva da arrivare alla totale distruzione del sistema dei partiti.

Un’eccezione vistosa da analizzare alla luce di quei problemi tra loro intrecciati cui si è fatto cenno, anche se a innescare l’implosione finale sono soprattutto gli eventi dell’89 che nel caso italiano hanno un effetto devastante, da collegare naturalmente al maggior peso del vincolo esterno negli equilibri politici italiani rispetto agli altri paesi dell’Occidente.

Le ragioni sono note, riassumibili da un lato nella posizione geopolitica del nostro paese, alleato della Nato e proiettato nel Mediterraneo, un territorio cruciale nel confronto tra le due superpotenze in guerra; dall’altro lato, nella presenza in Italia del più forte partito comunista di tutto l’Occidente. Questi due opposti condizionamenti internazionali per mezzo secolo avevano garantito alla Dc, alleata degli Usa, una posizione di maggioranza nel paese e nei governi col risultato, però, di bloccare di fatto ogni ricambio con le forze di opposizione egemonizzate dal Pci, il cui legame organico con l’Urss era di ostacolo alla sua legittimazione a governare. Con la fine della guerra fredda il sistema politico italiano perdeva dunque la sua rigidità, entrando in quella fase di fibrillazione che si sarebbe conclusa nel 1994 con la scomparsa di tutti i partiti della prima Repubblica.

Il primo a dissolversi era stato il Pci che, dopo la caduta del muro, iniziava la lenta mutazione in Partito democratico della sinistra; ma nessun vantaggio ne aveva ricavato la Dc che anzi si indeboliva con la scomparsa del “nemico”, da sempre un fattore fondamentale nella raccolta dei consensi. Insomma, senza più il sostegno dei vecchi vincoli internazionali, i cattolici come i loro storici avversari si erano trovati a fare i conti con se stessi e con il compito ineludibile di consolidare il legame storico con l’Europa, rimasta ormai l’unica sponda esterna.

Per tutti gli anni Novanta e anche oltre, con l’eccezione dei saggi specifici sulle relazioni internazionali e sull’economia mondiale, gli storici politici, a mio giudizio, non hanno indagato a sufficienza sulle ricadute che il nuovo complesso scenario dei rapporti tra le potenze avrebbe avuto anche sul sistema economico e finanziario italiano – e naturalmente su quello europeo. Eppure, si tratta di un campo di ricerca necessario, se si considera quanto abbia pesato nella caduta del sistema politico il Trattato di Maastricht che aveva fissato i paletti del percorso verso l’Unione Europea. Già nella seconda metà degli Ottanta in tutti i paesi della Cee si era consolidata la consapevolezza di quanto fosse urgente rafforzare le strutture unitarie per rispondere alla sfida delle trasformazioni in atto nell’economia mondiale.

Dopo l’89 poi, di fronte al nuovo mondo policentrico, ci si affrettava a fissare quella serie di regole sempre più stringenti, confluite poi nell’accordo da firmare alla riunione di Maastricht, fissata per la fine del ’92. Una firma non scontata da parte di tutti gli Stati membri, restii ad accettare gli impegni onerosi richiesti da Bruxelles non solo nel campo dell’economia, ma anche della politica e delle istituzioni, come avrebbero dimostrato le resistenze registrate prima e dopo il varo del Trattato. Particolarmente difficile appariva poi l’adesione dell’Italia, arrivata a questa scadenza con un debito pubblico incontrollabile che escludeva di fatto il rispetto dei parametri fissati per entrare nel percorso verso la moneta unica.

Si tratta di un passaggio nel quale restano ancora senza risposte persuasive molti interrogativi sulla decisione finale che si assumeva il governo Andreotti; una decisione largamente condivisa dai politici della destra e della sinistra, lucidamente consapevoli o ancora parzialmente inconsapevoli che il nuovo vincolo europeo avrebbe fatto emergere tutte le debolezze di un’economia, di una finanza e di un’industria ferme ancora alla visione keynesiana nel pieno della rivoluzione liberista

da “Passatopresente. Alle origini dell’oggi 1989-1994”, di Simona Colarizi, Laterza 2022, pagine 224, euro 20

Muore De Gasperi, il Paese è sconvolto. La prima pagina della Gazzetta del Mezzogiorno del 20 agosto 1954. De Secly: è stato l’uomo di tutti gli italiani. Il racconto sulla «Gazzetta» di 68 anni fa. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Agosto 2022. 

È il 19 agosto 1954: la notizia della morte di Alcide De Gasperi a Borgo Valsugana sconvolge un Paese intero. «La Gazzetta del Mezzogiorno» pubblica in prima pagina la foto della salma dello statista.Uno degli uomini pubblici più in vista d’Italia, è morto circondato solo dall’affetto della sua famiglia. Nato a Pieve Tesino, in provincia di Trento, nel 1881, De Gasperi studiò lettere a Vienna. Si batté fortemente per difendere l’identità culturale italiana della sua regione e fu propugnatore della completa autonomia trentina dall’Austria. Dopo l’annessione all’Italia, nel 1921 entrò in Parlamento: tre anni dopo sostituì Sturzo, costretto all’esilio da Mussolini, alla guida del Partito Popolare. Antifascista, nel 1927 fu arrestato e condannato a 4 anni: dopo aver scontato un anno di detenzione, si rifugiò in Vaticano, dove fu assunto come bibliotecario. Caduto il fascismo, fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana. Da allora in poi è stato protagonista assoluto dell’Italia della Ricostruzione: ultimo presidente del Consiglio dei Ministri del Regno e primo della Repubblica, mantenne l’incarico per sette mandati consecutivi, fino all’agosto 1953.

Ebbe l’ingrato compito di rappresentare un Paese marchiato dal fascismo e dilaniato dalla guerra di Liberazione alla Conferenza di Pace di Parigi, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale: con un eccezionale discorso al Palais du Luxembourg contribuì a ristabilire la credibilità politica internazionale dell’Italia. «L’improvvisa e inattesa morte di Alcide De Gasperi ci ha colpiti profondamente come uno dei più cari lutti familiari», scrive Luigi De Secly in prima pagina. «Gli ultimi dieci anni di questa travagliata e perigliosa esistenza l’avevamo vissuti accanto a lui, anche se fisicamente lontano da lui. Prima ancora di essere uomo di parte, capo ammirato e amato della Democrazia Cristiana, De Gasperi è stato l’uomo di tutti, colui che per il suo Paese aveva speso e andava spendendo le energie migliori della sua natura pacata ed esuberante al tempo stesso, della sua fede che non conosceva infingimenti e che aveva sfidato mille prove sempre più gravi, dall’esilio al carcere, dalla clausura alla ribalta più spietata, alle responsabilità politiche e storiche probabilmente le più gravi che abbia dovuto affrontare umana creatura.

Fiero oppositore del regime fascista, artefice della rinascita dell’Italia pur tra incertezze e discordie ma sempre fermissimo nel volere e nel perseguire il benessere generale, specialmente delle classi diseredate alla cui esistenza aveva giorno per giorno partecipato e per le quali aveva formulato nuove leggi che oggi pongono l’Italia alla testa dei Paesi riformatori dell’Europa».

Alcide De Gasperi: Il più grande statista del ‘900 italiano. Alcide Amedeo Francesco De Gasperi (3 aprile 1881- 19 agosto 1954) è considerato dalla storiografia moderna come uno dei più grandi statisti italiani. Tanto che lui amava ripetere: "Il politico guarda alle prossime elezioni, lo statista alla prossima generazione". Federico Bini il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

Enzo Biagi, riguardo a uno dei più illustri padri della Democrazia Cristiana, scriveva: “De Gasperi è scomodo per i potenti d’oggi. De Gasperi è una figura di statista che ti spinge a fare confronti tra i suoi comportamenti, i suoi riserbi, la sua sobrietà, la sua solitudine e lo stile di vita di coloro che vogliono accreditarsi come i suoi eredi. Lui rispondeva solo alle sue idee e alla sua coscienza. Lo celebrano, lo ascoltano, lo esaltano, ma non fu amato e non fu capito. Nemmeno dai suoi. Per tutti gli anni in cui lavorò nella Biblioteca Vaticana, non ebbe mai una visita da un prelato, anche se poi aggiungeva: “Ho un debito di gratitudine poiché con le 700 lire che guadagnavo ogni mese ho mantenuto la famiglia”.

Dalla penombra e dalle ceneri della guerra perduta, l’Italia vide emergere un personaggio inconsueto, rigoroso e austero, lontano dalla retorica e dalla narrativa teatrale della politica a cui gli italiani erano stati abituati durante il fascismo ma anche prima, nell’Italia liberale.

Nato in un piccolo borgo di montagna, Pieve Tesino (vicino Trento), circondato da castagneti, abeti, pini e dal suono dolce e rilassante dei pascoli. Poi ci sono i campanili e le chiese che con loro suono segnano le ore nel vuoto delle valli. Gente semplice gli abitanti, contadini e massaie che lottano nella loro quotidianità contro le fatiche e i dolori di una vita dura ma ricompensata dall’amore per i loro monti, per la loro terra, per i loro bestiami.

A Borgo Valsugana, De Gasperi abitava nella prima grande casa, a sinistra venendo dalla stazione. “La casa, bassa, un po’ tozza, in pietra e dagli alti soffitti - ricorda la figlia Maria Romana – ha i tappeti e i mobili scuri che sembravano a proprio agio, certi di vivere a lungo”.

In questo umile mondo contadino, molto ‘verghiano’, in cui si cercava attraverso i veri valori della vita di proteggersi dalla “fiumana del progresso”, nacque Alcide De Gasperi. Il più grande statista del ‘900 italiano e, assieme a Cavour ed Einaudi, uno dei padri della patria. De Gasperi era un uomo dall’aspetto apparentemente severo e asciutto nell’eloquio. Occhi grigi e volto di pietra, con evidenti e scavati segni di anni di lotta e sofferenze, mantenne sempre un carattere calmo, paziente, quasi “liturgico”.

Era un uomo di grandi ideali, di specchiata onestà, un servo devoto di Cristo e cercò sempre nel corso della sua vita di non perdere mai la speranza ed il senso della fede, la sua vera àncora di salvezza insieme all’amore per la famiglia nei tanti momenti bui in cui tutto sembrava perduto.

Egli seppe conciliare la fede con l’amore per la patria. Pur mantenendo distinte le due sfere d’influenza. Politico accorto e realista, di rara modestia, consigliava ai giovani di non lasciarsi andare alla “mitologia politica” e proprio ad un Congresso della gioventù democristiana disse: “Non ci sono uomini straordinari. Non ci sono uomini entro il Partito e fuori, pari alla grandezza dei problemi che ci stanno di fronte [...] Per risolvere i problemi, vi sono vari metodi: quello della forza, quello dell’intrigo, quello dell'onestà, quello della fermezza in una fede sicura. Se io sono qualche cosa, in questa categoria, mi reputo di appartenere alla terza. Sono l’uomo che ha l'ambizione di essere onesto. Quel poco di intelligenza che ho la metto al servizio della verità] Non voglio essere altro. Quindi il grido di “Viva De Gasperi”, lo traduco “Viva l’uomo di buona volontà che cerca la verità”.

La nomina a presidente del Consiglio

Nel difficilissimo momento del dopoguerra, in cui la fame, la miseria, i contrasti politici e sociali tra forze democratiche, comuniste e monarchiche infiammavano la vita politica del paese, ecco che Alcide De Gasperi seppe guidare il popolo italiano, con fermezza, intelligenza e lucidità, cercando di unirlo e di rinfrancarlo. Molti lo criticarono, soprattutto i comunisti di Togliatti, pensando che volesse distrarre l’opinione pubblica, che era al servizio del Vaticano e degli Stati Uniti, ma niente fermò la sua ascesa, data dal suo prestigio personale e culturale.

Nel 1945 fu nominato presidente del Consiglio dei ministri, l’ultimo del Regno d’Italia; carica delicatissima in un momento drammatico: l’unità nazionale – faticosamente raggiunta – era messa in pericolo e tra il governo e la casa reale gli scontri di palazzo furono durissimi.

Alle 22:10 dell’11 giugno 1946, De Gasperi, a colloquio con il Re, tra galanteria politica e diplomazia, ormai in rotta con il marchese Luciferino che accusava (nuovamente) il governo di fare pressione sulla Cassazione per accelerare i lavori, De Gasperi, si rivolse al marchese dicendo: “Io ho finito il mio latino, si vuole ricorre alla forza? Va bene, vorrà dire che io verrò a trovarla a Regina Coeli o Lei verrà a trovare me”. Fu uno scontro che fece tremare il già fragile Statuto albertino.

Durante tale governo fu proclamata la Repubblica e perciò De Gasperi fu anche il primo presidente del Consiglio dell’Italia repubblicana.

Il 9 dicembre del 1946 fu invitato dall’amministrazione americana, e nel suo viaggio negli Stati Uniti (4-17 gennaio 1947) mise fine all’isolamento internazionale dell’Italia. Il presidente Truman rimase colpito da quest’uomo, che rappresentando un paese sconfitto, demoralizzato, alla fame e con poche prospettive per il futuro, seppe dare prova della sua grande dignità, ma anche della sua tenacia e soprattutto del suo essere italiano nonostante Mussolini con disprezzo lo chiamasse “l’austriacante”.

Parlò a nome del popolo italiano, mantenendo la schiena dritta e non venendo meno ai suoi principi cristiani e liberali. L’Italia era sì un paese sconfitto, ma De Gasperi – con la sua squadra di governo aiutata anche dal ruolo fondamentale degli ambasciatori a Parigi, Londra, Washington come ad esempio Tarchiani – riuscì a far passare un messaggio di svolta, autorevolezza e sincera amicizia tra due nazioni che avevano a cuore i destini, la stabilità e la pace del mondo occidentale. L’amministrazione Truman non esitò a concedere prestiti e aiuti alimentari.

L’Italia della ricostruzione di De Gasperi prese avvio dopo questo fondamentale viaggio, che lui fece accompagnato dall’amata figlia e segretaria particolare, Maria Romana.

Il 10 agosto 1946 si era invece recato invece a Parigi, con il ministro degli Esteri Carlo Sforza, per partecipare alla Conferenza che doveva stabilire le clausole del Trattato di pace. I diplomatici lì convenuti presentarono il conto da pagare ai paesi sconfitti. Il presidente del Consiglio italiano prese la parola per pronunciare uno dei suoi interventi più memorabili, esordendo così: “Prendendo la parola in questo consesso mondiale sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me”. Nessuno applaudì, solo il Segretario di Stato americano James Byrnes si alzò per andargli a stringere la mano e fu l’unico gesto di umanità.

La rottura con il Pci

Tra crisi di governo, attacchi da parte di molti Paesi che ci vedevano come sconfitti in ogni campo, l’avvio difficile del Piano Marshall, l’Italia che andò a votare nel 1948 (ben il 92% degli aventi diritto), ebbe fiducia in De Gasperi e per la Democrazia Cristiana fu un trionfo: maggioranza relativa dei voti (48,5% alla Camera dei Deputati, 48,14% al Senato) e la maggioranza assoluta dei seggi.

Personalmente il presidente democristiano ottenne un plebiscito di preferenze, battendo enormemente gli altri leader. Dopo queste elezioni iniziò la vera e propria fase del ‘centrismo’ con De Gasperi che volle però allargare l’esecutivo.

La Democrazia Cristiana di De Gasperi si mostrava come un partito fortemente interclassista, capace di catturare il consenso nei diversi e divergenti strati sociali del paese: dal piccolo mondo rurale del mezzogiorno alle grandi proprietà fondiarie e imprenditoriali del nord. Se poi ci soffermiamo allo straordinario risultato raggiunto alle elezioni del 18 aprile del 1948, quella che De Gasperi definì “una battaglia di civiltà”, osserviamo che il partito raggiunse la maggioranza assoluta alla Camera e una maggioranza risicata al Senato. Questo risultato, contrariamente alle spinte che venivano dalla Chiesa e da settori interni alla dc, non impedì al presidente del Consiglio di formare un nuovo governo comprendendo i “partiti laici”.

Il raggiungimento di un risultato così unico fu dato dal fatto che ampie parti del paese, dalla grande industria ai forti interessi economici locali, nonostante fossero pervase da un trasversale anticlericalismo votarono la dc in chiave anticomunista. Uno dei più attivi oppositori a De Gasperi, in una dc che ancora non era divisa in numerose correnti che si andranno formando dopo la morte dello statista trentino, fu Giuseppe Dossetti. Qui è utile distinguere tra la dc di De Gasperi e Dossetti, come fa il Prof. Bedeschi nel suo libro La Prima Repubblica. Storia di una democrazia difficile.

Mentre De Gasperi si era formato sotto l’influenza della Rerum Novarum di Leone XIII, si ispirava ai principi del cattolicesimo liberale e rappresentava la classe dirigente del defunto Partito Popolare, Dossetti, anche per età anagrafica, era cresciuto nel fascismo e in particolare negli anni della crisi del ’29 scoppiata in America e da cui aveva maturato una forte critica al sistema capitalistico. Da qui le letture di Jacques Maritain, l’ammirazione per la Costituzione sovietica del 1936 e la collaborazione con i comunisti. Non a caso, quando De Gasperi ruppe con il fronte socialcomunista la “grande collaborazione tra forze popolari”, per citare Togliatti, fra i suoi più accesi oppositori vi fu Dossetti, che intorno a sé aveva radunato un gruppo di giovani, da La Pira a Fanfani che saranno i futuri rappresentati della sinistra democristiana.

Le elezioni del 1948 videro scontri politici molto duri tra i vari candidati, in particolare tra Togliatti e De Gasperi. Quest’ultimo percorse l’Italia in aereo, in treno, in macchina, da nord a sud, per andare a diffondere in ogni angolo del paese la sua politica, le sue idee e la sua fede.

I tanti governi di De Gasperi

L’attività politica dei governi De Gasperi si sviluppò su tre fronti, che rispecchiavano, la concezione politica degasperiana espressa nel suo manifesto dal titolo Le idee ricostruttive della Democrazia Cristiana: l’Italia entrò nel Patto Atlantico il 5 maggio 1949, nacque il Consiglio d'Europa e il ministro Carlo Sforza disse “è il frutto di un compromesso fra le più avanzate aspirazioni franco-italiane e quelle assai più caute, invece, del governo britannico”. Furono realizzati accordi economici europei, quali ad esempio la CECA , la politica di ricostruzione fu caratterizzata dalla riforma agraria, predisposta dal ministro dell'Agricoltura Antonio Segni e inizialmente denominata ‘legge Sila’, poiché riguardava solo la Calabria, poi estesa - con l’approvazione della “legge stralcio” - ad altri territori italiani. Venne poi varato il piano INA-Casa, nacquero la Cassa per il Mezzogiorno e l’Eni, fu compiuta la riforma tributaria e la Lira si stabilizzò sotto la guida di Einaudi. Infine furono modificate la legge elettorale amministrativa e poi quella politica. Era l’estate del 1950 quando furono varate queste riforme: successivamente il 1950 passerà alla storia come “l’anno delle riforme”.

De Gasperi, dopo tutti questi mesi di grande fatica e laboriosità, era felice dell’andamento del suo governo, pur mantenendo sempre un certo realismo sulle importanti riforme appena varate scrisse: “Con la riforma agraria, vedete, noi facciamo un atto di giustizia distributiva immediata, umanamente e cristianamente necessaria, forse politicamente utile, benché in politica non bisogna sopravvalutare la riconoscenza degli uomini. Tutto questo, ricordatevi, non risolverà il problema economico del Mezzogiorno. Esso va completato in un quadro di economia più vasta guardando al domani. Oggi non possiamo adottare una forma migliore, ma noi uomini politici dovremmo stare attenti a non scivolare dall’economia alla demagogia. C’è tanto da fare e in così poco tempo!”.

I governi repubblicani, che De Gasperi guidò dal 1948 al 1953, pur tra mille difficoltà politiche, sociali ed economiche, furono di grande spessore e soprattutto governi ‘europei’, con un presidente del Consiglio europeista.

De Gasperi sognava un’Europa unita, tanto che diceva “la nostra patria Europa” e dopo che nel luglio del 1953 decise di dedicarsi solo alla vita di partito, ecco che ci fu il coronamento di una grande carriera, ma soprattutto un riconoscimento personale alla sua attività politica e diplomatica: Alcide De Gasperi divenne presidente dell’Assemblea Comune della CECA.

Il ‘figlio delle Dolomiti’, delle sue amate montagne che tanto la avevano formato e rafforzato, diventò il simbolo della futura Europa unita. Alcide De Gasperi, quel ragazzo che diceva senza vergogna “Io vengo da un ceppo di contadini e mio nonno lavorava quella magra terra, che è più roccia che terra”, arrivò al vertice della politica europea, che per lui non consisteva nel trarne vantaggi personali o partitici, la vita gli aveva tolto ma anche dato tanto, bensì lavorare nell’esclusivo interesse dei cittadini.

La scomparsa

Ma De Gasperi aveva già dato tanto, anzi troppo al nostro paese che forse mai lo capì veramente. Il suo corpo lo aveva sostenuto anche laddove nessuno se lo sarebbe mai immaginato, come quando, ormai malato, il medico gli sconsigliò di andare a Parigi, egli andò ugualmente e poi riuscì a partecipare al suo ultimo Congresso politico, a Napoli nel 1954, dove parlò e si sentì male, tanto che dovettero interrompere i lavori. Tuttavia dopo venti minuti riprese la parola e finì il discorso. Fu proprio quel discorso, forse perché sapeva che sarebbe stato l’ultimo, ad essere considerato come il suo testamento politico.

È il 19 agosto 1954 la data che segnerà la morte del più grande statista e uomo politico italiano del ‘900.

Le sue spoglie riposarono su un letto coperto di ciclamini e fiori di montagna. Fino all’ultimo desiderò che il suo letto fosse spostato verso la finestra per poter vedere meglio le sue montagne, che tanto lo avevano formato e che mai dimenticò.

La salma fu trasportata in treno da Trento a Roma, e ovunque la folla giunse per rendere omaggio. A Roma fu sepolto nel porticato della Basilica di San Lorenzo. Qualcuno tra la folla, in una delle stazioni in cui il treno si fermava, mentre si avvicinavano i potentati della Dc urlò: “De Gasperi è nostro, non vostro!”.

La Democrazia Cristiana, il partito da lui creato, governerà per ben cinquant’anni, ma i suoi allievi forse un po’ troppo ambiziosi di potere e meno degli interessi delle classi sociali verso cui De Gasperi chiese massima attenzione prima di morire, portarono la Dc al suo inesorabile tracollo politico e morale.

Con la scomparsa del politico trentino, scrisse Indro Montanelli che “entrò in scena una classe politica che nulla sapeva di Stato e tutto di una cosa sola: il potere che mai smise di contendersi [...] Con De Gasperi finisce un’epoca e ne comincia un’altra certamente non migliore”.

Vita e opere di uno dei padri della Repubblica. La storia di Alcide De Gasperi, il suddito austriaco che ci portò nel mondo libero. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Aprile 2022. 

L’Alcide. Alcide e Palmiro. E Pietro Nenni. Come ritirar fuori dalla naftalina della memoria un uomo come Alcide De Gasperi, di cui si ricorda a malapena che fu lui con la sua Democrazia Cristiana e gli alleati, a vincere le minacciosissime elezioni del 1948? Fu allora, il 18 aprile di quell’anno, che il “Fronte Popolare” delle sinistre perse quello che si rivelò un referendum per la scelta di campo nella guerra delle civiltà che a quei tempi era brutale: Russia o America, I socialisti avevano appena perso il gruppo filoamericano di Giuseppe Saragat, con cui si schierò anche la rivoluzionaria russa Anna Kuliscioff.

Fra le due guerre mondiali Anna era stata una dirigente del partito comunista nell’Unione Sovietica di Lenin e Stalin e poi era tornata in Italia sconvolta e felice di parteggiare per i filoamericani. Alcide invece era imperiale. Era nato cittadino dell’Impero Austro-Ungarico, era stato deputato per l’etnia italiana al Parlamento di Vienna, era impazzito di dolore quando il Regno d’Italia nel 1915 decise di scendere in guerra con l’Intesa contro la Triplice alleanza. Alcide era costernato e di notte a Trento litigava con Cesare Battisti, che poi scappò in Italia, si arruolò, fu preso prigioniero dagli austriaci e giustiziato da un boia con la bombetta che gli stringeva a mano il cappio. L’altro del terzetto a Trento che faceva notti insonni con la barba lunga e il revolver sempre sul tavolo, era Benito Mussolini, con gli occhi strabuzzati per la fame, la barba incolta e senza fissa dimora, tessendo complotti. Poi, la polizia imperiale gli notificò un ordine di espulsione che lo portò a Ginevra nello stesso albergo di Lenin, il quale in seguito dirà di non averlo mai visto mentre Mussolini non faceva che raccontare storie su quell’amicizia.

Alcide De Gasperi era uomo d’ordine e quando l’Italia dichiarò guerra all’Austria, andò a trovare i funzionari viennesi che conosceva per dire quanto era disperato per la scelta di Roma e che certamente a un eventuale referendum il novanta per cento dei trentini italianofobi sarebbe stato per l’Impero. Poi ci fu la guerra, venne in Italia e seguitò a costruire il Partito Popolare, ovvero il partito dei cattolici, ovvero la futura Democrazia Cristiana. Quell’allucinato capopolo baffuto con cui litigava di notte a Trento, era diventato capo del governo fascista a Roma, e si era tagliato i baffi. Ma si era messo in testa il cilindro e portava le ghette. Il resto è storia nota: esilio, sparizione, rapporti clandestini con i cattolici diventati antifascisti dopo essere stati fascistissimi e poi lo spirito della Resistenza. E poi scoppiò la Guerra fredda. Erano le avvisaglie, già marcate. Stati Uniti e Regno Unito stavano rompendo con Stalin dopo Yalta. Churchill aveva pronunciato il discorso di Fulton, in America, in cui aveva inventato l’espressione “Cortina di ferro” – The Iron courtain – da cui i derivati oggi incomprensibili come “oltrecortina” e insomma bisognava decidersi e schierarsi da una parte o dall’altra.

Per la verità c’era poco da decidere perché i quattro grandi avevano già deciso tutto a Yalta dove i dettagli erano stati decisi solo da Churchill e Stalin che trattavano durante la conferenza passandosi dei disegnini fatti su una scatola di fiammiferi da cui sarebbe emersa l’Europa: Stalin voleva i “buffer states” esattamente come oggi Putin: una cintura di stati vassalli, occupati. E l’Italia non era fra quelli: appartenevamo al mondo libero dei Paesi liberi sotto controllo americano ma ancora a quei tempi britannico. De Gasperi odiava i Savoia che invece i conservatori inglesi avrebbero voluto salvare per maggior stabilità conservatrice e De Gasperi amò gli americani. Così, di botto. C’è da dire che nel frattempo l’Alcide era diventato capo del governo ed era un governo con dentro comunisti e socialisti (Pietro Nenni agli Esteri, Togliatti alla Giustizia) e lo sarebbe stato per circa cinque anni, per essere poi fatto fuori dalle leve fameliche della Dc. Basta dire che De Gasperi si era preso come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio il più giovane, il più votato da monache e preti, deputato italiano, un ragazzino di nome Giulio Andreotti.

L’Italia che fu governata da De Gasperi all’inizio era l’Italia del Cln e dell’antifascismo, ma dopo il viaggio in America sarebbe diventata l’Italia della Guerra Fredda e dell’anticomunismo. I comunisti sapevano perfettamente che sarebbe finita così perché era scritto non sull’acqua ma sulle carte ma reagirono molto male.

Durante il suo primo viaggio, De Gasperi restò sbalordito dall’America, dagli americani, dal loro modo di festeggiarti. Gli Usa avevano i duri al comando: i fratelli Dulles – Foster al dipartimento di Stato e Allen capo della Cia – il presidente Truman succeduto a Roosevelt come suo vice, ma con un animo da repubblicano pronto alla rissa. Fra cerimonie e fuochi, parate e fanfare, gli americani dissero ad Alcide che l’Italia si sarebbe trovata benissimo nello schieramento delle democrazie del mondo libero. E poi, ecco qua i primi cinquecento milioni di dollari in aiuti, molti di più ne verranno, pensa di poter dire che Italy is with us? De Gasperi non aveva bisogno di essere forzato: aveva dichiarato molte volte il suo timore, poi il suo disgusto per il mondo dell’Est. Una volta rientrato De Gasperi, si sparse subito la voce: abbiamo un contratto con l’America. Dobbiamo sbattere fuori comunisti e socialisti dalla coalizione di governo.

De Gasperi lo fece e l’Italia andò allo scontro: da una parte la Democrazia cristiana alleata dell’America e dall’altra comunisti e socialisti alleati dell’Urss. A quel tempo le posizioni di Pietro Nenni erano ancora fortemente filosovietiche anche se poi avverrà lo sganciamento con la riconsegna del “Premio Stalin” che il leader socialista aveva incautamente accettato. Gli americani avevano promesso a De Gasperi di darsi da fare per restituire Trieste all’Italia. Trieste era in un regime di occupazione alleato ma di fatto sotto il dominio jugoslavo del Maresciallo Josip Broz, detto Tito, un eroe partigiano legatissimo, tuttavia, agli inglesi e in particolare a Winston Churchill, considerato il delfino di Stalin, ma che proprio nel 1948 ruppe con Stalin provocando un terremoto nell’area balcanica. Nel 1948 si sarebbe consumato un colpo di Stato comunista a Praga. Le elezioni del ‘48 furono elezioni come non se ne erano mai viste in Europa: combattute con comizi volanti, manifesti, gli “agit-prop” comunisti capaci di tener testa a chiunque, sicché la sensazione era che il Fronte vincesse.

Ricordo benissimo gli uomini in bicicletta – le città erano solo piste ciclabili con poche macchine, che si fermavano un attimo come le formiche per dirsi: “il Fronte vince”. Il Fronte si presentava con il volto di Garibaldi, la coalizione democristiana aveva per simbolo lo scudo crociato che è pur sempre un’arma difensiva. La coalizione guidata dalla Dc prese il 48 per cento e le sinistre erano crollate anche sotto il martello dei parroci chiamati a ricordare dal pulpito delle chiese che i comunisti erano scomunicati e nemici della chiesa di Dio. De Gasperi personalmente aveva vinto e si preoccupò di dar vita a un governo di coalizione con repubblicani e socialdemocratici di cui non aveva realmente bisogno. Ma sapeva che le elezioni non sarebbero più state vissute come uno scontro di civiltà e che l’idea di dare al Paese uscito da una guerra voluta da un uomo solo al comando, era sbagliata.

D’altra parte, lo aspettava una prova tremenda: far accettare agli italiani e ai partiti, l’adesione al Patto Atlantico, quello che oggi chiamiamo semplicemente Nato. L’Italia, fascisti a parte, non si sentiva per niente affascinata dalla prospettiva dell’adesione a una alleanza militare che rappresentava una parte del mondo armata contro l’altra. Il capo del movimento cattolico contrario a quell’adesione fu l’intellettuale, non ancora prete, Giuseppe Dossetti, che fece appello alla coscienza dei cattolici affinché non accettassero un voto parlamentare di ratifica del trattato. La risposta di De Gasperi fu da giocatore di scacchi: mandò a Castel Gandolfo (residenza estiva del papa) il conte Sforza, che era stato il suo candidato presidente. Sforza spiegò al principe romano Eugenio Pacelli, ora Papa Pio XII, la necessità di richiamare all’ordine la sinistra cattolica e Pacelli – che era stato per anni il miglior diplomatico della Santa Sede – acconsentì. Fece un’omelia in cui si spiegava perché ogni buon cristiano avrebbe dovuto essere a favore dalla Nato e Dossetti in Parlamento fu costretto a votare a favore.

Ma col Vaticano le cose non andarono sempre lisce: «Chi poteva immaginare che proprio a me, povero cattolico della Valsugana, dovesse capitare di dire di no al papa», scrisse De Gasperi nelle sue memorie. Era accaduto quando il papa aveva deciso di far candidare a Roma come sindaco Don Sturzo, figura storica del partito popolare di cui era stato fondatore, con i voti di monarchici e fascisti per contrastare i comunisti. De Gasperi disse di no, non avrebbe mai chiesto al suo partito di coalizzarsi con fascisti e monarchici. L’ultima sua battaglia fu una battaglia persa. Quella della cosiddetta “legge truffa”. Si trattava di una legge elettorale maggioritaria arrivata al voto in Parlamento che avrebbe assegnato un premio al partito di maggioranza relativa,

Il Pci e il Psi scatenarono una formidabile campagna mediatica fatta da giornali, radio e comizio per strada e alla fine la legge non passò per pochi voti e la sinistra unita ebbe la sua rivincita. E De Gasperi vide anche che nel partito la sua leadership era finita. Era stato battuto. E con uno stile impeccabile si dimise e lì terminò la sua carriera storica cominciata come suddito entusiasta dell’imperatore Francesco Giuseppe.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

L’Ucraina e la scelta occidentale: il timone della vecchia Dc (che manca all’Italia). Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.  

Il ruolo che fu di De Gasperi e degli altri democristiani. Ora intorno a Pd e FdI potrebbero saldarsi due poli per garantire, nell’alternanza, la collocazione del Paese.

Ci vorrebbe un’altra Dc. Nell’assistere alla confusione ideale e talvolta anche morale, alle furbizie e ipocrisie del dibattito politico italiano intorno alla guerra all’Ucraina, viene da rivolgersi al passato. Perché la Democrazia Cristiana, che trent’anni fa, proprio in questi giorni, partecipava con il suo simbolo per l’ultima volta alle elezioni, ha commesso molti errori, e anche qualche reato, ma su un punto non ha mai sbagliato: è stata per quarant’anni la garante della collocazione dell’Italia in Occidente, dalla parte giusta della storia.

L’adesione alla Nato

Ripercorrendo le vicende dell’adesione alla Nato nell’aprile del 1949 sembra di rileggere le vicende dell’oggi. Allora eravamo noi, piccola nazione sconfitta e distrutta dalla guerra, a chiedere di entrare nella nuova Alleanza, e negli Stati Uniti molti non si fidavano, tanto che la decisione finale fu rimessa al presidente Truman in persona. Ma anche allora il pericolo per l’Europa era l’espansionismo russo, a quel tempo rivestito peraltro della formidabile forza ideologica del comunismo. Non fu facile, nemmeno per la Dc. Esisteva in quel partito una componente di «terzaforzismo religioso», ben rappresentata dal gesuita padre Riccardo Lombardi. C’era il gruppo di Giovanni Gronchi, un cattolico così poco atlantista che quando fu eletto presidente nel 1955 l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce rifiutò di partecipare al ricevimento inaugurale, lamentando un malanno che fu subito ribattezzato «gronchite». E poi c’era la resistenza dei dossettiani. Perfino nella diplomazia vaticana si auspicava una collocazione più defilata dell’Italia, ospite della Santa Sede. Fu Pio XII a rompere gli indugi: il cristiano doveva rifiutare il motto «si vis pacem para bellum», ma anche l’espressione «pace a tutti i costi»; perché l’opzione pacifista doveva essere «pratica e realistica», non frutto di «debolezza o stanca rassegnazione».

Il trionfo di De Gasperi

Così vinse De Gasperi. E l’Italia non ebbe a pentirsene. Né in termini economici né in quanto a libertà. Certamente non nel 1956, quando l’Armata Rossa invase l’Ungheria per stroncare un tentativo di riformismo, o nel 1968 quando i tank del Patto di Varsavia stroncarono nel sangue la primavera di Dubcek a Praga. Al punto che Enrico Berlinguer, il capo di quel partito comunista italiano che negli anni ’50 si era battuto in nome del pacifismo contro la scelta atlantica, nel 1976 riconobbe a Giampaolo Pansa, sul Corriere, che sotto l’ombrello Nato si sentiva più sicuro per la democrazia italiana. Da un certo punto di vista la scelta della Dc di allora fu persino più facile, perché più obbligata, di quella di fronte alla quale si trova l’Italia di oggi: il mondo diviso in blocchi, il fattore K, il pericolo comunista, non lasciavano molti margini di scelta. Ma, d’altra parte, allora ci si trovava di fronte a una minaccia grave ma pur sempre rimasta sempre e solo virtuale: una Guerra Fredda fondata sulla deterrenza che per fortuna non diventò mai calda. Mentre oggi la guerra è calda del sangue di migliaia di morti civili in Ucraina, e il pericolo è ben più reale e immediato, e l’espansionismo russo è anche più cinico, animato com’è da un nazionalismo neanche più portatore di una missione universale, come era ai tempi del comunismo. Qualcosa di questa radice occidentalista (che del resto non impedì alla Dc di essere anche europeista con De Gasperi, neo-atlantista e mediterranea con Fanfani, filo-palestinese con Andreotti) è per fortuna rimasta nell’elettorato italiano, almeno in quello più anziano. In una ricerca di Ipsos realizzata per la Fondazione De Gasperi, la scelta di entrare nella Nato è ancora considerata da un terzo degli italiani nati prima del 1974 come la più importante fatta dalla Dc (contro un quarto dei «millennial», nati dopo il 1980). E, curiosamente, gli ex elettori scudocrociati — ne sono rimasti 5.628.000 che votarono Dc nel 1992 — riversano oggi i loro voti principalmente al Pd (13,8%) e a Fratelli d’Italia (13,4%); cioè ai due partiti più coerentemente schierati dalla parte dell’Europa e dell’Occidente nella crisi ucraina e più attenti alla dimensione internazionale della politica.

Il buco nero al centro

C’è da chiedersi se questo seme potrà germogliare in un sistema politico italiano che ha oggi al suo centro un grande buco nero, un partito di maggioranza relativa che non lo è più, che non ha una sua idea della politica estera, e soprattutto tende a subordinarla agli interessi contingenti della politica interna. Naturalmente non nascerà una nuova Dc. Ma nei due schieramenti potrebbero saldarsi intorno al Pd e a FdI poli che garantiscano, anche nell’alternanza delle maggioranze, la collocazione del Paese. Oppure potrebbe un giorno nascere al centro una maggioranza ridefinita da questa guerra, unita dalla politica estera e di difesa, garante dell’europeismo e del rapporto transatlantico, corazzata contro gli avventurismi filo-russi o filo-cinesi. Ma, per nascere, avrebbe bisogno di una legge elettorale proporzionale. Proprio ciò che i due maggiori eredi del voto democristiano, Pd e FdI, per ora rifiutano.

Maria Romana De Gasperi: «Io e mio padre Alcide». Il podcast «Le figlie della Repubblica». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 17 Gennaio 2022.   

Il primo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia 

C’è Maria Romana De Gasperi , figlia di Alcide, che si faceva raccontare dai suoi genitori quello che avevano immaginato di comprare nelle loro passeggiate domenicali in una Roma che stava rinascendo dal dopoguerra. Non si potevano permettere nulla, ma era bello sognare tutti insieme. 

C’è Serena Andreotti, figlia di Giulio, che vide piangere suo padre il giorno dell’uccisione di Aldo Moro. Una cosa del genere era successa solo una volta, tanti anni prima, quando era morta la madre del sette volte presidente del Consiglio.

C’è Flavia Piccoli, figlia di Flaminio, che a 10 anni accompagnava (mano nella mano) il padre vittima di un pesantissimo esaurimento nervoso, quando dopo cena il politico democristiano andava a camminare per le vie di una Trento deserta e freddissima.

C’è Chiara Ingrao, figlia di Pietro, che negli ultimi anni di vita del primo presidente comunista della Camera andava a casa sua a leggergli ad alta voce le poesie del suo amato Giacomo Leopardi, perché lui non ci vedeva abbastanza per continuare a farlo da solo.

C’è Stefania Craxi, che pur di stare col padre Bettino, lo seguiva negli appuntamenti delle campagne elettorali del Partito socialista di cui era segretario, affidando così alla politica il compito di farle vivere le esperienze di vita che le ragazze della sua età sperimentavano in modi più classici.

E c’è un podcast, diviso in 5 puntate di circa mezz’ora ciascuna, che racconta tutto questo: si chiama «Le figlie della Repubblica» e il primo episodio (con Maria Romana De Gasperi) è ascoltabile da oggi sul sito del Corriere della Sera e su tutte le principali piattaforme (Spotify, Apple Podcasts, Google Podcasts Spreaker eccetera).

«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzato da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.

Le puntate usciranno con cadenza settimanale. Questo il calendario: 

18 gennaio: Maria Romana De Gasperi (ascoltala qui)

25 gennaio: Serena Andreotti

2 febbraio: Flavia Piccoli

9 febbraio: Chiara Ingrao

16 febbraio: Stefania Craxi

Alla serie «Le figlie della Repubblica» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia della Prima Repubblica hanno collaborato alcuni Amici Giovani della Fondazione De Gasperi tra cui Corrado Cassiani, Martina Cirelli, Elisabetta Fiaschi, Federico Mossuto, Ludovica Pietrantonio e Michela Zarbaglia.

Riposa in pace. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 31 Marzo 2022.

Uno degli ultimi ricordi che ho di mio padre — ripeteva spesso la signora Maria Romana De Gasperi, scomparsa ieri a 99 anni — è lui stanco e malato, la schiena affondata nella poltrona del salotto e i piedi appoggiati su una cassetta della frutta, mentre aspetta la telefonata che gli dirà se il parlamento francese ha approvato la formazione dell’esercito comune europeo. 

Era stata una scelta sofferta, la sua, per certi versi ancora più difficile dell’adesione alla Nato. «A chi risponderà, questo esercito?», domandava agli interlocutori, che lasciavano la risposta volutamente in sospeso, perché l’unica possibile era anche la più difficile: a un governo europeo. 

Ma con la capacità di visione degli statisti, Alcide De Gasperi intuiva che solo una difesa comune avrebbe creato i presupposti per completare l’unione politica. Perciò si era deciso a correre quell’azzardo. E anche per un’altra ragione, che in questi giorni suona quanto mai attuale. 

Un esercito europeo avrebbe progressivamente affrancato il Vecchio Continente dalla protezione americana. Gli sembrava incoerente che proprio chi lo accusava di avere sottomesso l’Italia agli Stati Uniti fosse poi in prima fila nell’opporsi all’esercito europeo, in nome di un pacifismo ingenuo o peloso. Il telefono di casa De Gasperi non squillava e così fu lui — raccontava la figlia — a comporre un numero all’apparecchio. Appena seppe che la Francia aveva detto di no, si lasciò andare sulla poltrona e chiuse gli occhi. Chissà quando apriremo i nostri.

Il podcast con le parole di Maria Romana De Gasperi

È morta Maria Romana De Gasperi: «Quella volta che capii chi era mio papà». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.  

La figura di Alcide De Gasperi nelle parole della figlia Maria Romana morta questa notte a 99 anni. La guerra, la politica, la famiglia. 

Maria Romana De Gasperi

Il padre la teneva d’occhio dal ritratto sulla parete dello studio — «mi piace perché restituisce bene i suoi occhi azzurri» — e dalla foto sul tavolino. In un’altra foto Alcide De Gasperi teneva in braccio la sua bambina, la sua primogenita Maria Romana, morta oggi a quasi cent’anni. Adorava il padre, ma non ne parlava come di un santo. Ti restituiva l’idea di un uomo vivo e pieno di passioni. Il suo primo ricordo di lui fu quando uscì dalle carceri fasciste. De Gasperi fu preso dalla polizia sul treno che da Roma lo portava a Firenze. «Lo portarono a Palazzo di Giustizia in catene, con altri detenuti. Si sentiva sicuro che l’avrebbero mandato libero: in fondo era un deputato che criticava il governo. Lo condannarono a quattro anni di carcere. A mia madre raccontò che non era riuscito neppure a piangere; mormorò solo il nome di Dio. Lo riportarono incatenato a Regina Coeli. Da lì mi scrisse: “Mia cara pupi, sii brava e prega tanto la Madonna per il tuo povero papà”».

Un giorno la guardia lo scoprì dallo spioncino mentre scriveva sulla parete della cella con uno spillo, sfuggito alle persecuzioni corporali. Era una frase del Vangelo: “Beati qui lugent quoniam ipsi consolabuntur”». Beati coloro che piangono, perché saranno consolati. «La guardia chiamò il suo capo, che costrinse mio padre a cancellare la frase con il manico del cucchiaio di legno. Papà commentò che era stato gentile, perché non l’aveva punito. Dalla finestrella intravedeva l’orto botanico. Mi scrisse: “C’è dentro un usignolo e la sera quando canta penso a te; e la notte quando, bassa all’orizzonte, vedo una stella penso a te e a Lucia”, la mia sorellina, che era nata da poco».

Poi arrivò il Natale del 1927. «E papà decise di farmi un regalo. Non aveva soldi e in ogni caso non avrebbe potuto comprarmi nulla. Così ritagliò le fotografie di una rivista che gli avevano mandato in carcere, il National Geographic Magazine. Erano immagini della Palestina. Pastori con le pecore. I prati fioriti della Galilea, con il mare di Tiberiade sullo sfondo. Siccome le didascalie erano in inglese, lui le traduceva. E aggiungeva qualche riga per raccontarmi la storia di Gesù. E mamma mi leggeva la storia ad alta voce».

Quel carcerato divenne presidente del Consiglio, per otto anni consecutivi, come non è più accaduto a nessuno. «L’importante è non perdere mai la speranza, neanche nell’ora più buia. Papà dal carcere ci scriveva: “Miei cari, dormite in pace; io sono presente”. In cella si ammalò. Lo portarono in ospedale, ma sempre con la porta aperta, e la guardia di fuori. Fu liberato dopo 14 mesi. Il primo vero ricordo che ho di lui è quando tornò a casa. Non sapevo che fosse stato in prigione, mi avevano detto che era in una città lontana, per lavoro. Lucia rifiutò di abbracciarlo: “Tu non sei il mio papà, il mio papà è quello lì” diceva indicando la sua fotografia». Con le figlie era dolcissimo. «Se combinavamo qualcosa, mamma ci avvisava: “Lo dico a papà!”. Ma noi eravamo tranquille perché sapevamo che papà non ci avrebbe fatto niente. Io ero innamoratissima di lui. A tavola mia madre sedeva alla sua destra, io alla sua sinistra. Appena lui diceva qualcosa, io aggiungevo: “Ha ragione papà!”».

La sorella di Maria Romana, Lucia, si fece suora. “Poi nacque Cecilia. Papà voleva un maschio per chiamarlo Paolo: era molto devoto a san Paolo. Ma arrivò un’altra bambina; e fu chiamata Paola». Nei giorni di festa comprava sette paste, una per ogni familiare, perché in casa abitava sua sorella, zia Marcella. A Natale però oltre al presepe facevano l’albero: un retaggio austroungarico. «Papà trovò un posto nella biblioteca del Vaticano. All’inizio fu dura, molti lo guardavano con sospetto. Lavorava il mattino, lo ricordo all’una attraversare una piazza San Pietro enorme e vuota, senza sedie, senza transenne… Il pomeriggio per arrotondare faceva traduzioni dal tedesco, che parlava come l’italiano: lui dettava ad alta voce, mamma batteva a macchina. Ogni tanto mi assegnava una piccola missione. Nei giorni delle manifestazioni del regime, si temevano arresti e perquisizioni. Allora papà mi affidava un pacco con il suo diario e le sue carte, da portare alla vicina del piano di sotto, che era una brava persona. Un giorno spuntò un ritaglio con il suo nome. Solo allora capii chi era. E lui mi raccontò la sua vita politica. Ero ancora bambina, ma stavo già dalla sua parte».

Quando entrarono i tedeschi a Roma si dovette nascondere. «Era chiuso in Laterano, con lui c’era Pietro Nenni. Arrivarono i nazisti, i preti li fecero scendere nei sotterranei. Nenni disse a papà: “Tu la chiami Provvidenza, io lo chiamo Fato; ma mi sa che stavolta è finita”. Invece si salvarono, però dovettero cambiare nascondiglio. Papà si rifugiò nel palazzo di Propaganda Fide, in una stanzina sul tetto. Io andavo a trovarlo in bicicletta, mi vestivo tutta colorata per sembrare una ragazza in gita. Nel cestino, sotto la verdura, nascondevo i suoi articoli per i giornali clandestini e i messaggi per i resistenti. Una volta ero in tram quando il pacco si lacerò, un passeggero mi disse: “Forse è meglio se scende”. Dopo la guerra volevano darmi una medaglia. Papà disse che non era il caso». E del Duce cosa diceva? «Non ne parlava mai. Solo una volta in Liguria, davanti a un assalto di sostenitori che picchiavano le mani sul vetro per invitarlo a fermarsi, mi disse: “Ora comprendo Mussolini. È difficile capire se fanno così perché hai combinato qualcosa di buono, o perché sei il capo”».

Serena Andreotti: «Io e mio padre Giulio». Il podcast «Le figlie della Repubblica» di Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.  

Il secondo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia. 

È Serena Andreotti, quarta figlia di Giulio, la protagonista della seconda puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». La più piccola dei figli nati dal matrimonio del 7 volte presidente del Consiglio con Livia Danese, racconta il lato privato di uno degli uomini politici più discussi del dopoguerra, scomparso il 6 maggio 2013 a 94 anni: dall’affetto per la madre rimasta vedova giovanissima alla rigorosa educazione cattolica, dal legame con Alcide De Gasperi ai tormentati anni del sequestro e dell’uccisione di Aldo Moro, dai processi di mafia alle battute taglienti.

«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritto e diretto da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzato da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.

Flavia Piccoli: «Io e mio padre Flaminio». Il podcast «Le figlie della Repubblica» di Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022. 

Il terzo episodio della serie della Fondazione De Gasperi realizzata col «Corriere della Sera» che compone un ritratto fra pubblico e privato di cinque uomini che in modi diversi hanno fatto la storia d'Italia. 

È Flavia Piccoli, figlia di Flaminio che fu due volte segretario della Democrazia cristiana, la protagonista della seconda puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Deputata del Partito democratico, Flavia Piccoli racconta il lato privato di un uomo politico con una biografia molto particolare: a partire dal nome, impostogli dal padre Bennone per continuare la tradizione di famiglia che rendesse impossibile la traduzione in tedesco. Piccoli era infatti nato a Kirchbichl, in Austria, nel 1915, dove la sua famiglia originaria di Borgo Valsugana era stata evacuata dopo la dichiarazione di guerra dell’Italia all’Austria-Ungheria. Nella Seconda guerra mondiale, invece, Piccoli fu arruolato come alpino e riuscì all’ultimo a salvarsi dall’internamento in un campo di concentramento. Nel dopoguerra inizia la sua carriera politica, che parte dall’Azione cattolica trentina per poi passare alla Dc, non senza qualche contrasto col Vaticano. Dello scudo crociato fu segretario nel 1969 e poi tra il 1980 e l’82, mentre tra il 1970 e il 1972 ricoprì l’incarico di ministro delle Partecipazioni statali. Deputato dal 1958 al 1992 e senatore nei due anni successivi, Piccoli è morto l’11 aprile del 2000 a Roma.

Stefania Craxi: «Io e mio padre Bettino». Tommaso Pellizzari su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2022.  

È Stefania Craxi, figlia di Bettino, la protagonista della quinta e ultima puntata del podcast «Le figlie della Repubblica». Nei giorni in cui ricorre il trentennale di Tangentopoli, che segnò l'inizio della fine dell’allora segretario del Partito socialista ed ex presidente del Consiglio, la sua primogenita difende la figura del padre, morto nel gennaio del 2000 in Tunisia, nella casa di Hammamet. È lì che Craxi era fuggito (la figlia da allora parla e parlava di «esilio») nel 1994 dopo le condanne per corruzione nel processo Eni-Sai e per finanziamento illecito per le tangenti della Metropolitana milanese. Ma il racconto di Stefania Craxi va molto oltre, ricordando il suo rapporto simbiotico con tutto ciò che era politica e che inevitabilmente finì per sottrarre suo padre alla famiglia. Cosa che spinse la giovane Stefania a vivere una gioventù molto diversa da quella dei suoi coetanei e coetanee: una gioventù fatta di politica pur di passare qualche ora in più col padre.

«Le figlie della Repubblica» è un podcast della Fondazione De Gasperi, l’istituto che custodisce e promuove gli insegnamenti ideali, morali e politici di Alcide De Gasperi, realizzato nell’ambito del programma di eventi con cui nel 2022 celebrerà i 40 anni dalla sua nascita. La serie, prodotta in collaborazione con il Corriere e con il sostegno della Fondazione Cariplo, nasce da un’idea di Martina Bacigalupi ed è stato scritta e diretta da Emmanuel Exitu con la supervisione dello storico Antonio Bonatesta e realizzata da Ways - The storytelling agency, con la voce narrante di Alessandro Banfi.

Clemente Mastella. Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 13 Aprile 2022.

Tra le doti di Clemente Mastella, sindaco di Benevento, ex ministro della Giustizia, bandiera della prima Repubblica, ce n'è una, taumaturgica, fin qui rimasta nascosta: la cancellazione delle multe. 

Eppure Mastella pare esserne grande esperto se è vero - come racconteranno stasera "Le Iene", su Italia 1, in un'inchiesta firmata da Marco Occhipinti e Filippo Roma- che è riuscito a farsi annullare quasi tutte le 150 che ha preso in meno di cinque anni. Tutte contestate all'auto di rappresentanza del Comune di Benevento che lo porta in giro ogni giorno. Per impegni istituzionali ma anche nei continui su e giù con Roma, frequentissimi per esempio durante le elezioni per il presidente della Repubblica quando Mastella era una presenza fissa nei talk show televisivi.

 A raccontare la storia alle Iene, carte alla mano, è un ex dipendente comunale, Gabriele Corona, esponente di Altra Benevento, associazione beneventana mai tenera con l'amministrazione Mastella. «In questi anni - spiega Corona, indicando una pila di documenti - la macchina del sindaco ha preso multe per eccesso di velocità, circolazione in zona Ztl, corsie preferenziali per gli autobus ».

Ma Mastella, che è un fuoriclasse, è riuscito a impugnarle e vincere i ricorsi. Come? A ogni contravvenzione ricevuta Mastella spiegava che si «recava per motivi istituzionali» in un tal luogo e che l'autista che lo accompagnava, «su indicazione dell'operatore di Polizia a bordo, ha doverosamente superato il limite di velocità imposto a salvaguardia della sicurezza personale del sottoscritto: difatti il notevole rallentamento imposto nella circostanza dal traffico sarebbe stato fonte di potenziale esposizione a pericolo».

Mastella non è sotto scorta. Ma sottoposto a regime di sorveglianza: un poliziotto lo accompagna in tutti gli spostamenti. L'ex ministro sostiene che sia stato proprio l'agente, nei 150 casi, a spingere l'autista (visto che Mastella non guida) alle infrazioni per «motivi di sicurezza». Il punto è che alcune multe sono davvero strane. Sulla Napoli-Roma, dove c'è un limite di 130 chilometri, Mastella sfrecciava a 171, alle 13. Perché? Che pericolo c'era? E ancora: chi attentava alla sicurezza di Mastella alle 3:44 di notte sulla Benevento-Caianello quando, tra l'altro su una strada pericolosissima, superava il limite di velocità? (a proposito: il Mastella sindaco ha criticato duramente i colleghi che mettevano autovelox su quel tratto).

C'è poi il caso Roma: nel 2017 all'auto dell'ex ministro sono state notificate 12 multe per ingressi non autorizzati nella Ztl: conto, 2988 euro. Anche in questo caso, ricorso. Però respinto. Ma Mastella comunque non paga. Ripresenta il ricorso, «e - racconta sempre Corona carte alla mano - questa volta la Prefettura non lo valuta. Passa il tempo e decorrono i termini». Risultato: Mastella non paga e il comune di Roma gli deve 950 euro di spese legali.

«State sprecando tempo» dice però Mastella a Repubblica . «Io non ho la patente. Non guido. Che c'entro? ». Le multe sono alla sua macchina di servizio. È lei che firma i ricorsi, sostenendo che il codice della strada è stato violato per ragioni di sicurezza. «C'è un poliziotto che è sempre con me. Mica posso dire bugie! ». Ma la notte, chi la mette in pericolo sulla Benevento-Caianello? E perché tutti quegli ingressi nella Ztl a Roma? «E che ne so? Io dormo in macchina, parlo al telefono, mica sto attento a quello che succede. E poi: ho fatto ricorso. Ho vinto. Che volete ancora?».

Le Iene, Clemente Mastella? 150 multe annullate in 5 anni, come ci è riuscito: uno "strano caso" a Benevento. Libero Quotidiano il 13 aprile 2022.

Clemente Mastella al centro di un'inchiesta de Le Iene su Italia 1. Nell'inchiesta, che andrà in onda questa sera e di cui Repubblica ha già dato qualche anticipazione, si rivela che l'ex ministro della Giustizia e oggi sindaco di Benevento sarebbe riuscito a farsi annullare quasi tutte le 150 multe prese negli ultimi cinque anni. Tutte contestate all'auto di rappresentanza del comune di Benevento, con cui di solito va in giro sia per impegni istituzionali sia per gli spostamenti da e per Roma, una città molto frequentata per esempio durante le elezioni per il Quirinale.

A sollevare il caso è stato l'ex dipendente comunale Gabriele Corona, esponente dell'associazione "Altra Benevento": "In questi anni la macchina del sindaco ha preso multe per eccesso di velocità, circolazione in zona Ztl, corsie preferenziali per gli autobus", ha spiegato a Le Iene. Sottolineando, poi, come il primo cittadino sia riuscito a impugnare tutto e a vincere i ricorsi. Alle contravvenzioni Mastella avrebbe risposto spiegando che si "recava per motivi istituzionali" in un tal luogo e che l'autista che lo accompagnava, "su indicazione dell'operatore di Polizia a bordo, ha doverosamente superato il limite di velocità imposto a salvaguardia della sicurezza personale del sottoscritto".

L'auto, insomma, avrebbe spesso superato i limiti di velocità perché "il notevole rallentamento imposto nella circostanza dal traffico sarebbe stato fonte di potenziale esposizione a pericolo". In effetti Mastella è sottoposto a regime di sorveglianza, il che significa che un poliziotto lo accompagna sempre negli spostamenti. Alcune multe, comunque, destano qualche sospetto: sulla Napoli-Roma, dove c'è un limite di 130 chilometri, per esempio, Mastella sarebbe andato a 171, alle 13. Caso simile alle 3:44 di notte sulla Benevento-Caianello. Qual era la situazione di pericolo in quei casi? Sentito da Repubblica, Mastella ha replicato: "Io dormo in macchina, parlo al telefono, mica sto attento a quello che succede. E poi: ho fatto ricorso. Ho vinto. Che volete ancora?".

Da Un Giorno da Pecora il 14 febbraio 2022.

Clemente Mastella e sua moglie Sandra Lonardo, sposati da quasi 50 anni, oggi hanno 'festeggiato' il San Valentino intervenendo al programma di Rai Radio1 Un Giorno da Pecora, dove hanno raccontato molti aspetti della loro lunga e felice relazione. “Siamo sposati dal 1975 e prima siamo stati fidanzati per 6 anni”, hanno esordito i due. Qual è il segreto per mantenere un rapporto così lungo? “Ci vuole molto affetto, molta stima e comprensione”. 

Cosa ha regalato Clemente a sua moglie per questo S.Valentino? “Un grande mazzo di rose rosse, e stasera faremo una cena da soli”. Con un bigliettino? “Quest'anno niente bigliettino – ha detto la senatrice Lonardo a Un Giorno da Pecora Radio1 - ma gli altri anni mi ha scritto cose bellissime, come 'ti risposerei' o 'starei ancora 100 anni con te'. Più passano gli anni e più è bello stare insieme alla nostra età”. Avete dei nomignoli affettuosi? “Mai avuti, ci chiamiamo da sempre per nome”.

Qual è il difetto peggiore dell'altro? “Sandra magari su una cosa che dico mi risponde 'no vabbé...' ed io mi arrabbio”. E per lei? “Clemente è molto distratto, non si interessa per nulla delle cose della casa, demanda tutto a me”. Si può dire che siete un po' i 'Ferragnez' della politica? “Siamo un po' come i Maneskin e i Cugini di Campagna: ecco, noi siamo i Cugini di Campagna...” Potreste essere i 'Mastellaz'? “E perché no...” 

Chi dei due è più geloso? “Lo siamo stati entrambi, quando Clemente faceva il deputato a Roma, e non c'era ancora il cellulare, Clemente mi chiamava 25 volte al giorno...” Dite la verità: in passato c'è stato qualche tradimento? “Non mi sono mai soffermata, qualche volta ci sono andato vicino, ho preferito non sapere, è preferibile non sapere”, ha detto a Un Giorno da Pecora la senatrice.

Iva Zanicchi qualche giorno fa ha detto che far l'amore fa bene anche superati gli 80 anni. Siete d'accordo? “L'amore fa bene sempre, a qualsiasi età. Cambiano i tempi ma è sempre bello”. Infine, prima del termine della lunga intervista, a Rai Radio1 i 'Mastellaz' hanno cantato il brano della loro vita insieme, la celebre 'il Cielo in una Stanza' di Gino Paoli.

Paolo Cirino Pomicino. Illusioni perdute. L’abbandono della politica è il grande inganno che ha rovinato l’Italia, scrive Cirino Pomicino. Beppe Facchetti su L'Inkiesta il 12 Maggio 2022.

Nel suo ultimo fumantino libro pubblicato da Lindau, l’antico democristiano passa in rassegna i mali del Paese, attribuisce colpe eccessive alla finanza, rivaluta Andreotti e trova nel mito del maggioritario uno dei problemi più grandi dell’instabilità di oggi.

Stimolante come i precedenti, l’ultimo libro di Paolo Cirino Pomicino (“Il grande inganno”, edizione Lindau) è però questa volta meno provocatorio, più serioso, in qualche passaggio addirittura un po’ troppo in stile testamento morale. Ma forse è solo una impressione, perché nella sua nuova vita di scrittore e polemista, ci aveva abituato ai fuochi di artificio, ai ritratti fulminanti, alle ricostruzioni ardite ma suggestive, e forse ci aspettavamo, colpa nostra, più divertimento intellettuale, come in certi suoi articoli, fin da quelli firmati Geronimo sui giornali di Vittorio Feltri.

Certo, seduto davanti alla tastiera, Pomicino ha rivelato una forte attitudine alla scrittura, pari alla sua indomabile voglia di esserci, di combattere, di dire la sua, in questa seconda o terza Repubblica che non gli appartiene, che ha spazzato via quasi tutti i protagonisti della sua epoca. Lui no, anzi ha risalito la china di un’ostilità, talora un pregiudizio, che un tempo era forte, sia sui media che nell’opinione pubblica (ma non tra gli elettori campani, che lo voterebbero in massa ancora adesso se ci fossero le preferenze), ed è invece sempre più solida la reputazione riconquistata da osservatore capace di opinioni non banali o strampalate come quelle prevalenti nei salotti televisivi.

In questo nuovo libro, su molte cose si può non essere d’accordo, e il bello è che persino il prefatore, Ferruccio De Bortoli, non risparmia critiche e prese di distanza, quasi fosse un recensore e non una firma associata a quella dell’autore.

Siamo d’accordo con De Bortoli soprattutto sull’eccesso di amplificazione dell’importanza di ciò che ha a che fare con la finanza.

In Pomicino è quasi un’ossessione, ma è davvero un eccesso, che si scontra con la realtà. Certo che la finanza ha un ruolo ben poco al servizio all’industria e allo sviluppo, come dovrebbe essere. È un male non solo italiano innegabile, ma che la finanza sia una piovra che tutto controlla – politica e giornali – è una forzatura. Non vogliamo essere ingenui e vediamo naturalmente tanti difetti nella finanziarizzazione dell’economia, ma di quale finanza parliamo?

Ai tempi di Pomicino la piovra poteva essere la Mediobanca di Enrico Cuccia, che aveva un’importanza superiore alla sua forza reale, entrando nel vivo delle realtà industriali e condizionandole con quote di minoranza e molta suasion, magari poco moral. Ma oggi chi rappresenta la finanza onnivora? Se ci fosse stata finanza forte in Italia avremmo avuto buone privatizzazioni, non una farsa furbetta come quella della prima Telecom e molte delle successive!

La recente vicenda Generali ha messo in evidenza un conflitto interno, peraltro risolto alla fine con una logica di mercato, perché ha prevalso la convenienza. Carlo De Benedetti fa in tarda età il pacifista che critica la Nato e i poteri forti mondiali. Le banche sono molto strettamente condizionate da Francoforte e vengono da una stagione che è stata un bagno di sangue. E i protagonisti delle stragi venete e toscane non erano dei finanzieri, ma imprenditori dell’azzardo e della vanità. Le anomalie del potere bancario sono state semmai facilitate da leggi della Prima Repubblica, che trasferirono il controllo a Fondazioni autoreferenziali. 

Quanto al rapporto con i giornali, si sopravvaluta il ruolo di quel che rimane dell’editoria e del giornalismo. Il sorprendente blocco unitario tra Stampa e Repubblica non ha risposto a logiche di sopraffazione finanziaria e oggi, semmai, c’è un’omologazione cui fanno da contrappeso solo le direzioni di Giannini e ancor più di Molinari. Lontani i tempi in cui Scalfari dava la linea a tutti (il narcisismo di Scalfari, non la finanza). Questi cambiamenti davvero notevoli sembrano più ripiegamenti difensivi, istinto di sopravvivenza delle redazioni, alle prese con l’inarrestabile calo delle vendite in edicola, anche quando questo ha ispirato campagne un po’ disperate che hanno spianato la strada alla miseranda ascesa dei 5 Stelle, comunque non a Soros. In fondo, l’unico imprenditore che se la cava, Urbano Cairo, è una figura del tutto nuova nel panorama editoriale, il primo tentativo di editore puro tanto auspicato per la complessiva libertà di stampa. Le bizzarrie de la7 e spesso anche del Corriere non sembrano i tentacoli di una finanza proterva.

La finanza cattiva è dunque la protagonista in filigrana del libro, ma è anche il legittimo pensiero personale dell’autore, la cui mano si vede in tante pagine in cui ha voglia e forza di lasciare le impronte digitali del suo essere controcorrente, e già questo potrebbe bastare per meritare la lettura.

C’è naturalmente la difesa di Giulio Andreotti, e non poteva non esserci. D’altra parte, se uno che è stato professionalmente sconfitto nelle “sue” aule giudiziarie come Gian Carlo Caselli viene periodicamente ospitato dal Corriere della Sera per raccontare una controverità sempre moralistica che, nonostante le sentenze, sancisce ex cathedra la colpevolezza dell’odiato Giulio, avrà pur diritto un amico di sempre a far valere la forza dei fatti e affermare che la mafia si è vendicata del legislatore che più l’ha colpita.

Meno scontati altri giudizi. Vanno letti con attenzione i numerosi riferimenti a Mario Draghi. Da un lato, Pomicino è un po’ il Pippo Baudo che rivendica “l’ho scoperto io”, dall’altro è sottile e capzioso nel commentare alcune pagine non allineabili con il coro laudativo attuale, ma l’autore sta sempre molto ben attento: butta lì qualche riflessione che sembra critica e conclude sempre con un elogio.

Più gustose – tra ironia e finta di non capire – le citazioni di Gianni De Gennaro, l’uomo di tutti i ruoli delicati dell’intelligence e dell’ordine pubblico. È uno slalom strepitoso tra dubbi e fatti accaduti, mai concluso con una censura, che viene se mai lasciata al lettore. Chiave di tutto una frase che attribuisce a Giuliano Amato, ministro dell’Interno di Prodi, impossibilitato a rispondere su quanti siano stati i mafiosi scarcerati per programmi di protezione tra il 1993 il 2005. «Caro Paolo, sulle tue domande la mia amministrazione è reticente», rispose l’ineffabile, e il reticente era appunto De Gennaro.

Come dice lo stesso titolo del libro, l’opera di Pomicino è fondamentalmente un ammonimento a non credere al mainstream, oggi in verità sempre meno vincente, sui meriti e le glorie solo immaginarie della Seconda repubblica.

Il grande inganno allora riguarda un po’ tutto: dal disastro della politica estera, allo sfottò per le porte lasciate aperte ai francesi predatori, alle doppie verità a 5 Stelle della vicenda Benetton Atlantia. E soprattutto – qui siamo totalmente d’accordo – sull’inganno della soluzione dei problemi tramite legge elettorale. Il grande inganno del maggioritario che doveva ridurre il numero dei partiti e lo ha moltiplicato, incentivando il “tarlo democratico” del trasformismo. Fino al paradosso che col proporzionale precedente c’era comunque una corrispondenza tra Paese reale e Parlamento, mentre il salvifico maggioritario ha prodotto governi sostanzialmente di minoranza, non a caso ripetutamente affidati o non politici.

Tutte ricadute di un fallimento generale della classe politica, ben lontani dalle favolose promesse di una seconda Repubblica redentrice, nutrita di personalismi già di per sé discutibili, ma inaccettabili quando a interpretarli sono apparsi sulla scena leader dell’invettiva da talk show o – quando andava bene – “bravi ragazzi di paese” come Spadafora e Di Maio.

Ventisette anni di illusioni e promesse sbagliate, culminate con il successo pentastellato, una “lilliput grillina, autoritaria e farsesca”.

E una grande colpa: non aver approfittato – ora che sta svanendo – della grande occasione dei tassi favorevoli, dell’inflazione inesistente, delle materie prime abbordabili.

Quanto appunto al terreno economico, Pomicino – medico mancato, anche se suo malgrado gran frequentatore di camere operatorie (auguri sempre!) – dimostra la lucidità dei vecchi tempi.

Rivendica – contro la tendenza acritica dei commentatori degli anni ’80 come anni del debito – che «nel 1992-1993 consegnammo alla seconda Repubblica un paese ricco e benestante, privo di tensioni sociali, disinflazionato e con una disoccupazione intorno al 5%». Sono dati di fatto, così come lo sono quelli che hanno successivamente portato il debito sopra il 150% attuale.

Debito che Pomicino considera sempre il grande problema (oggi un po’ accantonato dalla distinzione tra buono e cattivo, ma la guerra lo sta trasformando tutto in cattivo) e ripropone una sua ricetta che presuppone un “accordo” tra Stato e ricchezza nazionale che metterebbe a disposizione 120 miliardi di euro non a fronte di un condono ma di un nuovo accordo conveniente per il contribuente.

Insomma, ripetiamo: un libro da leggere, pieno di suggestioni, con qualche scivolata (l’eccessivo e un po’ troppo scolastico omaggio all’ambientalismo stride un po’ con il personaggio), ma con un grande denominatore comune: la passione per la politica.

Su questo, Pomicino non transige, e ha profondamente ragione, perché molti dei guai italiani contemporanei nascono dall’aver schiacciato la politica in una dimensione caricaturale, mentre è la più seria delle pratiche intellettuali. Come tale, richiede personale adeguato ed è un’anomalia ricorrere costantemente a non politici per poter meglio combattere gli antipolitici, che hanno procurato tanti guai. Solo l’emergenza di grandi temi epocali – la pandemia, l’aggressione russa in Ukraina – hanno forse rimesso ordine alla gerarchia delle cose davvero importanti, purché non sia già troppo tardi.

Che poi Pomicino faccia coincidere la sua nostalgia di politica con l’amore quasi esclusivo, monogamico, con la Democrazia Cristiana, possiamo rilevarlo ma perdonarglielo. Anche la Dc, in fondo, sta attraversando una stagione postuma di rivalutazione.

Pietro De Sarlo per basilicata24.it il 9 maggio 2022.

Fresco di stampa il libro di Cirino Pomicino “Il grande inganno”. Per chi non ricordasse il suo contributo alla Prima Repubblica, basta sapere che fu ministro con De Mita e Andreotti sia alla funzione pubblica sia al bilancio e programmazione economica. Come dice lui stesso fu l’ultimo politico a essere ministro dell’economia.

Non ha mai goduto di buona stampa. La sua parlata stimola il vezzo, venato di razzismo anti meridionale, che si sostanzia in sottolineature denigratorie come “avvocato di Volturara Appula”, riferito a Giuseppe Conte, oppure “commercialista di Bari”, per Rino Formica, o il più garbato ‘intellettuale della Magna Grecia’ con cui Gianni Agnelli chiamò Ciriaco De Mita.

Persino Ferruccio De Bortoli, autore della prefazione, con riflesso pavloviano mette in guardia dalla “arguzia tutta partenopea” dell’autore. Già, a Milano e dintorni l’arguzia pare sia finita e da tempo.

Se però siete intellettualmente liberi e scevri da pregiudizi la lettura è interessante. La tesi del libro è che la Seconda Repubblica è stata un disastro e molto peggio della Prima che vide l’autore tra i protagonisti.

Molto “cicero pro domo sua”, certo, ma Pomicino le cose le sa. Qualcuna la dice, qualcun’altra gli scappa. Si tratta, pur nel morbido tono democristiano, di un pesante attacco al PD e al sistema della finanza e della informazione che protegge e di cui è strumento. 

Ecco il libro in pillole. 

L’informazione in Italia

Molto spazio dedica al tema della informazione, tema all’attualità visto che è appena uscita l’ultima classifica mondiale sulla libertà di informazione di Reporters sans Frontiere. L’Italia è precipitata in un solo anno dal 41 esimo al 58 esimo posto, tra la Macedonia del Nord e il Niger.

La genesi di questa situazione, con accuse pesanti, l’autore la fa risalire agli inizi degli anni novanta, quando il ‘salotto buono’ del capitalismo italiano, scelse di costruire la Seconda Repubblica dando credibilità e sostegno, con i propri media, a quelli che Cirino chiama i ‘vinti della storia’, ossia a quelli del vecchio PC, ora PD, sconfitti ideologicamente dalla perestroika e dalla caduta del muro di Berlino. 

Il salotto buono era costituito da Carlo De Benedetti, Gianni Agnelli, Marco Tronchetti Provera, Carlo Pesenti, Enrico Cuccia, Cesare Romiti, Eugenio Scalfari. Gente che deve molto al pubblico potere e in specie al PD “che si trasformò nel braccio operativo della destra neoliberista europea”.

Ma attenzione, l’intreccio tra capitale, finanza e informazione genera: “Un’arma letale per le democrazie liberali… Una potenza di fuoco difficilmente sostenibile dalle istituzioni democratiche.” Anche perché operano: “utilizzando nel contempo le insinuazioni personali e la gogna contro gli avversari, manipolando pesantemente la verità”. 

In effetti il metodo si ripropone tutti i giorni su Repubblica e dintorni, e solo una narrazione farlocca può far ritenere che il PD sia stato, e sia, un partito di sinistra. A furia di ‘spiegoni’ e ‘zorate’ qualcuno ancora ci casca.

I giudizi su Ciampi, Draghi, Letta, Prodi …

C’è altro però nel libro. A partire da Carlo Azeglio Ciampi che fece “la peggiore legge finanziaria” e “a elezioni già avvenute e a capo di un governo dimissionario da due mesi” assegnò “all’amico Carlo De Benedetti” la gara per il secondo gestore di telefonia per 700 miliardi delle vecchie lire e a rate. 

Affare girato a Mannesmann per 14.000 miliardi di lire dopo poco tempo. Poi Romano Prodi e Arturo Parisi, “dovrebbero spiegare dopo trenta anni” perché “impoverirono un grande Paese come l’Italia” certamente “a loro insaputa”.

Su Letta c’è poco, giusto per chiedere, visti passati incarichi tra cui quello di autorevole membro della Trilateral Commission, fondata da Rockefeller nel 1973, se sia “completamente libero”. Identica domanda c’è su Mario Draghi, con lodi di circostanza, insieme ad alcune vicende imbarazzanti come il giretto a Goldman Sachs, l’autorizzazione dell’acquisto di Antonveneta e le norme europee sul sistema bancario. 

Lo stato della democrazia

Da buon DC fa quindi un invito, che pare ipocritamente strumentale, a Draghi a “trasformarsi da rappresentante delle élite finanziarie internazionali a rappresentante delle élite politiche”, come? Banalmente “candidandosi”. Perché? ” Il battesimo elettorali è essenziale per la legittimità politica in un paese democratico”. E come dargli torto.

Intanto ci ricorda che il parlamento è svuotato da ogni funzione tanto che l’ultima finanziaria di Draghi è stata approvata senza il parere della apposita commissione e senza che il Parlamento abbia avuto il tempo di leggerla. E Mattarella? Nella circostanza non pervenuto. 

Insomma, la democrazia è a rischio e occorre recuperare la centralità della politica e del parlamento a partire proprio da quella media e piccola borghesia che è stata massacrata nella Seconda Repubblica.

L’Italia e la Francia

Deprimente la narrazione di come l’Italia non abbia da Sigonella, ossia da Andreotti e Craxi in poi, una politica estera, e gli effetti si vedono. Sigonella non ci è mai stato perdonato dagli USA. In ogni caso la ininfluenza del Paese è certificata dalla completa assenza di una posizione autonoma dell’Italia, appiattita sugli USA più che sull’Europa, nel conflitto attuale tra NATO e Russia sul campo Ucraino. Tanto che Mario Draghi non fu neanche invitato alla riunione tra Biden, Macron e Sholzt.

In compendo sulla Seconda Repubblica sono piovute ‘Legion d’Onore’ a tanti politici italiani, specialmente del PD. Fatto è che l’elenco delle aziende cedute ai francesi nella Seconda Repubblica è lungo e di peso: BNL, poi Pioneer e CariParma, senza dimenticare Edison, Telecom, l’agroalimentare, la grande distribuzione e il settore della moda. Quando Fincantieri cercò di fare shopping oltralpe venne però immediatamente fermata e Draghi non ha rinnovato il mandato al protagonista di quella tentata acquisizione Giuseppe Bona.

Nell’accordo di Aquisgrana del 2019 tra Francia e Germania, a detta dell’autore, tra le cose non scritte pare ci sia la divisione dell’Europa in due aree di influenza: la Grecia e l’Est alla Germania, l’Italia alla Francia. “Il trattato del Quirinale” approvato sotto gli occhi di un “compiaciuto Mattarella” pur essendo paritetico nella forma rischia di trasformarci quindi in un protettorato francese.

L’economia, Conte e il M5S

Bocciata la Seconda Repubblica anche in economia con tanto di numeri e percentuali. In compenso vede Conte e il M5S come fumo negli occhi, invece di apprezzare il tentativo di porre fine alla Seconda Repubblica, che lui stesso giudica fallimentare. Qui è la pancia che prevale, non solo nell’autore, non riconoscendo al tentativo del M5S quell’embrione di rivolta piccolo borghese e popolare che poteva dare una spallata al sistema. La spalla se la sono invece lussata.

Conclusione

Peccato gli sia rimasta la cerchiobottista sindrome DC, per cui Cirino Pomicino non arriva mai a trarre le necessarie conseguenze dai fatti. Mattarella: fortuna che c’è. Draghi: idem. Tutti amici. 

I contenuti del libro non costituiscono un vero e proprio scoop, più che altro si tratta di un esercizio di memoria. Utile specialmente a chi per fatti anagrafici non ha dimestichezza con la storia recente del Paese.

Eppure la lettura si rivela preziosa per comprendere alcune dinamiche di oggi, come la santificazione di Draghi e la sua nomina a primo ministro. Da non far cadere la denuncia degli interessi in gioco della élite economica e finanziaria, più francofila che europeista, difesi dal PD e da una stampa sempre più asservita. 

Se dovessimo essere pignoli manca ancora molta ‘materia oscura’ per apprezzare fino in fondo il degrado della nostra democrazia descritto nel libro. Ci sarebbe molta materia di ‘scandalo politico’, ma temo che siamo talmente scorati e demoralizzati che tutto ci scivolerà addosso come nulla.

Fabrizio Roncone per “Sette - Corriere della Sera” il 14 febbraio 2022.

Talvolta ruvido, permalosissimo, ancora appassionato, con una competenza strepitosa, cinico e severo ai limiti della ferocia e pero anche lucido e – piaccia o no – credibile: Paolo Cirino Pomicino di anni 82, un passato politico travolgente nella Prima Repubblica si aggira sulle macerie di questa, cosi piena di modesti e modestia, di improvvisati e impostori, tutta una classe di capi e capetti con molti autentici scappati di casa che poi quando parla lui, cioè Cirino Pomicino, hai la sensazione non sia nemmeno più un ex potente e discusso notabile democristiano, ma un incrocio tra Churchill e De Gaulle. 

’O ministro, com’era chiamato a Napoli negli anni Ottanta, in un miscuglio di rispetto e tremendo timore, durante la drammatica setti- mana che ha poi riportato Sergio Mattarella al Quirinale, e tornato ad essere molto cercato, intervistato, spesso ospite dei più importanti talk televisivi.

Anche Rino Formica e Clemente Mastella sono stati parecchio ascoltati: rispetto a loro, pero, Cirino Pomicino ci mette sempre un tasso di perfidia in più. Un giorno s’è chiesto: «Non capisco perchè ci si accanisca così tanto nel volere diventare presidente della Repubblica: lo sanno anche i bambini che il potere vero ce l’ha chi sta a Palazzo Chigi».

La grammatica del potere. La logica del potere. Spiegata a chi oggi lo insegue ovunque e senza uno straccio di progetto. Pomicino osserva basito le mosse di chi guida certi partiti in questa tragica stagione. Giuseppe Conte dovrebbe farsi dare ripetizioni private. Matteo Salvini potrebbe provare: ma e possibile che Cirino Pomicino si rifiuti di dargliene. 

L’abisso di vaghezza, il buio dell’improvvisazione, tutto agli occhi di uno come lui può apparire definitivo e, forse, inaccettabile. Del resto: la sua stella brillo con Giulio Andreotti e, poi, con il Cavaliere. Ha visto da vicino tutto. Compresa Tangentopoli. «E l’aldilà: 4 bypass a Houston, 2 a Londa, trapianto cardiaco a Pavia nel 2007». Da Di Pietro, che lo indago per la vicenda Enimont, si fece promettere: «Quando succederà, devi scrivermi l’orazione funebre». Poi non e successo. 

E cosi adesso cambi canale e lo senti spiegare un po’ di sintassi politica a questi ragazzi che pensano di farla mettendosi una pochette nel taschino o mangiando pane e Nutella.

Donat-Cattin, un riformista al governo. Lunedì 11 aprile la presentazione. Il Domani il 09 aprile 2022.

Il libro di Marcello Reggiani sul politico e ministro democristiano verrà presentato da Elsa Fornero e Carlo De Benedetti lunedì 11 aprile al Polo del 900 di Torino.

La presentazione del libro “Un riformista al governo. Carlo Donat-Cattin ministro del centro-sinistra (1963-1978)” di Marcello Reggiani sarà lunedì 11 aprile al Polo del 900 di Torino alle ore 17.30.

A intervenire saranno Carlo De Benedetti, l’ex ministro del Lavoro Elsa Fornero, Gianfranco Zabaldano, presidente della Fondazione Vera Nocentini e Giovanni Zanetti, professore emerito, già ordinario di Economia politica all’Università di Torino. A coordinare il dibattito sarà Mariapia Donat-Cattin del comitato scientifico della Fondazione che prende il nome dal politico democristiano. 

Il libro è una ricostruzione delle riforme fatte e di quelle incompiute a cavallo degli anni sessanta e settanta: dalle leggi quadro per l’industria allo Statuto dei lavoratori, dalla riforma presidenziale a quella sanitaria.

Carlo Donat-Cattin è stato un sindacalista, giornalista e politico italiano. Fu deputato della Repubblica dal 1958 al 1979 e senatore dal ‘79 fino 1991, sempre con la Democrazia Cristiana. Ministro del lavoro dal ‘69 al ‘72 e dall’89 al ‘91, ministro dell’Industria dal ‘74 al ‘78 e della Sanità dall’86 all’89.

Carlo Donat-Cattin. LA VIOLENZA IN CASA. Il caso Donat-Cattin. Padri contro figli negli anni del terrorismo. MONICA GALFRÉ su Il Domani il 29 marzo 2022

Il caso Donat-Cattin-Cossiga innesca sentimenti contraddittori. Da una parte, alimenta il clima di sospetto e mina ulteriormente la credibilità delle istituzioni.

Dall’altra, svela quanto sia diffuso il contagio eversivo. In più il nemico sembra acquisire un volto, che è quello di un ragazzo come tanti, familiare nonostante il nome famoso.

Perché prima di tutto Carlo e Marco Donat-Cattin sono un padre e un figlio. Divisi dalla storia, che in quegli anni ha corso più veloce del solito, non si sono mai capiti, come migliaia di padri e figli di quell’età. MONICA GALFRÉ

Marco Revelli per “la Stampa” il 22 marzo 2022.

Mercoledì 7 maggio 1980 il quotidiano Paese sera esce col titolo in prima pagina: «Il figlio di Donat-Cattin fa parte di Prima linea». E' l'inizio di uno scandalo di dimensioni potenzialmente devastanti, esploso nel cuore della Prima Repubblica. Carlo Donat-Cattin è il potentissimo vice-segretario della Democrazia Cristiana. Ha appena scritto il Preambolo alle tesi congressuali del partito, con cui è stata decretata la fine del «compromesso storico», in un Paese ancora stretto nella morsa del terrorismo. Che il figlio Marco sia un militante di una delle più note formazioni della lotta armata è di per sé sconvolgente. Ma non finisce lì.

Pochi giorni più tardi, il 16 maggio, la Procura di Torino trasmette alla Presidenza della Camera i verbali d'interrogatorio di Roberto Sandalo, un altro membro di Prima linea, amico del cuore di Marco, arrestato il 29 aprile, da cui risulta che Carlo Donat-Cattin avrebbe saputo della situazione giudiziaria del figlio direttamente dall'allora presidente del Consiglio, Francesco Cossiga, in un incontro riservato. Che la seconda carica dello Stato risulti imputabile di favoreggiamento nei confronti del figlio di un altissimo dirigente del suo partito configura le condizioni per cui quel vulnus giunga a colpire lo stesso «cuore dello Stato» con effetti persino più distruttivi del fuoco delle Brigate Rosse.

Tanto più che nel frattempo Marco Donat-Cattin è raggiunto da un mandato di cattura per l'assassinio del giudice milanese Emilio Alessandrini. Le sedute della Commissione parlamentare per i procedimenti d'accusa (il cosiddetto «tribunale dei ministri»), di fronte alla quale il capo del governo è chiamato a rispondere come imputato, tra la fine di maggio e la fine di luglio, metteranno in scena tutti gli aspetti di quello che Eugenio Scalfari definì come «uno scandalo senza precedenti». 

Il quale tuttavia non ebbe tutta la assorbente visibilità che la cosa in sé avrebbe meritato solo perché inserito in una serie terribile di eventi che finirono per relativizzarne l'impatto: è del 28 maggio l'omicidio a Milano del giornalista Walter Tobagi, il 23 giugno a Napoli è assassinato dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, la strage di Ustica, con i suoi 81 morti, è del 27 giugno, mentre quella alla stazione di Bologna (85 morti, 200 feriti) segna l'inizio di agosto Così, quando il 31 maggio, la Commissione a maggioranza risicata (11 contro 9) e poi il 27 luglio l'Aula (507 contro 416) scagionano il capo del governo dall'accusa di favoreggiamento, il rumore mediatico è relativamente contenuto. Cossiga farà ancora in tempo a diventare presidente del Senato e poi il presidente della Repubblica «picconatore» che tutti ricordano.

Per Carlo Donat-Cattin, invece, di fatto la carriera politica finirà lì, inchiodato alla sorte di quel figlio con cui non era mai andato d'accordo. Sotto il profilo strettamente politico la riflessione potrebbe chiudersi così. Uno dei tanti esempi di malapolitica da «Prima Repubblica». 

Ma in realtà il «caso dei Donat-Cattin» (padre e figlio) è un viluppo di problemi più profondi, di questioni più «ultime», attinenti ai temi della vita, della morte, del dolore, del senso e del non-senso, del rapporto tra le generazioni naturalmente, come suggerisce il titolo del libro di per sé evocativo di tragedia: Il figlio terrorista. «Nodi» che l'autrice Monica Galfré rivisita con competenza e sensibilità, affidandosi alle fonti con acribia da archivista ma anche all'intuito e alla capacità di compassione indispensabili quando si costeggiano abissi di questa profondità. In primo piano il livello più «visibile» della vicenda, quello processuale, con un focus importante sul passaggio parlamentare («La repubblica sotto processo» è il titolo del capitolo), da cui emergono, con drammatica evidenza, le due «culture politiche» a confronto: da una parte quella democristiana, segnata dall'attenzione alla dimensione umana del dramma del proprio vice-segretario, in forza dei rapporti di amicizia ma anche della centralità che la «famiglia» - con i suoi affetti e i suoi difetti - ha nell'universo valoriale identificante; dall'altra quella comunista, del Pci berlingueriano, che utilizzò il caso per un attacco frontale, catafratta nell'affermazione intransigente del rilievo pubblico (già sperimentata nel corso del rapimento di Aldo Moro) e del primato dello Stato come istituzione «fredda».

Ma poi, come secondo cerchio, il livello più intimo del rapporto «padre/figlio»: di quel padre così assente, tutto assorbito dalla vita politica romana, e così inarrivabile nella sua statura di leader nazionale; di quel figlio così bello, e ribelle, intreccio di vitalismo e di incostanza. E, attraverso quella coppia, la questione più generale del rapporto tra le generazioni in un'epoca di sconvolgimento delle relazioni fondamentali, in cui la modernizzazione tardiva del Paese, brutale e rapida («il crollo finale della società patriarcale»), ha lacerato consolidati legami, strutture elementari come la famiglia, mondi affettivi consolidati e violati da una tempesta di cui il Sessantotto fu la cornice.

E in cui un Edipo scatenato fece, per una feroce parentesi, terra bruciata di un intero repertorio di regole, sentimenti, umanità accumulati nel ciclo lungo della civilizzazione. Infine c'è la galassia ampia, incandescente e avvelenata, del movimento diffuso della lotta armata, col suo reclutamento di massa, i suoi giochi di morte, i meccanismi dell'emulazione e dell'iniziazione, i corpi di un nemico neppure conosciuto usati come «tragici trofei» per segnare il territorio, misurare rapporti di forza tra micro-sette, dimostrare a se stessi di esistere perché capaci di uccidere. E la domanda sul come, e il perché tanta parte di quella gioventù sospesa tra due tempi in rapido distanziamento vi si sia arruolata, da un certo punto in poi prigioniera di un presente in cui contava solo l'atto, l'azione sempre più violenta, fino all'omicidio, bruciando in pochi anni tutte le tappe di un «carnivoro cupio dissolvi».

L'autrice cita, più volte, il motto di La Rochefocauld ripreso da Elias Canetti: «Due cose non si possono guardare in faccia: il sole e la morte». Marco Donat-Cattin (e alcuni come lui) la morte, la morte degli altri da loro provocata, riuscirono a guardarla solo «dopo», dalle sbarre di una cella. La sua dissociazione fu autentica, così giudicò il tribunale. E «dignitosa», aggiunge l'autrice. Nonostante la lunga serie di reati, anche gravissimi, la sentenza sarà mite. La vigilia di Natale del 1987 uscì in libertà provvisoria. Ma ne godrà per poco. Meno di sei mesi dopo, il 19 giugno del 1988, morirà, sull'autostrada Serenissima, mentre tentava di aiutare una donna vittima di un tamponamento. «La morte ha riportato Marco a casa», commenterà qualcuno al funerale. E forse è una verità più profonda di quanto sembri.

Lettera di Antonello Piroso a Dagospia il 22 marzo 2022.

Caro Roberto, nell'articolo di Marco Revelli per La Stampa da voi ripreso -a parte l'inesattezza di collocare l'assassinio del giudice Mario Amato a Napoli (no: fu ucciso alla fermata dell'autobus vicino casa, a Roma)- c'è una ricostruzione sulla vicenda Cossiga-Donat Cattin che non tiene conto di quanto raccontato dallo stesso Cossiga nel suo libro "Italiani sono sempre gli altri".

Riassumo per punti:

1) Roberto Sandalo, "pentito" di Prima Linea, raccontò di aver incontrato Carlo Donat-Cattin, padre del terrorista Marco, per informarlo del destino del figlio (espatriato in Francia dopo diversi attentati, tra cui quello che era costato la vita al giudice Emilio Alessandrini); 

2) il Pci di Enrico Berlinguer dedusse -è sempre Cossiga che parla- che se il figlio era scappato, era perchè era stato avvisato dal padre, a sua volta informato dal presidente del Consiglio, cioè dallo stesso Cossiga, in nome della colleganza democristiana (Donat-Cattin era all'epoca vicesegretario del partito e ministro del lavoro);

3) fu promossa una raccolta di firme per la messa in stato d'accusa di Cossiga, ma il Parlamento rigettò la richiesta del Pci; 

4) ma chi aveva davvero messo in circolo la notizia? Cossiga da chi avrebbe saputo che Donat-Cattin junior era uno dei capi di Prima Linea? Dal ministro dell'interno Virginio Rognoni, altro Dc, che lo era andato a trovare con il segretario del partito, Flaminio Piccoli; 

5) Rognoni invita Cossiga a dirglielo lui, a Donat-Cattin, della situazione del figlio, perchè "noi non andiamo d'accordo". Ma, aggiunge Cossiga, a me parve una scusa per non trovarsi coinvolto nella rivelazione di segreti di Stato; 

6) Cossiga avverte Rognoni: guarda che sei già in fallo, e pure grave, perchè un conto è se tu, ministro, avvisavi solo me, presidente del consiglio; ma per il fatto di averne parlato anche con Piccoli, che è comunque un privato cittadino, hai già commesso un reato; 

7) incontrando Cossiga a un successivo vertice per le nomine agli enti previdenziali, sarà Donat-Cattin a chiedere a Cossiga cosa sappia del figlio, e Cossiga gli dice cosa ha appreso delle rivelazioni di Sandalo e di quelle convergenti di Patrizio Peci, catturato dal generale Dalla Chiesa;

8) quando sta per salire in aereo per andare ai funerali del Maresciallo Tito con il cugino Berlinguer, Cossiga viene avvisato dal capo della polizia Coronas che nei confronti di Donat-Cattin jr, fino a quel momento ancora solo "sospettato", erano stati spiccati mandati di cattura; 

9) e qui, commenta Cossiga, "commetto l'ingenuità più grande: metto al corrente Enrico della tragedia in corso, sottovalutando che è pur sempre segretario del Pci", che fa reagire il partito come detto;

10) il bello è che Tonino Tatò, portavoce di Berlinguer, aveva informato Luigi Zanda (sì, proprio lui, ai tempi portavoce di Cossiga) che secondo la segreteria del partito si trattava di una manovra di bassa lega politica. In effetti, il ministro dell'interno-ombra del Pci, Ugo Pecchioli, aveva difeso Cossiga, anche perchè aleggiava il sospetto che Sandalo fosse stato arrestato -non dai carabinieri di Dalla Chiesa- e rimesso in libertà come "agente provocatore", e Giancarlo Pajetta si era distinto con una riflessione che, conclude Cossiga, non ho mai dimenticato: "Io non so cosa Cossiga abbia veramente detto a Donat-Cattin, ma so che ha detto nè più nè meno di quanto avrebbe detto a ciascuno di noi qui dentro se avessimo un figlio nelle stesse condizioni".

Di tutto questo Cossiga, che intrattenne con me un cordialissimo rapporto, mi parlò in occasione della sua collaborazione televisiva con La7, quando -secondo una vulgata interessata- io sarei stato su una sua personale blacklist per aver individuato una sua fantomatica amante quando lavoravo a Panorama (circostanze entrambe false, ma questa è un'altra storia).

Il lavoro di Monica Galfrè. Il figlio terrorista, la storia di Marco Donat-Cattin che scosse la Repubblica. David Romoli su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito.

Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che – secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo – si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima.

I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio.

Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile.

Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre.

La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro.

Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre.

Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbe stato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia.

L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni.

Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto. David Romoli

Storia di Carlo Donat Cattin, il sindacalista che portò i diritti in fabbrica. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Maggio 2020 

La storia di Carlo Donat Cattin, uno dei più importanti leader sindacalisti e capo di una delle fazioni più forti della Democrazia cristiana, è una delle più drammatiche e rapidamente dimenticate della Prima Repubblica. Eppure fu lui a portare a compimento nel 1970 insieme al giuslavorista socialista Gino Giugni (che sarà per questo “gambizzato” dai terroristi nel 1983) quello Statuto dei lavoratori che aveva varato il socialista Giacomo Brodolini nel 1969 poco prima di morire. Donat Cattin era uno dei pochi maschi alfa della Dc, uno di quel sangue ligure piemontese fatto di durezza, silenzio e intransigenza di una stirpe montanara e di scoglio forte e taciturna, con idee duramente trattabili, ma inflessibili. Era uno che non andava giù alla destra Dc e alla destra politica in genere (che oggi, sia detto per inciso non esiste più sul panorama politico, occupato da altre destre) perché il suo sindacato – da lui creato con una scissione dalla originaria Cgil – era spesso più intransigente del sindacato guidato dai comunisti.

La destra conservatrice di allora, un genere di destra di cui oggi non c’è più traccia, lo definiva «un comunista da sagrestia», sbagliando totalmente perché Donat Cattin, come Brodolini, apparteneva a quella sinistra spesso più a sinistra delle Botteghe Oscure, ma che nel frattempo governava, e aveva accesso a quella che il vecchio leader socialista Pietro Nenni aveva chiamato «la stanza dei bottoni». Carlo Donat Cattin oltre che farsi un suo sindacato, si era di fatto anche una sua personale Democrazia cristiana all’interno del grande corpaccione elettorale cattolico con la corrente “Forze Nuove” che nei momenti di maggior splendore raggiungeva il venti per cento. Donat Cattin era dunque un politico politicante, in questo più affine al socialista Pietro Nenni – il quale dall’esilio francese aveva portato lo slogan la politique d’abord, la politica prima di tutto – che non ai comunisti infinitamente più togliattiani, ovvero sottili e duttili ma anche gelosi del loro primato nella classe operaia e del sindacato malvolentieri condiviso con i socialisti al governo insieme ai democristiani.

Erano state tutte queste contraddizioni logiche e politiche a mettere sotto stress una politica che si era arenata con l’uccisione di Aldo Moro sulla soglia del compromesso storico e che era fortemente animata dalle frange estremiste che praticavano la politica delle armi piuttosto che le armi della politica, ad imitazione di quanto avveniva nella Repubblica federale tedesca con la Rote Armee Fraktion.  Fu quindi un fatto imprevisto, ma al tempo stesso di piena coerenza storica, l’emersione del ruolo di un figlio di Carlo Donat Cattin, Marco, come terrorista, anzi un leader del terrorismo rosso, uno dei più sanguinari “comandanti” di Prima Linea, una organizzazione combattente comunista affine e concorrente delle Brigate Rosse. Per il padre non fu soltanto uno shock, ma la fine della sua carriera politica, almeno come dirigente.

L’emersione del nome del figlio – che poi si pentì e morì tragicamente in un terribile incidente stradale mentre tentava di salvare alcuni automobilisti dallo stesso incidente in cui era coinvolto – prese subito la forma di uno scandalo che coinvolse Francesco Cossiga nella sua qualità di ministro degli Interni (ma che in quel momento era capo del governo) e Donat Cattin, ministro dell’industria in un governo Andreotti, che dovette dimettersi, sostituito il 25 novembre 1978, da una new entry: Romano Prodi.  Non si è mai capito da quanto tempo e a chi esattamente fosse noto il fatto che Marco Donat Cattin fosse un terrorista. La sua identificazione avvenne per opera di uno dei tanti pentiti allora gestiti dai corpi speciali e quando la storia venne allo scoperto, lo scalpore raddoppiò quando emersero imbarazzanti dettagli sul retroscena della vicenda che diventarono terreno di uno scontro violentissimo perché Cossiga era ora presidente del Consiglio e messo formalmente in stato d’accusa.

Alla fine di un dibattito accesissimo, fu assolto con 597 no contro 416 sì dal sospetto di aver avvertito Donat Cattin padre della situazione di suo figlio, suggerendogli di farlo sparire alla svelta. Fu una faccenda brutta e penosa perché Donat Cattin, quasi spezzato nella sua struttura di vecchia quercia dovette ammettere di avere chiesto a Cossiga se avesse notizie di suo figlio Marco. E Cossiga ammise di aver risposto di non avere alcuna notizia del latitante. Carlo Donat Cattin restò fuori dalla politica finché fu recuperato da Bettino Craxi che lo volle ministro della Sanità in piena crisi per il diffondersi dell’Aids. Era un ruolo per lui secondario, ma non c’era ormai altro. Anche per il presidente del Consiglio Cossiga, benché salvato dal voto, fu l’inizio di un profondo turbamento umano perché – mi raccontò più volte – mai si sarebbe atteso un personale e rovente accanimento in Parlamento da parte di Enrico Berlinguer che era, tecnicamente, suo cugino. Il commento gelido di Berlinguer a questa manifestazione di sorpresa, fu: «Con i cugini si mangia soltanto l’agnello a Pasqua».

Cossiga sparì dalla politica e fu recuperato da Ciriaco De Mita, su consiglio di Eugenio Scalfari che a quei tempi riceveva a pranzo Cossiga una volta a settimana, quando Amintore Fanfani si giocò lo scranno di presidente del Senato per guidare un governicchio balneare che, alla fine, mise fuori anche lui. Allora Cossiga fu riammesso nel circolo del grande perdono cattolico comunista ed eletto presidente del Senato e di lì, quasi con un plebiscito, spedito al Quirinale perché considerato un uomo ormai privo di qualsiasi tossina pericolosa. Errore drammatico perché, come sappiamo, dopo i primi quattro anni di settennato, l’ex presidente del Consiglio umiliato alla Camera per il caso Donat Cattin cominciò a togliersi i sassolini dalle scarpe.

A Donat Cattin, che era stato un fautore dell’incontro storico con i comunisti, era del tutto passata la voglia di quella stagione. Anche lui, in maniera analoga a quel che fece Cossiga, invertì la rotta facendosi portatore del cosiddetto «preambolo» che consisteva nello smontaggio di quanto ancora rimaneva della collaborazione fra Dc e Pci: la nuova linea era quella di sbattere fuori i comunisti da ogni maggioranza, anche se Giulio Andreotti fece tutto il possibile e anche l’impossibile per riagganciare il Pci grazie al quale sperava un giorno di arrivare al Quirinale.

Nel 1986 come ministro della Sanità di Craxi (che lo apprezzava proprio per la sua incompatibilità con i comunisti e la disponibilità con i socialisti) si trovò il Pci di traverso ogni volta che se ne presentava l’occasione. Così fu attaccato violentemente sulla questione – oggi dimenticata– dell’atrazina: un diserbante inquinante, che superava la quantità massima concessa dall’Europa di 0,1 microgrammi per litro. I sindacati aderenti alla Cgil dichiararono guerra insieme ai verdi di Marco Boato finché il Pci non propose una mozione di sfiducia personale insieme alla Sinistra indipendente e Verdi, che non passò ma che contribuì ad azzopparlo ulteriormente, mentre la stella del suo protettore Craxi perdeva di forza.

Sull’Aids, Donat Cattin fece una gaffe che gli valse molte palate di fango, non del tutto immeritate. Disse infatti che «l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare», alludendo pesantemente alla forte incidenza di omosessuali maschi fra gli infettati dal virus Hiv E in questa battutaccia c’era un po’ di tutto: una vena di cattolicesimo conservatore, una rusticana ostilità per le élite intellettuali e omosessuali molto diffusa nel Piemonte e nella Liguria operaie e che costituivano paradossalmente lo stesso bacino sardo-ligure-piemontese di cui era nutrito il Pci di Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer e fino a Natta.

Nulla di più che una significativa coincidenza geografica con l’antico Regno di Sardegna, che però nella vecchia e buona Repubblica che chiamiamo “prima” come se ce ne fossero state altre, aveva un certo valore codificato dall’asprezza di i duelli mortali, combattuti senza mettere di mezzo amici o parenti, perché con quelli, al massimo, ci si mangia l’agnello a Pasqua. Donat Cattin fu il secondo padre dello Statuto dei lavoratori, dopo Giacomo Brodolini, ma probabilmente pochi lo ricordano per questo e dunque lo facciamo noi nel tentativo di rimettere insieme alcuni pezzi e capire come andarono le cose.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Gerardo Bianco. "Moro, Fanfani, Mattarella. La mia lunga vita nella Dc". Federico Bini il 7 Febbraio 2022 su Il Giornale.

A 91 anni quasi compiuti, Gerardo Bianco, uno degli ultimi storici esponenti di spicco della Democrazia cristiana e del popolarismo italiano racconta la sua straordinaria vita.

L'ascesa politica con Sullo e De Mita, la passione per il parlamento, gli incarichi di capogruppo, ministro e segretario del Ppi dopo la fine dell'amata Dc. Il tentativo di includere il Psi nell'area di governo, le nottate in parlamento, l'elezione mancata di Forlani al Quirinale, il ricordo di Moro, Fanfani, Cossiga e Andreotti e l'elelogio del presidente della Repubblica Mattatella.

Presidente Bianco è vero che Lei è un intellettuale prestato alla politica?

"Io metto in dubbio che sia un intellettuale. Intellettuale per me è un discorso molto profondo. Bisogna veramente essere persone di grande cultura. Ho coltivato gli studi, sono uno che ha moderatamente letto parecchi libri anche quelli del mondo latino ma non mi ritengo un grande intellettuale. Ho fatto politica, questo sì, per tutta la vita, con grande passione, soprattutto la vita parlamentare. Per me il parlamento era il cuore della politica italiana e lì ho vissuto le mie ore migliori e le giornate più avvincenti".

Lei una volta ha detto: “Il parlamento è la mia passione”.

“Esatto. Io mi sono sentito sempre un rappresentante parlamentare anche se ho avuto ruoli più di carattere partitico o di governo, io mi sono sempre sentito un rappresentante della nazione”.

Lei entra in parlamento nel 1968 e vi rimane per oltre quarant’anni. Guardando retrospettivamente come sono cambiate da dentro le istituzioni italiane. Pensiamo ad esempio al ruolo della presidenza della Repubblica.

“La situazione nel corso degli anni si è parecchio modificata. In sostanza quello che ha inciso moltissimo nella evoluzione delle nostre istituzioni a mio avviso è stata una data, una data infausta, che avrebbe stabilizzato il sistema politico italiano, ed è il 1953. Quando la legge cosiddetta 'truffa' non viene praticamente approvata e cominciano le instabilità dei governi. In questo contesto il ruolo del presidente della Repubblica vedrà crescere i suoi poteri, continuando a svolgere il ruolo che comunque la Costituzione gli conferisce di bilanciamento dei poteri, di stabilizzazione che è stato esercitato in maniera sempre più incisiva”.

Prima di entrare in parlamento da ragazzo avellinese era dato vicino come anche De Mita al ministro Fiorentino Sullo.

“Sullo aveva un carattere difficile, complicato e molte volte mutevole. A Sullo dobbiamo riconoscere di aver fatto crescere una classe dirigente. Sullo è stato un grande politico, aveva una visione straordinaria nella concezione dello sviluppo del paese. Rimane celebre la sua proposta di legge urbanistica, bocciata clamorosamente dalla stampa che era ostile e in qualche maniera anche dall’interno del partito democristiano perché chi governava il partito, all’epoca Aldo Moro, si era reso conto che avremmo perduto centinaia di migliaia di voti”.

Su De Mita invece una volta disse: “De Mita voleva la mia pelle e io mi sono rotto le palle”.

“Sono situazioni che fanno parte della dialettica politica. C’è stata prima una grande intesa, un grande incontro. De Mita era mio compagno di studi alla Cattolica a Milano, aveva già una posizione chiaramente di leadership anche dal punto di vista politico. Il suo carattere e il suo interesse erano maggiormente orientati verso la politica rispetto a me e ad altri colleghi. Abbiamo lavorato poi insieme con Sullo nella creazione della corrente di Base che era aperta all’inclusione nel sistema democratico del Partito socialista”.

Quanto ha pesato sulla Dc la morte di Aldo Moro?

“È fuori discussione che Moro fosse una figura centrale nella conduzione strategica delle alleanze politiche e quindi dell’assestamento del sistema politico-istituzionale italiano. Io però non accetto la teoria secondo cui con la morte di Moro ci fu la rottura del dialogo con il Partito comunista. Io penso che la responsabilità sia da addossare al Partito comunista e alla leadership del momento su questioni di carattere internazionali. La rottura avvenne nel 1978, quasi subito dopo il voto a favore del governo Andreotti, sul problema del serpente monetario europeo. Praticamente il Partito comunista si opponeva affinché l’Italia sottoscrivesse l’accordo. E poi l’altro fatto successivo fu il problema degli euromissili”.

Con Craxi che si smarcò nettamente dai comunisti.

“Qui ci fu il grande cambiamento della politica italiana. Craxi ricordo che non voleva che si mettesse la fiducia e disse a me che ero capogruppo della Dc che se si poneva la fiducia lui non poteva votarla. Se invece la fiducia non si metteva lui avrebbe approvato la missione che poneva il dispiegamento degli euromissili per controbilanciare quelli installati dall’Unione Sovietica”.

Lei è stato capogruppo Dc alla Camera dei Deputati dal 1979 al 1983.

“È stata una bellissima esperienza caratterizzata da una intensa attività parlamentare con il Partito radicale che ci costringeva a fare le notti. E qui c’era da trascorrere delle vere e proprie nottate per far approvare i vari provvedimenti. La sera tardi ci ritrovavamo nella ‘residenza’, una stanza del segretario generale della Camera. Un grande segretario, Vincenzo Longi il quale cercò sempre di mantenere l’assoluta terzietà della Camera”.

A quale politico è stato più vicino nella sua lunga carriera?

“Un rapporto importante l’ho avuto con De Mita, con Sullo e poi negli ultimi tempi un rapporto molto inteso e di grande stima l’ho avuto con Donat-Cattin”.

Come erano i grandi leader Dc visti da vicino?

“Moro l’ho conosciuto benissimo, Fanfani che appariva così antipatico era di una simpatia assoluta. Poi aveva la mania di cucinare. Quando era presidente del Senato e ci invitava varie volte con mia moglie, stava dietro a fare il risotto. La Pira era insieme vicino e distante. Andreotti invece era cinico nella gestione politica. Forlani un grande gentiluomo, uno degli uomini migliori della Dc. Ricordo quando rinunciò alla candidatura al Quirinale. Io insistevo perché rimanesse perché secondo me c’era la possibilità di recuperare i voti dei repubblicani e in più avremmo recuperato molti dei democristiani andreottiani convinti che Andreotti non ce la faceva ma Forlani disse seccamente di “no”. Cossiga, persona coltissima, preparatissima e un grande amore per la classicità, fu sempre molto apprezzato”.

Qual è stato il momento più gratificante della sua lunga storia politica?

“L'elezione di presidente del gruppo sia nel ’78 ma poi soprattutto nel ’92. Il biennio ’92/’94 viene ricordato solo per Mani pulite, invece fu un periodo di grande importanza perché preparò l’Italia a entrare nella moneta unica europea”.

Ma come avveniva allora la scelta dei candidati alla presidenza?

“Le elezioni del presidente della Repubblica passavano per il voto interno dei gruppi parlamentari democristiani. Io ero stato eletto da poco, e in genere chi era stato eletto in prima battuta non prendeva posizione, io invece parlai in aula e parlai a favore di Moro. Il voto dei gruppi parlamentari veniva fatto nell’aula del nostro gruppo, e alla fine c’era il controllo fatto dai presidenti dei gruppi, più dai rappresentanti delle correnti interne e alla fine le schede venivano bruciate”.

A quante elezioni di presidenti della Repubblica ha assistito?

“Se non ricordo male cinque, da Leone fino al Napolitano I. Ho fatto parte come presidente del gruppo dell’elezione di Scalfaro e Ciampi. Durante l’elezione di Scalfaro (’92) la Dc contava ancora 906 parlamentari, e poi ero presidente del partito (Popolare) durante la scelta di Ciampi. Qui c’è una cosa che a mio avviso va precisata. Oggi tutti dicono che la scelta di Scalfaro ci fu a seguito dell’eccidio di Capaci. Per quello che io ricordo, ci fu certamente una accelerazione, ma la scelta di Scalfaro era già avvenuta. Era stata fissata la data per la votazione dopo il ritiro di Forlani”.

E la candidatura di Andreotti?

“Non è mai esistita dal punto di vista reale. Il voto interno era stato tutto a favore di Forlani. Era stata ventilata la possibilità di una sua candidatura ma non avvenne niente di concreto. Anche perché c’era la contrarietà del Partito socialista”.

Craxi lavorava al suo schema…

“Sì. Il presidente della Repubblica alla Democrazia cristiana, il governo al Partito socialista e la presidenza della Camera a Napolitano. E ritornando a Scalfaro, lui era anche ben accetto da parte di Craxi perché ne era stato ministro dell’Interno e molto vicino a Forlani tanto che quest’ultimo lo sostenne apertamente”.

Nel ‘90/’91 è stato ministro della Pubblica Istruzione con Andreotti.

“Contro la mia volontà. Io non volevo andare a giurare, ma mia moglie fu pregata da Forlani”.

Suo predecessore (democristiano) al ministro della Pubblica Istruzione dall’89 al ’90 fu Sergio Mattarella oggi presidente della Repubblica.

“Con Mattarella ho avuto rapporti eccellenti da tutti i punti di vista. Il rapporto è stato poi eccellente perché io ero presidente del gruppo e lui relatore della legge che porta il suo nome, il Mattarellum. Nel ’94 io sono diventato segretario del Partito popolare e lui nel ’96 è eletto capogruppo dei popolari alla Camera. Il presidente Mattarella lo ricordo come austero, severo, cordiale e amico”.

Quale giudizio conferisce alla presidenza Mattarella?

“Eccellente. È uno dei più grandi presidenti della storia repubblicana. Io scherzando ho detto che con Mattarella si è dissipata la maledizione dei papi sui presidenti democristiani al Quirinale. Mattarella con la rielezione ha disperso questa cosa. Oggi possiamo affermare senza ombra di dubbio che Mattarella è entrato tra i grandi padri della storia e della Dc”.

Tra i grandi padri della Dc, chi sono stati i migliori politici?

“Svettano De Gasperi e Moro. Però io vorrei fare una precisazione, la storia della democrazia cristiana non si scrive sulla storia dei grandi leader, ma la si scrive sulla storia dei cosiddetti uomini della seconda o terza linea che erano leader locali che avevano anche una dimensione nazionale. Sono uomini come Fiorentino Sullo, Giacomo Sedati… nomi che hanno rappresentato la vera classe dirigente democristiana".

Lei crede nella ricostruzione di una grande area di centro?

“Vedo un’aggregazione di cose diverse. Se poi c’è del buon condimento nel dare sapore al minestrone va bene. Ma insomma, per ora non è quella la strada che può essere seguita”.

Moriremo tutti democristiani?

“Sarebbe bello. Il problema però è che questa è una cosa passata. Credo però che finiremo per usare il termine democristiano come discredito, ma la maggior parte dei giornalisti e scrittori non sa cosa veramente è stata la democrazia cristiana. E mi permetto di dire che nel discorso del presidente Mattarella, quando lui usa il termine ‘dignità’, ripetendolo una decina di volte, là dentro c’è tutta la cultura del personalismo cristiano, c’è dentro Maritain, e quella è una grande eredità, l’importante non è morire democristiani ma preservare la cultura dei cattolici democratici”.

Federico Bini. (Bagni di Lucca 1992) maturità classica e laurea in legge. Lavoro nell’azienda di famiglia, Bini srl materie prime dal 1960, come membro del commerciale e delle pubbliche relazioni. Liberale e un po’ conservatore. Lettera 22 sulla scrivania, Straborghese, cultore dell’Italia di provincia. Svolgo da quando avevo quindici anni un’intesa attività pubblicistica e di studio in ambito politico, giornalistico e storico. Collaboro con diverse riviste d’informazione e approfondimento culturale. Tra le mie pubblicazioni si ricorda: Montanelli e il suo Giornale (Albatros editore), Roberto Gervaso. L’ultimo dandy (L’Universale) assieme a Giancarlo Mazzuca, Un passo dietro Craxi (Edizioni We) e Una democrazia difficile. Partiti, leader e governi dell’Italia repubblicana (Albatros editore). Sono stato condirettore del settimanale Il Caffè. 

I candidati al Quirinale. Ritratto di Pier Ferdinando Casini, il bello che a pranzo mangia una mela verde. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 30 Dicembre 2021. Conobbi Pier Ferdinando Casini nel ‘99 quando diventai vicedirettore del “Giornale”: mi chiamò per conoscermi e per pranzare in un ristorante del Centro. Non ricordo che cosa mangiai io, ma non dimenticherò mai il pasto di Casini: una sola e unica mela verde, che pelò, tagliuzzò, contemplò, assaggiò a minuscole dosi e che poi si decise a mangiare come antipasto, primo, secondo, dessert, caffè e ammazzacaffè. Nient’altro.

Dieta, fisico asciuttissimo, conversazione esplorativa e riconoscimento reciproco che col passare del tempo diventò anche una buona amicizia, specialmente quando ci trovammo arrampicati sulle curve del Gruppo Misto alla Camera. Infatti, erano passati gli anni, io ero entrato in Senato dove presiedetti la “famigerata commissione Mitrokhin” che scoprì un po’ più di quello che c’era da scoprire e che fu per questo coperta da una massa di letame mediatico accuratamente preparato secondo gli usi e costumi della casa Italia. E non soltanto Italia. Casini a quell’epoca era uno dei tre alleati del primo governo Berlusconi: con Gianfranco Fini e Umberto Bossi permetteva al governo di reggere. Le cronache riferivano costantemente di cene tempestose e rappacificazioni mai definitive perché tutti i contraenti facevano politica e dunque avevano bisogno come dell’ossigeno di poter emergere e differenziarsi da Berlusconi senza metterlo in crisi.

Casini fu presidente della Camera e questa carica e funzione lo abilitano, secondo le regole tradizionali del Cursus Honorum, ad essere un papabile Presidente della Repubblica. Di fatto lo azzopparono. Ci fu una volta in cui Berlusconi fu persino costretto ad andare a presentare le dimissioni dal Capo dello Stato per vedersele respingere e farsi reincaricare cinque minuti dopo. Erano tutti riti tribali della nuova formula bipolare in cui la parte che vince governa ma al suo interno si spappola e l’inventore della formula nonché direttore dell’orchestra si trova continuamente legato e impacciato. D’altra parte Berlusconi aveva compiuto quel gioco di prestigio, quel miracolo storicamente irripetibile di vincere le prime elezioni a cui partecipava, mettendo insieme pezzi che non combaciavano tra di loro: La Lega Nord antifascista di Bossi al Nord, alleanza nazionale fascista al Sud con Gianfranco Fini. E poi Pierfi. Lo chiamavano così e io trovavo detestabile questo nomignolo né credo piacesse a lui ma non c’era niente da fare: Pierfi di qua, Pierfì di là e Pierfì svolgeva un ruolo importante nell’area democristiana dove allora si contendevano la leadership il professor Rocco Buttiglione, un amico papista wojtyliano ma anche amante della logica formale, Cesa e altri minori.

La Democrazia Cristiana l’avevo vista rinascere flebilmente per subito rimorire ed ero stato testimone degli ultimissimi atti quando con Mino Martinazzoli facemmo dei convegni in qualche vecchio cinema di Roma mentre andava forte il Patto Segni, con Mario Segni che però non ebbe mai da Martinazzoli la luce verde per fare ciò che tutti gli italiani si aspettavano facesse: dare la svolta, fare una piccola rivoluzione che fosse almeno un rimodernamento e aprisse a una destra liberale sulla quale già aveva messo il cappello Berlusconi perché vedeva che la situazione della Repubblica era in crisi e che i partiti della prima Repubblica avrebbero fatto una brutta fine. L’autore della profezia come è noto era stato il presidente della Repubblica Francesco Cossiga, che usava riversarmi confidenze di cui la più solida fu la previsione di quello che sarebbe successo al nostro paese con la fine della guerra fredda: l’Italia non avrebbe contato più un accidente, non sarebbe più stata la cerniera tra est e ovest, tutte le piccole grandi porcherie fatte da democristiani repubblicani socialisti socialdemocratici, ma anche comunisti missini e radicali e chi più ne ha più ne metta, sarebbero passate al pettine del supervincitore americano il quale avrebbe alzato le sue forche e messo sul rogo le sue streghe pur senza farlo vedere.

Poi cominciarono a cadere le teste di mani pulite, la celebre operazione americana “Clean Hands” e poi la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto, il colpo di reni berlusconiano, la vittoria, il governo, l’avviso di garanzia recapitato dal Corriere della Sera a Berlusconi al suo primo meeting mondiale, con crollo dell’embrione della seconda Repubblica, passaggio di campo di Lamberto Dini per un governo tecnico, palla al centro, elezioni, governo Prodi, poi D’Alema in cabina di bombardiere sulla Serbia, poi finalmente Berlusconi rivince e dice adesso si gioca tutta un’altra partita, qui comando io o perlomeno vorrei che voi seguiste le mie linee. Non ci fu verso, e quello fu il fallimento politico del berlusconismo nato da una grande idea visionaria, il paese che amo, il rilancio di tutto il mondo liberale, l’emigrazione dei cervelli comunisti verso Forza Italia guardata anche da intellettuali schizzinosi come un porto d’approdo e poi un grande rilancio festoso al quale partecipò anche lui: Pier Ferdinando Casini, che a casa mia, mia moglie, da quando aveva saputo la storia della mela al ristorante, chiamava semplicemente il bello. Hai visto il bello, che cosa fa oggi il bello, stasera in televisione il bello non c’era, e così via.

Poi capitò che ci rivedessimo tutti a New York al Four Seasons per un saluto frettoloso e la comune vita parlamentare ci avvicinò man mano. Conobbi così un uomo molto esperto, un non divo ma non un uomo di abbuffate, al contrario un uomo di diete e di centimetri molto misurato ma anche capace di invettive. Ricordo il giorno in cui io mi precipitai dall’America e tutti i senatori e i deputati tornarono dalle loro vacanze per la improvvisa riunione delle commissioni esteri e difesa nella grande sala del mappamondo quando la Russia invase la Georgia. Era la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale che un paese europeo entrava col proprio esercito oltre i confini di un altro paese europeo per sottometterlo. Ricordo Casini pronunciare un discorso di rara energia e rettitudine morale, senza enfasi chiassosa ma con le idee chiare nella distinzione tra il bene e il male, il lecito e l’illecito. In quell’occasione anch’io fui molto turbato da questo evento dal momento che venivo dal tremendo impegno per la commissione sulle penetrazioni sovietiche in Italia e avevo avuto almeno quattro dei miei informatori uccisi tra cui il povero Alexander Sasha Litvinenko, ucciso col polonio radioattivo e che diventò per poche ore la tragica star di tutte le news del mondo.

Casini è un uomo delle istituzioni, vicino quanto basta alla chiesa ma non ho mai saputo esattamente quanto e a chi, è un uomo che sa giocare a scacchi nella vita, conosce le aperture e le chiusure di tutte le partite senza per questo avere del pelo sullo stomaco ma una buona punta di cinismo si, la sua cordialità è contagiante e contagiosa e ogni suo gesto è complessivamente elegante mai fuori misura, mai volgare anche se Pierfi è certamente un uomo di mondo e anzi di buon mondo. Tralascio qui volutamente tutti i pettegolezzi, le storie che riguardano la sua vita personale che all’epoca impegnarono molto giornaletti e giornaloni come sempre accade, ma devo dire che il vecchio Pierfi mi è sempre apparso come un uomo non esente da innocenza, ma non per questo un’ipocrita. Per tutta la mia esperienza l’ho visto stare ragionevolmente dalla parte di ciò che è ragionevole anche quando ciò che è ragionevole non è per forza il giusto. Come il celebre personaggio di Totò (“E poi dice che uno si butta a sinistra”), venne il momento in cui “si buttò a sinistra” e fu quando nel 2016 l’Unione per il Centro di cui faceva parte, mollò Renzi che “si buttava troppo a sinistra”. Oggi Bossi dice a mezza voce che secondo lui per questo Casini è papabile e anzi manda un messaggio a Draghi di cui non si è capito bene il senso.

Nella cabina delle grandi manovre e sala scommesse, girano vari organigrammi, fra cui quello secondo cui Draghi deve restare dov’è e Amato deve traslocare in collina, oppure in collina si trasferisce Pier Ferdinando e allora Draghi dovrebbe stare a Chigi, altrimenti i tedeschi fanno volare lo spread e ricomincia la caccia grossa sulla politica italiana. Vai a sapere quanto c’è di vero, però intanto lo spread è salito. Lui, Pierfi, è sempre aderente alla persona e al personaggio: fu recuperato per un pelo all’elezione alla camera dove stava per non farcela due legislature fa, ma poi ce l’ha fatta e ha trovato il suo ecosistema, lo ha trasformato in giardinetto, ha aperto del report lasciando transitare aria e persone che la respirano rendendosi disponibile appunto “en reserve”, come le bottiglie di pregio che una volta o l’altra saranno l’occasione per celebrare una grande occasione. Sono tempi in cui tutto può essere.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

 Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 6 febbraio 2022.  

«Il fronte politico-istituzionale è un conto, quello strettamente partitico un altro. Io sono stato impegnato in politica per talmente tanti anni che una cosa l'ho capita bene. Non ha senso rifare le cose che si sono fatte in passato. Il centrodestra ha i suoi protagonisti, l'area centrale anche. Se mi mettessi a rifare le cose che ho fatto per trent' anni, sarei un protagonista consunto...».

Al dodicesimo chilometro della sua corsa a Villa Borghese, Pier Ferdinando Casini si ferma a prendere fiato. La settimana di elezioni del Quirinale l'ha consolidato nel rango di «eterno ragazzo» della politica, un po' come il Festival di Sanremo sta facendo per il suo concittadino Gianni Morandi. La gente lo ferma per strada, i suoi social network sono pieni di messaggi di incitamento, la giacchetta è idealmente sbrindellata da chi la tira da una parte e dell'altra, Silvio Berlusconi lo incontra, i centristi lo invocano, il centrosinistra lo cerca, si spendono sulla sua figura un ventaglio di adesivi, «padre nobile», «leader», qualcuno addirittura «leader spirituale», «figura di collegamento». 

È lei il grande suggeritore del Centro?

«Vede, ho imparato a mie spese che quello del suggeritore è un destino gramo. Se suggerisci quello che una persona si aspetta di sentirsi dire, il consiglio viene seguito. Altrimenti no. Lo sa come ho fatto le volte che una mia figlia mi ha portato un ragazzo a casa?».

Come?

«Vedevo questi ragazzi due o tre volte e continuavo a tacere, zitto. E allora lei a chiedermi: "Papà, vuoi dirmi che ne pensi?". E io niente. Anzi, dicevo: "Se vuoi sapere il mio parere, me lo devi chiedere cinque volte". Ma sono ed ero consapevole che il modo migliore per suggerire a una figlia di non frequentare un ragazzo che eventualmente non ti piace è di non farglielo sapere».

Spostando la lezione sul piano del centro, se Renzi

«Altolà. Ma lei ha presente Renzi? È un leader a cui voglio bene, con qualità politiche indiscutibili, che tra l'altro ha confermato in questa storia del Quirinale. Ma lei ce lo vede qualcuno nei panni del suggeritore di Renzi? È ovvio che poi fa quello che gli pare. E lo capisco anche: anch' io, quando ero leader dell'Udc, ascoltavo tutti ma poi facevo di testa mia». 

Si sente «padre nobile» del Parlamento?

«Se le dicessi di sì, sarei altezzoso; se le rispondessi di no, mi prenderebbero per ipocrita. Nel corso di una lunga carriera, in cui ho fatto cose positive e anche errori, ho capito che alla fine quello che ti resta è la reputazione. Anzi, che la reputazione viene prima degli incarichi. Mi ha scritto mio figlio in un messaggio che conservo: "Papà, ci hai insegnato a rispettare sempre tutti, anche i più umili. Oggi hai vinto senza vincere"».

Anche Berlusconi l'ha chiamata. Com' è stato ritrovarsi dopo tanto tempo?

«Con Berlusconi ho fatto un bel pezzo di strada e ho anche litigato. Ma il nostro rapporto umano non si è mai interrotto. Abbiamo fatto una lunga passeggiata, mi ha detto "sei ancora giovanissimo", anche se ovviamente non è vero. Vede, per Berlusconi una volta contava vincere e farlo a ogni costo. Adesso, col passare del tempo, ha capito che il suo compito storico è quello di unire, di ridurre le divisioni. Il ritiro della sua candidatura per il Colle credo sia derivato soprattutto da questa consapevolezza».

Berlusconi era pronto a sostenerla per il Quirinale, Salvini e Meloni no.

«Meloni l'ha detto con chiarezza e da subito. Salvini non da subito ma poi è arrivato alla stessa conclusione: ha preferito Mattarella, a dimostrazione che nella vita non tutti i guai vengono per nuocere». 

Lei ha attraversato tre repubbliche.

«Per me la repubblica è una sola. E comunque almeno un altro lo ha fatto senz' altro meglio di me, molto meglio. Si chiama Sergio Mattarella ed entrò con me in Parlamento nel 1983. La sua rielezione è una benedizione per il Paese. La democrazia è malata quando la politica pensa che i tecnici siano inutili ma anche quando i tecnici scalzano completamente i politici. Facendo un parallelo con l'emergenza della pandemia: Mattarella è a capo dell'ospedale e Draghi è il primario. Ma nel mezzo di una piena pandemia non mandi il primario a fare il presidente dell'ospedale. Non funziona».

Ha anche la stima dei Cinque Stelle, adesso?

«I Cinque Stelle sono maturati. Entrando nelle istituzioni, hanno capito che non erano come loro immaginavano che fossero. Una delle loro figure più importanti, di cui non faccio il nome, mi ha scritto in una lettera: "Sei la prova della distanza tra quello che pensavamo della politica e quello che la politica è davvero"». 

Il Pd è il partito che l'ha riportata in Parlamento.

«Alcuni mi hanno sostenuto con grande calore, altri meno. Sento che qualcuno rimprovera a Franceschini di avermi sostenuto per il Quirinale con troppo affetto. Vede, da ragazzi io e Franceschini ci incontravamo nella nebbia del casello autostradale di Ferrara. Dario mi sosteneva nonostante il ras locale della Dc, Nino Cristofori, fosse contrario. Questo vale a riprova di quello che le ho detto finora. La politica è importante. Ma prima della politica, viene sempre la vita».

·        Le Presidenziali.

Il Quirinale e la politica estera. Terrorismo, deforestazione, epidemie: un solo luogo, molte sfide. Andrea Muratore, Federico Giuliani, Mauro Indelicato su inside Over il 24 gennaio 2022.  

Quando si parla della politica estera italiana, vengono in primo luogo in mente due palazzi romani nevralgici in tal senso: Palazzo Chigi e la Farnesina. Nel primo ha sede la presidenza del consiglio, nel secondo invece il ministero degli Esteri. É lungo questo asse che si prendono le scelte più importanti. Del resto la costituzione assegna unicamente in capo al governo le competenze sulle linee politiche da intraprendere. La presidenza del consiglio, secondo l’articolo 95 del testo costituzionale, mantiene “l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l’attività dei ministri”. Il ministro degli Esteri è poi titolare di tutte le attività concernenti i rapporti internazionali e la cooperazione. In tutto questo, il Quirinale che ruolo ha? Il Colle ha solo in apparenza una funzione di mera “rappresentanza”, come indicato dall’articolo 87. Anzi, proprio la sua funzione rappresentativa spesso ha reso l’istituto della presidenza della Repubblica attivo nella fase decisionale. In politica estera non sono mancati nella storia recente presidenti “interventisti”.

Il caso della partecipazione dell’Italia ai raid in Libia

Quando si parla di interventismo del Quirinale, il primo pensiero spesso va a quanto accaduto la sera del 17 marzo 2011. Quel giorno l’Italia festeggiava i 150 anni di unità nazionale e al teatro dell’Opera di Roma andava in scena il Nabucco diretto da Riccardo Muti. Erano quindi presenti tutte le più alte cariche dello Stato, a partire ovviamente dal presidente che in quel momento era Giorgio Napolitano. Anche su quel clima di festa però incombeva la drammaticità degli eventi in corso in Libia. Qui da circa un mese erano nate manifestazioni contro il rais Muammar Gheddafi e Francia e Gran Bretagna premevano per l’intervento. Anche se non si trattava di un’operazione a guida Usa, da Washington il presidente Obama aveva già dato il benestare per le azioni militari. L’Italia con la Libia era legata da un trattato di amicizia stipulato appena due anni prima. Tra il presidente del consiglio in carica, Silvio Berlusconi, e Muammar Gheddafi c’era anche un buon rapporto personale. Dalla presidenza del consiglio arrivava quindi un input per un non intervento. In quella sera del 17 marzo in una sala del teatro dell’Opera Napolitano si è riunito con Berlusconi, Ignazio La Russa, allora ministro della Difesa, e Bruno Archi, consigliere diplomatico di Palazzo Chigi. A premere per far partecipare l’Italia agli imminenti raid in Libia è stato proprio Napolitano. E alla fine la linea passata è stata quella del Quirinale.

A ricostruire gli eventi di quella serata è stato nel maggio 2011 il settimanale Panorama. Giorgio Napolitano ha dato quel preciso input in qualità di comandante in capo delle Forze Armate e presidente del supremo consiglio della Difesa. Funzioni attribuite dalla costituzione al presidente della Repubblica, senza però dare a quest’ultimo ruoli esecutivi. Questi spettano sempre alla presidenza del consiglio. In un’intervista rilasciata dallo stesso Napolitano a Repubblica l’ex presidente ha ricordato proprio questo aspetto, dichiarando come la decisione finale di bombardare Tripoli è stata presa unicamente da Berlusconi. Sotto il profilo politico però, la linea avanzata dal Colle si è rivelata decisiva. Tanto che, come ricostruito sempre da Panorama, Barack Obama nel chiedere una partecipazione italiana ai raid ha chiamato il Quirinale e non Palazzo Chigi. Soltanto dopo quando dalla Casa Bianca si è alzata la cornetta in direzione della sede della presidenza del consiglio, allora dall’esecutivo è arrivato il definitivo via libera. Ad oggi è forse questo l’esempio più calzante su come il Quirinale può incidere sulla linea estera dell’Italia.

Le linee di indirizzo di Mattarella al momento della nascita del Conte I

In anni ancora più recenti, un altro intervento di chiaro indirizzo politico in politica estera è arrivato anche da Sergio Mattarella. Nel 2018, a seguito di un risultato elettorale da cui non è uscita una chiara maggioranza, M5S e Lega hanno avviato le trattative per formare un esecutivo. A fine maggio i giochi sembravano fatti. In particolare, l’inedita coalizione ha indicato Giuseppe Conte quale nuovo presidente del consiglio e quest’ultimo ha ricevuto da Mattarella l’incarico. La nuova maggioranza all’estero ha suscitato sia clamore che perplessità. In Europa soprattutto i timori erano indirizzati sulle linee antieuropeiste professate in precedenza dai due partiti. Come stabilito dall’articolo 92, i ministri, su proposta del presidente del consiglio, sono nominati dal Presidente della Repubblica. Mattarella non ha accettato la nomina come ministro dell’economia di Paolo Savona, professore che negli anni precedenti si era mostrato scettico sull’esperienza dell’Euro. La scelta di Mattarella, che ha provocato la fine del primo tentativo di Conte di formare un governo (mentre andrà a buon fine, pochi giorni dopo, il secondo tentativo sempre con Lega e M5S), ha dato un chiaro orientamento sulla linea dell’Italia in politica estera. E, in particolare, sulla necessità di rimanere nell’orbita europea senza manifestare scetticismi in tal senso: “L’incertezza sulla nostra posizione nell’Euro – ha spiegato Mattarella alle telecamere motivando la sua scelta – ha posto in allarme gli investitori e i risparmiatori, italiani e stranieri, che hanno investito nei nostri titoli di Stato e nelle nostre aziende. L’impennata dello spread, giorno dopo giorno, aumenta il nostro debito pubblico e riduce le possibilità di spesa dello Stato per nuovi interventi sociali”. L’europeismo di Mattarella non ha però frenato il Quirinale dal tuonare contro Christine Lagarde e la Bce quando, nei primi tempi dell’emergenza Covid, l’Eurotower rischiava di consegnare il debito italiano agli assalti speculativi.

Un altro punto della politica estera di Mattarella ha poi riguardato l’atlantismo. Il capo dello Stato uscente ha dimostrato, dapprima velatamente (ad esempio muovendosi per spingere il Conte I a riconoscere Juan Guaidò come legittimo presidente del Venezuela) e poi con scelte organiche (dallo scrutinio dei ministri nei governi successivi al Conte-bis alla chiamata di Mario Draghi) di considerare l’atlantismo altrettanto importante dell’europeismo come cardine irrinunciabile dello schieramento del Paese nel mondo. La linea euroatlantica è stata custodita con forza dal Quirinale e ha avuto in Mattarella un continuatore di Giorgio Napolitano e Carlo Azeglio Ciampi.

Perché all’estero guardano al Quirinale

La funzione rappresentativa dunque non ha mai coinciso con una “ingessatura” del presidente della Repubblica in semplici ruoli istituzionali. In politica estera il Colle ha più volte detto la sua, incidendo e non poco sulle decisioni di Palazzo Chigi e Farnesina. Ecco perché anche all’estero si sta guardando con attenzione in queste ore alle vicende relative all’elezione del nuovo capo di Stato. Sapere chi andrà al Quirinale è più che mai importante per le cancellerie internazionali. Anche perché l’istituto della presidenza della Repubblica ha un vantaggio rispetto al governo: è di gran lunga l’istituzione più stabile. Mentre nelle sedi della presidenza del consiglio o del ministero degli Esteri i titolari cambiano nel giro di pochi anni a causa di una durata media dei governi italiani molto bassa, al Colle ci si resta comunque vada almeno sette anni. Agganciare il Quirinale vuol dire poter pianificare rapporti nel medio e lungo termine con Roma.

Il caso dei rapporti con la Cina

Ne sanno qualcosa a Pechino. I rapporti italo-cinesi hanno avuto il Quirinale come prima sponda. Agli sgoccioli dell’esperienza maoista, e pochi anni prima delle riforme di Deng Xiaoping, il 6 novembre 1970 hanno formalmente inizio le relazioni bilaterali tra l’Italia e la Repubblica Popolare Cinese. Per capire come è sbocciato il seme diplomatico sino-italiano bisogna tuttavia fare qualche passo indietro.

Ottobre 1955: Pietro Nenni, all’epoca Segretario Generale del Partito Socialista italiano, è stato ricevuto da Mao Zedong nella capitale cinese. Nenni ha così posizionato la prima pietra visibile di un rapporto presto destinato a decollare. Anche perché, nel 1971, il due volte ministro italiano degli Affari Esteri ha visitato la Cina per la seconda volta, ricevendo dall’allora primo ministro Zhou Enlai niente meno che “l’eterna gratitudine del popolo cinese” per l’impegno messo in campo ai fini del riconoscimento italiano della Repubblica Popolare.

Che cosa era accaduto in mezzo ai due viaggi? La Cina non faceva parte dell’Onu complice l’opposizione degli Stati Uniti; l’Italia riconosceva, di fatto, soltanto la Repubblica di Cina, ovvero Taiwan. Già allora, tuttavia, Pechino considerava quell’isola, autoproclamatasi indipendente, una provincia ribelle sotto la propria bandiera. Allo stesso tempo, Taiwan rivendicava la propria sovranità sul territorio della Repubblica Popolare, spingendo quest’ultima a considerarlo Paese ostile. In uno scenario del genere era impossibile avere, allo stesso tempo, relazioni formali con la Cina e con Taiwan. Nel 1969, una volta diventato ministro del governo Rumor, Nenni ha presentato la proposta per riconoscere la Repubblica Popolare Cinese. Per l’Italia, era arrivato il momento di aprire definitivamente le porte al gigante asiatico. Fu così che i due Paesi nominarono i rispettivi ambasciatori e che Taiwan cessò i rapporti bilaterali con l’Italia. Il 25 ottobre 1971, con Giuseppe Saragat presidente della Repubblica Italiana, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha riconosciuto i rappresentanti della Cina come “l’unico rappresentante legittimo della Cina alle Nazioni Unite”.

Nenni è stato il principale demiurgo delle relazioni italo-cinesi e ha trovato in Saragat un fautore della distensione. Le memorie dell’epoca ricordano che la Repubblica Popolare ha inviato a Roma tale Xu Ming, funzionario del ministero degli Esteri già vicedirettore del reparto Europa orientale; anche la Farnesina sperava di spedire oltre la Muraglia un profilo diplomatico, ma ciò non accadde per scongiurare una possibile reazione avversa di Washington, gli americani, infatti, avrebbero potuto pensare che l’ufficio commerciale italiano fosse una sorta di ambasciata. Il terreno era tuttavia preparato. Di lì a poco, Italia e Cina sarebbero diventate ancora più vicine, fino ad arrivare al marzo 2019, con la firma tra i due Paesi del MoU (Memorandum of Understanding) sulla Nuova Via della Seta e l’incontro tra il presidente italiano Sergio Mattarella e quello cinese Xi Jinping.

Il Quirinale essenziale per la politica estera

In politica estera il Quirinale, dunque, prevale sulle altre strutture dello Stato perché, nel mandato settennale, custodisce la lunga durata in un paese dove la politica resta fragile nella capacità di domare il tempo. E in quest’ottica si rivela garante dell’unità nazionale anche nel senso delle questioni geopolitiche e strategiche: il Presidente della Repubblica ha il potere non codificato di definire la cornice, il terreno di gioco entro cui lo Stato può muoversi e la diplomazia agire. La sua moral suasion vale anche all’estero, come moltiplicatore di potenza per il sistema-Paese nell’ottica di quelle relazioni internazionali che non vanno confuse con la semplice politica estera ma rappresentano la capacità di incidere di una figura o personalità in virtù dello standing individuale o dell’istituzione ricoperta. Logico dunque pensare che un Quirinale sempre più “geopolitico” troverà il suo inquilino ideale, negli anni a venire, in figure dal pedigree ben strutturato nel campo delle relazioni in questione.

Qual è il crocevia del mondo di domani?

Quanto guadagna il presidente della Repubblica: stipendi e costi del Quirinale. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.  

In questi giorni verrà eletto il 13esimo presidente della Repubblica italiana. Il mandato del Capo dello Stato uscente, Sergio Mattarella, scade il prossimo 3 febbraio ed entro quella data i Grandi Elettori (1009), riuniti in questi giorni a Montecitorio, dovranno eleggere il nuovo presidente. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.

Ma qual è lo stipendio previsto per il Capo dello Stato e quali sono i costi di gestione del Quirinale? Il Presidente della Repubblica italiana guadagna 239mila euro lordi l’anno. Uno stipendio da circa 18.300 euro (sempre lordi) al mese, calcolato su tredici mensilità. Dopo l’elezione avvenuta al quarto scrutinio il 31 gennaio 2015, Sergio Mattarella ha disposto per se stesso e per tutte le persone che svolgono funzioni all’interno della presidenza “l’introduzione del divieto di cumulo delle retribuzioni con trattamenti pensionistici erogati da pubbliche amministrazioni”.

Per le spese di gestione del Quirinale ogni anno vengono spesi complessivamente 224 milioni di euro, circa 613,698 euro al giorno, così come emerge dal Bilancio di Previsione 2020 consultabile sul sito Quirinale.it. Oltre la metà della cifra stanziata ogni anno è destinata al pagamento degli stipendi e delle pensioni del personale che lavora o ha lavorato al Colle.

Poi c’è ci sono circa 570mila euro stanziati per il parco auto e altri 200mila per il carburante, oltre alle spese di luce, acqua, gas e bollette telefoniche. Per la cancelleria ogni anno vengono spesi 215mila euro mentre altri 170mila per la posta. Altra voce di spesa sono i costi per intrattenere e accogliere gli altri Capi dello Stato e questo costa 400mila euro di pranzi e banchetti e 145mila per i regali.

Garage Quirinale, tutte le auto del Presidente. Marco Tullio Giordana su La Repubblica il 29 Gennaio 2022.

La Lancia Flaminia 335 cosiddetta “Presidenziale” costruita in 4 esemplari fra il 1960 e il 1961 è la più bella e ricca di fascino. Ecco storia e aneddoti. La tormentata elezione del Presidente della Repubblica, dopo che gli spericolati dilettanti allo sbaraglio avevano rischiosamente tentato di sabotarla, ha strappato Sergio Mattarella (adorato dal popolo italiano, meno dalla nomenklatura) alla vita privata cui anelava richiamandolo in servizio. L’increscioso spettacolo offerto da quasi tutti i leader (con lodevoli eccezioni) deve aver convinto il Presidente al bis, sperando tutti noi comuni mortali che non sia concesso malvolentieri come può succedere a grandi attori o musicisti esausti. Il Presidente Mattarella si rivelerà invece inesausto e buon per noi che torni al Quirinale la sua saggezza e ferma moderazione.

Fra le tante cose, il Presidente dovrà scegliere l’auto con cui sfilare fra cittadini cittadini festanti e politicanti delusi, e per sua e nostra fortuna il garage del Quirinale offre una fra le più magnificenti delle auto di rappresentanza mai costruite, ancora in perfetta forma malgrado i sessant’anni e più sul groppone: la Lancia Flaminia 335 cosiddetta “Presidenziale” costruita in 4 esemplari fra il 1960 e il 1961. Si tratta di modelli con piccole differenze tra loro, derivati dalla Flaminia di serie prodotta dalla Lancia fra il 1956 e il 1970, modello già di per sé opulento e “istituzionale” ma che nel caso della 335 fu ulteriormente ingigantito e munito di dotazioni uniche da Giovanni Battista “Pinin Farina, che proprio in quegli anni incorpora per decreto presidenziale il soprannome infantile diventando Pininfarina tutto attaccata. D’altronde fu proprio il Presidente Gronchi a commissionare le 4 gemelle pensando alle imponenti Lincoln americane, alle Rolls-Royce britanniche, alle Mercedes-Benz tedesche, alle Citroën francesi, e bisogna dire che la nostra Flaminia 335 non sfigura affatto accanto alle rivali, rappresentando anzi l’epitome della smagliante salute industriale dell’Italia del boom. La prima a esservi trasportata nel 1961 è Elisabetta II d’Inghilterra e la sovrana mostra di apprezzarla al punto da far nascere la leggenda di una quinta Flaminia regalata alla Corona. Le Flaminia non sono che quattro e tutte ancora in efficienza.  Portano nomi di purosangue, come usava in casa Savoia: due sono in forza al Quirinale, la Belvedere (targa Roma 454307) e la Belfiore (Roma 454308). La Belsito (Roma 474229) è in esposizione al Museo dell’Automobile di Torino e la Belmonte (Roma 454306) al Museo della Motorizzazione militare della Cecchignola in Roma. 

Dopo Giovanni Gronchi (1955-1962) la Flaminia venne regolarmente usata da Antonio Segni (1962-1964), Giuseppe Saragat (1964-1971) e Giovanni Leone (1971-1978), rimanendo invece spenta nel settennato di Sandro Pertini (1978-1985) e Francesco Cossiga (1985-1992) a favore delle meno esposte (e invece molto blindate) Alfetta, Lancia Thema, Fiat Croma e soprattutto Maserati Quattroporte. Due esemplari della terza serie furono donati a Pertini - che l’adorava! -da Alejandro De Tomaso, allora alla testa del gruppo che deteneva la marca modenese. Nel 2004 la Maserati, stavolta capitanata da Luca di Montezemolo presidente del Gruppo Fiat, fece invece dono di una smagliante quinta serie al Presidente Ciampi.

Ridimensionato l’incubo del terrorismo e di possibili attentati, la Flaminia tornò in auge per merito di Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) e da quel momento in poi anche i successivi presidenti - Carlo Azeglio Ciampi (1999-2006), Giorgio Napolitano (2006-2015) e Sergio Mattarella (2015-2022) - hanno sempre voluto utilizzarla sia per la cerimonia d’insediamento che per la parata del 2 giugno.

Piccolo ricordo personale. Nell’estate del 2011 stavo girando sulla piazza del Quirinale una breve sequenza del film Romanzo di una strage. Il Ministro degli Esteri Aldo Moro si recava in forma privata al Quirinale a bordo della sua Flavia berlina per gli auguri natalizi al Presidente Saragat. L’azione si svolge nel dicembre del 1969. Moro era interpretato da Fabrizio Gifuni e la somiglianza, dopo ore di trucco, era davvero impressionante. L’azione si svolgeva all’esterno ma Fabrizio fu riconosciuto dal personale del Quirinale, dove suo padre, Gaetano Gifuni, era stato Segretario Generale sia con Scalfaro che con Ciampi. Ci dissero che il Presidente era in sede e che ci avrebbe ricevuto. Non perdemmo l’occasione e ci recammo a salutare il Presidente che, alla vista di Gifuni nei panni di Moro, rimase piuttosto impressionato.

C’era in quei giorni la crisi del governo Berlusconi e il Presidente si trovava nel pieno delle consultazioni. Con sfacciataggine di cui fui il primo a sorprendermi, indicai Gifuni e proposi di affidare l’incarico a… Moro. Per un istante ebbi la sensazione che il Presidente, prima di sorridere, si lasciasse sopraffare dalla nostalgia.

Il Quirinale cessò nel 1970 di essere residenza del Papa per entrare invece nella piena disponibilità di Casa Savoia. Le sue scuderie trasformate in moderni garage non poterono ospitare le fastose Mercedes Nurburg 460 che fu l’auto di Pio XI insieme alla Citroën Lictoria Six e alla Graham Page utilizzata anche da Pio XI. I Savoia li riempirono invece con le FIAT 2800 e le Lancia Astura che rappresentavano allora il non plus ultra della produzione italiana, visibili in tanti cinegiornali LUCE circondate da folle in visibilio per le apparizioni del Duce e di Sua Maestà il Re e Imperatore. Queste possenti limousine, insieme ad auto meno imponenti, come le Lancia Aurelia, le Fiat 1400 e 1900, le Alfa Romeo 1900, accompagnarono i primi nostri primi Presidenti Enrico De Nicola (1947-1948) e Luigi Einaudi (1948-1955) fino ad arrivare a Gronchi e alla Flaminia 335 che ancora oggi svolge senza acciacchi il suo prestigioso servizio.

Quirinale, il mondo bestiale del nostro Parlamento: grillini struzzi, pitonesse e asini. Vi raccontiamo la giungla. Melania Rizzoli su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2022.

 "L'uomo è un animale politico" scriveva Aristotele in tempi lontani e non sospetti, ma nella storia contemporanea l'interazione simbolica o metaforica tra mondo animale e mondo politico non ha mai raggiunto livelli così esagerati come negli ultimi anni, in cui il Parlamento italiano viene evocato sempre più spesso perla presenza in Aula di un contesto faunistico da far invidia al più variegato patrimonio bestiale di un qualunque parco zoologico al mondo.

LA LISTA È LUNGA - L'ultimo animaletto ad essere avvistato alla Camera dei Deputati è stato lo scoiattolo, il simpatico roditore che da solo, saltellando di scranno in scranno, è stato in grado di creare forti tensioni all'interno dei partiti, ignaro però che stormi di uccelli già da giorni volteggiavano su di lui per cercare di portare cattiva sorte alla sua segreta operazione, come i gufi, i falchi e i piccioni che gli hanno tramato contro, senza dimenticare le colombe che insidiavano con finto candore il premier in carica, oltre a gazze ladre, oche o minacciosi avvoltoi pronti a scacciare corvi, tacchini sui tetti, anatre azzoppate, struzzi che nascondevano la testa sottoterra, in un vorticoso, sinistro e surreale sbattere di ali, minaccioso come nel peggiore incubo di Hitchcock. Questo affollamento bestiale si rianima e rumoreggia ogni qual volta lo scontro politico diventa più acceso, in particolare con l'avvicinarsi delle scadenze elettorali, come quella iniziata ieri del Presidente della Repubblica, la più importante e solenne della legislatura, ma l'elenco degli animali che hanno trovato dimora nei palazzi romani della politica è infinito, dal mercato delle vacche al posto d'onore riservato ai suini, come il famoso Porcellum usato per definire appunto le presunte 'porcate' votate e legittimate, anche se, quando lo scontro politico diventa più acceso, oltre ai maiali vengono fatte entrare nell'emiciclo le belve feroci da non sottovalutare affatto, perché incutono timore e vengono liberate per sbarrare la strada al cammino delle riforme, come i giaguari da smacchiare, i caimani da distruggere, i camaleonti da rendere trasparenti, gli sciacalli affamati e gli oranghi infuriati che distruggono tutto il raccolto appena seminato. In genere in tali contesti degni di una giungla inesplorata intervengono i capi dell'esecutivo che, pur sprovvisti di bacchetta magica, cominciano ad estrarre dal cilindro bianchi conigli o ad introdurre canguri salta emendamenti, dando la caccia a volpi da spedire in pellicceria, con l'aiuto di grilli parlanti di collodiana memoria, oltre che di vecchie lumache lente e sbavanti che tracciano il solco di una legge sulla loro scia appiccicosa, brillante e spesso salutare. In controtendenza con la loro fama, tutti questi protagonisti del regno animale terrestre si sono ritrovati a lungo sulle prime pagine dei quotidiani italiani senza nemmeno saper leggere, buttati a casaccio, nel marasma politico che emerge nei momenti di crisi, da parlamentari paragonati a cavalli di razza, a pitonesse, ad aquile strabiche o leoni da tastiera, al punto che per non vedersi affibbiate sempre le solite sembianze animalesche, da qualche tempo si è andato a pescare finanche nel profondo degli oceani, rievocandola gloriosa stagione ittica dei tempi passati, quando fu eliminata la balena bianca dalle acque del parlamento, l’esemplare più longevo ed ingombrante, arpionata dai tanti piccoli capitani Achab, gli stessi che in seguito hanno istituzionalizzato una pesca a rete più popolare ed economica, meno faticosa e alla portata di tutti, issando a bordo del transatlantico una fauna ittica meno nobile di Moby Dick, come le trote, le spigole, le triglie, i tonni, i piranha e da ultimo le famose e numerosissime sardine, il cui branco di piccoli esemplari ha regalato in realtà poche soddisfazioni, ovvero poca polpa e tante spine.

FANTASIA ITALIANA - Gli italiani saranno anche un popolo di inventori, di sognatori e di navigatori, ma non mancano certo di fantasia, al confronto per esempio degli Stati Uniti il cui paragone bestiale è limitato all’asino democratico e all’elefante repubblicano, ma in realtà quando mancano gli strumenti espressivi per dichiarare i propri dubbi e la cultura per imporre le proprie convinzioni politiche, il ricorrere al paragone bestiale come fosse una caricatura degli uomini, o una metafora che tenta di piegare la storia ai propri scopi bestiali, è in realtà una contraddizione in termini che paragona il mondo animale a quello umano, per intelligenza e furbizia, come fosse la stessa cosa, dimenticando chela storia, anche se ha qualcosa che sfugge alla comprensione umana, con il passare del tempo ribadisce che a forza di essere falsata per motivi ideologici o a vedersi giustificata al pari degli istinti animali, ridotti a grottesca caricatura degli umani, perde ogni consistenza ed ogni rilevanza, e per un periodo cessa di esistere. Salvo poi ribellarsi alla forza della propaganda faunistica, alla falsa etica e alla labilità della memoria, riuscendo comunque alla fine a costruire ed imporre un’autentica e duratura democrazia, quella che resterà negli annali senza ruggire, barrire, ragliare o squittire, e quella che tutti ci auguriamo in queste settimane, come se lo augurano anche tutti gli amici bestiali tirati inconsapevolmente dentro il ballo sgraziato della politica italiana.

Il circolino degli ex presidenti. Claudio Brachino il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

A un passo dal Colle, ma spesso immolati per il Colle, vicini all'Olimpo laico ma forse troppo vicini e dunque in un attimo sospinti verso il basso, nel precipizio dei franchi tiratori e delle mille fluide trattative.

A un passo dal Colle, ma spesso immolati per il Colle, vicini all'Olimpo laico ma forse troppo vicini e dunque in un attimo sospinti verso il basso, nel precipizio dei franchi tiratori e delle mille fluide trattative. Stiamo parlando della seconda e terza carica dello Stato, i presidenti del Senato e della Camera. Per la statistica sono stati premiati di più nel Quirinal game quelli della Camera. Dal 1948 ad oggi cinque di loro sono diventati presidenti, Gronchi, Leone, Pertini, Scalfaro e Napolitano. Per quanto riguarda il Senato solo due, De Nicola e Cossiga. Però i loro nomi entrano sempre nella battaglia più complessa e più ambita della nostra democrazia. Per ragioni istituzionali e per ragioni politiche. Nel primo caso è una questione di pura forma, di anello nella struttura della Repubblica. Il 3 febbraio, quando scade il mandato di Mattarella, ad esempio, se non sarà stato trovato un successore, potrebbe diventare capo dello Stato temporaneamente Elisabetta Casellati, attuale presidente del Senato, voluta nel 2018 da Forza Italia ed eletta anche dai grillini. Poi ci sono i motivi politici, figure proposte dalle parti ma spesso votate trasversalmente, per accordi, per balance maggioranza-opposizione, per questioni di potere all'interno dei partiti e delle coalizioni. La Casellati, tolto l'aspetto tecnico, proposta di fatto dal centrodestra al di là dei tre petali di rosa subito sfioriti (c'era anche l'ex presidente del Senato Pera), è già stata impallinata dal centrosinistra perché troppo di parte. Almeno finora, nella fluidità delle ore. Nel caso di Casini, ancora in corsa, fa più notizia l'aver calato la gioventù democristiana nella piattaforma della contemporaneità, Instagram, ma l'essere stato presidente della Camera è ancora un punto a favore. La bocciatura più dolorosa fu quella di Marini, presidente del Senato dal 2006 al 2008 e proposto nel 2013 da Bersani, Berlusconi d'accordo. Al primo scrutinio l'ex sindacalista venne affossato dai franchi tiratori, bipartisan. Nella percezione pubblica i nostri eroi sono un po' come capiclasse di aule spesso indisciplinate, garanti dell'equilibrio apparente ma capaci sottobanco di fare politica, di muovere la barra del potere su agende, procedure, regole del gioco. Qualche volta vogliono far dimenticare le proprie origini e seguono linee ideologiche personal. Riserve della Repubblica, certo, in senso nobile, ma qualche volta riserve nel senso calcistico, quando la politica difetta di idee e di campioni. Oppure li ha e non li usa. Claudio Brachino

Ingresso nell'emiciclo solo con tampone antigenico negativo di terza generazione. Come si elegge il presidente della Repubblica: massimo 200 ‘grandi elettori’ per lo spoglio e ‘catafalchi 2.0’. Riccardo Annibali su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.

Per la votazione del presidente della Repubblica nell’aula di Montecitorio saranno allestiti quattro catafalchi, gli stessi utilizzati solitamente per le votazioni segrete per schede, ma dotati di accorgimenti particolari anti Covid tra cui una luce ultravioletta. È stato deciso, a quanto apprende l’Ansa, nella conferenza dei capigruppo di Montecitorio i cui lavori sono in corso.

I ‘Catafalchi 2.0‘, attrezzati per l’emergenza Covid, potrebbero assomigliare di più a cabine che assicureranno la sicurezza sanitaria, a cominciare dalla ventilazione, e la segretezza. Non è chiaro ancora se ci saranno dispositivi speciali di disinfezione all’interno. In ogni caso, sarà necessario disinfettarsi le mani prima e dopo il voto. Per votare i deputati entreranno cinquanta per gruppo da uno dei due ingressi all’Emiciclo, usando l’altro per uscirne.

“Far votare i grandi elettori positivi per non inficiare o indebolire l’elezione del presidente della Repubblica”. È quanto ha chiesto Fratelli d’Italia, secondo quanto apprende LaPresse, nel corso della riunione della conferenza dei capigruppo dove si sono discusse le regole delle votazioni che partiranno il 24 gennaio alle 15. Contrari i capigruppo di centrosinistra, filtra dalla riunione, che hanno fatto muro. Secondo le stesse fonti il rischio è che, secondo l’aumento dei contagi da Covid, si arrivi a oltre 100 assenti per quarantena.

Per lo spoglio la capienza massima è di 200 persone da aggiungere le circa 100 postazioni nelle tribune. È questo l’orientamento del collegio dei questori di Camera e Senato che si sono riuniti in vista delle elezioni del Quirinale. L’accesso all’aula di Montecitorio avverrà dal lato sinistro e per fasce orarie per un massimo di cinquanta grandi elettori alla volta che dovrebbero avere complessivamente 11 minuti per esprimersi, poi usciranno ed entreranno gli altri cinquanta. Complessivamente, tra le fasi di voto e spoglio sono state previste 4 ore e mezza.

Per quanto concerne il giuramento del prossimo presidente della Repubblica ci sarà la possibilità per tutti i parlamentari di stare dentro all’Aula della Camera, mentre i delegati regionali troveranno spazio in tribuna. Questo perché – viene spiegato – è prevista una durata ridotta della cerimonia di giuramento, tra i quaranta ed i cinquanta minuti, e non sono in programma altri interventi se non quello del capo dello Stato. Si potrà entrare nell’emiciclo solo con un tampone antigenico negativo di terza generazione, fatto la mattina stessa del giuramento, a Montecitorio o a palazzo Madama. Riccardo Annibali

Niccolò Carratelli per "la Stampa" il 25 gennaio 2022.

Alle 15 in punto un'ambulanza imbocca via della Missione, sotto Montecitorio. Nessuno si è sentito male, proprio all'inizio delle votazioni per eleggere il presidente della Repubblica. Dentro l'ambulanza c'è l'ex presidente della Sardegna, ora deputato di Forza Italia, Ugo Cappellacci. 

 Da sabato sera positivo al Covid, ma asintomatico, solo un po' di raffreddore. È pronto a inaugurare il seggio anti Covid allestito nel parcheggio di solito riservato ai deputati. Non appena all'interno il presidente delle Camera, Roberto Fico, apre ufficialmente la seduta, Cappellacci scende dal mezzo sanitario (noleggiato per l'occasione) ed entra a piedi nel parcheggio. Con lo smartphone gira un video, per documentare una scena inimmaginabile fino a due anni fa. È lui il primo grande elettore della storia repubblicana a esprimere la propria preferenza per il capo dello Stato fuori dalle aule parlamentari.

Ad accoglierlo c'è un funzionario della Camera vestito come un infermiere di un reparto Covid di un qualsiasi ospedale italiano: tuta di contenimento, guanti, occhiali, coperto dalla testa ai piedi. 

Primo gazebo, identificazione, sanificazione delle mani e consegna di guanti protettivi, insieme a una matita e alla scheda da compilare.

Secondo gazebo, due cabine a disposizione, dove votare in segretezza.

Terzo gazebo, urna sigillata dove inserire la scheda. 

Dopo circa cinque minuti Cappellacci esce e risale sulla "sua" ambulanza, proprio mentre un mini suv grigio arriva alla sbarra di via della Missione. Il parlamentare alla guida svolta a destra ed entra direttamente nel parcheggio: non scende, abbassa solo il finestrino, mostra il documento di riconoscimento e ritira la scheda. 

Poi prosegue fino a un'area di sosta, l'abitacolo è il suo "catafalco" personale. Riparte verso l'uscita e si ferma a metà, per inserire la scheda nell'urna. Il seggio drive-in è realtà. Nelle successive due ore, almeno altre otto macchine compiono lo stesso giro, simile a quello che milioni di italiani hanno fatto, negli ultimi due anni, per sottoporsi a un tampone. Ma non tutti i 17 grandi elettori (positivi o in quarantena) che si sono prenotati, partecipano alla prima votazione. Alla fine in 6 non si presentano.

È il caso della deputata del Misto, ex 5 stelle, Doriana Sarli, che spiega con un post su Facebook di non essere «nelle condizioni di uscire ed esprimere la mia preferenza». Mentre un'altra ex del Movimento, la senatrice Bianca Laura Granato, racconta di non essere «riuscita a raggiungere il seggio per motivi logistici: doversi spostare con l'auto in zone a traffico limitato è un problema», forse non sapendo che basta comunicare alla Camera la targa della propria macchina per ottenere il permesso. Prova a "imbucarsi", invece, la deputata Sara Cunial, nota per le sue posizioni No Vax e No Pass, bloccata dalla polizia all'inizio di via della Missione.

Vuole votare nel seggio per i positivi al Covid, senza un certificato medico che giustifichi la sua richiesta. D'altra parte, da non vaccinata, le sarebbe bastato un tampone negativo nelle 48 precedenti per entrare e votare in aula. «Il Green Pass, che è un documento amministrativo, non può subordinare il diritto al voto - ha attaccato - Siamo pronti a querelare quelli che ci hanno bloccato l'accesso, a cominciare da Fico, e a invalidare tutta l'elezione del presidente della Repubblica» .

Ecco chi sono i 58 delegati-grandi elettori delle Regioni. Il Corriere del Giorno il 24 Gennaio 2022. 

Tutti i rappresentanti-delegati delle Regioni presenti a Roma per eleggere il prossimo presidente della Repubblica. Tra i rappresentanti scelti, la maggioranza è del centrodestra, poche le donne: solo sei.

I 58 delegati regionali che da oggi lunedì 24 gennaio hanno indossato l’abito “buono” per vestire i panni dei Grandi elettori, per eleggere il prossimo presidente della Repubblica, votato dal Parlamento in seduta comune con la partecipazione appunto dei delegati eletti dai Consigli regionali. In totale, i Grandi elettori sono 1.009: 321 senatori, 630 deputati (tra questi c’è anche la new entry Cecilia D’Elia del Pd scelta alle suppletive di Roma centro che ha preso il seggio della Camera lasciato libero dal sindaco Roberto Gualtieri) e 58 delegati regionali (tre per ogni Regione, generalmente due di maggioranza e uno di opposizione, a eccezione della Valle d’Aosta che ne avrà uno, garantendo anche la rappresentanza delle minoranze).

Tattiche, sgambetti negli stessi schieramenti soprattutto nel centrodestra alleanze in bilico. In Lombardia la Lega ha nominato due delegati mentre il Pd è stato estromesso a favore del M5S. Cosa che invece non è successa nel Lazio: qui il Pd ha retto nonostante le insistenze dei grillini che volevano uno dei loro al posto del secondo dem scelto (oltre a Zingaretti). 

Questa la mappa completa dei 58 Grandi elettori designati dalle Regioni. Il centrosinistra arriva a 25 delegati rispetti ai 33 del centrosinistra. Quasi irrilevante la presenza femminile: solo su 58.

Valle d’Aosta  

La Valle d’Aosta, cui secondo l’articolo 83 della Costituzione spetta un solo delegato, sarà rappresentata dal presidente della Giunta Erik Lavevaz (Union Valdotaine).

Trentino Alto Adige 

Maurizio Fugatti (Lega), Josef Noggler (Svp) e Sara Ferrari (Pd) sono i tre delegati della Regione Trentino Alto Adige che partecipano all’elezione del presidente della Repubblica. Li ha eletti il consiglio regionale lunedì 17 gennaio. Fugatti, presidente della Provincia di Trento e della giunta regionale, ha ottenuto 33 voti su 61 espressi. Noggler, presidente del consiglio regionale del Trentino Alto Adige e vicepresidente del consiglio provinciale di Bolzano, ha ottenuto 29 preferenze. Mentre la dem Sara Ferrari, consigliera provinciale di Trento e consigliera regionale, ne ha prese 22.

Liguria 

La squadra ligure dei Grandi elettori è composta dal governatore Giovanni Toti, centrista, il presidente del consiglio, il leghista Gianmarco Medusei, e il consigliere del Pd Sergio Rossetti.

Piemonte 

Il Piemonte ha scelto i suoi delegati: tutti uomini e due del centrodestra. Si tratta del governatore Alberto Cirio di Forza Italia, del presidente leghista del Consiglio regionale Stefano Allasia e dell’ex capogruppo Pd nella passata legislatura Domenico Ravetti. I tre sono stati votati martedì scorso a scrutinio segreto dal Consiglio regionale, riunito da remoto, dopo l’annullamento della prima votazione nella quale era stata registrata una discrasia fra il numero dei votanti e il numero di voti pervenuti dalle Pec dei consiglieri per lo scrutinio. Cirio ha ottenuto 30 voti, Allasia 28 e Ravetti 16.

Lombardia 

La scelta dei delegati lombardi non è stata così semplice. Il Pd è stato fatto fuori e scelto un esponente del M5S, una mossa che testimonia quanto l’alleanza tra Pd e 5S sia sempre in bilico. In quota opposizione, infatti, è stato scelto il grillino Dario Violi votato soprattutto dal centrodestra. Sconfitto il dem Fabio Pizzul. Il Partito democratico lombardo con una nota ha parlato di “accordo sottobanco” per aggiungere quel voto ai sostenitori di Silvio Berlusconi. Ma il diretto interessato, Violi, ha negato. Alla fine, per Roma partono il governatore leghista, Attilio Fontana, il presidente del consiglio regionale Alessandro Fermi (con un passato in Forza Italia e poi passato con Salvini) e il grillino Dario Violi.

Veneto 

Due leghisti e un dem. In Veneto la scelta dei delegati-Grandi elettori è stata senza sorprese. A votare il successore di Mattarella, sono il governatore leghista Luca Zaia, il presidente del consiglio, altro leghista Roberto Giambetti e il capogruppo del Pd, Giacomo Possamai.

Friuli Venezia Giulia 

Il presidente del consiglio regionale Piero Mauro Zanin di Forza Italia, il presidente leghista della Regione Massimiliano Fedriga e il dem Sergio Bolzonello dell’opposizione. Sono i tre grandi elettori del Friuli Venezia Giulia che a Roma, dal 24 gennaio, parteciperanno alle votazioni per il nuovo presidente della Repubblica. Tutti i 49 consiglieri eletti (29 di maggioranza, se comprendiamo due dei tre esponenti del Gruppo Misto, e 20 di opposizione) hanno partecipato giovedì scorso al voto a scrutinio segreto, che consentiva di esprimere un massimo di due preferenze. È stato il presidente Zanin a ottenere il maggior numero di consensi (31, più del totale dei voti della maggioranza), seguito dal governatore Fedriga (27) e da Bolzonello (16).

Emilia Romagna

Anche la Regione Emilia-Romagna ha eletto i tre delegati regionali che partecipano a Roma alle votazioni per l’elezione del prossimo presidente della Repubblica. La maggioranza ha premiato le due massime cariche, il presidente della Regione Stefano Bonaccini del Pd e la presidente dell’Assemblea Emma Petitti (anche lei del Pd). Il centrodestra ha puntato invece sul capogruppo della Lega Matteo Rancan. Critiche di Fratelli d’Italia sul voto telematico avvenuto tramite app (metodo utilizzato per ridurre i rischi di contagio in aula).

Toscana

Alla fine sono stati scelti il governatore pd Eugenio Giani (che ha ottenuto 25 voti), il presidente dem del consiglio regionale Antonio Mazzeo (per lui 27 preferenze) e il consigliere della Lega Marco Landi (13 voti). Non è stata eletta, ma ho ottenuto due preferenze la 5 Stelle Irene Galletti.

Umbria 

Dall’Umbria sono partiti per Roma la governatrice leghista Donatella Tesei, il presidente del consiglio regionale Marco Squarta di Fratelli d’Italia e Fabio Paparelli del Pd.

Marche 

A rappresentare le Marche sono il governatore di Fratelli d’Italia, Francesco Acquaroli, il presidente del Consiglio regionale Dino Latini (Udc) e Maurizio Mangialardi (Pd). Su 29 votanti il presidente della Regione ha ottenuto 12 preferenze, il presidente del consiglio regionale 9 ed il capogruppo del Pd 8.

Abruzzo 

Tra le pochissime donne scelte come delegato regionale c’è la grillina abruzzese Sara Marcozzi. Insieme a lei parteciperanno alle votazioni anche il governatore di Fdi, Marco Marsilio e il presidente del consiglio regionali, il forzista Lorenzo Sospiri. L’Abruzzo è stata la prima regione a scegliere i propri rappresentanti già dallo scorso 27 dicembre.

Molise 

Il Consiglio regionale del Molise ha eletto il governatore Donato Toma di Forza Italia, il presidente dell’Assemblea Salvatore Micone (Udc) e il consigliere Andrea Greco (M5S).

Lazio 

A differenza della Lombardia, nel Lazio tra Pd e M5S alla fine ha vinto il primo. Oltre al governatore dem Nicola Zingaretti, il futuro presidente della Repubblica sarà votato da Marco Vincenzi anche lui del Pd. Per il centrodestra all’opposizione è stato scelto Fabrizio Ghera di Fratelli d’Italia. Il Pd ha retto, nonostante le insistenze dei grillini che volevano uno dei loro al posto di Vincenzi.

Campania 

Sgambetti tra forzisti in Campania. Sicuro in quota opposizione era stato dato l’azzurro Stefano Caldoro – sfidante di Vincenzo De Luca alle regionali – ma a sorpresa tra i Grandi elettori è stata eletta Annarita Patriarca, capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale che ha fatto sapere che il suo voto andrà al leader del suo partito, Silvio Berlusconi. Gli altri due Grandi elettori campani sono il governatore Vincenzo De Luca e il presidente del consiglio Gennaro Oliviero, entrambi del Pd.

Puglia 

I tre grandi elettori pugliesi sono il governatore del Pd Michele Emiliano che ha ricevuto 31 voti, la presidente del Consiglio regionale, Loredana Capone (sempre Pd) che ne ha ricevuti 30, e il vicepresidente del Consiglio regionale Giannicola De Leonardis (Fdi) che ha ottenuto 15 voti. Non ci sono state sorprese nel centrosinistra rispetto alle indicazioni iniziali, mentre nel centrodestra alla fine ha prevalso la linea di Fratelli d’Italia, primo partito di opposizione mentre Paolo Pagliaro eletto nella lista civica “La Puglia domani”, ma di fatto dalla Lega, ha dovuto fare un passo indietro.

Basilicata 

Per la Basilicata a partecipare all’elezione del successore di Mattarella saranno tre uomini, due del centrodestra e un democratico. Ossia: il governatore forzista Vito Bardi, il presidente del Consiglio regionale il leghista Carmine Cicala e Roberto Cifarelli, quest’ultimo consigliere regionale in quota Pd.

Calabria 

Dalla Calabria la schiera che voterà il nuovo capo dello Stato è tutta maschile. I tre delegati indicati dal Consiglio regionale per partecipare all’elezione del presidente della Repubblica sono il presidente della giunta Roberto Occhiuto di Forza Italia, il presidente del Consiglio Filippo Mancuso (Lega) e il consigliere dell’opposizione e capogruppo del Pd Nicola Irto. Un riconoscimento del partito a Irto, che fu fatto fuori nella corsa a governatore.

Sardegna 

Per la Sardegna ci sono i presidenti di Giunta e Consiglio regionale, Christian Solinas (Psd’Az) e Michele Pais (Lega), e il capogruppo del Pd Gianfranco Ganau.

Sicilia 

L’Assemblea regionale siciliana ha eletto il presidente Nello Musumeci (Diventerà Bellissima), il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè di Forza Italia e Nunzio Di Paola (M5S).

Quei leoni del Nord consumati dalla politica. Gabriele Barberis il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.

C' è una nota di dolcezza struggente nella sguardo di Umberto Bossi, il vecchio Leone del Nord che si è rivisto alla Camera per le elezioni del presidente della Repubblica. Vale un romanzo la toccante immagine in bianco e nero che ha postato sui social il giornalista Massimo Maugeri: il Senatùr sulla sedia a rotelle salutato con affetto da Pierluigi Bersani nel cortile di Montecitorio.

Bossi in privato poteva stupire per bonarietà e timidezza, ma in realtà era il Barbaro spaventoso che si era mangiato la Prima Repubblica con picconate che avevano sbriciolato Dc e Psi. Nella foto con Bersani fuma seraficamente il sigaro, con la rassegnazione dell'anziano fuoriclasse escluso dai giochi che è già passato alla storia e non ha bisogno di affermarsi per il presente. Il fondatore della Lega ha 80 anni, mentre l'ex segretario Pd Bersani ne ha dieci di meno. Eppure anche lui si è ritagliato il ruolo della vecchia gloria, sopravvissuto ai veleni dei democratici e all'emorragia cerebrale che lo colse nel 2014. Prima di infilarsi in una deriva anti berlusconiana e di veterocomunismo di ritorno, il deputato di Leu aveva incarnato il moderno ministro riformista, in sintonia con il Nord, produttivo che sfornava privatizzazioni e liberalizzazioni. Ormai recita il ruolo del saggio rispettato a destra e mal tollerato tra i dem, e ha già annunciato che non si ricandiderà a fine legislatura. Entrambi, Umberto e Pier Luigi, hanno indossato le maschere popolari della Seconda Repubblica tra battute feroci e un gramelot linguistico intriso di sfumature padane.

A sinistra Bersani è passato inosservato, sopportato come un soprammobile ereditato da faide interne che hanno visto in pochi anni la fuoriuscita dal Pd di tre segretari (D'Alema e Renzi i compagni di disavventure). Un brontolone fuori dal dibattito che al massimo può regalare un titolo brillante agli intervistatori. Invece nel mondo leghista il rientro di Bossi è stato vissuto con emozione, una macchina del tempo che ha riportato tutti a vent'anni fa, quando Salvini era un giovane consigliere comunale senza felpa e senza barba. Ieri mattina il Senatùr ha coronato il suo dissestato percorso interno alla Lega negli ultimi anni con una standing ovation che l'ha commosso. E per induzione i delegati leghisti sono esplosi in un applauso fragoroso per Silvio Berlusconi, la tessera numero uno esterna della Lega, l'alleato di ferro che faceva ingelosire Fini per il suo rapporto strettissimo con Bossi, Calderoli e Maroni. Tanto che all'epoca si diceva malignamente che la sede del governo non era Palazzo Chigi bensì Arcore, con le cene del lunedì sera. Anche il Cavaliere è fuori dalla partita del Quirinale, ma il Carroccio 4.0 di Salvini l'ha inserito di diritto nel Pantheon verde. Bisogna sempre guardare in avanti, ma alla fine non è così triste soffermarsi su un'istantanea in bianco e nero. La sottile differenza tra il ricordo e il reducismo.

Gabriele Barberis. Caporedattore Politica, Il Giornale

(ANSA il 26 gennaio 2022) - In un Transatlantico anche oggi affollato e con i finestroni spalancati per far circolare l'aria, ci sono ripetuti siparietti tra grandi elettori che si salutano e si fanno dei selfie insieme. Pierferdinando Casini, indicato tra i possibili papabili per il Quirinale, è andato a salutare il fondatore della Lega Umberto Bossi, in sedia a rotelle ma finora sempre presente ai tre scrutini; immancabile la foto della stretta di mano. Anche l'ex premier Mario Monti ha salutato Bossi, così come diversi delegati regionali.

LA PAZIENZA DI UMBERTO BOSSI. Maurizio Crippa per “il Foglio” il 26 gennaio 2022.  

Se i cronachisti umorali della Repubblica, quelli che compilano schede biografiche come fossero sentenze, avessero avuto (avessero sempre, come norma assoluta) un po’ di pazienza, cioè intelligenza, non avrebbero dovuto ieri ricredersi, o fare finta di niente.

Ieri, quando il vecchio Senatùr Umberto Bossi, malandato ma col sigaro tra i denti, che da quasi tre anni non si muoveva da Gemonio, s’è fatto spingere in carrozzina fino a Montecitorio, la cravatta verde, la pochette verde. Per votare il presidente della Repubblica. 

Lui che dalla Repubblica voleva secedere, lui che aveva 300 mila insorti su nelle valli contro Roma ladrona. Invece ieri Bossi era lì, facendo uno sforzo sanitario senz’altro più ingente di quello non fatto dalla no vax come si chiama, e uno sforzo politico maggiore di tante burbette alla prima chiama, per quella Repubblica contro cui ha sempre alzato il vocione. 

A chi gli chiedeva pronostico, ha detto furbo che “Draghi è un nome che può uscire alla fine”. E a chi gli chiedeva del suo amico-nemico-amico, ha disegnato col sigaro un lampo d’intelligenza: “Berlusconi ha una grande dote, è un uomo coraggioso, ma la dote che gli manca è la pazienza”. Politico di razza.

7 anni di Mattarella sui social: poco successo, ma tanto rispetto. Piero de Cindio su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.

E’ finito ufficialmente il percorso di Sergio Mattarella alla presidenza della Repubblica. L’ultimo inquilino del Quirinale ha iniziato il suo mandato nel 2015 e, secondo un’analisi del data journalist Livio Varriale, le parole Quirinale e Mattarella hanno generato solo su Twitter 1.941.995 tweets, 14.517.195 mi piace, 4.395.844 condivisioni, 377.696 citazioni e 1.674.199 commenti.

All’interno di questo schema, la parola Mattarella è comparsa in 1.412.660 tweets mentre Quirinale 654.203.

Il trend del presidente della repubblica negli anni ha raggiunto il maggior coinvolgimento nel 2018 come da grafico ed è singolare come questo anno sia stato migliore degli anni della pandemia. 

2018 è stato l’anno di Mattarella

Nel 2018, gli argomenti che hanno fornito maggiore visbilità al Presidente della Repubblica sono stati: le Consultazioni che hanno portato al primo Conte con Salvini al Governo e la polemica con Luigi Di Maio per l’affaire Savona, non gradito all’Europa, su cui si scatenò la furia incrociata sui social dove si invocava il processo al Presidente per attentato alla Costituzione. In questo stesso anno, iniziano a scoppiare le prime le prime polemiche sugli immigrati che hanno portato alla caduta di Salvini nell’anno successivo. 

Nel 2019 e nel 2020 è emerso un lato di Mattarella dissacrante sia in forma diretta che indiretta. Nell’anno pre Pandemia, il tweet con più condivisioni e preferenze è stato di un utente francese che ha raccontato come “Trump lo abbia chiamato Mozzarella e non Mattarella”

Nel 2020 invece ha fatto sorridere la gaffe della diffusione di un video istituzionale ai media dove il Presidente della Repubblica lamentava la scompostezza dei suoi capelli nel messaggio alla nazione durante il lockdown. Un evento questo, il cui dubbio sulla sua genuinità resta ancora in piedi, che ha aumentato la popolarità del presidentissimo, a seguito di un messaggio di scuse del profilo Twitter ufficiale del Quirinale ed è il post social più gradito di tutto il settennato.

Sono del 2020 gli altri due post che hanno dato lustro a Mattarella nel mondo virtuale: quello di Ivana Trump che si congratulava con la moglie del Presidente per l’accoglienza ricevuta in occasione del g8, più la nota del Quirinale in piena pandemia. Nel 2021, invece, la convocazione di Draghi al Quirinale ha scaldato il popolo della rete.

Chi sono i politici più citati insieme al Presidente?

N° Tweets

Mattarella – Salvini

106233

Mattarella – Conte

96053

Marratella – Renzi

74401

Mattarella – Draghi

43361

Mattarella – Meloni

23843

Marratella – Berlusconi

19933

Mattarella – Speranza

9050

Mattarella – Calenda

4389

Mattarella – Letta

3623

Matteo Salvini e Giuseppe Conte sono i leader di partito più presenti nei tweets dove è stato citato in questi sette anni il presidente Mattarella. Il peggiore di tutti è Enrico Letta, superato persino da Calenda, mentre Draghi in un solo anno è già nel mezzo della classifica. 

Secondo Google Trends, l’interesse del pubblico per il Presidente è stato nella fase iniziale del suo mandato e nel 2018 come già ampiamente riportato. Sicuramente è stato maggiore rispetto al Quirinale ed è curioso notare come l’Abruzzo sia la regione che ha cercato di più su Internet Mattarella, mentre la ricerca più frequente è stata “discorso di Mattarella”, riferito al messaggio di fine anno.

Secondo l’autore della ricerca, Livio Varriale, “l’analisi ha evinto che Mattarella non è stato un presidente social, nonostante la pandemia gli abbia generato intorno maggiore consenso senza convertirlo in successo “di immagine”. Negli anni trascorsi con lui alla guida, c’è da evidenziare che il Presidente della Repubblica seppur non sia di alto interesse, resta una figura rispettata dalla popolazione e la solidarietà espressa nel 2018 ne è stata la prova”.

Piero de Cindio. Esperto di social media, mi occupo da anni di costruzione di web tv e produzione di format

Fabrizio Roncone per il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

L'incarico: trovare un peone qualsiasi, farsi raccontare come lo trattano, lo schifo di giornate che sta vivendo qui a Montecitorio, tenuto all'oscuro, grande elettore per modo di dire, per lui solo comandi bruschi, costretto a votare come gli ordinano i capi via WhatsApp (finora: sempre scheda bianca; infatti poi alcuni s' infilano nelle cabine e, per sfregio, scrivono Claudio Baglioni o Nino Frassica). 

Lo sguardo scivola sul Transatlantico e giù nel cortiletto: bolgia anche in questo secondo giorno, si fuma ovunque, mascherine abbassate, chiacchiere, la candidatura di Mario Draghi al Quirinale perde quota, Renato Brunetta l'unico che lo difende platealmente. Sì, ma i peones? Eccone un gruppetto. 

Questo con le mani in tasca è Mario Acunzo da Battipaglia. Ex 5 Stelle: cacciato perché non versava i soldi al Movimento. Arrotonda facendo l'attore nella fiction di Rai 1 «Il commissario Ricciardi». Ma Acunzo non parla (è disperato: fece l'errore di dire che avrebbe voluto Berlusconi al Quirinale).

Questa invece è Carmela «Ella» Bucalo da Barcellona Pozzo di Gotto, di anni 58, Fratelli d'Italia: ieri si scattava selfie di ricordo. «Decide tutto Giorgia, certo: ci mancherebbe». Un giovane cronista ha già battuto il terreno: «Con la Granato, perdi tempo. Puoi provare con Ciampolillo, ma lo sai anche tu che è un po' banale. Le grilline sono diventate furbe, annusano il pericolo, sono reticenti». 

Poi passa Sergio Battelli. «Come mi ha chiamato?». Peone. «Guardi che io mica mi offendo». Ma infatti io non intendevo offenderla. «Peone ero quando entrai nel 2013, peone mi sento». Sì, ecco: Sergio Battelli di anni 39, grillino genovese, può funzionare. È amico di Luigi Di Maio, però questo non sposta di un centimetro la sua condizione di bracciante della politica. Battelli, tra qualche tempo, sarà materia di studio: licenza media, un decennio trascorso a lavorare come commesso dentro un negozio di animali. Cucce, croccantini, guinzagli.

Poi l'apparizione di Beppe Grillo sulla porta d'ingresso. Due clic, parlamentarie e, nel 2013, si ritrova qui: deputato. Circa 14 mila euro accreditati sul conto corrente. Ogni mese. Per la tragica regola imposta da Gianroberto Casaleggio dell'«uno vale uno», nel 2018 lo nominano pure presidente della commissione Affari europei. «Se devo essere trattato male...». 

Guardi, è cronaca. «Okay: cosa vuol sapere?». La sua giornata. «Mi sveglio, faccio colazione, mi vesto...» (tipo simpatico, veloce, ha imparato le regole del gioco: ma sul vestire non ci siamo. Indossa un abito di lana a quadratini e un maglione nero a collo alto). 

State eleggendo il nostro nuovo presidente della Repubblica: non pensa di essersi presentato vestito come per un brunch al lago? «Lei pensa?». Penso che tra il suo maglione e la grisaglia di Aldo Moro possa esserci una decorosa via di mezzo. Parliamo di queste votazioni. «Vengo qui in anticipo. Parcheggio il monopattino ed entro. Oggi ho mangiato un panino al volo alla buvette. Poi aspetto che arrivi il mio turno di voto parlando con i miei colleghi, immaginando soluzioni, scenari».

Siete preoccupati? «Senta: se a Palazzo Chigi venisse giù tutto, o perché Draghi sale al Colle, o perché al Colle magari ci va un altro e Draghi si stranisce e molla, il rischio di andare a votare è chiaro che esiste. E io, che come Di Maio sono al secondo mandato, per le attuali regole del Movimento dovrei tornarmene a casa. Ma le assicuro che non mi ammazzerei di certo se dovessi lasciare questo luogo, la politica. E poi...». 

Poi? «Mi sono sempre saputo reinventare. Anche stavolta troverei qualcosa per campare». Tipo? «Mi piace la musica. Suonavo, so incidere, potrei buttarmi nella produzione discografica». Squilla il cellulare: sul display comincia a lampeggiare la scritta «Luigi Di Maio». Allora Battelli mette su uno sguardo che tiene insieme imbarazzo e fretta (è noto che Di Maio s' infuria se non gli rispondono entro il secondo squillo; il suo ragionamento dev' essere, più o meno, questo: ma come, io sto qui a faticare per voi, a combattere con Letta zio e Letta nipote, a parlare con Salvini e ad ascoltare persino Conte, e voi fate salotto?). Così Battelli s' allontana. Ma, tenendolo d'occhio, eccolo poi che passetto passetto torna subito ai divanetti, dove lo aspettano. «Allora, Giggino che dice: butta male?». Peones.

Fabrizio Roncone per il “Corriere della Sera” il 30 gennaio 2022.

È il rosario che aspettavano. « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ». Cortiletto di Montecitorio, lo spoglio in diretta sui maxischermo. Nel riverbero giallastro dei lampioni, loro. I vincitori. Sta finendo come volevano. Fanteria parlamentare all'ultimo bivacco. 

Occhiate di purissima allegria sotto le mascherine, febbrile eccitazione: «Siamo già a 348 voti! Eh eh...».

Seduti in circolo, pregustano la certezza di poter trascorrere un altro anno abbondante dentro questo potere e questo lusso, certi qui e gli altri a Palazzo Madama, ma tanto un Transatlantico vale l'altro: l'importante, per la maggior parte di loro, è continuare a camminare nei corridoi con il velluto rosso alle pareti, i marmi che risplendono, i lampadari sempre accesi come nemmeno a Versailles e un bell'accredito sicuro sul conto corrente. « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ».

Ha ripreso colorito Mario Acunzo da Battipaglia, ex 5 Stelle, quello che per arrotondare recita nella fiction di Rai 1 «Il commissario Ricciardi» e che pensava di aver fatto un casino ammettendo di volere Berlusconi al Quirinale. 

Ecco pure Alviso Maniero, un altro gigante del gruppo Misto che, quando lasciò il Movimento, paragonò Davide Casaleggio a Kim Jong-un. Ma lo spettacolo più tragico è stato assicurato, ogni giorno, da molti di quelli che sono rimasti grillini. Paura battente. Animi sanguinanti.

Eccoli qui, i conti cimiteriali ancora in tasca: con un voto elettorale anticipato, un po' per il calo dei consensi, un po' per la contrazione dei seggi prevista dalla nuova legge, due terzi di loro non sarebbero stati rieletti. 

Così l'arrivo di Luigi Di Maio è stato sempre accolto con inchini e sospiri. Lui incedeva offrendo il suo corpo rassicurante, distribuiva carezze, blandiva, state tranquilli, non può succedervi nulla. Tiziana Ciprini e Luca Frusone, Paolo Parentela e Marta Grande. «Giggino, siamo nelle tue mani».

«Giggino, che Dio ti benedica». Una fatica bestiale. Adesso giacciono stremati sulle panchine. Passa Daniela Santanché avvolta in un giaccone maculato (che potrebbe essere di leopardo finto ma anche vero, cacciato appositamente per lei). Li osserva schifata: «Hanno pensato solo a cadrega e portafoglio».

Occhiate feroci per lei e per quelle altre che la poltrona comunque non l'avrebbero rischiata: la Ravetto, con le sue borse firmate che costano come l'annualità di un metalmeccanico; oppure la Boschi, ormai definitivamente altera e lassù, distante, tra una copertina di Chi e la promessa di tornare, prima o poi, a fare il ministro. «Mattarella... Mattarella... Mattarella...» .

Sbuffano in un miscuglio di stanchezza e soddisfazione pure certi leghisti. Perché anche da quelle parti: calcoli malevoli. Con gli attuali sondaggi, un voto anticipato avrebbe prodotto almeno 70 seggi in meno, tra Camera e Senato. E però vedevano il capo piombare di corsa, stravolto. Salvini entrava, votava, spariva. Due ore dopo annunciava cinquine, terne. Pera, Moratti, Nordio. Un pomeriggio è andato a casa di Sabino Cassese.

Nel frullatore ha messo Giampiero Massolo e Franco Frattini. Poi ha mandato a sbattere la seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Casellati. Infine, la tombola: candidando Elisabetta Belloni, il capo dei servizi segreti. Così i leghisti - preoccupati - erano spesso accucciati accanto all'Umbertone Bossi: seduto sulla sedia a rotelle, il sigaro acceso, faceva segno di no, non andrà come «pensa quello lì, state calmi». I governatori Fedriga e Zaia, muti, sgomenti, di cera. «Mattarella... Mattarella... Mattarella...». Sul tabellone luminoso siamo a 487 voti.

C'è ancora il tempo di ricordare la visita pastorale di Giuseppe Conte, che Rocco Casalino, l'altro giorno, ha deciso di trascinare qui. «Devi venire perché sei tu, fino a prova contraria, il capo del Movimento... Non possiamo lasciare i gruppi nella braccia di Di Maio». Solo che Conte lisciava, non riconoscendole, le sue pecorelle grilline: e così il panico diventava totale. 

«Questo non sa nemmeno chi siamo, porcaccia miseria!». Ma Conte aveva altro, in testa. Per dimostrare d'essere il miglior alleato riformista possibile del Pd, si stava accodando a Salvini, che voleva dare all'Italia una guida tipo quella di Abdel Fattah al-Sisi in Egitto. Giornate penose per tutti. Potete recuperare sui social le immagini di euforica liberazione con cui il pattuglione del Pd, nella sala del Mappamondo, ha accolto la notizia che al Quirinale sarebbe rimasto il vecchio Presidente.

Anche tra i dem serpeggiava il dubbio: lo sapete, sì, che se Enrico dovesse rifare le liste elettorali, almeno la metà di noi tornerebbe a casa? Poco fa, Matteo Renzi se ne è andato seguito dalla sua guardia d'onore (per qualche ora, al mattino, ha provato a piazzare Casini: che, annusato il colpaccio, da meraviglioso democristiano soffiava ai peones: «Fratelli, non smarrite la strada, che siamo vicini...». E quelli: «Ha svalvolato?». « Mattarella... Mattarella... Mattarella... ». Ci siamo: 503, 504, 505. Quorum. Abbiamo il Presidente. Applauso lungo e forte (ma è rivolto a lui, o a loro stessi?) 

Fabio Martini per “La Stampa” il 30 gennaio 2022.  

Oramai le riflessioni di Rino Formica somigliano ad aforismi politici: «A noi ci hanno "salvato" i peones!».

Sarebbe a dire?

«Sarebbe a dire che in Parlamento c'è stata una disperata rivolta degli autoconvocati: la loro sopravvivenza di parlamentari ha coinciso con la sopravvivenza del potere democratico e del Parlamento! Molti di loro forse neanche lo sanno che hanno battagliato per la democrazia. Per la prima volta abbiamo assistito ad un attacco del potere esecutivo al potere di garanzia, rappresentato dalla Presidenza della Repubblica e al potere legislativo».

Classe 1927, già ministro socialista, Rino Formica ha iniziato a far politica nel 1944 in casa Laterza a Bari, un giorno che da lì passò Benedetto Croce e da allora non ha più dimesso la passione per la cosa pubblica. 

Ventinove gennaio 2022: al netto della retorica che oramai accompagna ogni evento, che giorno è stato?

 «E' tornato al vertice della Repubblica un presidente forte di suo come Mattarella e alla presidenza della Corte Costituzionale abbiamo un democratico come Giuliano Amato. Due personalità che rappresentano una garanzia per le istituzioni. Nessuno dei due ha però una forza reale come quelle che si muovono fuori dal Parlamento». 

Perché tanto allarme democratico?

«In queste settimane si è consumato uno scontro tra chi voleva mantenere l'equilibrio dei poteri previsto dalla Costituzione e chi voleva cambiarlo a Costituzione invariata».

Draghi?

«Il sistema dell'informazione quasi non se ne è accorto: ma quando mai palazzo Chigi e il suo leader sono stati il centro dell'organizzazione politica? Mai l'istituzione si era fatta partito. Neppure quando la Dc aveva il 40 per cento». 

Ma si è trattato di un'ambizione personale

«Appunto l'ambizione di un "partito personale"».

Draghi non ha mai mostrato di avere ambizioni partitiche o politiche in senso stretto, non le pare?

 «Peggio. Ambizioni di potere. Ancora più pericolose. Se avesse fondato un partito, benissimo. Monti non era pericoloso: ci ha provato e non è andata bene. Ogni tanto si alza in Senato e fa il cigno: io ne sapevo più di voi». 

Per qualche mese il governo sarà più forte?

«Nei prossimi mesi vengono al pettine nodi politico-sociali inediti. Si svolgerà il referendum sulla giustizia: nella campagna elettorale saranno coinvolte milioni di persone, toccate direttamente da problemi di giustizia civile, penale, tributaria». 

Il governo resisterà un anno?

 «Un anno di governo reale non c'è. Fra sei mesi siamo in campagna elettorale, comunque. Ecco perché mi fa ridere il "patto di legislatura"».

L'ammaccato Salvini di queste ore non aspetta altro che tornare libero a scorrazzare?

«Per forza. Con una aggiunta che le anticipo». 

Sarebbe a dire?

«Che quasi nessuno dei ministri draghiani sarà candidato nel proprio partito. Non Brunetta e neppure le donne di Forza Italia. Ma anche quelli del Pd rischiano tranne Orlando che ha una sua componente. Non parliamo poi di quelli della Lega»

Forza Italia si renderà disponibile per un'alleanza di centro-sinistra?

«Forza Italia non può che avere una posizione liberale. Per necessità. Mediaset produce informazione, non scarpe. E quando si arriva al dunque, gli interessi da tutelare non sono industriali, perché Berlusconi ha bisogno del pluralismo delle idee come imprenditore. Sulla candidatura Belloni una posizione liberale è venuta proprio da Forza Italia». 

Sul tema si è esposto Renzi, da lei mai risparmiato

«E invece dico: viva Renzi! Ha detto l'abc. Dopo 75 anni di vita democratica, ma come caspita si fa a pensare che si passa dalla guida dei Servizi alla guida dello Stato senza un "lavaggio elettorale?»

L’impossibile segreto. Le regole per eleggere il Capo dello Stato e il culto idolatrico della trasparenza. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 28 Gennaio 2022.

I padri costituenti non potevano immaginare che i mass media avrebbero racconto in tempo reale la scelta del presidente della Repubblica. Chi corre per il Quirinale dovrebbe candidarsi o essere candidato in modo ufficiale, spiegando in Parlamento le ragioni della scelta.

Non so come andrà a finire tra qualche ora o tra qualche giorno l’elezione del Capo dello Stato e su chi finirà per ricadere la scelta dello Spirito Santo che, per previsione costituzionale, soffia sul collegio quirinalizio. 

Rimane comunque l’impressione che neppure se uniformate a quelle del conclave dei cardinali per l’elezione papale – tutti chiusi dentro e nessuno parla con l’esterno – le regole dell’elezione presidenziale potranno mai più resistere al pervertimento del mondo in tempo reale e dell’interconnessione globale, delle dirette permanenti e del pedinamento dei grandi elettori, delle indiscrezioni e dei depistaggi. 

D’altra parte, se le notizie ormai trapelano più o meno in diretta pure dalla Cappella Sistina quando c’è da scegliere un nuovo Papa, non c’è da illudersi che il segreto, che la Carta vorrebbe precedesse la fumata bianca sul nuovo Capo dello Stato, sia custodito da mille grandi elettori o da dieci capi partito, abituati a vivere in diretta Facebook e la cui esistenza e potenza politica è certificata in primo luogo dalla ubiquità mediatica.

Se le regole istituzionali per funzionare devono comunque adattarsi al modo con cui la realtà retroagisce su di esse, deformandole o conformandole ai propri paradigmi, i meccanismi di un’elezione tanto importante dovrebbero tenere conto della potenza e della pervasività di un apparato mediatico, che i costituenti non potevano neppure immaginare. Un’elezione segreta non è più compatibile né con la tecnologia, né con la cultura del sistema e della società dell’informazione. 

La segretezza delle trattative per la scelta di un Capo di Stato confligge in primo luogo con il culto idolatrico della trasparenza, la cui diffusione dimostra di per sé l’irreversibile confusione concettuale e pratica tra le categorie del politico e quelle del mediatico e suscita l’illusione che la controllabilità del potere e dei potenti sia legata alla loro perpetua esposizione pubblica, come se questa non fosse già un prodotto, un mezzo di persuasione, prima che un oggetto di conoscenza, un far vedere, prima che un vedere.

In ogni caso, se pure si volesse eroicamente resistere all’idea che la difesa della democrazia passi da uno streaming ininterrotto di chiacchiere e distintivi, rimane il fatto che per sua stessa natura la politica non ha più un dentro che non sia anche un fuori, cioè non ha più materialmente la possibilità di custodire alcunché in un segreto, che per esistere, per rilevare, per fare consenso, per stabilire chi ha vinto e chi ha perso, deve essere raccontato.

Di fronte a tutto, perché l’inconciliabilità dell’elezione presidenziale non rimanga una causa di ulteriore opacità e sospetto sui movimenti e sulle intenzioni dei politici (per definizione sordide, come vuole la vulgata) sarebbe di gran lunga preferibile che quella per il Quirinale venisse trasformata in una vera elezione, in cui ci si candida o, se si viene candidati, si accetta o non accetta la candidatura e in cui si spiegano istituzionalmente – in Parlamento, non uscendo dalle pizzerie o dalle case private – le ragioni dei sì e dei no. 

Viene comunque quasi da sorridere a immaginare questa come una riforma possibile, in un sistema istituzionale condannato da decenni alla paralisi dalla ferrea alleanza tra quelli che vogliono sfasciare tutto e quelli che non vogliono cambiare niente. 

Quirinale, bordata di Dagospia a votazioni aperte: "Tutto questo caos? Quando Mattarella e il suo uomo..." Libero Quotidiano il 28 gennaio 2022.

Prima di giocarsi la carta Draghi per Palazzo Chigi, Sergio Mattarella avrebbe voluto l'ex banchiere come suo successore al Quirinale. Lo rivela Dagospia in una nota: "Una scelta sofferta. L’arrivo a Palazzo Chigi di Draghi bruciava quella che era la prima opzione alla sua successione. L’asso nella manica che aveva tenuto al riparo dai partiti per spianargli la strada verso il Colle”. Pare, inoltre, che per evitare di giocarsi il suo nome durante la crisi di governo di un anno fa, l’uomo ombra del presidente, Ugo Zampetti, si fosse speso per dare vita al Conte ter. Opzione poi fallita.

Alla fine infatti, come sappiamo, il nome dell'ex banchiere si è reso necessario vista la crisi profonda che si stava attraversando. Anche perché Mattarella, come da lui spiegato un anno fa, voleva scongiurare il voto anticipato sia perché si era in piena pandemia sia perché mancava una nuova legge volta a ridisegnare i collegi elettorali dopo la riduzione del numero dei parlamentari. 

In ogni caso pare, spiega Dagospia, che i nomi “super partes” dei possibili candidati al Colle, evocati in questi giorni, siano gli stessi che aveva in mente il Capo dello Stato uscente da oltre un anno per garantire stabilità al Paese: Mario Draghi, Giuliano Amato, Marta Cartabia e Sabino Cassese. 

IL GIORNO DELLE VOTAZIONI

Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto per il Quirinale della prima giornata: incontro Salvini-Letta “apre il dialogo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.  

Al via oggi le elezioni del Presidente della Repubblica. Il Presidente della Camera Roberto Fico ha convocato l’assemblea che eleggerà il prossimo Capo dello Stato oggi, lunedì 24 gennaio 2022, alle 15:00 per la prima seduta. Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.

Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.

Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della giornata di ieri: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.

Il live minuto per minuto

8:00 – Si va verso un primo scrutinio senza intese tra i partiti. L’unica certezza, salvo sorprese, è che nell’urna finiranno molte schede bianche. Continuano le trattative febbrili. Oggi incontro Letta-Salvini. Il segretario del Pd ha chiesto una presa di posizione chiara su Mario Draghi: “Ha rappresentato per l’Italia una straordinaria risorsa e il compito di tutti noi è di preservarlo”. Opzione Mattarella ancora in campo per il leader dem: “Darebbe il massimo, la soluzione ideale e perfetta”. Letta pronostica tra martedì e mercoledì una candidatura condivisa. Per Salvini invece “togliere Draghi da Palazzo Chigi è pericoloso”. Per il segretario del Carroccio “Casini non è un candidato del centrodestra”.

8:50 – Con la morte del deputato di Forza Italia Enzo Fasano, scomparso ieri sera a 70 anni, i Grandi Elettori scendono a 1008. Scende così anche a 672 il quorum dei due terzi chiesto nelle prime tre votazioni per l’elezione. Per tornare al 1009 andrà proclamato il primo dei non eletti, che parteciperà subito al voto.

9:00 – Secondo La Repubblica la trattiva che potrebbe sbloccare tutto è quella di Elisabetta Belloni, prima donna a capo dell’intelligence, Presidente del Consiglio e Draghi al Quirinale. Si tratterebbe della prima donna a Palazzo Chigi e del primo capo dell’intelligence a guidare un governo. L’attuale direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza è stata segretario generale della Farnesina e alla direzione dell’unità di crisi del ministero. Sarebbe considerata una personalità trasversale.

10:48 – Il vicepresidente e coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani ha dichiarato, in linea con Berlusconi e Salvini, ai giornalisti arrivando a Montecitorio in mattinata che “oggi serve unità nazionale e Mario Draghi è il miglior garante dell’unità nazionale. Non è una questione personale ma dell’interesse del Paese. Serve unità di governo e che questo esecutivo arrivi a fine legislatura”. No a veti da parte di Tajani: “Ho parlato con Salvini, Meloni e gli altri leader, nella giornata di ieri, e ritengo che il centrodestra farà delle sue proposte e poi valuteremo, ci confronteremo. Ciò che non possiamo accettare è che si sostenga il principio per cui chi è espressione del centrodestra non possa avere incarichi pubblici, perché questo è illiberale ed antidemocratico”.

11:00 – Il successore di Enzo Fasano, il deputato di Forza Italia morto ieri sera, sarà scelto tramite una procedura rapidissima che dovrebbe riportare il numero dei Grandi Elettori a 1009 entro mercoledì. La Giunta per le elezioni di Montecitorio e l’aula della Camera in una seduta ad hoc saranno convocate in queste 72 ore per individuare il primo dei non eletti di Forza Italia nella Circoscrizione Campania 2 e verificarne i titoli. È la prima volta nella storia che la Camera sarà convocata durante le elezioni del Capo dello Stato per la proclamazione di un deputato subentrante.

11:15 – Nessun veto da parte del Movimento 5 Stelle. “Abbiamo alzato l’asticella, vogliamo una personalità di alto profilo, compatibile coi valori del Movimento”, ha detto il leader Giuseppe Conte arrivando a Montecitorio. “L’assemblea M5s, che è il numero più consistente, ha convenuto diffusamente che l’obiettivo è preservare la continuità dell’azione di governo perché non possiamo trascurare che ci sono famiglie, imprese cittadini che ci guardano e non possono pensare che prima ci fermiamo per il Quirinale e poi per un nuovo governo”.

12:00 – Il Presidente della Camera Roberto Fico pubblica sul suo profilo Facebook le foto delle cosiddette “insalatiere”, le urne dove consegnare il proprio voto: “Alle 15 il Parlamento si riunirà in seduta comune per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. Stamattina in programma le due riunioni congiunte di Camera e Senato – prima quella dell’Ufficio di Presidenza e poi la Conferenza dei capigruppo – per ultimare l’organizzazione dei lavori”. 

12:30 – Spunta un nome nuovo per il Colle. A farlo è Giorgia Meloni, con Fratelli d’Italia che lancia per il Quirinale l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio. “Molte personalità, che provengono dall’area del centrodestra, avrebbero il curriculum e lo standing per ricoprire il ruolo di presidente. Nomi come quello di Marcello Pera, Letizia Moratti, Elisabetta Alberti Casellati, Giulio Tremonti, Franco Frattini sono tutti autorevoli. Io ho chiesto di allargare la rosa anche alle personalità che non hanno un trascorso politico e per questo abbiamo aggiunto il nome di Carlo Nordio, su cui ci pare difficile che si possano muovere obiezioni”, ha detto ai suoi grandi elettori riuniti in assemblea.

13:00 – Decisa la ‘timeline’ del voto. Il calendario prevede infatti la convocazione per domani alle 15, confermando dunque l’orario odierno per consentire la partecipazione ai funerali del deputato di Forza Italia Vincenzo Fasano, scomparso domenica sera.

Il terzo scrutinio, previsto mercoledì, inizierà alle 11 del mattino, come stabilito dalla conferenza dei capigruppo di Camera e Senato.

13:30 – Maria Rosa Sessa, detta Rossella, sarà il grande elettore numero 1009. La deputata prenderà infatti il posto di Enzo Fasano, il deputato di Forza Italia morto domenica sera. L’annuncio è stato dato in commissione Affari Costituzionali da Stefano Ceccanti, deputato e capogruppo del Partito Democratico.

Una decisione lampo con la verifica dei ‘titoli’ della Sessa da parte della Giunta per le elezioni della Camera, con l’elezione che verrà proclamata in apertura di seduta oggi ripristinando così il quorum.

13.50 – Niente schede segnate. Il presidente della Camera Roberto Fico leggerà solo il cognome del votato ove la scheda rechi solo tale indicazione ovvero quando, pur riportando altre notazioni, sia comunque univocamente individuabile il soggetto cui è attribuito il voto. Si tratta di una informazione importante: la lettura del solo cognome e non la lettura “tale e quale” del voto evita il controllo da parte dei gruppi politici che in queste ore sono a lavoro per individuare il prossimo presidente della Repubblica. Un escamotage utilizzato più volte in passato per contarsi e capire effettivamente quanti voti si avevano a disposizione. Storico – come riporta l’Ansa – il caso della votazione in cui Franco Marini era candidato del centrosinistra e non venne eletto. Le variabili furono tante, da “Marini Franco” a “Franco Marini” a “Marini dottor Franco” o “Franco dottor Marini”.

14:30 – Stamattina il vertice tra il segretario del Pd Enrico Letta, il leader del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte e il segretario di Articolo Uno Roberto Speranza. Scheda bianca al primo scrutinio, preservare il nome di Andrea Riccardi e aprire un confronto “vero” con il centrodestra le indicazioni dal summit. Conte, a differenza di Letta, ha detto che non avrebbe “remore a considerare una candidatura che venga dal centrodestra”. L’ex premier avrebbe preferito tra l’altro tenere coperto il più possibile il nome di Andrea Riccardi fino al momento giusto. Per Letta è “il candidato ideale”. Previsto oggi pomeriggio l’incontro tra il segretario dem e quello della Lega Salvini.

14:35 – Il Presidente del Consiglio Mario Draghi e il segretario della Lega Matteo Salvini si sono incontrati stamattina a Palazzo Chigi. “No comment” sul faccia a faccia.

14:46 – “La Lega voterà scheda bianca”, l’indicazione emersa durante la riunione con il segretario Matteo Salvini alla Camera. “Confermeremo di essere seri e responsabili”.

15:06 – In programma oggi pomeriggio il segretario della Lega Matteo Salvini e il leader del M5s Giuseppe Conte. L’ex premier pentastellato avrebbe sentito ieri diversi leader il presidente di Fdi Giorgia Meloni e oggi il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani.

16:00 – Giornata di incontri per una giornata interlocutoria che dovrà mettere le basi per un possibile accordo. Per questo Matteo Salvini, come confermano fonti della Lega, incontrerà sia Enrico Letta che Giuseppe Conte, i due leader di Partito Democratico e Movimento 5 Stelle.

Prima di vedere però gli “alleati” di governo, Salvini si confronterà con Giorgia Meloni. Fratelli d’Italia ha candidato, almeno per le prime votazioni, l’ex magistrato Carlo Nordio.

16:15 – SkyTg24 apprende da fonti parlamentari che nell’agenda agenda Draghi sono previsti incontri con tutti i leader di partito.

16:20 – Fine della votazione dei Senatori. Dopo 10 minuti di pausa, con sanificazione degli ambienti, si riprenderà con i deputati.

16:25 – Renzi ai cronisti davanti a Montecitorio: “Come vedo bis di Mattarella? Non lo vedo”. E “al momento non vedo grandi soluzioni all’orizzonte. Il parlamento 2013 ha fallito, il parlamento del 2015 era lo stesso, ma ha eletto Mattarella. La differenza la fa la politica”. L’ex premier ha aggiunto: “Penso e spero che nelle prossime 48 ore, siano decisive per passare dal Wrestling alla politica. E sono sinceramente ottimista perché hanno tutti interesse a farlo. Basta schermaglie, ora si fa sul serio”. L’ipotesi Draghi “sta in piedi solo in un quadro di accordo politico”.

16:53 – Incontro Salvini-Letta: “Si è aperto dialogo”. Riferiscono fonti della Lega e del Partito Democratico: “Lungo e cordiale incontro tra Matteo Salvini ed Enrico Letta negli uffici della Lega alla Camera. Con il faccia a faccia si è’ aperto un dialogo: i due leader stanno lavorando su delle ipotesi e si rivedranno domani”.

17:50 – Quello con il segretario della Lega Matteo Salvini è stato “un incontro molto positivo” secondo il segretario del Pd Enrico Letta. Domani un altro faccia a faccia. “Abbiamo aperto il dialogo, è positivo, ci rivediamo domani”.

18:15 – Un messaggio importante su una possibile convergenza sul nome di Pier Ferdinando Casini arriva dal senatore del Partito Democratico Dario Stefano, presidente della Commissione politiche Ue. Da Stefano infatti è arrivato uno stop alle ambizioni di Draghi al Quirinale: “diffusa che Draghi debba proseguire il lavoro al governo per portarci fuori dalla crisi pandemica, dalla emergenza dei costi energia e materie prime e per conseguire la piena attuazione del Pnrr. Il Paese non puo’ permettersi una crisi al buio”. Per il colle quindi “serve un nome che unisce, che non sia bandiera di nessuno, che aiuti le convergenze e che conosca bene il parlamento e le sue regole di funzionamento. Casini è certamente uno dei candidati che risponde perfettamente a questo profilo”.

Tesi ribadita anche dal ministro delle Politiche agricole e capodelegazione del Movimento 5 Stelle al Governo, Stefano Patuanelli: “Mario Draghi deve restare a palazzo Chigi? “I cittadini hanno bisogno di certezze”.

19:50 – “Sto lavorando perché nelle prossime ore il centrodestra unito offra non una ma diverse proposte di qualità, donne e uomini di alto profilo istituzionale e culturale, su cui contiamo ci sia una discussione priva di veti e pregiudizi, che gli italiani non meritano in un momento così delicato dal punto di vista economico e sociale”. E’ quanto dichiara il leader della Lega Matteo Salvini.

20:09 – Inizia lo spoglio da parte del presidente della Camera Roberto Fico. Moltissime schede bianche, voti poi per Alberto Angela, Paolo Maddalena, Elisabetta Belloni, Ettore Rosato, Amadeus, Sergio Mattarella, Umberto Bossi, Franco Rutelli, Bruno Vespa, Marco Cappato, Marta Cartabia, Craxi, Silvio Berlusconi, Walter Veltroni, Claudio Lotito, Alfonso Signorini, Giuseppe Cruciani, Mauro Corona e Claudio Sabelli Fioretti.

20:21 – “C’è un clima positivo di confronto” ha dichiarato Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, all’uscita da Montecitorio.

21:38 – Dopo circa un’ora è finito lo spoglio delle schede dopo la prima votazione per l’elezione del presidente della Repubblica. I votanti sono stati 976. Come previsto, la stragrande maggioranza sono schede bianche (672), 49 quelle nulle. Preferenze poi per il presidente uscente Sergio Mattarella (16), i magistrati Paolo Maddalena (32), Carlo Nordio (pochissime per il candidato avanzato da Fratelli d’Italia) e Nicola Gratteri, le donne Elisabetta Belloni e Marta Cartabia (9), poi i politici Silvio Berlusconi, Ettore Rosato, Umberto Bossi, Pierluigi Bersani, Francesco Rutelli, Walter Veltroni, Marco Cappato e spunta anche Craxi. Nuova votazione domani, martedì 25 gennaio, alle 15.

22:30 – Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini

23.56 – Draghi presidente della Repubblica e Di Maio premier: i nomi e le ipotesi dopo la prima giornata. Le strategie in Transatlantico: asse tra il ministro degli Esteri e Giorgetti.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

672 le schede bianche. Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.

Fumata nera, come era ampiamente prevedibile, dopo il primo voto dei Grandi Elettori per scegliere il 13esimo presidente della Repubblica (il mandato di Mattarella scade a inizio febbraio). Domani, martedì 25 gennaio, alle ore 15 è in programma la seconda votazione.

In questa prima giornata sono stati complessivamente 976 i votanti e dallo spoglio, diretto dal presidente della Camera Roberto Fico, sono ben 672 le schede bianche. Quelle nulle sono invece 49. Chi ha ottenuto più preferenze è il magistrato Paolo Maddalena, candidato avanzato dalla componente “Alternativa c’è”, ovvero gli ex Movimento 5 Stelle confluiti nel gruppo Misto.

Maddalena ha racimolato 36 preferenze. Al secondo posto si piazza il presidente uscente Sergio Mattarella con 16, segue la ministra della Giustizia Marta Cartabia con 9. Poi Silvio Berlusconi, il deputato di Forza Italia Roberto Cassinelli, Guido De Martino, figlio di Francesco, e il deputato ex M5S Antonio Tasso, con 7; Umberto Bossi e il presidente di Italia viva, Ettore Rosato, con 6.

Marco Cappato prende 5 voti; il senatore della Lega Cesare Pianasso e il giornalista Bruno Vespa con 4 voti; il conduttore di un ‘Giorno da pecora’ Giorgio Lauro, Enzo Palaia, il direttore del Dis Elisabetta Belloni, la deputata di Italia viva Maria Teresa Baldini, il presidente della Lazio Claudio Lotito, Pierluigi Bersani, il giornalista Claudio Sabelli Fioretti, Francesco Rutelli, il presentatore Amadeus e Craxi 3 voti.

Due voti per Giuliano Amato, il presidente del Senato Elisabetta Casellati, il divulgatore scientifico Alberto Angela, Pier Ferdinando Casini, l’ex premier Giuseppe Conte, Gianluca De Fazio, il ministro dello Sviluppo economico, Giancarlo Giorgetti, il chirurgo Ermanno Leo, Antonio Martino, il giurista Ugo Mattei, il sottosegretario all’Editoria, Giuseppe Moles, il deputato del Pd Paolo Siani.

Un voto a Sabino Cassese, Carlo Nordio (candidato proposto da Fratelli d’Italia), Mario Draghi, Walter Veltroni, Anna Finocchiaro, Rosy Bindi, Antonio Tajani. Hanno ricevuto un voto anche, tra gli altri, Donina Cesare, Ugo Mattei, Andrea Pertici, Ermanno Leo, Pastorino, Fulvio Abbate, Alessandro Barbero, Alfonso Signorini, Giuseppe Cruciani, Vincenzo De Luca, Mauro Corona, Mario Segni, Giorgio Presu, Aldo Morrone, Antonio Razzi, Prosperetti, Giuseppe Cossiga, Gioacchino Gabbuti, Salvatore Borsellino, Dino Zoff e il magistrato Nicola Gratteri.

Il nome scelto dal Gruppo Misto. Chi è Paolo Maddalena, il magistrato candidato al Quirinale dagli ex grillini. Redazione su Il Riformista il 24 Gennaio 2022-

Nato a Napoli 85 anni fa, Paolo Maddalena è un ex magistrato e vice presidente emerito della Corte Costituzionale. Nei giorni scorsi il suo profilo è stato scelto dai parlamentari ex Movimento 5 Stelle confluiti ora nel Gruppo Misto e nella componente “Alternativa c’è”, di cui fanno parte poco più di 40 tra deputati e sanatori. “Per individuare una figura di alto profilo morale e tecnico da proporre per l’ormai prossima elezione del presidente della Repubblica, si è aperto un confronto tra parlamentari del Gruppo Misto di Camera e Senato all’opposizione, che ha portato all’indicazione del professor Paolo Maddalena”, si legge nella nota diffusa.

Maddalena è una “figura super partes, lontana da appartenenze politiche: ha messo al centro della sua opera di magistrato, docente universitario e giudice costituzionale (vice presidente della Consulta) la tutela dei beni pubblici demaniali, della legalità, della sovranità popolare e della nostra Costituzione. Per queste ragioni riteniamo possa essere una figura tra le più importanti sulla quale tutte le forze politiche potrebbero convergere. Le invitiamo ad esprimere il proprio voto per una personalità in grado di incarnare pienamente le caratteristiche di garante della Costituzione e dei diritti del popolo italiano”.

Chi è Paolo Maddalena?

Subito dopo la laurea (conseguita presso l’Università di Napoli nel 1958), Maddalena iniziò l’attività didattica e di ricerca nell’ambito del diritto romano, come assistente di Antonio Guarino. Libero docente di Istituzioni di diritto romano dal 1971, successivamente al suo ingresso in magistratura spostò i suoi interessi verso il diritto amministrativo e costituzionale. I principali risultati in questo settore hanno riguardato una nuova configurazione della responsabilità amministrativa e la tesi della risarcibilità del danno pubblico ambientale. Dopo avere insegnato per alcuni anni nell’Università degli Studi di Pavia, parallelamente al suo impegno come magistrato, dal 1991 al 1998 è stato titolare della cattedra Jean Monnet Diritto della Comunità Europea per il patrimonio culturale ed ambientale presso l’Università degli Studi della Tuscia a Viterbo. In questo periodo si è occupato, in numerosi scritti, anche dei profili istituzionali ed ordinamentali dell’Unione europea. Presidente dell’associazione di promozione sociale Attuare la Costituzione dal 2017. Dal 5 settembre 2019 è a capo della Consulta sul Debito del Comune di Napoli (Audit).

Maddalena è entrato nella Magistratura della Corte dei Conti nel 1971. Dopo un lungo periodo trascorso presso la Procura Generale, nell’ultimo periodo, dal 1995, è stato Procuratore regionale del Lazio della magistratura contabile. Ha avuto modo di applicare le tesi da lui prospettate in sede scientifica sia collaborando allo svolgimento di numerose istruttorie, in particolare su temi ambientali, sia svolgendo incarichi di diversa natura. Tra l’altro ha fatto parte del gruppo Ecologia e Territorio istituito presso la Corte suprema di cassazione, ed è stato Capo di gabinetto del ministro della Pubblica istruzione Gerardo Bianco (1989-1991) e Capo ufficio legislativo presso il Ministero dell’ambiente.

Dopo una lunga carriera nella quale ha coniugato l’attività di studio e ricerca nei settori del diritto romano, diritto amministrativo e costituzionale e diritto ambientale con le funzioni di magistrato, culminate con la nomina alle funzioni di presidente di sezione della Corte dei conti, il 17 luglio 2002 è stato eletto alla Corte costituzionale nella quota riservata alla magistratura contabile. Ha assunto le sue funzioni dopo aver giurato il 30 luglio dello stesso anno.

Il 10 dicembre 2010 è stato nominato vicepresidente della Corte dal neoeletto presidente Ugo De Siervo, carica nella quale è stato riconfermato il 6 giugno 2011 dal neoeletto presidente Alfonso Quaranta. Tra il 30 aprile 2011 e il 6 giugno dello stesso anno ha svolto le funzioni di presidente della Corte. Il suo mandato alla Consulta è giunto a termine il 30 luglio 2011.

Il 1 aprile 2014 è stato nominato esperto a titolo gratuito dal Sindaco di Messina Renato Accorinti, per le politiche di giurisdizione costituzionale per i beni comuni.[1] Nel 2016 ha espresso posizioni vicine al movimento No Cav schierandosi a favore della tutela delle Alpi Apuane. Il 16 gennaio 2022 viene indicato da 40 parlamentari, per la maggior parte fuoriusciti dal Movimento 5 Stelle come candidato per l’elezione del Presidente della Repubblica Italiana del 2022.

Moneta parallela all’euro

In passato Maddalena propose una moneta parallela all’euro: “L’antico pensiero economico e produttivo di stampo keynesiano – scriveva il giurista – prevedeva una distribuzione della ricchezza anche alla base della piramide sociale. E il maestro di Mario Draghi, Federico Caffè, si ispirava agli insegnamenti di Keynes. Purtroppo il sistema di stampo keynesiano è stato trasformato in un sistema economico patologico e predatorio di stampo neoliberista. E il sistema neoliberista vuole tutta la ricchezza concentrata nelle mani di pochi: autostrade, frequenze televisive, acqua, rotte aeree. Il primo vero problema da affrontare, per uscire dalle crisi ambientale, sanitaria e economica nelle quali siamo caduti, è quello che riguarda il tema importantissimo, ma stranamente trascurato, della “creazione del danaro dal nulla”. La moneta non nasce in natura, ma è creata dalla mano dell’uomo, e, in pratica, o dallo Stato, o dalle banche, che al momento sono tutte private. E privata è anche la Bce che è oggetto di proprietà delle banche centrali private dei singoli Stati europei. Insomma utilizziamo una moneta a debito anziché una moneta a credito, emessa direttamente dallo Stato che, per giunta, ha anche la capacità, come suol dirsi, di “monetizzare il debito”, cioè di pagare i debiti con l’emissione di nuova moneta e non con la creazione periodica di nuovi debiti, come oggi avviene”. 

Paolo Maddalena per ilfattoquotidiano.it il 22 febbraio 2022.

Il governo Draghi, dopo aver disposto la vendita agli stranieri di tutti i servizi pubblici essenziali (Ddl Concorrenza Art. 6) e, in particolare, della distribuzione dell’acqua (emendamento 22.6 al Dl Recovery), con decreto ministeriale del 19 febbraio 2022, ha disposto la messa a gara della compagnia di bandiera Ita Airways.

Con tali atti Draghi dimostra di diventare in pratica l’esecutore delle multinazionali e della finanza internazionale per la liquidazione dell’intero patrimonio pubblico del Popolo italiano.

Egli agisce in palese contrasto con la Costituzione, la quale considera i servizi pubblici essenziali, le fonti di energia, le situazioni di monopolio e le industrie strategiche (art. 43 Cost.) in proprietà pubblica demaniale del Popolo, ai sensi del comma uno, primo alinea, dell’articolo 42, il quale sancisce che la proprietà è pubblica e privata. 

È chiaro che svendendo l’intero demanio pubblico lo Stato italiano resta nella impossibilità di garantire a tutti i servizi pubblici indispensabili per la vita di tutti i cittadini.

Infatti alle entrate del bilancio statale vengono sottratti i molto lauti guadagni che provengono dalla gestione dei servizi pubblici essenziali, e alla pubblica amministrazione non resta altro, per soddisfare i bisogni della popolazione, se non la possibilità dell’aumento delle imposte, le quali riducono la domanda e impediscono lo sviluppo economico, distruggendo posti di lavoro, portando tutti a una ineliminabile miseria.

In sostanza il governo Draghi non si accorge che, con queste operazioni, sta distruggendo il nostro Stato-Comunità, rendendolo schiavo degli Stati economicamente più forti a cominciare da Germania e Francia. E tutto questo mentre i media di tutto parlano, tranne che della rovina economica nella quale siamo indirizzati.

È indispensabile che gli uomini di buona volontà, pure esistenti nel Paese, svolgano una incisiva azione di divulgazione di questo stato di cose, e che il maggior numero possibile di cittadini adiscano la via giudiziaria con il fine di portare davanti alla Corte costituzionale queste disposizioni legislative tanto dannose per gli interessi generali.

E a tal proposito si ricorda che i cittadini singoli o associati sono legittimati ad agire in giudizio: in quanto parte della collettività (art. 2 Cost.), in quanto titolari del diritto di partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3, comma 2, Cost.) e in quanto autorizzati a svolgere attività di carattere generale secondo il principio di sussidiarietà (art. 118, comma 4, Cost.).

Siamo davvero ad una svolta decisiva e, se non facciamo attuare nel settore economico la nostra Costituzione, ci aspetta soltanto un futuro di schiavitù sotto lo schiacciante potere economico delle multinazionali e della finanza internazionale. 

Si tratta di adempiere al dovere sacro del cittadino di difendere la Patria, secondo quanto sancisce il primo comma, primo alinea, dell’articolo 52 Cost. Come al solito, e con maggiore apprensione, invito tutti ad attuare gli articoli 1, 2, 3, 4, 9, 11, 41, 42, 43 e 118 della nostra Costituzione repubblicana e democratica.

Chi è Elisabetta Belloni, tra i candidati a presidente della Repubblica. Corriere della Sera il 27 Gennaio 2022.

Elisabetta Belloni, ambasciatrice, è la prima donna a raggiungere il vertice dei servizi segreti: il suo è tra i nomi di cui si parla per il Quirinale, in queste ore.  

Il nome di Elisabetta Belloni — la diplomatica ora alla guida del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza — è tra quelli per la scelta del prossimo presidente della Repubblica. Belloni, 63 anni, romana, è stata nominata lo scorso anno da Mario Draghi Direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. In precedenza aveva ricuperto il ruolo di segretario generale del ministero degli Esteri, dove è stata sostituita dall’ambasciatore Ettore Sequi. Belloni è la prima donna ad arrivare ai vertici dell’intelligence (dopo essere stata la prima donna a guidare l’Unità di crisi, la prima donna a dirigere la Cooperazione allo Sviluppo, la prima donna capo di Gabinetto di un ministro degli Esteri, la prima donna a dirigere tutta la macchina della Farnesina). A pesare, come scritto qui da Fiorenza Sarzanini, è stata la sua grande esperienza: per anni capo dell’unità di crisi della Farnesina, Belloni ha gestito i sequestri degli italiani in Iraq lavorando fianco a fianco con gli 007 e diventando punto di raccordo per l’azione del governo per la liberazione degli ostaggi, ma anche punto di riferimento per le famiglie. Da segretario del ministero degli Esteri si è occupata dell’organizzazione della Farnesina. Come raccontato in questo ritratto di Marco Galluzzo, Belloni adora camminare: «esce di casa alle prime luci dell’alba, tuta e scarpe da ginnastica, impiega un’ora per arrivare alla Farnesina. Ogni giorno, che sia sole o pioggia cambia poco. Alle sette e mezza si è già fatta una doccia ed è alla sua scrivania. Autorevole ma non autoritaria, una capacità eccezionale di relazioni esterne, intese come tali ma anche umane, nel mondo diplomatico, economico, istituzionale, compreso quello dei Servizi, con cui ha lavorato fianco a fianco quando dirigeva l’Unità di crisi. Non si stacca mai dal suo cellulare, ma stacca veramente quando nel weekend si gode la sua casa nella campagna aretina, insieme ai suoi adorati tre pastori alsaziani e alle gioie di un orto che ama curare con le sue mani». Nel corso della carriera, è stata candidata diverse volte, con un profilo tecnico, anche per cariche politiche: da ministra degli Esteri a presidente del Consiglio. Come in queste ore.

Quirinale, chi è Elisabetta Belloni, la riserva della repubblica ideale. LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 24 Gennaio 2022. Uno dei nomi più evocati nelle ultime ore sia per palazzo Chigi che per il Quirinale è quello di Elisabetta Belloni, capo dei servizi segreti.

Il curriculum dell’ex segretario generale vicinissima a Di Maio è prova sufficiente della sua competenza sopra la media, ma Belloni è stata brava a coltivare i propri rapporti con tutto l’establishment italiano. 

Il fatto di non essere legata a nessun partito potrebbe rappresentare un limite per la sua elezione: tutto l’arco parlamentare la stima, ma si discute dell’opportunità di mandarla a palazzo Chigi e di come possa accoglierla il paese da presidente della Repubblica.  

LISA DI GIUSEPPE. Scrivo di politica, economia ed esteri (soprattutto Germania). Ho lavorato per Reuters, La7, Corriere della Sera e Public Policy.

Quirinale, Elisabetta Belloni presidente dalla Repubblica? "Quella ha in mano i dossier", chi piomba nel panico in Parlamento. Libero Quotidiano il 27 gennaio 2022.

Salgono le quotazioni di Elisabetta Belloni al Quirinale e i parlamentari, rivela Aldo Cazzullo nella sua diretta sul sito del Corriere, sono già nel panico. "Quella ha i dossier di tutti… Io non ho niente da nascondere, per carità…però, insomma…". La Belloni infatti, è il capo dei Servizi segreti, e ora potrebbe diventare presidente della Repubblica, visto che il suo nome convince tutti, da Fratelli d'Italia di Giorgia Meloni a Enrico Letta. 

Ma appunto si solleva una questione di opportunità.  Il problema, infatti, è che Elisabetta Belloni passerebbe dal ruolo di capo dei Servizi segreti a ricoprire la prima carica dello Stato. "Non viviamo in una democrazia dimezzata o in uno stato autoritario. Il capo dei servizi segreti, chiunque sia, non può assurgere a ruoli istituzionali per inadeguatezza della funzione e potenziale potere di condizionamento, tantomeno può concorrere ai vertici dello Stato", ha attaccato il senatore del Psi Riccardo Nencini in una nota. "Un'Italia che percorresse strade sudamericane o emulasse la Russia di Putin tradirebbe la sua storia repubblicana è lo spirito della costituzione".

Evidentemente non è l'unico a pensarla così. E al di là delle questioni puramente istituzionali, la sua figura inquieta più di qualche deputato e di qualche senatore. 

Luca Pellegrini per repubblica.it il 27 gennaio 2022.

Quirinale, Mastella: "Belloni al Colle? È come se un portiere volesse fare il centravanti". "Ufficialmente sono perché il capo dei servizi segreti italiani diventi il capo del mondo. A dire il vero, avrei preferito che arrivasse qua con la veste di segretario della Farnesina, non come capo dei servizi segreti": così Clemente Mastella, lasciando Montecitorio, commenta la possibilità di eleggere al Quirinale Elisabetta Belloni. "Sarebbe giusto che continuasse a ricoprire il ruolo suo - continua l'ex Guardasigilli e attuale sindaco di Benevento - ma qui nessuno lo vuole giocare, come se il portiere volesse diventare centravanti. E vale anche per Draghi, essere a Palazzo Chigi è un incarico prestigioso".

Le manovre della Farnesina. Il mistero Belloni e il caso Kostin, l’ombra della Farnesina. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.  

Tre governi europei ieri hanno riunito il gabinetto di guerra. Le manovre militari russe, che oggi impegneranno quasi diecimila militari sul campo, premono sui confini ucraini. La telefonata di Biden a Draghi non ha sortito gli effetti sperati: complice l’appuntamento istituzionale più importante, l’Italia sembra distratta. E anche intorno al Colle si nota qualche strana manovra, qualche manina che proviene dalle barbe finte. Quel mondo si interroga da giorni sulla misteriosa vicenda della candidatura anomala del capo del Dipartimento Informazioni per la Sicurezza, l’apprezzatissima Elisabetta Belloni.

Per la prima volta nella storia repubblicana il direttore dei servizi segreti ha fatto capolino quale possibile Capo dello Stato. Naturale che si sia accesa subito la caccia grossa sui nomi dei suoi propugnatori. Belloni dell’iniziativa non era informata e – per chi ne conosce lo stile – si può immaginare con quale fastidio l’abbia accolta. Ma neanche si può immaginare che chi governa l’intelligence ne sia potuta rimanere al buio fino all’ultimo. Ci dice il direttore di una prestigiosa fondazione geopolitica: “Non può che essere stato un ballon d’essai della Farnesina, ovviamente in chiave anti-Draghi”. Si scherza col fuoco.

E sul dialogo e sugli eccessi di diplomazia con Mosca c’è chi punta il dito verso il Ministero degli esteri per un caso serio: con Decreto del Presidente della Repubblica formalizzato sulla Gazzetta Ufficiale del 15 gennaio scorso, su proposta del Ministro degli Esteri Luigi Di Maio, è stata conferita l’onorificenza di Commendatore dell’Ordine della «Stella d’Italia» a due cittadini russi Andrey Kostin (banchiere) e Viktor Evtukhov (sottosegretario di Stato al Ministero dell’Industria e Commercio Estero). Entrambi oggetto di pubbliche denunce per utilizzo scorretto di denaro pubblico da parte del dissidente russo Alexei Navalny. Andrey Kostin è sottoposto a sanzioni da parte dei governi di USA e Canada, dove non può mettere piede per “il suo ruolo chiave nel portare avanti politiche nocive di Putin”.

Altroché medaglie, sottolineano i Radicali Italiani che per primi hanno rilevato l’affaire: “Constatiamo che il Movimento 5 Stelle ha svoltato di 180 gradi su quasi tutte le posizioni politiche assunte in passato, tranne che per i suoi ammiccamenti con il regime di Mosca. Tale ambiguità, da parte non di un esponente di partito ma di un ministro degli Esteri di un Paese membro della Nato, nel giorno in cui gli Stati Uniti hanno iniziato ad evacuare la loro ambasciata a Kiev, è francamente vergognosa ed inaccettabile”, dicono in coro i dirigenti di Radicali Italiani Massimiliano Iervolino, Giulia Crivellini, Igor Boni.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Dalla Farnesina agli incarichi con i governi Berlusconi, Renzi, Conte e Draghi. Chi è Elisabetta Belloni, la diplomatica che potrebbe essere la prima donna Presidente della Repubblica. Elena Del Mastro su Il Riformista il 23 Gennaio 2022.

È la prima donna a capo degli 007 italiani e potrebbe essere anche la prima Presidente della Repubblica italiana donna. Elisabetta Belloni, 63 anni, potrebbe essere il nome che mette insieme tutti anche perché dal suo curriculum sembrerebbe piacere a tutti i colori politici.

Belloni è una stimata diplomatica, ha collaborato con ministri politici di tutti gli schieramenti, riuscendo però a non schierarsi mai. Tanto che non è chiaro per chi voti. A maggio 2021, è stata nominata dal premier Mario Draghi direttore generale del dipartimento delle Informazioni per la sicurezza, un ruolo delicatissimo che è coperto da una donna per la prima volta nella storia italiana.

Belloni si è laureata in Scienze politiche nel 1982 alla Luiss di Roma cominciando presto – a soli 27 anni – la sua carriera diplomatica alla Farnesina, presso la Direzione generale degli Affari politici (era il 1985). Un anno dopo Belloni si trasferisce prima a Vienna, poi a Bratislava dove rimane fino al 1999, quando rientra in Italia, al ministero degli Esteri. Lì ricopre il ruolo di capo della segretaria della Direzione per i Paesi dell’Europa, capo dell’Ufficio per i Paesi dell’Europa centro-orientale e capo della segretaria del Sottosegretario di Stato agli Esteri.

Nel 2004 l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini (Forza Italia, governo Berlusconi) la nomina capo dell’unità di crisi della Farnesina. Ruolo in cui la confermerà subito dopo Gianfranco Fini, subentrato al ministero. Belloni gestisce, in quel caso, dossier delicatissimi come il rapimento di cittadini italiani in Iraq e Afghanistan e si occupa anche del coordinamento delle ricerche a seguito dello tsunami in Thailandia. Nel 2008, invece, ancora Frattini la nomina direttore generale per la Cooperazione allo sviluppo. Nel 2013, sotto il governo tecnico guidato da Mario Monti (oggi senatore a vita, dunque “grande elettore”), Belloni diventa direttore generale per le Risorse e l’Innovazione, su richiesta del ministro degli Esteri Giulio Terzi di Sant’Agata.

Nel 2015 il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni (governo Renzi) la chiama come capo di gabinetto per poi nominarla segretaria generale del ministero degli Esteri, prima donna a ricoprire questo incarico. Ruolo che continuerà ad avere anche con i successivi governi presieduti da Giuseppe Conte, diventando un punto di riferimento prezioso anche per Luigi Di Maio, ministro degli Esteri. Belloni resta segretaria generale fino alla nomina di Draghi alla guida dei servizi segreti.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da corriere.it il 24 gennaio 2022.

Il caso Sara Cunial continua a tenere banco. La deputata ex M5S, dichiaratamente no vax e no green pass (il certificato verde è necessario per entrare a Montecitorio), chiede di poter votare nella postazione esterna riservata ai grandi elettori positivi o in quarantena. La parlamentare non ha intenzione di spostarsi. 

«Sono sana e chiedo di poter votare il Presidente come è mio diritto costituzionale fare, non vedo perché non possa votare come i malati di Covid sia vaccinati che non». E ancora: «Non far votare un cittadino prima ed un parlamentare poi perché sano è un affronto alla democrazia, alla legge e alle istituzioni».

L'aria che tira, Gasparri travolge Molinari: "Morta una persona, un po' di rispetto". Quel titolo agghiacciante su Repubblica. Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.

"Sono molto triste per la morte di questo nostro parlamentare, Enzo Fasano, una persona seria e perbene": Maurizio Gasparri, ospite di Myrta Merlino a L'Aria che tira su La7, ha iniziato così il suo intervento, ricordando il deputato scomparso ieri. Approfittando della presenza del direttore di Repubblica, poi, il senatore di Forza Italia ha detto: "Voglio dire una cosa a Maurizio Molinari. Ieri Repubblica titolava: 'I grandi elettori scendono a 1.008'. Un po' più di calore e rispetto quando muore una persona, non è solo un numero". 

Gasparri, poi, ha lanciato una proposta: "Se Repubblica facesse qualcosa di più caloroso per riparare a questo modo statistico di dare la notizia sarebbe apprezzato". Poi, cambiando argomento, il senatore azzurro ha dichiarato: "Berlusconi non ha voluto dare luogo a spaccature e divisioni. Adesso però il veto su Berlusconi sembra, nelle parole di Enrico Letta, essere stato trasferito su chiunque non sia della sinistra". 

Quirinale, sfregio di Roberto Fico al deputato di Forza Italia morto: "Niente minuto di silenzio", sconcerto in Parlamento. Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.

Roberto Fico ha declinato la proposta di osservare un minuto di silenzio per ricordare Enzo Fasano. È accaduto durante il primo giorno di votazione per il prossimo capo dello Stato. Qui il presidente del Senato, Maria Elisabetta Casellati, ha chiesto al collega della Camera dei deputati di richiamare alla memoria il deputato di Forza Italia, scomparso alla vigilia del voto per il Quirinale.

A ricostruire l'accaduto è stata l'Adnkronos. Fico, racconta l'agenzia, avrebbe consultato il segretario generale della Camera Fabrizio Castaldi, salvo poi soprassedere. Le motivazioni non sono ufficiali, ma stando ad alcune ipotesi dietro la decisione dell'esponente del Movimento 5 Stelle ci sarebbe il protocollo. Quest'ultimo non prevederebbe la richiesta della Casellati. A maggior ragione perché questo caso l'Assemblea è seggio elettorale. 

Ma quanto accaduto nella giornata del 24 gennaio non sarebbe il solo episodio. È tornato infatti d'attualità un precedente risalente al 24 giugno 1985. In quell'occasione la presidente Nilde Iotti, nella seduta comune del Parlamento, espresse il cordoglio per la scomparsa il giorno prima del senatore della Dc Angelo Tomelleri, senza che venisse osservato il minuto di silenzio. Accadde lo stesso anche il 24 maggio del 1992, dopo la commemorazione di Giovanni Falcone, di Francesca Morvillo e degli uomini della scorta uccisi nella strage di Capaci. In quel caso il presidente Oscar Luigi Scalfaro non invitò l'Aula a osservare un minuto di silenzio. "Richiamiamo la nostra volontà a responsabilità più alte; diamo al popolo italiano la percezione di un mondo politico responsabile che sente l'urgenza di una unità di intenti e di una volontà viva e vera per servire, non per dominare. Colleghi, il silenzio sia la sottolineatura di questo impegno; le vittime del dovere e le vittime civili siano richiamo", furono le sue parole.

II GIORNO DI VOTAZIONI

Il live minuto per minuto della seconda giornata. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto: Letta boccia la rosa del centrodestra e chiede un conclave, rabbia Lega contro veti. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

In attesa dei candidati veri, la prima giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica si è conclusa con una valanga (672) di schede bianche su un totale di 976 votanti. Oggi, martedì 25 gennaio, si torna a Montecitorio per la seconda votazione in programma a partire dalle 15.

Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.

Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.

Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della giornata di ieri: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.

00:30 – Elezioni presidente Repubblica, tutte le preferenze dopo primo scrutinio: da Amadeus a Lotito a Signorini

02:30 – La strategia di Draghi dopo i colloqui con Salvini, Letta e Conte. E spunta l’ipotesi Di Maio premier.

03:30 – Attesa per le proposte del centrodestra promesse da due giorni a questa parte dal leader della Lega Matteo Salvini. L’ex numero uno del Viminale ha ribadito: “Sto lavorando perché nelle prossime ore il centrodestra unito offra non una ma diverse proposte di qualità, donne e uomini di alto profilo istituzionale e culturale, su cui contiamo ci sia una discussione priva di veti e pregiudizi, che gli italiani non meritano in un momento così delicato dal punto di vista economico e sociale”.

Ore 8:35 – Secondo Matteo Renzi l’Italia “avrà un nuovo presidente della Repubblica “non oltre giovedì o venerdì”. In una intervista a Il Messaggero, il leader di Italia viva ritiene che il Presidente sia “l’arbitro imparziale della politica interna per sette anni ma anche un presidente credibile in politica estera: le tensioni tra Russia e Ucraina, le sfide globali tra Stati Uniti e Cina, la crisi della Nato richiedono che il nuovo inquilino del Quirinale sia un leader forte, garante del patto atlantico e dal marcato profilo europeista. Si tratta di raccogliere anche su questo l’eredità di tre grandi presidenti quali Ciampi, Napolitano e Mattarella”. Renzi lancia “un appello alla serietà: non perdiamo altro tempo. La crisi geopolitica, la pandemia, l’inflazione, il costo delle bollette e delle materie prime chiedono alla politica di non buttare altro tempo”. Per Renzi c’è “sola una ipotesi in campo: Draghi al Quirinale con un grande accordo politico. L’altra no. L’idea di perdere Draghi anche come premier infatti non sta in piedi: può lasciare Chigi solo per un trasloco istituzionale. Altrimenti si scelga un uomo o una donna di equilibrio per la funzione di Capo dello Stato lasciando a Draghi la responsabilità di governo per l’anno e mezzo che ancora ci manca”. “Di tutte le possibilità – conclude – l’unica che non esiste è che Draghi se ne vada da tutto“.

Ore 09:45 – Pier Ferdinando Casini, tra i candidati alla presidenza della Repubblica, si riscopre improvvisamente social. Su Instagram ha pubblicato una foto da giovanissimo (quando guidava i giovani Democratici Cristiani) con la didascalia: “La passione politica è la mia vita!!”.

Ore 10:30 – In mattinata la Lega prova a smorzare gli animi e i retroscena sulle trattative tra Matteo Salvini e Mario Draghi su “un presunto rimpasto”, ovvero sulla trattativa in contemporanea su Palazzo Chigi e Quirinale.

“Non è in corso alcuna trattativa tra il senatore Matteo Salvini e il presidente del Consiglio Mario Draghi a proposito di un presunto rimpasto”, spiega infatti in una nota la Lega. “È infondato e irrispettoso per il senatore Salvini e per il presidente Draghi immaginare che in questa fase, anziché discutere di temi reali, siano impegnati a parlare di equilibri di governo”.

Ore 11:40 – L’accordo tra i partiti su un nome condiviso per il Colle appare lontano. Il centrodestra si riunirà alle 15 per un vertice in cui verranno fuori i candidati da proporre alle altre forze in Parlamento: secondo l’Agi ci saranno Letizia Moratti, Marcello Pera, Maria Elisabetta Casellati e Carlo Nordio (fuori dunque Frattini e Casini). I nomi verranno poi ufficializzati in una conferenza stampa convocata alle 16:30 alla Camera.

Dal Nazareno però fonti Pd rilanciano e annunciano un ‘no’ certo a figure come lo stesso Pera, Casellati o simili.

Ore 12:30 – Appare ormai fuori dai giochi la candidatura al Colle di Franco Frattini. Le quotazioni dell’ex ministro degli Esteri di Berlusconi, attuale presidente del Consiglio di Stato, erano date in forte rialzo anche per una probabile convergenza sul suo nome di Salvini e Conte.

Una proposta su cui però hanno fatto muro Italia Viva e Partito Democratico. Colpa delle posizioni filorusse di Frattini mentre in Ucraina si sta infiammando lo scontro tra Mosca e i Paesi della Nato. Opinione condivisa di Enrico Letta e Matteo Renzi è che in una fase delicata per la crisi Ucraina serva un profilo di presidente della Repubblica “europeista e atlantista”.

Ore 12:50 – Il vertice del centrodestra è stato anticipato di mezz’ora: si terrà infatti alle 14:30, con la conferenza stampa che verrà svolta alla Camera alle 16.

Ore 13:20 – Anche i leader del centrosinistra ‘allargato’, ovvero Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, si incontreranno nel pomeriggio per fare il punto della situazione. Un vertice fissato alle 15, quando inizierà anche la seconda giornata di voto nell’Aula della Camera.

Da 5 Stelle, Partito Democratico e Leu l’indicazione è ancora quella di confermare la scheda bianca.

Ore 14:30 – Matteo Salvini ribadisce il no al trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Il leader della Lega nei minuti che hanno preceduto l’avvio del vertice di coalizione ha riferito ai cronisti fuori Montecitorio che il premier “già lavora bene a Palazzo Chigi”, smarcandosi ancora una volta da tale ipotesi.

Salvini ha quindi confermato l’esclusione dalla ‘rosa’ dei candidati di Pier Ferdinando Casini e di Franco Frattini, attuale presidente del Consiglio di Stato ed ex ministro degli Esteri dei governi Berlusconi: “Nessuno lo ha ancora fatto eppure è stato già bocciato”. Quindi una sottolineatura ambigua: “I nomi che proporremo non hanno neanche una tessera di partito”, ha spiegato Salvini.

Ore 15:15 – Arriverà dopo le 17 la risposta del centrosinistra sui ‘Quirinabili’. Pd, 5 Stelle e Leu attenderanno infatti la conferenza stampa di Salvini e soci in cui verrà avanzata la lista dei candidati per fare una controproposta.

Ore 16:20 – L’ex premier Matteo Renzi chiede di iniziare a tirare fuori i candidati: “Chi ha un candidato lo tiri fuori. Il centrodestra ha diritto di avanzare la candidatura. Ma questo non è uno show”. Poi suggerisce: “Spero che la presidenza inizi a far votare due volte al giorno perché c’è una crisi pesantissima in Ucraina, la crisi economica su energia e gas, regole assurde a scuola per la dad, almeno il Parlamento abbia la consapevolezza di quello che si sta giocando. Il mio è un appello a fare presto”.

Ore 16:33 – Tre nomi per la corsa al Quirinale. Sono quelli lanciati dal centrodestra nella conferenza stampa tenuta a Montecitorio. Matteo Salvini ha annunciato per la corsa al Quirinale l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo (ex sindaco di Milano ed ex ministro) Letizia Moratti.

Ore 16:45 – Nel corso della conferenza stampa, Giorgia Meloni ha ricordato che “gli ultimi 4 presidenti della Repubblica sono stati proposti dal centrosinistra, in un paese in cui si dice che la maggioranza sia di centrodestra. Rivendico rispetto da chi dice che qualsiasi proposta del centrodestra sarà respinta”. Poi aggiunge: “Sono molto soddisfatta della compattezza con cui il centrodestra sta affrontando questa prova. Crediamo sia nostra responsabilità cercare di fare un passo avanti con proposte concrete. Il centrodestra non ha i numeri per eleggere da solo il presidente, ma ha i numeri maggiori e ha il diritto di fare delle proposte e chiedere agli altri di esprimersi”.

Ore 16:55 – Sempre nel corso della conferenza, Salvini ha voluto anche rimarcare come nei tre nomi proposti non ci sono “dirigenti di partito anche se ovviamente, e lo dico io, c’è qualcuno a questo tavolo che non avrebbe un titolo ma tantissimi per ambire a questa carica, a proposito di europeismo, atlantismo, dimestichezza con le diplomazie”.

Ore 17:20 – Anche Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle, chiude all’ipotesi Draghi al Quirinale: “Se abbiamo affidato a un timoniere questa nave in difficoltà, non ci sono le condizioni per fermare i motori e cambiare l’equipaggio. La nostra nave è ancora in difficoltà”. Sui tre nomi avanzati dal centrodestra commenta: “Rispettiamo proposte ma ci riserviamo di fare valutazioni”.

Ore 18:20 – Il patto tra Conte e Salvini: “Draghi resti premier”, Letta e il Pd furiosi

Ore 18:40 – Iniziato lo spoglio alla Camera dopo la seconda votazione. Molte le schede bianche annunciate dal presidente Roberto Fico. Il quorum richiesto è dei due terzi, pari a 673 voti.  Anche nella seconda giornata di votazioni compaiono voti per Sergio Mattarella, Pierluigi Bersani, Silvio Berlusconi, Giancarlo Giorgetti e Francesco Rutelli. Ma ci sono preferenze anche per il ‘senatùr’ Umberto Bossi, il premier Mario Draghi, Marco Cappato, Massimo D’Alema, Nicola Gratteri, Fulvio Abbate, Roberto Cassinelli, Claudio Lotito.

Ore 19:20 – Mentre prosegue lo spoglio con la maggiorana delle schede bianche, Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza bocciano i tre nomi avanzati dal centrodestra. “Prendiamo atto della terna formulata dal cdx che appare un passo in avanti, utile al dialogo. Pur rispettando le legittime scelte del centrodestra, non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione in questo momento necessario” fanno sapere al termine del vertice di centrosinistra. “Riconfermiamo la nostra volontà di giungere ad una soluzione condivisa su un nome super partes e per questo non contrapponiamo una nostra rosa di nomi”.

Ore 19:22 – Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio lascia Montecitorio e ai giornalisti si limita a dire un “sono ottimista“. Non è chiaro in merito a cosa.

Ore 19:25 – “Nella giornata di domani proponiamo un incontro tra due delegazioni ristrette in cui porteremo le nostre proposte“. Lo afferma una nota congiunta di Giuseppe Conte, Enrico Letta e Roberto Speranza, al termine del vertice congiunto.

Ore 19:41 – Tanti i voti-burla della seconda giornata. Tra le preferenze per il Presidente della Repubblica compaiono Claudio Baglioni, Al Bano e Enrico Ruggieri. Un voto anche per Dino Zoff come ieri. E poi il conduttore Alberto Angela, Giorgio Agamben (il filosofo), e i conduttori Massimo Giletti e Cladio Sabelli Fioretti. Un voto anche per il comico Nino Frassica.

Ore 19:44 – “La proposta che facciamo è quella di chiuderci dentro una stanza e buttiamo via le chiavi: pane e acqua, fino a quando arriviamo a una soluzione, domani è il giorno chiave” ha dichiarato Enrico Letta, segretario del Pd, all’uscita da Montecitorio.

Ore 20:05 – I voti più strani a Presidente della Repubblica: “Ma chi sono?”

Ore 20:10 – Sulla stessa linea di Letta, ovviamente, anche le dichiarazioni di Giuseppe Conte. “Oggi abbiamo deciso di non presentare una rosa di nomi. In questo modo acceleriamo il dialogo con il centrodestra con l’impegno di trovare nelle prossime ore una soluzione condivisa” ha spiegato l’ex presidente del Consiglio e leader dei 5 Stelle. “L’Italia non ha tempo da perdere. Non è il momento del muro contro muro“, ha aggiunto Conte.

Ore 20:20 – Ufficiale la seconda ‘fumata nera‘ di queste elezioni per il presidente della Repubblica. Come previsto infatti a stravincere sono state le schede bianche, 527, con 976 votanti su 1009 grandi elettori.

I più votati sono stati l’attuale capo dello Stato Sergio Mattarella e Paolo Maddalena (39), seguiti da Renzo Tondo (18) Roberto Cassinelli (17), Ettore Rosato (14), Umberto Bossi (12) Giancarlo Giorgetti, Luigi Manconi e Marta Cartabia (8), Silvio Berlusconi e Giuseppe Moles (7) e Nicola Gratteri (6).

Ore 21:50 – Il ‘no’ di Letta, Conte e Speranza alla terna dei nomi proposta dal centrodestra per il Quirinale agita la Lega. Il Carroccio infatti tramite fonti ha fatto filtrare l’irritazione per la bocciatura della ‘rosa’ composta da Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera. 

“A differenza di chi cambia idea dopo poche ore, la Lega continua a lavorare con contatti a tutto campo. Restiamo convinti dell’assoluto spessore delle candidature presentate oggi per il Quirinale, ed è evidente la differenza tra noi e chi dice no a ripetizione e mette veti”, spiegano fonti del partito di Salvini.

Ore 22:20 – L’irritazione di Salvini avrà in realtà anche un altro bersaglio, perché anche Matteo Renzi boccia i tre nomi proposti dal centrodestra per la presidenza della Repubblica. Il leader di Italia Viva, ospite di Cartabianca su Rai 3, esprime infatti un giudizio netto: “Sono tre nomi di livello ma credo che domani non voteremo i candidati di centrodestra: il presidente della Repubblica non è un giudizio sulla persona, ma è la scelta del candidato più adatto a fare il presidente della Repubblica”.

La tradizione allo spoglio. I voti più strani a Presidente della Repubblica: “Ma chi sono?” Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

“Ma chi sono?”, ha scandito perfino Enrico Mentana a un certo punto della sua diretta su La7, mentre il Presidente della Camera Roberto Fico leggeva e passava i fogli con le preferenze alla Presidente del Santo Maria Elisabetta Alberti Casellati. E chi sono allora? Alcuni sconosciuti, altri che impegnano le redazioni a scovare profili e biografie, molti vip come sempre. E a Montecitorio, nel secondo giorno di votazioni per il prossimo Capo dello Stato, è andato in scena il consueto teatrino delle preferenze creative e buffe.

Il portiere della Nazionale Campione del Mondo nel 1982 Dino Zoff, il cantautore Claudio Baglioni, il divulgatore scientifico Alberto Angela, i cantanti Albano ed Enrico Ruggeri, il presentatore e direttore artistico del Festival di Sanremo Amadeus che già era stato tirato in ballo ieri, lo storico Alessandro Barbero. Un voto persino per Aldo Moro. Un altro per il sociologo Domenico De Masi. Varia umanità, molto spettacolo, sport: c’è chi si diverte insomma in queste ore di stallo a Montecitorio.

Dino Zoff

Claudio Baglioni

Enrico Ruggeri

Alberto Angela

Roberto Mancini

Claudio Lotito

Giorgio Agamben

Massimo Giletti

Claudio Sabelli Fioretti

Alfonso Signorini

Mauro Corona

Giuseppe Cruciani

Antonio Razzi

Christian De Sica

Giorgio Lauro

Claudio Sabelli Fioretti

Fulvio Abbate

Francesco Verderami

Giovanni Rana

Enrico Chiapponi

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

I voti-burla e il tempo dei pagliacci. Francesco Maria Del Vigo il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.

​Giovanni Rana, Enrico Ruggeri, Nino Frassica, De Sica, Alberto Angela, Amadeus, Al Bano, Antonio Razzi, Mauro Corona. E sono solo alcuni dei tanti.

Giovanni Rana, Enrico Ruggeri, Nino Frassica, De Sica (non si sa quale, ed essendo una stirpe è difficile capirlo), Alberto Angela (in questo caso siamo sicuri, ma onore anche al padre, ingiustamente trascurato), Amadeus (temiamo non si tratti di Mozart), Al Bano, Antonio Razzi, Mauro Corona. E sono solo alcuni dei tanti. Cos'hanno in comune tutti questi personaggi? La risposta normale sarebbe questa: sono, a vario titolo, dei vip; nomi di spicco dell'imprenditoria, della musica, del cinema, della cultura o della televisione. Risposta normale in un Paese normale. Dunque risposta errata. Sono alcuni - solo alcuni perché la lista completa è decisamente più lunga - dei nomi che i nostri parlamentari, ieri, hanno votato come Presidente della Repubblica. Tutti personaggi rispettabilissimi, alcuni persino più credibili e rappresentativi dei vari «signor nessuno» che hanno fatto capolino nei vari retroscena giornalistici. Ma non confondiamo il veglione di Capodanno e il trenino in diretta tv con il discorso del Presidente a reti unificate: nonostante tutti i vani tentativi della politica di autodelegittimazione, l'elezione del capo dello Stato rimane una cosa seria. La scheda con la quale i «grandi» elettori votano non è un meme come quelli che i «piccoli» cittadini usano per candidare Rocco Siffredi o Topolino al Quirinale nei loro post su Facebook.

Beh, è sempre successo - obietterà qualcuno - in ogni elezione presidenziale qualche burlone si è divertito a scarabocchiare un nome impossibile. Vero, ma ogni cosa ha il suo tempo e questo non è esattamente quello dei pagliacci. O, per lo meno, non dovrebbe esserlo. E non c'è nulla di peggio di un comico che non riesce più a fare ridere, di una battuta che viene accolta dal silenzio imbarazzato della sala. Questo ora è l'effetto dei voti beffa. Non è una questione di moralismo, che da queste parti non ha mai albergato, ma piuttosto di pragmatismo.

Le ferite del nostro Paese non si sono ancora cicatrizzate, la pandemia rallenta ma continua a fare paura, l'economia è claudicante e dall'est soffiano venti di guerra che preoccupano tutta l'Unione Europea. Ma i nostri parlamentari hanno, evidentemente, del gran tempo da perdere. Loro sì, l'Italia no. E mai come in questo caso si tratteggia chiaramente la distinzione tra Paese reale e Paese virtuale. Tra chi lavora e chi si balocca. Ci sono decine di milioni di cittadini incollati a televisori e pc nel tentativo di seguire un'elezione tanto importante quanto complessa, sempre più simile a un rebus del quale si è persa la soluzione. Cittadini che non meritano lo spettacolo dei politici che si spernacchiano da soli.

Francesco Maria Del Vigo è nato a La Spezia nel 1981, ha studiato a Parma e dal 2006 abita a Milano. E' vicedirettore del Giornale. In passato è stato responsabile del Giornale.it. Un libro su Grillo e uno sulla Lega di Matteo Salvini. Cura il blog Pensieri Spettinati.

Fondatore dell'Intergruppo Parlamentare 2.0 per l'innovazione. Chi è Roberto Cassinelli, avvocato e deputato di Forza Italia votato per diventare presidente della Repubblica. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Genovese, avvocato, liberale, interista, deputato al Parlamento. Già senatore della Repubblica. Fuori dai radar fino al momento in cui il presidente della Camera Fico ha iniziato lo spoglio. È nato a Genova il 10 Dicembre 1956. Ha conseguito la maturità classica presso il Liceo “Vittorino da Feltre” di Genova, si è laureato in giurisprudenza presso l’Università statale di Milano.

È avvocato, patrocinante presso la suprema Corte di Cassazione ed è stato per due mandati consigliere dell’Ordine degli Avvocati del Foro di Genova. Opera prevalentemente nel settore civile ed amministrativo, con particolare riferimento al diritto societario, bancario, finanziario, fallimentare ed alla contrattualistica. Svolge attività di consulenza ed assistenza legale per istituti bancari e di credito di rilevanza nazionale ed europea, per gruppi industriali e commerciali, per società di servizi ed enti pubblici. È stato, consigliere di amministrazione, sindaco, commissario giudiziale e commissario straordinario in numerose società. Inoltre è membro del Consiglio dell’Associazione Proprietà Edilizia della Provincia di Genova.

Ha aderito sin da giovanissimo al Partito Liberale Italiano, di cui il padre Giorgio è stato Vicepresidente Nazionale. Con il P.L.I. è stato eletto tre volte al Consiglio Comunale di Genova, nel 1981, nel 1985 e nel 1990. Ha inoltre ricoperto numerosi incarichi pubblici nell’ambito della Fiera internazionale di Genova, delle Unità Sanitarie Locali VIII e XIII, dell’Azienda per l’igiene urbana di Genova, dell’Ente per il diritto allo studio universitario della Liguria e dell’Autorità per i servizi pubblici del Comune di Genova.

Tra i fondatori di Forza Italia in Liguria, ne è stato Vice Coordinatore Regionale dal 1994 al 2006, Commissario Cittadino per la città di Genova dal 2005 al 2007 e Coordinatore Cittadino per la città di Genova, eletto dal Congresso, dal 2007 al 2009. Dal 2005 fino allo scioglimento del Partito ne è stato membro del Consiglio Nazionale. Dalla nascita del Popolo della Libertà ha assunto l’incarico di Coordinatore Vicario per la città di Genova ed è di diritto membro dell’Assemblea dei Parlamentari. Dal giugno 2009 è membro della Consulta nazionale del Pdl sul tema della Giustizia e responsabile nazionale del Dipartimento sul diritto societario e fallimentare del Popolo della Libertà.

Alle elezioni politiche del 13-14 Aprile 2008 è stato eletto alla Camera dei Deputati per il Popolo della Libertà, nella Circoscrizione Liguria. Nella XVI Legislatura è membro della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati. Nell’ambito della propria attività di deputato, si occupa prevalentemente di Giustizia, Libere Professioni, Legge & Internet. È fondatore dell’Intergruppo Parlamentare 2.0, un gruppo di deputati e senatori di ogni schieramento che ha l’obiettivo di promuovere le politiche dell’innovazione presso il Parlamento italiano. 

Dai canali Rai a lui interamente dedicati a come realizzare il paradiso in Terra. Chi è Mauro Scardovelli, il candidato Presidente della Repubblica che ha raccolto oltre 20mila firme online. Gianni Emili su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Mauro Scardovelli è giurista, psicoterapeuta e musicoterapeuta. È stato professore di diritto pubblico presso l’Università degli Studi di Genova e docente di musicoterapia al Cep di Assisi. Nel 1998 fonda l’associazione Aleph Umanistica, scuola di crescita personale che coniuga la formazione psicologico-relazionale, interiore e spirituale, con quella costituzionale, relativa al mondo esterno.

Vive e lavora a Camogli, insieme a un gruppo di ‘monaci-ricercatori’ che hanno deciso di dedicare la loro vita all’applicazione più integralista non di testi sacri, bensì della Costituzione italiana. Per la sua autoproposta al Colle sono state raccolte oltre 20mila firme online con l’iniziativa ‘Vogliamo Mauro Scardovelli come Presidente della Repubblica’. Nel testo dal titolo ‘Il Nuovo Rinascimento‘ con il quale Scardovelli suggella la sua candidatura in modo entusiastico precisa che “non era la prima volta che ricevevo messaggi in tale direzione”, e si riserva come primo nome di candidare “Paolo Maddalena, che considero il mio Maestro”.

Nel testo che snocciola il programma per un “presidente scelto dal basso, dal Popolo, per ripristinare la legalità Costituzionale, violata da tutte le altre Istituzioni, che hanno tradito la Costituzione, aderendo al modello ad essa antitetico: il Neoliberismo” vengono citati molti “pensatori più illuminati e coraggiosi del nostro tempo”, da Diego Fusaro a Ermanno Bencivenga passando per Fulvio Grimaldi. Rifacendosi alle “dirette come quella di Robert Kennedy a Milano, o del processo di Assange a Londra, o della settimana intera a Trieste a seguire i portuali, o di Firenze dove nessuna televisione voleva andare, a seguire la vicequestore Schilirò, i convegni come l’International Covid Summit, Sapiens³”.

Non manca ovviamente la totale sfiducia nei media: “Tutto questo ha prodotto la Tv dei Cittadini in soli tre mesi guadagnandosi la fiducia di milioni di italiani mentre le redazioni dei TG tradizionali chiudevano per mancanza di ascolti. Siamo arrivati fino a qui solo ed esclusivamente grazie a voi. L’Italia è quel Paese dove i cittadini si pagano una televisione di tasca loro perché quelle grandi li hanno stufati“.

Il primo punto cita testualmente: “Come Presidente della Repubblica scelgo due canali Rai, Rai televisione 1 e Rai radio 1 che siano a me interamente dedicati” poi come esimersi dal “discorso del Presidente di fine anno, trasmesso a reti unificate”. Il programma prosegue poi allontanandosi dall’esaltazione della persona per “valorizzare la nostra piccola impresa, i nostri medici italiani, i nostri fisici italiani” per poi incontrarsi nel punto di convergenza con altri partiti che dall’Europa vogliono uscire. Necessario è il “recupero della sovranità monetaria“.

Le richieste si fanno più nebulose con “l’incompatibilità della democrazia Costituzionale con una popolazione che è fatta, quasi esclusivamente, di narcisisti” di cui non se ne capisce benissimo il fine, e neppure il significato pratico. Seguita da una paventata ‘soluzione’ al problema del “narcisismo dilagante” per poi virare su una fantomatica educazione pedagogica “ai nuovi valori Costituzionali, Spirituali, Cristici”. Non manca l’energia pulita “inesauribile”, l’aspirazione robespierriana di “mettere al servizio dei Popoli, anziché delle élite, le nuove straordinarie tecnologie mediche di ultima generazione, oggi disponibili” da cui, non è chiaro, se sia più importante aiutare i poveri o privare i ricchi.

Sulla salute torna con quello che forse è il punto più oscuro “promuovere la vera medicina: quella preventiva” e poi sulla pandemia: “Covid e vaccini, la mia esperienza personale e l’azione giudiziaria“. Imperdibile infine il punto “Come realizzare il paradiso in Terra“. Una rivoluzione costituzionale dell’Italia che secondo Scardovelli parte “dalla pratica della preghiera come premessa” e che si svolgerà “all’interno di un contesto dove l’humor, il gioco e l’Eros sono sempre presenti e la violenza assente”.

Non c’è bisogno di aggiungere altro. “Quello che facciamo parla da solo”, se no fa niente, dice Scardovelli: “Siam pronti alla morte“.

Vittima due volte di errori giudiziari. Serafino Generoso, chi è l’ex assessore regionale vittima di malagiustizia votato per il Quirinale. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Per due volte arrestato e incarcerato, per due volte assolto con la formula del “fatto non sussiste”. È la storia di malagiustizia che ha visto protagonista Serafino Generoso, fino al 1992 potente assessore ai Lavori Pubblici democristiano della Regione Lombardia, che oggi nel secondo giorno di votazioni per l’elezione del presidente della Repubblica ha incassato cinque voti.

Avvocato 73enne di Pozzo d’Adda, nell’hinterland milanese, si vide arrestare per la prima volta nel 1992, il 25 novembre, mentre in Regione la sua Dc aveva chiuso l’accordo per la giunta col Psi guidata da Fiorella Ghilardotti.

“Dieci giorni di custodia cautelare per una storia di mazzette negli appalti post alluvione in Valtellina”, raccontò in una intervista al Giornale Generoso, che poche ore dopo quell’intesa “ero a San Vittore”. Una prima vicenda giudiziaria da cui l’assessore democristiano esce assolto e risarcito con 50 milioni di lire.

I magistrati però non si fermano: l’anno successivo il secondo arresto con 21 giorni trascorsi in carcere. Questa volte l’accusa è di tentata concussione in relazione a presunte tangenti per la realizzazione della centrale Enel di Turbigo, in provincia di Milano.

Risultato? Assolto dalla seconda sezione penale del tribunale di Milano, mentre la pm Margherita Taddei aveva chiesto per lui una condanna a 2 anni e 8 mesi di reclusione. 

“Sono stato arrestato due volte ed in entrambi i casi assolto perché il fatto non sussiste. Sono contento ma certo c’è tanta amarezza per quello che ho subito. In questi anni ho ripetuto sempre che non c’entravo nulla ma è stato veramente difficile farsi ascoltare”, dichiarava dopo la seconda assoluzione l’ex assessore. 

Su quelle vicende, sul suo essere vittima di malagiustizia, Generoso tornerà a parlare in una intervista a Il Giornale del 2011. I problemi, manco a dirlo, erano gli stessi di quelli odierni: “La custodia cautelare resta un problema grave. Andrebbe limitata ai fatti di sangue, e per quelli amministrativi usata solo in casi estremi”, denunciava 11 anni fa Generoso. Non solo, parole nette anche sull’obbligatorietà dell’azione penale, che “si traduce con potere discrezionale. Va abolita, ma è l’intero sistema che va riformato, dai tempi dell’indagine alla responsabilità civile dei magistrati”.

Oggi un ‘riconoscimento’ nei suoi confronti da parte di cinque grandi elettori, che nel segreto dell’urna hanno deciso di ricordare così una delle tante vittima di malagiustizia del nostro Paese.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Pera, Moratti e Nordio: ecco la rosa del centrodestra. I leader della coalizione presentano tre nomi per il Quirinale. Il segretario leghista: "Spero che non ci saranno veti a priori". Il Dubbio il 25 gennaio 2022.

La rosa di tre nomi del centrodestra comprende «Marcello Pera, Letizia Moratti e Carlo Nordio» e nessuno dei tre «ha la tessera di un partito in tasca». Ad annunciarlo nella seconda giornata di voto per il prossimo presidente della Repubblica è il leader della Lega, Matteo Salvini, nel corso della conferenza stampa del centrodestra di oggi.

«Speriamo che gli altri abbiano la voglia di confrontarsi nel merito sui nostri nomi» dice il leader della Lega. «Non si tratta di candidati di bandiera perché noi non abbiamo bisogno di fare giochetti – avverte – sono personalità di alto profilo che pensiamo possano rappresentare la comunità italiana al meglio». «Io – dice – non sono qui a imporre niente a nessuno». «Non presentiamo dirigenti di partito anche se c’è qualcuno seduto a questo tavolo avrebbe tutti i titoli per ambire a questa carica», sottolinea poi il leader della Lega riferendosi ad Antonio Tajani, presente in conferenza stampa e citato per l’alto profilo internazionale. «Non c’è invece il nome di Elisabetta Alberti Casellati perché riteniamo le cariche istituzionali debbano essere tenute fuori», aggiunge il leader leghista dopo aver escluso il nome di Draghi. «Abbiamo fatto una lunga e proficua riunione. Il centrodestra è compatto, ci muoviamo all’unisono dall’inizio alla fine di questo percorso. C’è e ci sarà accordo, sono soddisfatto del clima». Poco dopo è arrivato il commento di Enrico Letta, il quale fa sapere che «sono nomi sicuramente di qualità, li valuteremo senza spirito pregiudiziale».

«Frattini pare non vada bene a prescindere, io non lo conosco, Casini poi in una rosa di centrodestra non c’è. E Draghi sta a Chigi e lavora bene a Chigi», aveva commentato Salvini dopo il veto dem sul nome di Frattini. «Sto lavorando per arrivare a un sì, non dico no preventivi, mi auguro che nessuno dica che la cultura liberale e moderata non possa fare proposte», aveva annunciato Salvini. «Noi non andiamo a proporre il Prodi di turno, vorremmo quindi quantomeno discuterne», aveva sottolineato dopo l’assemblea con i grandi elettori, sul tema della rosa che verrà proposta dal centrodestra.

I tre nomi presentati dal centrodestra «non sono candidati di bandiera, né di tattica, ma personalità di altissimo profilo», ribadisce Giorgia Meloni parlando alla conferenza stampa dei leader. «Non sono proposte buttate li», assicura la leader di Fdi.  «Esprimo la soddisfazione di Fdi per la compattezza e l’unità con cui la coalizione di centrodestra sta affrontando questo passaggio politico così importante – sottolinea -. Chi spera in una nostra disarticolazione sta rimanendo spiazzato…».

Chi sono i candidati del centrodestra al Quirinale: Moratti, Pera e Nordio per la corsa al Colle. Carmine Di Niro su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Tre nomi per la corsa al Quirinale. Sono quelli lanciati dal centrodestra nel pomeriggio, in una conferenza stampa tenuta a Montecitorio, nella stessa sala dove Matteo Renzi ritirò le ministre Bellanova e Bonetti facendo di fatto cadere il secondo governo Conte.

Matteo Salvini ha annunciato infatti per la corsa al Quirinale l’ex presidente del Senato Marcello Pera, l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo (ex sindaco di Milano ed ex ministro dell’Istruzione) Letizia Moratti.

Fuori dunque dalla ‘rosa dei nomi’ l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani e la presidente del Senato Elisabetta Casellati. “È una terna che offriamo alla discussione — ha detto Matteo Salvini illustrando la proposta — sperando che non ci siano veti”. Obiettivo, ha ricordato ancora Salvini, “è l’apertura al dialogo e fare in fretta. Non diciamo no pregiudizialmente a nessuno e speriamo che anche gli altri si confrontino nel merito”.

Salvini ha voluto anche rimarcare come nei tre nomi proposti non ci sono “dirigenti di partito anche se ovviamente, e lo dico io, c’è qualcuno a questo tavolo che non avrebbe un titolo ma tantissimi per ambire a questa carica, a proposito di europeismo, atlantismo, dimestichezza con le diplomazie”.

Il riferimento è ad Antonio Tajani, il coordinatore di Forza Italia presente accanto a Salvini nella sala conferenze della Camera: “Uno come lui ha i titoli per ambire alla carica anche se è un capo di partito”, ha infatti sottolineato il leader del Carroccio.

In merito alla mancata candidatura della Casellati, Salvini ha spiegato che la sua assenza nella ‘rosa dei nomi’ è perché il centrodestra “vuole che le cariche istituzionali siano tenute fuori e abbiano in sé la dignità di essere una possibile scelta“. In realtà proprio la mancata candidatura ufficiale nella ‘rosa’ appare come il segnale di voler ‘coprire’ il nome della seconda carica dello Stato, vera carta del centrodestra per il Quirinale.

Giorgia Meloni, intervenendo nella conferenza, ha invece rimarcato che gli ultimi quattro presidenti della Repubblica sono espressione del centrosinistra e che nel rispetto del principio di alternanza il nuovo capo dello Stato può avere una appartenenza culturale diversa, anche alla luce della maggioranza relativa in Parlamento di Fratelli d’Italia e gli altri partiti della coalizione.

Nomi che hanno visto una prima parziale apertura da parte di Enrico Letta, il segretario del Partito Democratico che sempre nel pomeriggio farà assieme a Movimento 5 Stelle e Leu una ‘controproposta’ sui candidati per il Colle. Secondo Letta dal centrodestra sono arrivati “nomi di qualità” che saranno valutati “senza pregiudizi“, ha spiegato il segretario Dem parlando con i giornalisti in Transatlantico.

Marcello Pera

Già presidente del Senato dal 2001 e dal 2006 col centrodestra a trazione berlusconiana, ha un passato da accademico come professore di Filosofia della scienza all’università di Pisa. Prima vicino al Psi, Pera passa in Forza Italia nel 1994 e viene subito eletto senatore, carica che ricopre fino al 2013.

Una vita politica ambivalente: durante la stagione di Mani Pulite Pera cavalca gli istinti più giustizialisti, quindi il cambio radicale e l’approccio garantista con Forza Italia. Stessa cosa anche nell’ambito religioso: definitosi in passato “non credente”, Pera si avvicinerà al pensiero cristiano arrivando addirittura a firmare un libro sulle radici cristiane dell’Europa assieme all’allora cardinale Joseph Ratzinger.

Carlo Nordio

Ex magistrato 74enne, ora in pensione, si è occupato nella lunga carriera trascorsa a Venezia delle inchieste sul Mose, sulla Tangentopoli delle cooperative rosse e del terrorismo, in particolare delle Brigate Rosse.

Il nome di Nordio è stato espresso come candidato nella ‘rosa’ del centrodestra da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.

Letizia Moratti

Assessore al Welfare della Regione Lombardia, chiamata a sostituire Giulio Gallera nel pieno dell’emergenza Covid dal presidente Attilio Fontana, è anche vicepresidente della Giunta. In passato è stata sindaca di Milano dal 2006 al 2011 e in precedenza ministro dell’istruzione nel governo Berlusconi (tra il 2001 e il 2006) e presidente della Rai tra il 1994 e il 1996.

Formalmente Letizia Moratti non è iscritta ad alcun partito del centrodestra, ma è da sempre considerata vicina al leader di Forza Italia Silvio Berlusconi.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il nome 'Quirinabile' per Fratelli d'Italia. Chi è Carlo Nordio, l’ex magistrato proposto da Meloni come presidente della Repubblica. Fabio Calcagni su Il Riformista il 24 Gennaio 2022.

C’è un nome nuovo tra i ‘Quirinabili’, i nomi che da giorni ormai circolano nelle stanze dei partiti in subbuglio per trovare il profilo adatto per la presidenza della Repubblica. A farlo è stata Giorgia Meloni, la leader di Fratelli d’Italia che ha proposto per il Colle l’ex magistrato Carlo Nordio.

“Molte personalità, che provengono dall’area del centrodestra, avrebbero il curriculum e lo standing per ricoprire il ruolo di presidente. Nomi come quello di Marcello Pera, Letizia Moratti, Elisabetta Alberti Casellati, Giulio Tremonti, Franco Frattini sono tutti autorevoli. Io ho chiesto di allargare la rosa anche alle personalità che non hanno un trascorso politico e per questo abbiamo aggiunto il nome di Carlo Nordio, su cui ci pare difficile che si possano muovere obiezioni”, ha detto la Meloni ai suoi grandi elettori riuniti in assemblea.

Le chance di elezione sembrano però particolarmente limitate. Era stato lo stesso Nordio la scorsa settimana a stroncare una ipotesi di questo tipo, dopo che il suo nome era iniziato a rimbalzare nel centrodestra. “Credo che la carica di capo dello Stato debba esser affidata a un politico, e la mia cultura politica è esclusivamente teorica, non ho mai fatto parte neanche di un Consiglio comunale. Comunque, se cercassero tra i giuristi, ce ne sono molti assai più preparati e autorevoli di me”, aveva spiegato l’ex procuratore di Venezia.

Ex magistrato, nato a Treviso nel febbraio del 1947, Nordio è stato procuratore aggiunto di Venezia e titolare dell’inchiesta sul Mose di Venezia, oltre a essere protagonista della ‘stagione’ di Mani pulite con le inchieste sulle cooperative rosse.

Non solo: Nordio nella sua lunga attività in magistratura indagò anche sul terrorismo rosso, quello delle Brigate rosse. Ma il suo focus sono sempre stati i reati economici e di corruzione: fino al 2017, anno del suo pensionamento, si è occupato di questi ‘settori’ come procuratore aggiunto della Procura di Venezia.

Nordio è stato particolarmente attivo anche sul fronte delle pubblicazioni. Ha collaborato a lungo con giornali e riviste giuridiche, tra cui i quotidiani Il Messaggero, Il Gazzettino e il Tempo. Con l’ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia è stato co-autore del libro “In attesa di giustizia. Dialogo sulle riforme possibili”, pubblicato nel 2010.

Dopo la pensione per limiti di età nel febbraio 2017, avendo compiuto 70 anni, Nordio è diventato collaboratore del quotidiano romano Il Messaggero e dal 2018 componente del CdA della Fondazione Luigi Einaudi Onlus.

Nel 2000 fu anche al centro di una campagna di stampa e di polemiche politiche per una vicenda di cronaca che aveva seguito come magistrato. Nordio infatti convalidò il sequestro della macchina e la denuncia per favoreggiamento della prostituzione di un geometra incensurato di 25 anni, che stava accompagnando una prostituta moldava. Imputato che si suicidò per la vergogna, con Nordio che venne di fatto ‘accusato’ di aver provocato il gesto estremo del 25enne.

L’ex magistrato, passando alla vita privata, celebrò il matrimonio di Adriano Panatta, unico tennista italiano capace di vincere una prova dello Slam, il Roland Garros. Nordio sposò con rito civile Panatta con Anna Bonamigo nell’ottobre del 2020.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket. 

Carlo Nordio, l'ex toga che indagò sulle tangenti del Pci e critica i magistrati. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

Magistrato in pensione dal 2017, si è occupato di Br, sequestri di persona, tangenti, Mose. Ma Carlo Nordio, trevigiano, 73 anni, non ha mai fatto difesa corporativa della sua categoria, anzi sulla magistratura italiana ha espresso profonde critiche arrivando a dire che la politica la «fa da padrona» sia nell'Anm che nel Csm. Giudice istruttore a Venezia, poi pubblico ministero, all'inizio degli anni Ottanta ha portato avanti l'inchiesta sulle colonne venete delle Br e poi su alcuni rapimenti. Durante Mani Pulite indagò sui finanziamenti al Pci-Pds dalle coop rosse, filone che gli costò dei problemi. «Nel '97, la giunta dell'Associazione nazionale magistrati mi convocò a Roma per un'audizione davanti ai probiviri... Mi chiamarono a causa delle interviste in cui avevo detto che la politica non era poi così corrotta come sembrava perché in Italia solo in un determinato periodo tutti i partiti, e sottolineo tutti, venivano finanziati in modo illegale e clandestino... Il Pci non aveva nessuna legittimazione a dare lezioni di moralità tenuto conto che il Pci veniva finanziato dall'Urss, ovvero da un Paese nemico. Ricordo l'onorevole Pietro Folena che, al limite dell'oltraggio, ci dipinse come una "procura fascista"» ha raccontato Nordio.

Consulente della Commissione parlamentare per il terrorismo e le stragi (1997-2001), presidente della Commissione per la riforma del codice penale (2002-2006), ha scritto libri molti critici sulla gestione della giustizia. Sul caso Palamara dice :«Adesso tutti si scandalizzano per le riunioni carbonare fra i consiglieri e i politici, ma da sempre la politica la fa da padrona a Palazzo dei Marescialli e nell'Associazione nazionale magistrati. Basta riflettere sulle correnti che sono costruite a imitazione dei partiti, con una destra, un centro e una sinistra. Le nomine sono pilotate, se non hai la sponsorizzazione di questa o quella corrente non puoi aspirare a uffici importanti».

Ama l'equitazione e i libri antichi, di cui è un appassionato collezionista e raffinato lettore. In passato lo si è anche intravisto a Parigi, sui Lungosenna, dove andava ad acquistarli. L'idea di essere candidato al Quirinale, confessa, gli fa «tremare i polsi». Paolo Bracalini

L'ascesa del forzista. Chi è Marcello Pera, il candidato del centrodestra al Quirinale che negli anni ha criticato Lega e Berlusconi. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Le mosse di Matteo Salvini agitano il centrodestra. Il leader del Carroccio che si sfrega le mani per un possibile ritorno alle urne, gioca la carta di altri nomi per la corsa al Quirinale. In una conferenza stampa tenuta a Montecitorio, il leghista ha messo sul piatto anche il nome di Marcello Pera che, insieme agli altri due (l’ex magistrato Carlo Nordio e l’attuale assessore regionale lombardo Letizia Moratti), non “ha una tessera di partito ma ha ricoperto ruoli importanti”, ha detto Salvini.

Toscano, classe 1943, vanta un’esperienza istituzionale. Sempre appoggiato dall’area del centrodestra, Pera, è stato presidente del Senato dal 2001 al 2006, dopo un passato da accademico come professore di Filosofia della scienza all’università di Pisa. Pera, infatti, è anche filosofo, accademico, scrittore. Si è laureato in filosofia all’Università di Pisa nel 1972, con 110. La leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni lo ha presentato come il candidato che “ha il curriculum”.

Il suo percorso politico è stato però accidentato. Prima è entrato nel Psi e poi, nel 1994, è passato a Forza Italia, di cui diventa coordinatore nazionale della Convenzione per la riforma liberale. È stato eletto senatore, carica che ha ricoperto fino al 2013. Nel 1998 è diventato vicepresidente del Gruppo di Forza Italia a Palazzo Madama. Nel 2001 è stato eletto al primo scrutinio Presidente del Senato della Repubblica, seconda carica dello Stato, che manterrà fino al 2006.

Pera non ha mai avuto una buona idea dei leader di partiti che ora lo stanno promuovendo per salire al Quirinale. Prima del 1994, e quindi prima del suo ingresso in Fi, Pera definiva il Cavaliere “un cabarettista azzimato” e persino “un venditore televisivo di stoviglie”. Inoltre, non ha sempre appoggiato le posizioni della Lega: all’inizio descriveva il Carroccio come un movimento che “rischia di essere eversivo, portando alla divisione del Paese”. Lo scorso anno, poi, la virata salviniana. “Salvini? Mi sembra un leader su cui si può scommettere per costruire una nuova cultura di governo”. Parole subito condivise sui social dal leader della Lega.

Durante la stagione di Mani Pulite, Pera ha abbracciato la morale giustizialista, criticando apertamente la corruzione della politica. Posizione che lo ha portato a schierarsi senza riserve dalla parte dei magistrati di Milano. Poi il cambio radicale: abbandona le posizioni giustizialiste temperandole in senso garantista.

Anche il suo iter religioso ha conosciuto una svolta. Definitosi in passato “non credente”, si è poi avvicinato al pensiero cristiano arrivando a scrivere diversi libri e saggi.

Nel 2004, ha firmato con il cardinale Joseph Ratzinger, che poi diventerà papa Benedetto XVI, il libro “Senza radici”. Nel 2008 ha scritto il saggio “Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l’Europa, l’etica”. Il forzista non appoggia le posizioni sui migranti di Papa Francesco, che, per lui, sconfinano nel “fare politica”. Dopo aver attaccato Bergoglio per aver reso la Chiesa una sorta di Ong, non ha mancato di criticare il Papa nemmeno per la sua visione green: “Ha trasformato Greta (Thunberg) in un idolo”, ha detto.

I QUIRINABILI. Quirinale: ecco chi è Marcello Pera, nella rosa di candidati di centrodestra. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 25 gennaio 2022.

L’ex presidente del Senato che fa parte della “rosa” del centrodestra nel 1993 descriveva la Lega come una forza eversiva, oggi vede in Salvini un nuovo leader. Papa Francesco sui migranti per lui «ha trasformato la chiesa in una specie di Ong». D’accordo su Renzi con il referendum del 2016, ha criticato spesso Berlusconi

Il centrodestra ha nella sua “rosa” di candidati Marcello Pera, l’ex presidente del Senato di Forza Italia. Il suo nome non dispiace nemmeno a Matteo Renzi, il leader di Italia viva con cui in passato ha condiviso la battaglia per il sì al referendum costituzionale del 2016. Critico con papa Francesco, Pera vede nell’immigrazione un rischio.

L’elezione arriverebbe in prossimità del suo compleanno: il forzista (che oggi non ha più la tessera) è nato a Lucca il 28 gennaio 1943. Professore ordinario di Filosofia della Scienza all’università di Pisa, ha condiviso la sua carriera politica con Silvio Berlusconi, anche se è celebre la sua frase del 1994: «Berlusconi è a metà strada tra un cabarettista azzimato e un venditore televisivo di stoviglie, una roba che avrebbe ispirato e angosciato il povero Fellini».

Il primo ingresso in parlamento è del 1996. Si candida e perde nell'uninominale a Lucca, ma grazie al recupero del proporzionale in Toscana entra per la prima volta in Senato e ci resterà fino al 2013. Dal 2001 al 2006 ha ricoperto la carica di presidente del Senato in quota Pdl, la seconda carica dello stato.

LA CHIESA E I MIGRANTI

«Quale prezzo il cristianesimo paga alla dottrina dei diritti umani? Può pagarlo? E se lo paga, aggiorna o trasforma il messaggio cristiano?» gli interrogativi che Pera, uscito dal parlamento, si poneva nel saggio del 2015 Diritti umani e cristianesimo. «Penso che, accettando i diritti umani, in particolare i diritti sociali - rifletteva Pera - la Chiesa abbia riveduto il suo tradizionale insegnamento che mette al centro del comportamento cristiano i doveri dell'uomo verso Dio».

Nel 2004, è autore con il cardinale Joseph Ratzinger, che poi diventerà papa Benedetto XVI, del libro Senza radici. Nel 2008 scrive il saggio Perché dobbiamo dirci cristiani. Il liberalismo, l'Europa, l'etica.

Pera, contro «l’ideologia dei diritti», non apprezza papa Francesco. La posizione di accoglienza ai migranti per lui sconfina nel «fare politica»: «Francamente questo Papa non lo capisco, quanto dice è al di fuori di ogni comprensione razionale. evidente a tutti che un’accoglienza indiscriminata non è possibile», diceva nel 2017. E chiedeva: «Perché manca di un minimo di realismo, di quel poco che è richiesto a chiunque?». E accusava Bergoglio di usare il Vangelo per fini politici. Nel 2019 ha detto che papa Francesco «ha ridotto o la chiesa a una specie Ong».

Non solo, anche l’ambientalismo di Francesco non gli piace: «Ha trasformato Greta (Thunberg, l’attivista svedese) in un idolo, corre dietro a visioni solidaristiche, politiche e sociali, al buonismo».

CONSERVATORE LIBERALE

Sul piano politico e culturale, il politico si definisce un "conservatore liberale".  Il caso vuole che nel 1995 abbia firmato con Luigi Manconi, oggi il candidato ufficiale alla presidenza della Repubblica di Sinistra italiana e dei Verdi, un appello per l'uso delle droghe leggere.

In più occasioni si è detto a favore delle unioni gay, criticando invece la chiesa: «La chiesa italiana ha subìto il divorzio, l’aborto. Si rassegnerà anche alle unioni civili» aveva affermato in occasione dell’approvazione della legge Cirinnà. 

IL RAPPORTO CON LA LEGA

Mentre adesso sembra pronto a diventare il nome che unisce il centrodestra, nel 1993 i rapporti con la Lega non erano buoni: «La Lega Nord è un movimento che, anche non è programmaticamente eversivo, rischia di esserlo, e può effettivamente portare alla divisione del Paese. Non c’è una risposta democratica alla Lega sul terreno della Lega». Sette anni dopo, Salvini diventa l’uomo su cui costruire una nuova cultura di governo.

RENZI E REFERENDUM

Non è strano che il nome sia gradito al leader di Italia viva, Matteo Renzi. Nel 2016 Pera si è schierato dalla parte di Renzi contro Berlusconi sul referendum costituzionale, al punto da portare avanti l’appello “Liberi Sì'” firmato da trentacinque ex parlamentari di Forza Italia: «Sono uomini e donne che hanno fatto la storia di Forza Italia. Tra loro c'è chi ha ricoperto il ruolo di ministro, di sottosegretario, di presidente di Regione». Lui per primo a spendersi per mantenere Renzi al governo.

L’ex premier non ha escluso l’appoggio della sua compagine qualora fosse una reale possibilità per il Colle: «Quasi tutti gli ex presidenti di assemblea sono da sempre quirinabili, specie se hanno svolto il compito con rigore istituzionale e con apprezzamento complessivo».

L’ipotesi di una convergenza tra Salvini e Renzi circola da ottobre, anche se Pera è rimasto sempre vago: «Se smentisco confermo» ha detto a fine dicembre a Libero. 

LE PRESSIONI PER ENEL

Nel suo curriculum ci sono anche rapporti poco chiari con il tessuto economico. Marco Travaglio e Peter Gomez, nel loro saggio Se li conosci li eviti, una sorta di antologia delle biografie dei candidati in vista delle elezioni politiche del 2008, ricordano le sue vicende giudiziarie. Pera, scrivono, compare in un’indagine archiviata dalla procura di Lucca nel 2007 per presunte pressioni sul sindaco di Lucca, Pietro Fazzi, e sui vertici della Lucca Holding Spa e della Gesan Gas Spa per portare a termine un affare con Enel.

L’«indebita» ingerenza rilevata dai giudici dell’allora presidente del Senato risultava riscontrata, tuttavia il reato di concussione era indimostrabile, in quanto quelle pressioni erano state fatte per «non pregiudicare i rapporti tra Enel e presidente del Senato», dunque senza che ci fosse alcuno scambio di denaro.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Marcello Pera, l'amico laico di Ratzinger che guidò il Senato. Può avere i voti di Renzi. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale. 

Berlusconiano della prima ora (il 1994), l'apice politico di Marcello Pera è la presidenza del Senato raggiunta nel 2001, alla sua seconda legislatura da senatore con Forza Italia. Filosofo, accademico di area liberale, Pera nasce come un laico ma negli ultimi anni si avvicina al cattolicesimo grazie al magistero di Joseph Ratzinger, con cui ha un legame di amicizia e sintonia di pensiero (hanno scritto insieme un libro, Senza radici. Europa, relativismo, cristianesimo, islam), mentre è molto critico sul pontificato di Bergoglio. Dopo il 2013, quando finisce la sua carriera parlamentare, Pera torna ai suoi amati studi, ma sempre con la politica sullo sfondo. Nel 2016, insieme ad altri padri nobili di Fi come Giuliano Urbani si schiera per il Sì al referendum costituzionale lanciato da Renzi. Presiede il comitato «Liberi Sì» per radunare «tutti quei liberali, democratici, popolari, che ritengono che il referendum sia l'occasione preziosa e irripetibile per rendere le nostre istituzioni più efficienti, più snelle, più trasparenti». Il referendum finisce male, come noto, ma quella posizione di Pera potrebbe ora servire per raccogliere i voti di Italia viva. Nel 2018 è stato nominato dall'allora premier Giuseppe Conte presidente del «Comitato storico-scientifico per gli anniversari di interesse nazionale».

La genesi politica di Pera in realtà è negli anni '80 con il Psi. Nel 2004 andrà ad Hammamet in visita alla tomba di Bettino Craxi, da lui definito un «patrimonio della Repubblica», che appartiene alla «storia della sinistra italiana». Poi agli inizi degli anni '90 si schiera con i magistrati nella lotta alla corruzione politica, mentre negli anni successivi prende le distanze da quello che definisce il «giustizialismo dei giudici». Nel 2001, prima di essere nominato presidente del Senato, si fa il suo nome per il ministero della Giustizia. Per il quale ha un programma immediato: far fuori la scrivania che fu nel 1946 del Guardasigilli comunista Palmiro Togliatti (l'anticomunismo è un altro pilastro del suo pensiero). Filosofo e pensatore, ma anche abile tessitore di rapporti. Dietro la sua candidatura c'è una rete che va da Denis Verdini, a Salvini (anche per il tramite della leghista toscana Susanna Ceccardi), a Franceschini e Luca Lotti nel Pd, a Di Maio e Conte con cui si è sentito. Paolo Bracalini

Letizia Moratti, la lady di ferro al timone di ministeri, Rai e Milano. Sarebbe la prima donna. Paolo Bracalini il 26 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La carica pubblica per cui è più nota è quella di sindaco di Milano, nel 2006, dopo Albertini e prima di Pisapia. È con lei che nasce la candidatura di Milano all'Expo 2015 che sarà poi un successo (per Sala). Ma di cariche e poltrone prestigiose è piena la vita di Letizia Maria Brichetto Arnaboldi, vedova Moratti (il petroliere Gian Marco Moratti, presidente della Saras, morto qualche anno fa). Nel secondo governo Berlusconi era già stata ministro dell'Istruzione dando prova di un carattere da lady di ferro (Montanelli diceva di lei «soave pugno di ferro»), celebri le sue liti con Tremonti per i fondi alla scuola. Da ministro scese in piazza a Milano per celebrare il 25 aprile. Sfidando i fischi e le contestazioni degli autonomi, festeggiò la Liberazione insieme al papà, il «partigiano bianco» insignito di due medaglie al valor militare, incassando la solidarietà del centrosinistra, da Prodi alla Cgil. Ha guidato la Rai per un biennio, provando a privatizzarne un canale in seguito al referendum sulla tv pubblica del '95, missione impossibile anche per lei.

Milanese classe '49, a 25 anni manager in campo assicurativo e poi presidente di News Corp Europe del gruppo Murdoch, poi appunto la carriera politica, gli incarichi in società e banche, dal gruppo Carlyle alla Bracco a Ubi Banca, di cui è stata presidente fino al 2020, quando è tornata in prima linea come vicepresidente e assessore al Welfare (con delega sul servizio sanitario regionale) chiamata da Berlusconi e Salvini per raddrizzare la campagna vaccinale anti-Covid in Lombardia. L'altro campo a cui si dedica da una vita è il sociale, con l'impegno decennale nella Comunità di San Patrignano, che la convinse a lasciare il consiglio comunale di Milano. E poi la cooperazione internazionale, nel 2015 ha fondato la E4Impact Foundation, di cui è presidente (Obiettivo: «Formare una nuova generazione di imprenditori a forte impatto sociale in Africa»). Nel 2018 firma insieme agli altri ex sindaci di Milano una lettera a sostegno del presidente della Repubblica Sergio Mattarella sotto attacco del M5s (che minacciò persino l'impeachment). Prima, nel 2016, il suo sì al referendum costituzionale del governo Renzi. È stata la prima donna sindaco di Milano, la prima donna a guidare la Rai. Potrà esserlo anche per il Colle? Paolo Bracalini

Chi è Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Conte. Giampiero Casoni il 25/01/2022 su Notizie.it.

L'uomo che potrebbe essere il grimaldello per i grandi elettori del M5S: chi è Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Conte

Franco Frattini, il candidato al Quirinale che piace perfino a Giuseppe Conte, potrebbe essere l’uomo giusto. Per cosa e per chi mentre decade il Mattarella bis? Il due volte ministro degli Esteri e fautore della legge sul conflitto di interessi, oggi presidente del Consiglio di Stato, potrebbe diventare l’uomo da indicare per il Colle se sul perennemente intraversato Mario Draghi non si trovasse la quadra.

Frattini potrebbe entrare in lizza del centrodestra alla quarta chiama con il quorum un po’ sgonfiato.

Franco Frattini, il candidato “ideale” per sopravvivere alla quarta chiama e per andare al Quirinale

Quale rosa? Open la riassume: Elisabetta Casellati Carlo Nordio, Marcello Pera, Gianni Letta,Letizia Moratti ed Antonio Tajani. Questi in superficie e col 90% di loro destinato a fare “ammuina”, poi con Frattini palombaro che potrebbe sbancare. Perché? Perché Franco Frattini piace anche fuori dal recinto del centrodestra, piace ai Cinquestelle per una serie di “piacionerie” vissute a suo tempo con Giuseppe Conte.

Chi ha fatto il nome di Franco Frattini come candidato al Quirinale non solo del centrodestra

E non è un caso che l’ex premier abbia fatto il nome di Frattini con il playmaker del centrodestra Matteo Salvini. Franco Frattini è nato nel 1957 a Roma. È laureato in giurisprudenza, ha fatto l’avvocato di Stato nel 1984 ed è passato al Tar Piemonte. Frattini è stato due volte alla guida della Farnesina nei governi Berlusconi. Nel governo Dini ebbe invece la Funzione Pubblica.

Dopo il 2012 lasciò Forza Italia per passare con Scelta Civica di Monti. Consigliere giuridico di Claudio Martelli e già segretario generale della presidenza del Consiglio nel 1994, ha presieduto il Comitato di Controllo dei servizi segreti. Dalla Farnesina caldeggiò l’appoggio logistico all’invasione dell’Iraq da parte degli Usa ed è l’autore della legge sul conflitto d’interessi del 2004. Frattini è buciabile come gli altri ma qualche skill aggiuntiva ce l’ha. Glie la potrebbe dare proprio Salvini, che sta cercando di portare a casa non solo un presidente, ma anche un esecutivo gradito.

La regia di Salvini e l’opzione di Franco Frattini candidato al Quirinale, con “l’aiuto della Russia”

Se Draghi va al Colle Salvini vuole uno scranno da ministro, se Draghi resta vuole accreditarsi come regista di un’operazione che metta sotto i corazzieri un uomo su cui ha lavorato lui, magari con l’inavvicinabile (si far per dire) Conte. Ma quali furono le “piacionerie” che Frattini e Conte si fecero e che potrebbero fare breccia nella hit del presidente M5S? C’entra la Russia: Frattini fu con Conte nel chiedere lo stop delle sanzioni europee a Mosca e nel 2018 lo accreditò con Sergey Lavrov, il potentissimo capo dei diplomatici di Putin.

Grazie dei fior, però… Così i giallo-rossi rifiutano i nomi del centrodestra. Pd, M5S e Leu rispediscono al mittente la terna Moratti-Pera-Nordio, senza lanciare una rosa alternativa al centrodestra. Letta propone un conclave a tutti i partiti. Rocco Vazzana su Il Dubbio il 25 gennaio 2022.

Grazie dei fior, ma non possiamo accettare. Risponde più o meno così, in serata, il trio Letta-Conte-Speranza alla rosa dei nomi per il Quirinale presentata dal centrodestra. Nessun appunto sui profili scelti, definiti inizialmente «di qualità», ma i giallo-rossi preferirebbero figure maggiormente condivise. Senza però mettere sul piatto controproposte utili.

Il vertice del centrosinistra, infatti, si conclude con la scelta di non fornire rose alternative, un po’ per evitare un clima da contrapposizione e un po’ per nascondere le profondissime divisioni interne. «Prendiamo atto della terna formulata dal centrodestra che appare un passo in avanti, utile al dialogo», fanno sapere i tre leader giallo-rossi, convinti però che «che su quei nomi» non «possa svilupparsi la larga condivisione in questo momento necessaria». Porta educatamente chiusa in faccia, dunque a Letizia Moratti, Carlo Nordio e Marcello Pera, i tre candidati, «senza tessere di partito in tasca» proposti da Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani.

Lo schema digiallo-rosso pretende un profilo «super partes». Che per Letta significa Mario Draghi e per Conte chiunque tranne l’attuale premier. Per venirne a capo, il segretario del Pd propone il metodo “conclave” ad alleati di coalizione e di governo: «Chiudersi dentro una stanza, buttare via la chiave e stare a pane e acqua fino ad arrivare a una soluzione finale», dice Letta, uscendo dal vertice. Da giovedì si potrà eleggere il capo dello Stato a maggioranza semplice, è dunque arrivato il momento di «smetterla con il tatticismo. Dobbiamo chiuderci in una stanza e arrivare a una soluzione con un nome condiviso, super partes e senza forzature», aggiunge il leader dem. Il centrosinistra chiede dunque un incontro per oggi con tutte le delegazioni. E solo allora i giallo-rossi, fanno capire, scopriranno le carte con i loro “jolly”.

L’obiettivo di Letta è duplice: scongiurare che qualcuno metta il cappello sull’elezione del nuovo presidente e troncare il dialogo troppo fitto tra Salvini e Conte, decisi a fermare il cammino del presidente del Consiglio.La soluzione individuata, in realtà, serve solo a coprire lo stallo delle trattative sul Quirinale e prendere ancora tempo. Un atteggiamento insensato, secondo Matteo Renzi, abituato a giocare da protagonista le partite del Palazzo e momentaneamente escluso da entrambi i tavoli: «Si fanno le rose senza il coraggio di votare i nomi», scrive sulla sua E-news. «Alla terza votazione per il Presidente della Repubblica non si fanno le rose, si votano i nomi: facciamo politica, non sondaggi d’opinione. Si perde tempo con una votazione al giorno (torniamo almeno a fare due votazioni al giorno). E manca la regia politica», aggiunge il leader di Italia viva.

Ma dentro le coalizioni e soprattutto all’interno dei singoli partiti le lacerazioni sono troppo profonde per immaginare che qualche leader sia in grado di intestarsi la regia politica del film quirinalizio. Salvini deve districarsi tra l’unità della maggioranza e quella dell’alleanza da lui guidata, consapevole che basta spostare un mattoncino per far venir giù almeno una delle due case. Letta, già alle prese col governo complicato del suo partito, dichiara di avere un ruolo («proteggere Draghi») profondamente diverso da quello di Conte («difendere l’interesse nazionale»). Sullo sfondo: il rischio elezioni anticipate che terrorizza più della metà dei protagonisti. E in questo clima di incertezza e diffidenza – in cui nessuno schieramento ha i numeri per far da sé – il guizzo del regista tarda ad arrivare.

Non resta che prender tempo e tenere fuori dalle rose ufficiali qualche nome da tirar fuori all’occorrenza, come quelli di Maria Elisabetta Casellati e Pirferdinando Casini, i candidati ufficiosi di cui tutti chiacchierano nei corridoi di Montecitorio, senza che nessuno li schieri a viso aperto. E in attesa di una mossa del cavallo, oggi il centrodestra, al terzo scrutinio, l’ultimo a maggioranza qualificata, potrebbe scegliere di votare uno dei tre candidati messi in lista, giusto per testare la tenuta della coalizione.Tanto la partita vera inizierà solo giovedì. E senza una soluzione realmente condivisa, in tanti sperano ancora in “San Mattarella”, come recita il meme che in serata spopola sulle chat grilline.

Quel tabù della sinistra che esclude la destra dal Colle. Le reazioni isteriche alla stravagante e improbabile candidatura di Silvio Berlusconi sono soltanto l’aspetto più fastidioso di un pregiudizio profondo, che ha le sue radici nel secondo dopoguerra. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 25 gennaio 2022.

È un patto gentilizio, un’alleanza di ottimati, un’intesa tra maggiorenti e virtuosi. Ma soprattutto è il tabù più resistente della seconda repubblica: stiamo parlando dell’esclusione, quasi de jure, del centrodestra dalla corsa al Quirinale.

Le reazioni isteriche alla stravagante e improbabile candidatura di Silvio Berlusconi sono soltanto l’aspetto più fastidioso di un pregiudizio profondo, che ha le sue radici nel secondo dopoguerra, ossia nel bipolarismo catto-comunista che disegnava il cosiddetto arco costituzionale. L’idea è semplice: la Costituzione antifascista può essere custodita solo dagli eredi di quelle due famiglie politiche che, guarda caso, da tre decenni costituiscono l’ossatura del centrosinistra. Nel corso degli ultimi 30 anni abbiamo avuto due presidenti ex democristiani (Scalfaro e Mattarella, un ex Pci (Napolitano) e un laico progressista (Ciampi). In nessuna di queste tornate un candidato proveniente dal blocco Forza Italia-An-Lega ha mai avuto la possibilità concreta di aspirare alla prima carica dello Stato.

Si è negoziato senza problemi per le presidenze di Camera e Senato ma mai per il Colle. Ciò non vuol dire, come pretendono puerilmente in molti nel centrodestra, che a questo giro “tocchi a loro”. L’elezione di un presidente della Repubblica non segue logiche riparatorie o una turnazione meccanica. Ma neanche che vengano esclusi dalla corsa per partito preso, come a dover scontare il peccato originale di essere stati berlusconiani o comunque sodali del Cavaliere e del suo fantomatico progetto “eversivo”. La destra non è la landa dei barbari e al suo interno ci sono diverse personalità moderate, capaci di mediare tra i veti e i capricci dei partiti e di assumere un ruolo super partes. Continuare a considerarli degli appestati illegittimi è soltanto un vecchio imbroglio politico.

Dubbi, confusioni e incertezze sul ruolo del Capo dello Stato. Presidente della Repubblica, quanto ne sanno gli italiani: tra gaffe e amnesie il test sul Quirinale. Redazione su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Mancano poche ore alla fine del secondo giorno di chiama per eleggere il Presidente della Repubblica e gli italiani osservano con incertezza i movimenti dei partiti politici. Le elezioni hanno acceso gli animi di politici e cittadini. Mentre circolano i nomi del successore di Sergio Mattarella, tra giochi politici e vecchie alleanze, fuori dalla Camera aleggia confusione sul ruolo e i compiti del Capo dello Stato.

Mentre c’è chi balbetta sorridente per non sapere che una persona, per essere eletto Presidente, deve avere almeno 50 anni di età, c’è chi ostenta preparazione e consapevolezza. I cittadini romani, tra shopping e una passeggiata nella fredda via del Corso, hanno saputo rispondere senza esitazione su chi ha impacchettato le ultime cose prima di lasciare il Quirinale. A tentennare sono soprattutto i giovani che sono un po’ imbarazzati per non riuscire a rispondere a qualche domanda. La separazione tra nuove e vecchie generazioni si è andata via via allargando se si guardano i numeri dei sondaggi che vedono i ‘giovani’ e ‘coloro che si informano prevalentemente sui social’ come le categorie meno interessate a questa elezione.

“Mi trovi impreparato”, ha detto un giovane che ha balbettato qualche risposta. Mentre un ragazzo ha azzardato persino come i cittadini siano attualmente impegnati in una lunga tornata elettorale per scegliere il Presidente della Repubblica che deve avere almeno 18 anni, “anzi no, deve essere più anziano”, si è poi corretto. Qualcun altro, invece, ha tentennato su quanti Capi dello Stato sono stati i garanti della Costituzione. “Ce ne sono stati 16, o forse 17”, ha detto un ragazzo, mentre una giovane donna ha persino affermato che al Quirinale, in 76 anni di storia della Repubblica italiana, ci fossero stati quattro Capi di Stato. Per un’altra, invece, il primo Capo dello Stato è stato Carlo Azeglio Ciampi, dimenticando, però, che quest’ultimo è stato il decimo Presidente della Repubblica.

L’incertezza, poi, ha prevalso sui compiti del Capo dello Stato: molti sono caduti in confusione alla domanda sul potere del Presidente della Repubblica di dichiarare lo stato di guerra. “Non c’è mai stata l’occasione, fortunatamente”, ha detto un’anziana signora. “Non farmi parlare di chi comanda in questo Paese”, ha detto invece in romanesco un’altra signora rifiutando di rispondere alle domande.

Prima che senatori e deputati, insieme ai ‘grandi elettori’, eleggano il nuovo Presidente della Repubblica, è meglio che gli italiani aprano i libri per ripassare chi è e cosa fa il Capo dello Stato.

Michele Ainis per "la Repubblica" il 25 gennaio 2022.

Girano regole bizzarre attorno all'elezione del prossimo capo dello Stato. Anzi: doppiamente bizzarre, giacché nel Paese delle cinquantamila leggi le regole in questione sono figlie d'una lacuna normativa, derivano insomma da un vuoto di diritto. Eppure il paradosso si profila già al momento della scelta, durante l'espressione del voto. In questo caso mancano, difatti, candidature avanzate ufficialmente dai partiti. La Costituzione non le vieterebbe, ma una prassi battezzata nel maggio 1948 (quando fu eletto Einaudi) qualifica il Parlamento in seduta comune come collegio imperfetto, dove si vota ma non si può discutere sull'oggetto del voto. 

Di conseguenza il primo accorgimento del candidato perfetto è negare l'esistenza stessa della sua candidatura, per evitare di bruciarla. Da qui un festival dell'ipocrisia, ma da qui inoltre un velo d'opacità sull'elezione, che si consuma in conciliaboli nelle segrete stanze dei partiti, mentre ai cittadini non resta che sbirciare dal buco della serratura. Infine viene fuori un nome. Quale? Poniamo Mario Draghi. 

Ma poniamo altresì che si chiami Draghi Mario anche un postino di Siena, e che il giorno dopo quest' ultimo si presenti ai corazzieri per cominciare il suo mandato. Dopotutto, ne avrebbe buon diritto. Mancando candidature formali, mancando una lista elettorale affissa nei seggi come avviene alle politiche, per quale ragione non potrebbe essere proprio lui l'eletto? Risposta: perché evidentemente si presume che il nuovo presidente sia persona già nota agli italiani, e non è il caso del postino. 

Però si tratta di un'altra regola non scritta, di un'altra toppa sopra il buco delle regole. E Mattarella? Scade il 3 febbraio, ma con l'aria che tira non è detto che quel giorno il Parlamento abbia già trovato il successore. Che ne sarà, quindi, di lui? La Costituzione non lo dice. L'articolo 85, difatti, menziona un'ipotesi diversa: se le Camere sono sciolte, o mancano meno di tre mesi alla loro cessazione, l'elezione slitta, mentre il presidente viene prorogato. Sicché delle due l'una: o s' estende per analogia la prorogatio anche a questo caso, oppure il 3 febbraio subentrerà il supplente, cioè la presidente del Senato.

Più giusta la prima soluzione, tuttavia, giacché la supplenza muove da un "impedimento" del capo dello Stato, mentre qui l'impedito è il Parlamento. Che perciò potrebbe giocare uno scherzetto al vecchio presidente: per rieleggerlo basta non eleggerlo, basta mandare a vuoto ogni successiva votazione, tanto lui verrebbe prorogato. Chi invece non può subire proroghe è il presidente del Consiglio, ove venga eletto al Quirinale. Dovrà dimettersi con effetto immediato, dato che la Costituzione vieta il doppio mestiere.

E il governo, chi lo guida? Silenzio: nessuna norma disciplina l'ipotesi in questione, né la morte (facciamo gli scongiuri) del premier in carica. L'unica regola si legge nell'articolo 8 della legge n. 400 del 1988: nel caso d'impedimento temporaneo, il timone passa al vicepresidente del Consiglio, ovvero - "in assenza di diversa disposizione da parte del presidente del Consiglio" - al ministro più anziano. Basta perciò applicare (un'altra analogia) la norma che disciplina questa situazione all'impedimento permanente, e il rebus si risolve. Sicuro?

Un conto è un automatismo, per cui se manca il generale il comando passa al colonnello. Un altro conto è conferire al generale il potere di nominare il caporale. Tanto più che il premier, nel nostro ordinamento, non ha la facoltà di revocare i suoi ministri, mentre avrebbe viceversa l'autorità di nominare il successore, come gli imperatori dell'antica Roma. E siccome la regola varrebbe anche se il presidente del Consiglio muore (doppi scongiuri), dovremmo immaginare che quest' ultimo si rechi dal notaio per fare testamento: lascio la casa al figlio, l'automobile al nipote, Palazzo Chigi al ministro dello Sport. Ma è il bello delle regole che ci cadono addosso come tegole: se qualcuno ci rimette, qualcun altro giocoforza ci guadagna. 

III GIORNO DI VOTAZIONI.

Il live minuto per minuto della terza giornata: ancora fumata nera. Elezione Presidente della Repubblica, la diretta del voto. Salvini smentisce incontro con Cassese e attacca: “Da Pd e M5S mai proposte”. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.  

Fumata nera per la terza giornata dedicata all’elezione del 13esimo presidente della Repubblica, l’ultima con il quorum di 2/3. Sono diminuite le schede bianche, scendendo dalle 527 di ieri a 412. Durante lo spoglio si sono imposti i nomi di Sergio Mattarella e Guido Crosetto, lanciato a sorpresa da FdI. Per l’attuale Capo dello Stato sono spiccati i 125 voti, mentre quelli incassati dal cofondatore di Fratelli d’Italia sono 114, quasi il doppio dei 63 grandi elettori del partito di Giorgia Meloni. Al terzo posto si piazza il giurista Maddalena con 61 voti di Alternativa c’è e di molti ex M5s, seguito da Casini che raggiunge quota 52.

Il successore di Sergio Mattarella (che ha in diverse occasioni ribadito che non è in corsa per un secondo mandato) sarà il 13esimo Presidente della Repubblica Italiana. Fino alla terza votazione necessaria la maggioranza dei due terzi dell’assemblea, 673 voti, dalla quarta in poi basterà la maggioranza assoluta, 505.

Causa covid-19 si terrà una sola votazione al giorno. Al massimo 50 elettori alla volta in aula per votare. I Grandi Elettori positivi potranno votare nel parcheggio della Camera con un seggio drive-in appositamente allestito nel parcheggio della Camera. A votare i 1009 cosiddetti Grandi Elettori: 630 deputati, 321 senatori (di cui 6 a vita, 5 di nomina presidenziale e un ex presidente della Repubblica) e 58 delegati regionali, tre per ogni Regione, uno solo per la Valle d’Aosta. Votano prima i senatori, poi i deputati e infine i delegati regionali. Il voto è anonimo: perciò le elezioni del Capo dello Stato sono il regno dei franchi tiratori. Solo in due occasioni, nel 1985 con Francesco Cossiga e nel 1999 con Carlo Azeglio Ciampi, il Presidente venne eletto alla prima seduta.

Caos e ore di trattative febbrili tra i partiti. Il leader e fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi ha sciolto la riserva: fallita l’operazione scoiattolo, ha rinunciato alla corsa al Quirinale. Scricchiola la candidatura del Presidente del Consiglio in carica, dato da mesi per favorito, Mario Draghi. Ancora preso in considerazione per alcuni il secondo mandato di Sergio Mattarella. Le ipotesi Pierferdinando Casini e Giuliano Amato ancora in corsa, come quelle di Marta Cartabia ed Maria Elisabetta Alberti Casellati. New entry della prima giornata: il fondatore della Comunità di Sant’Egidio Andrea Riccardi e la direttrice generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni.

Nel secondo giorno il fronte progressista ha respinto la terna di nomi proposta dal centrodestra (Pera-Moratti-Nordio), i più votati risultano l’attuale inquilino del Colle Sergio Mattarella e l’ex magistrato Paolo Maddalena, candidato promosso dal gruppo di Alternativa. Entrambi raccolgono 39 preferenze, ma a salire rispetto a ieri è soprattutto il capo dello Stato uscente, che raccoglie 23 voti in più. Invariato il numero di grandi elettori presenti e votanti (976), si abbassa il numero delle schede bianche (527 rispetto alle 672 del primo scrutinio), quello delle nulle (38 rispetto a 49), mentre salgono i voti dispersi che toccano quota 125 (ieri 88).

Alle 11 si riunisce il Parlamento in seduta comune per la terza votazione, l’ultima con il quorum di 2/3, ma c’è chi chiede di velocizzare da giovedì le operazioni per cercare di chiudere la partita in settimana. “Spero che la presidenza autorizzi le votazioni due volte al giorno – dichiara il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, intercettato in Transatlantico durante le votazioni -. C’è una crisi in Ucraina pesantissima, la crisi su energia e gas, regole assurde per la scuola: il Parlamento abbia la consapevolezza di quello che si sta giocando”. Richiesta poi formalizzata da una lettera inviata dalla capogruppo di Italia viva a Montecitorio, Maria Elena Boschi, al presidente della Camera, Roberto Fico: “Le misure per garantire sicurezza sanitaria e limitare la possibilità di contagi durante le operazioni di voto possono essere messe in pratica anche nel caso di una seconda votazione nel corso della stessa giornata”.

“No a una guerra delle due rose, non serve”. Pd, M5S e Leu non rispondono con altri nomi d’area alle candidature di Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio avanzate dal centrodestra. Enrico Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, a sera, dopo un faccia a faccia che va avanti per quasi due ore, definiscono “un passo in avanti, utile al dialogo” la mossa fatta dai leader del campo ‘avversario’. Sono “nomi di qualità e li valuteremo senza spirito pregiudiziale”, si spinge a dire il segretario dem e anche Stefano Patuanelli, capodelegazione pentastellato al Governo, li definisce ipotesi “di peso”.

La strada, però, resta sbarrata. “Non riteniamo che su quei nomi possa svilupparsi quella larga condivisione in questo momento necessaria”, mettono nero su bianco i rappresentanti della coalizione progressista. Nessuna contrapposizione di ‘area’, quindi, ma la “volontà di giungere ad una soluzione condivisa su un nome super partes”. Per questo, la proposta è riunire domani le due delegazioni. “Chiudiamoci dentro una stanza, buttiamo via la chiave e stiamo a pane e acqua fino ad arrivare a una soluzione finale”, dice chiaro Letta. “Acceleriamo il dialogo con il centrodestra con l’impegno di trovare nelle prossime ore una soluzione condivisa.

LA DIRETTA

Ore 08.30 – “Casellati? È la seconda carica dello Stato, non ha bisogno di essere candidata…. Pera, Moratti e Nordio sono nomi all’altezza. Spero che Conte e Letta non si fermino ai no”. Lo dice Matteo Salvini prima di andare nei suoi uffici a Montecitorio. “Il mio tentativo è quello di dialogare” conclude il leader della Lega. “Il nuovo premier non lo troviamo a Campo de Fiori…Stiamo lavorando già a un Presidente della Repubblica e io ho un’idea. Qualora Draghi lasciasse il governo avremmo settimane di confusione, sarebbe un problema per l’Italia, con la crisi economica, sanitaria…”. “A parte che se perdo tre chili male non mi fa, ma il mio tentativo e’ dialogare, ma per farlo bisogna essere in due. Se mi siedo a un tavolo e mi dicono, ‘sono pronto a dialogare ma qualunque nome tu mi faccia è no’, allora si capisce che è un dialogo un po’ particolare. Noi dei nomi li abbiamo fatti. E ne potremmo farne altri dieci all’altezza, speriamo che ce ne sia uno di questi nomi che vada bene, dopo 30 anni uno non di sinistra”.

Ore 09.05 – “Con i tre nomi del centrodestra si è fatto un passo in avanti, stiamo parlando finalmente di iniziare a discutere, a votare nomi. Basta con questa manfrina delle schede bianche che mal si lega alla situazione che stiamo vivendo. Bisogna fare presto”. Lo ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi a Cartabianca, su Rai3 “Sono nomi di livello, – aggiunge – ma noi domani non li voteremo”. Ipotesi Casellati? “Che il centrodestra presenti tre candidati per tirare il terzo mi sembra mancanza di rispetto ai tre candidati, come dire che sono finiti”.

“Se penso che Draghi possa andare al Quirinale ?Assolutamente sì. E sono contento che questo paese si sia innamorato di Draghi, perchè un anno fa quando dicevo che bisognava mandare a casa Conte mi dicevano che ero pazzo”. Lo ha detto il leader di Italia viva Matteo Renzi a Cartabianca, su Rai3 affermando: “Sono stato più draghiano di Draghi”. “Non vedo l’idea che comunque vada Draghi rischi di lasciare il governo. – aggiunge – Io però non sono convinto che la partita non sia chiusa, nè alla quarta, nè alla quinta, nè alla sesta votazione secondo me Draghi è ancora in pista per fare il presidente della Repubblica”.

Ore 10:30 – Come nelle prime due giornate di voto, e nell’attesa di trovare un accordo su un nome condiviso, i partiti confermeranno l’indicazione della scheda bianca. È questa infatti la scelta di Partito Democratico, Movimento 5 Stelle e Leu da una parte e della coalizione di centrodestra dall’altra.

Ore 11:00 – Via al terzo giorno di votazioni a Montecitorio per eleggere il Presidente della Repubblica.

Ore 11.45 – Fratelli d’Italia si smarca dal centrodestra e, per ora, non sta rispondendo alla prima chiama della terza votazione per il capo dello Stato. Il partito di Giorgia Meloni, raccontano, infatti, ancora non ha deciso se votare scheda bianca come il resto della coalizione. L’ufficialità in una nota: il partito di Giorgia Meloni indicherà il nome di Guido Crosetto.

Ore 11.55 – “Anche oggi, facendo seguito al nostro patto di consultazione, come Europa Verde e Sinistra Italiana voteremo convintamente Luigi Manconi alla Presidenza della Repubblica” affermano i co-portavoce nazionali di Europa Verde Angelo Bonelli e Eleonora Evi e ii segretario nazionale di sinistra italiana Nicola Fratoianni. “Una figura che può creare quella convergenza fondamentale che può far superare le barriere degli schieramenti.”

Ore 12.20 – Matteo Renzi a La7: “Io ho detto a Letta e Salvini che se avessero deciso di fare il conclave saremo andati per discutere, ma per far che? È uno show che non sta in piedi”. Poi aggiunge, sulla poltrona del Senato che in caso di elezione di Casellati lo vedrebbero in pole position per sostituirla: “Io penso di essere l’uomo politico più antipatico d’Italia ma non faccio mai una battaglia per un posto per me. Mai uno scambio che mi vede al Senato“. Inoltre da uno guardo alle prossime votazioni: “Voi state facendo uno schema che alla quarta Salvini e Meloni portano la Casellati. Questo disegno punta a ricostituire la maggioranza gialloverde, e se andasse avanti il centrosinistra tenterebbe il controblitz“. “La destra –  aggiunge il senatore – ha due obiettivi: mettere in campo tre candidature di livello e ottenere il presidenzialismo. Se lo fa porta a casa il risultato, ma se perde ottiene il capolavoro di un altro presidente di sinistra“. Renzi sottolinea l’urgenza di arrivare a un nome: “Un presidente della Repubblica non si fa facendo a gomitate. Il gioco a contendersi i resti dei 5s non ha senso, mettiamoci insieme e individuiamo un nome (Draghi va bene, Casini va bene).

 Ore 12.58 – Il capogruppo di Fratelli d’Italia al Senato Luca Ciriani: “FdI non partecipa a nessun conclave“.

Ore 13:00 – Le possibilità di una ‘ascesa’ al Quirinale della Casellati si riducono. A chiarire infatti la posizione del Movimento 5 Stelle è Stefano Buffagni, ricordando i ‘precedenti’ del presidente del Senato sul caso Ruby-Mubarak. “Sono sicuro che il centrodestra alla fine non tirerà fuori dal cilindro il nome di Elisabetta Casellati. Non potrei mai votare come presidente della Repubblica, e come me tutto il m5s, chi ha avuto il coraggio di avallare la tesi di Ruby nipote di Mubarak e che ha utilizzato voli di Stato durante il lockdown per recarsi in vacanza in Sardegna”, scrive su Facebook Buffagni.

Ore 13:15 – Mentre l’ipotesi di ‘conclave’ si allontana, sono in corso contatti tra i vertici del Partito Democratico e il leader della Lega Matteo Salvini. Fonti dem spiegano il tentativo del partito è di convincere Salvini a non procedere domani, nella quarta votazione, in autonomia su un nome di centrodestra come quello della Casellati perché in questo modo salterebbe la maggioranza che regge il governo Draghi.

Ore 13:45 – Sara Cunial, deputata eletta tra le fila del Movimento 5 Stelle e oggi passata nel gruppo Misto, tramite l’avvocato Edoardo Polacco ha presentato querela nei confronti del presidente della Camera Roberto Fico e contro ignoti, poiché era stata respinta al seggio drive-in, dove ha tentato di votare per l’elezione del presidente della Repubblica, nonostante fosse sprovvista di green pass. “Ciò che sta avvenendo è gravissimo. In questi giorni, si sta impedendo a un parlamentare democraticamente eletto dal popolo italiano, di esprimere legittimamente il proprio mandato e di adempiere al proprio incarico, anzi al suo più alto incarico in relazione all’elezione del Presidente della Repubblica”, ha affermato Cunial, che ha definito il provvedimento “un atto illegittimo, lesivo non solo dei miei diritti ma della nostra stessa Carta Costituzionale e della normativa nazionale e internazionale di riferimento”.

Ore 14:13 – Terminata nell’aula di Montecitorio la terza votazione, è iniziato lo spoglio che viene effettuato personalmente dal presidente della Camera Roberto Fico.

Ore 14:45 – Lungo incontro tra Enrico Letta e Matteo Renzi alla Camera, negli uffici del gruppo di Italia viva. Il colloquio, spiegano fonti del Nazareno, è servito “per concordare i prossimi passi”.

Ore 14:59 – A spoglio in corso sono quasi cento i voti per Sergio Mattarella (ieri le preferenze sono arrivate a 39). Segue Guido Crosetto, votato oggi dai grandi elettori di Fratelli d’Italia. Segue il candidato di Alternativa C’è, Paolo Maddalena. Cresce anche Pier Ferdinando Casini. Preferenze anche per Giancarlo Giorgetti, Umberto Bossi, l’ex generale Antonio Pappalardo. Voti poi a Marta Cartabia e Pierluigi Bersani.

Ore 15.38 – 125 voti per Sergio Mattarella, Guido Crosetto proposto da Fratelli d’Italia, ha raccolto 114 voti, Paolo Maddalena 61, Pierferdinando Casini 52.  I votanti al terzo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica sono 978. Voti dispersi 84, schede nulle 22. Domani quarto scrutinio alle ore 11 con quorum a 505.

“Sono onorato. Non ho seguito alcuno spoglio ma sono commosso. C’è la capacità del centrodestra di essere attrattivo anche fuori dal centrodestra”, ha commentato così Guido Crosetto, a Montecitorio, il risultato della terza votazione. L’ex deputato ha superato i cento voti, poco meno di quelli ricevuti dall’attuale Presidente della Repubblica in carica ancora fino a giovedì 3 febbraio.

Ore 15:50 – Da Enrico Letta arriva un messaggio chiarissimo sulla possibile candidatura di Maria Elisabetta Casellati da parte del centrodestra, che pensa ad una prova di forza nella quarta di votazione di giovedì con quorum abbassato a 505. Per il segretario Dem “proporre la candidatura della seconda carica dello Stato, insieme all’opposizione, contro i propri alleati di governo sarebbe un’operazione mai vista nella storia del Quirinale. Assurda e incomprensibile. Rappresenterebbe, in sintesi, il modo più diretto per far saltare tutto”.

Ore 16:30 – Il bello della diretta, o per meglio dire della “Maratona Mentana”. Il direttore del tg di La7 ha infatti ricevuto una telefonata in diretta di Beppe Grillo, il garante e cofondatore del Movimento 5 Stelle, che ha smentito la ricostruzione di questa mattina secondo cui avrebbe telefonato a  Giuseppe Conte per convincere il leader pentastellato a votare Draghi al Quirinale.

Ore 16:45 – La guerra per il Quirinale tra Lega e M5S: Di Maio e Giorgetti contro Conte e Salvini

Ore 16:50 – “Lavoro con fiducia, serietà e ottimismo. La soluzione può essere vicina“, dice il leader della Lega Matteo Salvini, che ha convocato una riunione con i governatori del Carroccio alle 17,30 e con i vertici del partito alle 18. Successivamente il segretario della Lega vedrà i gruppi parlamentari e potrebbe anche fare un nome nuovo per il Colle superando la candidatura della Casellati.

Sullo sfondo resta la possibilità di un incontro Letta-Salvini in serata, che potrebbe portare ad una soluzione che sblocchi l’impasse.

Ore 17.35 – “Se domani si va al muro contro muro tra centrodestra e centrosinistra, si rischia di spaccare seriamente la maggioranza. Cerchiamo un nome condiviso tra centrodestra e centrosinistra”, dice il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, interpellato sugli scenari in vista della quarta votazione per l’elezione del presidente della Repubblica.

Ore 18:05 – Fratelli d’Italia si mette di traverso su una possibile trattativa sul nome condiviso per il Quirinale. Il partito di Giorgia Meloni infatti in una nota sottolinea di ritenere “imprescindibile una votazione compatta del centrodestra su un candidato della coalizione, come concordemente valutato nell’ultimo vertice”, ovvero uno tra Letizia Moratti, Marcello Pera e Carlo Nordio. FdI quindi affida a Matteo Salvini “il mandato individuare, attraverso le sue molteplici interlocuzioni, il candidato più attrattivo tra quelli presentati ieri”.

Ore 18:33 – Gianni Letta presidente della Repubblica, il jolly di Berlusconi e Salvini per convincere il nipote Enrico

Ore 19:00 – Il segretario della Lega Matteo Salvini avrebbe incontrato il giudice emerito della Corte Costituzionale ed ex ministro Sabino Cassese nella sua casa ai Parioli. La notizia è stata smentita dalla Lega

Ore 19:30 –  Il leader del Carroccio smentisce qualsiasi incontro con il costituzionalista Sabino Cassese. “Non so dove abita“, assicura il leader della Lega. “Abita ai Parioli? Non ci sono stato oggi dalle parti dei Parioli…”. Poi avvisa i giornalisti: “Tenete i telefonini accesi perché sarà una lunga notte di lavoro“. Salvini non ha voluto anticipare cosa voterà domani il centrodestra nella quarta votazione: “Avendo riunito i miei 200 elettori mi sembra più rispettoso parlarne prima con loro che con la libera stampa”. Quando gli viene chiesto dell’esclusione di Draghi e Casini, regala una chicca: “Non mi piace escludere, non sono nato per escludere ma per includere (e i migranti?, ndr), per proporre. Continuo a ritenere, come penso la stragrande maggioranza degli italiani, imprenditori, artigiani, che Draghi sia prezioso nel suo ruolo di regista, coordinatore, collante di una coalizione di governo che ovviamente è amplissima – ha aggiunto arrivando alla riunione con i parlamentari della Lega -. Senza Draghi penso che avrebbe qualche difficoltà di linea di direzione”. Infine bacchetta Pd e M5S: “Stiamo lavorando, continuiamo a lavorare per offrire nomi di alto profilo ma non possiamo permettere che il Paese rimanga ostaggio di no e veti della sinistra. Abbiamo fatto nomi di altissimo profilo, altri ne faremo. Da Pd e M5s invece sono mancate le proposte”.

Ore 20:10 – “Stiamo cercando di convincere le forze di centrodestra a evitare esibizioni muscolari che significherebbero contrapposizione, lo spirito opposto a quel clima che stiamo costruendo”. Sono le parole del leader del M5S Giuseppe Conte all’uscita da Montecitorio. “Se domani dovesse venire una proposta di parte, una prova di forza si ritarda ancora la soluzione – ha sottolineato Conte – la Presidente Casellati è la seconda carica dello Stato, come può essere strumentalizzata per una prova di forza? Non avrebbe proprio senso, sarebbe un cortocircuito”. “Cassese? Non so nulla” ha aggiunto. Poi ribadisce: “Non è questione di conclave, l’importante è coltivare lo spirito di questo confronto e trovare una soluzione… Le forze di centrosinistra avrebbero tanti candidati degnissimi da proporre. Il centrodestra altrettanto. Lo schema che da subito ho proposto, complice il fatto che il M5S è una forza innovatrice, è puntiamo subito a un candidato super partes, autorevole, ampiamente condiviso”.

Ore 20:40 – Si profila una notte di incontri per sciogliere il nodo sul nome da portare domani in aula per la quarta votazione sul presidente della Repubblica. Il vertice del centrodestra dovrebbe riunirsi dopo le ore 22. L’incontro dovrebbe avvenire in parte in presenza e in parte in streaming, dal momento che Antonio Tajani e Licia Ronzulli si trovano a Milano. In base a quanto viene riferito, fra i nomi sul tavolo ci sarà quello di Pier Ferdinando Casini. L’ex presidente della Camera oggi ha ricevuto 52 voti e la sua candidatura è spinta dai centristi. “Se fosse il centrodestra a proporlo, il centrosinistra non potrebbe non votarlo”, è il ragionamento che viene fatto. Nulla, però, viene spiegato, è ancora chiuso. Ma il M5S alza le barricate. Se Pd, Iv e centrodestra vogliono votare Pierferdinando Casini lo facciano pure ma si preparino a sostenere da solo il governo, M5s va all’opposizione. E’ questa la voce che circola tra i pentastellati.

Ore 21:10 – L’area del centrodestra frena su Casini. Secondo quanto si apprende da fonti parlamentari la Lega non punterebbe su Casini e neanche Fratelli d’Italia sarebbe propensa ad aprire. Anzi. Per il Pd, in realtà, l’ex presidente della Camera sarebbe un ‘piano B’, ma i centristi insistono che se non c’è Draghi allora c’è Casini. Potrebbe aprire, invece, secondo quanto si apprende Forza Italia ma solo una parte del Movimento 5 stelle. Il Pd punta ad una soluzione istituzionale, ad un’intesa che non crei scossoni sia per quanto riguarda la partita di palazzo Chigi che su quella sul Colle. Il vertice del centrodestra è convocato alle 22.30, posticipato di mezz’ora rispetto a quanto inizialmente candidato.

Ore 21: 15 – Malumori spuntano tra Fdi e Lega. Fonti del partito guidato da Giorgia Meloni sostengono che la decisione di votare Guido Crosetto da parte di Fratelli d’Italia “era concordata con Matteo Salvini”, che non “avrebbe mosso obiezioni”.

Ore 21.25 – Posticipato il vertice dei leader del centrodestra: si terrà domani mattina alle 8,30 negli uffici del gruppo Lega alla Camera, prima della quarta chiama.

Ore 21:30 – Iniziata nell’Aula dei gruppi parlamentari la riunione fra il segretario Enrico Letta e i grandi elettori del Pd. “Ora viene il passaggio più complesso, in cui ognuno di noi ha una idea e dobbiamo trovare una sintesi. Una complessità mai così forte”, ha detto Letta. E poi ha aggiunto “Nel Parlamento più frammentato di sempre c’è una sovrapposizione di due perimetri diversi: quello della maggioranza e quello del centrosinistra”. Domani sarà quindi una giornata di dibattiti, mentre stasera si riflette sullo stato dell’arte del Parlamento.

Ore 21:40 – Secondo quanto twittato dall’onorevole Ceccanti, capogruppo Pd commissione Affari costituzionali, il segretario dem Letta ha detto che “L’accordo deve tenere insieme tutta la maggioranza”. Ma soprattutto il leader del Pd ha affermato che “se non ci saranno novità entro domattina confermerò la scheda bianca”, presentando l’ipotesi di votare un presidente non di parte, e quindi non di destra, nella giornata di venerdì. 

Ore 22:00 – Fibrillazioni anche durante il vertice del M5S. Giuseppe Conte, parlando ai grandi elettori del Movimento, ha affermato che il Movimento “non è una forza politica che fa inciuci o caminetti, nessuno scambi la necessità di riservatezza col fatto che seguiamo percorsi poco trasparenti”. “A noi – ha aggiunto – interessano i risultati. Non abbiamo detto no a nessuno, abbiamo detto sì, lavoriamo per il Paese, siamo disponibili a rilanciare l’esecutivo con un patto di cittadini e non di legislatura”. Il Movimento sta dialogando per una soluzione condivisa, fanno sapere fonti pentastellate.

Ore 22: 10 – Il segretario Dem Enrico Letta scarica le colpe sul centrodestra. La trattativa per il Quirinale è “difficile” perché il centrodestra ha detto no a tutte le ipotesi di “personalità terze”, ha detto il segretario dem Enrico Letta ai grandi elettori del Pd. “È una trattativa difficile perché dal centrodestra sono arrivati tutti no. Ma lo schema di lavoro è stato diverso: i nostri no erano pubblici, i loro una lunga sfilza di no privati. Spero che almeno uno dei loro no si trasformi in sì”. “Per ora il centrodestra nella sua interezza ha detto di no a tutte le nostre ipotesi di personalità terze: Mattarella, Draghi, Amato, Casini, Cartabia, Riccardi”.

Ore 22: 15 – Durante l’assemblea dei grandi elettori del M5S, Conte lancia un messaggio al centrodestra: “Quando si è diffusa l’ipotesi di candidatura di Casellati da parte del centrodestra si erano create le premesse di un cortocircuito con noi e di uno sgarbo verso di lei: una carica istituzionale non può essere trasformata in candidatura di bandiera. Creerebbe imbarazzo istituzionale senza logica. Ci auguriamo questa ipotesi venga accantonata dal centrodestra”.

Ore 22:30 – Concluso il vertice dei grandi elettori del M5S. Conte ha concluso il suo intervento sottolineando che si cercherà di arrivare alla “soluzione più alta e autorevole possibile”. ”Io – ha aggiunto – non so dove atterreremo ma vi posso dare la mia parola d onore che mi batterò per atterrare alla soluzione più alta e autorevole possibile”.

Aumentano i voti per l'attuale Capo dello Stato Mattarella. Quirinale, i nomi e le ipotesi dopo la terza giornata: Casini e Cassese corteggiati dal centrodestra. Redazione su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.

Ancora fumata nera nel terzo giorno dell’elezione del presidente della Repubblica. Le urne si sono aperte questa mattina alla Camera alle ore 11 e lo spoglio è terminato dopo le 14. Diminuiscono le schede bianche al terzo scrutinio per l’elezione del presidente della Repubblica, scendendo dalle 527 di ieri a 412, e i partiti, anche al loro interno, iniziano a contarsi.

Durante lo spoglio si impongono i nomi di Sergio Mattarella e Guido Crosetto, lanciato a sorpresa da FdI. Per l’attuale Capo dello Stato spiccano 125 voti, mentre quelli incassati dal cofondatore di Fratelli d’Italia sono 114, quasi il doppio dei 63 grandi elettori del partito di Giorgia Meloni. Al terzo posto c’è il giurista Maddalena con 61 voti di ‘Alternativa c’è’ e di molti ex M5s, seguito da Casini che raggiunge quota 52.

Lega e Forza Italia hanno votato scheda bianca anche alla terza votazione. E la stessa indicazione è arrivata dal centrosinistra: Pd, M5S e Leu. Probabilmente, sono i pentastellati che hanno alzato la posta su Mattarella, nonostante il presidente della Repubblica uscente abbia più volte espresso l’intenzione di lasciare il Quirinale.

La situazione è ancora in stallo. Dopo l’onda cavalcata con il nome della seconda carica dello Stato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, poi respinto dal segretario del Pd Enrico Letta perché “farebbe saltare tutte le trattative”.

Alla viglia della quarta votazione per l’elezione del Presidente della Repubblica che vedrà il quorum scendere a quota 505, tra i partiti regna il caos ed un nome su cui convergere ancora non c’è.

L’incertezza aumenta e certifica un Parlamento in stallo, dove permangono antipatie e litigi nati in passato. Fdi polemizza per la scelta dei due partiti di centrodestra di votare scheda bianca, nonostante l’accordo tra Meloni e Salvini di votare Guido Crosetto, proposto dal partito guidato da Meloni.

La soluzione di Matteo Salvini per la corsa al Quirinale potrebbe essere Sabino Cassese. La notizia è stata data dal quotidiano Il Foglio. Il segretario della Lega questo pomeriggio si sarebbe recato nella casa romana del professore Cassese ai Parioli. Candidatura né smentita né confermata dal diretto interessato.

Le Lega, nel giro di pochi minuti dalla pubblicazione della notizia, ha smentito l’incontro. “Non so dove abita”, assicura il leader della Lega. “Abita ai Parioli? Non ci sono stato oggi dalle parti dei Parioli…”. Poi avvisa i giornalisti: “Tenete i telefonini accesi perché sarà una lunga notte di lavoro”. Peccato però, che dopo vari rinvii, sia arrivata la conferma di un vertice dei leader di centrodestra che si terrà domani mattina, prima della quarta chiama.

Ma Salvini non ha voluto anticipare cosa voterà domani il centrodestra nella quarta votazione.

Oltre al nome di Cassese, in giornata è circolato quello di Pierferdinando Casini. L’ex presidente della Camera è stato sedotto e abbandonato dal centrodestra ma anche dal centrosinistra. Inizialmente la carta Casini, che oggi ha ricevuto 52 voti, è stata presentata dai centristi. “Se fosse il centrodestra a proporlo, il centrosinistra non potrebbe non votarlo”, è il ragionamento che viene fatto. Ma il M5S ha alzato le barricate e ha minacciato di passare all’opposizione. Così il centrodestra ha frenato sul nome dell’ex presidente della Camera.

Al di là dei quanto filtri dalle riunioni, rimane avvolta nel buio l’ipotesi di convergere sul premier Mario Draghi. Il segretario leghista torna ribadire la necessità di lasciare SuperMario a palazzo Chigi: “Senza il premier penso che avrebbe qualche difficoltà di linea di direzione”. Un fronte, quello che non vuole che il premier traslochi al Colle, che comprende anche Beppe Grillo. Il fondatore M5s nel corso di una telefonata con Giuseppe Conte avrebbe concordato sul fatto che il presidente del Consiglio resti a Chigi.

A meno di sorprese dunque i nomi su cui si continua a lavorare sono gli stessi, mentre gli italiani attendono di conoscere chi sarà il primo cittadino dello Stato.

IL NOME DI BANDIERA. Chi è Guido Crosetto, votato al Quirinale da Fratelli d’Italia. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani il 26 gennaio 2022.

Fondatore del partito insieme a Giorgia Meloni oggi è il capo della lobby dell’industria degli armamenti: Fratelli d’Italia ha deciso di votarlo nella terza giornata dell’elezione del presidente della Repubblica per “contarsi”

Nel corso della terza giornata di votazioni per il presidente della Repubblica, Fratelli d’Italia ha deciso di fare il nome di Guido Crosetto, ex parlamentare, fondatore del partito e consigliere di Giorgia Meloni. Crosetto non ha possibilità di essere eletto, ma è stato votato per “contarsi”, cioè verificare di quanti dispone Meloni. Sulla carta, Fratelli d'Italia dispone di 63 grandi elettori e quindi ci si aspettano almeno altrettanti voti per lui.

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LA CARRIERA

Guido Crosetto ha 58 anni ed è nato a Cuneo, in Piemonte. Nel 2012 insieme a Giorgia Meloni e ad altri dirigenti politici provenienti dalla galassia della destra radicale ha fondato Fratelli d’Italia, di cui è stato anche coordinatore nazionale. Da qualche anno si è ritirato dalla vita politica, anche se è spesso ospite di trasmissioni tv come opinionista. Dal 2014 è presidente dell’Aiad, l’associazione di categoria delle imprese del comparto difesa.

La sua carriera politica è iniziata negli anni Ottanta, quando frequentava l’università ed era iscritto alla Democrazia Cristiana. Nel 2001 viene eletto per la prima volta deputato con Forza Italia. Nel quarto governo Berlusconi, tra 2008 e 2011, ricopre l’incarico di sottosegretario al ministero della Difesa. 

È in questo periodo in cui Crosetto si avvicina a Meloni. Anche se provengono da percorsi diversi, Meloni viene da Alleanza nazionale e dalla destra radicale, Crosetto dalla Dc e dall’ambiente liberale e conservatore, entrambi militano nel Popolo della libertà. Quando il partito entra in crisi dopo la caduta del governo Berlusconi, Meloni e Crosetto decidono di fondare Fratelli d’Italia.

Il partito inizialmente si presenta come una formazione liberale, anche se di ispirazione conservatrice. Crosetto, ad esempio, dice che il candidato ideale del partito è il giornalista Oscar Giannino. Con il passare dei mesi, però, l’identità del partito torna a spostarsi verso destra. Nel 2014, Crosetto annuncia l’abbandono dell’impegno politico e diventa presidente dell'Aiad.

Ma continua a mantenere buoni rapporti con Meloni e con il partito. Tanto che nel 2017 partecipa al congresso di Fratelli d’Italia e l'anno dopo viene eletto deputato nelle sue liste. Non durerà molto, però. A maggio, pochi mesi dopo le elezioni, annuncia le sue dimissioni da deputato e torna a esercitare a tempo pieno il suo lavoro di presidente delle industrie del comparto difesa.

IL QUIRINALE

Il voto per Crosetto di oggi è soprattutto un espediente tattico di Fratelli d’Italia. Crosetto non ha vere possibilità di essere eletto e questo Meloni lo sa bene. Votando per lui, però, Fratelli d’Italia comunica la sua distanza dal resto del centrodestra, che invece ha votato scheda bianca, e ha l’occasione di “contarsi", cioè di mostrare agli altri partiti quanto vale e ottenere quindi maggior peso nelle trattative dei prossimi giorni. 

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Il nome del partito di Giorgia Meloni. Chi è Guido Crosetto, il candidato di Fratelli d’Italia a Presidente della Repubblica alla terza votazione. Vito Califano su Il Riformista il 26 Gennaio 2022.

Il gruppo di Grandi Elettori di Fratelli d’Italia ha oggi, al terzo giorno di votazioni per il Presidente della Repubblica, voterà Guido Crosetto. I votanti di Fdi hanno risposto alla seconda chiama. Ignazio La Russa ha comunque spiegato che la decisione non rappresenta una divisione nel centrodestra. “Vogliamo dare un segnale che questa storia della scheda bianca cui ci sta costringendo la sinistra deve finire. E dimostreremo anche che siamo un partito compatto, i nostri 63 voti li prenderemo tutti”, ha assicurato citato dall’Aska. Fdi esprime 21 i senatori, 37 deputati e 5 delegati regionali per un totale di 63 delegati.

“Non facciamoci illusioni, potrebbe ancora essere Draghi, e si vota tra un anno”, uno degli ultimi commenti di Crosetto, tra i fondatori del partito guidato da Giorgia Meloni, in queste ore di trattative convulse e caos sulla corsa al Quirinale. Classe 1963, nato a Cuneo, imprenditore che fin da giovanissimo ha preso la guida dell’azienda di famiglia che produce macchine per l’agricoltura. L’attività si era poi allargata al comparto immobiliare e turistico. Ha studiato Economia all’Università degli studi di Torino. Da giovane era iscritto alla sezione giovanile della Democrazia Cristiana.

Divenne segretario regionale del movimento giovanile e responsabile nazionale della formazione. È stato consigliere economico del Presidente del Consiglio Giovanni Goria, sindaco di Marene in provincia di Cuneo dal 1990 al 2004, candidato di Forza Italia alla Presidenza della Provincia di Cuneo nel 1999, consigliere provinciale fino al 2009 con l’incarico di capogruppo di Forza Italia. È stato eletto alla Camera dei deputati nelle elezioni nel 2001, nel 2006 e nel 2008 prima nelle fila di Forza Italia e quindi con il Popolo delle Libertà.

Crosetto è stato sottosegretario alla Difesa nel IV governo Berlusconi e tra i fondatori di Fratelli d’Italia di cui è stato coordinatore nazionale. È stato nominato nel 2014 presidente dell’Aiad, la Federazione delle Aziende Italiane per Aerospazio. Ha fondato Fdi con Meloni e La Russa nel dicembre 2012. Si è candidato a Presidente della Regione Piemonte piazzandosi quarto con il 5,73%. Dopo aver lasciato la politica nel 2014, è tornato in campo nel 2017 candidandosi alle elezioni del 2018 come capolista alla Camera, dove è stato eletto. Si è dimesso da Montecitori nel marzo 2019 per tornare a svolgere a tempo pieno il ruolo dell’AIAD e quindi da coordinatore del partito. È stato presidente di Orizzonte Sistemi Navali, impresa creata come joint venture tra Fincantieri e Leonardo specializzata in sistemi ad alta tecnologia per le navi militari e di gestione integrata dei sistemi d’arma.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Quirinale, Crosetto: «Che onore quei 114 voti. Ma in tempi così difficili va scelto un padre nobile». Giuseppe Alberto Falci su Il Corriere della Sera il 26 gennaio 2022.

L’ex deputato di FdI al terzo scrutinio per la scelta del presidente della Repubblica ha ottenuto 51 voti in più dei grandi elettori del partito: «È un piacere vedere che ho seminato a livello umano. Ci punto? Ho senso della misura». 

Nella tarda mattinata Guido Crosetto, imprenditore, ex parlamentare, fondatore di Fratelli d’Italia, riceve una chiamata da Giorgia Meloni. «Ero al lavoro, a fare il privato cittadino, si illumina il cellulare ed è Giorgia: “Scusami, non ti creo problemi se propongo il tuo nome come candidato alla presidente della Repubblica?”».

E lei, Crosetto, cosa risponde?

«Intanto la ringrazio, le dico che sono lusingato e che può procedere, che so benissimo che è una candidatura di bandiera ma che è sempre un onore. Per di più è stata annunciata nel pieno della prima chiama della terza votazione».

Se l’aspettava?

«No. Anche perché pensavo che il centrodestra potesse votare uno dei candidati proposti nella rosa».

Il Corriere ha una newsletter dedicata alla corsa al Quirinale: si intitola «Diario Politico», è gratuita, e per iscriversi basta cliccare qui

La sua candidatura dimostra che il centrodestra non è compatto.

«A me pare che sia compatto. Quando nessuno ha la maggioranza, l’elezione del presidente della Repubblica è una partita a scacchi. Fai diverse mosse ma te ne accorgi solo a fine partita».

Lei ha insomma scalzato la concorrenza di Carlo Nordio, Marcello Pera, Letizia Moratti. A suo avviso su chi dei tre avrebbe dovuto convergere il centrodestra?

«Non sono un grande elettore. E sono tre amici...».

Cosa succede un minuto dopo esser stato candidato al Quirinale?

«Ricevo centinaia di chiamate e di messaggi da amici, ex colleghi parlamentari, conoscenti. Ma mi affretto subito a spiegare: “Guarda che la mia è una candidatura di bandiera”. Dovrei prendere i 63 voti di Fratelli d’Italia. Risentiamoci dopo il voto».

Quando si conclude lo spoglio della terza votazione Crosetto ottiene 114 voti, una cinquantina in più dei grandi elettori di Fratelli d’Italia. Lo ricontattiamo.

Si è commosso?

«Mi sono sentito onorato dall’amicizia di tanti ex colleghi. È un piacere vedere che si è anche seminato umanamente. Poi però sì che il risultato è il frutto di un impegno personale di Giorgia e dei due capigruppo che hanno cercato di non farmi fare brutta figura».

A questo punto ci crede?

«Ma no, per chi mi prende? Ho rispetto delle istituzioni e senso della misura. Voglio credere nella capacità del Parlamento di individuare una persona autorevole nella quale riconoscerci tutti. Tempi difficili richiedono padri nobili».

Che significato dà il suo risultato?

«Il mio risultato dà ragione a Giorgia Meloni quando dice che il centrodestra può avere una capacità attrattiva in questo Parlamento e che deve misurarsi compattamente su una proposta condivisa. Perdere un’occasione per timore è forse peggio di perdere la partita».

E adesso come si comporterà FdI?

«Sosterrà una candidatura unitaria».

L’operazione Crosetto va a segno: «Sono onorato e commosso». L'ex parlamentare di Fratelli d’Italia capitalizza quasi il doppio delle preferenze rispetto a quelle avute sulla carta: i grandi elettori del partito di Giorgia Meloni, infatti, sono 63. Il Dubbio il 26 gennaio 2022.

«Mi chiami pure presidente, tanto a Roma sono tutti dottori e presidenti…». Raggiunto al telefono dall’Adnkronos Guido Crosetto sta al gioco e sorride quando gli viene chiesto come ci si sente, per un giorno, nei panni di candidato alla presidenza della Repubblica.

Per denunciare e stoppare il «balletto surreale delle bianche», Fdi aveva lanciato l’operazione “Guido for president”, chiedendo ai suoi grandi elettori di indicare nella scheda, alla terza votazione per il Colle, il nome dell’ex sottosegretario dei governi Berlusconi e poi fondatore del partito di Giorgia Meloni. Così alla fine Crosetto ha ottenuto 114 voti nel corso della terza votazione per eleggere il presidente della Repubblica, capitalizzando quasi il doppio delle preferenze rispetto a quelle avute sulla carta: i grandi elettori del partito di Giorgia Meloni, infatti, sono 63. «Sono onorato, commosso, grazie», commenta dopo lo spoglio. «Secondo me è la capacità, se volesse il centrodestra, di poter prendere voti anche al di fuori del centrodestra. Ci sono, ed escludo me ovviamente dal giudizio, persone nel centrodestra che hanno questa capacità», aggiunge l’ex parlamentare. 

«I miei 114 voti dimostrano che Giorgia Meloni aveva ragione e ha lavorato bene: i grandi elettori del centrodestra volevano esprimersi e vogliono un presidente della loro area…», dice ancora Crosetto. Che poi scherza: «Io al Quirinale? Sì, il 2 giugno per la festa della Repubblica, se mi invitano». Crosetto parla poi azzarda qualche pronostico: «Penso che entro venerdì avremo il Presidente della Repubblica. Auspico che si arrivi a una personalità il più condivisa possibile. I gruppi parlamentari hanno voglia di votare dei nomi dopo tante schede bianche ma se è difficile trovare accordi nelle riunioni di condominio, figuriamoci nell’elezione del presidente della Repubblica».

"Da repubblica delle banane", perché a Omnibus stroncano Elisabetta Belloni presidente. Federica Pascale su Il Tempo il 27 gennaio 2022.

Durante la puntata di Omnibus di giovedì 27 gennaio, si commentano in studio le parole del segretario del PD Enrico Letta, che rimane dell’idea che sia necessario trovare un candidato super partes per il Quirinale e che, pare, abbia convinto anche il centrodestra a proporre nomi “meno divisivi”.

Ospite in collegamento la giornalista del Corriere della sera Maria Teresa Meli, che evidenzia: “È l’unica vittoria che si possa dire del centrosinistra, che è spaccatissimo. Salvini non è andato avanti con la prova di forza della Casellati”. Ma è una vittoria facile, “perché mi pare che in questo momento Salvini sia davvero in difficoltà”.

Logica avrebbe voluto che il segretario della Lega si intestasse la candidatura di Mario Draghi per il Quirinale, e tutti avrebbero dovuto supportarla. “Perfino Conte avrebbe dovuto accettare, e fare buon viso a cattivo gioco”. D’altra parte, un centrosinistra frastagliato: “Il PD è spaccato tra Draghi e Casini. I cinque stelle non si capisce cosa vogliono”.

L’unico nome sul quale pare si possa convergere è quello di Elisabetta Belloni, l’unico al quale Conte ha detto sì. La donna a capo del Dis, ossia gli 007 italiani, "è una persone encomiabile e straordinaria, ma l’idea che il capo dei servizi segreti possa andare al Quirinale... neanche nella Repubblica delle banane”. La Meli rimane dell’idea che le uniche due opzioni realistiche siano il senatore di lungo corso Pier Ferdinando Casini e l’attuale presidente del consiglio Draghi. “Un Parlamento che dice che Draghi è un tecnico e non può andare, ma mette la persona che guida i servizi segreti al Quirinale, forse è un Parlamento con problemi gravi”. 

Quirinale, sul tavolo restano le carte Casini e Draghi. Gli sms di Casellati ai leader del centrodestra: «Votatemi». Francesco Verderami su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.  

La quinta votazione per il capo dello Stato avrà un valore politico: è la prova chiesta da Meloni per dare un segnale di solidità.  

Il vertice di centrodestra terminato a notte fonda anticipa un’altra fumata nera oggi. Ma il passaggio della quinta votazione avrà un valore politico, sarà la prova chiesta dalla Meloni per tenere salda l’alleanza prima di arrivare a quella che si prospetta come la chiama decisiva: quella di domani. La leader di Fdi ha chiesto di contarsi in modo da verificare i numeri della coalizione, e il capo della Lega ha accettato la richiesta. Sarà l’ultimo giro di giostra, l’ennesima contorsione di una corsa al Colle che finora è parsa una sciarada.

Ieri Salvini aveva passato la giornata nel disperato tentativo di sfuggire alla forza di gravità, facendo suo lo slogan di Conte, secondo il quale bisognava «trovare rapidamente un nome per evitare il nome di Draghi». Così nel pomeriggio — dopo una performance da dimenticare per il centrodestra alla quarta votazione — il segretario del Carroccio aveva rilanciato su Frattini, figura condivisa giorni fa con il leader del Movimento. Già allora era stato sommerso da una valanga di no. Compreso quello dell’Ambasciata americana, che era sobbalzata al nome dell’ex ministro degli Esteri considerato un «filo russo». Al secondo tentativo, si è beccato anche il veto della sua coalizione e sottovoce persino quello dei suoi compagni di partito.

Qui trovate il «calcola maggioranze». Qui invece il link per iscriversi alla newsletter «Diario Politico» (è quotidiana, e gratuita)

Era stata l’ennesima mossa per resistere alla forza di gravità e all’insistenza della Meloni, perché l’operazione per Salvini resta rischiosa. Più che per i rapporti con il centrosinistra, per lo stato di disgregazione che emerge nel centrodestra, dove i franchi tiratori sono pronti a colpirlo insieme al candidato. Se così stanno le cose, non si capisce come mai per tutto il giorno la Casellati abbia inondato i cellulari di (quasi) tutti i maggiorenti della coalizione con lo stesso, stringato messaggio: «Mi dovete votare». E la sua richiesta è stata esaudita.

In effetti è complicato guidare una trattativa, se oltre alle difficoltà di trattare con gli avversari bisogna gestire le ambizioni degli alleati. Ma un kingmaker non può limitarsi a sostituire una terna di nomi con un’altra nel giro di pochi giorni, senza fare i conti con il principio di realtà. E Salvini ieri ha dovuto constatare la debolezza della linea Maginot costruita assieme a Conte per evitare l’ascesa di Draghi al Colle. È a questo che Di Maio si è riferito quando ha contesta il modo in cui si è giocato con «figure di spessore» come la responsabile del Dis Belloni, finita nel tritacarne dei candidati anche con la complicità di una parte dei democratici. Perché pure nel Pd fino a ieri mattina si era smarrito il senso delle istituzioni, inserendo nella lista dei quirinabili il capo dei Servizi segreti.

Il ministro degli Esteri, oltre a contestare il fatto che «stiamo bruciando alti profili verso i quali serve rispetto», ha avvertito del rischio di un passo falso che farebbe «saltare il governo e ci porterebbe al voto». Così si è rivolto a Salvini e Conte (arroccato vanamente su Mattarella), usando le parole di Draghi. Perché è su Draghi che si ragiona, ora che i leader si trovano a corto di candidati e munizioni. «C’è Draghi in campo», dice Renzi, nonostante il premier — a suo giudizio — abbia «commesso vari errori anche per responsabilità dei suoi collaboratori». «C’è Draghi», ripete Letta per una volta in sintonia con l’acerrimo rivale. «C’è Draghi», sussurrano persino i leghisti più vicini al Capitano. Figurarsi Giorgetti e i governatori, che danno appuntamento alla sesta chiama.

Si vedrà se Berlusconi farà il passo, dopo il colloquio con l’ex presidente della Bce. Se la posizione di Forza Italia, formalmente «non mutata», sia stato solo un gesto rispettoso verso Salvini. Il capo della Lega è chiamato alla decisione: sul tavolo sono rimasti i nomi di Draghi e di Casini. E Salvini al termine di una giornata trascorsa a fare casting, è parso orientato nella scelta: «Il mio obiettivo è tenere unito il centrodestra e la maggioranza di governo». Non è che ci sia molto spazio per la fantasia.

Elisabetta Casellati, chi è la candidata al Quirinale a cui Salvini disse: "Ti farò Presidente". Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 28 Gennaio 2022.  

Dalla sua scorta che sperona quella di Mattarella ai premi accumulati ai voli di Stato: ascesa e incidenti di percorso della seconda carica dello Stato. 

Fuori da ogni retorica e ipocrisia, il bello della corsa per il Quirinale è che riattiva la memoria di eventi così belli, simbolici e a questo punto densi di presagi da sembrare finti, mentre al contrario sono avvenuti sul serio.

Era il 17 settembre del 2020 quando, lungo la strada che portava a Vò Euganeo, nel tentativo di superare di gran carriera il mega corteo istituzionale, una delle auto della scorta della presidente

Quirinale, ecco cosa diceva Elisabetta Casellati nel 2011 su Berlusconi e il caso Ruby. su L'Espresso il 26 Gennaio 2022.

Il nome di Elisabetta Casellati - presidente del Senato - è tra quelli spesi in queste ore per la successione a Sergio Mattarella al Quirinale. Per questo motivo è tornata virale sui social un'intervista concessa l'11 aprile 2011 da Casellati a Otto e Mezzo a difesa di Silvio Berlusconi, all'epoca al centro dello scandalo Ruby. "Quando Berlusconi ha incontrato Mubarak prima di questo episodio pare che sia venuto fuori da alcune testimonianze che proprio nell’incontro Mubarak aveva parlato di questa sua nipote, ed era un incontro ufficiale", afferma la presidente del Senato commentando la famosa telefonata alla questura di Milano per chiedere il rilascio di Ruby. "Il centrodestra la vorrebbe al Quirinale", commentano sui social

Maria Elisabetta Alberti Casellati, la zia di Mubarak. Susanna Turco su L'Espresso il 26 Gennaio 2022.  

Avanza la candidatura della Presidente del Senato e subito torna sui social la sua performance ai tempi di Ruby.

Il centrodestra converge su Casellati e Mubarak torna in tendenza su twitter. È il primo effetto del nome del possibile candidato del centrodestra alla quinta votazione per la svolta sul Quirinale.

Nemmeno il tempo di domandarsi cosa c’entri la seconda carica dello Stato con Hosni Mubarak, colui che fu presidente dell’Egitto per quasi trent’anni, fino al febbraio 2011, ed ecco che la rete soccorre, con un imperdibile frammento di Otto e mezzo, datato 11 aprile 2011 nel quale la futura presidente, all’epoca sottosegretaria alla Giustizia, intervistata da Lilli Gruber, con soave andamento argomentativo alla Niccolò Ghedini – del resto l’avvocato è suo amico di famiglia e grande elettore - spiegò che sì, Berlusconi aveva telefonato alla questura di Milano ritenendo Ruby la «nipote di...

Così lo Stato ha finanziato le iniziative musicali di Alvise Casellati, figlio della presidente del Senato. Per un filmato visto da poche decine di persone, una sorta di prove generali di un concerto, l’Istituto italiano di cultura di New York ha speso 30.000 dollari per pagare i cantanti del maestro. Il direttore Finotti: “Omaggio a Caruso in collegamento col ministero e il Comitato del centenario”, ma entrambi smentiscono. Il ruolo del direttore d’orchestra nei contratti dei suoi soprani e del suo tenore. Carlo Tecce su L'Espresso il 27 Gennaio 2022.

Finalmente lo Stato è riuscito a sovvenzionare le attività di un artista musicale di rapida e fulgida carriera che in un decennio si è formato e si è consacrato nei più prestigiosi teatri d’opera d’Italia: Alvise Casellati, il direttore d’orchestra, il figlio di Maria Elisabetta Alberti Casellati, la presidente del Senato. Con un investimento di oltre 30.000 dollari, attraverso l’Istituto italiano di cultura di New York, lo Stato si è conquistato il merito e l’onore di finanziare non un concerto, quello è ancora un’aspirazione, ma le prove generali di un concerto del maestro Casellati e dei suoi cantanti. Il filmato è ancora disponibile sulla pagina dell’Istituto su Youtube e ha già deliziato qualche decina di appassionati.

Ogni anno da quattro anni, ben sostenuto da diverse multinazionali italiane, il maestro Casellati si esibisce a New York oppure a Miami, davanti a un pubblico non pagante, con un classico repertorio italiano, brani di Giacomo Puccini, Giuseppe Verdi, Gaetano Donizetti, Gioachino Rossini. La manifestazione, organizzata da «Central Park Summer Concerts» di cui Alvise è presidente, si intitola «Opera italiana is in the air».

Quest’anno il maestro Casellati ha omaggiato la rinascita dopo la pandemia e il tenore Enrico Caruso nel centenario della scomparsa. Così l’Istituto italiano di cultura di New York, che dipende dal ministero degli Esteri, si è fiondato sull’evento. Il direttore Fabio Finotti, alla vigilia del concerto che si è tenuto il 28 giugno a Central Park, ha ospitato nella sede dell’Istituto un’ora e mezza di lezione a imprecisati allievi del maestro Casellati con i soprani Gabriella Reyes e Jennifer Rowley e il tenore Stephen Costello. Il gruppo ha intonato un paio di arie e il maestro Casellati ha insistito parecchio con la giovane Reyes sull’esigenza di non far vibrare troppo la voce su «Oh mio babbino caro» come ha insegnato Maria Callas. Poi unanime commozione per «Core ‘ngrato».

Quando L’Espresso ha contattato l’Istituto italiano di cultura di New York, il direttore Finotti ha rivendicato la sua impresa, cioè di aver ottenuto «senza il versamento di alcuna somma» che il concerto venisse dedicato a Caruso, «il tutto in collegamento con il ministero della Cultura e col comitato Caruso ivi insediato per celebrare il centenario della morte del tenore che - come lei sa - è un'icona dell'italianità negli Stati Uniti». Chi non sapeva, però, erano proprio il ministero della Cultura e il comitato Caruso ivi insediato. E non li si può biasimare. Poiché il programma ufficiale per le celebrazioni di Caruso è stato presentato al teatro San Carlo di Napoli il 6 luglio con il ministro Dario Franceschini e Franco Iacono, presidente del comitato. «Noi non c’entriamo nulla con New York. Ci hanno soltanto chiesto l’utilizzo del nostro logo e non me ne sono neanche occupato io», racconta Iacono, già deputato socialista e assessore regionale.

Finotti ha sempre quasi confermato e quasi negato una partecipazione economica. Ha quasi risposto. Finché L’Espresso ha chiesto se l’Istituto avesse utilizzato del denaro pubblico per registrare quella lezione – viene chiamata «Masterclass» – in cui il direttore Finotti siede accanto al concittadino maestro Casellati (entrambi sono di Padova) e Reyes e colleghi scaldano le corde vocali prima del concerto di Central Park. A quel punto Finotti ci ha comunicato, in terza persona, di essere in congedo e di rivolgerci alla segreteria dopo il 22 agosto. 

Per fare chiarezza, prima che il video raggiungesse le cento visualizzazioni in trenta giorni, L’Espresso ha ricavato le informazioni in altro modo. E dunque l’Istituto italiano di cultura di New York, a parte i costi fissi per le riprese di Awen Films, ha speso 30.000 dollari per ingaggiare Reyes, Rowley e Costello. Una cifra considerevole per la prestazione artistica dei cantanti e per le risorse di solito utilizzate. In passato per un concerto dal vivo, durante il mandato di Giorgio Van Straten, l’Istituto ha impiegato non più di 1.500 dollari.

Rowley e Costello hanno fama internazionale e perciò si sono divisi gran parte dei compensi, mentre Reyes si è accontentata di 5.000 dollari per un intenso ripasso di «Oh mio babbino caro». Alessandro Ariosi di Ariosi Management è l’agente del soprano Rowley e anche del maestro Casellati (non retribuito per la lezione). Stavolta Ariosi, come i rappresentanti di Costello, non ha dovuto gestire complesse trattative o pratiche burocratiche. Perché l’Istituto italiano di cultura di New York si è riferito a Casellati per i contratti dei suoi cantanti. Basta poco, un sorriso. Viva Caruso: «Era lu tiempo antico/pe mme lu paraviso/ca sempre benedico/pecchè cu nu surriso/li bbraccia m’arapive».

ESCLUSIVO: L’ITER PARTITO QUANDO SALVINI ERA MINISTRO DELL’INTERNO. Superbonus Casellati, dal Viminale 270mila euro per i lavori nella sua villa. EMILIANO FITTIPALDI E GIOVANNI TIZIAN su Il Domani il 27 gennaio 2022.

Il ministero dell'Interno ha investito una somma monstre per la sicurezza della casa di Padova della presidente del Senato e di suo marito

I lavori di ristrutturazione sono già costati 175 mila euro: cambiati tutti gli infissi e le finestre. Altri 95 mila euro sono già stati preventivati per il muro del giardino

"Motivi di sicurezza" dice la prefettura. Domani ha sentito Mattarella, Fico e gli ex presidenti Boldrini e Grasso: tutti hanno negato investimenti pubblici nelle loro abitazioni.

Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 28 gennaio 2022.

A Padova, nella centralissima via Euganea, c’è una villa che in città conoscono tutti. Un palazzetto del Settecento extra lusso di tre piani e 546 metri quadri più giardino annesso e scale d’epoca. Un immobile di proprietà di Giambattista Casellati, avvocato e presidente dell’ente Veneranda Arca di San Antonio, e della di lui moglie Maria Elisabetta Alberti Casellati, ex avvocato di Silvio Berlusconi e attuale presidente del Senato.

Una dimora che negli ultimi tempi, in gran segreto, è stata sottoposta a qualche importante lavoro di ristrutturazione. Pagato con i fondi del ministero dell’Interno e della prefettura padovana. 

Anche se Casellati vive a Roma a palazzo Giustiniani e torna a casa di tanto in tanto nei weekend, Domani ha scoperto che l'organo periferico del Viminale (il ministero al tempo delle prime richieste autorizzative era guidato da Matteo Salvini) ha già speso la bellezza di 175mila euro. A cui vanno aggiunti 94mila euro di lavori già preventivati ma non ancora realizzati.

In pratica, lo stato ha già investito o sta per investire 271mila euro nella casa dell’avvocata per la sostituzione degli infissi, la sopraelevazione e ristrutturazione del muro del giardino che circonda la casa, più altri interventi ufficialmente destinati «alla messa in sicurezza, a tutela, dell'abitazione del presidente», spiega il prefetto Raffaele Grassi, che ha ereditato la pratica da pochi mesi: l’ex direttore dello Sco della polizia e questore di Reggio Calabria è arrivato in città solo a maggio scorso.

La cifra è consistente, e così Domani ha cercato di capire se c’erano precedenti di spesa confrontabili con quelli fatti per Casellati. La presidente non ha risposto alle domande che le abbiamo fatto attraverso il suo ufficio stampa. 

Abbiamo però contattato le prefetture competenti, lo staff di Sergio Mattarella, il presidente della Camera Roberto Fico, gli ex numeri uno di Montecitorio e palazzo Madama, cioè Laura Boldrini e Pietro Grasso: non risultano lavori con costi lontanamente comparabili per la messa in sicurezza delle loro abitazioni.

Casellati è tra i candidati papabili alla presidenza della Repubblica. Salvini è il suo principale sponsor, ma anche Giuseppe Conte e un pezzo dei Cinque stelle sono tentati di votarla in chiave anti Draghi. 

Nonostante dall’inizio del suo incarico sia stata spesso criticata per l’uso di risorse pubbliche, in primis per i costi dei suoi viaggi. Il quotidiano Repubblica ha raccontato qualche mese fa «di 124 voli di stato in un anno» («falso, sono di meno, e non ho violato alcuna legge», replicò lei), mentre altri giornali spiegarono come la presidente si facesse accompagnare dalla sua scorta anche all’interno del bar di palazzo Madama.

La casa di via Euganea era già diventata protagonista delle cronache della stampa locale e del Corriere della Sera nel 2018, a causa delle proteste del vicinato, innervosito dalla decisione delle forze dell’ordine di vietare la sosta delle auto ai residenti sulla via, scelta fatta per «proteggere la sicurezza» dell’avvocata specializzata nelle cause di nullità davanti alla Sacra Rota. 

«È un privilegio», disse qualcuno a sinistra, forse in antipatia a una politica di fama, vicinissima allo storico legale di Berlusconi, Nicolò Ghedini, e celebre per il carattere assertivo e non facile, che secondo i maligni l’ha costretta durante i primi quattro anni del suo mandato a cambiare sette portavoce.

Ora, la messa in sicurezza delle abitazioni dei vertici istituzionali e di soggetti a rischio è disciplinata da norme che prevedono tutele e investimenti pubblici decisi dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, presieduta dai vari prefetti. Ma com'è possibile che si sia arrivati, per Casellati, a quasi trecentomila euro, cifra con cui è possibile comprare a Padova un appartamento nuovo di 100 metri quadri? 

E come mai a Domani risulta che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella per la sua storica casa a Palermo, molto esposta essendo un attico in via Libertà, ha goduto solo di sistema d'allarme elettronico con un investimento pubblico minimo, mentre il presidente Roberto Fico non ha avuto nelle sue abitazioni private a Napoli alcun lavoro strutturale né blindatura di sicurezza?

Infine, come è stata scelta la ditta, il Gruppo Garbo, che ha fatto (e dovrà ancora fare, fossero approvate le ultime autorizzazioni) i lavori di villa Casellati?

Dal momento che la casa della presidente è vincolata, chi scrive ha chiesto innanzitutto informazioni alla soprintendenza archeologica delle Belle arti di Venezia e Padova. L’accesso agli atti richiesto nei mesi scorsi ci è stato però negato dagli uffici dell’ente.

Più disponibile è stato il sovrintendente Fabrizio Magani, intervistato nella splendida biblioteca nei suoi uffici patavini. «I lavori a casa della presidente sono partiti da anni, ben prima che io arrivassi qui. Sono stati autorizzati dalla prefettura. Sono loro la stazione appaltante, non noi» spiega. 

«La soprintendenza ha dato il via libera a tre autorizzazioni, solo per quel che ci competeva: la prima risale al 19 marzo 2019, c’era ancora il mio predecessore Andrea Alberti, e riguarda la fornitura e l’installazione di serramenti vari e vetri antisfondamento.

La seconda riguarda l’ancoraggio di una porta finestra. La terza, del settembre 2020, la sopraelevazione del muro di cinta. Qui forse bisogna fare una variante perché la parete va prima consolidata. Lavori degli spazi interni? Non mi risultano». 

Almeno una volta, ad aprile 2021, la presidente ha verificato di persona l'andamento della pratica della ristrutturazione della sua villa, andando a supervisionare i progetti insieme agli uomini della prefettura e a quelli della soprintendenza. 

«Sì, ci sono andato anche io due volte a casa Casellati – dice Magnani – Dovevo verificare come i lavori erano stati eseguiti. Il vecchio muro del giardino per esempio non era del tutto allineato, ed era intenzione di portarlo allo stesso livello». La «friabilità» del muro avrebbe inciso sul prezzo dell’opera, che ha un costo preventivato di 94mila euro, pagata sempre con denaro pubblico.

L’azienda incaricata è un’impresa di Padova: si tratta della impresa individuale Edili Garbo, dodici dipendenti (non ci sono bilanci depositati alla Camera di commercio), specializzata in edifici residenziali. L’elenco dei lavori per mettere in sicurezza la dimora privata della presidente prevede il montaggio di finestre blindate, l’innalzamento del muro esterno, forse l’impianto di videosorveglianza, che dovrebbe essere realizzato da un’altra ditta specializzata del settore. 

Non sappiamo se con i soldi della prima tranche già spesi sia stato fatto altro. Il prefetto di Padova, «in qualità di committente unico dei lavori», indica a Domani solo l’importo notevole già finanziato: «La loro esecuzione ammonta a 175.916 euro. La sopraelevazione del muro di cinta perimetrale dell'abitazione padovana della presidente del Senato allo stato non è ancora stata realizzata», ci dice con trasparenza il prefetto Grassi.

La necessità di realizzarlo «per esigenze di sicurezza» è stata però già «attestata», e «la somma preventivata per tali lavori ammonta a 94.588 euro. Non ci sono state pressioni da parte della presidente per questi lavori e queste spese. La ditta? Non c’era bisogno di fare la gara, abbiamo fatto affidamento diretto»

Per avere altri dettagli sui lavori della presidente del Senato abbiamo dunque contattato la Edili Garbo. La procuratrice speciale Giorgina Garbo ha negato un loro coinvolgimento: «Non mi risulta affatto, non so di cosa sta parlando. Comunque non sono io che mi occupo di cantieristica, arrivederci». Anche Giampietro Garbo, l’ingegnere titolare dell’impresa, non ha voluto dare alcuna precisazione sui lavori: «Si tratta solo di preventivi, nessuno ha incassato niente, non abbiamo ancora iniziato alcun lavoro da nessuna parte». 

Non sappiamo quali sono i criteri con cui la prefettura abbia scelto la Garbo. «Una ditta seria e affidabile», dicono a Padova. Consultando documenti degli uffici antiriciclaggio della Banca d'Italia risulta che Giampietro nel 2009 abbia usufruito dello scudo fiscale varato dall’allora governo Berlusconi. In quegli anni Garbo ha riportato in Italia quasi 5 milioni di euro complessivi, sia dalla Svizzera sia da San Marino.

Per la cronaca, all’epoca la loro concittadina Casellati (che ha come migliore amica e stilista del cuore Rosy Garbo, che ha disegnato anche i vestiti che sta indossando durante le votazioni di questi giorni: su fonti aperte non risultano parentele) era sottosegretario alla Giustizia del governo Berlusconi che promulgò il mega condono per chi aveva tesori all’estero. 

Casellati all’epoca era pure impegnata nella strenua difesa del premier dagli “attacchi” dei pm di Milano e della stampa avversa al premier. Tanto che l’allora deputata disse in tv che il nome di Karima El Mahroug, alias Ruby Rubacuori (spacciata dal Pdl per la nipote dell’ex presidente egiziano) «pare sia venuto fuori in un incontro ufficiale» tra Berlusconi «e Mubarak, che aveva parlato di questa sua nipote».

Se non ci sono illeciti, e se non conosciamo i dettagli dei lavori fatti con i soldi del Viminale per la villa di via Euganea, è possibile però fare dei raffronti, e verificare se medesime cifre siano state investite anche per la sicurezza delle altre alte cariche istituzionali, sia del presente sia del passato. 

Mentre a Roma Mattarella vive nel palazzo del Colle, fonti qualificate del Quirinale spiegano che a Palermo non sono mai stati fatti dalla prefettura competente investimenti per la sicurezza della casa del presidente uscente. «Mattarella vive all’ultimo piano, e qualcuno di noi pensò che fosse doveroso cambiare gli infissi, perché gli affacci sono molto esposti. Ma alla fine non si è fatto nulla: la sicurezza viene garantita da una volante e da un sistema elettronico che costa poche migliaia di euro».

Roberto Fico, tra i leader di un movimento che ha fatto della lotta agli sprechi veri e presunti della casta politica mantra elettorale, durante il mandato da presidente della Camera dice di non aver avuto mai lavori in casa pagati dalla la prefettura di Napoli o dal ministero dell’Interno. «Nei primi anni il presidente ha vissuto in una casa in affitto, poi si è trasferito in un residence. Ma in nessun caso ci è stata proposta una “blindatura” dell’abitazione, né lui l’avrebbe mai chiesta», assicura il suo portavoce. 

Domani ha sentito anche Laura Boldrini, che è stata alla guida di Montecitorio dal 2013 al 2018. Minacciata per un lustro da fanatici e gruppi fascisti sul web, ha ricevuto buste con proiettili. Nel 2017 i giornali di destra la criticarono a tutta pagina inventando la bufala di un «trasloco (e sarebbero comunque stati pochi migliaia di euro, ndr) pagato dagli italiani», ma l’ex presidente chiarisce che, nonostante non abbia mai vissuto a Montecitorio, la sua abitazione a Trastevere a Roma non ha mai subìto lavori di ristrutturazione pagati dallo stato per aumentarne la sicurezza.

«C’era solo un sistema d’allarme elettronico vecchio che hanno migliorato perché vivevo al piano terra a via delle Mantellate, davanti al carcere di Regina Coeli. Lo hanno solo collegato all’ispettorato della Camera. Il costo? Credo sia stato irrilevante» dice. «Nessuna finestra, nessuna telecamera e nessun muro nuovo, nessun intervento per migliorare la casa. Ho sempre avuto una porta sgangherata che si poteva aprire con una spallata e che non è mai stata cambiata. Ma va bene, non c’era bisogno di blindarla, anche perché avevo i miei agenti di scorta come tutte le alte cariche dello stato».

A Domani risulta però che il ministero dell’Interno abbia speso alcune migliaia di euro per la protezione di una casa di campagna nelle Marche, buen retiro di Boldrini e di proprietà (anche) dei suoi fratelli. «Quanto è costato? Ma credo pochissimo: si tratta di una rete, di quelle verdi con l’anima di ferro, che hanno voluto mettere perché non c’era alcun tipo di recinzione tra il mio giardino e la strada» dice Boldrini. «Una volta mi sono trovata nella mia proprietà mentre ero in pigiama delle persone che volevano farsi un selfie, mentre un’altra volta alcuni ragazzini entrarono – a causa di un incidente – con la loro macchinetta dentro il mio terreno. Ma la rete sarà costata poco e nulla, ora ci ho fatto crescere delle siepi davanti perché è davvero orrenda».

Insomma, i 270mila euro spesi per Casellati sembrano un unicum. Abbiamo però contattato anche il portavoce di Pietro Grasso, predecessore di Casellati alla presidente del Senato ed ex procuratore Antimafia.

Alcune fonti avevano infatti raccontato a Domani che anche l’ex presidente Grasso aveva avuto finestre nuove pagate dallo stato. «È falso» dice il portavoce Alessio Pasquini: «Quando fu eletto lui viveva in zona Laurentina, in periferia di Roma, perché aveva rinunciato a vivere a palazzo Giustiniani, come voleva lo spirito anti casta del tempo. L’allora prefetto gli mandò però una lettera, con allegati un preventivo molto alto per la messa in sicurezza della sua abitazione.

Lui rispose che non voleva pesare per centinaia di migliaia di euro sui contribuenti, e così si convinse a spostarsi con tutta la famiglia a palazzo Giustiniani». Grasso però ha pure un’abitazione a Palermo. Abbiamo chiesto se sono stati fatti lavori almeno lì: «C’è solo una garitta costruita anni fa, null’altro», conclude Pasquini. «Tra l’altro gli sembrò opinabile che da procuratore nazionale antimafia minacciato dai clan avesse bisogno di minori protezioni rispetto a quando è diventato capo del Senato» 

A sentire le fonti dirette, solo Elisabetta Casellati avrebbe dunque goduto di un superbonus immobiliare così oneroso destinato alla sua villa. E quanto ci è dato sapere la presidente non è mai stata obiettivo dei clan come Grasso.

Le uniche minacce conosciute verso Casellati sono quelle ricevute un anno fa via social da due uomini: un 62enne di Teramo e un 42enne della provincia di Verona, “leoni da tastiera” disoccupati, con piccoli precedenti alle spalle e non appartenenti a frange estremiste. Fortunatamente sono stati individuati dai carabinieri. Ma difficilmente la coppia sarebbe riuscita a entrare nella villa-bunker che il Viminale ha voluto per la presidente.

I PROBLEMI DELLA PRESIDENTE. Quirinale, Elisabetta Casellati e i passi falsi della donna che aspira alla presidenza. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 26 gennaio 2022.

La presidente nel suo curriculum ha molte situazioni poco chiare: la difesa di Berlusconi su Ruby «nipote di Mubarak», voli di stato mai giustificati, poco opportuni fondi pubblici ai concertisti del figlio Alvise a New York e lo stop alle interrogazioni del Metropol

Mentre la presidente del Senato Elisabetta Casellati prende quota tra i nomi coperti della “rosa” di centrodestra per il Quirinale, ha iniziato a circolare in rete il video di quando a La7 ha difeso strenuamente la versione di Silvio Berlusconi su Ruby “Rubacuori”, il caso da cui sono partite le inchieste per le «cene eleganti» e la presunta prostituzione minorile: per Casellati era credibile che B. la ritenesse la “nipotina” del presidente egiziano Hosni Mubarak e per questo si sarebbe mosso in suo favore.

La presidente, che adesso aspira al Colle, non ha avuto nel suo passato solo quella gaffe, tra voli di stato per tornare a casa mai giustificati, poco opportuni fondi pubblici ai concertisti del figlio Alvise a New York, sono molti i dubbi che accompagnano la sua candidatura.

Anche la sua presunta posizione “super partes” suscita qualche perplessità, visto che nel 2019 ha deciso di non ammettere nessuna delle interrogazioni dei dem che riguardavano l’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini per la trattativa del Metropol di Mosca. Il caso che lei aveva definito un «pettegolezzo giornalistico» ha visto indagato l'ex portavoce di Salvini per corruzione internazionale.

I VOLI DI STATO

La tratta Roma-Venezia è stato il tragitto che la presidente del Senato avrebbe percorso più spesso nei 124 voli di Stato effettuati da maggio del 2020 fino al 21 aprile 2021. Un numero elevato di spostamenti sul Falcon 900 dell'Aeronautica che ha scatenato le richieste  di chiarimento da parte del Movimento 5 Stelle. Non solo. Il Codacons ha presentato un esposto alla Corte dei Conti con l'obiettivo di «accertare il possibile danno sul fronte erariale».  

Il quotidiano La Repubblica ha dettagliato: 97 volte sulla rotta Roma-Venezia (il tragitto casa - lavoro) e 6 volte tra la Capitale e la Sardegna. L’ex pentastellato Alessandro Di Battista ha fatto i calcoli: «C’è  chi sostiene che un'ora di Falcon costi tra i 5000 ed i 7000 euro. Se fosse così i voli blu della Casellati ci sarebbero costati circa 750.000 euro nell'ultimo anno».

La presidente non ha mai voluto rispondere ufficialmente, solo a margine di un evento pubblico ha detto al sindaco di Milano, Beppe Sala, con cui stava camminando: «Tutto per arrivare a lavorare. Non c’erano voli, non c’erano treni, questo nessuno lo dice». Nessun commento su quelli per andare in vacanza in Sardegna. 

I SOLDI AI CANTANTI DEL FIGLIO 

Il 27 luglio 2021 L’Espresso ha rivelato che l’Istituto italiano di cultura di New York, che dipende dal ministero degli Esteri, ha finanziato con 30mila dollari un’iniziativa legata al figlio, il maestro Alvise Casellati e dei suoi cantanti, pagando agli artisti una masterclass in cui i protagonisti del concerto “In onore di Enrico Caruso” si sono esibiti davanti alle telecamere.

L’evento si sarebbe tenuto il 28 giugno a Central Park e la registrazione è del giorno prima. «Le prove generali», obietta il settimanale. L’Istituto italiano di cultura di New York dipende dal ministero degli Esteri e ha ribadito che Caruso è «un’icona di italianità». Casellati non ha mai ritenuto di dover spiegare. 

IL METROPOL

Sul caso del Metropol di Mosca che ha messo in difficoltà il leader della Lega Matteo Salvini, Casellati ha invece utilizzato con tutta evidenza il suo peso istituzionale.

L’Espresso nel 2019 ha portato alla luce la trattativa a cui ha partecipato l’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini, nello storico hotel russo per finanziare la Lega tramite una fornitura di gasolio all'Eni. Oltre all’inchiesta, con foto degli incontri in quei giorni di Savoini, è stato pubblicato anche un audio da BuzzFeed. 

Per Casellati però si trattava solo di chiacchiericcio, e ha bloccato le interrogazioni del Pd che erano state presentate all’indirizzo del ministro dell’Interno, allora lo stesso Salvini, per fare luce sulla vicenda.

L’11 luglio del 2019 ha risposto in Aula ai parlamentari che le chiedevano conto della scelta: «Le mie decisioni sono inappellabili», ha esordito in un’agitata seduta d’assemblea, «io ho risposto egualmente – ha proseguito -, giustificando e dicendo che il Senato non può essere il luogo del dibattito che riguarda pettegolezzi giornalistici». Lo stesso giorno è arrivata la notizia che Savoini era stato indagato dalla procura.

Il Partito democratico e il Movimento 5 stelle, nei colloqui tra le forze politiche, continuano a dire no al suo nome per la presidenza della Repubblica dopo Sergio Mattarella. 

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per la Repubblica il 26 gennaio 2022.

Fuori da ogni retorica e ipocrisia, il bello della corsa per il Quirinale è che riattiva la memoria di eventi così belli, simbolici e a questo punto densi di presagi da sembrare finti, mentre al contrario sono avvenuti sul serio. 

Era il 17 settembre del 2020 quando, lungo la strada che portava a Vo' Euganeo, nel tentativo di superare di gran carriera il mega corteo istituzionale, una delle auto della scorta della presidente del Senato Casellati speronò una vettura della scorta del presidente della Repubblica che precedeva quella su cui viaggiava, in tutta serenità, Sergio Mattarella. 

Seguirono attimi di paura, anche perché nel frattempo, sul lato opposto della carreggiata era sopraggiunta una Panda guidata da un pensionato che, dinanzi al potenziale groviglio di lamiere blindate, si buttò fuori strada per evitare il crash .

Casellati era in ritardo, toccando a lei di accogliere Mattarella. Purtroppo le cronache non fanno riferimento a eventuali sirene quale solenne colonna sonora all'incidente. Il pensionato si salvò. Una volta sul posto, la scorta del Quirinale non fu per nulla amichevole con quella di Palazzo Giustiniani. Ma l'episodio, che sembra tratto da una commedia all'italiana, proietta inesorabili bagliori sull'attuale corsa di Casellati, detta in Senato, con qualche rassegnazione, "Queen Elizabeth". (...)

Che non c'è niente di male, beninteso, ad accogliere riconoscimenti, e neppure a distribuirne a destra e a manca. Però insomma, rispetto a tanti austeri predecessori (non rientra nel novero Pera, che ricevette Totti e Miss Italia), l'impressione è che una maggiore economia premiale, oltre che un uso più sorvegliato degli spazi e degli aerei a disposizione della seconda carica dello Stato, uno dei quali sorpreso in enigmatici andirivieni con la Costa Smeralda, avrebbe forse meglio protetto il Parlamento, già così screditato e malmesso.

Ma Casellati intraprende facile e non solo è salita anche sull'elicottero che nella prima fase del Covid ha voluto sorvolare il Veneto con le reliquie di Sant' Antonio, ma è molto fiera di aver aperto la bomboniera di Palazzo Madama alla cultura, dapprima meritoriamente, arte, dramma antico, teatro, poesia; però poi in aula sono finite per risuonare le note di Trottolino amoroso (tu-tu-tu tà-tà-tà) e la presidente, che è mamma di un direttore d'orchestra, le ha accompagnate oscillando il capo, come da indimenticabile video YouTube; poi è arrivato anche Fausto Leali: Ti lascerò . Ma queste sono pruderie da babbioni che non c'entrano tanto con la voglia che il personaggio mostra di ascendere al Colle.

E qui gli archivi a volte sono bugiardi, ma vi si trova scritto che Salvini aveva già "promesso" il Quirinale a Casellati nell'estate 2019, quand'era accolto sui palchi col Vincerò , prima durante e dopo il Papeete. Se i lapsus hanno un senso, durante la crisi di governo, sbagliandosi per ben due volte nella stessa seduta, lei chiamò lui «presidente » (era ministro). 

Quanto ai Cinque stelle, subito dopo averla votata (in cambio di Fico alla Camera), sempre negli archivi si legge che Gigino Di Maio si avvicinò a Casellati e con occhietto vispo e voce flautata: «Possiamo darci del tu?» (risposta: «Sì, ti prego, sennò mi sento vecchissima»).

Appena eletta, d'altra parte, come prima cosa Casellati si era recata a casa di Berlusconi, che strenuamente aveva difeso nel caso Ruby (di qui l'irresistibile appellativo makkoxiano: "La Zia di Mubarak"), poi con piazzata sotto il tribunale di Milano (lo ricorda nel suo libro Ilda Boccassini) e vestendosi di nero in Senato nel momento in cui il Cavaliere decadde. Per quanto fin troppo abusata, "l'alto profilo" resta un'espressione fin troppo impegnativa. Non sarebbe male, ogni tanto, misurarla sulla realtà - a cominciare da quella delle strade percorse dai cortei presidenziali.

Meriti e sogni. Quando Maria Elisabetta Casellati diceva che Abbado, Piano, Elena Cattaneo e Rubbia non meritassero il seggio di senatore a vita. L'Inkiesta il 26 Gennaio 2022.

Nel 2013 l’attuale presidente del Senato criticò la decisione del Capo dello Stato di dare un posto in Parlamento a quattro italiani di enorme spessore e riconoscimento internazionale. Per lei non avevano «meriti sufficienti»: la sua proposta era Berlusconi.

Oggi per il centrodestra sembra che la figura su cui puntare per il Quirinale sia quella di Maria Elisabetta Casellati. La presidente del Senato era stata volutamente tenuta fuori dall’elenco di candidati che Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Antonio Tajani avevano stilato in un primo momento, un piano b rispetto alla triade Marcello Pera, Letizia Moratti, Carlo Nordio: insomma, Casellati come una riserva di lusso.

«Casellati è candidabile senza che Salvini la proponga», ha detto lo stesso Salvini, confidando di poter trovare diverse decine di voti nel Movimento 5 stelle. Per il centrodestra Casellati è candidabile in quanto già rappresentante di una delle più importanti istituzioni italiane. Ma proprio lei in passato, da senatrice di Forza Italia, aveva provato ad abbattere ogni parametro logico della definizione di «candidabile».

Era il 2013. Mentre il partito di Silvio Berlusconi provava a difendere il suo leader proponendolo come senatore a vita, Casellati – con Lucio Malan – contestava le ultime quattro nomine fatte dall’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: il direttore d’orchestra Claudio Abbado, la ricercatrice Elena Cattaneo, l’architetto Renzo Piano e il premio Nobel per la fisica Carlo Rubbia.

«Pur rispettando il Capo dello Stato e i quattro nominati, dalle carte trasmesse alla Giunta, non sono emersi elementi sufficienti ad identificare gli “altissimi” meriti scientifici della professor Cattaneo né gli “altissimi meriti sociali” attribuiti a tutti e quattro», diceva l’attuale presidente del Senato, chiedendo un rinvio della convalida per l’acquisizione della documentazione necessaria, non considerando “sufficienti” i loro meriti.

Quattro italiani di enorme spessore e riconoscimento internazionale, eppure giudicati non meritevoli. Proprio in quei giorni di fine 2013 Berlusconi era decaduto da senatore, condannato con sentenza definitiva e con una serie di processi in corso e sentenze di primo grado che lo indicavano come colpevole di diversi reati.

Corrado Ocone per "Libero quotidiano" il 27 gennaio 2022.  

Sabino Cassese è sicuramente uno che non le manda a dire. Si può non essere d'accordo con le sue tesi, vi si può leggere a volte una impronta di intellettualismo, ma comunque si deve ammettere la sua onestà intellettuale. Che fa tutt' uno con la sua dottrina e preparazione giuridica, anche se di una giurisprudenza molto poco meridionale (lui che è di Atripalda in provincia di Avellino) e molto comparativistica e anglosassone. La sua mentalità è empiristica: dati, numeri, fatti conosciuti e descritti con precisione, diagnosi e prognosi, ovvero proposte concrete.

"Conoscere per deliberare" potrebbe essere anche il suo motto. E, in effetti, un timbro einaudiano contraddistingue i suoi interventi pubblicistici, di cui per nostra fortuna è molto generoso: come il primo Presidente della nostra Repubblica, egli sa spiegare in modo semplice questioni complesse riducendole agli elementi più semplici, il tutto condito da una sottile vena ironica che i lettori più attenti non tardano a cogliere.

I suoi articoli sono in qualche, sempre come quelli di Luigi Einaudi, delle "Prediche inutili". Il suo pallino fisso è la riforma dello Stato, che per lui significa essenzialmente due cose: svecchiamento della macchina burocratica, con le sue procedure arcaiche e i suoi funzionari che assomigliano un po' ai mandarini cinesi, gelosi del loro potere e capaci di bloccare o stravolgere ogni tipo di legge; necessità di semplificare, ridurre, e rendere semplici nel dettato e nello spirito, quelle migliaia e migliaia di leggi e sottoleggi, commi e codicilli, che assomigliano a una vera e propria "selva oscura" o a un labirinto che sembra studiato apposta per far perdere in esso l'onesto cittadino.

Ultimamente nemmeno la legge di Bilancio del governo Draghi ha superato l'esame della sua lente d'ingrandimento, o del suo "rasoio di Occam": "l'anno è terminato con un fuoco d'artificio finale", ha esordito ironico, e giù ad elencare tutte le contraddizioni e le oscurità linguistiche di quello che non ha esitato a definire un parto mostruoso. 

Cassese ha un forte senso delle istituzioni e una conoscenza non effimera dei meccanismi parlamentari, quella stessa che proprio stamattina l'ha portato a smascherare sui giornali il sofisma o "cattivo ragionamento "che si vorrebbe far passar in questi giorni: e cioè che la maggioranza che elegge il Presidente della Repubblica debba essere per forza di cose la stessa che elegge il presidente del Consiglio.

Durante la manifestazione di Atreju, Cassese si è anche detto favorevole ad una riforma in senso presidenzialistico della nostra Costituzione, che lui ha sempre rispettato ma senza esserne una "vestale". Il che andrebbe in contraddizione con la sua allergia, molto salveminiana, alla retorica patria. Parole molto forti ha anche usato, nel recente passato, contro certe politiche pandemiche, soprattutto del governo Conte: pronte a non bilanciare, come era giusto che fosse, le esigenze di sicurezza con il rispetto delle libertà individuali e della stessa Costituzione. 

Sicuramente Cassese, che fra l'altro è amico di vecchia data di Sergio Mattarella, ricoprirebbe il ruolo di Presidente della Repubblica con autorevolezza e i